plausibile:
ammettere che l’espressione abbia un senso, nella lettura parmenidea, proprio
in relazione alle nozioni di περιέχον, ἄπειρον e ἀρχή, quasi 64 E. Zeller – R.
Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Prima, vol.
II: Ionici e Pitagorici, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia, Firenze 1967,
pp. 652-3. 65 Ivi, p. 653. 66 Su questo Conche, op. cit., pp. 143-4. 468 che
alle concezioni dei pensatori milesi e pitagorici fosse connaturato il
«non-essere». Aristotele è ancora prezioso: διό, καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή,
ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν per
questo diciamo che di esso [riferimento all’ἄπειρον] non c’è principio, ma che
esso stesso sembra essere principio di tutte le cose e tutte comprendere
[abbracciare] e tutte governare (Fisica IV, 4 203 b10-12; DK 12 A15). Marcando
l’origine degli enti nel loro complesso da un ἄπειρον-ἀρχή che è anche περιέχον
(avvolge «tutte le cose»), Anassimandro – così come i pensatori che ne
ereditarono a vario titolo lo schema cosmogonico - ne avrebbe fatto un
“non-ente”, qualcosa di diverso dagli enti di cui sarebbe stato principio. È
chiaro, comunque, che in questa accezione l’ἄπειρον-ἀρχή difficilmente avrebbe
potuto essere inteso propriamente come nulla e appare dubbia la possibilità che
in questo senso Parmenide vi si possa rivolgere polemicamente. Giustizia e le
sue catene A questo punto del suo ragionamento - una volta esclusa la possibilità
di γένεσις sia dal non-essere sia dall’essere e ribadito che «ciò che non è»
non è dicibile e pensabile - la Dea può concludere provvisoriamente (vv.
13-15a): τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄
ἔχει Per questo né nascere né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene,
ma [lo] tiene. 469 L’interesse del rilievo è legato al fatto che Parmenide
sceglie, nel contesto della narrazione avviata con il proemio, all’interno del
discorso che la Dea rivolge al proprio interlocutore, e in particolare di un
passaggio argomentativo, di riconoscere a Dike – e poi a Ananke e Moira - un
ruolo di garanzia: esso si presta a una lettura simbolica, quasi che la
citazione della figura (e della funzione) mitica fosse semplice «metafora»67.
Così intendono molti interpreti, per i quali i tre numi tradizionali, proprio
per il loro intrinseco riferimento al rispetto dei limiti, sottolineerebbero la
«ineluttabile legge dell’Essere» 68: in altre parole, come l’Essere debba
sempre essere identico a se stesso. La questione è, in realtà, più complessa,
sia dal punto di vista della costruzione del poema, sia da quello delle
specifiche implicazioni: (i) Δίκη πολύποινος è elemento strutturale della
narrazione: le sono espressamente attribuite una collocazione liminare e, in
relazione a essa, una (tradizionale) mansione di sorveglianza; (ii) essa,
tuttavia, sin dal proemio, è anche parte dell’azione: persuasa dall’intervento
delle Eliadi, Giustizia vien meno al proprio compito di tutela del mondo infero
e dei confini, consentendo l’accesso a un mortale; (iii) Θέμις e Δίκη sono
espressamente evocate dall'anonima divinità all’esordio del suo discorso: il
viaggio del poeta si compie non sotto l’impulso di Μοῖρα κακὴ, ma sotto l’egida
della Giustizia. Le figure del mito (Dike, Ananke, Moira), insieme allo schema
del «cammino» (ὁδός) - ovvero «pista» (πάτος) o «via» (κέλευθος), costituiscono
la struttura portante nell'architettura dell’opera69, elementi di continuità
nella sua articolazione, le sue condizioni “trascendentali”: il contesto entro
cui le specifiche trattazioni su «ciò che è» e sulla Doxa assumono il proprio
senso e statuto. Certamente le tre figure svolgono la propria mansione di 67
Ivi, p. 146. 68 Tarán, op. cit., p. 117. 69 Un aspetto, questo, registrato da
Couloubaritsis nelle prime edizioni della sua opera e accentuato nell’ultima
edizione, La pensée de Parménide, cit.. 470 garanzia “trascendendo” «ciò che è»
(ἐόν), ovvero danno l’impressione, nelle parole della Dea, di sovrintendere
(problematicamente) all’Essere dall’esterno70, a dispetto della sua
assolutezza. In questa prospettiva, Dike, in particolare, assume nel poema una
posizione peculiare: essa protegge τὸ ἐόν da γένεσις e ὄλεθρος avvolgendolo e
trattenendolo in catene, in altri termini preservandone il perfetto equilibrio
attraverso l’esclusione della coppia oppositiva nascita-morte71. Se nel proemio
il suo ruolo era stato, secondo costume, quello di consegna al portale discriminante
del mondo infero, di salvaguardia dei confini tra mondo della vita e mondo
della morte, nel nostro passo tale connotazione si modifica nel senso che la
garanzia passa per la discriminazione tra essere e non-essere, con conseguente
immobilizzazione e omogeneizzazione dell’essere stesso: oltre l’essere non si
dà un mondo altro. Possiamo solo registrare alcune espressioni indicative: οὔτε
γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει né nascere né
morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (B8.13-15a)
κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del
laccio [lo] tiene (B8.30-31) Μοῖρ΄ ἐπέδησεν Moira [lo] ha costretto... (B8.37).
La Robbiano ha accostato, su questo punto, la posizione di Parmenide a quella
di Anassimandro, per cui, come sappiamo, l’ἄπειρον «circonda e governa» ogni
cosa: Parmenide, reagendo 70 Robbiano, op. cit., pp. 166-7. 71 Ivi, pp. 174-5.
471 forse a questa soluzione e all’idea pitagorica di confine cosmico, avrebbe
introdotto il riferimento a un limite estremo della realtà, sorvegliato da
figure di garanzia. A dispetto delle differenze, entrambi gli autori avrebbero
inteso marcare immutabilità ed equilibrio dell’universo, che nulla può giungere
a turbare dall’esterno. Mentre l’ἄπειρον, tuttavia, appare come
ipostatizzazione della causa dell’equilibrio, Dike, Ananke e Moira, pur
sovrintendendo all’Essere dall’esterno (come l’ἄπειρον), non hanno consistenza
ontologica, ma solo l’ufficio di orientare, guidare la comprensione
dell’audience cui il poema si rivolgeva72. In realtà, il recupero del mito nel
contesto, con la sua “eccedenza” rispetto al dato argomentativo, e la
conseguente (apparente) «messa in questione» dell’assolutezza dell’essere,
potrebbe segnalare, come vuole Couloubaritsis73, la difficoltà di Parmenide a
giustificare argomentativamente uno stato limite o ultimo: nell’argomentazione
sviluppata, infatti, nulla autorizzerebbe a ricavare non-miticamente la
limitazione dell’essere. Il mito, attraverso l’uso che ne fa la dea,
supplirebbe a questa mancanza, rivelando che il logos non ha autonomia
assoluta: utilizzate per significare l’essere come se lo trascendessero, le
figure delle tre divinità tradizionali acquisirebbero così uno statuto
trascendentale e sarebbero il segno di un'integrazione, all’interno del poema,
tra discorso significante e discorso mitico74. Giudizio ed essere D’altra
parte, che la tutela di Giustizia sia essenzialmente logica si mostra nei vv.
15b-18: ἡ δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν· ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν· κέκριται δ΄ οὖν, ὥσπερ
ἀνάγκη, τὴν μὲν ἐᾶν ἀνόητον ἀνώνυμον - οὐ γὰρ ἀληθής 72 Ivi, pp. 166-8. 73
Mythe et philosophie…, cit., p. 217. 74 Ivi, p. 250. 472 ἔστιν ὁδός - τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι Il giudizio in proposito dipende da ciò: è o non è.
Si è dunque deciso, secondo necessità, di lasciare l’una [via] impensabile [e]
inesprimibile (poiché non è una via genuina), e che l’altra invece esista e sia
reale. Il linguaggio e le immagini insistite - «sciogliendo le catene»
(χαλάσασα πέδῃσιν v. 14), «nei vincoli di grandi catene» (μεγάλων ἐν πείρασι
δεσμῶν v. 26), «nelle catene del vincolo [lo] tiene» (πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει
v. 31) – puntano, da un lato, direttamente alla pratica razionale della
decisione giudiziaria, dall’altro alla conseguente restrizione di libertà: il
vincolo che Giustizia impone non è arbitrario; la condizione che essa prescrive
è logicamente incontrovertibile, donde la formula «secondo necessità» (ὥσπερ ἀνάγκη).
Come abbiamo sopra ricordato, il passaggio evoca sinteticamente le ragioni
della scelta dell’ἔστιν: (i) ripresa dell’alternativa tra le formule
contraddittorie ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν; (ii) esclusione della via οὐκ ἔστιν: in
quanto «non genuina» (οὐ ἀληθής), essa è anche ἀνόητον ἀνώνυμον; (iii)
conseguente concentrazione su ἔστιν: «che l’altra esista e sia reale» (τὴν δ΄ ὥστε
πέλειν καὶ ἐτήτυμον εἶναι). Sulla scorta di premesse individuabili negli esordi
della sua comunicazione (B2), e di cui era stato opportunamente segnalato il
rilievo, la Dea può ribadire l’impraticabilità del non-essere e delle nozioni
che in qualche misura lo implichino, come appunto γενέσθαι e ὄλλυσθαι. Con una
precisazione interessante: delineata come alternativa tra formule
contraddittorie, ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, in verità la krisis di B2 è tale solo
apparentemente, dal momento che - la Dea deve riconoscere - la via οὐκ ἔστιν
non è «genuina», è via solo in teoria, in quanto costruita sulla contraddizione
con l’unica realtà: ἔστιν. È da escludere, dunque, che la stessa divinità possa
in qualche misura servirsene, per esempio nella seconda sezione del poema, come
qualche interprete vorrebbe. 473 Essere e tempo I versi che seguono (vv. 19-21)
e concludono la prima sezione argomentativa del frammento sono ancora di
controversa interpretazione: πῶς δ΄ ἂν ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε
γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι. τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se nacque, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Così è estinta nascita e morte oscura. Che la dimensione temporale
sia centrale è chiaro nell’uso dei tempi verbali e degli avverbi, così come è
esplicita la connessione tra temporalità e γένεσις-ὄλεθρος. Il testo e la sua
resa presentano difficoltà, di cui abbiamo dato notizia in nota. A un primo
livello di lettura, appare evidente come Parmenide giochi sulla
contrapposizione tra forme del verbo «essere» (εἶναι: ἔστι, ἔσεσθαι, τὸ ἐόν, ma
anche πέλοι) e forme di «venire a essere» (γίγνεσθαι: γένοιτο, ἔγεντo,
γένεσις). La convinzione da veicolare con tale costruzione verbale è che se
l’essere (τὸ ἐόν) è coinvolto in processi («nacque» ovvero «dovrà essere [in
seguito]»), e dunque diviene, esso propriamente «non è» (ovvero non è sempre
allo stesso modo75), così contraddicendo l’immediata evidenza della «via: è» -
che comportava l’altrettanto immediata ammissione: «non è possibile non essere»
(ἔστι καὶ οὐκ ἔστι μὴ εἶναι). Ciò che è propriamente (τὸ ἐόν) è sempre uguale a
se stesso, come suggerisce l’uso (durativo) di ἔστι; ciò che diviene (γένεσις
può valere genericamente come «venire a essere»), come tale, è instabile, è e
non-è (non è più o non è ancora). Già a livello verbale, dunque, Parmenide
intende rilevare la reciproca incompatibilità delle condizioni designate dai
due verbi. 75 Leszl, op. cit., p. 190. 474 Se τὸ ἐόν è venuto a essere, è ora
diverso da come fu; se verrà a essere in seguito, ora è diverso da ciò che
sarà76: il mutamento che implichiamo nelle espressioni temporali è
inconciliabile con la natura dell’Essere (ingenerato e immortale).
Interpretando, potremmo affermare, con Conche77, che quel che vale per la
temporalità degli enti della nostra esperienza irriflessa non vale per l’essere
di cui la Dea traccia i contorni: l’essere è «ora», nel senso che è sempre
uguale a se stesso. In alternativa, in vece della polarità passato-presente
ovvero «venire a essere»-«essere» (εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι), è possibile
valorizzare l'implicazione tra «venire a essere» e «non-essere»: ogni venire
all'esistenza, in effetti, presuppone sempre - indipendentemente dalla
prospettiva temporale (passato remoto o futuro prossimo: εἰ ἔγεντo - εἴ ποτε
μέλλει ἔσεσθαι) - una non-esistenza (οὐκ ἔστι). In ogni caso, appare a questo
punto evidente il nesso dell’argomento nel suo complesso con i vv. 5-6: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές né un tempo era né [un
tempo] sarà, poiché è ora tutto insieme, uno, continuo. Negare il passaggio da
non-essere a essere e viceversa – come nei vv. 6-18 – ovvero l’eventualità di
un mutamento dell’essere nel tempo, significa riconoscere che «in ogni momento
l’essere c’è tutto o non c’è per nulla»78 (ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
v. 11), e dunque collegare il ragionamento che porta a escludere γένεσις e ὄλεθρος
al rilievo dell’identità di ciò che è con se stesso e alla problematica
caratterizzazione di ἐόν rispetto alla temporalità che ritroviamo nei vv. 5-6.
Interessante la ripresa del nesso in Melisso: 76 Tarán, op. cit., p. 105. 77
Op. cit., p. 148 78 Leszl, op. cit., p. 186. 475 ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται.
εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ
ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός Sempre era ciò che era [qualsiasi cosa era] e
sempre sarà. Se, infatti, fosse nato, è necessario che, prima di nascere, non
fosse nulla; ora, se non era nulla, in nessun modo nulla potrebbe nascere dal
nulla (DK 30 B1) […] εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι
τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον
γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι [...] se diventa altro, infatti, è
necessario che l’essere non sia uguale, ma che si distrugga ciò che era prima e
si generi ciò che non è. Se allora si alterasse di un solo capello in diecimila
anni, si distruggerebbe tutto quanto per tutto il tempo (DK 30 B7, §2) La stessa
preoccupazione, di marcare l’indifferenza dell’essere rispetto al tempo,
negare, in altre parole, la possibilità che il tempo possa comportare una
differenza per l’essere, è espressa chiaramente in termini più lineari e
immediati, sottolineando soprattutto la durevole identità temporale
dell’essere. In questo senso, la sintetica connotazione melissiana di τὸ ἐὸν -
«è eterno, infinito, uno, tutto uguale» (ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον
πᾶν, DK 30 B7, §1) - interpreterebbe la formula parmenidea «è ora tutto
insieme, uno, continuo» (νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές), in cui è necessario
considerare l’avverbio unitamente agli attributi, per intendere correttamente
il primo emistichio del v. 5: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται. Ciò che la Dea sembra
negare è la possibilità di pensare coerentemente: τὸ ἐόν «[in] un tempo
[passato] era» ovvero «[in] un tempo [a venire] sarà». Accettando la nostra
traduzione, espressioni verbali come «era» e «sarà» sono rifiutate in quanto
modificate dall’avverbio ποτε («un tempo, una volta»). Il verso manifesterebbe
allora il proprio senso nella contrapposizione tra tempi 476 verbali e forme
avverbiali temporali: da un lato «né un tempo era» (οὐδέ ποτ΄ ἦν) e «né [un
tempo] sarà» (οὐδ΄ ἔσται), dall’altro «è ora» (νῦν ἔστιν). Le due proposizioni
coordinate sono a loro volta subordinate da un nesso causale - «poiché» (ἐπεὶ)
– alla terza («è ora tutto insieme, uno, continuo»): in altre parole è il
rilievo della completezza, omogeneità e integrità (ὁμοῦ πᾶν, ἕν, συνεχές) di
«ciò che è» a escludere qualsiasi forma di discontinuità e dunque di autentica
discriminazione temporale. Questa costruzione si rifletterebbe anche
nell’argomento complessivo dei vv. 6-21: la Dea dapprima si concentra
sull’eventualità che «ciò che è» sia divenuto (nato e cresciuto), quindi (v.
19) considera interrogativamente che τὸ ἐόν possa esistere in futuro: πῶς δ΄ ἂν
ἔπειτα πέλοι τὸ ἐόν; πῶς δ΄ ἄν κε γένοιτο; εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ
ποτε μέλλει ἔσεσθαι E come potrebbe esistere in futuro l’essere? E come
potrebbe essere nato? Se è nato, infatti, non è, e neppure [è] se dovrà essere
in futuro. Se riscontriamo i vv. 5 e 20: οὐδέ ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν
ὁμοῦ πᾶν εἰ γὰρ ἔγεντ΄, οὐκ ἔστι, οὐδ΄ εἴ ποτε μέλλει ἔσεσθαι possiamo notare
come la Dea insista a marcare l'incompatibilità tra esistenza passata e\o
esistenza futura (che implicano οὐκ ἔστι) e quella condizione presente (νῦν)
che si esprime nell’«è»79 e ne riflette il valore «stativo»80. 79 Ma come
insegna Palmer, ἔστιν è forma riassuntiva di ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι;
o, come preferiamo, ἔστιν esprime immediatamente l’evidenza, di cui οὐκ ἔστι μὴ
εἶναι è contestuale inferenza. 80 R. Di Giuseppe, Le Voyage de Parménide, cit.,
p. 94. Sulla questione lo studioso italiano richiama i numerosi lavori di Kahn,
ora riuniti in Ch.H. Kahn, Essays on Being, O.U.P, Oxford 2009. 477 Isolando (e
assolutizzando) le espressioni verbali (ἦν, ἔσται, ἔστιν, ἔγεντο, μέλλει ἔσεσθαι),
si è avvertito in queste battute il delinearsi di un punto di vista ardito:
l’idea dell’eternità come atemporalità, totale estraneità dell’essere al tempo.
Valorizzando, invece, le funzioni avverbiali (ποτε, νῦν), è forse più prudente
limitarsi a segnalare come – pur sempre all’interno di una prospettiva
temporale (che privilegia il presente) – la Dea rifiuti di riconoscere, in
relazione a τὸ ἐόν, la validità (sensatezza) del riferimento alle dimensioni
temporali del passato e del futuro. L’impressione che Parmenide insista sul
presente per sottolineare l'identità dell’essere è rafforzata dalla
reiterazione di formule di persistenza (e stabilità) già ricordate: τοῦ εἵνεκεν
οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει· né nascere
né morire concesse Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13-15a)
κρατερὴ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει Necessità potente nelle catene del
laccio [lo] tiene (vv. 30-31), cui possiamo aggiungere quella che è forse la
formulazione più pregnante: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως
ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se stesso
riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30), dove la costruzione
verbale (μένον, κεῖται, μένει) e avverbiale (ἔμπεδον ma anche le espressioni ἐν
ταὐτῷ, καθ΄ ἑαυτό) segnala nuovamente la preoccupazione di fondo dell’autore
circa identità 478 e immutabilità di «ciò che è», e sua estraneità a processi
che possano contraddirle. Al v. 21 si conclude il lungo argomento, con
l’esplicita esclusione dei due indicatori fondamentali del divenire (e, per
quel che abbiamo potuto notare, della temporalità): τὼς γένεσις μὲν ἀπέσϐεσται
καὶ ἄπυστος ὄλεθρος Così è estinta nascita e morte oscura. In entrambi i casi,
l’accettazione di un «venire a essere» ovvero di una «distruzione» dell’essere
comporterebbe l’implicita ammissione di ciò che non è, il riferimento a un
impraticabile passaggio dal o verso il nulla. Comunque sia tradotto il verso
(si vedano le annotazioni al testo), sulla scorta delle argomentazioni
precedenti, Parmenide chiude la propria esposizione relativamente a un punto
essenziale nel quadro della cultura contemporanea: ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν
ἐστιν che senza nascita è ciò che è e senza morte (v. 3). L’estinzione dei
processi veicolati dai termini γένεσις e ὄλεθρος passa attraverso (i) la
decisione tra «è» e «non-è», (ii) l’inaccettabilità della loro commistione,
(iii) il riconoscimento che il nulla è inindagabile: donde forse la
caratterizzazione della morte (distruzione) come ἄπυστος, «inaudita»,
«inconcepibile». Omogeneo e continuo I vv. 22-25 costituiscono un nuovo blocco
a giustificazione dei σήματα: οὖλον (intero), μουνογενές (uniforme), ὁμοῦ πᾶν
(tutto insieme), συνεχές (continuo): οὐδὲ διαιρετόν ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον·
οὐδέ τι τῇ μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον, πᾶν δ΄ ἔμπλεόν
ἐστιν ἐόντος. τῷ ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν· ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει. 479 Né è divisibile,
poiché è tutto omogeneo; né c’è qui qualcosa di più che possa impedirgli di
essere continuo, né [lì] qualcosa di meno, ma è tutto pieno di ciò che è. È
perciò tutto continuo: ciò che è si stringe infatti a ciò che è. Impermeabile
al non-essere, «ciò che è» non può che essere «omogeneo» (πᾶν ὁμοῖον
letteralmente «tutto uguale»), «pieno» (ἔμπλεόν), «continuo» (ξυνεχὲς): in
altre parole, è «tutto» (πᾶν, termine ripetuto tre volte in quattro versi)
identico a se stesso (uniforme). In questo senso, esiste indubbiamente, tra
questo gruppo di σήματα, il precedente e i successivi, la forte connessione
garantita dai versi sopra citati: ταὐτόν τ΄ ἐν ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται
χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει Identico e nell’identica condizione perdurando, in se
stesso riposa, e, così, stabilmente dove è persiste (vv. 29-30).
L’indivisibilità, l’irriducibilità dell’essere seguono alla sua omogeneità,
alla sua densità, in ultima analisi al bando della via «non è»: nulla può
inframezzarsi a «ciò che è». In poche battute la Dea sottolinea coerentemente
tale omogeneità con una serie di espressioni: (i) «non c’è alunché che possa
impedirgli di essere continuo»; (ii) «è tutto pieno di ciò che è»; (iii) «è
tutto continuo»; (iv) «ciò che è si stringe a ciò che è». Ora, è chiaro che
centrale risulta la (ii): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος; una affermazione che
sembra ricavata direttamente dalla enunciazione della tesi di fondo di B2 (ἔστιν
τε καὶ [...] οὐκ ἔστι μὴ εἶναι), esplicitata in B6.1-2a: χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν
τ΄ ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι, μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν. Dal riconoscimento
dell’identità dell’essere con se stesso (ἐὸν ἔμμεναι· ἔστι γὰρ εἶναι), e dal
contestuale bando del nulla (μηδὲν δ΄ οὐκ ἔστιν), seguono sia che «tutto pieno
è di ciò che è», sia che nulla «possa impedirgli di essere continuo», e,
ulteriormente, le due caratterizzazioni equivalenti del verso finale del passo:
«è tutto continuo» e «ciò che è si stringe a ciò che è». Tutto intero, uniforme
Parmenide suggerisce compattezza, coesione e identità, in forza di scelte
espressive che escludono la possibilità di distinzione, riduzione, separazione:
πᾶν ὁμοῖον, συνέχεσθαι, ἔμπλεόν, ξυνεχὲς πᾶν, πελάζει. Le implicazioni
materiali e psicologiche della pienezza e dei vincoli evocati sono state messe
in valore nell’analisi di Mourelatos81, il quale ha marcato la presenza sullo
sfondo di due elementi: (i) la semplicità inqualificata di ciò-che-è; (ii) la
negazione di dualismi. Questo consente di collegare il passo in questione con
l’iniziale rilievo (v. 4) dell’espressione «tutto intero, uniforme» (οὖλον
μουνογενές), che, sempre secondo Mourelatos82, anticiperebbe l’argomento a
sostegno dell'indivisibilità, anche grazie all’amplificazione di B8.5b-6a: ὁμοῦ
πᾶν, ἕν, συνεχές. Come abbiamo segnalato in nota al testo, per il significato
della formula μουνογενές lo studioso richiama un importante precedente esiodeo,
che Parmenide avrebbe avuto ben presente e in opposizione al quale avrebbe
coniato la propria espressione: Οὐκ ἄρα μοῦνον ἔην Ἐρίδων γένος, ἀλλ’ ἐπὶ γαῖαν
εἰσὶ δύω· τὴν μέν κεν ἐπαινήσειε νοήσας, ἣ δ’ ἐπιμωμητή· διὰ δ’ ἄνδιχα θυμὸν ἔχουσιν
Non vi era dunque un solo genere di Eris [Contesa], ma sulla terra ce ne sono
due: l’una potrebbe onorare chi la comprenda; 81 Op. cit., pp. 111-2. 82 Ivi,
p. 95. 481 l’altra è da riprovare; hanno animo diverso e opposto (Le opere e i
giorni 11-13). Il segnavia μουνογενές indicherebbe dunque un'identità di
genere, di natura, un’uniformità tale da escludere qualsiasi forma di
potenziale discriminazione all’interno dell’essere: in questo senso sarebbe
impiegato – nel nostro frammento – in antitesi alla dicotomia che il filosofo
pone al fondo delle «opinioni mortali» (δόξας βροτείας v. 51), costruite
intorno a una coppia di «forme» (μορφὰς δύο v. 53) distinte oppositivamente (τἀντία
δ΄ ἐκρίναντο v. 55), e reciprocamente separate (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
vv. 55b-56a). Accettando la lettura di Mourelatos, risulta ancora più evidente
il ruolo decisivo della κρίσις richiamata al v. 16: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν. È sulla
scorta di essa, infatti, che la Dea può marcare l’inesorabile “uni-genericità”
(o meglio uniformità) di «ciò che è», escluderne differenziazioni, proporlo
come un blocco compatto nell’essere. Concentrandosi su ἔστιν ed escludendo οὐκ ἔστιν,
è possibile affermare (di τὸ ἐόν): πᾶν ἐστιν ὁμοῖον. Una piena applicazione
della formula della prima via di B2.3: ἡ μὲν ὅπως ἔστιν τε καὶ ὡς οὐκ ἔστι μὴ εἶναι.
È possibile che l’insistenza su coesione e omogeneità dell’essere riveli ancora
un'intenzione polemica nei confronti del modello cosmogonico ionico: come
abbiamo già avuto modo di ricordare, le testimonianze su Anassimandro e
Anassimene supportano uno schema di base, per cui l’origine del processo di
formazione del mondo coinciderebbe con un atto di separazione da uno stato
primitivo di indifferenziazione: φησὶ δὲ τὸ ἐκ τοῦ ἀιδίου γόνιμον θερμοῦ τε καὶ
ψυχροῦ κατὰ τὴν γένεσιν τοῦδε τοῦ κόσμου ἀποκριθῆναι [Anassimandro] sostiene
che ciò che, derivato dall’eterno, è produttivo di caldo e freddo fu separato
alla 482 generazione di questo mondo (Pseudo-Plutarco; DK 12 A10) Ἀ. δὲ Εὐρυστράτου
Μιλήσιος, ἑταῖρος γεγονὼς Ἀναξιμάνδρου, μίαν μὲν καὶ αὐτὸς τὴν ὑποκειμένην
φύσιν καὶ ἄπειρόν φησιν ὥσπερ ἐκεῖνος, οὐκ ἀόριστον δὲ ὥσπερ ἐκεῖνος, ἀλλὰ ὡρισμένην,
ἀέρα λέγων αὐτήν· διαφέρειν δὲ μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας. καὶ ἀραιούμενον
μὲν πῦρ γίνεσθαι, πυκνούμενον δὲ ἄνεμον, εἶτα νέφος, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, εἶτα γῆν,
εἶτα λίθους, τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων. κίνησιν δὲ καὶ οὗτος ἀίδιον ποιεῖ, δι’ ἣν καὶ
τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, discepolo di
Anassimandro, afferma, come quello, che unica e infinita è la natura
soggiacente, non indefinita, tuttavia - come sosteneva quello - ma determinata,
chiamandola aria. Afferma inoltre che essa si differenzia nelle sostanze per
rarefazione e condensazione. Rarefacendosi, infatti, diventa fuoco,
condensandosi invece vento, poi nuvola, e quando più condensato acqua, poi
terra, poi pietre. Tutto il resto deriva da queste cose. Anch’egli pone eterno
il movimento per cui si produce il mutamento. (Simplicio; DK 13 A5). Ἀ. δὲ καὶ
αὐτὸς ὢν Μιλήσιος, υἱὸς δ’ Εὐρυστράτου, ἀέρα ἄπειρον ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι, ἐξ οὗ
τὰ γινόμενα καὶ τὰ γεγονότα καὶ τὰ ἐσόμενα καὶ θεοὺς καὶ θεῖα γίνεσθαι, τὰ δὲ
λοιπὰ ἐκ τῶν τούτου ἀπογόνων. (2) τὸ δὲ εἶδος τοῦ ἀέρος τοιοῦτον· ὅταν μὲν ὁμαλώτατος
ἦι, ὄψει ἄδηλον, δηλοῦσθαι δὲ τῶι ψυχρῶι καὶ τῶι θερμῶι καὶ τῶι νοτερῶι καὶ τῶι
κινουμένωι. κινεῖσθαι δὲ ἀεί· οὐ γὰρ μεταβάλλειν ὅσα μεταβάλλει, εἰ μὴ κινοῖτο.
(3) πυκνούμενον γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι· ὅταν γὰρ εἰς τὸ ἀραιότερον
διαχυθῆι, πῦρ γίνεσθαι, ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον, ἐξ ἀέρος <
δὲ > νέφος ἀποτελεῖσθαι κατὰ τὴν πίλησιν, ἔτι δὲ μᾶλλον ὕδωρ, ἐπὶ πλεῖον
πυκνωθέντα γῆν καὶ εἰς τὸ 483 μάλιστα πυκνότατον λίθους. ὥστε τὰ κυριώτατα τῆς
γενέσεως ἐναντία εἶναι, θερμόν τε καὶ ψυχρόν [...] Anassimene, anche lui
milesio, figlio di Euristrato, disse che il principio è aria infinita, da cui
si generano le cose che nascono e le cose che sono nate e quelle che nasceranno
e gli dei e le cose divine, mentre le altre cose derivano da quanto è da essa
prodotto. (2) L’aspetto dell’aria è questo: quando è del tutto uniforme, essa
risulta invisibile; si mostra invece con il freddo e il caldo e l’umidità e il
movimento. Si muove sempre: le cose che mutano, infatti, non muterebbero, se
essa non si muovesse. (3) Quando è condensata e rarefatta, infatti, appare in
modo diverso: quando si dirada fino a essere molto rarefatta, diventa fuoco;
mentre i venti, a loro volta, sono aria condensata; dall’aria poi, per
compressione, si formano le nuvole, e, crescendo ancora la condensazione,
l’acqua, e, crescendo di più, la terra, e, crescendo al massimo, le pietre.
Così gli elementi fondamentali della generazione sono contrari, il caldo e il
freddo (Ippolito; DK 13 A7). La fonte comune di Pseudo-Plutarco, Simplicio e
Ippolito è Teofrasto, un teste affidabile: ricorrente - a dispetto della
convinzione che di tutto unica sia la scaturigine in una φύσις ἄπειρος - è
l’idea che: (i) fondamentale per la cosmogonia sia l’azione dei contrari
(Ippolito lo afferma chiaramente: τὰ κυριώτατα τῆς γενέσεως ἐναντία): essa si
dispiega, in Anassimandro, a partire da «ciò che è produttivo di», ovvero «ciò
che può generare» (γόνιμον) caldo e freddo, ovvero, in Anassimene, dai processi
di rarefazione e condensazione; (ii) la separazione del principio generativo degli
opposti (γόνιμον), nel primo caso, ovvero la doppia azione esercitata sull’aria,
nel secondo, sarebbero a loro volta effetto di un «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος)
nella φύσις ἄπειρος, da Simplicio riconosciuto (per entrambi) come causa
diretta del «mutamento» (μεταβολή). Il lessico peripatetico delle testimonianze
fa intravedere la possibile sovrapposizione di due schemi esplicativi, che
potrebbero ambiguamente essere stati compresenti nelle cosmologie (e
cosmogonie) ioniche. Il primo – delineato dalle affermazioni di Simplicio su
Anassimene secondo cui la «natura soggiacente» (ὑποκειμένη φύσις) «si
differenzia nelle sostanze per rarefazione e condensazione» (διαφέρειν δὲ
μανότητι καὶ πυκνότητι κατὰ τὰς οὐσίας), e confermato da qualche passaggio di
Ippolito («condensata e rarefatta, infatti, appare in modo diverso» πυκνούμενον
γὰρ καὶ ἀραιούμενον διάφορον φαίνεσθαι; ovvero «i venti, a loro volta, sono
aria condensata» ἀνέμους δὲ πάλιν εἶναι ἀέρα πυκνούμενον) – è quello che
prevale in Aristotele (e che è possibile ritrovare esplicitato in Diogene di
Apollonia): la materia originaria ed eterna subisce alterazioni a causa del suo
interno moto incessante, presentandosi così in varie forme fenomeniche. In
questo schema le «sostanze» della lista proposta83 (fuoco, venti, nuvole,
acqua, terra, pietre) non sarebbero realtà indipendenti, ma semplici stadi di
passaggio nel ciclo di trasformazione dell’unico principio materiale.
Conseguentemente, in questa prospettiva “monistica”, tutte le cose si
ridurrebbero ad aria84. Il secondo è espressamente sottolineato da Simplicio in
Anassimandro (citato in precedenza): [...] οὗτος δὲ οὐκ ἀλλοιουμένου τοῦ
στοιχείου τὴν γένεσιν ποιεῖ, ἀλλ’ ἀποκρινομένων τῶν ἐναντίων διὰ τῆς ἀιδίου
κινήσεως [...] Egli poi non fa discendere la generazione dall'alterazione
dell’elemento, ma dalla separazione dei contrari, a causa del movimento eterno
(DK 12 A9), 83 Che ha l’aria di essere citazione dall’originale teofrasteo: in
questo caso non ritroveremmo una semplice parafrasi, con la proiezione della
dottrina peripatetica dei 4 elementi, ma forse il riferimento a un elenco
effettivamente anassimeneo. Su questo punto Kahn, Anaximander and the Origins
of Greek Science cit., pp. 149-150. 84 Secondo un paradigma riduttivo già
presente nel mito greco di Proteo, come segnala Kahn, op. cit., p. 151. 485 ma
rilevabile anche nelle testimonianze su Anassimene, dove si marca la
generazione di tutte le altre cose da un nucleo di «sostanze» (fuoco, vento,
nuvola, acqua, terra, pietre). Secondo questo schema (pluralistico, con
probabile eco del politeismo teogonico esiodeo), dal principio materiale (ἀέρα ἄπειρον
ἔφη τὴν ἀρχὴν εἶναι) si sarebbero generate, come effetto di compressione e
rarefazione, alcune realtà elementari indipendenti (le «sostanze» elencate), da
cui risulterebbero tutte le altre cose. Una possibile, analoga oscillazione tra
i due schemi si lascia cogliere anche nel contemporaneo Eraclito: κόσμον τόνδε,
τὸν αὐτὸν ἁπάντων, οὔτε τις θεῶν οὔτε ἀνθρώπων ἐποίησεν, ἀλλ’ ἦν ἀεὶ καὶ ἔστιν
καὶ ἔσται πῦρ ἀείζωον, ἁπτόμενον μέτρα καὶ ἀποσβεννύμενον μέτρα Questo mondo
ordinato, lo stesso per tutti, nessuno degli dei o degli uomini produsse, ma fu
sempre, è e sarà fuoco sempre vivo, che si accende secondo misura e si estingue
secondo misura (Clemente Alessandrino; DK 22 B30) πυρός τε ἀνταμοιβὴ τὰ πάντα
καὶ πῦρ ἁπάντων ὅκωσπερ χρυσοῦ χρήματα καὶ χρημάτων χρυσός Tutte le cose sono
scambio con fuoco e il fuoco scambio con tutte le cose, come i beni sono
scambio con oro e l’oro scambio con beni (Plutarco; DK 22 B90) ψυχῆισιν θάνατος
ὕδωρ γενέσθαι, ὕδατι δὲ θάνατος γῆν γενέσθαι, ἐκ γῆς δὲ ὕδωρ γίνεται, ἐξ ὕδατος
δὲ ψυχή per le anime è morte diventare acqua, per l’acqua, invece, è morte
diventare terra, ma dalla terra si genera l’acqua, dall’acqua a sua volta [si
genera] l’anima (Clemente Alessandrino; DK 22 B36) ζῆι πῦρ τὸν γῆς θάνατον καὶ ἀὴρ
ζῆι τὸν πυρὸς θάνατον, ὕδωρ ζῆι τὸν ἀέρος θάνατον, γῆ τὸν ὕδατος 486 Il fuoco
vive la morte della terra e l’aria vive la morte del fuoco, l’acqua vive la
morte dell’aria, la terra la morte dell’acqua (Massimo di Tiro; DK 22 B76). Da
un lato, soprattutto i primi due frammenti suscitano l’impressione che Eraclito
riduca ogni cosa a fuoco, la natura originaria che si cela dietro ogni
trasformazione; dall’altro il lessico (γενέσθαι, γίνεται, ζῆι, θάνατος) di B36
e B76 suggerisce l’idea di un ciclo di produzione di elementi, che scaturiscono
gli uni dagli altri, senza una reale identità di base85. I limiti di
documentazione (anche nel caso dei frammenti eraclitei) e il lessico e
l’impostazione peripatetici delle testimonianze non consentono di stabilire con
certezza quale schema fosse effettivamente operante negli autori ionici: in
ogni modo è chiaro che, rispetto all’impegno argomentativo di Parmenide, essi
potrebbero far sentire la loro presenza da due punti di vista. Intanto, come in
precedenza segnalato, nell’insistenza parmenidea sul nesso γένεσις- ὄλεθρος e
nell’eco biologica di molti termini ed espressioni ricorrenti nel poema
(γενέσθαι, ὄλλυσθαι, γένναν, αὐξηθέν, ἀρξάμενον, φῦν), che potrebbero evocare
la centralità della dimensione generativa decisiva nel secondo modello. Un
lessico “biologico” è attribuito chiaramente, nelle testimonianze, in
particolare ad Anassimandro, come rivelano l’uso del termine γόνιμον per
indicare il nucleo originario dei processi reattivi che conducono alla
formazione di un mondo (una sorta di base seminale del mondo stesso), e la
scelta di un verbo - ἀποκριθῆναι (da ἀποκρίνεσθαι) – che evoca attività di
secrezione. L’ἄπειρον stesso sarebbe stato proposto, allora, come fertile,
feconda matrice, una sorta di “genitore” (in senso letterale), cui imputare in
ultima analisi l’origine. In secondo luogo è evidente, nel poema, la
riflessione sulle implicazioni “ontologiche” dei due possibili paradigmi
esplicativi che possiamo cogliere nello schema attribuito dalle testimonianze
ad Anassimene: (i) esiste una «natura soggiacente» (ὑποκειμένη 85 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., pp. 124 ss.. 487 φύσις), «unica e infinita» (μία ἄπειρος),
dalla quale, (ii) a causa di «movimento eterno» (κίνησις ἀίδιος), (iii) si
produce «il mutamento» (τὴν μεταβολὴν γίνεσθαι), consistente nel (iv) suo
differenziarsi «in sostanze» (διαφέρειν κατὰ τὰς οὐσίας), (v) «da cui»
discenderebbero «tutte le altre cose» (τὰ δὲ ἄλλα ἐκ τούτων). A Parmenide non
sarebbero sfuggiti: (a) la difficoltà di coniugare la consistenza d’essere
della ὑποκειμένη φύσις, la sua eterna irrequietezza, e la realtà sostanziale
delle «altre cose»; (b) il fatto che l’attività discriminante («differenziare»,
διαφέρειν) riferita alla realtà originaria ne minasse la compattezza (portando
con sé la nozione di non-essere); (c) il problema della giustificazione dello
stesso processo di generazione dal principio e\o della sua trasformazione. In
effetti si tratta delle questioni di fondo che abbiamo ritrovato commentando i
primi 25 versi di B8. Immobile e identico È probabile che allo stesso contesto
rinviino i versi successivi (26-31), che sottolineano immobilità e immutabilità
di ciò che è: αὐτὰρ ἀκίνητον μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν ἔστιν ἄναρχον ἄπαυστον, ἐπεὶ
γένεσις καὶ ὄλεθρος τῆλε μάλ΄ ἐπλάχθησαν, ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής. ταὐτόν τ΄ ἐν
ταὐτῷ τε μένον καθ΄ ἑαυτό τε κεῖται χοὔτως ἔμπεδον αὖθι μένει· κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη
πείρατος ἐν δεσμοῖσιν ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει, Inoltre, immobile nei vincoli
di grandi catene, è senza inizio e senza fine, poiché nascita e morte sono
state respinte ben lontano: convinzione genuina [le] fece arretrare. Identico e
nell’identica condizione perdurando, in se stesso riposa, e, così, stabilmente
dove è persiste: dal momento che Necessità potente 488 nelle catene del vincolo
[lo] tiene, che tutto intorno lo rinserra. L’uso del termine ἀκίνητον non deve
ingannare: ciò che è in gioco in questo passaggio non è tanto, nello specifico,
il movimento, quanto il mutamento in generale, come suggerito da: (i)
accostamento tra ἀκίνητον e altri due aggettivi – «senza inizio» (ἄναρχον) e
«senza fine» (ἄπαυστον) – esplicitamente giustificati dalla precedente
esclusione di γένεσις e ὄλεθρος; (ii) insistenza su identità durevole, fissità
di stato e persistenza di τὸ ἐόν; (iii) variazione nel registro espressivo, con
la reiterazione di immagini che suggeriscono certamente anche inabilità al
moto, ma, nel contesto, soprattutto impossibilità di sviluppo, di cambiamento
della propria situazione. Nell’identica condizione Insomma, Parmenide appare
interessato a escludere dall’essere la possibilità di intrinseca motilità
(connaturata invece, secondo le testimonianze, alla φύσις milesia) - donde
forse l’aggettivo ἀτρεμὲς del v. 4 - e dunque, rispetto allo schema esplicativo
che abbiamo riscontrato, di trasformazione (μεταβολή): da un punto di vista
linguistico sono dominanti le espressioni che accentuano saldezza («stabilmente
dove è persiste» ἔμπεδον αὖθι μένει) e staticità («in se stesso riposa» καθ΄ ἑαυτό
τε κεῖται), figurativamente accompagnate dalla suggestione dei «vincoli di
grande catene» (μεγάλων δεσμῶν πείρατα), e del rinserramento dell’essere (τό
μιν ἀμφὶς ἐέργει) a opera di «Necessità potente» (κρατερὴ Ἀνάγκη). Come abbiamo
segnalato in nota al testo, il passo è ricco di echi letterari e riflette su un
nodo (mutamento) ben documentato anche nella cultura filosofica arcaica: - ἀλλ’
ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον οὐ πώποκα, τάδε δ’ ἀεὶ πάρεσθ’ ὁμοῖα διά τε τῶν
αὐτῶν ἀεί. 489 - ἀλλὰ λέγεται μὰν Χάος πρᾶτον γενέσθαι τῶν θεῶν. - πῶς δέ κα; μὴ
ἔχον γ’ ἀπό τινος μηδ’ ἐς ὅ τι πρᾶτον μόλοι. - οὐκ ἄρ’ ἔμολε πρᾶτον οὐθέν; —οὐδὲ
μὰ Δία δεύτερον τῶνδέ γ’ ὧν ἁμὲς νῦν ὧδε λέγομες, ἀλλ’ ἀεὶ τάδ’ ἦς A. Ma sempre
gli dei furono presenti e mai vennero meno: queste cose sono sempre uguali e
sempre per sé stesse. B. Eppure si dice che Caos primo venne all’essere degli
dei. A. Come possibile? Come primo non aveva da cosa derivare né verso cosa
procedere. B. Nulla allora procedette per primo? A. Nemmeno per secondo, per
Zeus,, almeno delle cose di cui ora stiamo discorrrendo in questo modo, ma esse
furono sempre [...]. (Epicarmo; DK 23 B1) [...] — ὧδε νῦν ὅρη καὶ τὸς ἀνθρώπως·
ὁ μὲν γὰρ αὔξεθ’, ὁ δέ γα μὰν φθίνει, ἐν μεταλλαγᾶι δὲ πάντες ἐντὶ πάντα τὸν
χρόνον. ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι μένει, ἕτερον εἴη κα τόδ’
ἤδη τοῦ παρεξεστακότος [...] [...] Così ora considera anche gli uomini: l’uno
cresce, l’altro, invece, deperisce: tutti sono in mutamento durante tutto il
tempo. Ora, ciò che muta per natura e non mai nella stessa condizione permane,
sarebbe già diverso da quel che era [...] (Epicarmo; DK 23 B2) αἰεὶ δ’ ἐν ταὐτῶι
μίμνει κινούμενος οὐδέν οὐδὲ μετέρχεσθαί μιν ἐπιπρέπει ἄλλοτε ἄλληι 490 sempre
nella stessa condizione permane, e per nulla si muove, né gli si addice
spostarsi ora in un luogo ora in un altro (Senofane; DK 21 B26). Le citazioni
di Senofane ed Epicarmo attestano, nella elaborazione contemporanea, la
preoccupazione per il mutamento in associazione al tempo: tradizionalmente
riferite al rapporto tra l’umano e il divino (Epicarmo), esse complessivamente
contrastano i processi di crescita e deperimento, l’instabilità sostanziale
degli esseri umani, con l’immota identità delle realtà divine («uguali e sempre
per sé stesse» ὁμοῖα διά τε τῶν αὐτῶν ἀεί), connotata sia rispetto al tempo
(«sempre gli dei furono presenti e mai vennero meno», ἀεί τοι θεοὶ παρῆσαν χὐπέλιπον
οὐ πώποκα), sia rispetto allo stato («ciò che muta per natura, e mai nella
stessa condizione permane», ὃ δὲ μεταλλάσσει κατὰ φύσιν κοὔποκ’ ἐν ταὐτῶι
μένει) 86. Significativamente, nel suo breve frammento Senofane sembra
giustificare l’immobilità divina con una considerazione di opportunità: «né gli
si addice [ἐπιπρέπει] spostarsi ora in un luogo ora in un altro». La Dea di
Parmenide, da parte sua, coniuga immobilità, immutabilità e identità sulla base
di tre considerazioni: (i) generazione e corruzione sono state allontanate
dallo scenario dell’essere con argomento conclusivo («convinzione genuina [le]
fece arretrare» ἀπῶσε δὲ πίστις ἀληθής): τὸ ἐόν è dunque indiscutibilmente
sottratto alla linearità della relazione inizio-fine a causa della
contraddizione che essa comporta; è ἄναρχον ἄπαυστον nel senso che non diviene;
(ii) ingenerabilità, incorruttibilità, pienezza, omogeneità e continuità
(sottolineate nei versi precedenti) pongono l’accento sull’identità di τὸ ἐόν
con se stesso: essa appare il nuovo baricentro del discorso divino. La Dea,
tuttavia, non propone un argomento a sostegno, né esplicitamente si appoggia al
precedente, 86 È da osservare, in particolare, l’uso in entrambi gli autori
dell’espressione ἐν ταὐτῶι μένει (in Senofane l’equivalente poetico ἐν ταὐτῶι
μίμνει), nella duplice valenza (locativa e di stato) che ritroviamo in
Parmenide. 491 limitandosi invece a citare la garanzia della vigilanza di Ἀνάγκη
(Necessità-Costrizione) e, per due volte, dei suoi vincoli e catene; (iii)
l’immobilità è collegata, attraverso la sottrazione dei processi di generazione
e corruzione e il rilievo dell’identità di stato, all’argomento complessivo: il
movimento viene assimilato a un mutamento di condizione dell’essere e quindi
escluso87. Non incompiuto... Anche l’argomento a sostegno dell’immutabilità di
«ciò che è» dipende dunque, in ultima analisi, dalla κρίσις dei vv. 15-16: ἔστιν
ἢ οὐκ ἔστιν. Su quel giudizio, in effetti, poggia saldamente la πίστις ἀληθής
che esclude, dall’orizzonte della riflessione sull’essere, γένεσις e ὄλεθρος.
Tale immutabilità è, a sua volta, utilizzata (vv. 32-33) come prova a favore
della perfezione di τὸ ἐὸν 88: οὕνεκεν οὐκ ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι· ἔστι
γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο. E per questo non incompiuto
l’essere [è] lecito che sia: non è, infatti, manchevole [di alcunché]; il non
essere, invece, mancherebbe di tutto. Interessante nel passaggio il fatto che
Parmenide ricorra a una congiunzione (οὕνεκεν, «per questo») che riferisce
l’affermazione successiva a quel che immediatamente precede: l’argomento si
sostiene quindi sia sulla κρίσις e le sue conseguenze, sia sulle immagini di
vincoli e catene, immobilizzanti ma anche identitarie. La suggestione divina di
Ἀνάγκη opera a garanzia della compiutezza dell’essere, sorvegliandone e
salvaguardandone la pienezza (πᾶν ἐστιν ὁμοῖον; πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος).
87 Leszl, op. cit., p. 209. 88 Su questo passaggio P. Curd, Eleatic Arguments,
in Methods in Ancient Philosophy, edited by J. Gentzler, Clarendon Press,
Oxford 1998, p. 18. 492 La Dea, insomma, annoda immobilità, immutabilità,
identità e perfezione: οὐκ ἀτελεύτητον – come οὖλον μουνογενές (intero,
uniforme), ὁμοῦ πᾶν (tutto insieme), συνεχές (continuo, coeso) – discende dal
rigetto della via ὡς οὐκ ἔστιν, e rivela dunque un carattere essenziale
dell’essere. L’alternativa radicale ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν, con l’invito a valutare
discorsivamente la robustezza degli argomenti (B7.5) e a concentrarsi su ἔστι e
sui suoi «segnali» (B8.1- 2), comporta, infatti, la progressiva sottrazione di
ogni negatività che potrebbe attentare all’integrità dell’essere, come
manifesto nel v. 33, comunque lo si intenda: (i) l’essere non può essere in
difetto in alcun modo (poiché «deve essere per intero o non essere per nulla»);
il non-essere, invece, sarebbe totale assenza di realtà; (ii) traducendo
diversamente, invece, avremmo: ἔστι γὰρ οὐκ ἐπιδεές· μὴ ἐὸν δ΄ ἂν παντὸς ἐδεῖτο
non è, infatti, manchevole [di alcunché]; se non fosse [non-manchevole],
invece, mancherebbe di tutto (v. 33); se l’essere fosse in qualche misura o per
qualche aspetto carente, porterebbe con sé non-essere e ne sarebbe distrutto,
come già marcato (o anticipato) al v. 11: ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί
deve essere per intero o non essere per nulla. Se ora consideriamo, nel suo
complesso, il nodo di questi versi centrali del frammento, possiamo forse
cogliervi una presa di posizione nei confronti delle tesi che avevano delineato
a un tempo il primato di un principio e i suoi sviluppi o le sue
trasformazioni: che lo avevano considerato divino, attribuendogli eterna durata
e vitalità, per garantire gli enti nella loro totalità; proteiforme (l’aria di
Anassimene?) per giustificarne le traduzioni fenomeniche; infinitamente fecondo
per sostenere gli incessanti processi di generazione e corruzione. 493 Essere e
pensiero È appunto nella discussione di questo nodo che Parmenide inserisce
(vv. 34-38a) quanto appare come un excursus, oggetto di un articolato
dibattito, filologico e interpretativo, cui abbiamo accennato in nota al testo:
ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ
πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν· o;udèn γὰρ < ἢ > ἔστιν ἢ ἔσται ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος, ἐπεὶ τό γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι La stessa
cosa invero è pensare e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui
[il pensiero] è espresso, troverai il pensare. Né, infatti, esiste né esisterà
altro oltre all’essere, poiché Moira lo ha costretto a essere intero e
immobile. Accettando la nostra traduzione del v. 34, in effetti qui la Dea
recupererebbe affermazioni avanzate in precedenza: τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε
καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere (B3) χρὴ τὸ λέγειν τò
νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι Dire e pensare: «ciò che è è», è necessario (B6.1a).
Ribadendo la connessione, che fa da sfondo a tutta l’esposizione divina, tra
νοεῖν e εἶναι - e dunque anche l’impossibilità che «ciò che non è» (μὴ ἐὸν)
possa realmente essere oggetto del pensiero89, secondo le indicazioni di
B2.7-8: οὔτε γὰρ ἂν γνοίης τό γε μὴ ἐὸν - οὐ γὰρ ἀνυστόν - οὔτε φράσαις 89
Questo è quanto i versi in questione mostrerebbero secondo Curd, Eleatic
Arguments, cit., p. 19. 494 poiché non potresti conoscere ciò che non è (non è
infatti cosa fattibile), né indicarlo - l’obiettivo sarebbe quello di escludere
che possa darsi per l’intelligenza della realtà oggetto diverso dall’«essere» (ἄλλο
πάρεξ τοῦ ἐόντος), che possa in altre parole essere assunto come realtà quanto
si manifesta a livello di senso comune. Questa lettura sembra confermata da
quel che segue immediatamente (vv. 38b-41): τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ
κατέθεντο πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί,
καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le
cose saranno nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali:
nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore.
Gli eventi che i «mortali» (βροτοί) registrano quotidianamente e che in modo irriflesso
interpretano come fenomeni di mutamento («nascere e morire», «cambiare luogo e
mutare luminoso colore») – designandoli, illusi (πεποιθότες) della loro genuina
consistenza (ἀληθῆ) - si rivelano, all'intelligenza critica sollecitata dalla
Dea, per quello che in verità sono: «nome». Gli uomini, in altre parole,
utilizzano una pluralità di espressioni - dalla Dea già esplicitamente
proibite: «nascere e morire, essere e non essere, cambiare luogo» - per
articolare e cadenzare una realtà che, correttamente valutata, risulta
essenzialmente estranea a ogni accadere e mutare. L’unico genuino (vero)
oggetto di intelligenza e linguaggio è «ciò-che-è»: indipendentemente da quel
che i mortali pretendono di riferire nei loro pensieri e discorsi, ciò cui essi
realmente pensano e possono pensare è τὸ ἐὸν 90. 90 McKirahan, op. cit., p.
202. 495 Prima di tornare a discutere i «segnali» lungo la via ὅπως ἔστιν – in
particolare prima di riprendere e ulteriormente determinare il nodo cruciale
dell’immobilità, immutabilità e compiutezza dell’essere – la Dea di Parmenide
richiama l’attenzione su quanto implicito nelle sue affermazioni iniziali
(B2-B3): per un pensare intelligente, capace cioè di afferrare consapevolmente
il proprio oggetto, non può darsi altro orizzonte che ἐόν, dal momento che «ciò
che non è» (μὴ ἐὸν) è intrinsecamente inconsistente. Molto discussa la formula
impiegata (vv. 34-36a): ταὐτὸν δ΄ ἐστὶ νοεῖν τε καὶ οὕνεκεν ἔστι νόημα. οὐ γὰρ ἄνευ
τοῦ ἐόντος, ἐν ᾧ πεφατισμένον ἐστίν, εὑρήσεις τὸ νοεῖν La stessa cosa è pensare
e e il pensiero che «è»: giacché non senza l’essere, in cui [il pensiero] è
espresso, troverai il pensare. Rispetto ai due enunciati (B3 e B6.1a) sopra
ricordati, qui non si tratta semplicemente di un’affermazione di identità (generica)
tra pensare ed essere (B3) ovvero di una presa d’atto della necessità per il
pensiero di ammettere che «ciò che è è» (B6.1a). Qui la Dea si spinge a
delineare a un tempo due relazioni - di identità (ταὐτὸν ἐστὶ) e di dipendenza
(espressa da οὕνεκεν, che traduciamo come equivalente a ὅτι «che»91) - i cui
membri risultato da un lato νοεῖν, dall’altro appunto «il pensiero» (νόημα)
«che "è"». Non c’è altro oltre all’essere, quindi l’essere non può
che essere l’oggetto del pensiero: la Dea sottolinea, infatti, come l’essere
sia propriamente ciò «in cui» il pensiero è espresso, il campo entro cui
necessariamente il pensiero si manifesta. Dal momento che τὸ ἐὸν è in verità il
solo contenuto realmente pensato ed espresso nel linguaggio, qualsiasi cosa i
mortali pensino o dicano e in qualsiasi modo la pensino o dicano, essi stanno
parlando di ciò-che-è 92. C’è tensione, dunque, tra quanto essi sono «convinti»
di nominare e 91 Ma che altri scelgono di rendere come «a causa di». 92
McKirahan, op. cit., p. 205. 496 quanto in realtà essi nominano: sebbene non ne
siano consapevoli, ogni nome afferma l’essere. All’orizzonte (trascendentale)
dell’essere non può sottrarsi il nominare dei mortali93. Nel contesto, insomma,
a dispetto di una lunga tradizione interpretativa, intenzione della Dea sarebbe
non tanto aprire una parentesi per discutere dell'inattendibilità
dell’esperienza umana, quanto rilevare l’illusione che altro (dall’essere e dai
suoi «segnali») possa essere l’ambito del pensare. In questione sarebbe allora
la consistenza del mondo attestato empiricamente, ma non in quanto di per sé
illusorio, risultato di un inganno dei sensi, piuttosto perché non inquadrato
coerentemente, da un punto di vista logico, nell'unitaria cornice d’essere, e
dunque frainteso. In quest'ottica, al linguaggio inadeguato dei mortali è
contrapposto il linguaggio della verità dell’essere94. A chi si riferisce il
termine βροτοί? Agli esseri umani in genere, evocando il tradizionale rilievo
della loro debolezza cognitiva (rispetto alla conoscenza divina) e dunque
accentuando la natura eccezionale dell'esperienza del poeta? Ovvero a un gruppo
o a gruppi di sapienti rivali? Osservando le scelte espressive di Parmenide
(γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον ἀλλάσσειν διά τε χρόα
φανὸν ἀμείϐειν), potremmo riconoscere sia una generica allusione alle modalità
ordinarie di lettura della realtà (cambiamento di luogo, mutamento
qualitativo), sia l’accenno a un linguaggio più specifico (nascere e morire,
essere e non essere): quello che sopra abbiamo individuato nelle testimonianze
relative agli schemi cosmologici (e cosmogonici) milesi e nei frammenti
eraclitei. A noi sembra, tuttavia, che questo passo - apparentemente una pausa
nella sequenza argomentativa del frammento – faccia emergere un aspetto
peculiare dell’approccio di Parmenide, una nuova dimensione speculativa.
Ipotizzando che l’Eleate abbia preso le mosse dall’analisi delle implicazioni
(ontologiche) di affermazioni relative alla φύσις o all'ἀρχή, denunciando le
incongruenze delle lezioni cosmologiche (e cosmogoniche) circolanti, è 93
Ruggiu, op. cit., pp. 307-8. 94 Ibidem. 497 possibile si sia a un certo punto
concentrato sulle condizioni di comprensione della realtà (dunque sulla stessa
attività di νοεῖν): questione di «secondo livello» 95 (meta-cognitiva), intesa
a far prendere consapevolezza, oltre che dei «segni» dell’essere, anche dei
presupposti del pensare. L’ontologia che viene delineata traccia così a un
tempo i requisiti necessari (stabilità, identità) alla conoscenza: la comprensione
(νοεῖν) esige determinate condizioni formali (proprietà) per l’intelligibilità
del proprio oggetto; condizioni che Parmenide potrebbe aver fatto emergere nel
confronto serrato (meta-critico) con le teorie della natura della tradizione
ionica96. Moira lo ha costretto... Per la terza volta nel frammento, la Dea
assicura il proprio ragionamento ricorrendo a un’immagine mitica (e a una
formula epica): Moira «ha costretto» (ἐπέδησεν) ἐόν «a essere intero e
immobile» (οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι). È in forza di tale “destino” che nulla
«esiste o esisterà» (ἔστιν ἢ ἔσται) «oltre all’essere» (πάρεξ τοῦ ἐόντος): ciò,
in primo luogo, comporta ancora (come nel caso di Giustizia e Necessità) che la
garanzia di Moira risulti formalmente essenziale per affermare integrità,
unicità e immutabilità dell’essere (e dunque per sostenere come i «nomi» dei
«mortali» si riferiscano in vero sempre e solo all’essere). Ma la superiore
tutela di Moira impone, in secondo luogo, anche l’identità di essere e
pensiero, nel momento in cui marca, appunto, come non possa esistere ἄλλο πάρεξ
τοῦ ἐόντος («altro oltre all’essere»). In questo senso, rispetto a νοεῖν e ἐόν,
essa riveste una funzione “trascendentale”: richiamando implicitamente le
immagini dei legami (πείρατα) e delle catene (δεσμοί) ed esplicitamente la
fissi- 95 G.E.R. Lloyd usa l’espressione «second’ordine», per esempio nel suo
Le pluralisme de la vie intellectuelle avant Platon, in A. Laks et C. Louguet
(éds), Qu’est-ce que la Philosophie Présocratique?..., cit., p. 44. 96 Graham,
Explaining the Cosmos…, cit., p. 166. 498 tà (ἐπέδησεν - ἔμπεδον) dei ceppi
(πέδαι), con la figura di Moira la Dea, da un lato, ribadisce la stabilità
dell’essere, dall’altro indica in quella invariabilità un carattere
fondamentale della conoscenza. Questa connessione tra saldezza di «ciò che è» e
costanza del νόημα che la coglie è la stessa allusa in B4.1-2: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος ἔχεσθαι Considera come
cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non impedirai,
infatti, che l’essere sia connesso all’essere. La Dea le contrappone la
precarietà tutta umana e artificiale («saranno nome» ὄνομ΄ ἔσται) di quanto
(πάντ΄ [...] ὅσσα) «i mortali stabilirono» (βροτοὶ κατέθεντο), lasciandosi poi
traviare (πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ). Compiuto e omogeneo I versi (42-49) che
concludono la sezione sulla Verità ne riassumono l’ontologia, insistendo
particolarmente su compiutezza e omogeneità di «ciò che è», attraverso un ampio
ricorso a metafore “spaziali”: αὐτὰρ ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί
πάντοθεν, εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ· τὸ γὰρ οὔτε
τι μεῖζον οὔτε τι βαιότερον πελέναι χρεόν ἐστι τῇ ἢ τῇ. οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι,
τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν, οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον
τῇ δ΄ ἧσσον, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ἄσυλον· οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι
κύρει. Inoltre, dal momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è
compiuto da tutte le parti, simile a massa di ben rotonda palla, 499 a partire
dal centro ovunque di ugual consistenza: giacché è necessario che esso non sia
in qualche misura di più, o in qualche misura di meno, da una parte o
dall’altra. Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a
omogeneità, né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì
meno, poiché è tutto inviolabile. A se stesso, infatti, da ogni parte uguale,
uniformemente entro i [suoi] limiti rimane. I versi propongono contestualmente
due diverse prospettive: l’accostamento alla «massa di ben rotonda palla» (εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) presuppone infatti un punto di vista “esterno”, per
comunicare un’impressione ottica (“da fuori”) della compatta estensione
dell’essere, della sua compiuta integrità; d’altra parte, la sottolineatura
dell’equa distribuzione (ἰσοπαλὲς πάντῃ) «a partire dal centro» (μεσσόθεν),
manifesta piuttosto un punto di vista “interno” (dal centro alla superficie
perimetrale). Complessivamente il testo vuol riproporre ἐόν come totalità
piena, densa, uniforme, e a tale scopo fa leva sulla nozione di «limite
estremo» (πεῖρας πύματον), di un confine che rende plasticamente l’assoluto
discrimine tra ἐόν e μὴ ἐὸν, logicamente essenziale a tutto il ragionamento
della Dea. C’è un limite estremo Anche in questo caso – come in altri passaggi
del poema – appare evidente il debito nei confronti dell’immaginario epico: ἔνθα
δὲ γῆς δνοφερῆς καὶ ταρτάρου ἠερόεντος πόντου τ’ ἀτρυγέτοιο καὶ οὐρανοῦ ἀστερόεντος
ἑξείης πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν, ἀργαλέ’ εὐρώεντα, τά τε στυγέουσι θεοί
περ· χάσμα μέγ’, οὐδέ κε πάντα τελεσφόρον εἰς ἐνιαυτὸν 500 οὖδας ἵκοιτ’, εἰ πρῶτα
πυλέων ἔντοσθε γένοιτο, ἀλλά κεν ἔνθα καὶ ἔνθα φέροι πρὸ θύελλα θυέλλης ἀργαλέη·
δεινὸν δὲ καὶ ἀθανάτοισι θεοῖσι.] [τοῦτο τέρας· καὶ Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία δεινὰ ἕστηκεν
νεφέλῃς κεκαλυμμένα κυανέῃσι Là della terra nera e del Tartaro oscuro, del mare
infecondo e del cielo stellato, di seguito, di tutti vi sono le scaturigini e i
confini, luoghi penosi e oscuri che anche gli dei hanno in odio, voragine
enorme; né tutto un anno abbastanza sarebbe per giungere al fondo a chi
passasse dentro le porte, ma qua e là lo porterebbe tempesta sopra tempesta
crudele; tremendo anche per gli dei immortali è tale prodigio. E di Notte
oscura la casa terribile s’inalza, da nuvole livide avvolta (Teogonia 736-745.
Traduzione di G. Arrighetti). Il passo esiodeo è di un certo rilievo nel nostro
contesto, in quanto lega il tema delle «scaturigini» e dei «confini» di tutte
le cose (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατ’ ἔασιν) a uno scenario infero in cui è
inserito il riferimento alla «casa terribile di Notte oscura» (Νυκτὸς ἐρεμνῆς οἰκία
δεινὰ), probabile prototipo della «dimora della Notte» (δώματα Nυκτός) evocata
nel proemio di Parmenide. Né va dimenticato che la Dea promette nel poema «di
tutto informare» (B1.28): almeno didascalicamente, l’ottica della sua
comunicazione è situata effettivamente al «limite» del dicibile (dell’essere).
Agli interpreti non è sfuggito il peso peculiare che nello sviluppo
argomentativo di B8 progressivamente assumono le immagini che afferiscono al
limite (πεῖρας) vincolante per l’essere: τοῦ εἵνεκεν οὔτε γενέσθαι οὔτ΄ ὄλλυσθαι
ἀνῆκε Δίκη χαλάσασα πέδῃσιν, ἀλλ΄ ἔχει Per questo né nascere né morire concesse
Giustizia, sciogliendo le catene, ma [lo] tiene (vv. 13b-15a) 501 ἀκίνητον
μεγάλων ἐν πείρασι δεσμῶν immobile nei vincoli di grandi catene (v. 26) ἐπεὶ τό
γε Μοῖρ΄ ἐπέδησεν οὖλον ἀκίνητόν τ΄ ἔμεναι poiché Moira lo ha costretto a
essere intero e immobile (vv. 37b-38a) κρατερὴ γὰρ Ἀνάγκη πείρατος ἐν δεσμοῖσιν
ἔχει, τό μιν ἀμφὶς ἐέργει dal momento che Necessità potente nelle catene del
vincolo [lo] tiene (vv. 30a-31b) ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί dal
momento che [vi è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto (v. 42). Sono i
legami variamente evocati a impedire all’essere di essere esposto a generazione
e corruzione (ἀγένητον καὶ ἀνώλεθρoν), ovvero al mutamento (ἀκίνητον), e a
garantirne integrità (o%ulon μουνογενές) e perfezione (οὐκ ἀτελεύτητον,
τετελεσμένον). Come abbiamo in precedenza osservato, significativamente alle
immagini di catene e vincoli sono associate figure di garanzia: Giustizia,
Necessità, Moira. L’idea è quella di costrizione come destino ovvero legge
dell’essere97, ma nel contesto, in relazione al pronunciamento circa
l'esistenza di un «confine estremo» (πεῖρας πύματον), all'accostamento al
«corpo di una palla ben rotonda» (εὐκύκλου σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ) e alle
altre formule spaziali (πάντοθεν, μεσσόθεν) utilizzate, potremmo trovarci in
presenza di una suggestione cosmologica. Secondo Schreckenberg98, l'idea di un
estremo vincolo cosmico sarebbe antica e avrebbe avuto origine in ambiente
pitagorico, come documenterebbe Aëtius: 97 H. Schreckenberg, "Ananke.
Untersuchungen zur Geschichte des Wotgebrauchs", Zetemata 36, München
1964, pp. 75-6. Citato in Robbiano, op. cit., p. 141. 98 Op. cit., pp. 103 ss..
Citato in Robbiano, op. cit., p. 140. 502 Π υ θ α γ ό ρ α ς ἀνάγκην ἔφη περικεῖσθαι
τῷ κόσμῳ Pitagora affermò che la necessità circonda il cosmo99, e confermerebbe
la nozione pitagorica di ἄντυξ κόσμου («limite del cosmo»). In effetti, Aëtius
attribuisce proprio a Pitagora l'introduzione del termine «cosmo» per indicare
il tutto: Π. πρῶτος ὠνόμασε τὴν τῶν ὅλων περιοχὴν κ ό σ μ ο ν ἐκ τῆς ἐν αὐτῶι
τάξεως Pitagora per primo chiamò l'insieme di tutte le cose cosmo, per l'ordine
che vi regna (DK 14 A21) Ricordiamo, inoltre, come il tema dell’equilibrio del
cosmo garantito dal confine cosmico si colleghi ad Anassimandro, del cui
principio (l’apeiron) Aristotele afferma: [...] διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή,
ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν [...]
per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che
sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle
[abbracciarle] tutte e tutte governarle (DK 12 A15). A suo modo Parmenide
avrebbe potuto dunque fare proprio dall'ambiente culturale del tardo VI secolo
il motivo dell'immutabilità e della stabilità dell’universo, espresso
soprattutto nell'ultimo verso (v. 49) di questa sezione: οἷ γὰρ πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς
ἐν πείρασι κύρει A se stesso, infatti, da ogni parte uguale, uniformemente
entro i [suoi] limiti rimane. Rispetto alla tradizione, tuttavia, muta
profondamente l'ottica adottata: all'interno della sezione sulla Verità,
l'Eleate rivolge il proprio sguardo alla realtà cosmica rilevando la dimensione
d'es- 99 H. Diels, Doxographi Graeci, De Gruyter, Berlin 1965, 321 b4. 503 sere
(ἐόν), rispetto alla quale svaniscono tutti gli elementi di discriminazione
spaziale (così come erano stati neutralizzati tutti i riferimenti temporali)100.
Nell'essere si riassumono omogeneamente tutte le cose: «ciò che è si stringe
infatti a ciò che è» (v. 25: ἐὸν γὰρ ἐόντι πελάζει). In considerazione
dell'alternativa radicale «è-non è», «ciò che è» risulta compatto (v. 19: πᾶν
δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος), coeso (v. 25: ξυνεχὲς πᾶν ἐστιν), compiuto (v. 27: οὐκ
ἀτελεύτητον τὸ ἐὸν θέμις εἶναι): οὔτε γὰρ οὐκ ἐὸν ἔστι, τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι
εἰς ὁμόν Non vi è, infatti, non essere, che possa impedirgli di giungere a
omogeneità (vv. 46-47a). La proibizione di percorrere la via che pensa «che non
è» fa sentire ancora la propria forza coinvolgente, nel determinare i contorni
della realtà. In effetti, la recisa affermazione della Dea: «vi è un confine
estremo» (πεῖρας πύματον) – sebbene ancora formalmente giustificata, a questo
punto, dall'insistenza (mitica e\o metaforica) su vincoli e catene, e dalla
sorveglianza dei relativi numi (Dike, Ananke, Moira) - interviene a completare
il quadro ontologico, marcando in particolare l'integrità di «ciò che è» come
totalità (v. 4: οὖλον μουνογενές; v. 5: ὁμοῦ πᾶν), di cui non a caso si
enuncia: «è tutto inviolabile» (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). La reiterazione di un
avverbio connette inizio e fine del passo: τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν [ciò che
è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42b-43a) 100 Su questo punto il saggio di
M. Kraus, Sein, Raum und Zeit im Lehrgedicht des Parmenides, in
Frühgriechisches Denken, a cura di G. Rechenhauer, Vandenhoeck & Ruprecht,
Göttingen 2005, pp. 252-269, in particolare pp. 260-1 e 267-8. 504 οἷ γὰρ
πάντοθεν ἶσον, ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει a se stesso, infatti, da ogni parte
uguale, uniformemente entro i [suoi] limiti rimane (v. 49). La compiutezza (in
ogni direzione) di «ciò che che è» è sostenuta sulla base della sua
"densità" ontologica: οὔτ΄ ἐὸν ἔστιν ὅπως εἴη κεν ἐόντος τῇ μᾶλλον τῇ
δ΄ ἧσσον né ciò che è esiste così che ci sia - di ciò che è - qui più, lì meno
(vv. 47b-48a). Nulla può alterarne l'equilibrio, ovvero impedirne l'omogeneità
(τό κεν παύοι μιν ἱκνεῖσθαι εἰς ὁμόν): affermare l'essere comporta escluderne
(con il non-essere) ogni possibile deficienza e dunque equivale ad affermarne
eguaglianza, uniformità, totale identità con se stesso, in altre parole la
inviolabilità (πᾶν ἐστιν ἄσυλον). Simile a massa... Estremamente controversa a
livello interpretativo è la similitudine introdotta dalla Dea all'inizio del
nostro passo (ma in conclusione della sua comunicazione di Verità!): εὐκύκλου
σφαίρης ἐναλίγκιον ὄγκῳ, μεσσόθεν ἰσοπαλὲς πάντῃ simile a massa di ben rotonda
palla, a partire dal centro ovunque di ugual consistenza (vv. 43b-44a). Come
abbiamo rilevato in nota al testo, tre punti sono criticamente determinanti:
(i) il soggetto (sottinteso) della similitudine è ἐόν (con cui concorda ἐναλίγκιον);
(ii) ἐναλίγκιον («simile») si riferisce non a «palla» (σφαῖρα) ma a «massa» (ὄγκος);
505 (iii) ἰσοπαλὲς («di ugual consistenza») è attributo del soggetto sottinteso
(«ciò che è») della affermazione iniziale, non di «massa di ben rotonda palla».
Se è da escludere l'equazione tra «ciò che è» e corpo sferico, è difficile
tuttavia – proprio in forza dell'eco spaziale di questi versi e dei successivi
– sottrarsi all'impressione che Parmenide stia parlando di qualcosa comunque
esteso: il tutto indifferenziato e omogeneo di cui si parla potrebbe dunque
coincidere con la realtà universale (τὸ πᾶν, come suggerisce Furley101), colta
"in quanto essere", in altre parole intuita appunto come ἐόν («ciò
che è»), ovvero – più astrattamente – come τὸ ἐόν («l'essere»), con le relative
conseguenze logiche. La novità della sezione sulla Verità (che culmina nei
versi in esame) sarebbe, allora, non quella di volgersi a una realtà diversa da
quella cosmica, ma quella di concentrarsi sul «tutto» (πᾶν, πάντοθεν, πάντῃ) -
come già documentato negli autori ionici – in una prospettiva diversa dalla
cosmologia milesia: le scelte espressive di Parmenide ci suggeriscono di
definirla "ontologica". Essa consiste nel trasfigurare la realtà – la
stessa realtà attestata dall’esperienza – alla luce di rigorose esigenze
razionali, che la Dea introduce assiomaticamente in B2 e ribadisce in B8.15 (ἡ
δὲ κρίσις τούτων ἐν τῷδ΄ ἔστιν). Parmenide indica questa attitudine con formule
che evocano sia l'esame e la fatica argomentativa (B7.5: «valuta con il
ragionamento la prova polemica», κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον), sia lo
sguardo logicamente educato a evitare la contraddizione (B4.1: la possibile
connessione tra λεῦσσε e νόῳ). Il risultato di questa considerazione originale
della realtà cosmica è l'abbandono degli schemi esplicativi – cosmologici e
cosmogonici – milesi e la riduzione del «tutto» alla compatta uniformità di τὸ ἐόν:
nella sua identità logicamente garantita dall’effettiva indisponibilità di μὴ ἐὸν,
ogni divenire e ogni discriminazione temporale sono sospesi, nell’eterna,
continua gia- 101 D. Furley, The Greek Cosmologists. Volume 1: The formation of
the atomic theory and its earliest critics, CUP, Cambridge 1987, p. 54. 506
cenza di «ciò che è» in se stesso (dunque nel presente); analogamente sono
superate tutte le distinzioni di luogo, nella sua compiuta, omogenea, coesa
estensione. Insomma, del cosmo milesio (e probabilmente pitagorico) sono
evaporati i fattori cosmogonici - i contrari, la natura-principio, le masse
elementari - ed è rimasto τὸ ἐόν, espressione che solo in questo senso designa
qualcosa di astratto, non immediatamente riconducibile ai sensi: un intero
indiscriminato102, in cui si riassume la realtà dell'universo, la totalità
delle cose considerate appunto come essere103. Solo in coerenza con l'esigenza
di permanenza, stabilità e identità incarnata da questa realtà-verità sarà
possibile ripensare il mondo della esperienza. Se è vero che Parmenide non
propone nella Via della Verità una propria cosmologia, ne fissa certamente le
condizioni di possibilità, come la riflessione posteriore, da Empedocle agli
atomisti, avrebbe mostrato. La similitudine con la «massa di ben rotonda palla»
è introdotta per illustrare plasticamente un nodo decisivo della esposizione
della Dea: ἐπεὶ πεῖρας πύματον, τετελεσμένον ἐστί πάντοθεν dal momento che [vi
è] un limite estremo, [ciò che è] è compiuto da tutte le parti (vv. 42-43a).
L'impressione è che Parmenide cerchi di utilizzare l'immagine della massa
sferica per confermare l'intuizione della compiuta integrità dell'essere senza
ricorrere a una tutela esterna, come avvenuto nei versi precedenti grazie alle
figure divine (Dike, Ananke, 102 Kraus (p. 261) evoca in proposito una forma di
esperienza immediata descritta da Ernst Mach, in cui l'universo nella sua
interezza si sarebbe rivelato come massa indiscriminata e coesa. 103 Thanassas
(Parmenides, Cosmos, and Being…, cit., p. 45) sottolinea in proposito come l'ἐόν
di Parmenide sia direttamente comparabile alla espressione aristotelica tò $on
*h? $on, in quanto denoterebbe la totalità degli enti (tò $on), richiamando
tuttavia l'attenzione (nel secondo $on) sull’Essere di quegli enti. 507 Moira)
e ai loro vincoli immobilizzanti, piuttosto attraverso il riferimento al
carattere ultimo dell’estremità entro cui l’essere «uniformemente nei limiti
rimane» (ὁμῶς ἐν πείρασι κύρει) 104. Il limite è estremo: come in Esiodo si dà,
rispetto all'abisso spalancato (χάος, χάσμ’ ἀχανές), una barriera
insormontabile in cui tutte le cose hanno radice (πάντων πηγαὶ καὶ πείρατα), in
Parmenide oltre il confine non c’è nulla, al di qua tutto l’essere, di
conseguenza perfetto, compiuto (τετελεσμένον) da ogni parte (πάντοθεν) 105. La
similitudine insiste sull’estensione compatta e sulla tensione uniforme:
sull’uguale consistenza, dal centro al perimetro della sfera. Mourelatos ha
osservato106 come la sfera si prestasse, tra le varie figure, all'estrazione di
criteri di completezza, dal momento che è quella che ha estensione sempre
«identica con se stessa». Che questi versi (i più citati del poema
nell'antichità) fossero destinati a un forte impatto cosmologico, è rivelato
soprattutto dalle riprese platoniche: come hanno puntualmente confermato le
ricerche di Palmer107, la rappresentazione della grandiosa creazione del cosmo
fisico da parte del demiurgo, sulla scorta del modello del vivente
intelligibile, nel Timeo platonico propone un’impressionante concentrazione di
allusioni (e parole) parmenidee: σχῆμα δὲ ἔδωκεν αὐτῷ τὸ πρέπον καὶ τὸ
συγγενές. τῷ δὲ τὰ πάντα ἐν αὑτῷ ζῷα περιέχειν μέλλοντι ζῴῳ πρέπον ἂν εἴη σχῆμα
τὸ περιειληφὸς ἐν αὑτῷ πάντα ὁπόσα σχήματα· διὸ καὶ σφαιροειδές, ἐκ μέσου πάντῃ
πρὸς τὰς τελευτὰς ἴσον ἀπέχον, κυκλοτερὲς αὐτὸ ἐτορνεύσατο, πάντων τελεώτατον ὁμοιότατόν
τε αὐτὸ ἑαυτῷ σχημάτων, νομίσας μυρίῳ κάλλιον ὅμοιον ἀνομοίου. λεῖον δὲ δὴ κύκλῳ
πᾶν ἔξωθεν αὐτὸ ἀπηκριβοῦτο πολλῶν χάριν. ὀμμάτων τε γὰρ ἐπεδεῖτο οὐδέν, ὁρατὸν
γὰρ οὐδὲν ὑπελείπετο ἔξωθεν, οὐδ’ 104 Couloubaritsis, Mythe et philosophie
cit., p. 249. 105 Ruggiu, op. cit., p. 309. 106 Op. cit., pp. 127-8. 107 J.
Palmer, Plato's Reception of Parmenides, O.U.P., Oxford 1999, pp. 193 ss.. 508 ἀκοῆς,
οὐδὲ γὰρ ἀκουστόν· πνεῦμά τε οὐκ ἦν περιεστὸς δεόμενον ἀναπνοῆς, οὐδ’ αὖ τινος ἐπιδεὲς
ἦν ὀργάνου σχεῖν ᾧ τὴν μὲν εἰς ἑαυτὸ τροφὴν δέξοιτο, τὴν δὲ πρότερον ἐξικμασμένην
ἀποπέμψοι πάλιν. ἀπῄει τε γὰρ οὐδὲν οὐδὲ προσῄειν αὐτῷ ποθεν—οὐδὲ γὰρ ἦν [...]
E gli diede una figura a sé congeniale e congenere. Ma la figura congeniale al
vivente che doveva contenere in sé tutti i viventi non poteva essere che quella
che comprendesse in sé tutte le figure possibili; per cui, lo tornì come una
sfera, in una forma circolare in ogni parte ugualmente distante dal centro alle
estremità, che è la più perfetta di tutte le figure e la più simile a se
stessa, giudicando il simile assai più bello del dissimile. E ne rese
perfettamente liscio l'intero contorno esterno per molte ragioni. Infatti, non
aveva affatto bisogno di occhi, perché nulla era rimasto da vedere all'esterno,
né di orecchie, perché nulla era rimasto da sentire; né vi era bisogno di un
organo per ricevere in sé il nutrimento o per eliminarlo in seguito, dopo
averlo assimilato. Nulla, del resto, poteva da esso separarsi e nulla a esso
aggiungersi da nessuna parte, perché nulla vi era al di fuori [...] (Timeo
33b-c7)108. 108 Traduzione da Platone, Timeo, a cura di F. Fronterotta, BUR,
Milano 2003. [B8 VV. 50-61] Sin dalla
antichità si è presentato il poema di Parmenide come suddiviso in un proemio e
due sezioni, di diversa ampiezza: Verità (o via della Verità) e Opinione (o via
della Opinione), secondo lo schema attestato da Diogene Laerzio: δισσήν τε ἔφη
τὴν φιλοσοφίαν, τὴν μὲν κατὰ ἀλήθειαν, τὴν δὲ κατὰ δόξαν Disse che la filosofia
si divide in due parti, l’una secondo verità, l’altra secondo opinione. (DK 28
A1). È plausibile che Proemio e prima parte complessivamente risultassero
marcatamente più brevi rispetto alla seconda, di cui però abbiamo conservati
soltanto quaranta versi (dei 150 circa complessivamente superstiti: 32 del solo
B1 e 61 di B8!): 1/10, secondo le stime tradizionali, dell’intera sezione, che
doveva coprire i 2/3 del poema1. Su questo elemento strutturale avremo modo di
riflettere ancora più avanti. Discorso affidabile e opinioni mortali Gli ultimi
12 versi del frammento 8 DK, conservatici da Simplicio, segnano evidentemente
il passaggio tra le due sezioni (Verità e Opinione), come rivela il contesto
delle citazioni: συμπληρώσας γὰρ τὸν περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί
[vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς
αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv. 50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς
στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο, ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ
> πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ 1 L. Atwood Wilkinson, Parmenides and To Eon…,
cit., p. 104. 510 ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον
παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso infatti il discorso intorno
all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione vv. 50-61] (Simplicio, Phys.
38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili, o dalla verità, come lui si
esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in cui afferma [citazione vv.
50-52], pone a sua volta i principi elementari delle cose generate, secondo la
prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco e terra o denso e raro o
identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in precedenza citati,
[citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). Pur ipotizzando la
posteriorità della suddivisione e sottotitolazione (Verità e Opinione) delle
sezioni, non rimangono dubbi circa la funzione di cerniera di questo passo. Il
linguaggio peripatetico del commentatore riflette in effetti un'altra celebre
testimonianza sulla Doxa parmenidea, proposta nel primo libro della Metafisica
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...], ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. Costretto, tuttavia, a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi 511 dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b 31- 987 a 2). Verità e opinioni Il testo del frammento
è, d'altra parte, a sua volta esplicito nel rilevare la svolta nell'esposizione
divina: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης· δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε
βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo punto pongo
termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità; da questo
momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole ascoltando,
che può ingannare (vv. 50-52). Da un lato la Dea sottolinea al proprio
interlocutore la conclusione della «comunicazione attendibile» (πιστὸν λόγον) e
della «riflessione sulla verità» (νόημα ἀμφὶς ἀληθείης) e, insieme,
l'introduzione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), mettendolo
sull'avviso: la costruzione verbale (κόσμον ἐμῶν ἐπέων) potrà risultare
fuorviante (ἀπατηλὸν). Dall'altro, è comunque la Dea a tenere lezione (donde
l'esortazione al kouros: μάνθανε), e le stesse scelte espressive richiamano
puntualmente il programma educativo del prologo del poema. La rivelazione della
dea innominata comprevedeva tre momenti distinti (ma concettualmente
correlati): (i) l'indiscutibile Verità, (ii) le inaffidabili opinioni dei
mortali, (iii) un adeguato resoconto dei contenuti di quelle opinioni, τὰ δοκοῦντα
- «le cose accettate nelle opinioni», ovvero «le cose che appaiono». Nostra
convinzione è che le premesse di B2 consentano di individuare espressamente in
B8.1-49 la trattazione del primo punto, e complessivamente in B6, B7, B8
allusioni al secondo, non fatto oggetto di riscontro puntuale, ma solo
genericamente di rilievi di fondo 512 (che poi gli interpreti proiettano in una
direzione o nell'altra). Quella che tradizionalmente è chiamata Doxa doveva
invece svolgere l'ufficio positivo di rileggere il quadro dell'esperienza in
termini compatibili con le indicazioni della Verità: in pratica – secondo il
costume dei precedenti ionici – offriva cosmogonia, cosmologia e zoogonia,
probabilmente con dovizia di contributi, come risulta limpidamente dalla
preziosa testimonianza di Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro. È
significativo il fatto che di questo διάκοσμος così poco sia stato conservato:
come documenta anche l'urgenza della citazione di B8 da parte di Simplicio, è
plausibile che fossero gli elementi più originali del poema – soprattutto
premesse ed esposizione della Verità - ad attrarre l'attenzione dei compilatori:
καὶ εἴ τωι μὴ δοκῶ γλίσχρος, ἡδέως ἂν τὰ περὶ τοῦ ἑνὸς ὄντος ἔπη τοῦ Παρμενίδου
μηδὲ πολλὰ ὄντα τοῖσδε τοῖς ὑπομνήμασι παραγράψαιμι διά τε τὴν πίστιν τῶν ὑπ’ ἐμοῦ
λεγομένων καὶ διὰ τὴν σπάνιν τοῦ Παρμενιδείου συγγράμματος anche a costo di
sembrare insistente, vorrei aggiungere a questi miei appunti i non molti versi
di Parmenide 513 sull'essere uno, sia per il credito delle cose da me dette,
sia per la rarità dello scritto parmenideo (DK 28 A21). La seconda parte, in
fondo, rientrava nei canoni della produzione cosmogonico-cosmologica milesia:
non è un caso che di essa siano state tramandate, probabilmente, apertura e
conclusione. «...l'ordine delle mie parole...» Come abbiamo sottolineato in
precedenza, la Dea mette sull'avviso il proprio giovane interlocutore circa il
mutamento di registro: ἐν τῷ σοι παύω πιστὸν λόγον ἠδὲ νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης ·
δόξας δ΄ ἀπὸ τοῦδε βροτείας μάνθανε κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων. A questo
punto pongo termine per te al discorso affidabile e al pensiero intorno a Verità;
da questo momento in poi opinioni mortali impara, l’ordine delle mie parole
ascoltando, che può ingannare (vv. 50-52). Due dati risultano fuori
discussione: (i) l'abbandono dell'esposizione della «Verità»; (ii) il passaggio
alla considerazione di «punti di vista mortali» (δόξας βροτείας), in altri
termini di una prospettiva diversa rispetto a quella divina. Nel contesto della
narrazione ciò comporta da parte della Dea – che si rivolge a un essere umano –
adeguare il proprio registro espressivo: pur continuando la propria lezione,
ella avverte circa il potenziale disturbo (alla corretta intelligenza della
realtà) conseguenza dell'adozione di un lessico adeguato a quei punti di vista.
Come im precedenza denunciato (B8.38b-42), il linguaggio della pluralità e del
divenire è virtualmente foriero di contraddizione e il relativo correlato
oggettivo, il mondo delle cose in mutamento, è, dal punto di vista dell’essere,
apparenza. Dal momento che – nonostante le denunce di B6, B7 e dello stesso B8
– la 514 Dea insiste perché il kouros apprenda (μάνθανε) quei contenuti,
possiamo inferire che la sua esposizione: (a) non si concentrasse su opinioni
che il giovane allievo potesse da sé ricavare dall'esperienza; (b) né,
diffondendosi (secondo quanto ci attesta Plutarco) sugli aspetti fondamentali
della realtà naturale, avallasse opinioni erronee (per circa i 2\3 del poema!);
(c) piuttosto riconducesse l'esperienza umana all'interno della cornice della
verità. A sostegno di questa lettura possiamo addurre i versi conclusivi del
frammento (vv. 60-61): τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή
ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto appropriato,
per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa superarti. Si
tratta in pratica dell'osservazione finale di un inciso lungo 12 versi, a
cavallo tra Verità e Opinione, in cui la Dea (e il poeta attraverso la Dea)
offre indicazioni sul passaggio tra le due sezioni. Le scelte lessicali
sottolineano che l'esposizione successiva riguarderà l'organizzazione di una
pluralità: così al κόσμον ἐμῶν ἐπέων del v. 52 corrisponde, al v. 60
l'espressione διάκοσμον ἐοικότα πάντα. Che si tratti dell'ordine verbale ovvero
dell'ordinamento cosmico, è comunque implicito il rinvio a una molteplicità di
elementi da sistemare: è possibile che Parmenide giocasse proprio sulla doppia
valenza semantica di κόσμος, costrutto, disposizione, ma anche «mondo»,
accentuando i rischi della costruzione verbale (che può risultare
«ingannevole», ἀπατηλόν). L'enunciazione divina è comunque connotata
positivamente: il rilievo dei pronomi personali (σοι, ἐγὼ, σε) marca l'impegno
e la responsabilità della Dea, nei confronti del kouros, di fornire in ogni
modo una ricostruzione almeno relativamente plausibile del quadro complesso dei
fenomeni naturali. L'adozione di un'ottica «mortale» implica la dimensione qualitativa
dell'esperienza (in questo senso sembrerebbe scontato il ri- 515 chiamo a τὰ
δοκοῦντα), come rivelano in particolare le connotazioni delle «due forme»
(μορφαί δύο), e dunque l'adeguamento della prospettiva della comunicazione
divina: donde l'urgenza di ridefinire i tradizionali strumenti (il modello
oppositivo) di illustrazione dei fenomeni naturali, così da evitare le
contraddizioni stigmatizzate nei frammenti precedenti. Complessivamente la
preoccupazione è quella di fornire una spiegazione del mondo naturale
(διάκοσμος) comunque superiore a quella della concorrenza. Rispetto alla
sezione sulla Verità, in cui era essenziale determinare, con lo sguardo dell'intelligenza,
la compatta fisionomia dell'essere (attraverso i «segni» di B8), l'urgenza
avvertita nelle parole della Dea è quella di non abbandonare all'insignificanza
il mondo dell'esperienza. Un ordinamento verosimile Può essere utile, per
comprendere le movenze intellettuali di Parmenide, richiamare il testo di B4:
λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα νόῳ παρεόντα βεϐαίως· οὐ γὰρ ἀποτμήξει τὸ ἐὸν τοῦ ἐόντος
ἔχεσθαι οὔτε σκιδνάμενον πάντῃ πάντως κατὰ κόσμον οὔτε συνιστάμενον. Considera
come cose assenti siano comunque al pensiero saldamente presenti; non
impedirai, infatti, che l’essere sia connesso all’essere, né disperdendosi
completamente in ogni direzione per il cosmo, né concentrandosi. Se B4, la cui
collocazione nel poema rimane molto discussa, mostrava come per il νόος la
molteplicità dispersa degli enti (ἀπεόντα) «nel cosmo» (κατὰ κόσμον) si
riconducesse alla identità di τὸ ἐὸν, alla sua inscindibile connessione (τὸ ἐὸν
τοῦ ἐόντος 516 ἔχεσθαι), a partire dalla conclusione dell'attuale B8, dopo aver
illustrato quell’identità in cui tutte le cose si riassumono e averne
analizzato le proprietà, la Dea percorre in un certo senso la direzione
opposta. Ella indica, infatti, come quella molteplicità che si manifesta
all'esperienza, in cui l'intelligenza riconosce l'identità dell'essere, possa
essere correttamente intesa nelle sue dinamiche, senza pregiudizio per la
realtà annunciata dall'intelligenza. Parmenide non annuncia una distinzione di
piani di realtà (anticipando Platone), ma rileva come all'unica realtà si possa
guardare nell'ottica immediata dell'esperienza, ovvero attraverso il sondaggio
dell'intelligenza, ricavandone due immagini sostanzialmente diverse: nel primo
caso il quadro multiforme e plurale di dati mutevoli, nel secondo la sua
estrema rarefazione negli attributi di B8.1-49, in cui molteplicità,
differenza, movimento ecc. sono evaporati nella compattezza dell'essere. A
partire dalle consuetudini empiriche (richiamate in B7.3 nell'espressione ἔθος
πολύπειρον, «abitudine alle molte esperienze») si è spinti a considerare reale
una molteplicità di enti in divenire, che si rivelano in contraddizione con gli
esiti dell'esame cui l'intelligenza sottopone «ciò che è» (ἐὸν). Si
tratterebbe, in fondo, di una diversa, più coerente e radicale modulazione del
progetto di indagine ionico, almeno dando credito alla interpretazione
peripatetica delle origini, con la riduzione di «tutti gli enti» (ἅπαντα τὰ ὄντα)
all'unità di una «sostanza soggiacente» (οὐσία ὑπομενούσα), a un tempo
«principio» (ἀρχή), «elemento» (στοιχεῖον) e «natura» (φύσις) delle cose (τῶν ὄντων):
ἐξ οὗ γὰρ ἔστιν ἅπαντα τὰ ὄντα καὶ ἐξ οὗ γίγνεται πρώτου καὶ εἰς ὃ φθείρεται
τελευταῖον, τῆς μὲν οὐσίας ὑπομενούσης τοῖς δὲ πάθεσι μεταβαλλούσης, τοῦτο
στοιχεῖον καὶ ταύτην ἀρχήν φασιν εἶναι τῶν ὄντων, καὶ διὰ τοῦτο οὔτε γίγνεσθαι
οὐθὲν οἴονται οὔτε ἀπόλλυσθαι, ὡς τῆς τοιαύτης φύσεως ἀεὶ σωζομένης ciò da cui,
infatti, tutte le cose derivano il loro essere, e ciò da cui dapprima si
generano e verso cui infine si corrompono, permanendo per un verso la sostanza,
per altro invece mutando nelle affezioni, questo sostengono 517 essere elemento
e questo principio delle cose, e per questo credono che nulla né si generi né
si distrugga, dal momento che una tale natura si conserva sempre (Aristotele,
Metafisica I, 3 983 b8-13). Da un lato Parmenide riconosce nel fatto d'essere
la dimensione omogeneizzante che raccoglie a identità gli enti, ricavandone –
attraverso l'esclusione del non-essere – le proprietà. Dall'altro, dopo aver
denunciato le contraddizioni di fondo che minavano le cosmologie contemporanee,
offre nella Doxa una ricostruzione che colloca quanto si manifesta
nell'esperienza (τὰ δοκοῦντα) in un sistema esplicativo (διάκοσμος) adeguato (ἐοικότα)
– in esplicita coerenza con le indicazioni dei «segni» (σήματα) della via «che
è» (ὡς ἔστιν), come evidenzia ancora B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς, πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος
καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν Ma poiché tutte le
cose luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive
proprietà, [sono state attribuite] a queste cose e a quelle, tutto è pieno
egualmente di luce e notte invisibile, di entrambe alla pari, perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla, impiegando un lessico che è indiscutibilmente
quello della conoscenza e non dell'errore, come conferma B10: εἴσῃ δ΄ αἰθερίαν
τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο λαμπάδος ἔργ΄
ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα σελήνης καὶ
φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν ἄγουσ΄ ἐπέδησεν
Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων 518 Conoscerai la natura etereα e nell’etere tutti
i segni e della pura fiamma dello splendente sole le opere invisibili e donde
ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche della luna dall’occhio
rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo che tutto intorno cinge,
donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo vincolò a tenere i confini
degli astri. Diagnosi di un errore Dopo aver annunciato il passaggio dalla
«riflessione intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης) alle «opinioni mortali»
(δόξας βροτείας) e il mutamento di registro - dalla necessaria enunciazione di
«ciò che è è» (χρὴ τὸ λέγειν τò νοεῖν τ΄ ἐὸν ἔμμεναι, B6.1) all'ascolto
dell’«ordine delle mie parole che può ingannare» (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων,
B8.52) – la Dea concentra la propria attenzione, con una formula non priva di
ambiguità, su uno schema linguistico di cui riscontra e stigmatizza, in un
verso dal significato molto discusso, il limite concettuale: μορφὰς γὰρ
κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν· τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν
- · Presero la decisione, infatti, di dar nome a due forme, delle quali l’unità
non è [per loro] necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada
(B8.53-4). Di che cosa si tratta e a chi è riferita la decisione? Abbiamo
indicato in nota al testo le principali opzioni interpretative contemporanee:
in estrema sintesi, gli studiosi hanno individuato i destinatari della
contestazione o genericamente nei «mortali», intendendo l'universale approccio
umano al mondo naturale, o specificamente in una determinata posizione teorica
(per lo più nel pitagorismo antico). Ma non appare plausibile che il modello
519 (dualistico) cui la Dea allude possa essere fatto valere in generale per
gli esseri umani, né che esso, in particolare, possa univocamente riferirsi
alla riflessione cosmologica milesia (sebbene lo schema polare vi svolga un
ruolo rilevante). D'altra parte, la scelta di lasciare implicito il riferimento
potrebbe spiegarsi – all'interno della cultura aurale in cui matura l'opera di
Parmenide – con la possibilità da parte dell'audience di individuare facilmente
il soggetto: in questo senso potrebbe considerarsi credibile, a dispetto delle
nostre incertezze circa la sua fisionomia antica, la candidatura pitagorica.
Riteniamo, in ogni caso, che il poeta intenda contestare non ogni possibile
approccio "mortale", ma quello di un certo gruppo di pensatori, da
cui evidentemente egli ha interesse a prendere le distanze, per introdurre poi
un resoconto «appropriato», in relazione al quale impiega (in B9-10, come
abbiamo sopra segnalato) espressioni indiscutibilmente positive, difficilmente
riferibili a posizioni giudicate erronee. Due forme e la loro unità L'errore
fuorviante (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν: «in ciò sono andati fuori strada» v. 54b)
che viene imputato dalla Dea è delineato dapprima in termini formali,
distinguendone due momenti per focalizzare esattamente la sua genesi: (a) μορφὰς
γὰρ κατέθεντο δύο γνώμας ὀνομάζειν Presero la decisione, infatti, di dar nome a
due forme... (v. 53) (b) τῶν μίαν οὐ χρεών ἐστιν delle quali l’unità non è [per
loro] necessario [nominare] (v. 54a). I due versi, come risulta anche dalla
nostra rapida sintesi in nota al testo, sono stati oggetto di tormentate
analisi linguistiche, per decidere della costruzione del primo e del significato
del se- 520 condo. La nostra traduzione tiene conto delle diverse proposte
interpretative (e filologiche), senza pretendere di fare chiarezza: è
probabile, come suggerito da Mourelatos2, che il costrutto verbale fosse
intenzionalmente ambiguo, se non addirittura ironico, forse concepito per un
efficace attacco ad hominem. La diagnosi ruota intorno al punto (b): la Dea, in
altre parole, stando alla nostra ricostruzione del significato dei versi
parmenidei, censura (senza addebito esplicito) il mancato riconoscimento
dell'unità nelle due «forme» introdotte per dar conto dei fenomeni. Una lettura
nell'antichità già proposta da Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν
τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας si sono ingannati coloro
che non colgono l'unità nella opposizione degli elementi che producono la
generazione (Fisica 31.8-9). Per quanto ci è dato ricostruire dallo scarso
materiale conservato, nelle battute che segnano il passaggio alla Doxa la Dea
si intrattiene dapprima su un errore che evidentemente Parmenide considerava
strutturale almeno in certi resoconti cosmologici: ciò per assumerne un modello
(pitagorico?), evitandone a un tempo le implicazioni contraddittorie con
l'insegnamento della Alētheia. La preoccupazione di rilevare con precisione (ἐν
ᾧ, «in ciò...») la natura dell'erranza è probabilmente indice dell'esigenza di
procedere comunque con lo schema dualistico, tenendo lontano lo spettro del
non-essere. Si spiegherebbe così la cautela della Dea, la sua segnalazione
delle potenzialità fuorvianti del proprio discorso sulle «opinioni mortali»:
non a caso, dello schema adottato, subito si denuncia un impiego improprio, per
poi (B9) marcare la corretta impostazione ontologica: [...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ
φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων, ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν [...] tutto è
pieno egualmente di luce e notte invisibile, 2 Op. cit., pp. 228-9. 521 di
entrambe alla pari, perché insieme a nessuna delle due [è] il nulla (B9.3-4).
Il riscontro tra il passo conclusivo di B8 e B9 – che doveva seguire dappresso,
secondo le indicazioni di Simplicio (contesto di B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν...,
«poco dopo aggiunge...») – può autorizzare la lettura di Thanassas, secondo il
quale l'aggettivo ἀπατηλὸν andrebbe riferito alle «opinioni dei mortali»
criticate in B8.54-9, in stretta relazione con la formula «in questo si sono
ingannati» (ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν): essa esprimerebbe l’errore delle
ingannevoli δόξαι βροτείαι, preparando la correzione della «appropriata» (ἐοικότα)
Doxa divina3. In effetti la Dea così passa a determinare il modello dualistico
introdotto al v. 53: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων,
τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄
ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό τἀντία νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές
τε Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero separatamente
gli uni dagli altri: da una parte, della fiamma etereo fuoco, che è mite, molto
leggero, a se stesso in ogni direzione identico, rispetto all’altro, invece,
non identico; dall’altra parte, anche quello in se stesso, le caratteristiche
opposte: notte oscura, corpo denso e pesante (vv. 55-59). Rispetto alle
precedenti allusioni agli errori dei «mortali», qui indubbiamente la situazione
si presenta molto diversa. Confrontiamo, per esempio, questa analisi con la
requisitoria contro la ὁδός διζήσιός richiamata ai versi B6.4-9: 3 Op. cit., p.
65. 522 αὐτὰρ ἔπειτ΄ ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν πλάττονται, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα, οἷς τὸ πέλειν τε καὶ οὐκ εἶναι ταὐτὸν νενόμισται κοὐ
ταὐτόν, πάντων δὲ παλίντροπός ἐστι κέλευθος poi da quella [via] che mortali che
nulla sanno s’inventano, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti
guida la mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi,
sgomenti, schiere scriteriate, per i quali esso è considerato essere e non
essere la stessa cosa e non la stessa cosa: ma di [costoro] tutti il percorso
torna all'indietro. Nel contesto delle citazioni (DK 28 B6), Simplicio indica
l'errore contestato: i «mortali che nulla sanno» hanno trascurato la κρίσις
(decisione, scelta) tra τὸ ὂν καὶ τὸ μὴ ὂν, imponendo così di fatto l'identità
(εἰς ταὐτὸ συνάγουσι) tra essere e non-essere. Diverso il discorso a proposito
delle «opinioni mortali» criticate in B8, ancora secondo Simplicio: καὶ πεπλανῆσθαι
δέ φησι τοὺς τὴν ἀντίθεσιν τῶν τὴν γένεσιν συνιστώντων στοιχείων μὴ συνορῶντας
si sono ingannati coloro che non colgono l'unità nella opposizione degli
elementi che producono la generazione (Fisica 31, 8-9). In questo caso, ciò che
viene censurato è sostanzialmente l'errore opposto: il mancato rilievo
dell'unità delle «forme» nell'essere. Si può notare, allora, accostando
l'attenzione descrittiva di B8.55-59 alla dura requisitoria contro la
confusione dei δίκρανοι di B6, come nella conclusione di B8 la Dea manifesti
una diversa indulgenza per quelle convinzioni, di cui sembra rilevare pregi e
difetti. Ella in pratica parrebbe, a un tempo, insistere sullo schema
oppositivo e prendere le distanze, per i criteri ontologici della Alētheia, da
una sua specifica applicazione. In questo senso, in parti- 523 colare,
l'insistenza su una opposizione i cui membri risultano interamente separati e
indipendenti: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
[...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία [...] Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero
separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione identico,
rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche quello in se
stesso, le caratteristiche opposte [...]. Diventa allora difficile credere che
in B8.60-61, laddove afferma che: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς
οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto
adeguato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa
superarti, la dea si riferisca alle erronee concezioni dei mortali appena
determinate 4, mentre si rafforza l'impressione che il materiale frammentario
della Doxa costituisca il residuo di uno sforzo positivo di comprensione del
mondo naturale, definitosi proprio in relazione alla revisione di quello schema
oppositivo (come confermerebbe B9). 4 Su questo punto in particolare J.H.
Lesher, Early interest in knowledge, cit., p. 239. 524 Un modello elementare
Abbiamo inizialmente utilizzato il contesto della citazione dei versi
conclusivi di B8 da parte di Simplicio per osservare come il commentatore
segnalasse il passaggio tra le due sezioni del poema. Ora dobbiamo riprendere
quel contesto per determinare il modello proposto nella Doxa: συμπληρώσας γὰρ τὸν
περὶ τοῦ νοητοῦ λόγον ὁ Π. ἐπάγει ταυτί [vv. 50-61] μετελθὼν δὲ ἀπὸ τῶν νοητῶν ἐπὶ
τὰ αἰσθητὰ ὁ Π. ἤτοι ἀπὸ ἀληθείας, ὡς αὐτός φησιν, ἐπὶ δόξαν ἐν οἷς λέγει [vv.
50-52], τῶν γενητῶν ἀρχὰς καὶ αὐτὸς στοιχειώδεις μὲν τὴν πρώτην ἀντίθεσιν ἔθετο,
ἣν φῶς καλεῖ καὶ σκότος < ἢ > πῦρ καὶ γῆν ἢ πυκνὸν καὶ ἀραιὸν ἢ ταὐτὸν καὶ
ἕτερον, λέγων ἐφεξῆς τοῖς πρότερον παρακειμένοις ἔπεσιν [vv. 50-59] Concluso
infatti il discorso intorno all'intelligibile, Parmenide aggiunge [citazione
vv. 50-61] (Simplicio, Phys. 38, 28) Passando dagli intelligibili ai sensibili,
o dalla verità, come lui si esprime, all'opinione, Parmenide, in quei versi in
cui afferma [citazione vv. 50-52], pone a sua volta i principi elementari delle
cose generate, secondo la prima antitesi che egli chiama luce e tenebra o fuoco
e terra o denso e raro o identico e diverso, affermando, subito dopo i versi in
precedenza citati, [citazione vv. 50-59] (Simplicio, Phys. 30, 13). La Dea
prende dunque le mosse da uno schema in cui due μορφαί sono selezionate come
«opposti nel corpo» (ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας) e connotate con proprietà
reciprocamente ben distinte (σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων): i «segni» fisici
erano essenziali e funzionali evidentemente alla concreta esplicazione dei
fenomeni: τῇ μὲν φλογὸς αἰθέριον πῦρ, 525 ἤπιον ὄν, μέγ΄ ἐλαφρόν, ἀτὰρ τἀντία
νύκτ΄ ἀδαῆ, πυκινὸν δέμας ἐμϐριθές τε da una parte, della fiamma etereo fuoco,
che è mite, molto leggero dall’altra parte le caratteristiche opposte: notte
oscura, corpo denso e pesante (vv. 56b-59). Dalla testimonianza aristotelica
sappiamo che, tra i primi seguaci di Pitagora, qualcuno produsse un sistema
seriale di opposizioni entro cui è possibile riscontrare anche quella sfruttata
da Parmenide: ἕτεροι δὲ τῶν αὐτῶν τούτων τὰς ἀρχὰς δέκα λέγουσιν εἶναι τὰς κατὰ
συστοιχίαν λεγομένας, πέρας [καὶ] ἄπειρον, περιττὸν [καὶ] ἄρτιον, ἓν [καὶ] πλῆθος,
δεξιὸν [καὶ] ἀριστερόν, ἄρρεν [καὶ] θῆλυ, ἠρεμοῦν [καὶ] κινούμενον, εὐθὺ [καὶ]
καμπύλον, φῶς [καὶ] σκότος, ἀγαθὸν [καὶ] κακόν, τετράγωνον [καὶ] ἑτερόμηκες· ὅνπερ
τρόπον ἔοικε καὶ Ἀλκμαίων ὁ Κροτωνιάτης ὑπολαβεῖν, καὶ ἤτοι οὗτος παρ’ ἐκείνων ἢ
ἐκεῖνοι παρὰ τούτου παρέλαβον τὸν λόγον τοῦτον· καὶ γὰρ [ἐγένετο τὴν ἡλικίαν] Ἀλκμαίων
[ἐπὶ γέροντι Πυθαγόρᾳ,] ἀπεφήνατο [δὲ] παραπλησίως τούτοις· Altri di questi
stessi [Pitagorici] sostengono che i principi sono dieci, disposti in serie di
opposti: limite e illimite, dispari e pari, uno e molti, destro e sinistro,
maschio e femmina, fermo e mosso, diritto e curvo, luce e tenebra, buono e
cattivo, quadrato e rettangolo. Analogamente sembra pensasse Alcmeone, sia che
egli recuperasse da loro questa dottrina, sia che quelli la prendessero da lui:
Alcmeone, infatti, fiorì quando Pitagora era vecchio e professò una teoria
simile alla loro» (Metafisica I, 5 986 a22-31). Non è chiaro da dove Aristotele
- che, secondo la tradizione dossografica, avrebbe sviluppato specifiche
ricerche sui Pitagorici (Diogene gli attribuisce nel suo elenco delle opere sia
un Πρὸς 526 τοὺς Πυθαγορείους sia un Περὶ τῶν Πυθαγορείων) – abbia ricavato
quella tavola degli opposti, la cui antichità sarebbe attestata solo dal vago
accostamento alle idee del contemporaneo di Parmenide Alcmeone. Gli specialisti
sono divisi: Schofield5 ritiene che non ci siano in realtà elementi per
stabilirne l'originalità pitagorica, ipotizzando piuttosto una sua dipendenza
dal modello parmenideo. Più plausibile allora l'associazione con l'ambiente di
Filolao (seconda metà del V secolo a.C.)6. Ma di recente Kahn7, pur rilevando
nella doppia lista la possibilità di un'eco accademica, osserva come la
modalità con cui opposti astratti e concreti, matematici ed estetico-morali
sono combinati potrebbe rinviare effettivamente a uno schema arcaico. Essendo
implausibile (a causa dell’espliito riferimento a una «decisione»: κατέθεντο ὀνομάζειν)
che la fisica dualistica proposta rispecchiasse una prospettiva genericamente
umana, e che si riferisse direttamente solo alle cosmologie milesie (in cui il
dualismo oppositivo indubbiamente agisce), ammettendo che essa dovesse
risultare in ogni caso perspicua agli originari destinatari del poema, la
considerazione del contesto geografico e culturale entro cui Parmenide operò, e
le tenui indicazioni della tradizione dossografica: di; meno affidabile
Giamblico DK 28 A4): Ξενοφάνους δὲ διήκουσε Παρμενίδης Πύρητος Ἐλεάτης (τοῦτον
Θεόφραστος ἐν τῆι Ἐπιτομῆι Ἀναξιμάνδρου φησὶν ἀκοῦσαι). ὅμως δ’ οὖν ἀκούσας καὶ
Ξενοφάνους οὐκ ἠκολούθησεν αὐτῶι. ἐκοινώνησε δὲ καὶ Ἀμεινίαι Διοχαίτα τῶι
Πυθαγορικῶι, ὡς ἔφη Σωτίων, ἀνδρὶ πένητι μέν, καλῶι δὲ καὶ ἀγαθῶι. ὧι καὶ μᾶλλον
ἠκολούθησε καὶ ἀποθανόντος ἡρῶιον ἱδρύσατο γένους τε ὑπάρχων λαμπροῦ καὶ
πλούτου, καὶ ὑπ’ 5 Nel suo rifacimento dei capitoli pitagorici di Kirk-Raven
(nel capitolo su Filolao): G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, The Presocratic
Philosophy, C.U.P., Cambridge 19832, p. 339. 6 Una indicazione analoga si può
ricavare dal saggio di C.A. Huffman, The Pythagorean tradition, in Early Greek
Philosophy cit., p. 78 ss.. 7 Ch.H. Kahn, Pythagoras and the Pythagoreans,
Hackett, Indianapolis 2001, pp. 65-6. 527 Ἀμεινίου, ἀλλ’ οὐχ ὑπὸ Ξενοφάνους εἰς
ἡσυχίαν προετράπη Parmenide Eleate, figlio di Pireto, fu discepolo di Senofane
(Teofrasto nella Epitome dice che costui fu discepolo di Anassimandro).
Tuttavia, pur essendo stato discepolo anche di Senofane, non lo seguì. Secondo
quanto ha affermato Sozione, egli si associò al pitagorico Aminia, figlio di
Diochete, un uomo povero ma di grande valore. Costui preferì seguire, e quando
morì, dal momento che Parmenide era di una distinta casata e ricco, gli eresse
un monumento funebre. E da Aminia, non da Senofane, egli fu avviato alla
tranquillità [della vita contemplativa] (Diogene Laerzio; DK 28 A1) Ζήνωνα καὶ
Παρμενίδην τοὺς Ἐλεάτας· καὶ οὗτοι δὲ τῆς Πυθαγορείου ἦσαν διατριβῆς Anche gli
eleati Zenone e Parmenide appartenevano alla scuola pitagorica (Giamblico; DK
28 A4), può suggerire l'ipotesi che l'Eleate abbia ricavato da contemporanee
correnti pitagoriche lo schema cui sommariamente riferirsi8. In alternativa,
sfruttando il prezioso lavoro di Charles Kahn sull'origine degli
"elementi" nel mondo greco arcaico, si potrebbe rintracciare in
Parmenide l'eco di una tradizione che aveva fatto di Gaia (γαῖα) e Urano (οὐρανός)
i progenitori di tutti gli esseri, come si può ancora cogliere in Esiodo:
χαίρετε τέκνα Διός, δότε δ’ ἱμερόεσσαν ἀοιδήν· κλείετε δ’ ἀθανάτων ἱερὸν γένος
αἰὲν ἐόντων, οἳ Γῆς ἐξεγένοντο καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος, Νυκτός τε δνοφερῆς, οὕς
θ’ ἁλμυρὸς ἔτρεφε Πόντος Salve, figlie di Zeus, datemi l'amabile canto;
celebrate la sacra stirpe degli immortali, sempre viventi, 8 Dobbiamo tuttavia
ricordare, con Patricia Curd, che non si conosce alcuna cosmogonia presocratica
che cominci con Luce e Notte (The Legacy of Parmenides…, cit., p. 117). 528 che
da Gaia nacquero e da Urano stellato, da Notte oscura e quelli che nutrì il
salso Mare (Teogonia 104-107, traduzione Arrighetti), e più tardi nelle
laminette orfiche (V-IV secolo a.C.): ὐιὸς Βαρέας καὶ Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono
figlio della Greve e di Cielo stellante (laminetta di Ipponio) Γῆς παῖς εἰμι καὶ
Οὐρανοῦ ἀστερόεντος sono figlio di Terra e Cielo stellante» (laminetta di
Petelia)9. Un’opposizione ricorrente nella cultura arcaica, intrecciata a
quella tra regione celeste (οὐρανός), e regione della oscurità (Ade, Notte), in
cui, come mostra ancora Kahn10, αἰθήρ avrebbe poi sostituito οὐρανός, e ἀήρ
assorbito i caratteri della oscurità (come rivela, anche etimologicamente, la
formula omerica ζόφος ἠερόεις, «oscurità nebbiosa»). In Parmenide, insomma,
sarebbe possibile rintracciare un’estrema essenzializzazione e concentrazione
del lessico delle teogonie e cosmogonie, nell'alveo della riflessione
cosmologica dei Milesi, la quale, in estrema sintesi, aveva ricostruito gli
opposti elementari disponendo da un lato caldo, secco, luminoso e raro,
dall'altro freddo, umido, oscuro, denso. In questo senso egli avrebbe estratto
le sue due serie di proprietà (δυνάμεις) fondamentali: (i) αἰθέριον («etereo»),
[ἀραιόν] 11 («rarefatto»), ἤπιον («mite»), μέγ΄ ἐλαφρόν («molto leggero») sono
riferiti a φλογὸς πῦρ («fuoco di fiamma»); (ii) ἀδαῆ («oscura») è attributo
diretto di núx («notte»), mentre πυκινὸν («denso»), ἐμϐριθές («pesante»)
concordano con δέμας («corpo»), a sua volta in apposizione a νύξ. 9 Testo greco
e traduzione di G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1977, pp.
172-175. 10 Anaximander and the Origins of Greek Cosmology, Hackett, Indianapolis
1994, p. 152. 11 Secondo alcuni codici di Simplicio. 529 Se consideriamo nel
complesso le due liste, e riscontriamo l'incidenza di quelle connotazioni nella
tradizione delle opposizioni e degli elementi, non abbiamo in realtà bisogno di
coinvolgere indefiniti gruppi pitagorici: di quella tradizione Parmenide
avrebbe semplicemente riferito alla polarità πῦρ\νύξ i poteri (δυνάμεις)
cosmogonici essenziali, che altri avevano concentrato in sole e terra e che
Anassagora fisserà in αἰθήρ e ἀήρ. È significativo che ancora in Empedocle,
colui cui generalmente si riconosce l'introduzione del modello elementare (le
quattro radici), l'opposizione luce-oscurità giochi un ruolo rilevante: ἀλλ’ ἄγε,
τόνδ’ ὀάρων προτέρων ἐπιμάρτυρα δέρκευ, εἴ τι καὶ ἐν προτέροισι λιπόξυλον ἔπλετο
μορφῆι, ἠέλιον μὲν λευκὸν ὁρᾶν καὶ θερμὸν ἁπάντηι, ἄμβροτα δ’ ὅσσ’ εἴδει τε καὶ
ἀργέτι δεύεται αὐγῆι, ὄμβρον δ’ ἐν πᾶσι δνοφόεντά τε ῥιγαλέον τε· ἐκ δ’ αἴης
προρέουσι θελεμνά τε καὶ στερεωπά. Orsù, considera questa attestazione delle
cose dette prima, se mai anche nelle cose dette prima è mancato qualcosa alla
forma: il sole splendente a vedersi e caldo dappertutto, quante cose imperiture
sono immerse nel calore e nella luce irradiante, la pioggia in tutte le cose
oscura e gelida; e la terra da cui sorgono cose compatte e solide (DK 30 B21.1-6).
In ogni modo, come sappiamo, Parmenide intervenne a correggere quello schema
cosmogonico su un punto essenziale: l'assoluta posizione della separazione
delle due forme: ἀντία δ΄ ἐκρίναντο δέμας καὶ σήματ΄ ἔθεντο χωρὶς ἀπ΄ ἀλλήλων
[...] [...] ἑωυτῷ πάντοσε τωὐτόν, τῷ δ΄ ἑτέρῳ μὴ τωὐτόν· ἀτὰρ κἀκεῖνο κατ΄ αὐτό
τἀντία [...] 530 Scelsero invece [elementi] opposti nel corpo e segni imposero
separatamente gli uni dagli altri [...] [...] a se stesso in ogni direzione
identico, rispetto all’altro, invece, non identico; dall’altra parte, anche
quello in se stesso, le caratteristiche opposte [...] (vv. 55-59a), emendata
con la sottolineatura del fatto che esse sono e sono nell'essere: τῶν μίαν οὐ
χρεών ἐστιν - ἐν ᾧ πεπλανημένοι εἰσίν - · delle quali l’unità non è [per loro]
necessario [nominare]: in ciò sono andati fuori strada (v. 54).
Complessivamente il recupero e la correzione vanno nella direzione della
determinazione di due elementi-principi, qualitativamente connotati in funzione
della spiegazione dei fenomeni, di cui si rimarca che non sono frutto di una
indebita confusione tra essere e non-essere: in questo senso, come ha rilevato
Nehamas12, essi danno ragione di molteplicità e cambiamento nel mondo sensibile
mescolandosi in proporzioni differenti, senza che nessuno dei due si trasformi
nell'altro. Identico, non identico Comunque sia stato ricavato, dalla lezione
di contemporanei pitagorici, come alcuni credono, ovvero distillando un modello
dalla tradizione, come abbiamo ipotizzato, lo schema che Parmenide introduce ai
vv. 53 ss. rivela, una volta sottoposto all'esame dei criteri ontologici di
B8.1-49, la propria falla. Inquadrate all'interno della fondamentale
alternativa «è-non è», le polarità oppositive, nella loro identità con sé
stesse (ἑωυτῷ τωὐτόν) e reciproca 12 A. Nehamas, “Parmenidean Being/Heraclitean
Fire”, in Presocratic Philosophy, cit., pp. 61-62. 531 non-identità (τῷ δ΄ ἑτέρῳ
μὴ τωὐτόν), ovvero nella mutua esclusione, appaiono foriere di potenziale
contraddizione: donde l'esigenza di denunciare il rischio13. La situazione
appare paradossale, perché da un lato Parmenide, di fronte al compito di
spiegare τὰ δοκοῦντα, avrebbe recuperato il dualismo giudicandolo più coerente
con i criteri ontologici, rispetto, per esempio, alla cosmologia ionica che
cerca di dar ragione dei fenomeni facendo appello alle trasformazioni di un
singolo principio di base14; dall'altro, però, avrebbe avvertito l'implicita
debolezza del modello. Come abbiamo sopra sottolineato, il lessico dei
frammenti superstiti – che è lessico di conoscenza (B10: εἴσῃ «conoscerai»,
πεύσῃ «apprenderai», εἰδήσεις «conoscerai») - segnala che in qualche modo tale
debolezza era stata aggirata. La nostra lettura, tuttavia, non sembra aver
superato il paradosso: perché introdurre «due forme» e poi insistere sulla loro
unità? Aristotele, come abbiamo inizialmente avuto occasione di ricordare,
interpreta a suo modo: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ
ὂν τὸ μὴ ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν
[...], ἀναγκαζόμενος δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν
λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς
πάλιν τίθησι, θερμὸν καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν
τὸ θερμὸν τάττει θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν. Parmenide, invece, sembra in qualche
modo parlare con maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre
all’essere, il non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di
necessità uno e nient’altro. […] 13 In questo senso la Curd riferisce
correttamente la natura «enantiomorfa» del modello delineato nei versi
conclusivi di B8, ma secondo noi sbaglia ad attribuirlo a Parmenide, il quale,
invece, lo propone per sottolinearne il limite. 14 Nehamas, op. cit., pp.
61-62. 532 Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno sia
secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Solo per dar ragione dei fenomeni,
Parmenide avrebbe recuperato due principi (secondo i precedenti cosmologici) e
solo analogicamente avrebbe accostato la loro opposizione a quella di essere e
non-essere15: Simplicio ne coglie il senso citando B9: καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν
[...] εἰ δὲ "μη δετέρωιμέτα μηδέν " καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι
δηλοῦται e poco dopo ancora [citazione B9]; e se "insieme a nessuna delle
due è il nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che
sono opposti. Il commentatore rileva l'interesse del passo parmenideo
nell’esplicitazione del duplice aspetto di φῶς e νύξ: per le loro proprietà
costitutive - che condensano le tradizionali opposizioni elementari – e nella
misura in cui escludano il nulla, esse possono fungere da ἀρχαὶ. Pur opposte
nei loro «segni», entrambe «sono»: «luce è» e «notte è». Insomma, l'Eleate
avrebbe conservato un consolidato schema esplicativo del mondo fenomenico,
emendandone le implicazioni inaccettabili sul piano ontologico: la mutua
esclusione degli opposti doveva evitare la trasformazione dell'uno nell'altro,
senza spingersi tuttavia fino alla loro assolutizzazione. Presero la decisione
di dar nome... Il passaggio dalla prima alla seconda sezione del poema è
sottolineato dalla antitesi tra «pensiero intorno a Verità» (νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης)·e
«opinioni mortali» (δόξας βροτείας): come già 15 Così interpreta Mansfeld, op.
cit., pp. 137-139. 533 indicato nei versi che precedono, una componente
essenziale dell'opinare umano è riscontrata nel linguaggio, o, meglio,
nell'arbitrio delle convenzioni linguistiche. In questo senso era stata netta
la presa di posizione di B8.38b-41: τῷ πάντ΄ ὄνομ΄ ἔσται, ὅσσα βροτοὶ κατέθεντο
πεποιθότες εἶναι ἀληθῆ, γίγνεσθαί τε καὶ ὄλλυσθαι, εἶναί τε καὶ οὐχί, καὶ τόπον
ἀλλάσσειν διά τε χρόα φανὸν ἀμείϐειν Per esso [ciò che è] tutte le cose saranno
nome, quante i mortali stabilirono, convinti che fossero reali: nascere e
morire, essere e non essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore. Alla
necessità («unica parola ancora rimane», μόνος δ΄ ἔτι μῦθος λείπεται) con cui,
in apertura di B8, si erano imposti la prospettiva della «via che è» (ὁδοῖο ὡς ἔστιν)
e il riconoscimento della relativa sequenza di «segni» («su questa [via] sono
segnali molto numerosi: che...», ταύτῃ δ΄ ἐπὶ σήματ΄ ἔασι πολλὰ μάλ΄, ὡς...),
la Dea ha modo di contrapporre, introducendo le «opinioni mortali», la
decisione di «nominare» (κατέθεντο ὀνομάζειν), ovvero la scelta di «opposti» (ἀντία
ἐκρίναντο δέμας) e l'imposizione di «segni» (σήματ΄ ἔθεντο). Non sorprende,
dunque, che ella metta sull'avviso il kouros circa le potenzialità fuorvianti
dell'espressione di quelle convinzioni umane (κόσμον ἐμῶν ἐπέων ἀπατηλὸν ἀκούων).
Il passaggio fa registrare dunque una significativa svolta nell'atteggiamento
intellettuale proposto all'interno dell’esposizione divina. Da una
considerazione puramente razionale della realtà, che abbraccia con
l'intelligenza il tutto come tale, omogeneizzandolo nell'essere e guadagnandone
argomentativamente le proprietà, nella seconda sezione l'attenzione si sposta
sul complesso dei fenomeni e quindi non può prescindere dal dato sensibile:
questo non comporta comunque una forma di "empirismo", come confermano
appunto i rilievi circa la rielaborazione "umana" della Doxa
attraverso lo schema degli opposti. La posizione introdotta non è assimilabile
a quella stigmatizzata in B7.3- 5a: 534 μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε
βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle
molte esperienze su questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che
non vede e l’orecchio risonante e la lingua. L'operazione di riduzione dei
fenomeni naturali alla coppia «luce-notte» è certamente altra cosa rispetto
alla meccanica e irriflessa assuefazione al dato empirico (ἔθος πολύπειρον),
pur avendo di mira la stessa realtà attestata e accettata sulla scorta
dell'esperienza (τὰ δοκοῦντα). La rielaborazione è valorizzata da Parmenide
soprattutto nella sua dimensione linguistica e\o categoriale: l'insistenza su
formule verbali che implicano valutazione (κατέθεντο, ἐκρίναντο) e disposizione
(ἔθεντο) è infatti associata al rilievo del «nominare» (ὀνομάζειν). Così la Dea
attribuisce il compito di ordinare il campo dei fenomeni all'umana risorsa del
classificare (attraverso i nomi), sebbene ella individui esplicitamente nei
nomi l'origine di un potenziale fraintendimento della realtà (come denuncia
B8.38b-41). Anche questo contribuisce a spiegare il cambiamento di registro
all'interno del poema e il richiamo ai rischi impliciti nella comunicazione
della Doxa. Questi rilievi non devono spingere a concludere che il mondo della
Doxa sia appunto un mondo puramente "verbale", inconsistente, illusorio:
non condividiamo l'opinione di Nehamas, secondo cui la Doxa proporrebbe una
descrizione accurata di apparenze, la quale, per quanto accurata, rimarrebbe
pur sempre descrizione di apparenze, dunque di un mondo falso16. È vero
piuttosto che Parmenide aveva denunciato tale illusione nell'immagine della
realtà - in sé contraddittoria – caratteristica di coloro che in B6.4-5 sono
apostrofati come βροτοὶ εἰδότες οὐδέν e δίκρανοι. La seconda sezione del poema,
al contrario, era probabilmente intesa 16 A. Nehamas, “Parmenidean
Being/Heraclitean Fire”, cit., p. 63. 535 come alternativa alle cosmologie
ioniche17: una grande sintesi enciclopedica che avrebbe dovuto illustrare la
superiorità della sua analisi ontologica. L'orgoglio dell'impresa potrebbe
ancora riflettersi nelle battute conclusive del frammento: τόν σοι ἐγὼ
διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ
Questo ordinamento, del tutto verosimile, per te io espongo, così che mai
alcuna opinione dei mortali possa superarti (vv. 60-61). D'altra parte, se
l'intelligenza applicata alla riflessione su «ciò che è», alla totalità
dell'essere, manifestava proprietà rigorosamente riconducibili all'alternativa
«è»-«non-è», risulta invece evidente, nei versi tràditi della seconda sezione,
l'impegno a dare conto dell'impianto della realtà fenomenica, delle strutture
portanti del cosmo dell'esperienza umana. L'eco, nelle parole della Dea, del
tradizionale motivo dell'opposizione di sapere umano e divino, nonché l'uso di
espressioni, come δοκίμως (B1.32, «realmente», ma anche «plausibilmente») e ἐοικότα
(B8.60, «appropriato», «adeguato», ma anche «verosimile», «probabile»)
potrebbero segnalare, da parte di Parmenide, la consapevolezza dei limiti della
περὶ φύσεως ἱστορία. Spesso nella letteratura si è, su questo punto, evocato il
possibile esempio di Senofane: καὶ τὸ μὲν οὖν σαφὲς οὔ τις ἀνὴρ ἴδεν οὐδέ τις ἔσται
εἰδὼς ἀμφὶ θεῶν τε καὶ ἅσσα λέγω περὶ πάντων· εἰ γὰρ καὶ τὰ μάλιστα τύχοι
τετελεσμένον εἰπών, αὐτὸς ὅμως οὐκ οἶδε· δόκος δ’ ἐπὶ πᾶσι τέτυκται Davvero
l'evidente verità nessun uomo la conosce, né mai ci sarà 17 Come ipotizza
Graham (Explaining the Cosmos…, cit., p. 184), è forse possibile che la sfida
fosse lanciata anche a Esiodo, considerato alla stregua di un cosmologo. 536
chi sappia intorno agli dei e alle cose che io dico, su tutte: se, infatti,
ancora gli capitasse di dire la verità compiuta in sommo grado, lui stesso non
lo saprebbe; opinione è data su tutte le cose (DK 21 B34) ταῦτα δεδοξάσθω μὲν ἐοικότα
τοῖς ἐτύμοισι Siano queste cose credute simili a cose vere (DK 21 B35) ὁππόσα δὴ
θνητοῖσι πεφήνασιν εἰσοράασθαι Tutte le cose che essi [gli dei] hanno mostrato
ai mortali perché le osservassero (DK 21 B36) οὔ τοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’
ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον Gli dei dall'inizio non
hanno rivelato tutte le cose ai mortali, ma nel tempo ricercando essi trovano
ciò che è meglio (DK 21 B18). Graham18 ha di recente rilanciato l'accostamento,
rilevando come i frammenti di Senofane avrebbero presentato, tra VI e V secolo,
qualcosa di simile a uno status quaestionis, una prima meditazione sui limiti
della conoscenza del mondo naturale, concludendo che essa non sarebbe sicura.
Posizione analoga a quella del giovane contemporaneo Alcmeone: περὶ τῶν ἀφανέων,
περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι Sulle
cose invisibili, sulle cose mortali gli dei possiedono la certezza, ma gli
uomini devono imparare per inferenza (DK 24 B1)19. 18 Explaining the Cosmos…,
cit., p. 176. 19 Come abbiamo in precedenza ricordato, del testo greco esiste
oggi una versione proposta da M.L. Gemelli Marciano (“Lire du début…, cit., pp.
7- 37), che ha espunto la virgola tra i due complementi iniziali, offrendo
quindi un senso profondamente diverso: Il pensatore di Crotone (che Diogene
Laerzio vuole discepolo di Pitagora e dunque proveniente dalla stessa area
geografica e culturale di Parmenide) avrebbe ripreso la tradizionale
opposizione (μὲν θεοὶ... δὲ ἀνθρώποις) per precisare come gli uomini abbiano
solo la possibilità di procedere per evidenze sensibili e relative inferenze.
Parmenide potrebbe aver reagito alle provocazioni di Senofane indicando come in
realtà fosse possibile una conoscenza dimostrativa sicura di «ciò che è»,
sforzandosi poi, negli ultimi versi del nostro frammento, di rintracciare delle
linee di stabilità che consentissero di riordinare il campo fenomenico alla
luce delle indicazioni ontologiche, come rivelerebbero chiaramente i «segni»
attribuiti alle due «forme». περὶ τῶν ἀφανέων περὶ τῶν θνητῶν σαφή- νειαν μὲν
θεοὶ ἔχοντι, ὡς δὲ ἀνθρώποις τεκμαίρεσθαι sulle cose mortali gli dei possiedono
la certezza, ma a noi, in quanto uomini, è dato solo di trovare degli
indizi.Simplicio offre, nel caso di B9, un'indicazione preziosa, ancorché
approssimativa, circa la sua collocazione nel poema parmenideo. Afferma infatti
il commentatore (contesto DK 28 B9): καὶ μετ’ ὀλίγα πάλιν [citazione B9] εἰ δὲ
‘μη δετέρωι μέτα μηδέν ’ καὶ ὅτι ἀρχαὶ ἄμφω καὶ ὅτι ἐναντίαι δηλοῦται e dopo
poco aggiunge ancora: [citazione B9]. E se "con nessuna delle due è il
nulla", egli dice chiaramente che entrambi sono principi e che sono
opposti. Dal momento che il rilievo è posto subito dopo la citazione di
B8.53-59, è facile concludere che i quattro versi di B9 seguissero dappresso la
conclusione di B8, anche se non necessariamente come prosecuzione (come
ipotizza Cerri1 ). Appare di conseguenza discutibile la scelta di alcuni
editori (Coxon, Collobert) di collocarli dopo B10 e B11 (ovvero di ipotizzare
la successione B11- B10-B9, come fa O' Brien), o addirittura, dopo altri
intervalli testuali, subito prima di B19 (Mansfeld), nonostante l'evidenza di
una relazione tra B9, 10 e 11, come introduzione generale all'esposizione
cosmologico-cosmogonica della Doxa. Tutte le cose sono state denominate In
effetti, dopo l'esordio di B8.50-61, B9 condivide con B19 l'importante
riferimento agli ὀνόματα e all'attività di ὀνομάζειν, che abbiamo visto essere
centrale nella costruzione della cosmologia parmenidea. In particolare, nelle
prime battute di B9 troviamo un accenno al ruolo d'ordine delle due μορφάι: αὐτὰρ
ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε
καὶ τοῖς 1 Op. cit., p. 255. 539 Ma poiché tutte le cose luce e notte sono
state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà, [sono state
attribuite] a queste cose e a quelle (vv. 1-2). Nella dimensione plurale delle
cose (πάντα) attestate dall’esperienza e che l'intelligenza ha riassunto
nell’omogeneità dell'essere, il compito di φάος καὶ νὺξ è quello di classificare
e discriminare: secondo il modello che abbiamo riscontrato nel commento al
frammento precedente, lo schema oppositivo distribuisce sul complesso dei
fenomeni le «proprietà» (δυνάμεις, «potenze»), i σήματα che accompagnano le due
μορφάι, così riordinando, attraverso un'articolazione elementare, il mondo
empirico. Dopo aver messo a fuoco la nozione di τò ἐόν, comune denominatore che
contraddistingue la realtà, raccogliendo a unità la totalità degli enti, e
averne approfondito le implicazioni (alla luce della κρίσις: ἔστιν ἢ οὐκ ἔστιν),
Parmenide delinea una strategia conseguente di recupero del cosmo
dell’esperienza umana: Luce e Notte dovranno spiegare l'apparire senza che
venga ammesso come principio il nulla2. Alcuni accostamenti verbali manifestano
questa operazione. Al verso B8.24b la Dea aveva sottolineato (i): πᾶν δ΄ ἔμπλεόν
ἐστιν ἐόντος ma tutto pieno è di ciò che è, dopo aver ricordato (ii): οὐδέ τι τῇ
μᾶλλον, τό κεν εἴργοι μιν συνέχεσθαι, οὐδέ τι χειρότερον né c’è qui qualcosa di
più che possa impedirgli di essere continuo, né [lì] qualcosa di meno
(B8.23-24a), e soprattutto (iii): 2 Ruggiu, op.cit., p. 326. 540 οὐδὲ διαιρετόν
ἐστιν, ἐπεὶ πᾶν ἐστιν ὁμοῖον Né è divisibile, poiché è tutto omogeneo (B8.22).
A questa rappresentazione della omogeneità e compattezza dell'essere possiamo
far corrispondere l'affermazione centrale del nostro frammento: πᾶν πλέον ἐστὶν
ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου ἴσων ἀμφοτέρων tutto è pieno ugualmente di luce e
notte invisibile di entrambe alla pari (B9.3-4a), dove l'originario nesso
ontologico di totalità e pienezza (πᾶν δ΄ ἔμπλεόν ἐστιν ἐόντος) è declinato al
duale (πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς), salvaguardando comunque l'esigenza di
uniforme densità e continuità – veicolata in B8 da espressioni come ὁμοῦ πᾶν
(B8.5), πᾶν ἐστιν ὁμοῖον (B8.22), oltre che da συνεχές (B8.6) e συνέχεσθαι
(B8.23) e ribadita in B9 dalla formula πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ e dalla
precisazione incidentale ἴσων ἀμφοτέρων. Insieme a nessuna delle due è il nulla
Ma, al di là di queste convergenze che paiono indiscutibili, il διάκοσμος
proposto dalla Dea esplicitamente rileva il dato discriminante rispetto alle
narrazioni cosmogoniche, la preoccupazione ontologica essenziale a tutela della
fondatezza della ricostruzione: ἐπεὶ οὐδετέρῳ μέτα μηδέν perché insieme a
nessuna delle due [è] il nulla (B9.4). Per quanto orientata a ordinare ciò che
è registrato a livello empirico e che τὸ νοεῖν (il pensare) ovvero il νόος
(l'intelligenza) o ancora il λόγος (il discorso argomentativo) confermano
nell'unità di τò ἐόν, la scelta del modello oppositivo e della relativa
disposizione seriale (l'aristotelica συστοιχία) di δυνάμεις (proprietà) riba-
541 disce l'assoluta esclusione del «nulla» (μηδέν). Insomma, il linguaggio
della doxa ripropone quello della alētheia, sottolineando, sul terreno
dell'apparire, la propria continuità con il νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, quasi che la
doxa, nel suo insieme e a dispetto dell'insidia degli ὀνόματα, ne costituisse
la diretta prosecuzione3. Perché, ci si potrebbe chiedere, Parmenide avrebbe
dovuto affiancare alla Verità il resoconto plausibile di una realtà già
ridotta, nei suoi tratti caratterizzanti, ai σήματα di B8? B9 può contribuire a
una risposta, soprattutto considerandone la collocazione a ridosso della
dichiarazione conclusiva di B8: τόν σοι ἐγὼ διάκοσμον ἐοικότα πάντα φατίζω, ὡς
οὐ μή ποτέ τίς σε βροτῶν γνώμη παρελάσσῃ Questo ordinamento, del tutto
appropriato, per te io espongo, così che mai alcuna opinione dei mortali possa
superarti. L'orizzonte dell'esperienza è ineludibile per un mortale; così
l'insegnamento divino della verità è proceduto di pari passo con una puntuale
disamina degli errori umani, in larga misura condizionati da scriteriate
assunzioni empiriche: μηδέ σ΄ ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω, νωμᾶν ἄσκοπον
ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su
questa strada ti faccia violenza, a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio
risonante e la lingua (B7.3-5a). Proprio per la sua ineludibilità, la Dea si
impegna a fornire gli strumenti per una ricostruzione adeguata di
quell'orizzonte, che ne conservi la fisionomia pluralista e qualitativa, senza
contraddire nella sostanza le indicazioni della Verità. B9 si inserisce appunto
in questo contesto, con le sue "istruzioni" circa l'ordinamento lin-
3 Ibidem. 542 guistico del mondo dell'esperienza e il suo
"riempimento" a opera delle due «forme» nominate, con opportuno
esorcismo del «nulla». Una soluzione per garantire in ogni senso la superiorità
del discente dalla concorrenza di potenziali resoconti alternativi. In questa
prospettiva, la probabile ampia articolazione della Doxa ancora attestata –
come sappiamo - da Plutarco (Contro Colote 1114b; DK 28 B10): ὅς γε καὶ
διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ
φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ
οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς
ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν, οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν,
τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del mondo e mescolando come
elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i fenomeni da questi e
mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla terra, e sul cielo e sul
sole e sulla luna e tratta anche dell'origine degli uomini: nulla ha taciuto
circa le cose più importanti, come si addice a uomo arcaico nello studio della
natura e che ha composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro, può
far sorgere il sospetto che la relativamente più contenuta trattazione della
Verità fosse funzionale al coerente consolidamento della trattazione
cosmologica e cosmogonica. Tutto è pieno di luce e notte Se osserviamo la
costruzione del frammento, possiamo notare un passaggio significativo per la
complessiva interpretazione della Doxa: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
[...] πᾶν πλέον ἐστὶν ὁμοῦ φάεος καὶ νυκτὸς ἀφάντου 543 Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, [...] tutto è pieno ugualmente di luce e
notte invisibile. La consistenza del mondo della nostra esperienza dipende
dalla coerenza della sua costruzione linguistica: dopo (i) aver rifiutato le
interpretazioni che pretendevano coniugare essere e nonessere (B6 e B7), (ii)
aver individuato un modello (linguistico) di base, imperniato sullo schema
polare delle nozioni luce-notte (B8.53-4), (iii) averne rilevato i limiti
(B8.55-59), e (iv) bandito esplicitamente l'implicazione del «nulla» (B9.4),
Parmenide se ne serve (v) distribuendone le rispettive proprietà su tutte le
cose. In altre parole, egli procede a connotare, attraverso gli ὀνόματα delle
due μορφάι – e i relativi σήματα -, i vari aspetti fenomenici: la luce è
associata a caldo, leggero, raro; la notte a freddo, pesante, denso, come
possiamo evincere da B8.56-9 e dallo scolio a B8 di Simplicio: καὶ δὴ καὶ
καταλογάδην μεταξὺ τῶν ἐπῶν ἐμφέρεταί τι ῥησείδιον ὡς αὐτοῦ Παρμενίδου ἔχον οὕτως·
ἐπὶτῶι δέ ἐστι τὸ ἀραιὸν καὶ τὸ θερμὸν καὶ τὸ φάος καὶ τὸ μαλθακὸν καὶ τὸ κοῦφον,
ἐπὶ δὲτῶιπυκνῶι ὠνόμασται τὸ ψυχρὸν καὶ τ ὸ ζ ό φ ο ς καὶ σκληρὸν καὶ βαρύ· tra
i versi è riportato un passo in prosa come fosse dello stesso Parmenide; esso
afferma: «per questo ciò che è raro è anche caldo, e luce e morbidezza e
leggerezza; per la densità invece il freddo è indicato come oscurità, durezza e
pesantezza». Quanto è stato denominato conformemente a tale strategia assume lo
spessore di un mondo comune, condiviso: non a caso, dopo aver impiegato in
premessa l'espressione πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται, al v. 3 la Dea conclude
che πᾶν πλέον ἐστὶν φάεος καὶ νυκτὸς. 544 Le due «forme» concorrono alla
composizione del mondo: la loro complicità nell'opposizione assicura la
stabilità del mondo4. Il fatto che entrambe siano parte dell'Essere rende
possibile una fisica della mescolanza (κρᾶσις) 5. La κρᾶσις funge così da
principio di costituzione di tutte le cose: l'uguaglianza delle due forme e la
presenza delle rispettive potenze spiega come ogni cosa sia costituita insieme
(anche se non nella stessa misura) di Luce e Notte6. È tuttavia necessario
ricordare – con Conche 7 - che le due μορφάι parmenidee non sono assimilabili
agli elementi di Empedocle o degli atomisti: non si tratta di principi eterni e
immutabili, ma di «forme» nominate dai mortali, di cui la Dea si serve ad hoc,
per una adeguata spiegazione dell'universo delle «opinioni mortali». Ciò deve
rendere cauti rispetto a una loro ontologizzazione: nulla ne giustifica
l'assolutizzazione al di fuori di questo mondo. 4 Conche, op. cit., p. 201. 5
Ruggiu. I tre frammenti B10-11-12 sono conservati da due fonti diverse:
Clemente Alessandrino (II-III secolo d.C
.) e Simplicio (tuttavia B11 in un passo del commento al De caelo, B12
in due passi del commento alla Fisica): solo il secondo ci fornisce, per B12,
un’indicazione approssimativa circa la collocazione relativa: μετ’ ὀλίγα δὲ
πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...]
poco più avanti [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa
efficiente, dicendo così [B12.1-3] [...] Ricordiamo che con analoga approssimazione
(«poco dopo») era stata introdotta la citazione di B9, il cui testo avrebbe
seguito dappresso B8.59. Almeno i versi di B12, dunque, dovevano trovarsi a
ridosso di B8 e B9: certamente dopo B8. Il contesto delle altre due citazioni e
il loro contenuto concorrono a suggerire una stretta relazione di B12 con B10 e
B11, e, ulteriormente, dei tre frammenti con B9, anche se sono state proposte
diverse soluzioni circa la loro effettiva sequenza. B13, infine, conservato da
varie fonti (Platone, Aristotele, Plutarco, Sesto Empirico, Stobeo, Simplicio),
viene citato da Simplicio in stretta connessione con B12. Clemente (autore che
rivela dimestichezza con il poema, risultando unica fonte di quasi tutto quello
che cita) introduce e accompagna B10 con queste parole: ἀφικόμενος οὖν ἐπὶ τὴν ἀληθῆ
μάθησιν ὁ βουλόμενος ἀκουέτω μὲν Παρμενίδου τοῦ Ἐλεάτου ὑπισχνουμένου ‘ε ἴ σ η
ι... ἄ σ τ ρ ω ν ’ pervenuto alla vera conoscenza [di Cristo], chi vuole
ascolti Parmenide di Elea che promette «tu conoscerai... degli astri». Il
commentatore neoplatonico, a sua volta, ci informa che: 546 Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν
ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν
μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide intorno alle cose sensibili
afferma di aver intenzione di dire [citazione B11] e descrive l'origine delle
cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli animali.
Evidentemente la funzione dei due testi citati era prolettica rispetto alla
vera e propria descrizione cosmogonica e cosmologica: dal momento che Plutarco
(Contro Colote 1114b, contesto di DK 28 B10) ci documenta l'articolazione della
Doxa parmenidea, utilizzando ancora la sua testimonianza possiamo tracciare una
loro plausibile posizione: ὅς γε καὶ διάκοσμον πεποίηται καὶ στοιχεῖα μιγνὺς τὸ
λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν ἐκ τούτων τὰ φαινόμενα πάντα καὶ διὰ τούτων ἀποτελεῖ· καὶ
γὰρ περὶ γῆς εἴρηκε πολλὰ καὶ περὶ οὐρανοῦ καὶ ἡλίου καὶ σελήνης καὶ γένεσιν ἀνθρώπων
ἀφήγηται· καὶ οὐδὲν ἄρρητον ὡς ἀνὴρ ἀρχαῖος ἐν φυσιολογίαι καὶ συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν, τῶν κυρίων παρῆκεν Ha costruito anche un sistema del
mondo e mescolando come elementi la luce e la tenebra, fa derivare tutti i
fenomeni da questi e mediante questi. Ha detto in effetti molte cose sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna e tratta anche dell'origine degli
uomini: nulla ha taciuto circa le cose più importanti, come si addice a uomo
arcaico nello studio della natura e che ha composto uno scritto proprio – non
distruzione di un altro. Plutarco offre diversi spunti per il nostro
orientamento nella seconda parte del poema, suggerendo almeno tre cose
fondamentali sulla sua struttura: (i) intanto che la costruzione del «sistema
del mondo», annunciata in conclusione di B8, è, per quanto consta all'autore,
chiaramente responsabilità di Parmenide: διάκοσμον πεποίηται sottoli- 547 nea
l'originalità dell'impresa scientifica. Ciò è ribadito in conclusione: «ha
composto uno scritto proprio – non distruzione di un altro» (συνθεὶς γραφὴν ἰδίαν,
οὐκ ἀλλοτρίας διαφθοράν); (ii) poi che la scelta degli elementi (στοιχεῖα) è
funzionale al progetto scientifico: la ricognizione cosmologica (διάκοσμον)
implica la ricostruzione comogonica; la struttura del cosmo la sua produzione.
Con la proposta di due principi il filosofo assicura la spiegazione fenomenica
(conclusione di B8 e B9): «mescolando come elementi la luce e la tenebra»
(στοιχεῖα μιγνὺς τὸ λαμπρὸν καὶ σκοτεινὸν), egli produce il suo διάκοσμος. Da e
per mezzo di quegli elementi (ἐκ τούτων [...] καὶ διὰ τούτων) ricava (ἀποτελεῖ)
«tutti i fenomeni» (τὰ φαινόμενα πάντα); (iii) infine che il progetto
scientifico doveva essere ambizioso, dire «molto» («molte cose», πολλὰ) «sulla
Terra, e sul Cielo e sul Sole e sulla Luna»: si tratta evidentemente del tema
cui alludono programmaticamente B10-11 e che B12 sviluppa. Doveva poi procedere
a delineare l'«origine degli uomini» (γένεσις ἀνθρώπων): ne abbiamo tracce in
B13 (e successivi). Potremmo così avere conferma della bontà dell'attuale
successione, ovvero supporre una sistemazione leggermente diversa. La natura
programmatica di B10 e B11, attestata dalla ricorrenza di formule illocutorie
(εἴσῃ, πεύσῃ, εἰδήσεις) che ricorda la protasiinvocazione alle Muse della
Teogonia esiodea1, unitamente alla considerazione che B9 ne costituisce il
fondamento (funzione dei principi), potrebbe suggerire una posposizione dello
stesso B92. A ciò osta sostanzialmente l'indicazione (comunque approssimativa)
di Simplicio, nel contesto di B9, circa la prossimità della citazione alla
conclusione della precedente (B8.53-9). D'altra parte è chiaro come B10
costituisca una sorta di indirizzo della Dea a Parmenide, analogo a quello che
chiude il proemio: ci troveremmo in questo senso in presenza di un
"secondo" 1 Cerri, op. cit., p. 263. 2 Ruggiu, op. cit., p. 332. 548
proemio3. B10 e B11 annunciano – Clemente parla di Parmenide «che promette» (ὑπισχνούμενος)
- e descrivono sommariamente il programma scientifico (spiegazione cosmogonica
e cosmologica) che B12 contribuisce a realizzare. Con B10 e B11 siamo, insomma,
ancora al prologo, al profilo preliminare; con B12 alla descrizione dei
processi e della struttura del cosmo, che Aëtius e Cicerone (DK 28 A37) ci
aiutano a ricostruire. B9, in questo contesto, sembra effettivamente, più che
una tessera programmatica vera e propria, un rilievo delle conseguenze
immediate, sul piano cosmologico e cosmogonico, dell'opzione per le due «forme»
(B8.53-59), e quindi fungere solo in questo senso da cerniera introduttiva.
O'Brien4, in alternativa, vi ha colto, dopo l'annuncio degli argomenti
principali (B11) e il passaggio alle «opere» del Sole e della Luna (B10), una
precisazione sulla natura delle due «forme», prima dell'introduzione della
δαίμων che le «governa» (la sequenza sarebbe dunque: B11-B10-B9- B12). La
disposizione proposta da Diels-Kranz appare comunque credibile e soprattutto
compatibile con le indicazioni di Simplicio. Conoscere la natura La Dea dunque
preannuncia (promette) al proprio discepolo un grandioso disegno scientifico: εἴσῃ
δ΄ αἰθερίαν τε φύσιν τά τ΄ ἐν αἰθέρι πάντα σήματα καὶ καθαρᾶς εὐαγέος ἠελίοιο
λαμπάδος ἔργ΄ ἀίδηλα καὶ ὁππόθεν ἐξεγένοντο, ἔργα τε κύκλωπος πεύσῃ περίφοιτα
σελήνης καὶ φύσιν, εἰδήσεις δὲ καὶ οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα ἔνθεν ἔφυ τε καὶ ὥς μιν
ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων. 3 Per questo in passato Bicknell
propose di integrare i versi di B10 nel prologo del poema (P.J. Bicknell,
«Parmenides, fragment 10», Hermes 95, 1968, pp. 629.631). 4 Études sur
Parménide, cit., I, p. 246-7 (in particolare nota 33). 549 Conoscerai la natura
eterea e nell’etere tutti i segni e della pura fiamma dello splendente Sole le
opere invisibili e donde ebbero origine, e le opere apprenderai periodiche
della Luna dall’occhio rotondo, e la [sua] natura; conoscerai anche il cielo
che tutto intorno cinge, donde ebbe origine e come Necessità guidandolo lo
costrinse a tenere i confini degli astri. La promessa è quella di: (i) far
«conoscere» (εἰδέναι) «la natura eterea» (αἰθερίαν φύσιν) e «tutti i segni»
(πάντα σήματα) nell'etere; (ii) e le «opere invisibili (distruttive)» (ἔργ΄ ἀίδηλα)
del Sole e «ciò da cui» (ὁππόθεν) esse si generarono (ἐξεγένοντο); (iii) far
«apprendere» (πεύθεσθαι) «le opere» (ἔργα) della Luna e «la [sua] natura»
(φύσιν); (iv) far «conoscere» (εἰδέναι) «il cielo» (οὐρανὸν) «che tiene tutto
intorno» (ἀμφὶς ἔχοντα) e «da che cosa» (ἔνθεν) «scaturì» (ἔφυ); (v) far
conoscere come Necessità (Ἀνάγκη) «incatenò» (ἐπέδησεν) il cielo a «mantenere
nei loro limiti» (πείρατ΄ ἔχειν) gli astri. Il contesto della citazione di B11
(nel commento di Simplicio al De caelo) conferma questo disegno di Parmenide:
Π. δὲ περὶ τῶν αἰσθητῶν ἄρξασθαί φησι λέγειν·[citazione B11] καὶ τῶν γινομένων
καὶ φθειρομένων μέχρι τῶν μορίων τῶν ζώιων τὴν γένεσιν παραδίδωσι. Parmenide
intorno alle cose sensibili afferma di aver intenzione di dire [B11] e descrive
l'origine delle cose che si generano e si corrompono, fino alle parti degli
animali. 550 Conche5 ha osservato, a proposito di questi rilievi, come
Simplicio evidenzi l'ampiezza e la verticalità dell'indagine parmenidea,
evocando nelle scelte verbali (generazione-corruzione, parti degli animali) i
temi poi trattati da Aristotele, e la centralità dei processi naturali
nell'esplicazione dei fenomeni: il mondo è opera della natura. D'altra parte
non è sfuggita agli studiosi l'eco di questo indirizzo cosmogonico di B10 in
Empedocle (DK 31 B38): εἰ δ’ ἄγε τοι λέξω πρῶθ’ † ἥλιον ἀρχήν †, ἐξ ὧν δῆλ’ ἐγένοντο
τὰ νῦν ἐσορῶμεν ἅπαντα, γαῖά τε καὶ πόντος πολυκύμων ἠδ’ ὑγρὸς ἀήρ Τιτὰν ἠδ’ αἰθὴρ
σφίγγων περὶ κύκλον ἅπαντα. Orsù, ti dirò delle cose prime e; da cui divenne
manifesto tutto quanto ora vediamo, terra e mare dalle molte onde e aria umida
e il Titano etere che cinge in cerchio tutte le cose. L'impressione è che
Empedocle si sia direttamente ispirato al modello parmenideo introducendo la
sezione astronomica del proprio poema 6. Le opere della natura Di questo
programma scientifico (abbiamo già osservato, nel commento di B8.50-61,
l'insistenza della Dea sulle formule di conoscenza di B10) sono da notare in
particolare: (a) il nesso ribadito tra φύσις e ἔργα, e (b) l'uso di espressioni
come ὁππόθεν ἐξεγένοντο (che abbiamo reso come «donde ebbero origine») e
l'equivalente ἔνθεν ἔφυ. Al centro della comunicazione della Dea ritroviamo
dunque un modello di sapere che si definisce per la capacità di ricostruire la
«generazione» dei fenomeni, con l'esplicito accostamento di φύσις e γένεσις:
nel contesto il primo termine 5 Op. cit., pp. 210-11. 6 Cerri, op. cit., p.
259. 551 – che abbiamo per lo più tradotto come «natura» - designa appunto ciò
che dà origine (φύω, «dare origine»), la cui attività generatrice si traduce in
ἔργα. Conoscere la natura significa allora riconoscere i processi di
formazione, il manifestarsi dell'origine (φύσις, γένεσις) nei «segni» (σήματα),
nei fenomeni celesti; Parmenide evidentemente non allude con φύσις a un’immota
identità, a un'essenza che con la propria stabile determinatezza consenta di
classificare i fenomeni 7: in questo senso la formula «donde ebbero origine» (ὁππόθεν
ἐξεγένοντο) riprende e rilancia la ricerca milesia dell'ἀρχή8. Nell'indirizzo
della Dea è allora possibile intravedere una doppia direzione di indagine: (i)
quella che dai σήματα, dagli ἔργα, dai fenomeni astronomici risale alla natura
che li esprime; (ii) quella che dalla φύσις discende ai relativi ἔργα 9. Nella
stessa direzione, precisando il disegno, B11: πῶς γαῖα καὶ ἥλιος ἠδὲ σελήνη αἰθήρ
τε ξυνὸς γάλα τ΄ οὐράνιον καὶ ὄλυμπος ἔσχατος ἠδ΄ ἄστρων θερμὸν μένος ὡρμήθησαν
γίγνεσθαι. [...] come Terra e Sole e Luna, l'etere comune e la Via Lattea e
l'Olimpo estremo e degli astri l'ardente forza ebbero impulso a generarsi. In
questo caso, di alcuni elementi essenziali del quadro cosmologico si prospetta
la genesi marcandone lo spunto immanente: a conferma del fatto che Parmenide
non intende semplicemente descrivere un ordine cosmico, stabilire ruoli e
posizioni relative, ma produrre una cosmogonia. La combinazione di ὁρμᾶν e
γίγνεσθαι è indicativa della sua nozione di φύσις: essa in ogni fenomeno è la 7
In questa direzione anche la lettura di Conche, op. cit., pp. 204-5. A noi
pare, tuttavia, che Parmenide intenda esporre anche la «costituzione»
dell'etere o della luna, analizzarne la composizione. 8 Su questo punto si veda
Ruggiu, op. cit., pp. 333-5. 9 Ibidem. 552 δύναμις che si esprime in «segni» e
«opere». Ovvero, richiamando l'attacco di B9: αὐτὰρ ἐπειδὴ πάντα φάος καὶ νὺξ ὀνόμασται
καὶ τὰ κατὰ σφετέρας δυνάμεις ἐπὶ τοῖσί τε καὶ τοῖς Ma poiché tutte le cose
luce e notte sono state denominate, e queste, secondo le rispettive proprietà
[δυνάμεις], [sono state attribuite] a queste cose e a quelle (vv.1-2), potremmo
concordare con Ruggiu10 che le due «forme» originarie – Luce e Notte – si
manifestano come δυνάμεις nella φύσις di ogni cosa: esse, sotto questo profilo,
costituirebbero l'unica natura delle cose. Opere invisibili, opere periodiche
Quello che, nei versi del poema che ci sono conservati, ancora possiamo
"catturare" della grandiosa sintesi cosmologica cui allude Plutarco è
lo sforzo di elaborazione cosmogonica. Essa traspare, come abbiamo rilevato,
nella insistenza sulla γένεσις, nella centralità del tema della φύσις, ma anche
nelle scelte verbali che tendono a marcare - si veda, per esempio, il passaggio
dal passato11 di πλῆντο al presente di ἵεται in B12.1-2 - gli effetti durevoli
dei processi generativi nella struttura cosmica: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς
ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα Quelle più strette
[interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive [si
riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco. 10 Ibidem.
11 Sia nella forma, da noi accolta, dell'aoristo, sia in quella del perfetto
medio (πλῆνται), proposta in alternativa. 553 È infatti probabile che B12
alluda proprio alla formazione e articolazione dello spazio cosmico (come
vedremo meglio più avanti), delineando costituzione del centro terrestre del
sistema (sfera terrestre e suo interno infuocato), della periferia celeste
(sfera solida esterna e sfera ignea interna), e dello spazio intermedio in cui
si muovono i corpi celesti. Esplicita in B12.3 è anche l'introduzione della
«Dea che tutto governa» (δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ) e della sua funzione
"copulatrice": ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις
ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di
tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al
femminile (B12.3-6). Ma che lo sguardo del poeta – nei versi superstiti - non
sia rivolto tanto alla contemplazione di un ordine da cui ricavare o in cui
riscontrare armonie ed equilibri strutturali, ovvero modelli geometrici, quanto
al compiaciuto rilevamento della fecondità, dell'impeto (μένος) generativo che
nell'universo manifesta la natura, emerge nei versi in cui la Dea – riferendosi
a Sole e Luna – insiste non sulla loro posizione relativa nel sistema o sulla
loro relazione reciproca (a Parmenide dobbiamo il riconoscimento della
riflessione lunare della luce solare), ma sulle loro «opere», rispettivamente
«invisibili» (ovvero «distruttive») e «periodiche», cioè sul loro contributo ai
processi cosmici. Articolando il programma scientifico annunciato in B10, B11
si riferisce al «come» (πῶς) Terra, Sole, Luna e etere «ebbero impulso a
generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), dunque al processo di formazione del cosmo a
partire dalle due potenze originarie. Il legame con B9, infatti, doveva essere
molto stretto, perché, come abbiamo già ricordato, la citazione dei primi 3
versi di B12 è registrata nel seguente contesto: μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν
δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως [...] poco più avanti
[B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,
dicendo così [vv. 1-3]. Se è valida la ricostruzione per lo più accettata, i
versi di B12 dovevano seguire di poco B9, e dunque l'introduzione degli elementi
materiali (στοιχεία); d'altra parte essere dappresso anche a un primo
riferimento alla struttura delle «corone» (στεφάναι) cosmiche, di cui ci dà
notizia Aëtius (A37), dal momento che a esse rinviano implicitamente in
apertura: αἱ γὰρ στεινότεραι πλῆντο πυρὸς ἀκρήτοιο, αἱ δ΄ ἐπὶ ταῖς νυκτός, μετὰ
δὲ φλογὸς ἵεται αἶσα· ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· Quelle più
strette [interne], infatti, si riempirono di fuoco non mescolato; le successive
[si riempirono] di notte, ma insieme si immette una porzione di fuoco; in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Corone cosmiche Il processo cui
alludono i versi doveva fornire le coordinate essenziali per la comprensione
dell'universo parmenideo, relati- 555 vamente alla sua configurazione e
composizione. La scarsità (nei numeri e nella consistenza) dei frammenti
superstiti, purtroppo, non ci consentono di delinearle se non in modo
estremamente approssimativo: così sappiamo (B10.5-7) del «cielo che tutto
intorno cinge» (οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα) e di come esso sia stato vincolato da
Necessità (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη) «a tenere i confini degli astri» (πείρατ΄ ἔχειν
ἄστρων); B11 conferma la presenza di un «Olimpo estremo» (ὄλυμπος ἔσχατος) – il
cielo di cui sopra, umschliessende Firmament come lo definisce Diels12 - e di
uno spazio etereo (αἰθήρ τε ξυνὸς), con esso (ma la relazione è indefinita nel
testo) nominando Terra (che secondo la tradizione delle testimonianze antiche
consideriamo il centro del sistema) e pianeti; B12 poi, come abbiamo ricordato,
sintatticamente sembra sottendere il riferimento a una struttura ad «anelli» o
«corone» (στεφάναι) concentrici. Un senso complessivo a questi cenni
cosmologici riusciamo a garantirlo grazie alla preziosa (quanto discussa)
testimonianza di Aëtius, che fornisce, partendo da Teofrasto, il quadro
d'insieme entro cui collocarli: Π. στεφάνας εἶναι περιπεπλεγμένας, ἐπαλλήλους,
τὴν μὲν ἐκ τοῦ ἀραιοῦ, τὴν δὲ ἐκ τοῦ πυκνοῦ· μικτὰς δὲ ἄλλας ἐκ φωτὸς καὶ
σκότους μεταξὺ τούτων. καὶ τὸ περιέχον δὲ πάσας τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν,
ὑφ’ ὧι πυρώδης στεφάνη, καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης
[sc. Στεφάνη]. τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν > τε καὶ
< αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα κυβερνῆτιν
καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην. καὶ τῆς μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι
τὸν ἀέρα διὰ τὴν βιαιοτέραν αὐτῆς ἐξατμισθέντα πίλησιν, τοῦ δὲ πυρὸς ἀναπνοὴν τὸν
ἥλιον καὶ τὸν γαλαξίαν κύκλον. συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος
καὶ τοῦ πυρός. περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων 12 Parmenides Lehrgedicht, cit.,
p. 104. 556 τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν,
ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. Parmenide [afferma che] ci sono corone, l'una intorno
all'altra in successione, una costituita dal raro, l'altra dal denso; tra
queste ve ne sono altre miste di luce e oscurità. Ciò che tutte le avvolge è
solido come un muro, sotto il quale è una corona ignea; solido è anche ciò che
è al centro di tutto, intorno al quale è, ancora, una corona ignea13. Delle
corone miste [di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e
causa di movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che
governa e Giustizia che tiene le chiavi14 e Necessità. L'aria è secrezione
della Terra, evaporata a causa della sua [della Terra] compressione più
intensa, e il Sole e la Via Lattea sono esalazioni del fuoco; la Luna
mescolanza di entrambi, dell'aria e del fuoco. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37). Parmenide avrebbe introdotto una
cosmologia fondata sulla nozione di στεφάνη, da intendere probabilmente come
«anello» cilindrico (Cicerone traduce coronae similem). Secondo Teofrasto,
dunque, il cosmo celeste dell'Eleate era costituito da στεφάναι concentriche,
anelli alternativamente di «rado» (ἐκ τοῦ ἀραιοῦ) e 13 Il testo greco καὶ τὸ
μεσαίτατον πασῶν στερεόν, περὶ ὃ πάλιν πυρώδης sarebbe in realtà interpolato:
come sottolinea Franco Ferrari (nel suo recente Il migliore dei mondi
impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, cit., pp. 88-9), στερεόν è
infatti una integrazione, e περὶ ὃ un emendamento. Il testo alternativo
restaurato sarebbe: καὶ τὸ μεσαίτατον πασῶν περι < ι > όν πάλιν πυρώδης,
«e la circonferenza al centro di tutte [le corone] è di nuovo [una corona]
ignea». 14 Il greco stabilito da Diels - κληιδοῦχον Δίκην – è emendazione del
testo dei manoscritti: κληροῦχον Δίκην, «Giustizia che indirizza le sorti».
Simplicio, dopo aver citato B13, osserva in effetti: καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ
μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν φησιν, «[Parmenide sostiene
che la dea] invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora in senso
opposto». 557 di «denso» (ἐκ τοῦ πυκνοῦ), che presentavano quindi la purezza
degli elementi-principi. Tra questi (μεταξὺ τούτων) erano poi dislocate altre
corone «miste di luce e oscurità» (μικτὰς ἐκ φωτὸς καὶ σκότους), con una
evidente corrispondenza nei «segni»: ἐκ τοῦ ἀραιοῦ/ἐκ φωτὸς, ἐκ τοῦ πυκνοῦ/ἐκ
σκότους. Il cosmo finito era avvolto da una sfera solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας
τ ε ί χ ο υ ς δίκην στερεὸν ὑπάρχειν), secondo quanto indicato in B10.5: οὐρανὸν
ἀμφὶς ἔχοντα, altrimenti evocato (B11.2-3) come ὄλυμπος ἔσχατος. L'espressione
conclusiva τὰ περίγεια suggerisce che al centro del sistema cosmico si trovasse
la Terra, come confermano, sempre sulla scorta di Teofrasto, Diogene Laerzio e
Aëtius (DK 28 A1, A44): πρῶτος δὲ οὗτος τὴν γῆν ἀπέφαινε σφαιροειδῆ καὶ ἐν
μέσωι κεῖσθαι questi [Parmenide] fu il primo a sostenere che la Terra ha forma
di sfera e giace al centro [dell'universo] Π., Δημόκριτος διὰ τὸ πανταχόθεν ἴσον
ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον
ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· διὰ τοῦτο μόνον μὲν κραδαίνεσθαι, μὴ κινεῖσθαι δέ
Parmenide e Democrito sostengono che la Terra, essendo a uguale distanza da
tutte le parti, rimane in equilibrio, non avendo causa per cui debba inclinare
da una parte piuttosto che dall'altra. Per questo trema soltanto e non si
muove. La struttura del cosmo Seguendo le indicazioni di Teofrasto riferite da
Aëtius, analogamente al centro sferico (τὴν γῆν [...] σφαιροειδῆ καὶ ἐν μέσωι
κεῖσθαι) dobbiamo supporre sferica almeno la solida parete esterna (τ ε ί χ ο υ
ς δίκην στερεὸν) del cosmo - «ciò che tutto avvolge» (τὸ περιέχον δὲ πάσας).
Qui incontriamo una prima difficoltà: la 558 consistenza attribuita al
contenitore cosmico (appunto la parete solida esterna cui allude Aëtius)
dovrebbe comportare – per rispettare i σήματα associati alle due μορφάι – la
sua natura densa e oscura; d'altra parte Aëtius sottolinea come l'«etere»
avvolga tutto «dall'esterno [ovvero dalla posizione superiore]» (περιστάντος δ’
ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος). Diels15 identificava tale «muro» (Mauer) con una
sfera di pura Notte, esterna a una sfera di puro Fuoco, che complessivamente
costituivano la coppia di στεφάναι concentriche periferiche, contrastate, al
centro del sistema, da una coppia corrispondente: una sfera esterna di Notte
densa (la superficie terrestre) e una interna di puro fuoco (fuoco vulcanico).
Di recente Franco Ferrari 16 ha ribadito questo modello, tra l'altro proponendo
una revisione del testo greco di Aëtius che rende coerente l'ipotesi di Diels
con le indicazioni che giungevano da Teofrasto. Anche Tarán17 sottolinea la
corrispondenza tra τὸ περιέχον στερεὸν (A37), οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα (B10) e ὄλυμπος
ἔσχατος (B11), riducendolo a una solida sfera di Notte, sebbene poi la sua
struttura cosmica diverga in parte da quella dielsiana, per una diversa
interpretazione delle στεινότεραι στεφάναι (coincidenti, secondo lo studioso
americano, con gli anelli che contengono le stelle). Altri, tuttavia, hanno
contestato questa ricostruzione. Coxon18, per esempio, pur rilevando che la
testimonianza di Aëtius appare parafrasi dei versi di B12, e concedendo che
l'accostamento al muro di una città (τ ε ί χ ο υ ς δίκην) potrebbe essere stato
dello stesso Parmenide (dal momento che ricorre in un contesto pitagorico alla
fine di un saggio di Massimo di Tiro, II secolo), denuncia come l'asserzione su
τὸ περιέχον στερεὸν risulti fraintendimento di ὄλυμπος ἔσχατος: l'οὐρανὸς di
Parmenide non sarebbe dunque solido (cioè composto di Notte), ma etereo, come
si ricaverebbe dall'incrocio delle attestazioni di Aëtius e Cicerone: 15 Nella
sua edizione del 1897, cit., p. 104. 16 Il migliore dei mondi impossibili,
cit., pp. 88-90. 17 Op. cit., p. 241. 18 Op. cit., pp. 235-236. 559 περιστάντος
δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’ ὅπερ
κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi avvolge tutto
dall'esterno [dalla posizione superiore], e al di sotto di esso è disposto
quell'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo; sotto di questo le regioni
intorno alla Terra (Aëtius; DK 28 A37) nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum [...] Parmenide elabora
qualcosa di fittizio: simile a una corona (egli la chiama στεφάνην), una sfera
di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli denomina dio [...]
(Cicerone; DK 28 A37). L'orbis lucis di Cicerone coinciderebbe con l'αἰθήρ di
Aëtius: Parmenide distinguerebbe il fuoco dall'etere: l'etere – secondo Aëtius
– costituirebbe in Parmenide la regione estrema dell'universo, governando il
cielo delle stelle fisse (οὐρανὸς) 19. Ruggiu20 interpreta le indicazioni dei
frammenti e delle testimonianze in modo analogo. Il termine στεφάνη nel pensiero
arcaico designerebbe una formazione di tipo circolare sviluppata intorno a un
punto centrale: dal momento che al centro delle στεφάναι in Parmenide sta la
Terra, concepita come sferica, la struttura dei cieli sarebbe sferica: la
periferia sarebbe occupata da una sfera di fuoco; l'elemento che tutto
contiene, ancora igneo, sarebbe della consistenza di un solido muro. D'accordo
sostanzialmente Cerri21: nel complesso delle στεφάναι – corone sferiche
concentriche – la più esterna, il confine limite dell'universo visibile,
sarebbe formata da uno strato di «etere rigido», avvolgente un'altra corona di
etere rarefatto e igneo, denominata οὐρανός. 19 Ivi, p. 227. 20 Op. cit., p.
343. 21 Op. cit., p. 266. 560 Parmenide avrebbe previsto, nel suo cosmo, una
doppia funzione per il cielo, che ancora può intravedersi nei frammenti: esso
è, per un verso, (i) οὐρανὸν ἀμφὶς ἔχοντα, quindi fisicamente limitante,
circoscrivente; per altro (ii) vincolante: «Necessità guidando lo vincolò a
tenere i confini degli astri» (ἄγουσ΄ ἐπέδησεν Ἀνάγκη πείρατ΄ ἔχειν ἄστρων). Il
cielo, dunque, è anche legame per tutti gli elementi celesti: gli astri,
dislocati sulle στεφάναι, con i rispettivi moti, immersi al suo interno
nell'etere (ἐν αἰθέρι) 22. In effetti risulta evidente, nelle testimonianze, il
nesso tra cielo ed etere. Parmenide avrebbe indicato due aree nell'etere
celeste: (i) l'etere che si estende tutto intorno al cosmo, libero da astri;
(ii) l'etere popolato da astri, condensazioni di fuoco23. A questo
alluderebbero le espressioni ἐν τῶι αἰθέρι·e ἐν τῶι πυρώδει di Aëtius A40a: Π.
πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ καὶ Ἕσπερον, ἐν
τῶι αἰθέρι· μεθ’ ὃν τὸν ἥλιον, ὑφ’ ὧι τοὺς ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ ο ὐ ρ α
ν ὸ ν καλεῖ Parmenide dispone per primo nell'etere Eos, considerato da lui
identico a Espero. Dopo quello dispone il Sole, sotto il quale sono gli astri
nella zona ignea che chiama cielo. Alla luce delle indicazioni che si possono
ricavare dai frammenti e soprattutto da Aëtius, l'etere si estenderebbe tra la
fascia più interna del sistema cosmico - densa di «aria» secreta dalla Terra (τῆς
μὲν γῆς ἀπόκρισιν εἶναι τὸν ἀέρα A37) - e la volta esterna (ὄλυμπος ἔσχατος),
che tuttavia potrebbe essere stata concepita a sua volta come etere rigido. Il
termine οὐρανὸς appare nelle testimonianze di Aëtius con i significati correnti
nella tradizione peripatetica (Teofrasto): molto chiaramente la struttura
celeste delineata e il lessico adottato riflettono la lezione di Aristotele: 22
Ruggiu, op. cit., p. 336. 23 Conche, op. cit., p. 213. 561 Εἴπωμεν δὲ πρῶτον τί
λέγομεν εἶναι τὸν οὐρανὸν καὶ ποσαχῶς, ἵνα μᾶλλον ἡμῖν δῆλον γένηται τὸ
ζητούμενον. Ἕνα μὲν οὖν τρόπον οὐρανὸν λέγομεν τὴν οὐσίαν τὴν τῆς ἐσχάτης τοῦ
παντὸς περινὸν περιφορᾶς, ἢ σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός· εἰώθαμεν
γὰρ τὸ ἔσχατον καὶ τὸ ἄνω μάλιστα καλεῖν οὐρανόν, ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί
φαμεν. Ἄλλον δ’ αὖ τρόπον τὸ συνεχὲς σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ
σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων· καὶ γὰρ ταῦτα ἐν τῷ οὐρανῷ εἶναί φαμεν. Ἔτι
δ’ ἄλλως λέγομεν οὐρανὸν τὸ περιεχόμενον σῶμα ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιφορᾶς· τὸ γὰρ
ὅλον καὶ τὸ πᾶν εἰώθαμεν λέγειν οὐρανόν. Τριχῶς δὴ λεγομένου τοῦ οὐρανοῦ, τὸ ὅλον
τὸ ὑπὸ τῆς ἐσχάτης περιεχόμενον περιφορᾶς ἐξ ἅπαντος ἀνάγκη συνεστάναι τοῦ
φυσικοῦ καὶ τοῦ αἰσθητοῦ σώματος διὰ τὸ μήτ’εἶναι μηδὲν ἔξω σῶμα τοῦ οὐρανοῦ
μήτ’ ἐνδέχεσθαι γενέσθαι. Prima dobbiamo dichiarare che cosa diciamo essere il
cielo e in quanto modi lo diciamo, perché diventi più chiaro l'oggetto
d'indagine. In un senso dunque diciamo cielo la sostanza dell'estrema volta del
tutto, cioè il corpo naturale nell'estrema volta del tutto; è appunto la
regione estrema e più elevata che siamo soliti chiamare cielo, in cui
affermiamo aver sede tutto quanto è divino. In altro senso [diciamo cielo] il
corpo contiguo all'estrema volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e
alcuni degli astri; anche questi, in effetti, affermiamo essere nel cielo. In
un altro senso ancora, diciamo cielo il corpo abbracciato [compreso] dall'estrema
volta; siamo soliti, infatti, definire cielo l'universo e il tutto [ovvero:
l'intero universo]. Essendo inteso il cielo in questi tre modi, l'intero
abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il corpo naturale
e sensibile, poiché nessun corpo esiste, 562 né è possibile si generi fuori del
cielo (Aristotele, De caelo I, 9 278 a9-25). È plausibile che nella propria
sintesi Aristotele tenesse conto anche della cosmologia parmenidea ovvero di un
modello analogo o condiviso (pitagorico?) dall'Eleate: in effetti «il corpo
naturale nell'estrema volta del tutto» (σῶμα φυσικὸν τὸ ἐν τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ
τοῦ παντός) richiama sia «il cielo che tutto intorno cinge» (B10.5 οὐρανὸν ἀμφὶς
ἔχοντα) sia l'«Olimpo estremo» (B11.2- 3 ὄλυμπος ἔσχατος), anche per la sua
associazione al «divino» (ἐν ᾧ καὶ τὸ θεῖον πᾶν ἱδρῦσθαί φαμεν). È per altro
chiaro che quando Aëtius (A40a) parla di «astri nella zona ignea che
[Parmenide] chiama cielo» (ἐν τῶι πυρώδει ἀστέρας, ὅπερ οὐρανὸν καλεῖ) si
riferisce a ciò che Aristotele indicava come «il corpo contiguo all'estrema
volta del tutto, in cui sono la Luna e il Sole e alcuni degli astri» (τὸ συνεχὲς
σῶμα τῇ ἐσχάτῃ περιφορᾷ τοῦ παντός, ἐν ᾧ σελήνη καὶ ἥλιος καὶ ἔνια τῶν ἄστρων).
Interessante il rilievo aristotelico circa l'accezione "cosmica" di οὐρανός:
«l'intero abbracciato dall'estrema volta consiste di necessità di tutto il
corpo naturale e sensibile, poiché nessun corpo esiste, né è possibile si
generi fuori del cielo». La tentazione di una lettura "cosmica" di
Parmenide B8 è molto forte: la compiutezza dell'essere manifestata dalla
sfericità, traduceva in immagine ontologica la perfezione che la doxa poteva
riscontrare nell'universo compiuto e intero (τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν) di cui parla
Aristotele. In conclusione non si può dunque non ribadire la difficoltà nella
ricostruzione del quadro cosmologico del poema: troppo frammentarie le
citazioni e troppo condizionate dal lessico e dalla concettualità della
posteriore tradizione le testimonianze. Come abbiamo constatato, sono pochi i
dati certi sulla struttura cosmica: (i) la forma complessivamente sferica del
centro (Terra) e della periferia (τὸ περιέχον, ovvero ὄλυμπος ἔσχατος, «Olimpo
estremo»), pensata come una parete solida (τὸ περιέχον δὲ πάσας τείχους δίκην
στερεὸν); 563 (ii) l'esistenza di una prima fascia celeste superiore eterea,
composta cioè di corone, anelli cilindrici, di puro Fuoco; di una seconda
fascia intermedia di corone in cui Fuoco e Notte sono compresenti; di una terza
fascia a ridosso della superficie della Terra, corrispondente a una atmosfera
aerea prodotta dalle evaporazioni terrestri; (iii) la distribuzione dei corpi
celesti tra le prime due fasce (sulla loro disposizione le indicazioni non sono
concordi). La δαίμων e il cosmo Il contesto e la citazione di B12, insieme alla
relativa testimonianza di Aëtius, pongono un ulteriore problema interpretativo:
quello relativo alla posizione e al ruolo della δαίμων che lì viene evocata:
μετ’ ὀλίγα δὲ πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν
λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ... κυβερνᾶι ’. [...] καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων
μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς
παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ ’ ἐπὶ... θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος
μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δαίμονα
τίθησιν. poco dopo [B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la
causa efficiente, dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo
dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla
generazione, Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli
pone la causa efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è
causa di ogni generazione ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει 564 πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον
αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose
governa. Di tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione,
spingendo l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il
maschile al femminile (B12.3-6) τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità (Aëtius; DK 28 A37). Il neoplatonico
Anatolio di Laodicea (III secolo d.C.) offre un'ulteriore indicazione: πρὸς
τούτοις ἔλεγον περὶ τὸ μέσον τῶν τεσσάρων στοιχείων κεῖσθαί τινα ἑναδικὸν
διάπυρον κύβον, οὗ τὴν μεσότητα τῆς θέσεως καὶ Ὅμηρον εἰδέναι [...]. ἐοίκασι δὲ
κατά γε τοῦτο κατηκολουθηκέναι τοῖς Πυθαγορικοῖς οἵ τε περὶ Ἐμπεδοκλέα καὶ
Παρμενίδην καὶ σχεδὸν οἱ πλεῖστοι τῶν πάλαι σοφῶν, φάμενοι τὴν μοναδικὴν φύσιν ἑστίας
τρόπον ἐν μέσωι ἱδρῦσθαι καὶ διὰ τὸ ἰσόρροπον φυλάσσειν τὴν αὐτὴν ἕδραν Oltre a
queste cose [i Pitagorici] sostenevano che nel mezzo dei quattro elementi sta
un cubo unitario di fuoco, la cui posizione centrale era nota anche a Omero
[...]. Sembra che abbiano in questo seguito i Pitagorici i discepoli di
Empedocle e Parmenide e per lo più i [lett.: «quasi la maggioranza dei»]
sapienti antichi, dal momento che affermano che la natura monadica è posta al
centro come focolare [Estia], e che conserva la stessa sede in 565 forza
dell'equiposizione [dell'equilibrio rispetto alla perimetro del sistema] (DK 28
A44). Indubbiamente il cosmo parmenideo presenta affinità con quello filolaico,
quale possiamo ricostruire da frammenti e testimonianze: ὁ κόσμος εἷς ἐστιν, ἤρξατο
δὲ γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ μέσου καὶ ἀπὸ τοῦ μέσου εἰς τὸ ἄνω διὰ τῶν αὐτῶν τοῖς
κάτω. ἔστι < γὰρ > τὰ ἄνω τοῦ μέσου ὑπεναντίως κείμενα τοῖς κάτω. τοῖς γὰρ
κατωτάτω τὰ μέσα ἐστὶν ὥσπερ τὰ ἀνωτάτω καὶ τὰ ἄλλα ὡσαύτως. πρὸς γὰρ τὸ μέσον
κατὰ ταὐτά ἐστιν ἑκάτερα, ὅσα μὴ μετενήνεκται Il cosmo è uno; iniziò a formarsi
dal mezzo e dal mezzo verso l'alto, e attraverso gli stessi passaggi verso il
basso. Le cose che sono al di sopra del mezzo giacciono in senso opposto a
quelle che sono al di sotto. In effetti le cose che sono in mezzo si trovano
rispetto a quelle sotto come rispetto a quelle sopra e le altre in modo simile:
dal momento che rispetto al mezzo entrambe si trovano nella stessa relazione,
solo capovolte (DK 44 B17) Φ. πῦρ ἐν μέσωι περὶ τὸ κέντρον ὅπερ ἑστίαν τοῦ παντὸς
καλεῖ [B 7] καὶ Διὸς οἶκον καὶ μη τέραθεῶν βωμόν τε καὶ συνοχὴν καὶ μέτρον
φύσεως. καὶ πάλιν πῦρ ἕτερον ἀνωτάτω τὸ περιέχον. πρῶτον δ’ εἶναι φύσει τὸ
μέσον, περὶ δὲ τοῦτο δέκα σώματα θεῖα χορεύειν, [οὐρανόν] < μετὰ τὴν τῶν ἀπλανῶν
σφαῖραν > τοὺς ε πλανήτας, μεθ’ οὓς ἥλιον, ὑφ’ ὧι σελήνην, ὑφ’ ἧι τὴν γῆν, ὑφ’
ἧι τὴν ἀντίχθονα, μεθ’ ἃ σύμπαντα τὸ πῦρ ἑστίας περὶ τὰ κέντρα τάξιν ἐπέχον. τὸ
μὲν οὖν ἀνωτάτω μέρος τοῦ περιέχοντος, ἐν ὧι τὴν εἰλικρίνειαν εἶναι τῶν
στοιχείων, ὄ λ υ μ π ο ν καλεῖ, τὰ δὲ ὑπὸ τὴν τοῦ ὀλύμπου φοράν, ἐν ὧι τοὺς
πέντε πλανήτας μεθ’ ἡλίου καὶ σελήνης τετάχθαι, κόσμον, τὸ δ’ ὑπὸ τούτοις ὑποσέληνόν
τε καὶ περίγειον μέρος, ἐν ὧι τὰ τῆς φιλομεταβόλου γενέσεως, 566 ο ὐ ρ α ν ό ν.
καὶ περὶ μὲν τὰ τεταγμένα τῶν μετεώρων γίνεσθαι τὴν σ ο φ ί α ν, περὶ δὲ τῶν
γινομένων τὴν ἀταξίαν τὴν ἀ ρ ε τ ή ν, τελείαν μὲν ἐκείνην ἀτελῆ δὲ ταύτην.
Filolao definisce il fuoco in mezzo attorno al centro «focolare del tutto
[dell'universo]» e «casa di Zeus» e «madre degli dei», «altare» e «vincolo» e
«misura della natura»; l'altro fuoco in alto invece «l'involucro». Sostiene che
primo per natura sia quello in mezzo, intorno a cui si muovono dieci corpi
divini, primo il cielo delle stelle fisse, poi i cinque pianeti, poi il Sole,
quindi la Luna, poi la Terra, poi l'Antiterra; dopo queste cose il fuoco del
focolare, che risiede intorno al centro. Chiama la parte più alta
dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli elementi, «Olimpo»;
quella che porta sotto l'Olimpo, in cui sono collocati i 5 pianeti con il Sole
e la Luna, «cosmo»; dopo queste, poi, la parte sublunare e circumterrestre,
entro cui sono le cose della generazione mutevole, «cielo». E intorno alla
disposizione delle cose celesti verte la sapienza, intorno al disordine delle
cose in divenire verte la virtù: quella perfetta, questa imperfetta (Aëtius; DK
44 A16). È probabile che alcuni particolari delle concezioni pitagoriche siano
stati utilizzati per ricostruire a posteriori il quadro del cosmo parmenideo,
sempre che quegli elementi non fossero sullo sfondo della stessa elaborazione
eleatica, almeno come tratti consolidati di una tradizione. Aëtius (che si
appoggia alla lezione di Teofrasto) riferisce come anche Filolao definisse ὄλυμπος
«la parte più alta dell'involucro, in cui ritiene risieda la purezza degli
elementi», distribuendo poi gli astri in due regioni – κόσμος e οὐρανός –
compatibilmente con la rappresentazione parmenidea. La citazione filolaica
sottolinea la preoccupazione per la struttura sferica, che potrebbe riflettersi
nell’insistenza delle testimonianze sul modello arcaico delle «corone»,
probabilmente di matrice anassimandrea, in Parmenide: al pensatore di Mileto
punta anche l'argomento per la centralità della Terra, precoce applicazione del
principio di ragion sufficien- 567 te, impiegato da Parmenide anche in sede
ontologica, nella sezione sulla Verità (vv. B8.9 ss.): Π., Δημόκριτος διὰ τὸ
πανταχόθεν ἴσον ἀφεστῶσαν [τὴν γῆν] μένειν ἐπὶ τῆς ἰσορροπίας οὐκ ἔχουσαν αἰτίαν
δι’ ἣν δεῦρο μᾶλλον ἢ ἐκεῖσε ῥέψειεν ἄν· Parmenide e Democrito sostengono che
la Terra, essendo a uguale distanza da tutte le parti, rimanga in equilibrio,
non avendo causa per cui debba inclinare da una parte piuttosto che dall'altra
(Aëtius; DK 28 A44). L'accostamento alla posteriore cosmologia (e cosmogonia)
filolaica - in cui si depositava e sistemava plausibilmente la primitiva
lezione pitagorica - è utile, tuttavia, soprattutto nella determinazione del
ruolo cosmico della δαίμων parmenidea. Simplicio, nelle due citazioni che
costituiscono B12, sembra interessato a rilevare come Parmenide postulasse
nella sua fisica una potenza distinta dalla forma Fuoco come «causa efficiente»
(ποιητικὸν αἴτιον): «la dea che governa tutte le cose». Secondo Coxon24, il
rilievo del commentatore sarebbe stato diretto contro il modello interpretativo
della doxa proposto da Alessandro sulla scorta di Teofrasto, secondo il quale
al Fuoco spettava il ruolo di ποιητικὸν αἴτιον e alla terra (Notte) quello di ὕλη:
καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι πάντων ἱδρυμένην καὶ
πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν Egli pone la causa efficiente una e
comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni generazione.
D'altra parte in B12 leggiamo che: ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ al
centro di queste [corone] la Dea che tutte le cose governa, 24 Op. cit., p.
234. 568 e Aëtius sottolinea come: τῶν δὲ συμμιγῶν τὴν μεσαιτάτην ἁπάσαις < ἀρχήν
> τε καὶ < αἰτίαν > κινήσεως καὶ γενέσεως ὑπάρχειν, ἥντινα καὶ δαίμονα
κυβερνῆτιν καὶ κληιδοῦχον ἐπονομάζει Δίκην τε καὶ Ἀνάγκην Delle corone miste
[di fuoco e oscurità], quella più centrale è per tutte principio e causa di
movimento e generazione: [Parmenide] la indica anche come Divinità che governa
e Giustizia che tiene le chiavi e Necessità, mentre Plutarco, citando B13,
osserva: διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν Ἔρωτα τῶν Ἀφροδίτη ς ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι
κοσμογονίαι γράφων ‘πρώτιστον... πάντων’ «perciò Parmenide mostra Eros come la
prima delle opere di Afrodite scrivendo nella cosmogonia [B13]». Le
testimonianze e i frammenti superstiti consentono di affermare che
effettivamente Parmenide attribuiva alla δαίμων una funzione cosmogonica
(πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει, «di tutte le cose ella
sovrintende all'odioso parto e all’unione» B12.4). Evidentemente aperta è
invece la questione della sua collocazione cosmologica e della sua
identificazione. La dislocazione cosmica della δαίμων L'indicazione di Plutarco
è un punto di partenza: oggi si è infatti convinti che Plutarco non solo avesse
accesso a una copia del poema di Parmenide, ma potesse attingere a una versione
attendibile25. Il passo propone di fatto l'identificazione della δαίμων con
Afrodite: Simplicio sottolinea come la dea sia «causa efficiente 25 Su questo
punto è molto importante la messa a fuoco di Passa, op. cit, pp. 27- 28. 569
non solo dei corpi soggetti a generazione, ma anche degli incorporei che concorrono
alla generazione» (ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ
καὶ ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων); Plutarco fa di Afrodite la
generatrice di Eros e dunque nomina la δαίμων. Ovviamente non possiamo
stabilire se l'identificazione fosse per lui scontata o solo una speculazione
ovvero riscontrata invece nel testo, ma la precisazione: «nella cosmogonia» (ἐν
τῆι κοσμογονίαι) - sembra avvalorare l'ultima possibilità. In ogni caso, nella
misura in cui B12 assegna alla δαίμων il governo di tutto, B13 sembra suggerire
che ciò avvenga attraverso la generazione di Eros e il controllo
dell'accoppiamento26. D'altra parte, poiché la testimonianza di Aëtius colloca
la dea al centro degli anelli misti di Notte e Fuoco, assimilandola di fatto a
uno di essi, è possibile, incrociando le due testimonianze, ipotizzare che essa
coincidesse con un'entità astrale concreta, fonte fisica dell'influenza
cosmogonica, Afrodite appunto. Parmenide, il primo a identificare Eos (Ἕως
ovvero Fosforo/Φωσφόρος, la stella del mattino) e Espero (Ἕσπερον, la stella
della sera): Π. πρῶτον μὲν τάττει τὸν Ἑῶιον, τὸν αὐτὸν δὲ νομιζόμενον ὑπ’ αὐτοῦ
καὶ Ἕσπερον, ἐν τῶι αἰθέρι Parmenide per primo pone nell'etere Eos, considerato
da lui identico a Espero (DK 28 A40a), potrebbe aver dato per primo il nome di
Afrodite all'astro27. Contro questa identificazione e collocazione si pongono
le informazioni che giungono dal contesto delle citazioni di Simplicio, che
chiaramente parla a favore della centralità cosmica della δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ:
in effetti, l'espressione parmenidea - ἐν δὲ μέσῳ τούτων - con cui essa viene
introdotta, è ambigua, potendosi riferire sia al centro delle corone miste
(come appare più probabile nel contesto) sia al centro dell'universo. Difficile
pensare, tuttavia, che il commentatore, che certamente disponeva di una 26
Cerri, op. cit., pp. 267-268. 27 Ibidem. 570 copia del poema, potesse
fraintenderne il testo su questo punto; né la sua indicazione contraddice
quella di Plutarco, il quale si limita a identificare la δαίμων come Ἀφροδίτης.
La testimonianza di Anatolio di Laodicea è dello stesso tenore, marcando in
particolare la continuità con le cosmologie e cosmogonie pitagoriche: la
«natura monadica» (τὴν μοναδικὴν φύσιν) è posta da Parmenide (ed Empedocle) al
centro (ἐν μέσωι) «al modo di un focolare» (ἑστίας τρόπον). I riscontri delle
citazioni di Filolao e delle relative testimonianze confermano che nella
tradizione pitagorica del V secolo «il fuoco in mezzo attorno al centro» (πῦρ ἐν
μέσωι περὶ τὸ κέντρον) coincideva con il divino «focolare del tutto» (ἑστίαν τοῦ
παντὸς), ovvero «dimora di Zeus» (Διὸς οἶκον) o «madre degli dei» (μητέραθεῶν),
connotazione che ritorna anche negli Inni orfici: [Ἑστία] ἣ μέσον οἶκον ἔχεις
πυρὸς ἀενάοιο Hestia [...] che hai dimora al centro del fuoco eterno (Orphica,
Hymnii 84.1-2) ἐκ σέο [Ἑστία] δ’ ἀθανάτων τε γένος θνητῶν τ’ ἐλοχεύθη, da te
[Hestia] ebbe nascita la stirpe degli immortali e dei mortali (Orphica, Hymnii
27.7)28, e che ritroviamo nel contesto simpliciano della citazione di B13:
ταύτην [δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ] καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων [B13] la [dea
che tutto governa] considera causa anche degli dei, affermando [B13]. La
collocazione della δαίμων al centro del sistema cosmico, le possibili
convergenze con il pitagorismo del V secolo sul motivo della Hestia divina,
potrebbero avvalorare il modello cosmologico 28 F. Ferrari, Il migliore dei
mondi impossibili, cit., pp. 104-5. 571 proposto da Diels, per cui il nucleo
centrale dell'universo risulterebbe una sfera di puro Fuoco, circondata dalla
superficie terrestre (sfera di pura Notte). Coxon29, rilevando le difficoltà
implicite nelle testimonianze di Aëtius e Simplicio, ha sostenuto, sulla scorta
di Cicerone (A37), una diversa soluzione circa natura e collocazione della
divinità. Come abbiamo già riscontrato, in Cicerone, infatti, la dea appare
come «una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo»: coronae simile
efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et > lucis orbem qui
cingit caelum, quem appellat deum immagina una corona (egli la chiama
στεφάνην), cioè una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e che egli
denomina dio; incrociando il dato cosmologico con quello fornito da Aëtius:
περιστάντος δ’ ἀνωτάτω πάντων τοῦ αἰθέρος ὑπ’ αὐτῶι τὸ πυρῶδες ὑποταγῆναι τοῦθ’
ὅπερ κεκλήκαμεν οὐρανόν, ὑφ’ ὧι ἤδη τὰ περίγεια. L'etere poi tutto avvolge
dall'esterno [dalla posizione superiore] e al di sotto di esso è posto proprio
l'elemento igneo che abbiamo chiamato cielo (Aëtius; DK 28 A37), si potrebbe
concludere – come abbiamo visto - che l'orbis lucis (secondo Cicerone, indicata
da Parmenide come «dio»), la «corona» ignea e luminosa che abbraccia il cielo,
coincida con l'αἰθήρ di Aëtius, che avvolge οὐρανόν. Questa identificazione
sarebbe compatibile sia con la tradizione peripatetica (che attribuiva al fuoco
il ruolo di principio efficiente), sia con i dati relativi alla tradizione
ionica: ἅπαντα γὰρ ἢ ἀρχὴ ἢ ἐξ ἀρχῆς, τοῦ δὲ ἀπείρου οὐκ ἔστιν ἀρχή· εἴη γὰρ ἂν
αὐτοῦ πέρας. ἔτι δὲ καὶ ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον ὡς ἀρχή τις οὖσα· τό τε γὰρ 29
Op. cit., pp.239 ss.. 572 γενόμενον ἀνάγκη τέλος λαβεῖν, καὶ τελευτὴ πάσης ἐστὶ
φθορᾶς. διὸ καθάπερ λέγομεν, οὐ ταύτης ἀρχή, ἀλλ’ αὕτη τῶν ἄλλων εἶναι δοκεῖ καὶ
περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν, ὥς φασιν ὅσοι μὴ ποιοῦσι παρὰ τὸ ἄπειρον ἄλλας
αἰτίας οἶον νοῦν ἢ φιλίαν. καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον· ἀθάνατον γὰρ καὶ ἀνώλεθρον,
ὥς φησιν ὁ Ἀναξίμανδρος καὶ οἱ πλεῖστοι τῶν φυσιολόγων Ogni cosa, in effetti, è
o principio o [deriva] da principio; dell'apeiron però non v'è principio, dal
momento che vi sarebbe un limite di esso [apeiron]. E ancora, esso è ingenerato
e incorruttibile, in quanto è un principio: è necessario, infatti, che ciò che
è generato abbia una fine, e vi è un termine finale di ogni corruzione. Proprio
per questo motivo diciamo che di esso [principio] non vi sia principio, ma che
sembra essere esso stesso principio di tutte le altre cose, e comprenderle
[abbracciarle] tutte e tutte governarle, come affermano quanti non pongono
oltre all'infinito altre cause, per esempio Intelligenza o Amore. E questo è il
divino: è infatti senza morte e senza distruzione, come sostengono Anassimandro
e la maggioranza degli studiosi della natura. (Aristotele; DK 12 A15) Ἀ. Εὐρυστράτου
Μιλήσιος ἀρχὴν τῶν ὄντων ἀέρα ἀπεφήνατο· ἐκ γὰρ τούτου πάντα γίγνεσθαι καὶ εἰς
αὐτὸν πάλιν ἀναλύεσθαι. 'οἶον ἡ ψυχή, φησίν, ἡ ἡμετέρα ἀὴρ οὖσα συγκρατεῖ ἡμᾶς,
καὶ ὅλον τὸν κόσμον πνεῦμα καὶ ἀὴρ περιέχει' (λέγεται δὲ συνωνύμως ἀὴρ καὶ πνεῦμα).
Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, affermò che principio delle cose è
l'aria: da essa tutto si genera e in essa di nuovo si risolve. Dice: «come la
nostra anima, che è aria, ci governa, così soffio e aria abbracciano l'interno
universo» (aria e soffio sono utilizzati come sinonimi) (Aëtius; DK 13 B2) εἶναι
γὰρ ἓν τὸ σοφόν, ἐπίστασθαι γνώμην, ὁτέη ἐκυβέρνησε πάντα διὰ πάντων 573 esiste
una sola sapienza: riconoscere la ragione, che governa tutto attraverso tutto
(Diogene Laerzio; DK 22 B41) [λέγει δὲ καὶ τοῦ κόσμου κρίσιν καὶ πάντων τῶν ἐν
αὐτῶι διὰ πυρὸς γίνεσθαι λέγων οὕτως] τὰ δὲ πάντα οἰακίζει Κεραυνός, τουτέστι
κατευθύνει, κεραυνὸν τὸ πῦρ λέγων τὸ αἰώνιον. λέγει δὲ καὶ φρόνιμον τοῦτο εἶναι
τὸ πῦρ καὶ τῆς διοικήσεως τῶν [ὅλων αἴτιον] [Eraclito sostiene anche che abbia
luogo un giudizio sul mondo e su tutto ciò che si trova in esso, attraverso il
fuoco, in tal modo:] il fulmine dirige il tutto, ossia [il dio] lo guida [con
il fulmine], intendendo con fulmine il fuoco eterno. Dice anche che questo
fuoco è dotato di intelligenza, e che esso è [causa] dell'ordinamento
[dell'universo] (Ippolito; DK 22 B64). Le assonanze espressive potrebbero
avvalorare la convergenza parmenidea sulle posizioni di coloro che, alle
origini della speculazione cosmologica, avevano accennato alla divinità della
naturaprincipio (καὶ τοῦτ’εἶναι τὸ θεῖον), assegnandole anche un compito
direttivo sui processi cosmici: «abbracciare e pilotare tutte le cose»
(Anassimandro: περιέχειν ἅπαντα καὶ πάντα κυβερνᾶν), ovvero «abbracciare
l'universo» (Anassimene: ὅλον τὸν κόσμον περιέχει), in analogia con il
controllo dell'anima sulle nostre funzioni vitali (ἡ ψυχή συγκρατεῖ ἡμᾶς). In
B12.4, in effetti, ritroviamo il verbo ἄρχει, che, come vuole Coxon30, potrebbe
alludere direttamente ad Anassimandro (cui Teofrasto riconosce il merito di
aver introdotto il termine tecnico di ἀρχὴ). È tuttavia possibile che la
parmenidea δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ, da Plutarco identificata come Ἀφροδίτης, sia
in realtà solo l'espressione mitica della potenza generatrice cui alluderanno
Empedocle e Lucrezio, il quale - ci ricorda Ferrari31 - utilizzava espressioni
analoghe a quelle del filosofo greco (quae... rerum naturam sola gubernas,
I.21). A insistere per questa lettura è so- 30 Ivi, p. 242. 31 Ferrari, op.
cit., p. 106 nota. 574 prattutto Ruggiu32, per il quale la δαίμων sembra essere
la personificazione della stessa forza vivificatrice (mana) presente in tutte
le cose: l'impulso immanente alla generazione (B11.3-4 ὡρμήθησαν γίγνεσθαι).
Nel senso di una attribuzione ad Afrodite della forza demiurgica è orientato
anche il commentatore (IV secolo) della teogonia (V secolo) del papiro Derveni,
e conferme ulteriori si potrebbero cogliere nel riferimento alla nascita di Eros,
che potrebbe coinvolgere il complesso sfondo delle presunte teogonie orfiche,
documentate negli Uccelli (vv. 695-9) di Aristofane. La funzione
cosmo-teogonica della δαίμων B12 allude quindi chiaramente a un processo
cosmogonico e, in relazione a esso, al ruolo direttivo (κυϐερνᾷ, ἄρχει) della
δαίμων, la quale «spinge all'unione» (πέμπουσα μιγῆν)·di «femminile» (θῆλυ) e
«maschile» (ἄρσεν): ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ
στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις
ἄρσεν θηλυτέρῳ in mezzo a queste [corone] la Dea che tutte le cose governa. Di
tutte le cose ella sovrintende all'odioso parto e all’unione, spingendo
l’elemento femminile a unirsi al maschile, e, al contrario, il maschile al
femminile (B12.3-6). Un ruolo, come sappiamo, ben documentato nel linguaggio
peripatetico di Simplicio (contesto B12): 32 Op. cit., p. 344. 575 μετ’ ὀλίγα δὲ
πάλιν περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων εἰπὼν ἐπάγει καὶ τὸ ποιητικὸν λέγων οὕτως ‘αἱ γὰρ...
κυβερνᾶι ’. καὶ ποιητικὸν δὲ αἴτιον οὐ σωμάτων μόνον τῶν ἐν τῆι γενέσει ἀλλὰ καὶ
ἀσωμάτων τῶν τὴν γένεσιν συμπληρούντων σαφῶς παραδέδωκεν ὁ Π. λέγων· ‘αἱδ’ἐπὶ...
θηλυτέρωι ’. [...] καὶ ποιητικὸν αἴτιον ἐκεῖνος μὲν ἓν κοινὸν τὴν ἐν μέσωι
πάντων ἱδρυμένην καὶ πάσης γενέσεως αἰτίαν δ α ί μ ο ν α τίθησιν. poco dopo
[B8.61], dopo aver parlato dei due elementi, introduce la causa efficiente,
dicendo così [vv. 1-3]. [...] La causa efficiente non solo dei corpi soggetti a
generazione, ma anche degli incorporei che concorrono alla generazione,
Parmenide ha esposto chiaramente, dicendo [vv. 2-6] [...] Egli pone la causa
efficiente una e comune, la dea che sta in mezzo al tutto ed è causa di ogni
generazione, e connesso a una (probabilmente correlata) analoga funzione
teogonica: ταύτην καὶ θεῶν αἰτίαν εἶναί φησι λέγων ‘πρώτιστον... πάντων ’ κτλ.
καὶ τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν
φησιν. sostiene che questa stessa [la dea] sia causa anche degli dei, dicendo
[B13], e sostiene che invia le anime talora dal visibile all'invisibile, talora
in senso opposto (Simplicio; contesto B13). L'indicazione di Simplicio
suggerisce una prossimità almeno tematica tra B12 e B13: πρώτιστον μὲν Ἔρωτα θεῶν
μητίσατο πάντων… Primo tra gli dei tutti ella concepì Amore, confermata dalla
testimonianza di Plutarco (contesto B13): 576 διὸ Π. μὲν ἀποφαίνει τὸν τῶν Ἀφροδίτης
ἔργων πρεσβύτατον ἐν τῆι κοσμογονίαι γράφων ‘π ρ ώ τ ι σ τ ο ν... π ά ν τ ω ν ’
perciò Parmenide mostra Eros come la prima delle opere di Afrodite scrivendo
nella cosmogonia [B13]. Un'ulteriore cerniera tra i due frammenti si può
cogliere nel contesto della citazione aristotelica di B13 (Metafisica I, 4
984b23-7): ὑποπτεύσειε δ’ ἄν τις Ἡσίοδον πρῶτον ζητῆσαι τὸ τοιοῦτον, κἂν εἴ τις
ἄλλος ἔρωτα ἢ ἐπιθυμίαν ἐν τοῖς οὖσιν ἔθηκεν ὡς ἀρχὴν οἷον καὶ Π.· οὗτος γὰρ
κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν ‘πρώτιστον μέν, φησίν Ἔρωτα … πάντων’ Si
potrebbe sospettare che Esiodo per primo abbia ricercato una [causa] del
genere, anche se qualcun altro pose negli enti, come principio, amore o
desiderio, per esempio Parmenide. Questi, infatti, ricostruendo la genesi del
tutto, affermò: [B13]. Ancora utile, sebbene condizionata dall'esplicita
liquidazione (e incomprensione) della strategia parmenidea, è anche la
testimonianza di Cicerone (DK 28 A37): nam P. quidem commenticium quiddam:
coronae simile efficit (στεφάνην appellat), continentem ardorum < et >
lucis orbem qui cingit caelum, quem appellat deum; in quo neque figuram divinam
neque sensum quisquam suspicari potest. multaque eiusdem < modi >
monstra: quippe qui B e l l u m, qui Discordiam, qui Cupiditatem [B 13]
ceteraque generis eiusdem ad deum revocat, quae vel morbo vel somno vel
oblivione vel vetustate delentur; eademque de sideribus, quae reprehensa in
alio iam in hoc omittantur Parmenide immagina qualcosa di fittizio: una corona
(egli la chiama στεφάνην), una sfera di fuoco e di luce che avvolge il cielo e
che egli chiama dio; in cui non si 577 può supporre ci sia figura divina né
sensibilità alcuna. Inoltre, indica moltre altre assurdità di tale specie:
riferisce infatti dio a Guerra, Discordia, Passione [B13] e tutte le altre cose
del genere, le quali sono distrutte o da malattia o dal sonno o dall'oblio o
dalla vecchiaia. Le medesime cose sono dette anche degli astri: essendo già
state criticate in altro luogo, possiamo ometterle in questo. Quelli che
abbiamo elencato sono i testi che complessivamente autorizzano la speculazione
sulla cosmo-teogonia parmenidea. Pochi gli elementi sufficientemente certi: (i)
la testimonianza di Simplicio – che pone la funzione della δαίμων in relazione
diretta con i «due elementi» (περὶ τῶν δυεῖν στοιχείων) Fuoco e Notte – insiste
decisamente sulla divinità come «causa efficiente» (ποιητικὸν αἴτιον) «una e
comune» (ἓν κοινὸν), origine di ogni generazione (γένεσις); (ii) la sua
causalità efficiente appare come impulso alla mescolanza (πέμπουσα μιγῆν) dei
due contrari: la divinità è causa comune in quanto, attraverso la mescolanza
delle δυνάμεις di Fuoco e Notte, rende possibile quanto i mortali definiscono
generazione e corruzione33; (iii) a nascita e morte allude probabilmente
Simplicio quando osserva che «[la dea] invia le anime talora dal visibile
all'invisibile, talora in senso opposto» (τὰς ψυχὰς πέμπειν ποτὲ μὲν ἐκ τοῦ ἐμφανοῦς
εἰς τὸ ἀειδές, ποτὲ δὲ ἀνάπαλίν); allo stesso fenomeno si riferisce Parmenide
in B12.4 con l'espressione: πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος ἄρχει di
tutte le cose sovrintende al doloroso parto e all'unione. Conche (tra gli
altri) si è soffermato34 sull'uso di στυγερός (da στυγέω, «avere in orrore»),
che a suo credere rivelerebbe il pessimismo di fondo di Parmenide, portato di
una Stimmung riscontrata soprattutto nella poesia arcaica: un pessimismo
proiettato nel 33 Ivi, p. 340. 34 Op. cit., pp. 225 ss.. 578 suo caso, rispetto
alla poesia, dalla condizione umana al divenire nel suo complesso; (iv) la
mescolanza (μῖξις) è ulteriormente connotata come (o almeno accostata a) una
forma di unione sessuale: questo spiega probabilmente il ruolo di Eros.
Simplicio, infatti, introducendo B13, precisa che la δαίμων è anche «causa
degli dei» (θεῶν αἰτία), mentre Aristotele esplicitamente attribuisce al
concepimento di Eros una funzione cosmogonica («ricostruendo la genesi del
tutto», κατασκευάζων τὴν τοῦ παντὸς γένεσιν); (v) a dire di Cicerone, altre
figure divine (Guerra, Discordia, Passione) dovevano cooperare all'attività
direttiva della δαίμων: evidente l'analogia con le forze cosmogoniche di
Empedocle (che, ribadiamo, potrebbe essersi ispirato direttamente al modello
parmenideo). In quella che Plutarco chiama κοσμογονία, è possibile dunque che
Parmenide impiegasse un doppio registro: l'esposizione propriamente cosmogonica
era accompagnata e intrecciata a una versione immediatamente teogonica. Ciò è
suggerito, da un lato, dall'uso, in B11.3-4, della formula «ebbero impulso a
generarsi» (ὡρμήθησαν γίγνεσθαι), che sembra implicare una spinta immanente,
dall'interno della natura stessa del cosmo, dall'altro, dalla attribuzione
aristotelica a Eros di una funzione analoga. Secondo Ruggiu35 l'impulso
(cosmogonico) a congiungersi e mescolarsi (e quindi il processo di costituzione
delle cose) sarebbe guidato dalla potenza immanente, da quella forza
vivificatrice denominata δαίμων (o forse Ἀφροδίτης), di cui Eros (insieme alle
altre divinità cui allude Cicerone) sarebbe espressione teogonica e cosmogonica
a un tempo, nella misura in cui l'unione sessuale rientra tipicamente nelle
forme di congiunzione\mescolamento, essenziali, nello schema parmenideo che
prevedeva due principi elementari di base, per produrre generazione e
corruzione. Sarebbe, insomma, in vista dell'«odioso parto» e dell'«unione» che
la dea avrebbe «concepito» (letteralmente «meditato, pensato») Eros36. Si può
dunque osservare ulteriormente che: 35 Op. cit., p. 340. 36 Coxon, op. cit., p.
242. 579 (vi) la δαίμων, di cui si sottolineano, con linguaggio nautico (κυϐερνάω:
pilotare, timonare), sia il ruolo di governo, sia l'azione di dare inizio ai
processi, sembra dominarli in ultima analisi attraverso il pensiero (μητιάω:
meditare, deliberare, ma anche concepire, inventare). A dispetto del contesto e
della tradizione teogonica evocata, il poeta intenderebbe così rilevare «un
rapporto di pura filiazione concettuale»37. 37 Cerri, op. cit., p. 273. I
quattro frammenti sono propriamente delle schegge del testo del poema (B14a,
per altro, normalmente non considerato frammento autentico ma imitazione
aristotelica), di difficile contestualizzazione, e il cui valore è discusso. È
significativo, in particolare, il fatto che B14 e B15 siano citati da Plutarco
non per documentare il sistema astronomico di Parmenide, ma, strumentalmente,
per illustrare altre relazioni (B14) ovvero (B15) per le implicazioni etiche
(obbedienza volontaria a un superiore)1: οὐδὲ γὰρ ὁ πῦρ μὴ λέγων εἶναι τὸν
πεπυρωμένον σίδηρον ἢ τὴν σελήνην ἥλιον, ἀλλὰ κατὰ Παρμενίδην [B14: νυκτιφαὲς
περὶ γαῖαν ἀλώμενον ἀλλότριον φῶς] ἀναιρεῖ σιδήρου χρῆσιν ἢ σελήνης φύσιν.
nemmeno chi nega che il ferro incandescente sia fuoco o la Luna Sole, ma come
Parmenide: «di notte splendente, vagando intorno alla Terra, luce d'altri» –
elimina l'uso del ferro o la natura della Luna. τῶν ἐν οὐρανῶι τοσούτων τὸ πλῆθος
ὄντων μόνη φωτὸς ἀλλοτρίου δεομένη περίεισι κατὰ Π. αἰεὶ παπταίνουσα πρὸς αὐγὰς
ἠελίοιο. Nell'abbondanza di tali entità nel cielo la sola [Luna] va in giro
bisognosa di luce altrui, secondo Parmenide....sempre rivolta verso i raggi del
sole. Nella tradizione è stato a essi attribuito sostanzialmente un significato
poetico e solo subordinatamente astronomico. Si è insistito sulla costruzione
ritmica2 ovvero sull'immaginario sentimentale cui ricorre Parmenide: la Luna
come donna innamorata rivolta a contemplare il proprio amante (il Sole),
illuminata dai suoi sguardi (raggi). Situazione e immagine che Empedocle
avrebbe poi puntualmente ripreso, come abbiamo segnalato in nota al testo. 1
Coxon, op. cit., pp. 244-5. 2 Cerri, op. cit., p. 274. 581 Dai pochi versi si
possono tuttavia ricavare anche interessanti indicazioni cosmologiche: (i) la
conferma della natura circolare del moto di rivoluzione della Luna («vagante
intorno alla Terra», περὶ γαῖαν ἀλώμενον); (ii) donde l'inferenza circa la
probabile sfericità della stessa, confermata dalle testimonianze teofrastee;
(iii) l'attestazione della relazione di dipendenza della luce lunare dalla luce
solare (ἀλλότριον φῶς). Su questo punto è necessario precisare che, attraverso
Aëtius, siamo informati della origine e composizione di Luna e Sole: Π. τὸν ἥλιον
καὶ τὴν σελήνην ἐκ τοῦ γαλαξίου κύκλου ἀποκριθῆναι, τὸν μὲν ἀπὸ τοῦ ἀραιοτέρου
μίγματος ὃ δὴ θερμόν, τὴν δὲ ἀπὸ τοῦ πυκνοτέρου ὅπερ ψυχρόν. Parmenide sostiene
che il Sole e la Luna si siano formati per distacco dal cerchio della Via
Lattea: il primo è costituito dalla mescolanza più rarefatta, che è calda;
l'altra dalla più densa, che è fredda (DK 28 A43) συμμιγῆ δ’ ἐξ ἀμφοῖν εἶναι τὴν
σελήνην, τοῦ τ’ ἀέρος καὶ τοῦ πυρός La luna è mescolanza di entrambi, di aria e
di fuoco (DK 28 A37) Π. πυρίνην [sc. εἶναι τὴν σελήνην]. Π. ἴσην τῶι ἡλίωι [sc.
εἶναι τὴν σελήνην]· καὶ γὰρ ἀπ’ αὐτοῦ φωτίζεται. Θαλῆς πρῶτος ἔφη ὑπὸ τοῦ ἡλίου
φωτίζεσθαι. Πυθαγόρας, Παρμ.... ὁμοίως Parmenide sostiene [che la Luna è] di
fuoco. Parmenide sostiene [che la Luna è] simile [per grandezza] al Sole: è in
effetti illuminata da esso. Talete per primo disse che [la Luna] è illuminata
dal Sole; analogamente Pitagora, Parmenide...... È la diversa commisurazione
degli elementi base, pur derivando Sole e Luna dalla stessa fascia celeste (la
Via Lattea), a produrre, nel caso della seconda, effetti fisici (fenomenici)
più deboli 582 rispetto a quelli del Sole (giustificandone così la dipendenza):
il pallore della Luna è connesso al fatto che il fuoco non riesce a renderla
calda e quindi neppure splendente3. 3 Conche, op. cit., pp. 235-6. Frammento di
interpretazione estremamente controversa, B16 costituisce effettivamente una
sfida per il traduttore: accanto ai problemi di determinazione del testo
all'interno della tradizione manoscritta, troviamo nello specifico difficoltà
per quanto concerne la sua comprensione. In assenza del contesto immediato,
infatti, la costruzione sintattica non è del tutto perspicua e univoca, e le possibili,
diverse soluzioni producono per lo più significati diversi. Incerta risulta
anche la sua collocazione all'interno della struttura del poema. Prevalente è
l'orientamento di Diels, che considerò i versi come appartenenti alla sezione
sulla Doxa, ma non sono mancate - in passato e tra gli studiosi contemporanei
(Mourelatos, Robinson, Stemich, Ferrari) – le proposte di assegnarlo alla
sezione sulla Verità, analogamente a B4: per gli uni il frammento esprimerebbe
una concezione soggettivistica del comune pensare umano, costantemente
condizionato dalla situazione fisiologica dell'individuo pensante; per gli
altri, invece, esso affermerebbe la stretta relazione tra pensiero e realtà.
L'esame del contesto delle citazioni può aiutare a comprendere il senso dei
versi parmenidei e a decidere del suo posizionamento nell'opera. Il contesto
peripatetico Abbiamo di B16 due citazioni integrali peripatetiche - in
Aristotele (Metafisica IV, 5 1009 b21) e Teofrasto (De sensu 3) – e due
parafrasi – Alessandro di Afrodisia e Asclepio nei loro commenti al testo
aristotelico. Aristotele Aristotele cita il frammento all'interno di una
disamina critica delle dottrine relativistiche di stampo protagoreo (tutte le
opinioni sarebbero egualmente vere ed egualmente false), che lo Stagirita 584
fa derivare dalla combinazione di un assunto teorico di fondo e di due assunti
specifici. Per quanto riguarda il primo, lo scenario entro cui il filosofo
posiziona gli autori citati, egli osserva (a più riprese): ἡ περὶ τὰ φαινόμενα ἀλήθεια
ἐνίοις ἐκ τῶν αἰσθητῶν ἐλήλυθεν la verità circa le cose che appaiono ad alcuni
è derivata dalle cose sensibili (Metafisica IV, 5 1009 b1) αἴτιον δὲ τῆς δόξης
τούτοις ὅτι περὶ τῶν ὄντων μὲν τὴν ἀλήθειαν ἐσκόπουν, τὰ δ’ ὄντα ὑπέλαβον εἶναι
τὰ αἰσθητὰ μόνον causa di questa convinzione per costoro è che essi ricercavano
sì la verità intorno agli enti, ma supponendo che gli enti fossero solo quelli
sensibili (1010 a1-3). Il discorso aristotelico che coinvolge anche Parmenide
verte, dunque, in generale, su una ontologia "materialistica" e sulla
conoscenza associata all'esperienza sensibile. Le assunzioni specifiche
riguardano invece la sensazione (αἴσθησις): essa è intesa come (i) pensiero
(φρόνησις), ovvero (ii) processo di alterazione fisica (ἀλλοίωσις). La citazione
di B16 avviene appunto in questo contesto: ὅλως δὲ διὰ τὸ ὑπολαμβάνειν φρόνησιν
μὲν τὴν αἴσθησιν, ταύτην δ’ εἶναι ἀλλοίωσιν, τὸ φαινόμενον κατὰ τὴν αἴσθησιν ἐξ
ἀνάγκης ἀληθὲς εἶναί φασιν· ἐκ τούτων γὰρ καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος καὶ τῶν
ἄλλων ὡς ἔπος εἰπεῖν ἕκαστος τοιαύταις δόξαις γεγένηνται ἔνοχοι. καὶ γὰρ Ἐμπεδοκλῆς
μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν μεταβάλλειν φησὶ τὴν φρόνησιν· “πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἐναύξεται
ἀνθρώποισιν.” καὶ ἐν ἑτέροις δὲ λέγει ὅτι “ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν,
τόσον ἄρ' σφισιν αἰεὶ | καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο”. καὶ Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται
τὸν αὐτὸν τρόπον·[B16] 585 Generalmente, poiché pensano che la sensazione sia
pensiero e che sia una alterazione, sostengono che ciò che appare secondo la
sensazione di necessità sia vero. È partendo in vero da queste considerazioni
che Empedocle, Democrito e, per così dire, ciascuno degli altri [naturalisti]
si sono ritrovati soggetti a tali opinioni. Empedocle, infatti, afferma che,
mutando la condizione, muti il pensiero: «in relazione alla situazione
presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove dice che: «per
quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare
cose diverse». Anche Parmenide si esprime nello stesso modo: [B16]. È
interessante notare come Aristotele interpreti Empedocle: Empedocle, infatti,
afferma che, mutando la condizione (μεταβάλλοντας τὴν ἕξιν), muti il pensiero
(μεταβάλλειν τὴν φρόνησιν), prima di citarlo (due volte), facendo corrispondere
ἕξις e φρόνησις, come, a suo dire, Parmenide avrebbe fatto nei suoi versi: καὶ
Παρμενίδης δὲ ἀποφαίνεται τὸν αὐτὸν τρόπον anche Parmenide si esprime nello
stesso modo. In effetti i primi due versi del frammento parmenideo sono
costruiti sulla connessione ὡς.... τὼς: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχει 1 κρᾶσιν μελέων
πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι παρίσταται2 come, in effetti, di volta in
volta, si ha temperamento di membra molto vaganti, 1 È questa la forma verbale
prevalente nei codici: nello stabilire il testo abbiamo accolto tuttavia la
lectio difficilior ἔχῃ (congiuntivo). 2 Nella versione greca del frammento
abbiamo accolto la versione παρέστηκεν dei codici di Teofrasto. 586 così il
pensiero si presenta agli uomini, così che la citazione, nel contesto del
discorso aristotelico, suggerisce di riscontrare la correlazione precedente (ἕξιςφρόνησις):
si è spinti, insomma a leggere l'espressione ἔχει κρᾶσιν μελέων come
corrispettivo di ἕξις, e νόος come corrispettivo di φρόνησις. A ciò va aggiunto
che la seconda citazione empedoclea: ὅσσον < δ’ > ἀλλοῖοι μετέφυν, τόσον ἄρ'
σφισιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίστατο per quanto mutano diventando
diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare cose diverse, richiama,
nella formulazione, a sua volta i primi due versi parmenidei, in particolare
per l'espressione νόος ἀνθρώποισι παρίσταται, in cui il comune verbo παρίστημι
è riferito in un caso a τὸ φρονεῖν nell'altro a νόος. Indubbiamente, anche
evitando il commento diretto, Aristotele imponeva di fatto le coordinate di
lettura di B16. Al medesimo nodo teorico, lo stesso Aristotele si richiama
ancora in De Anima: Ἐπεὶ δὲ δύο διαφοραῖς ὁρίζονται μάλιστα τὴν ψυχήν, κινήσει
τε τῇ κατὰ τόπον καὶ τῷ νοεῖν καὶ φρονεῖν καὶ αἰσθάνεσθαι, δοκεῖ δὲ καὶ τὸ νοεῖν
καὶ τὸ φρονεῖν ὥσπερ αἰσθάνεσθαί τι εἶναι (ἐν ἀμφοτέροις γὰρ τούτοις κρίνει τι ἡ
ψυχὴ καὶ γνωρίζει τῶν ὄντων), καὶ οἵ γε ἀρχαῖοι τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι
ταὐτὸν εἶναί φασιν—ὥσπερ καὶ Ἐμπεδοκλῆς εἴρηκε ‘πρὸς παρεὸν γὰρ μῆτις ἀέξεται ἀνθρώποισιν’
καὶ ἐν ἄλλοις ‘ὅθεν σφίσιν αἰεὶ καὶ τὸ φρονεῖν ἀλλοῖα παρίσταται’, τὸ δ’ αὐτὸ
τούτοις βούλεται καὶ τὸ Ὁμήρου ‘τοῖος γὰρ νόος ἐστίν’, πάντες γὰρ οὗτοι τὸ νοεῖν
σωματικὸν ὥσπερ τὸ αἰσθάνεσθαι ὑπολαμβάνουσιν, καὶ αἰσθάνεσθαί τε καὶ φρονεῖν τῷ
ὁμοίῳ τὸ ὅμοιον, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατ’ ἀρχὰς λόγοις διωρίσαμεν 587 L'anima è
per lo più definita in base a due elementi: il movimento locale e il pensare,
il riflettere e il sentire. Sembra che il pensare e il riflettere siano
qualcosa come il sentire (in entrambi i casi, infatti, l'anima discrimina e
conosce qualcosa degli enti), e del resto gli antichi sostengono che il pensare
e il sentire siano la stessa cosa. Così Empedocle affermò: «in relazione alla
situazione presente, in vero, agli uomini cresce la mente»; e altrove: «per
quanto mutano diventando diversi, di tanto sempre a loro si presenta il pensare
cose diverse». La stessa cosa intende l'affermazione di Omero: «tale è infatti
la mente». Tutti costoro, in effetti, sostengono che il pensare sia qualcosa di
corporeo come il sentire, e che sentire e pensare siano del simile attraverso
il simile, come abbiamo detto inizialmente nel nostro discorso (De Anima III, 3
427 a17-29). Benché non evocato direttamente, Parmenide rimane coinvolto
doppiamente: perché l'equazione aristotelica tra «pensare» e
«percepire/sentire» (τὸ φρονεῖν καὶ τὸ αἰσθάνεσθαι) è genericamente rivolta
agli «antichi» (οἵ ἀρχαῖοι), analogamente alla connotazione conclusiva del
pensare come «qualcosa di corporeo come il sentire» (τὸ νοεῖν σωματικὸν ὥσπερ τὸ
αἰσθάνεσθαι), attribuita a «tutti costoro» (πάντες οὗτοι, cioè, ancora, «gli
antichi»). Significativi il costante riferimento a Empedocle e la citazione
omerica (in Metafisica IV, 5 1009 b28-30 si evocava Iliade XXIII, 698), di cui
molti studiosi ritrovano eco in B16: τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων,
οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε tale è il pensiero degli uomini che
vivono sulla terra, quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei
(Odissea XVIII, 136-7). Il testo di Omero, in effetti, intende marcare la
costitutiva debolezza della comprensione umana e la sua totale dipendenza
dall'operare divino. Esso riflette un punto di vista che circolava nella poesia
arcaica: il νόος dell'uomo come ἀμήχανος (impotente) rispetto a quello divino.
Possiamo rintracciare lo stesso motivo in 588 Archiloco (fr. 68.1-2 Diehl),
Simonide (fr. 1.1-5) e Teognide (vv. 1171-4). Teofrasto Secondo Coxon3,
Teofrasto avrebbe avuto chiaramente presenti l'argomento e la citazione del
maestro, pur utilizzando il frammento per motivi diversi e ricavandolo da un
testo indipendente: non si comprenderebbe altrimenti su quali basi B16
troverebbe collocazione all'interno di una riflessione περὶ αἰσθήσεως (De
Sensu) e come potrebbe riferirsi al dibattito sull'origine della sensazione
(dal simile o dai contrari), se non appunto per la precedente (incrociata)
lettura aristotelica: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν·
οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ
Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι. (3) Π. μὲν
γὰρ ὅλως οὐδὲν ἀφώρικεν ἀλλὰ μόνον, ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις. ἐὰν γὰρ ὑπεραίρηι τὸ θερμὸν ἢ τὸ ψυχρόν, ἄλλην γίνεσθαι τὴν
διάνοιαν, βελτίω δὲ καὶ καθαρωτέραν τὴν διὰ τὸ θερμόν· οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ ταύτην
δεῖσθαί τινος συμμετρίας· ‘ὡς γὰρ ἑκάστοτε, φησίν, ἔ χ ε ι... ν ό η μ α ’ (B
16). τὸ γὰρ αἰσθάνεσθαι καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ λέγει· διὸ καὶ τὴν μνήμην καὶ τὴν
λήθην ἀπὸ τούτων γίνεσθαι διὰ τῆς κράσεως· ἂν δ’ ἰσάζωσι τῆι μίξει, πότερον ἔσται
φρονεῖν ἢ οὔ, καὶ τίς ἡ διάθεσις, οὐδὲν ἔτι διώρικεν. ὅτι δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι
καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν φωτὸς μὲν καὶ
θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν ἔκλειψιν τοῦ πυρός, ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς
καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι. καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν. οὕτω μὲν
οὖν αὐτὸς ἔοικεν ἀποτέμνεσθαι τῆι φάσει τὰ συμβαίνοντα δυσχερῆ διὰ τὴν ὑπόληψιν.
3 Op. cit., p. 247. 589 Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e
diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal
contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e
Eraclito dal contrario... Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato
alcunché, ma solo che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo
l'elemento che prevale: qualora infatti prevalga il caldo o il freddo, il
pensiero cambia [diventa altro], ma migliore e più puro è comunque quello
secondo il caldo. Anche questo, tuttavia, richiede una certa proporzione.
[citazione B16]. Parla del percepire e del pensare come della stessa cosa:
perciò anche la memoria e l'oblio derivano da queste cose attraverso la
mescolanza. Non precisa ulteriormente invece circa l'eventualità che gli
elementi siano equivalenti nella mistione: se ci sarà pensiero o no, e quale la
sua costituzione. Che egli faccia dipendere la percezione anche dal contrario
in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente laddove afferma che il morto
non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la perdita del fuoco, ma che
percepisce freddo, silenzio e i contrari. Nel complesso sostiene che tutto
l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. Così, dunque, egli sembra
eliminare in apparenza le difficoltà che derivano dalla sua teoria. A
differenza della discussione aristotelica dei presunti presupposti ontologici
materialistici e del conseguente sensismo soggettivistico di marca protagorea,
il contesto teofrasteo è quello di un'analisi decisamente gnoseologica.
Dobbiamo tuttavia trattenerci dall'intendere il frammento in chiave di gnoseologia
generale4: né Aristotele né Teofrasto utilizzano i termini parmenidei νόος e
νόημα, limitandosi a correlare τὸ αἰσθάνεσθαι e τὸ φρονεῖν ovvero i derivati αἴσθησις
e φρόνησις. È possibile, dunque, che nessuno dei due intendesse realmente
attribuire a Parmenide la riduzione della conoscenza a percezione5, riferendosi
entrambi piuttosto alla sua teoria della conoscenza del mondo sensibile. 4
Cerri, op. cit., pp. 277-8. 5 Coxon, op. cit., p. 251. 590 In ogni caso,
Teofrasto introduce il riferimento a Parmenide all'interno dell'esame delle due
opinioni prevalenti (secondo lo schema delle testimonianze aristoteliche che
doveva già risultare condizionante6 ): la prima novità rispetto all'indicazione
del maestro, infatti, interviene proprio su questo punto: περὶ δ’ αἰσθήσεως αἱ
μὲν πολλαὶ καὶ καθόλου δόξαι δύ’ εἰσιν· οἱ μὲν γὰρ τῶι ὁμοίωι ποιοῦσιν, οἱ δὲ τῶι
ἐναντίωι. Π. μὲν καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Πλάτων τῶι ὁμοίωι, οἱ δὲ περὶ Ἀναξαγόραν καὶ
Ἡράκλειτον τῶι ἐναντίωι Riguardo alla sensazione le opinioni più numerose e
diffuse sono due: gli uni la fanno derivare dal simile, gli altri dal
contrario. Parmenide, Empedocle e Platone dal simile, i seguaci di Anassagora e
Eraclito dal contrario. Parmenide viene classificato tra i sostenitori della
derivazione della percezione dall'azione del simile sul simile, sebbene
all'inizio della trattazione specifica Teofrasto segnali come: Π. μὲν γὰρ ὅλως
οὐδὲν ἀφώρικεν Parmenide, in effetti, nell’insieme non ha precisato alcunché
[...]. La seconda novità della testimonianza teofrastea è che, immediatamente
di seguito, essa valorizza un particolare trascurato da Aristotele: ἀλλὰ μόνον,
ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] ma solo
che, essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo l'elemento che
prevale. Si tratta probabilmente di un riferimento proprio alla conclusione di
B16: 6 Su questo B. Cassin-M. Narcy, "Parménide sophiste. La citation aristotélicienne
du fr. XVI", in Études sur Parménide, cit., vol. II, p. 281. 591 τὸ γὰρ
πλέον ἐστὶ νόημα ciò che prevale, infatti, è il pensiero. Dal punto di vista di
Teofrasto è questa la peculiarità del contributo parmenideo in campo
conoscitivo: il principio della dipendenza del pensiero dall'elemento che
prevale nella mescolanza. Il terzo rilievo interessante della testimonianza è
quello conclusivo: καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ γνῶσιν Nel complesso
[sostiene] anche che tutto l'essere abbia una qualche capacità conoscitiva. La
convinzione espressa potrebbe discendere dai fondamenti della
"fisica" parmenidea: i due costitutivi "materiali" (Fuoco e
Notte) presenti in tutte le cose hanno «proprietà» (δυνάμεις) per cui
funzionano anche come principi di movimento e conoscenza. Possiamo così
riassumere le preziose informazioni teofrastee sulle concezioni gnoseologiche
di Parmenide: (i) due sono gli elementi coinvolti nella conoscenza (γνῶσις):
«il caldo» (τὸ θερμὸν) e «il freddo» (τὸ ψυχρόν); (ii) essa si produce con il
prevalere di uno dei due (κατὰ τὸ ὑπερβάλλον ἐστὶν ἡ γνῶσις): a seconda della
preponderanza, «il pensiero cambia [diventa altro]» (ἄλλην γίνεσθαι τὴν
διάνοιαν); (iii) il pensiero (διάνοια) qualitativamente migliore (βελτίω δὲ καὶ
καθαρωτέραν) è «quello secondo il caldo» (τὴν διὰ τὸ θερμόν); (iv) «una certa
proporzione [degli elementi]» è tuttavia sempre implicata (δεῖσθαί τινος
συμμετρίας); (v) percepire e pensare sono considerati la stessa cosa (τὸ αἰσθάνεσθαι
καὶ τὸ φρονεῖν ὡς ταὐτὸ); (vi) la percezione è del simile attraverso il simile
(evidentemente Teofrasto ha presente una parte del poema per noi perduta): ὅτι
δὲ καὶ τῶι ἐναντίωι καθ’ αὑτὸ ποιεῖ τὴν αἴσθησιν, φανερὸν ἐν οἷς φησι τὸν νεκρὸν
φωτὸς μὲν καὶ θερμοῦ καὶ φωνῆς οὐκ αἰσθάνεσθαι διὰ τὴν 592 ἔκλειψιν τοῦ πυρός,
ψυχροῦ δὲ καὶ σιωπῆς καὶ τῶν ἐναντίων αἰσθάνεσθαι Che egli faccia dipendere la
percezione anche dal contrario in sé considerato [cioè dal freddo], è evidente
laddove afferma che il morto non percepisce né luce, né caldo, né suono, per la
perdita del fuoco, ma che percepisce freddo, silenzio e i contrari; (vii) tutta
la realtà è dotata di capacità di conoscere (καὶ ὅλως δὲ πᾶν τὸ ὂν ἔχειν τινὰ
γνῶσιν): è chiaro nel contesto, dove ripetutamente si accenna ai due elementi,
che Teofrasto riferisce questa asserzione agli enti sensibili, al mondo fisico.
Al centro dell'esposizione della dottrina parmenidea sono comunque i punti (ii)
e (iii), che giustificano la citazione di B16: Teofrasto ritrova evidentemente
nel poema il rilievo esplicito dell'incidenza della κρᾶσις μελέων sulla qualità
del pensiero, ma solo sotto il profilo della prevalenza di uno dei due
«elementi» (στοιχεία), sottolineando invece l'assenza in Parmenide di una
perspicua considerazione degli effetti dell'eventuale loro equilibrio.
L'impressione è che il frammento parmenideo sia impiegato non tanto per
sostenere una prospettiva rigorosamente conoscitiva (non per marcare la
relazione tra il pensiero e il suo oggetto), quanto piuttosto per rimarcare la
relazione psico-fisica che vi è tematizzata7. Ricostruzione dei vv. 1-2a I
primi due versi del frammento sono di interpretazione relativamente più agevole
rispetto agli ultimi due: nonostante le divergenze nella ricostruzione
sintattica, il senso generale non cambia di molto: ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν
μελέων πολυπλάγκτων, 7 M. Marcinkowska-Rosół, Die Konzeption des
"Noein" bei Parmenides von Elea, De Gruyter, Berlin-New York 2010, p.
181. 593 τὼς νόος ἀνθρώποισι παρέστηκεν Come, in effetti, di volta in volta, si
ha temperamento di membra molto vaganti, così il pensiero si presenta agli
uomini. Come abbiamo segnalato in nota al testo, esistono varie soluzioni per
il soggetto del primo verbo (ἔχῃ) e per il suo valore (transitivo,
intransitivo). Complessivamente, tuttavia, si conferma un'indicazione
fondamentale: la condizione mentale degli uomini è correlata alla loro
situazione fisiologica. Negli esseri umani in generale (ἀνθρώποισι), alle
variazioni (ὡς ἑκάστοτ’ ἔχῃ) dell'amalgama corporea (κρᾶσιν μελέων
πολυπλάγκτων), corrisponde il manifestarsi (τὼς παρέστηκεν) del pensiero
(ovvero della «mente», νόος). Come abbiamo registrato, è quanto Aristotele
rendeva con la correlazione ἕξις-φρόνησις. Si tratta di una tesi di
antropologia generale che trova indirettamente conferma nella tradizione
dossografica: δύο τε εἶναι στοιχεῖα, πῦρ καὶ γῆν, καὶ τὸ μὲν δημιουργοῦ τάξιν ἔχειν,
τὴν δὲ ὕλης. γένεσίν τε ἀνθρώπων ἐξ ἡλίου πρῶτον γενέσθαι· αὐτὸν [?] δὲ ὑπάρχειν
τὸ θερμὸν καὶ τὸ ψυχρόν, ἐξ ὧν τὰ πάντα συνεστάναι. καὶ τὴν ψυχὴν καὶ τὸν νοῦν
ταὐτὸν εἶναι, καθὰ μέμνηται καὶ Θεόφραστος ἐν τοῖς Φυσικοῖς, πάντων σχεδὸν ἐκτιθέμενος
τὰ δόγματα. Disse che due sono gli elementi – fuoco e terra – e che l'uno ha
funzione di artefice, l'altro di materia. Disse che la generazione degli uomini
deriva in primo luogo dal Sole e che a quello [uomo] spettano come elementi il
caldo e il freddo, da cui tutte le cose sono costituite. Disse anche che
l'anima e l'intelligenza sono la stessa cosa, come ricorda anche Teofrasto
nella sua Fisica, dove espone le dottrine di quasi tutti [i filosofi] (Diogene
Laerzio; DK 28A1). Parmenides ex terra et igne [sc. animam esse]. Π. δὲ καὶ Ἵππασος
πυρώδη. Π. ἐν ὅλωι τῶι θώρακι τὸ ἡγεμονικόν. Π. καὶ Ἐμπεδοκλῆς καὶ Δημόκριτος
594 ταὐτὸν νοῦν καὶ ψυχήν, καθ’ οὓς οὐδὲν ἂν εἴη ζῶιον ἄλογον κυρίως Parmenide
dice che l'anima è costituita di terra e fuoco (Macrobio; DK 28 A45) Parmenide
e Ippaso dicono che l'anima è ignea. – Parmenide dice che in tutto il petto ha
sede l'egemonico. – Parmenide ed Empedocle e Democrito dicono che l'intelligenza
e l'anima sono la stessa cosa; secondo loro nessun animale sarebbe
completamente senza ragione (Aëtius; DK 28 A45). Parmenide avrebbe ricondotto
rigorosamente ai suoi principi (Fuoco e Notte, ovvero Fuoco e Terra) la natura
umana, attribuendo alla loro interazione la stessa attività percettiva e
conoscitiva. In particolare, la scelta di κρᾶσις potrebbe rivelare la vicinanza
di Parmenide alle scuole mediche (il termine ritorna in Alcmeone ed Empedocle,
nonché in Democrito): l'idea trasmessa sarebbe quella del temperamento delle
componenti in un'amalgama coesa. Nel testo, comunque, il genitivo μελέων (πολυπλάγκτων)
non si riferirebbe (se non indirettamente) agli elementi, ma immediatamente
alle «membra» corporee, secondo il costume omerico di designare il complesso
fisico con il rinvio alle parti. L'Eleate pare dunque, in primo luogo, attento
a rilevare, nella relazione psicofisica, l'interdipendenza tra disciplina delle
«membra» e condizione della mente 8: in tal caso, il tradizionale motivo
poetico dell'instabilità ed eteronomia9 della comprensione umana risulterebbe
decisamente piegato all'esigenza di marcare non tanto una generica dipendenza
del pensiero (νόος) umano dalle circostanze esterne - come nella formula
omerica sopra ricordata (ed evocata anche da Aristotele in De Anima): τοῖος γὰρ
νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων, οἷον ἐπ’ ἦμαρ ἄγῃσι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε
tale è il pensiero degli uomini che vivono sulla terra, 8 Su questo M. Stemich,
op. cit., pp. 139-142. 9 Riprendo l'espressione da Marcinkowska-Rosół, op.
cit., p. 162. 595 quale il giorno che manda il padre degli uomini e degli dei,
quanto il suo condizionamento da parte del mutevole equilibrio fisiologico
corporeo10. L'attenzione di Parmenide sembrerebbe allora, in secondo luogo,
tesa a marcare proprio la mutevolezza, l'instabilità della situazione
psico-fisica, come rivelerebbe la scelta dell'avverbio ἑκάστοτε («ogni volta,
di volta in volta») e dell'aggettivo composto πολυπλάγκτων («molto vaganti, dai
molteplici movimenti, volubili»). Nel complesso, quindi, nella prospettiva
antropologica adottata nei versi in esame, non v'è dubbio che sia proposta una
concezione del pensare come attività (e del pensiero come prodotto: νόημα) che
sopravviene (anche in questo caso la scelta espressiva è indicativa:
παρέστηκεν, «si presenta») dall'esterno, dal temperamento cangiante di «membra
che molto si agitano» (μελέων πολυπλάγκτων), di cui, insomma, il soggetto non
sembra essere in controllo11. Ricostruzione dei vv. 2b-4 Il frammento prosegue:
τὸ γὰρ αὐτό ἔστιν ὅπερ φρονέει μελέων φύσις ἀνθρώποισιν καὶ πᾶσιν καὶ παντί· τὸ
γὰρ πλέον ἐστὶ νόημα perché è precisamente la stessa cosa ciò che pensa negli
uomini, la costituzione del [loro] corpo, in tutti e in ciascuno: ciò che
prevale, in vero, è il pensiero. 10 Ivi, p. 176. 11 Ivi, pp. 162-3. 596 Si
tratta di uno dei passaggi più controversi dell'intero poema sopravvissuto.
Nella nostra ricostruzione sintattica del testo greco, la Dea, riferendosi alla
propria asserzione secondo cui la qualità del pensiero dipende dal temperamento
delle membra (vv. 1-2a), precisa dapprima come ciò accada in virtù del fatto che
«ciò che pensa negli uomini» (ὅπερ φρονέει ἀνθρώποισιν) coincide (τὸ αὐτό ἔστιν)
con «la costituzione del loro corpo» (μελέων φύσις). La soluzione
interpretativa seguita nella traduzione è, nella sostanza, quella proposta
originariamente da Diels (1897), che appare, rispetto all'insieme del
frammento, la più equilibrata, a dispetto del limite denunciato nella
tradizione critica (Fränkel, Hölscher): la costruzione richiesta, con μελέων
φύσις come apposizione (con valore esplicativo12), risulta un po' artificiosa13.
A questo chiarimento la Dea fa seguire una puntualizzazione: il pensiero
(νόημα, qui da intendere come «contenuto di pensiero») coincide con «ciò che
prevale» (τὸ πλέον). Il senso è chiarito nella testimonianza teofrastea, come
abbiamo avuto modo di registrare: ὅτι δυοῖν ὄντοιν στοιχείοιν κατὰ τὸ ὑπερβάλλον
ἐστὶν ἡ γνῶσις [...] essendo due gli elementi, la conoscenza si produce secondo
l'elemento che prevale. Il lessico di Teofrasto è lessico di
"conoscenza" (γνῶσις); quello del frammento appare piuttosto lessico
di "pensiero" (νόος, νόημα): in assenza del contesto, è la
determinazione del pensiero attraverso gli equilibri fisiologici che sembra
posta al centro dell'attenzione. La Dea, secondo costume (Omero, Archiloco),
informa il κοῦρος, destinatario diretto della comunicazione, circa
l'inevitabile condizionamento del pensiero umano: in altre parole, all'interno
della complessiva illustrazione della realtà cosmica e 12 Come spiegano nel
loro contributo B. Cassin e M. Narcy (p. 290). 13 Per una aggiornata disamina
della discussione critica in merito alle possibili soluzioni nella traduzione
si veda ora Marcinkowska-Rosół, op. cit., pp. 164 ss.. 597 dei suoi processi di
formazione, ella inserisce un resoconto dei meccanismi fisiologici alla base
delle attività spirituali. In realtà, la sua è una modalità didascalica per
mettere in guardia la propria audience. Soprattutto se consideriamo che, a
differenza di quel che accadeva nella rappresentazione omerica che teneva unite
dimensione corporea e dimensione spirituale, il ricorrente impiego di νόος,
νόημα, νοεῖν (B2, B3, B4, B6, B7, B8) suggerisce, nel caso di Parmenide, una
consapevole distinzione delle nozioni di «corpo» (μέλεα) e «spirito/pensiero»
(νόος) e la conseguente valutazione delle loro implicazioni reciproche. Il κοῦρος
è stato invitato a: (i) sottrarsi al giogo della assuefazione empirica: μηδέ σ΄
ἔθος πολύπειρον ὁδὸν κατὰ τήνδε βιάσθω νωμᾶν ἄσκοπον ὄμμα καὶ ἠχήεσσαν ἀκουήν
καὶ γλῶσσαν né abitudine alle molte esperienze su questa strada ti faccia
violenza a dirigere l’occhio che non vede e l’orecchio risonante e la lingua
(B7.3-5a), (ii) tenersi lontano dalla strada per lo più battuta dai «mortali»:
una strada che disorienta, ottundendo i loro sensi e la loro comprensione della
realtà: ἀπὸ τῆς, ἣν δὴ βροτοὶ εἰδότες οὐδέν < πλάσσονται >, δίκρανοι· ἀμηχανίη
γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον· οἱ δὲ φοροῦνται. κωφοὶ ὁμῶς τυφλοί
τε, τεθηπότες, ἄκριτα φῦλα da quella [via di ricerca] che appunto mortali che
nulla sanno, uomini a due teste: impotenza davvero nei loro petti guida la
mente errante. Essi sono trascinati, a un tempo sordi e ciechi, sgomenti,
schiere scriteriate (B6.4-5a), 598 (iii) imparare attivamente, giudicando
criticamente la comunicazione della Dea: κρῖναι δὲ λόγῳ πολύδηριν ἔλεγχον
Giudica invece con il ragionamento la prova polemica (B7.5b), (iv) riflettere
sulla specifica capacità di attualizzazione del pensiero: λεῦσσε δ΄ ὅμως ἀπεόντα
νόῳ παρεόντα βεϐαίως Considera come cose assenti siano comunque al pensiero
saldamente presenti (B4.1), (v) e sulla effettiva natura del suo oggetto: τὸ γὰρ
αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι La stessa cosa, infatti, è pensare ed essere
(B3). In B16, infine, la Dea esplicitamente ricorda come il prodursi del
pensiero sia da inquadrare all'interno di un'ineludibile cornice psico-fisica:
averne cognizione e coscienza comporta, in prospettiva, potersene
avvantaggiare, garantendo al pensiero le condizioni ideali14. Potrebbe allora
non essere casuale la relazione lessicale tra «mente errante» (πλακτὸν νόον, B6.5b-6a):
ἀμηχανίη γὰρ ἐν αὐτῶν στήθεσιν ἰθύνει πλακτὸν νόον impotenza davvero nei loro
petti guida la mente errante, e «membra molto vaganti» (μελέων πολυπλάγκτων,
B16): ὡς γὰρ ἑκάστοτ’ ἔχῃ κρᾶσιν μελέων πολυπλάγκτων, τὼς νόος ἀνθρώποισι
παρέστηκεν come, in effetti, di volta in volta, si ha temperamento di membra
molto vaganti, 14 Così la Stemich, op. cit., pp. 164-5. 599 così il pensiero si
presenta agli uomini. Forse proprio il disordine e l'agitazione del corpo,
espressi da πολυπλάγκτα μέλεα, possono spiegare la confusione che domina il
pensiero dei «mortali». Per converso, possiamo ipotizzare che ai «segni» di
stabilità e compattezza del νόημα ἀμφὶς ἀληθείης (B8) dovesse corrispondere il
miglior temperamento degli elementi corporei: nella testimonianza teofrastea
«il pensiero secondo il caldo» (διάνοια διὰ τὸ θερμόν). Forse l'illustrazione
dei meccanismi fisiologici condizionanti aveva (direttamente o indirettamente)
la specifica funzione di guidare il kouros a una loro corretta gestione:
difficile, infatti, immaginare che il νόημα ἀμφὶς ἀληθείης potesse essere
affidato a un accidentale equilibrio psico-fisico, su cui il destinatario non
avesse opportunità di controllo15. Queste supposizioni assumono maggiore
consistenza se accettiamo i riscontri giunti dalla ricerca archeologica16, i
quali, dopo i ritrovamenti dell'ultimo mezzo secolo, fanno intravedere la
possibilità che la «scuola eleatica» fosse qualcosa di molto diverso da un
«cenacolo di filosofi razionalisti»17: probabilmente un sodalizio consacrato ad
Apollo Οὔλιος (guaritore, risanatore), dunque una scuola di medicina, istituita
forse dallo stesso Parmenide, il quale è evocato in un’iscrizione recuperata a
Velia (l'odierno sito dell'antica Elea) come Πα[ρ]μενείδης Πύρητος Οὐλιάδης
φυσικός (Parmenide, figlio di Pyres, medico di Apollo Guaritore). Altre
iscrizioni recuperate nello stesso luogo confermano l'esistenza di una
tradizione locale di guaritori - apostrofati come Οὖλις ἰατρός φώλαρχος,
letteralmente «risanatore medico signore della caverna» -, che onoravano un Οὐλιάδης
ἰατρόμαντις, un medico- 15 A meno di non interpretare il discorso della Doxa,
come si è fatto tradizionalmente, come una messa in guardia nei confronti di
una elaborazione segnata strutturalmente dall'illusione e dall'inganno: abbiamo
visto, però, che ci sono motivi per credere che non fosse questa l'intenzione
del pensatore di Elea. 16 In precedenza richiamati nel commento al proemio. 17
Passa, op. cit., p. 17. 600 indovino sacerdote di Apollo, da identificare
probabilmente con lo stesso Parmenide18. È possibile, dunque, che egli
praticasse un'arte che si collocava tra medicina e mantica vera e propria,
ricorrendo al φωλεύειν, cioè a una sorta di "incubazione", analoga
alla letargia invernale dell'animale nella tana (φωλεός). Non dovrebbe allora
sorprendere il rilievo circa la relazione psico-fisica all'interno della
esposizione della Doxa. Il medico-indovino, in effetti, diagnosticava il male
in uno stato di trance, decifrando segni e ricavandone indicazioni terapeutiche
idonee19. Nel caso dell'«incubazione», l'esperienza avveniva, dopo una adeguata
preparazione cultuale, rimanendo immobili in assoluto silenzio, in un luogo
consacrato, inaccessibile ai profani: il sonno avrebbe portato con sé il
manifestarsi del dio in sogni e visioni, che lo iatromantis poteva
interpretare. Parmenide potrebbe aver suggerito al kouros una trasformazione
della condizione psicofisica, così da garantire, attraverso il suo controllo,
la perfetta amalgama dei dati percettivi, la loro omogenea fusione nel pensare
corretto. 18 Per queste notizie Kingsley, In the Dark Places of Wisdom, cit.,
pp. 55 ss.; Gemelli-Marciano, Die Vorsokratiker, cit., II, pp. 42 ss.; Ferrari,
Il migliore dei mondi impossibili, cit., pp. 141 ss.. 19 Kingsley, op. cit.,
pp. 120-7. 601 MASCHI E FEMMINE [B17 E B18] I due frammenti (B18 può essere
solo impropriamente definito tale) trattano della differenziazione dei sessi
(B17) e della trasmissione dei caratteri sessuali (somatici e psichici),
delineando un abbozzo di spiegazione embriogenetica. Non a caso sono il
risultato di citazioni scientifiche: a Galeno dobbiamo quella di B17, che
doveva corroborare la sua opinione circa l'originaria formazione del feto
maschile: τὸ μέντοι ἄρρεν ἐν τῶι δεξιῶι μέρει τῆς μήτρας κυΐσκεσθαι καὶ ἄλλοι τῶν
παλαιοτάτων ἀνδρῶν εἰρήκασιν. ὁ μὲν γὰρ Π. οὕτως ἔφη Molti altri tra gli
antichi affermarono che il maschio sia concepito nella parte destra dell'utero.
Parmenide in effetti dice [B17]. Proprio l'intenzione di confermare le proprie
convinzioni biologiche e l'assenza di indicazioni che attestino il rimando
diretto al poema hanno fatto avanzare dubbi sull'attendibilità di quella che
rimane comunque una "scheggia" testuale1. A Celio Aureliano (V
secolo?), traduttore di opere della tradizione medica greca - in particolare,
nel caso specifico, delle due parti del monumentale Περὶ ὀξέων καὶ χρονίων παθῶν
(Sulle malattie acute e croniche) di Sorano di Efeso (I-II secolo) - dobbiamo
invece la parafrasi in versi che Diels-Kranz hanno classificato come B18. La
citazione è proposta nel seguente contesto: Parmenides libris quos d e n a t u
r a scripsit, eventu inquit conceptionis molles aliquando seu subactos homines
generari. cuius quia graecum est epigramma, et hoc versibus intimabo. latinos
enim ut potui simili modo composui, ne linguarum ratio misceretur. ‘femina...
sexum ’. Parmenide, nei libri Sulla natura, afferma che, secondo le modalità di
concezione, si generano talvolta 1 Conche, op. cit., p. 258. 602 uomini molli e
sottomessi. Dal momento che il suo testo greco è in versi, lo proporrò io pure
in versi: ho composto, infatti, versi latini di tenore analogo, per quanto mi è
stato possibile, per non confondere il carattere specifico delle due lingue.
[B18] [...]. Celio Aureliano mette dunque sull'avviso: la sua non è citazione
letterale, ma traduzione-rielaborazione2, sebbene, come ha osservato Coxon3, la
facilità con cui si possono volgere in greco i suoi versi latini attesta la
loro fedeltà al greco (come segnalato dalla precisazione: «ut potui simili
modi»). Per mettere a fuoco il nodo cui i passaggi del poema evocati dalle
citazioni si riferivano, sono essenziali le testimonianze di Aëtius e
Censorino: Ἀναξαγόρας, Π. τὰ μὲν ἐκ τῶν δεξιῶν [sc. Σπέρματα] καταβάλλεσθαι εἰς
τὰ δεξιὰ μέρη τῆς μήτρας, τὰ δ’ ἐκ τῶν ἀριστερῶν εἰς τὰ ἀριστερά. εἰ δ’ ἐναλλαγείη
τὰ τῆς καταβολῆς, γίνεσθαι θήλεα igitur semen unde exeat inter sapientiae
professores non constat. P. enim tum ex dextris tum e laevis partibus oriri
putavit Anassagora e Parmenide sostengono che i semi della parte destra sono
gettati nella parte destra dell'utero, quelli della sinistra nella parte
sinistra. Se la fecondazione è invertita, si generano femmine. Tra i cultori
della sapienza non vi è certezza circa la provenienza del seme [lett.: da dove
esca il seme]. Parmenide, infatti, credeva che provenisse ora dalla parte
destra, ora dalla parte sinistra (28 DK A53). Evidentemente Parmenide prendeva
posizione nel confronto scientifico circa natura e meccanismi del concepimento,
e loro effetti sul sesso dell'embrione. In particolare, la testimonianza di
Aëtius interviene a integrare e correggere l'indicazione di Galeno. Questi
richiama Parmenide come uno dei primi sostenitori della 2 Cerri, op. cit., p.
285. 3 Op. cit., p. 253 603 tesi secondo cui il maschio sarebbe concepito nel
lato destro dell'utero: tesi attribuita da Aristotele (De generatione animalium
IV, 1 763 b30 ss.) ad Anassagora e «altri fisiologi» (ἕτεροι τῶν φυσιολόγων):
φασὶ γὰρ οἱ μὲν ἐν τοῖς σπέρμασιν εἶναι ταύτην τὴν ἐναντίωσιν εὐθύς, οἷον Ἀναξαγόρας
καὶ ἕτεροι τῶν φυσιολόγων· γίγνεσθαί τε γὰρ ἐκ τοῦ ἄρρενος τὸ σπέρμα, τὸ δὲ θῆλυ
παρέχειν τὸν τόπον, καὶ εἶναι τὸ μὲν ἄρρεν ἐκ τῶν δεξιῶν τὸ δὲ θῆλυ ἐκ τῶν ἀριστερῶν,
καὶ τῆς ὑστέρας τὰ μὲν ἄρρενα ἐν τοῖς δεξιοῖς εἶναι τὰ δὲ θήλεα ἐν τοῖς ἀριστεροῖς
Alcuni sostengono che tale opposizione si trovi già in origine nei semi, come
Anassagora e altri fisiologi. Il seme, infatti, origina dal maschio, la femmina
invece fornisce il luogo; e il maschio viene da destra, la femmina da sinistra,
e i maschi si formano nelle parti destre dell'utero, le femmine nelle parti
sinistre, e associata a quella secondo cui il carattere sessuale preesiste nel
seme (fornito esclusivamente dal genitore maschio) al concepimento: il seme che
trasmette carattere maschile proviene dalla parte destra, quello che trasmette
carattere femminile dalla sinistra. Integrando Galeno, si può fondatamente
avanzare l'ipotesi che Parmenide facesse derivare i maschi e le femmine
rispettivamente dalla parte destra e dalla parte sinistra dei genitali maschili
e femminili. La versione latina di Celio Aureliano aiuta in particolare a
chiarire la posizione di Parmenide circa il contributo al concepimento: Femina
virque simul Veneris cum germina miscent, Venis informans diverso ex sanguine
virtus Temperiem servans bene condita corpora fingit. Quando femmina e maschio
mescolano insieme i semi di Venere, la potenza formatrice nelle vene, che
[deriva] da sangue opposto, 604 conservando la giusta misura plasma corpi ben
fatti (B18.1-3). Il testo (di tenore parmenideo4 ) offre, in effetti, alcune
informazioni importanti: (i) i semi originano dal sangue (maschile e
femminile); (ii) esistono quindi due tipologie di semi, rispettivamente
maschile e femminile: essi sono opposti come il sangue da cui provengono5 («da
sangue opposto», diverso ex sanguine); (iii) i due semi, maschile e femminile,
cooperano nella riproduzione. Incrociando queste informazioni con i riferimenti
delle testimonianze e dei contesti delle citazioni, possiamo così ricostruire
la probabile posizione parmenidea sulla relazione genetica dei figli ai
genitori6: entrambi i semi delle parti (genitali) destre generano maschi simili
ai padri; entrambi i semi delle parti sinistre generano femmine simili alle
madri; negli altri due casi (semi delle parti sinistra e destra, maschile e
femminile), maschi simili alle madri o femmine simili ai padri. Parmenide
probabilmente riteneva che dalla corretta mescolanza di seme maschile e seme
femminile dovesse scaturire un'equilibrata costituzione psico-fisica: le due
tipologie di seme, infatti, conferivano specifiche proprietà (virtutes,
δυνάμεις), che, mescolandosi i semi, erano destinate a combinarsi in un'unica
potenza formatrice (informans virtus). È quanto si ricava dal rilievo in
negativo che chiude B18: Nam si virtutes permixto semine pugnent Nec faciant
unam permixto in corpore, dirae Nascentem gemino vexabunt semine sexum. Se,
infatti, una volta mescolato il seme, le forze confliggono e non diventano
un'unica potenza nel corpo prodotto dalla mescolanza, malefiche 4 Conche, op.
cit., p. 262. 5 Ibidem. 6 Coxon, op. cit., p. 253. 605 affliggeranno il sesso
nascente con il [loro] duplice seme (B18.4-6), e dal commento di Celio
Aureliano alla sua citazione: vult enim seminum praeter materias esse virtutes,
quae si se ita miscuerint, ut eiusdem corporis faciant unam, congruam sexui
generent voluntatem; si autem permixto semine corporeo virtutes separatae
permanserint, utriusque veneris natos adpetentia sequatur Pretende infatti che
i semi abbiano, oltre a materia, anche virtù formatrici (virtutes), le quali se
si mescolano così da produrre dello stesso corpo una sola virtù, generano
carattere (voluntatem) conforme al sesso; nel caso in cui, invece, una volta
mescolato il seme corporeo, le virtù siano rimaste separate, deriva ai nati
desiderio di entrambi i tipi di amore. Se la misura nella opposizione dei semi
fosse stata rispettata (temperiem servans) nella loro mescolanza (permixto
semine), si sarebbe realizzata complementarità nelle loro proprietà, garantendo
così un'unione equilibrata e armoniosa (unam permixto in corpore). In caso
contrario la disarmonia si sarebbe instaurata nei corpi, producendo disagio
sessuale e psichico7: lo sviluppo coerente della personalità sessuale (congruam
sexui voluntatem) era funzione dell'armonia dei contrari nella costituzione
dell'essere umano. Le presunte tesi biologiche di Parmenide presentano
certamente affinità con quanto attestato del pensiero del contemporaneo
Alcmeone, nella tradizione dossografica proposto come «discepolo di Pitagora»
(Diogene Laerzio; 24 DK A1). Nel frammento B4 del suo Περὶ φύσεως leggiamo
infatti: Ἀ. τῆς μὲν ὑγιείας εἶναι συνεκτικὴν τὴν ἰ σονομίαν τῶν δυνάμεων, ὑγροῦ,
ξηροῦ, ψυχροῦ, θερμοῦ, πικροῦ, γλυκέος καὶ τῶν λοιπῶν, τὴν δ’ ἐν αὐτοῖς
μοναρχίαν νόσου ποιητικήν· φθοροποιὸν γὰρ 7 Ivi, p. 254. 606 ἑκατέρου
μοναρχίαν. [...]. τὴν δὲ ὑγείαν τὴν σύμμετρον τῶν ποιῶν κρᾶσιν Ciò che mantiene
la salute, afferma Alcmeone, è l'equilibrio di forze: umido, secco, freddo
caldo, amaro, dolce e così via; la supremazia di una di esse, invece, è foriera
di malattia: micidiale è, in effetti, il predominio di ognuno degli opposti.
[...] La salute, invece, è mescolanza misurata delle qualità. Sono evidenti le
consonanze lessicali (δυνάμεις, κρᾶσις) ed è probabile l'accordo sulla tesi
fondamentale di Alcmeone: che la salute del corpo sia funzione della isonomia
degli elementi contrari, e la malattia espressione di uno squilibrio. Le
testimonianze accentuano le convergenze anche nello specifico: ex quo parente
seminis amplius fuit, eius sexum repraesentari dixit A. Alcmeone afferma che il
feto ha il sesso di quello, tra i genitori, il cui seme è stato più abbondante»
(Censorino; DK 24 A14). Alcmeone condivideva con Parmenide la convinzione che
entrambi i genitori contribuissero con semina (σπέρματα) al concepimento, pur
avendo sull'origine dello sperma un'opinione diversa: Ἀ. ἐγκεφάλου μέρος (sc. εἶναι
τὸ σπέρμα) Alcmeone sosteneva che [il seme fosse] parte del cervello (Aëtius;
DK 24 A13). Mentre Coxon8 nota in questo senso come Parmenide seguisse
Alcmeone, Ruggiu9 tende a rovesciare la relazione, convinto che nello specifico
l'influenza sia stata esercitata da Parmenide su Alcmeone. La questione è in
effetti complessa. È probabile che Alcmeone ricavasse le proprie opposizioni
(umido-secco, freddo-caldo, amaro-dolce ecc.) dalla più antica 8 Op. cit., p.
252. 9 Op. cit., p. 366. 607 tradizione ionica, la stessa che dovette ispirare
le tavole pitagoriche, ma anche il modello parmenideo: l'orizzonte fisico
appare ancora quello delle origini e non va dimenticato che le osservazioni
biologiche di Parmenide sono inquadrate all'interno di una complessiva
interpretazione del mondo naturale in chiave oppositiva (Fuoco-Notte). Il primo
riferimento all'unione sessuale e alla riproduzione che abbiamo registrato
nell'analisi dei frammenti (B12) le introduceva direttamente in chiave cosmica:
ἐν δὲ μέσῳ τούτων δαίμων ἣ πάντα κυϐερνᾷ· πάντων γὰρ στυγεροῖο τόκου καὶ μίξιος
ἄρχει πέμπουσ΄ ἄρσενι θῆλυ μιγῆν τό τ΄ ἐναντίον αὖτις ἄρσεν θηλυτέρῳ. in mezzo
a queste la Dea che tutte le cose governa. Di tutte le cose ella sovrintende
all'odioso parto e all’unione, spingendo l’elemento femminile a unirsi al
maschile, e, al contrario, il maschile al femminile (B12.3-6). È possibile,
come abbiamo in precedenza argomentato, che Parmenide abbia effettivamente
elaborato il proprio sistema (διάκοσμος) misurandosi con le proposte
pitagoriche proprio sul terreno decisivo della cosmogonia e cosmologia;
probabile che ciò sia avvenuto comunque tenendo ben presenti le soluzioni
ioniche. Dal momento che le testimonianze, soprattutto i recenti rilievi
archeologici, fanno supporre uno specifico interesse medico, non deve
sorprendere la possibilità che un confronto sia intervenuto anche in ambito
biologico. Il tema dell'opposizionericomposizione degli elementi risulta per
altro ricorrente: come sottolineava Maria Timpanaro Cardini a proposito di
Alcmeone: come alla fisica ionica si ricollegava probabilmente la primitiva
dualità pitagorica ἄπειρον-πέρας [...], così da quella stessa fisica trasse
verosimilmente Alcmeone 608 alcune opposizioni [...] le cui potenze egli
constatava nella pratica della medicina10. Su questo sfondo piuttosto sfumato è
possibile parlare di comuni obiettivi scientifici nella ricerca di Parmenide e
Alcmeone, di convergenze nei risultati, sulla scorta di paradigmi esplicativi
condivisi, forse anche pitagorici. A Crotone una fiorente scuola medica
preesisteva all'arrivo di Pitagora, a testimoniare l'autonomia dell'indagine e
della pratica medica, sebbene poi esse siano documentate anche nell'ambito
della tradizione pitagorica antica, a conferma che la medicina fu avvertita
come μάθημα essenziale11. 10 M. Timpanaro Cardini, Pitagorici antichi.
Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2010 (edizione originale
1958-1964), pp. 134-5. 11 Ivi, p. 133. 609 B19 Il frammento B19 ci è conservato
esclusivamente da Simplicio (In Aristotelis de caelo 558), in un contesto
particolare (557-8), in cui si susseguono in poche righe tre citazioni del
poema parmenideo (B1.28-32, B8.50-53 e appunto B19): οἱ δὲ ἄνδρες ἐκεῖνοι διττὴν
ὑπόστασιν ὑπετίθεντο, τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου
τοῦ αἰσθητοῦ, ὅπερ οὐκ ἠξίουν καλεῖν ὂν ἁπλῶς, ἀλλὰ δοκοῦν ὄν· διὸ περὶ τὸ ὂν ἀλήθειαν
εἶναί φησι, περὶ δὲ τὸ γινόμενον δόξαν. λέγει γοῦν ὁ Παρμενίδης [B1.28-32]. ἀλλὰ
καὶ συμπληρώσας τὸν περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγον καὶ μέλλων περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν ἐπήγαγεν [B8.50-53]. παραδοὺς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐπήγαγε
πάλιν [B19]. πῶς οὖν τὰ αἰσθητὰ μόνον εἶναι Παρμενίδης ὑπελάμβανεν ὁ περὶ τοῦ
νοητοῦ τοιαῦτα φιλοσοφήσας, ἅπερ νῦν περιττόν ἐστι παραγράφειν; πῶς δὲ τὰ τοῖς
νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ ὁ χωρὶς μὲν τὴν ἕνωσιν τοῦ νοητοῦ
καὶ ὄντως ὄντος παραδούς, χωρὶς δὲ τὴν τῶν αἰσθητῶν διακόσμησιν ἐναργῶς καὶ μηδὲ
ἀξιῶν τῷ τοῦ ὄντος ὀνόματι τὸ αἰσθητὸν καλεῖν; Quegli uomini [Parmenide,
Melisso] posero una duplice ipostasi: quella dell'essere che è veramente,
dell'intelligibile, e quella dell'essere che diviene, del sensibile, il quale
essi non ritennero opportuno chiamare essere in senso assoluto, ma essere che
appare. Per questo afferma[no] che la verità riguarda l'essere, l'opinione il
divenire. Parmenide, infatti, dice: [B1.28-32]. Ma anche una volta completato
il ragionamento intorno all'essere che è veramente, e sul punto di introdurre
[la trattazione sul]l'ordinamento delle cose sensibili, aggiunse: [B8.50- 53].
Dopo aver fornito esposizione sistematica delle cose sensibili, aggiunse
ancora: [B19]. Ma come ha potuto Parmenide supporre esistessero solo le cose
sensibili, lui che intorno alle cose intelligibili era stato in grado di
condurre riflessioni di tale consistenza e mole da non 610 poter ora essere
riportate qui? Come ha potuto trasferire le caratteristiche proprie delle cose
intelligibili alle cose sensibili, lui che con chiarezza distingue tra l'unità
dell'intelligibile e del vero essere e l'ordinamento delle cose sensibili e non
ritiene opportuno indicare il sensibile con il nome di essere? Riflettendo
sulle indicazioni qui fornite da Simplicio, e incrociandole con le sue stesse
citazioni, dovremmo concludere che: (i) il poema si articolava in due sezioni
principali, per le quali il commentatore trova conferma in B1.28b-32; (ii) il
passaggio tra le due sezioni avviene ai vv. B8.50-53; (iii) il nostro B19 era
apposto a compimento di quella che il commentatore designa come διακόσμησις τῶν
αἰσθητῶν (sulla scorta del διάκοσμος di B8.60): ciò non autorizza tuttavia la
deduzione che esso chiudesse il poema1. Ancora sulla doxa parmenidea Il
contesto ci fornisce dunque una prospettiva d'insieme - ovviamente quella
culturalmente e teoreticamente condizionata dell'intellettuale neoplatonico del
VI secolo - sulla struttura del poema. Il proemio, in effetti, avrebbe, secondo
Simplicio, delineato nel programma espositivo della Dea (B1.28-32) due ambiti:
(i) il primo dedicato al «discorso/ragionamento sul vero essere» (περὶ τοῦ ὄντως
ὄντος λόγος), in altre parole alla «verità riguardo all'essere» (περὶ τὸ ὂν ἀλήθεια):
nel lessico della tradizione platonico-aristotelica si tratta dell'ambito
dell'«intelligibile» (τὸ νοητόν), che costituisce l'«essere in senso assoluto»
(ὂν ἁπλῶς); (ii) l'altro, relativo all'illustrazione sistematica
dell'«ordinamento sensibile» (διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν, ma anche περὶ τῶν αἰσθητῶν
διδάσκειν), si riferisce all'«essere in divenire» (τὸ γινόμενον), il cui
statuto ontologico è quello di «essere che 1 Non tutti concordano su questo
punto: Conche (op. cit., p. 265), per esempio, non concede che il frammento –
naturale conclusione della cosmologia del poema – ne costituisse anche la vera
e propria chiusa. 611 appare» (δοκοῦν ὄν): Simplicio insiste sulla sua natura
«sensibile» (τὸ αἰσθητόν), dunque sul suo manifestarsi nell'esperienza. La
trattazione specifica è designata – in contrapposizione alla verità che
concerne l'essere in senso pieno - come «opinione riguardo all'essere in
divenire» (περὶ τὸ γινόμενον δόξα). È chiara, nel contesto del discorso,
l'interpretazione di Simplicio dei versi conclusivi (28b-32) del proemio: χρεὼ
δέ σε πάντα πυθέσθαι ἠμέν Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς
οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής. ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα χρῆν
δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα. La struttura effettiva del poema
doveva, dopo l'introduzione, prevedere: (i) la rivelazione circa «di Verità ben
rotonda il cuore saldo » (Ἀληθείης εὐκυκλέος ἀτρεμὲς ἦτορ): si tratta di ciò
cui allude Simplicio con περὶ τοῦ ὄντως ὄντος λόγος; (ii) la ricostruzione
effettiva (δοκίμως) di τὰ δοκοῦντα, delle «cose che appaiono», ovvero delle
«cose accettate nelle opinioni», che corrispondono a quanto il commentatore
designa come δοκοῦν ὄν: la rivelazione della Dea avrebbe dunque investito anche
l'ambito «sensibile», proponendo appunto una διακόσμησις τῶν αἰσθητῶν. Il
contesto delle citazioni fa intravedere come, per Simplicio, l'articolazione
del Περὶ φύσεως fosse essenzialmente positiva, non prevedendo una specifica
sezione riservata all'esame degli errori umani – alle «opinioni dei mortali, in
cui non è reale credibilità» (βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής) -, che
doveva invece essere distribuito nelle altre due. Negli interrogativi retorici
che seguono la citazione di B19, troviamo conferma di una linea di lettura del
poema che, all'interno della tradizione platonica, ha per noi un importante
precedente in Plutarco: ὁ δ’ ἀναιρεῖ μὲν οὐδετέραν φύσιν, ἑκατέρᾳ δ’ ἀποδιδοὺς
τὸ προσῆκον εἰς μὲν τὴν τοῦ ἑνὸς καὶ ὄντος 612 ἰδέαν τίθεται τὸ νοητόν, ὂν μὲν ὡς
ἀίδιον καὶ ἄφθαρτον ἓν δ’ ὁμοιότητι πρὸς αὑτὸ καὶ τῷ μὴ δέχεσθαι διαφορὰν
προσαγορεύσας, εἰς δὲ τὴν ἄτακτον καὶ φερομένην τὸ αἰσθητόν. ὧν καὶ κριτήριον ἰδεῖν
ἔστιν, ‘ἠμὲν Ἀληθείης εὐπειθέος ἀτρεκ< ὲς ἦτορ >’, τοῦ νοητοῦ καὶ κατὰ ταὐτὰ
ἔχοντος ὡσαύτως ἁπτόμενον, ‘ἠδὲ βροτῶν δόξας αἷς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής’ διὰ τὸ
παντοδαπὰς μεταβολὰς καὶ πάθη καὶ ἀνομοιότητας δεχομένοις ὁμιλεῖν πράγμασι.
καίτοι πῶς ἂν ἀπέλιπεν αἴσθησιν καὶ δόξαν, αἰσθητὸν μὴ ἀπολιπὼν μηδὲ δοξαστόν;
οὐκ ἔστιν εἰπεῖν. [Parmenide] non elimina alcuna delle due nature, ma a ognuna
conferendo ciò che le è proprio, pone l'intelligibile nella classe dell'uno e
dell'essere, definendolo «essere» in quanto eterno e incorruttibile, e ancora
uno per uguaglianza a se stesso e per non accogliere differenza; il sensibile
invece in quella di ciò che è disordinato e in mutamento. Il criterio di ciò è
possibile vedere: «il cuore preciso della Verità ben convincente», che
raggiunge l'intelligibile e quanto è sempre nelle medesime condizioni, e «le
opinioni dei mortali in cui non è vera certezza», perché esse sono congiunte
con cose che accolgono ogni forma di mutamento, di affezioni e disuguaglianze. Come
avrebbe potuto allora conservare sensazioni e opinione, non conservando il
sensibile e l'opinabile? Non è possibile sostenerlo (Plutarco, Adversus Colotem
1114 d-e), e nella dossografia peripatetica (Teofrasto): Π. Πύρητος ὁ Ἐλεάτης ἐπ’
ἀμφοτέρας ἦλθε τὰς ὁδούς. καὶ γὰρ ὡς ἀίδιόν ἐστι τὸ πᾶν ἀποφαίνεται καὶ γένεσιν
ἀποδιδόναι πειρᾶται τῶν ὄντων, οὐχ ὁμοίως περὶ ἀμφοτέρων δοξάζων, ἀλλὰ κατ’ ἀλήθειαν
μὲν ἓν τὸ πᾶν καὶ ἀγένητον καὶ σφαιροειδὲς ὑπολαμβάνων, κατὰ δόξαν δὲ τῶν πολλῶν
εἰς τὸ γένεσιν ἀποδοῦναι τῶν φαινομένων δύο ποιῶν τὰς ἀρχάς, πῦρ καὶ γῆν, τὸ μὲν
ὡς ὕλην τὸ δὲ ὡς αἴτιον καὶ ποιοῦν. 613 Parmenide figlio di Pyres, da Elea […]
percorse entrambe le strade. Mostra, infatti, che il tutto è eterno, e cerca
anche di spiegare la generazione delle cose che sono, non avendo sulle due vie
le stesse convinzioni: piuttosto, secondo verità egli sostiene che il tutto è
uno e ingenerato e di aspetto sferico; secondo l’opinione dei molti, invece, al
fine di spiegare la generazione delle cose che appaiono, pone due principi,
fuoco e terra, l'uno come materia, l'altro invece come causa e agente (DK 28
A7). Ma chiaramente all'origine di questa valutazione delle prospettive (in
termini di contenuto e struttura) del poema parmenideo troviamo l'analisi
aristotelica: Παρμενίδης δὲ μᾶλλον βλέπων ἔοικέ που λέγειν· παρὰ γὰρ τὸ ὂν τὸ μὴ
ὂν οὐθὲν ἀξιῶν εἶναι, ἐξ ἀνάγκης ἓν οἴεται εἶναι, τὸ ὄν, καὶ ἄλλο οὐθέν [...] ἀναγκαζόμενος
δ’ ἀκολουθεῖν τοῖς φαινομένοις, καὶ τὸ ἓν μὲν κατὰ τὸν λόγον πλείω δὲ κατὰ τὴν
αἴσθησιν ὑπολαμβάνων εἶναι, δύο τὰς αἰτίας καὶ δύο τὰς ἀρχὰς πάλιν τίθησι, θερμὸν
καὶ ψυχρόν, οἷον πῦρ καὶ γῆν λέγων· τούτων δὲ κατὰ μὲν τὸ ὂν τὸ θερμὸν τάττει
θάτερον δὲ κατὰ τὸ μὴ ὄν Parmenide, invece, sembra in qualche modo parlare con
maggiore perspicacia: dal momento che, ritenendo che, oltre all’essere, il
non-essere non esista affatto, egli crede che l’essere sia di necessità uno e
nient’altro. […] Costretto tuttavia a seguire i fenomeni, e assumendo che l’uno
sia secondo ragione, i molti invece secondo sensazione, pone, a sua volta, due
cause e due principi, chiamandoli caldo e freddo, ossia fuoco e terra. E di
questi dispone il caldo sotto l’essere, il freddo sotto il non-essere
(Metafisica I, 5 986 b27 - 987 a1). Possiamo leggere il passo aristotelico
proprio come un tentativo di sottrarsi agli schemi della originaria ricezione
sofistica (giorgiana in particolare) del pensiero eleatico: Aristotele intende
marcare, nello specifico, l'opzione teorica di Parmenide da quella di Melisso,
il monismo «rispetto alla definizione (ovvero ragio- 614 ne)» (κατὰ τὸν λόγον)
dell'uno, da quello «rispetto alla materia» (κατὰ τὴν ὕλην) dell'altro.
Anticipando l'argomento di fondo della polemica plutarchea contro l'epicureo
Colote, lo Stagirita poteva sottolineare come «ciò che è» (τὸ ὄν) è «uno» (ἓν)
«secondo ragione» (appunto κατὰ τὸν λόγον), «molteplice» (πλείω) «secondo la
sensazione» (κατὰ τὴν αἴσθησιν). Si evitava in questo modo di fare di Parmenide
il sostenitore di un mero «uno-tutto» ovvero «essere-uno» (ἓν τὸ πᾶν, ἓν τὸ ὄν)
- formule cui era stata ridotta l'essenza della filosofia eleatica soprattutto
in alcuni dialoghi della maturità di Platone (Teeteto, Parmenide, Sofista,
Timeo) 2 – che avrebbero ridotto il mondo molteplice e cangiante
dell'esperienza a pura illusione. Come rivela il caso di Colote (e la risposta
di Plutarco), si trattava effettivamente di una ricezione diffusa,
probabilmente proprio sulla scorta dello schema gorgiano del Περὶ τοῦ μὴὄντος ἢ
Περὶ φύσεως. Ripercorrendo le testimonianze e valutando gli interrogativi
retorici che Simplicio faceva seguire alla propria citazione di B19 e dunque al
riferimento al complesso della doxa parmenidea, appare giustificata una lettura
"costruttiva" della seconda sezione del poema. In Teofrasto e
Simplicio – che certamente disponevano di copie diverse del poema, trasmesse da
tradizioni testuali almeno parzialmente alternative 3 - si conferma, in
particolare, la prospettiva aristotelica di un doppio resoconto della stessa
realtà4: secondo ragione e secondo esperienza. Parmenide, in altre parole, pur
avendo coerentemente messo a fuoco i caratteri dell'oggetto dell'intelligenza –
e quindi correttamente distinto tra i due ambiti (τὴν μὲν τοῦ ὄντως ὄντος τοῦ
νοητοῦ, τὴν δὲ τοῦ γινομένου τοῦ αἰσθητοῦ) -, avrebbe poi mancato di
individuarne la specifica realtà intelligibile: come sottolinea Simplicio, egli
di fatto «proiettò sugli enti sensibili quanto adeguato agli enti
intelligibili» (τὰ τοῖς νοητοῖς ἐφαρμόζοντα μετήνεγκεν ἐπὶ τὰ αἰσθητὰ). 2 Su
questo in particolare Passa, Parmenide. Tradizione del testo e questioni di
lingua, cit., p. 23. 3 Ivi, pp. 25 ss.. 4 Per questa linea interpretativa si
veda J. Palmer, Parmenides & Presocratic Philosophy, cit., pp. 32 ss., in
particolare pp. 38-41. 615 B19 e la doxa I tre versi del nostro frammento, poco
più di una scheggia testuale, ribadiscono sinteticamente i termini della
discussione: come abbiamo indicato in nota, la formula οὕτω τοι introduce
effettivamente la ricapitolazione del discorso sulle cose «fisiche» considerate
nel loro insieme (e ne traggono, in questo senso, la lezione «metafisica»5 ): οὕτω
τοι κατὰ δόξαν ἔφυ τάδε καί νυν ἔασι καὶ μετέπειτ΄ ἀπὸ τοῦδε tελευτήσουσι
τραφέντα· τοῖς δ΄ ὄνομ΄ ἄνθρωποι κατέθεντ΄ ἐπίσημον ἑκάστῳ Ecco, in questo
modo, secondo opinione, queste cose ebbero origine e ora sono, e poi, in
seguito sviluppatesi, avranno fine. A queste cose, invece, un nome gli uomini
imposero, distintivo per ciascuna. Il punto di vista adottato - κατὰ δόξαν –
giustifica l'insistenza sulla dimensione temporale delle forme verbali
impiegate: ἔφυ, νυν ἔασι, τελευτήσουσι τραφέντα. Non è difficile intravedere la
corrispondente prospettiva del νόημα ἀμφὶς Ἀληθείης, espressa in B8.5: οὐδέ
ποτ΄ ἦν οὐδ΄ ἔσται, ἐπεὶ νῦν ἔστιν ὁμοῦ πᾶν. Il rilievo del divenire passa, in
vero, attraverso scelte espressive ben ponderate: a) il passato espresso con ἔφυ
richiama etimologicamente (φύω) la centralità della φύσις (B10) nella ricerca
condotta (διάκοσμος) nella seconda sezione del poema; b) il presente connotato
avverbialmente (νυν) limpidamente evoca, per contrasto, il νῦν di B8.5,
caricandosi, rispetto all'immutabile stabilità di quel contesto, di un senso di
precarietà e sfuggente puntualità; c) lo sviluppo, il mutamento e la caducità
sono resi come τελευτήσουσι τραφέντα, marcando, insomma, il nesso tra fine e
compimento, con la ripresa di una forma verbale – τελευτάω - de- 5 Conche, op.
cit., p. 265. 616 rivata da τέλος e τελέω, ma, nuovamente, con un valore
diverso rispetto a quello di analoghi derivati in B8 (B8.4: ἀτέλεστον; B8.32: οὐκ
ἀτελεύτητον; B8.42: τετελεσμένον): il senso è qui quello di «concludersi in
quanto giunto al proprio fine e al proprio compimento»6. Per la terza volta,
dopo B8.38b-41 e B8.53, i versi del poema insistono sullo spessore linguistico
della doxa: e ancora, come nei due precedenti, essenzialmente per rilevarne gli
effetti distorcenti. L'origine dell'erranza umana, dello sviamento che gli
uomini perpetrano e perpetuano nel linguaggio, risiede nell'ordinamento dei
contenuti fenomenici all'interno di una determinata cornice linguistica, in cui
appare implicita la possibilità di qualcosa di diverso dall'essere stesso7. Non
a caso l'interpretazione κατὰ δόξαν parmenidea si era aperta stabilendo
principi (B9) di cui esplicitamente si escludeva la partecipazione al nulla. In
questo senso, Ruggiu8 ha colto nel linguaggio di Parmenide - in particolare in
questo passaggio - il tentativo di elaborare un lessico più vicino alla verità
delle cose; come in B4, dove l'apparire era stato proposto non nei termini
ontologici dell'«essere» e del «non-essere», ma in quelli della «presenza» e
dell'«assenza». Un sforzo che ancora ci riporterebbe ad Aristotele, che ne
avrebbe colto alcuni aspetti nella sua polemica antieleatica: ζητοῦντες γὰρ οἱ
κατὰ φιλοσοφίαν πρῶτοι τὴν ἀλήθειαν καὶ τὴν φύσιν τῶν ὄντων ἐξετράπησαν οἷον ὁδόν
τινα ἄλλην ἀπωσθέντες ὑπὸ ἀπειρίας, καί φασιν οὔτε γίγνεσθαι τῶν ὄντων οὐδὲν οὔτε
φθείρεσθαι διὰ τὸ ἀναγκαῖον μὲν εἶναι γίγνεσθαι τὸ γιγνόμενον ἢ ἐξ ὄντος ἢ ἐκ μὴ
ὄντος, ἐκ δὲ τούτων ἀμφοτέρων ἀδύνατον εἶναι· οὔτε γὰρ τὸ ὂν γίγνεσθαι (εἶναι γὰρ
ἤδη) ἔκ τε μὴ ὄντος οὐδὲν ἂν γενέσθαι· ὑποκεῖσθαι γάρ τι δεῖν. καὶ οὕτω δὴ τὸ ἐφεξῆς
συμβαῖνον αὔξοντες οὐδ’ εἶναι πολλά φασιν ἀλλὰ μόνον αὐτὸ τὸ ὄν. Ruggiu. Coloro
che per primi hanno ricercato secondo filosofia, indagando la verità e la
natura degli enti, dall'inesperienza furono spinti su una via diversa: essi
sostengono che delle cose che sono nessuna si generi o si distrugga, poiché ciò
che si genera origina o da ciò che è o da ciò che non è; ma è impossibile da
entrambi i punti di vista. Ciò che è, infatti, non si genera (dal momento che è
già); né da ciò che non è è possibile si generi alcunché: è richiesto in
effetti qualcosa che funga da sostrato [soggiacia]. Così si spinsero,
aggravando le cose, ad affermare che non esistano i molti ma che esista solo
l'essere (Fisica I, 8 191 a25 ss.). Verb fīō
(present infinitive fierī, perfect active factus sum); third conjugation,
semi-deponent (passive form of) faciō (copulative) I become, am made Vōs
ōrāmus ut discipulī ācerrimī fīātis. We are begging you so that you may
becomevery keen students I happen, take place, result, arise – quotations, synonyms.
Synonyms: interveniō, ēveniō, expetō, obtingō, incurrō, accēdō, incidō, accidō,
contingō ut fit ― as happens usually/as is customary fit ut ― it happens that
Titus Livius, Ab Urbe Condita I, 13: silentium et repentina fit quies A
stillness and a sudden hush took place I appear quotations: Titus Livius, Ab
Urbe Condita I, 10: fit obvius cum exercitu Romulus Romulus appeared with his
army Conjugation Edit While it does have a fourth conjugation pattern when
conjugated, this verb has an irregular infinitive (fierī), and is therefore
third conjugation. Conjugation of fīō (third conjugation iō-variant,
irregular long ī, suppletive in the supine stem, semi-deponent) indicative
singular plural first second third first secondthird activepresent fīō fīs fit fīmus fītis fīunt imperfect
fīēbam fīēbās fīēbat fīēbāmus fīēbātis fīēbant future fīam fīēs fīet fīēmus fīētis fīent perfect
factus + present active indicative of sum pluperfect factus + imperfect active
indicative of sum future perfect factus + future active indicative of sum
subjunctive singular plural first second thirdfirstsecondthird active present
fīam fīās fiat fīāmus fīātis fīant imperfect fierem fierēs fieret fierēmus
fierētis fierent perfect factus + present active subjunctive of sum pluperfect
factus + imperfect active subjunctive of sum imperative singular plural first
second third first secondthird activepresent— fī — — fīte — future—fītō
fītō—fītōte fīuntō non-finite formsactivepassive presentperfect future
presentperfect future infinitives fierī factumessefactum īrī participles factus
verbal nounsgerundsupine genitivedative accusativeablativeaccusativeablative
fiendīfiendō fiendum fiendō factum factū Usage notes Edit This verb ousted
Facior, Facī in the sense of "to be made". Verb Edit fīō
first-person singular present passive indicative of faciō Related terms Edit
faciō fīat lūx fīat jūstitia ruat cælum Descendants Edit Vulgar Latin: *fiō
(see there for further descendants) → English: fiat References Edit fio in
Charlton T. Lewis and Charles Short (1879) A Latin Dictionary, Oxford:
Clarendon Press fio in Charlton T. Lewis An Elementary Latin Dictionary, New
York: Harper & Brothers fio in Gaffiot, Félix (1934) Dictionnaire illustré
Latin-Français, Hachette. Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni
sulla metafora mitica in Parmenide Author(s): Antonio Capizzi Source: Quaderni
Urbinati di Cultura Classica, New Series, Vol. 3 (1979), pp. 149-160 Published
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Urbinati di Cultura Classica This content downloaded from 128.143.23.241 on
Wed, 22 Jun 2016 10:52:17 UTC Eliadi, Meleagridi, Pandionidi. Osservazioni
sulla metafora mitica in Parmenide. Non
posso fare a meno di ringraziare Fajen per la dura critica che ha rivolto alia
mia interpretazione dei frammenti di Parmenide. Devo ringraziarlo perche, a
differenza di altri critici non meno duri, prima di giudicare il mio saggio lo
ha letto da cima a fondo e lo ha compreso assai bene, dato che i punti da lui
attaccati sono in effetti gl’argomenti portanti della mia dimostrazione. Ma
soprattutto devo essergli grato perche, attaccando quei punti, mi ha costretto
ad approfondirli, e conseguentemente a scoprire nuovi e piu validi argomenti in
loro favore. A questo punto, pero, i ringraziamenti finiscono. Gli argomenti di
Fajen colpiscono i bersagli giusti, ma li colpiscono assai debolmente.
Vediamoli in breve uno per uno. a) lo ritengo che la mia intera interpretazione
del frammento 1, e cio? la lettura realistica e topografica del viaggio di
Parmenide sulla "via del nume", poggi sui solido pilastro dei tempi
verbali “Sulla natura”; sui fatto cio? che, nei due punti in cui il viaggio si
localizza, in quanto vengono nominate prima la via e poi la porta, la
narrazione passa dai tempi storici ai tempi principali. Fajen invece del parere
che, in qualunque modo la narrazione venga considerata, sia come preparatoria
ad una specie di rivelazione o simili, sia come esposizione di un viaggio
storico, i tempi sono comunque privi di un qual siasi peso. Premetto che il “Sulla
natura”, formalmente parlando, in ogni caso "preparatorio ad una specie di
rivelazione". Il contenuto del “Sulla natura” viene presentato come il
discorso di una dea, Dike, a Parmenide, cosi come il contenuto della Teogonia
una rivelazione che altre dee, le muse, hanno fatto ad Esiodo. E la divergenza
tra le varii interpretazioni verte sulla localizzazione dell’incontro tra la
divinita e il poeta, localizzazione inesistente nelle letture mistiche e [Gymnasium,
La porta di Parmenide, Roma] allegoriche, esistente nel mondo celeste nelle
esegesi astronomiche, e infine esistente in una citta reale di questo mondo -- certamente
Velia -- nella mia interpretazione. Ora, Fajen puo pensare cio che meglio crede
sui significato dei tempi verbali nei vari tipi di narrazione; ma tanto il suo
parere quanto il mio restano inverificabili se non si basano su esempi
concreti. Concretamente parlando, i filosofi precedenti Parmenide, o a lui
contemporanei, non ci forniscono esempi di narrazioni allegoriche in prima
persona. E, per quanto concerne viaggi nel Pal di l? (celeste, infero o mistico
che sia questo al di l?), non ci danno che la Nekyia omerica. Ma anche la sola
Nekyia, analizzata strutturalmente, ? assai significativa per il nostro
problema. Essa si compone di tre parti: il passaggio di Ulisse e dei suoi
compagni per l’ultimo agglomerato umano, abitato da esseri viventi e definibile
come un 8?po<; e come una toXic 3, e cio? per il paese dei Cimmerii {k
1-19); il loro inoltrarsi nei luoghi indicati da Circe4, e cio? nel bosco di
Persefone, dove viene scavata una fossa alla quale le ombre dei morti giungono
uscendo fuori dalPErebo 5 (k 20-565); infine la penetrazione di Odisseo
(preannunciata da un intermezzo in cui Al cinoo assicura il suo ospite che ci?
che dira verra creduto 6 anche se narrera "avvenimenti
straordinari"7) nella casa stessa di Ade8, dove pu? vedere anche
personaggi (Minosse, T?ntalo, Sisifo) impos sibilitati ad uscire dalPErebo (k
583 sgg.). La seconda parte, la pi? lunga, si svolge tutta presso la fossa, in
mezzo ad una nebbia che a mala pena lascia vedere i contorni delle persone, ed
? quindi priva di localizzazioni; la prima e la terza, invece, contengono
localizzazioni e descrizioni rispettivamente di cose del nostro mondo (appunto
la citt? e la terra dei Cimmerii) e del mondo dei morti (il lago e Palbero di
T?ntalo, il monte e il macigno di Sisifo). Ora, parlando dei Cim merii il poeta
interrompe la serie degli aoristi e degli imperfetti, che punteggiano il
viaggio della nave, con un presente (xccTaS?pxETai, v. 16) e con un perfetto
equiparabile ad un presente (Texaxai, v. 19); mentre ci? non avviene per i
luoghi delPErebo, e cio? per il lago (Xlexvtq-Tzpoff?Tzko?^z, v. 583; uSwp
anokzcrxzio, v. 586), per la 3 Evfra 8? KiujXEptcov ?vSpcov 5?p?<; te tc?Xic
te (0?. XI 14). 4 ocpp' e<; x&pov a^xou-eft' ov cppacTE K?pxiQ (ibidem,
22). 5 ai 5' ?y?povTo ipuxai ?rc?? 'Epa?eix; (ibidem, 36-37). 6 J??, 363-366. 7
dicrxzka spy a (ibidem, 374). 8 xoct' E?puTCuX?? "A?5w? 565 Eliadi,
Meleagridi, Pandionidi 151 terra lasciata scoperta dal ritirarsi del lago {ycda
piXaiva cp?vECXE, v. 587), per gli alberi (S?vSpea .. . x&, v. 588), per il
macigno (tot' ?-Koo-zpityaaxz xpotTout;, v. 597), e soprattutto per la cintura
di Era cle, la cui descrizione ? an?loga a quella parmenidea della porta (fr.
1, vv. 11-13), ma ne differisce appunto perch? alP dai iniziale si sosti tuisce
un Tjv (v. 610). II processo, per cui i tempi storici di una nar razione si
interrompono e lasciano il posto ai tempi principali ogni volta che il
narratore vuole localizzare con precisione il racconto rea l?stico, non ?
limitato all'inizio della Nekyia: molti dei numerosi rac conti contenuti
nelPultima parte dtWOdissea vi fanno ricorso9; ed ? presente anche nei tragici,
come nella narrazione della sconfitta di Salamina fatta in Eschilo dal
messaggero persiano 10, allorch? questi vuole localizzare un'isola n e un fiume
12, o l? dove il "pedagogo" di Euripide, riferendo di av?re udito la
gente parlare di un decreto di Creonte 13, allude a una fontana ben nota (come
la porta e la via di Parmenide) ai suoi ascoltatori. b) Pi? centrata ?
Posservazione di Fajen a proposito del termine aorxu: per me la oS??
TO^?cpirpoc Sai[jiovo<; r\ xax?c tc&vt' ?cron, cp?psi elS?toc cpwTa ? la
via principale della citt?, che congiunge tutti i quar tieri cittadini; Fajen
mi osserva che acnu non significa "quartiere cit tadino", ma la
citt?, o una sua parte composta di pi? quartieri. Fin qui il critico ha
probabilmente ragione: "quartiere" implica un cen tro compatto,
magari diviso in quattro parti come nelle citt? nate da accampamenti; e
xgct<x tuocvt' ?o*TT] significa "attraverso tutte le cit 9 Tra i molti
racconti che punteggiano la storia di Odisseo approdato ad Itaca ve ne sono
due, quello di Eumeo a Odisseo (XV 390-486) e l'altro di Odisseo a Penelope che
ancora non lo ha riconosciuto (XIX 165-202), che sem brano ricalcati su uno
stesso clich?: entrambi infatti contengono un'introdu zione, nella quale
l'oratore acconsente a parlare e spiega le ragioni del suo as senso (XV
390-402; XIX 165-171); una localizzazione, in cui vengono descritte
rispettivamente le isole di Siria e di Creta (XV 403-412; XI 172-178); e la
narra zione vera e propria, legata alia localizzazione in entrambi i casi dal
ricordo di un re che regnava nelle terre descritte (XV 413-486; XIX 178-202).
La localiz zazione ? sempre caratterizzata da tempi principali, la narrazione
da tempi sto rici; e ci? avviene anche in altri racconti deH'ultima parte
d?iVOdissea (cfr. ad es. XXIV 331-344). 10 Pers. 272 sgg. 11 Ibidem, 447-449.
12 Ibidem, 487. 13 Med. ta" (in
quanto forse la Via del Nume non aveva solo un tratto citta dino, ma
congiungeva Velia a Posidonia e alle altre citt? costiere) o "attraverso
tutti i nuclei abitati" (nel senso che la strada univa i due porti,
Pacropoli e magari la fortezza di Moio della Civitella, avam posto velino verso
il retroterra 14. Ma, anche concedendo la corre zione, non ci ritroviamo sempre
in una lettura topogr?fica, e cio? pro prio in quella lettura che Fajen ritiene
inammissibile? Dato che Fajen non propone interpretazioni alternative, devo
supporre che egli opti per le interpretazioni non topografiche ten?ate fino ad
oggi. Ora, se si accetta la lettura che fa del proemio un'allegoria speculativa
simbo leggiante il viaggio delPintelletto verso la conoscenza (Fr?nkel, Bowra,
Deichgr?ber), gli occttt) sono le province del sapere; se si propende per
Piniziazione religiosa o mist?rica (Diels, Mondolfo, Zafiropulo, Jaeger,
Verdenius, Untersteiner, Mansfeld, ecc), dobbiamo intendere per ?o-rr] i gradi
delPilluminazione; se infine si sceglie Pesplorazione c?smica, e cio? la corsa
sui carro del sole lungo le orbite celes ti (Gil bert, Kranz, Capelle), i
"centri abitati" simboleggiano i segni dello zodiaco o qualcosa di
simile. Fajen, cosi scrupoloso nel consultare gli autori antichi in cerca
delPesatto significato di acrru, ha trovato in qualche scrittore traslati di
questo genere? Se si, sar? lieto di saperlo. c) Diels ritiene che il
izk?-zTovai = -rcXoco-crovTai di Parm. 6,5 non sia una forma regolare di
rcXacrcrG), ma una forma an?mala di izka?u, e puntella la sua ipotesi con
esempi tratti dal tarantino; Fajen mi concede il diritto di rifiutare gli
esempi, "non essendo plausibile un dorismo in quel contesto", ma non
di invalidare Pipotesi, essendo Pipotesi stessa {Tzkavvovzai per TcXa?ovTcci)
fondata su "un'intera se rie di verbi in -o"o*co invece del -?w che
ci si aspetterebbe" citata nella grammatica greca di Schwyzer 15. Non
credo che sia necessario rileg gere le grammatiche per sapere ehe in greco le
reg?le sulla formazione del presente dal tema verbale sono alquanto precarie:
ma icX?Cco ha un presente regolare attestato da numerosi scrittori, e Diels non
lo ha certo negato. Diels ipotizza un hapax, e cio? una forma irrego lare che
sarebbe attestata dal solo Parmenide, e solo in quel passo; e non devo essere
io a ricordare al collega che un'ipotesi di hapax (cosi corne anche un
emendamento) viene a cadere appena si dimostri che 14 Si veda in proposito E.
Greco, 'Il (ppo?piov di Moio della Civite?V, Riv. studi salern. 1969, pp.
389-396. 15 E. Schwyzer, Griechische Grammatik I, M?nchen il passo ha senso compiuto senza di essa.
Anche se Fajen trovasse non una serie di presenti irregolari o di doppi
present? (come quelli elen cati da Schwyzer), ma addirittura una serie di hapax
analoghi a quello presunto da Diels, Poner? della prova resterebbe sempre a
lui. Alla fine della sua breve ma densa recensione Fajen mi accusa "di non
essere al servizio della scienza", e non posso dargli torto: se scienza ?
quella che traspare dalle sue argomentazioni, essa consiste nelPaccettare il
vecchio perch? vecchio e nel rifiutare il nuovo perch? nuovo; e scienziato ?
chi (come Cesare Cremonini) rifiuta di guardare nel cannocchiale se il cannocchiale
non mostra Puniverso descritto da Aristotele. II servizio di questo tipo di
scienza lo lascio volentieri al mio c?rtese obiettore. 2. Ho tralasciato
volutamente il primo argomento di Fajen, quello riguardante la mia
interpretazione delle "fanciulle Eliadi", citate in Parm. 1,9, come
pioppi fiancheggianti la strada, dato che in tutte le fonti, tranne che in
Omero, le 'HXi?S?<; compaiono trasformate in pioppi o in altri alberi: Fajen
obietta che in questi autori vi ? sempre (tramite il nome di Fetonte o Paccenno
al pianto delle fanciulle) al lusione al mito metamorfico, allusione che in
Parmenide viene a man care. Se accettiamo il criterio qui proposto, ci troviamo
al di fuori di ogni possibilit? interpretativa: le Eliadi non possono essere
a?YSi?poi come in Eschilo perch? Parmenide non si riferisce al mito di Fetonte,
ma neanche possono essere v?^cpai come in Omero perch? Parmenide non accenna al
mito di Odisseo. Se poi cerchiamo di completarlo con altri criteri, Pallusione
al mito di Fetonte ? preferibile non solo per la quantit? delle fonti, e per la
contemporaneit? tra Parmenide ed Eschilo che ? la pi? antica di esse, ma anche
e soprattutto perch? Pespressione 'HXi?SEc (a volte accompagnata da xo?pai e a
volte no) ci risulta esclusivamente nelle narrazioni del mito metamorfico. Ma
anche ammettendo che la mia lettura incontri qualche difficolt?, Pin
terrogativo ? lo stesso che ci siamo posti a proposito di rcavi' ?crn}: quai ?
Palternativa, e che cosa ? stato proposto fino ad oggi? Ancora una volta: se
optiamo per la lettura speculativa, le Eliadi sono forze intellettuali; se
riprendiamo Pipotesi mistica, sono potenze divine; se ripieghiamo
sull'interpretazione astron?mica, sono ?nergie cosmi che. In quale mito
troviamo le Eliadi come equivalenti di cose del genere? E quali riferimenti di
Parmenide ci riportano a miti consimili? Ci? che Fajen sembra trascurare ? il
fatto che fino ad oggi nes suno ha letto il proemio di Parmenide come una
narrazione mitica mai esistito un mito di cui fosse protagonista lo scrittore
che lo nar rava) : i moderni fautori delle tre interpretazioni menzionate pi?
sopra hanno visto tutti nelle Eliadi una met?fora; quanto agli antichi (il cui
giudizio Fajen mi rimprovera di trascurare), Sesto Emp?rico, P?nico che abbia
tentato un'interpretazione del proemio, riduce anch'egli a met?fora le figlie
del sole (che simboleggerebbero le sensazioni)I6, mentre Proclo 17 attesta il
continuo uso di metafore (xp^oflai [XETacpo pa??) da parte di Parmenide, e il
retore Menandro 18 precisa che fece uso di quelle particolari metafore mitiche
consistenti nel dire "Apol lo" per sole, "Era" per aria,
"Zeus" per calore, ecc. Si tratta di metafore comunissime in tutta la
letteratura antica, da Omero in poi, e costruite proprio nel modo che io
propongo per le Eliadi parme nidee e che Fajen ritiene inammissibile: il
personaggio m?tico viene nominato al posto delPoggetto cui ? associato, senza
alcun riferimento al mito che giustifica Passociazione. Queste considerazioni
sarebbero sufficienti per rispondere alie contestazioni di Fajen; ma, come ho
detto, la mia inveterata abitudine di rimettere in questione le mi? tesi mi ha
spinto a fare ulteriori ri cerche sulle strutture della met?fora mitica. Ho
osservato, ad esempio, che questo tipo di met?fora, pur essendo forse il pi?
fr?quente nel Pantichit?, compare assai di rado nel lungo elenco di metafore
poe tiche e retoriche fornitoci da Aristotele 19, e il fatto non mi ? sembrato
casuale: Panomalia dipende, a mio avviso, "dal carattere sincr?nico e non
diacronico delPindagine aristot?lica, alia quale ? estraneo il pro blema della
genesi e delPevoluzione della lingua e dei suoi modi"20. Aristotele scrive
in un'epoca nella quale i poeti cominciavano gi? a comporre pensando ad altri
poeti, i retori in pol?mica con altri re tori, cosicch? le metafore erano
soprattutto preziosismi stilistici (?cTTEia): tutta Pindagine aristot?lica
valuta le metafore a seconda del loro valore est?tico, e non c'? una volta che
il filosofo di Stagira si ponga il problema del rapporto tra efficacia e
comprensibilit?. Per Aristotele la met?fora ? letteraria, non popolare; ed ?
per questo che lo interessano assai poco le metafore mitiche, che sono
allusioni dei 16 Sext. Adv. Math. VII 112. 17 Parm. I 665,17. 18 Rhet. I 5,2.
19 Poet. 21-22; Rhet. Ill 2-4; 10-11. 20 G. Morpurgo Tagliabue, Ling?istica e
stilistica di Aristotele, Roma poeti e degli oratori a modi di dire gi?
esistenti e diffusi tra la gente del pop?lo che (in ?poca di viva tradizione
orale) li ascolta diretta mente. Aristotele, insomma, non pensava mai che gli
aedi omerici dovevano farsi capire dalla gente delle citt? che visitavano; e
che i poeti e gli oratori del sesto e del quinto sec?lo avevano un ben pre ciso
uditorio 21, nel quale le loro met afore dovevano suscitare reazioni immediate.
Nessun cantore o parlatore avrebbe detto "Ares" per indicare la
guerra se non av?sse saputo che i suoi ascoltatori usavano gi? la stessa
met?fora; e le metafore mitiche erano popolari prima di essere letterarie. La
popolarit? delle metafore cui pi? sopra ho accennato era senza dubbio estesa
all'intero mondo di lingua greca, e la ragione ? f?cil mente intuibile: si
tratta di metafore o gi? presenti nei poemi ome rici, o da essi der?vate. Ma
esistevano metafore mitiche popolari di origine postomerica o extraomeriea:
Empedocle, che subi fortemente la suggestione stilistica di Parmenide, e che
gi? il retore Menandro accomunava a Parmenide proprio per Puso di metafore
mitiche22, usa per i suoi elementi tre nomi di divinit? omeriche, Zeus, Era e
Edoneo (= Ade), ma per il quarto elemento, Pacqua, si serve di Nesti23, una
divinit? siciliana24; e abbiamo qui un chiaro esempio di met?fora po? tica che
riproduce una met?fora mitica popolare locale, e cio? di poesia adattata ad un
uditorio limitato, come era anche quella di Parmenide. Le Eliadi pero, pur non
essendo un mito omerico, non sono neanche un mito locale campano, o pi? in
gen?rale italiota: sono, nel momento in cui Parmenide compone il suo poema, un
mito tr?gico. I miti metamorfiei e i miti dionisiaci sono i due pi? importanti
gruppi di miti non omerici, ed hanno entrambi la stessa origine: i sa tiri e i
sileni della mitografia dionisiaca, le donne-uccello e le donne albero della
mitografia metamorfica, derivano tutti certamente dai riti di caccia, raccolta
e agricoltura in cui i danzatori o le danzatrici si camuffano con pelli di
animali o con fronde vegetali per mimare 21 Rinvio, per lo sviluppo di questa
prospettiva storica, a B. Gentili, 'Aspetti del rapporto poeta committente
uditorio nella lirica c?rale greca', Stud. urb. 39, 1965, pp. 70-88: per
Parmenide si vedano le pp. 87-88. 22 Menand. loc. cit. 23 Emp. fr. 6, v. 3; fr.
96, v. 2. Un altro personaggio facente parte di un mito siceliota, Baub?, la
nutrice di Persefone, viene nominato da Empedocle (fr. 153) metaf?ricamente per
indicare il ventre. 24 Lo attestano Eustazio {ad II. p. 1180,14) e Fozio (s.v.
N^ctttic). appunto le operazioni di sostentamento collettivo e propiziarne la
buona riuscita. Tali miti hanno dunque, fin dalle origini, uno stretto l?game
con la tragedia ^ ?(che ricorda nel suo stesso nome il travesti mento con pelli
di capra): non c'? dunque da meravigliarsi se fu la tragedia a renderli
popolari in tutta la Grecia, man mano che le com pagnie girovaghe li
rappresentavano. Le metafore popolari nate da questi miti sono chiaramente di
origine tr?gica. I miti metamorfici hanno scarse metafore, ed ? facile capire
il perch?: nella maggioranza di essi (Aracne, Dafne, Cieno, Atlante, Aretusa,
ecc.) il personaggio che si trasforma ha gi? il nome della cosa nella quale si
trasformer?, essendo costruito solo in funzione della metamorfosi. Ma spesso si
tratta in vece di personaggi gi? no ti fuori del mito metamorfico, o comunque
dotati di nomi propri, e allora la met?fora ? possibile: ? questo appunto il
caso delle Eliadi, gi? pre sent? in Omero in una narrazione non metamorfica, e
che rientrano nella tipolog?a delle "sorelle trasformate mentre piangono
la morte di un congiunto". Una variante del mito delle Eliadi ? la storia
delle Meleagridi, anch'esse "sorelle piangenti", che differiscono
dalle Elia di per il nome del fratello morto (Meleagro anziehe Fetonte) e per
il tipo di metamorfosi (uccelli anziehe pioppi), ma ad esse strettamente si
l?gano per il fatto che dopo la metamorfosi piangono lacrime d'am bra: in
effetti Plinio il vecchio cita entrambe le favole nella sua lunga elencazione
delle opinioni sulPorigine dell'ambra, e ne mette anche in evidenza la comune
origine tr?gica, attestando come la storia delle Eliadi derivi dalPomonimo dramma
di Eschilo 26 e quella delle Me leagridi dal Meleagro di Sofocle. Ma la
leggenda delle Meleagridi presenta analogie anche con quella delle Pandionidi,
figlie di un m? tico re di Atene, che probabilmente nella versione originaria
erano 25 Questo l?game ? ancora rintracciabile, ad esempio, nel Prometeo inca
tenato, dove lo, fanciulla trasformata in vacca cui continuamente si allude
anche nelle Supplici, viene d?fini ta ?ouxepcoc irapdevoc (v. 588): ? chiaro
che ancora in Eschilo il personaggio trasformato in animale compariva sulla
scena con una maschera atta a ricordare l'animale stesso. ? probabile che anche
negli Uccelli di Aristofane Procne entrasse in scena con qualche attributo
legato alla sua me tamorfosi in uccello: alla maschera animalesca alludono
chiaramente i due per sonaggi che commentano la sua comparsa (vv. 672-674). 26
?piufumi po?tae dixere, primique, ut arbitror, Aeschylus, etc." {N.H.
XXXVII 2, 11,31). 27 "Super omnis est Sophocles po?ta tragicus [...] Hic
ultra Indiam fieri dixit e lacrimis meleagridum avium Meleagrum
deflentium" [ibidem, 41). This content downloaded from 128.143.23.241 on
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state trasformate in rondini mentre piangevano anch'esse un parente morto (e ce
lo suggerisce il fatto che tanto Esiodo28 quanto Saffo29, due poeti vissuti
assai lontani Puno dalPaltra nel tempo e nello spa zio, chiamino IIav8iovi<;
la rondine): divenute uccelli corne le Melea gridi, esse esprimono il loro
dolore non con lacrime, ma con strid?i. Nei tragici, prima in forma allusiva
nel primo coro delle Supplici di Eschilo, poi per esteso nel Tereo di Sofocle,
troviamo questo mito gi? contaminate (probabilmente per la somiglianza tra i patronimici
Ilav Siovi? e navSapTQi?) con quello di Aedone, figlia di Pandareo, che uc cide
per errore il proprio figlio Itilo e si trasforma in usignolo M, oltre che con
la truce storia (variante tessala del mito di Medea) della vendetta di Procne
su Tereo: ne vien fuori un complesso mito meta morfico, dove le Pandionidi si
sono prec?sate nelle due sorelle Procne e Filomela, mutate Puna in usignolo e
Pa?tra in rondine, mentre Tereo si trasforma in upupa; tuttavia anche in questo
caso il mito diventa popolare (e ce lo attesta perfino Aristofane)31 quando si
rappresenta pubblicamente la tragedia sofoclea che narra la metamorfosi. Tutti
e tre questi miti diedero luogo a metafore popolari, e Ate ne, proverbialmente
ricca di uccelli, appunto la sua attenzione sui due miti sofoclei, ritrovando
le Pandionidi e le Meleagridi nelle colonie avicole locali: la rondine dovette
essere chiamata abitualmente Filo mela, se tutti compresero a vol? quando
Gorgia ne apostrofo una con questo nome (una met?fora famosissima, evidentemente,
se perfino Aristotele32, che abbiamo visto cos? restio a citare metafore
mitiche, la ritenne degna di menzione); e Meleagridi furono chiamati, pi? in
gen?rale, gli uccelli che nidificavano numerosi nelPAcropoli e che ri
chiamavano con immediatezza agli Ateniesi le immagini e i cori del Meleagro 33.
A Velia, ricca di pioppi **, suscito invece maggiore im 28 Op. 568. Probabile
reminiscenza esiodea in Mnesalc. Anth. Palat. IX 70. 29 Fr. 88 Bergk. 30 Od.
XIX 518-523; Apollod. III 5,6. 31 Toia?Ta uivToi Eo<poxX??}? )apa?v?Tai ?v
to?? TpaY^Siaiciv ?ui t?v Trjp?a (4i;. 100-101). 32 Rhet. III 3, 1406 b 16-19.
33 Hesych.: MeXeocyp?Se? opv?i?, ai ?v?u-ovco ?v t^ ?xpoitoXei. 5W.: M?
X?aYP?8?c * opv?a, ?citep ?v?p,ovTO ?v xfi ?xporcoXei X?Youca 8? o? uiv tgc?
?SfiXcp?? toO M?X?aYPOu [xz-zct?aXzl^ ?i? tgc? u-?X?aYp?8a<; apvida? xtX.
Phot. s.v. = Sud. 34 Cfr. L# porta di Parmenide cit. pp. 33-34. This content
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to http://about.jstor.org/terms 158 A. Capizzi pressione la
metamorfosi delle Eliadi messa in scena da Eschilo: gli abitanti del centro
campano cominciarono a chiamare "fanciulle Elia di" gli alberi che
fiancheggiavano la Via del Nume, tanto che Par menide utilizz? Pimmagine
mitizzata degli alberi per caratterizzare la "famosa via". Ma il
fatto significativo ? che chiunque alludesse alle metafore popolari locali non
mancava di riferirsi anche, pi? o meno apertamente, alle trag?die cui il suo
uditorio riallacciava le metafore. Gorgia lo fece da oratore, dato che si
rivolse alla rondine-Filomela "col pi? elevato tono dei tragici"35;
Parmenide invece si comporto anche in questo da poeta, illuminando la met?fora
popolare di origine eschilea con altre metafore tratte dai testi stessi di
Eschilo, come Tuso di "xaX?-rcTpi?]" per "?ocpo?" e di
"x??P" per "o?o?" e l'?vidente gioco sui doppio significato
di "x?pa" ("testa" e "cima"36 che ritroviamo
nella splendida immagine del verso 10: "xaX?-rcTpa" per "velo di
t?n?bre" ? in effetti accertato come espressione eschilea37, mentre le
immagini della trasformazione delle braccia in rami e della testa in cima
frondosa sono anche nei versi dedicati aile Eliadi da Ovi dio 38, versi che
nella parte finale (allorch? le sorelle si lamentano tutte insieme con un
andamento che richiama i cori tragici)39 sembrano fortemente influenzati dalle
Eliadi di Eschilo, dove le figlie del Sole costituivano appunto il coro. ?
anche significativo come queste metafore popolari abbiano dato, in epoca pi?
tarda, esiti assai simili: mentre i mitografi conti nuavano a narrare la
metamorfosi senza discostarsi molto dalla versione tr?gica, gli scienziati
attingevano ai nomi mitici per denominare ani mali o piante poco conosciuti. Il
nome di Filomela, che i latini usa 35 aplata twv TpaYixwv (Arist. loe. cit.).
Aristotele aveva coito bene l'al lusione perch? conosceva il testo del Tereo
(cfr. Poet. 16, 1454 b 37). 36 Per x?pa significante "cima d'albero"
cfr. Soph. fr. 23 Nauck. 37 Cfr. Choeph. &14. Ma va chiarito che i versi di
Parmenide risentono con tinuamente di quelli di Eschilo: si cfr. per es. Eum.
516 con Parm. 1,25; Eum. 538-542 con Parm. 1,14; Prom. 210 con Parm. 8,53-54;
Prom. 447 con Parm. 7,5; ecc. 38 Tertia cum crines manibus laniare pararet,
avellit frondes. Haec stipite crura teneri, ilia dolet fieri longos sua brachia
ramos (Met. II 350-352). 39 Parce, precor, mater, quaecumque est saucia clam?t,
parce precor: nostrum laniatum in arbore corpus vano come sin?nimo di
"uccello"40 o pi? specificamente di "ron dine"41, venne
dato dai naturalisti greci prima ad una specie di cuculo (la "filomela
maggiore")42, poi per estensione al pesce-cuculo (trigla cuculus)43, cosi
detto perch? si diceva emettesse un suono simile al canto delPuccello omonimo;
e Pequivalenza tra "rondine" e "Pan dionide" fece si che la
celidonia (la comune "erba da porri"), detta dai Greci per la sua
forma "x^S?viov pi?Ya" {= "rondinella mag giore") venisse
detta a volte anche "tcocvSlo? pt?oc"44, certamente, come ben vide
Wellmann, corruzione di un originario "IlavSiovic; pi?a".
"Uccello meleagride" fu, a cominciare da Aristotele45, e so prattutto
dal suo discepolo Clito da Mileto, che ne fece una minuziosa descrizione46, il
nome dato dagli ornitologi47 alla gallina faraona, e cio? a quello, tra gli
uccelli comuni nelPAcropoli, che si riteneva ori ginario dall'Etolia48, sede
del mito di Meleagro. Non ce dunque da stupirsi se, con un processo del tutto
id?ntico, i botanici chiamarono "pioppo eliade"49 una certa variet?
di quella pianta. L'unica differenza tra i miti di questo gruppo sta dunque nel
fatto che i glossari e i trattati di retorica ci hanno trasmesso le meta fore
popolari zoologiche di Atene e non quelle botaniche di Velia; e la ragione ?
quella che deduciamo da Diogene Laerzio ^: la maggior notoriet? e anche la
maggior presunzione (\xzyaka\)yi*v<) della metr?poli attica rispetto alia
piccola e poco nota polis italiota, "capace solo di allevare uomini di
valore". Ci? non ci impedisce pero di ritrovare 40 Qualis populea moerens
philomela sub umbra amissos queritur fetus, quos durus ara tor observans nido
implumes detraxit (Verg. Georg. IV 511-513). 41 "Mortalium penatibus
fiducialis nidos philomela suspendit, et inter commanentium turbas pullos
nutrit intr?pida" (Cassiod. Var. VIII 31). 42 Mey<xXtq (piXou//)Xa
(Ptochoprodr. Ms. c. Hegumen.). 43 Aristot. Hist. anim. IV 9; Lexicon Ms.
Cyrill. s.v.; Gloss, ad Oppian. Hal. s.v. K?xxuyEc. 44 [Diosc] De mat. med. II
180. 45 Hist. anim. VI 2, 559 a 25. 46 Riportata testualmente da Athen. XIV 655
B-E. 47 Diod. Ill 39,2; Paus. X 9,16; Pollux, V 90; Plin. N.H. X 26,74. 48
Menodot. Sam. ap. Athen. XIV 655 A. 4* ttqv T?pa?5a ai'YEipov (Philostr. V.
Apoll. T. V 5,87). quelle metafore nei
versi del pi? illustre figlio di Velia, n? di rico noscerle come tali anche se
in quei versi essa compare disgiunta dalla nota narrazione cui fa evidente
riferimento. . Antonio Capizzi.
Keywords: Velia, la scuola di Velia. Zenone, sono/fui, il latino no necesita il
verbo divenire, perche usa la radice de fui-. +l’adolescenziale, conversazione,
calogero, veliatichi, veliadi meleagridi, pandionidi veliatico, eliadico,
meleagride, pandionide, fieri, in esse,
in fieri. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Capizzi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Capocasale—segni di
dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Montemurro). Filosofo italiano. Grice:
“You gotta love Capocasale; my favourite is his ‘corso filosofico,’ which the
monks rendered as ‘CVRSVS PHILOSOPHICVS,’ almost alla Witters! Capocasale multiplies
the principles of reason – I thought there was just one – On top, he uses the
trouser-word, ‘vero,’ – so he thinks he is philosophising about the ‘vero
principio della ragione,’ or its plural! In fact, he is philosophising about conversational
implicature!” Figlio di Lorenzo e Maria Lucca, sin da ragazzino aiuta il padre
nel suo mestiere di fabbro ferraio. Nel tempo libero si dedica alla filosofia,
mostrando grande attitudine nella filosofia romana antica in particolare. Con
la morte del padre, avvenuta quando Capocasale aveva 15 anni, visse tra Corleto
Perticara, Stigliano e San Mauro Forte, procurandosi da vivere come insegnante
privato, dedicandosi contemporaneamente allo studio della filosofia e del
diritto. Dopo esser stato governatore
baronale di Sarconi, incarico ottenuto appena ventenne, lasciò la Basilicata
per trasferirsi a Napoli, conseguendo la laurea in giurisprudenza. Dopo gli
studi universitari, insegnò filosofia nella scuola dallo stesso fondata a
Napoli. Dal 1801 vestì l'abito talare e, dal 1804, fu nominato da Ferdinando IV
precettore di logica e di metafisica all'Napoli. Perse tale incarico con l'arrivo di Giuseppe
Bonaparte: sotto il suo governo gli fu concessa solamente la docenza privata.
Con la restaurazione, Ferdinando IV lo nominò vescovo di Cassano nel 1816.
Capocasale, tuttavia, preferendo l'insegnamento, rinunciò alla carica, così
come fece più tardi con l'incarico di pari grado conferitogli per la diocesi di
Sora-Aquino-Pontecorvo. Sempre nell'ateneo partenopeo ebbe, dal 1818, la
cattedra di diritto di natura e delle genti: i suoi teoremi, di stampo
lockiano, ebbero una certa risonanza, tanto da essere citati da filosofi come
Francesco Fiorentino, Giovanni Gentile e Eugenio Garin. Alcuni suoi discepoli divennero importanti
personalità culturali del tempo come Francesco Iavarone, Giustino Quadrari,
Giuseppe Scorza, Gaetano Arcieri e Giuseppe Mazzarella. Sempre fedele alla
monarchia borbonica, si schierò contro le insurrezioni carbonare del 1820. Dal
1822 fu precettore del futuro re delle Due Sicilie: Ferdinando II. Fu inoltre
membro di varie Accademie come la Parmense, la Fiorentina, la Cosentina,
l'Augusta di Perugia, Aletina e Renia di Bologna, degli Intrepidi di Ferrara,
de' Nascenti e degli Assorditi di Urbino, dei Filoponi di Faenza. Altre opere:“Divota
novena del gloriosissimo taumaturgo S. Mauro” (Roma); “Esercizio di divozione
verso il glorioso confessore S. Rocco” (Napoli); “Cursus philosophicus”
(Napoli); “Saggio di politica privata per uso dei giovanetti ricavata dagli scritti
dei più sensati pensatori” (Napoli); “Catechismo dell'uomo e del cittadino”
(Napoli); “Codice eterno ridotto in sistema secondo i veri principi della
ragione e del buon senso” (Napoli); “Saggio di fisica per giovanetti” (Napoli);
“Istituzioni elementari di matematica” (Napoli); “Corso filosofico per uso dei
giovanetti”. Dizionario biografico degli
italiani -- un filosofo lucano alla corte dei Borboni. Quoniam
philosophia est scientia, quae viam ad felicitatem sternit. Ea vero rationis
solius ductu cognoscitur, ac demostrationis ope vernm investigat. In vero autem
inveniendo methodus utramque facit paginam: patet primum philosophi studium
esse debere, intellectum, sive facultatem cogitandi, ad veritatem methodice
investigandam, ac diiudicandam aptum reddere, eumque mediis opportunis acuere,
vel, si morbo aliquo laboret, salutaribus eidem mederi remediis. Et quia
veritas per demonstrationem invenitur, et iudicatur. Demonstratio vero methodo
perficitur, ut supra iam dictum est; liquet, ei pecessarium esse, mentem quoque
ad demonstrationem, ac methodum adsuefacere, ut in eo habitum adquirat, in quo
philosophi scientia consistit. Quamvis vero omnes homines naturali quodam verum
cognoscendi, iudicandi, rationes denique conficiendi facultate praediti sint,
eaque a multis usu, atque exercitatione ad summum usqne perfectionis gradum sit
redacta: quum tamen plurimis erroribus sint obnoxii, nisi facul tatem illam
regulis quibusdam certis, at que indubiis dirigant, disciplina aliqua in
veniatur, oportet, quae regulas ac prae cepta tradat, quibus naturalis illa
cogi tandi vis augeatur, perficiatur, et ad ve ritatis investigationem
inoffenso pede dirigatur. Naturalis haec percipiendi, iudicandi, ratio
cinandique vis LOGICA NATURALIS appellatur, quae qunn in casuum similium
observatione, adeoqne in sola praxi consistat, non solum erroribus est obnoxía
sed rerum caussas et rationes ignorans, confusam tantummodo co gnitionem, non
vero scientiam producere pol est. Ex quo legitime fluit Logicae artificialis
necessitas. Disciplina haec vulgo LOGICA ARTIFI Cialis appellatur, quam
definimus per do ctrinam, qua regulae traduntur, quibus, humana mens in
cognoscenda, et diiu; dicanda veritate dirigatur. * * Vocatur haec a '
nonnullis PHILOSOPHIA RATIONALIS, ARS COGITANDI, et kat i Sony LOGICA. Logicae
Prolegomena quae tantum abest, ut essentialiter a Naturali differat, ut sit
potius distincta eiusdem explicatio, adeoque tanto illa praestantior % quanto
distincta cognitio praestat confusae. Ex quo patet, Philosophum sola Logica
natu rali esse non posse contentum, sed ei colen dam esse artificialem. 14
Quandoquidem autem Logica artifi cialis leges explicat naturalem iudicandi fa
cultatem dirigentes: sequitur 1. ut eas ex mentis humanae natura deducat,
adeoque 2. mentis operationes prius, carum que naturam distincte explicare;
deinde vero eam in veritatis investigatione, atque exa mine veluti manuducere
debeat: uno verbo, ut prima theoriam, deinde praxin ostendat. Vltro ergo mihi
sese offert genuina Logicae divisio, in THBORETICAM ET PRACTICAM. Atque hinc
est, cur opusculum boc in duas partes distribuerimus: in quarum prima de mentis
operationibus; in altera de legitimo carum usu, quantum satis erit,
tractabimus. Quoniam autem humana mens tria bus modis res cognoscit; vel enim
eas tan tummodo percipit, vel de iis iudicium pro fert, vel denique rationes
conficit: * de tribus his mentis operationibus priore pår te agemus. Quumque
veritates vel per se pateant, vel per rationem et meditationern inveniantur,
vel denique ex aliorum scri Prolegomena. ptis hauriantur: inventae vero cum
aliis communicentur: de omnibus his parte se cunda nonnulla haud proletaria
monebi mus. } Experientia namque constat, nos omnis cognis tionis expertes in
mundum prodire (quidquid pro ideis innatis Platonici, et Cartesiani cla mitent
), atque primo res simpliciter perei pere, earumque ideas adquirere, deinde bi
nas inter se conferre, tandem eas cum aliqua tertia idea comparare, indeque
novas verita tes deducere. Mentis actio, qua res aliquas sensibus obvias
percipit, aut ab iis abstra hendo novas imagines sibi format, PERCEPTIO, sive
idea dicitur: quum hinas ideas invicena confett, IVDICIVM: dum vero eas cum
aliis comparat, atque inde novas veritates elicit RATIOCINIŲm nominatur. Nec
aliae attente con sideranti mentis operationes occurrere pote runt. Scholion.
De Logicae utilitate non est, quod plura dicamus. Quamvis enim quam plurimi eam
scriptis suis ad astra tulerint; quisque tainen in se huiusmodi periculum
facere poterit: nam qnidquid ex recta ra tione capiet emolumenti, id omne huic
disciplinae se debere, aperto cognoscet. Prima mentis hnmanae operatio est
SIMPLEX PERCEPTI, sive notio, quam de finimus per simplicem rei alicuius reprae
sentationem in mente factam. praesentationem autem intelligunt adcura tiores
assimilationem eorum, quae sunt exlra ens, in eodem ** Dici quoque solet idea,
conceptus, vel sim ** Per rea plex apprehensio, ut Scholis placuit. Sunt, qui
perceptionem ab idea distinguendam pu tant, atque illam esse aiunt, mentis
actio nem in obiecto percipiendo; hanc vero ipsam abiecti imaginem menti
percipienti obviam, Sunt, qui eas terminis tantum differre do cent. Quidquid id
est, nobis placuit percep tionem cum idea confundere: adeoque nusquain hic de
huiusmodi distinctione sermo cadet. Ideam alii definiunl per imaginem menti ob
versantcm. Buddeus Phil. instrum. cum observ. alii per exemplar rei in cc gitante.
Hollmannus Log. Sed hae, aliaeqne definitiones eodem redeunt. ***
Repraesentationis vox absque definitione ad sumi poierat, quum sit cuique nota:
sed ut methodici rigoris amatoribus nonnihil daremus eam ita explicavimus,
sequuti Baumeisterum Quoniam itaque notio est rei reprae sentatio: in omni
autem reprae sentatione duo considerarida veniunt, nem, pe modus repraesentandi,
et obiectum, sive res ipsa quae repracscntatur: liquet, in qualibet idea itidem
duo animadverti posse, scilicet percipiendi modum, et ob iecta nempe res
perceptas; quorum ille FORMA, haec MATERIA idearum recte di, cuntur. Si ergo
ideae ad formam referan tur consideratio illa dicetur FORMALIS; si vero ad
nıateriam, OBỊECTIVA, vel Rialis appellabitur, Et quia utroque re spectu ideae
inter se differunt: de forma li, ac materiali earum differentia diversis sectionibus
agemus. MATE B nos De formali idearum differentia Experi Xperientia abunde
constat quaedam ita percipere, ut ca ab aliis in ternoscere possimus, quaedam
vero non ita. Repraesentatio illa, quae sufficit ad rem perceptam ab aliis
dignoscendam, idea di citur CLARA; OBSCURA contra, quae ad eam discernendam est
insufficiens. Vnde idea recte dividitur in claram, et obscuram E. Rosae ideam
claram habes, ei eam a lilio, hiacynto, aliisque floribus distinguere scias, et
quotiescumque tibi occurrit, eam dem agnoscas; contra si arborem peregrinam
videas, eamque a reliquis plantis discernere nequeas, arboris illius ideam
habes obscuram. Huiusmodi sunt ideae infantum recens nato rum, hominum bene
potorum, eorumqne, qui lethargo oppressi reperiuntur. CLARITAS enim Physicis
est ille lucis effectus, cuius operes externas circa nos positas alias ab aliis
distingnere possumus; contra vero OBCVRITAS est claritatis absentia, scilicet
tenebra rum eftectus: nam quun tenebrae in lucis privatione consistant, haec
vero obiecta exter pa distinguere faciat; deficiente luce, deficit
distinctionis facilitas: adeoque obscuritas in distinguendi impotentia sita est.
Quum res existentes innumeris de terminationibus, et circumstantiis involutae
observentur, ut infra dicemus; hae vero, nisi attente consideranti, sensuumqne
aciem ad obiecta convertenti, innotescere non possint, ut experientia patet:
recte infer tur 1. éo clariorem fieri ideam, quo plu. ra possunt in obiecta
distingui; * adeoque 2. ad claram idean adquirendam requiri sensus cum
attentione coniunctos, qua des ficiente, ideas fieri deteriores ** Esenplo sit
hono in maxima distantia con stitutus, qnem qui vilet, primo dubius hae ret,
utrum corp is quidlibet sit, an vivens; deinde in obiectum illud oculorun aciem
at tente convertens, a motu animal esse compe rit, sed cuiusnam speciei, nescit;
propius ve ro'accedenten, ho nisen distinguit; tandem ex corporis habiti,
facie, aliis que circumstan tiis Titium agnoscit. Vides quan attente spe-.
ctator consideraverit, ut Titium cognosceret! Quemadmodun ideae meliores funt,
si ex obscuris clarae evadant, ex confusis distin ctae, ex inadaequatis
adaequatae: ita deterio res redduntur, si ex claris fiant obscurae ex
distinctis confusae ex adaequatis inadaequatae. Quia vero ab attentione penlet
cla ritas idearum, eaque gralus ha bet, nec semper, aut in omnibus eadem est:
liquet 3. res alias aliis clarius a no 7 38 Logic. Pars 1. bis percipi posse,
ideoque obscuritatem dari non modo ABSOLVTAM sed RELATIVAM. Hinc 4.
obscuritatis caussam plerumquc in hominibus, raro in re percepta quaeren dam
esse; ac proinde praecipitanter iu dicare illos, qui absolute obscura esse di
cunt, quae eorum superant captum: quo ut quae ignorant (ut Aesopica vul pes )
exsecrentur. * Obscuritas vel absoluta est, vel relativa. Illa habetur quum res
percepta ab aliis prorsus internosci' non potest; haec autem, quando rem
qampiam aliqui subobscure, quidam clar re, clarius alii percipiunt. Quod quum
acci dit, illorum claritas respectu maioris horum claritatis est obscuritas
relativa. fit, 21. Quoniam autem ad idearum clarita tem utramque facit paginam
attentio, qua deficiente deteriores fiunt: con Sequens est 6. ut obscurae
eyadant perce ptiones, si alicui meditationi defisi alia percipiamus, vel 7 si
unico actu plura 0 aut animo subiiciamus, 8. denique si ab una perceptione ad
aliam celerrime transeamnus. Et quia adfectus attentionem turbant, ut
cxperientia docet: infertur 9. menten adfectibus agitatam * ad ideas cla ras
vel numquam, vel raro admodum per, venire. Adfectus enim sunt motus quidam
vehementiores appetitus sensitivi ex idearum obscuritate, et confusione orti,
de quibus abunde in Psy chologia disseremus, adeoque iis praedominan tibus
nullae, nisi obscurae confusaeve ideae haberi possunt. Si namque in ideis
claritas et distinctio adesset, nullis adfectibus animus ve xaretur. Hinc ergo
est, ut a Philosophis ad fectus inter errorum caussas enumerentur. E. xemplo
sit homo ira aestuans, qui donec ea agitatur, nec res clare percipere, nec
perce ptionum suarum conscius esse potest. Vid. Seneca de Ira Lib. I. cap. 1.
et apud Virg. Aen. II. v. 315. Furor, iraque mentem prae cipitant.Vides hinc,
obscuritatis caussas easdem esse, quae attentionem turbant vel minuunt: nem pe
1. distractionem, 2. obiectorum multipli citatem, 3. praeproperam festinationem,
4. denique adfectuum praedominium. Quae omnia mentem frustra fatigant, et ad
proficiendum în studiis ineptam reddunt. 22. Sed quia Philosophus non solis
stare sensibus; rerum autem latebras et recessus idest caussas et rationes inve
stigare debet: per se patet 10. eum claris notionibus adquiescere non pos *
adeoque il. in distinctarum et adae quatarum perceptionum statu versari debe re
ut infra dicemus. 2 se; · Clarae namque ideae attento sensuum usu ad 40 Logic.
Pars I. quiruntur; sensus autem, ut mox adparebit, res tantummodo exsistentes
confuse repraesentant', in quarum cognitione nullum ra tio habet exercitium:
nihil ergo Philosophus age Tet; nec hihim quidem in scientia proficeret si
claris dumtaxat ideis contentus rationem ne gligeret, nec in caussarum inve
stigatioue adlaboraret. > 2 23. Eadem experientia docet, nos re rum quas
clare percipimus, vel notas sive characteres quibus ab aliis discer nuntur,
distincte nobis sistere posse, eo rum scilicet ideam claram nabere; vel
characteres illos invicem non posse digno sive ipsos obscure percipere. Re
praesentatio clara' notarum obiecti, quod percipimus, idea dicitur DISTINCTA:
repraesentatio contra notarum obscura, vo catur idea CONFUSA. Idea clara proin
de merito dividitur in distinctam, et con fusan. seere 8 Si quis invidiam novit
esse taedium ob alterius felicitatem, illius characteres sibi clare sistit,
adeoque invidiae ideam habet distin ctam. Si vero coloris nigri notas
distinguere nequeat, licet eum ab aliis coloribus discer nat, ejusdem ideam
habet confusam: uti sunt omnes ideae colorum, saporum, sonorum, odo rum, etc.,
quorum characteres prorsus igno ramus. Distinctio haec a Cartesio, et Leibnią *
E. Cap. I. De Ideis. 41 tio inventa fuit: alii namque grammatica vo cum
significatione decepti, ideas claras'ét di stinctas obscuras et confusas 'unum
idemque esse docebant. Quum idea distincta sit notio clara notarum; ad
claritatem autem notionum permultum conferat attentio: consequens est 12 ut
clarae ideae di stinctae fiant potissimum attentione, qua deficiente, etiamsi
distinctae sint, confu sae evadant. Et quia singulae notae peculiaribus gaudent
nominibus, qui bus exprimuntur: infertur CRITERIVM ideae distinctae id esse, si
cogitala nostra aliis.cxponere, atque con is com municare queainus; oppositum
autem ess: indicium ideae confusae. Hinc 13. idcas confusas aliis referre
volentes, objecta, quae confuse percepimus, ipsis ostendere, vel cum alia re,
de qua ideam habent claram, comparare debemus. * Res clarior fiet exemplis
supra allatis. Qui notionem invidiae habet distinctam, is eam verbis explicare
poterit: quod recte ex sequetur, si notas, quib:is a:lfectuš iste ab aliis
distinguitur, eau neret. Contra ei, quo modo coloris albi aut rubri nolas
proferet, ut cum aliis eius notionenı corninunicet? Pro cul dubio, ut ab illo
intelligatur, colorem illum, aut rem quampiar confuse perceptam, ipsius oculis
admovere, vel cum alia re iarna nota conferre oportebit, sicque in altero con
fusa quoque idea orietur. Hinc est, ut colo rum ideas coeco nato nullo modo
explicarc possimus, isque visu carens nullam, nequi dem obscuram, umquam
huiusmodi notionem adquirere queat. ** 25. Porro rei, cuius distinctam habe mus
ideam, vel omnes novimus characte res ad eam in statu quolibet agnoscendam
sufficientes, et tunc idea distincta erit COMPLETA; vel quosdam tantum · eosque
insufficientes, eaqne INCOMPLETA dicetur. * Idea ergo distincta dispescitur in
completam, et incompletam. * Sic invidiae idea iam tradita completa est: adsunt
enim notae sufficientes ad eam in statu quolibet internoscendam. Si ve ro
hominem cum Platone definires per ani mal bipes implume, notionem haberes incom
pletam: * hae namque notae non sufficiunt ad hominem semper ab aliis rebus
discernendum, ut ostendit Diogenes Cynicus, dum hanc Pla tonis sententian
irridendo improbavit. Nec eam postea coinpletam reddere potuerunt Platonis
discipuli, addito latorum unguium charactere: nusquam enim homines a simiis
discernere illa nota valebat. Laert. Lib. VI. cap. 2. segm. 40. ** Licet duo
clarissimiViri Leibnitius, et Wol. Cap. 1. de Ideis. 43 fius semper et ubique
in eamdem sententiam ierint: in hoc tamen hic ab illo discessit. Quumque
Leibnitius omnem ideam distinctam completam esse docuerit: Wolffins contra eam
in completam, et incompletam dividi debere, docuit et demonstravit. a * 26.
Denique eadem experientia edocti scimus, nos quaedam ita percipere, ut non
solum eorumdem characteres singilla tim agnoscamus, sed et novas characte rum
notas enumerare queamus;. quorum dam vero solis distinctis ideis adquiescere.
Quum notarum characteristicarum notione gaudemus distincta; idea totalis erit ADAEQUATA;
quum antem notas neb; confuse repraesentamus, idea oritur INA DAEQUATA. Quo fit,
ut distinctam ideam rursus dividanius in adaequatam, et inadaequatam. * E. g.
Si quis invidiae notas rursus evolvat, sciatque taedium esse sensum
imperfectionis, et felicitatem determinet per siatum durabilis gaudii: is
invidiae idlea adaequata gandebit. Si vero in solis invidiae characteribus ail
juie scat: nec ulterius in iis evolvendis progredia tur, tunc ideam habebit
inadaequitam. Ob servandum tamen, quod quo novas notas, donec fieri possit,
invenire liceat, eo adaequatior evadet notio. * Hanc porro doctrinam Leibnitio
debemus, qui eam in Actis Erud. Acad. Lips. ann. 1684. semper 44 Logic. Pars I.
p. 437. seqq. proposuit, eumque suo more sequutus est Wolffius Logic. cap. i.
f. 9. seqq. ANALYSIS IDEARUM est formas tio idearum adaequatarum. Quumque idea
fiat adequatioi, si novos semper cha racteres invenire liceat: patet 15. eo
adaequatiorem fieri notionem, quo longius eius analysis procedere. Quoniam vero
ob sensuura limites non possumus plura distincte percipere: infertur 16. nos in
notionum analysi" in infinitum progredi non posse: ideoque 18. quum ad
notas vel simplices, vel cuique claras perven. tum fuerit uiterius eam
instituere prohi bemur. ** * Notionum analysis Medicoruin anatomiae simi lis
est. Quemadinodum enim Medici corpus humanum in partes dividunt, easque depuo
in alias aliasque particulas resolvunt, donec ad exilissima tandem filamenta
perveniant, om nes interim earum connexiones, structuram, et proprictates attente
perscrutantes: ita et Phi Josophi idearum noías singillatim perquirunt, easque
iterum atque tertio in novas notas mente resolventes, minima quacque adcurate
contemplantur. ** Sicuti ergo Medicis, quum ad indivisihiles particulas
pervenerint, eas in novas rursus se care non licet: Philosophis etiam ea
facultas Cap. I. De Ideis. 45 ademta est in analysi notionum, si vel ad
simplicia et indivisibilia, vel ad clara et evi dentia fuerit pervenlum, vel
finis obtentus sit, ob quem fuerat analysis instituta. SECTIO II. De obiectiva,
sive materiali idearum differentia. 28. Haecaec de divisione idearum formali.
Ad, materialem, sive obiectivam quod at tinet, primo res, quas nobis repraesen
{are possumus, vel sunt exsistentes, vel proprietates iis communes. Quidquid
exsi stit dicitur INDIVIDVVM, sive RES SINGULARIS: individuum autem defiuiri po
test id, quod est omnimode determina tum. Repraesentatio ergo individui vo
catur idea SINGULARIS sive INDIVI DVALIS. E. g. “Socrates”, “Plato”, Aristoteles,
Caius, Titius, haec dumus, haec mensa, hic liber quem legis, sunt individua,
quia in unoqucque eorum adsunt tales circumstaniiae et detern ina tiores, ut
Socrates sit Socrates, et non Plato, Caius sit praecise Caius, et non alius:
ita ut si aliqua earum desit, desinant esse quae prius erant. Hinc individuum
idem est cum uno mathemat.co, quod concipitur tanquam 46 Logic. Pars 1. * >
individuum in se, et ab aliis separatum. Iu re igitur individuum res singularis;
ideoque eius perceptio singularis pariter adpellatur. 29. Quamvis autem
individua sint omni mode determinata hoc est innumeris circumstantiis involuta (S.
27:), quae efficiunt, ut ea longe inter se differant: 11 bent tamen aliquas
determinaliones, in quibus perpetuo conveniunt. ** Harum de terminationum
complexus aliam ideam su periorem constituit, quae SPECIES dici. tur. Non
iniuria ergo species a recentio. ribus definitur per similitudinem indivi
duorum. Determinationis vocabulum, licet barbariem redoleat, iure tamen hic a
nobis adhibetur, et quia civitate donatum, et oh termini pu rioris deficientiam.
Absque definitione por, ro sumitur utpote experientia seusuque com muni satis
notum; eius vero completam no tionem dabimus in Ontologia, ubi methodici
rigoris amatóribus abunde satisfiet. E. g. Socrates, Plato, Caius, Titius, li
cet aetate, ingenio, roribus, conditione, habitu, ceterisque inter se multum
distent, habent tamen commuue corpus organicum, et animain ratione praeditam.
Duae hae de terminationes speciem constituunt, qnae ho m, dicitur. Hinc vides,
haec omnia individua in eo siunilia esse, quod sint homincs. Si plurium
specierun pariter cir cumstantias consideremus videbimus eas in plurimis toto,
ut aiunt, coelo differre; in aliquibus vero perpetuo similes esse. Atque hae
determinaciones, in quibus spe. cies, licet diversissimae, perpetuo conve.
niunt, novam ideam, eamque supremam, constituunt, quae GENVS vocatur. Genus
ergo recte definitur per similitudinem specierum. E. g. “homo”, “equus”, leo,
canis, quantumli bet in tot determinationibus invicem diffe rant, habent tamen
in vita et sensione con venientiam. His circumstantiis conflatur genus, cui
animalis nomen inditum. Observes ita que, omnes illas species in hoc esse per
petuo similes, quod animalia nominentur, adcoque legitimam esse definitionem
generis traditam, 31. Quum genus sit similitudo specie rum (S. 30. ), idque
constituatur a com plexu circumstantiarum, in quibus species perpetuo
conveniunt; in speciebns autem aliae determinationes exsistant, quibus il lae inter
se differunt: sequitur 1, ut non abs se harum proprietatuin di versificantium
summa a Philosophis voce tur DIFFERENTIA SPECIFICA * E. g. Invidia et
commiseratio id habent commune, quod sint taedium. En genus. In eo ve ro
differuut, quod invidia sit taedium ob alte rius felicitatem; commiseratio vero
ob infelici tatem. Id ipsum constituit differentiam specificam. 32.
Repraesentatio, quae exhibet pro prietates rebus exsistentibus communes, di
citur idea VNIVERSALIS. Et quia notio nes generum et specierum determinationes
continent pluribus speciebus vel individuis communes (SS. 29. 30. ): infertur
2. i deas generum et specierum esse universa Jes. Rursus quoniam hae ideau
couficiun tur, si determinationes aliquas ab aliis se paratas consideremus;
unum vero sine altero considerare dicitur AB STRAHERE; liquido patet 3. ideas
uni versales esse quoque ABSTRACTAS. * Hinc est, ut vulgo dicatur, ideas esse
vel concretas, in quibus omnes simul adsunt de terminationes; vel abstractas,
quae aliquas tantum exhibent mentis abtractione ab aliis seiunctas: quod idem
est, ac si dicas, omnes ideas vel singulares esse, vel universales. 53. Ex
dictis porro consequitur 4. ideas universales non exsistere, nisi in singula
ribus, nempe speciem ac genus nusquam inveniri, nisi in individuis; adeoque 5.
plus esse in individuis, quam in specie; plus quoque in speciebus, quam in
genere. Ex quo patet 6. quam scite
Logici pro puntiaverint: Notionis extensionem esse in retione inversa
comprehensionis. * Regula haec aliter ab aliis enunciatur, sci licet: Ono
maiorem habet idea comprehensio nein, eo minorem habet extensionem, ct con tra.
Comprehensio dicitur complexus determi dationum, quae ideam aliquam
constituunt. Ex tensio vero est consideratio subiectorum, qui bus
delerminationes illae tribui possunt. Vid. la Logique, ou l'art de penser.
part. 1. chap. 6. Quum ergo individuum omnimodas determina tiones complectatur (9.
28. ), ad unum tantum subiectum extenditur; genus vero paucissimas
comprehendens circumstantias (5. 30. ) ad plu rima subiecta referri, nemo non
videt. Posita igitur regulae illius veritate, nullo negotio intelligitur 7. nec
ab individuo ad speciem, neque a spe cie ad genus umquam posse duci conclu
sionem; ac proinde 8. non licere generi tribui, quod speciei convenit, aut ab
illo removeri, quod huic repugnat; contra vero 9. a genere ad speciem, atque ab
hac ad individuum bene concludi, ideoque 10. individuo dandum, quod speciei
convenit, pariterque speciei tribuendum esse quidquid generi convenire
observatur. ** * T.I. C 50 Logic. Pars I. * Et recte ! nam nam in individuo
comprehensio maior est, extensio minor, quam in specie, ut et in hac relate ad
genus. Quidquid ergo de individuo enunciatur, eius proprietates differentiales;
si ita loqui fas sit, respicit, quae in speciem non ingrediuntur: ac proin de
de hac enunciari nequit. Eodem modo, quae de specie dicuntur, differentiam
tantum specificam spectant: genus autem proprieta tes multis speciebus communes
continet; adeo que speciei attributa nullo modo cum genere coniungi possunt.
Res clarior fiet exemplo. Socrates est individuum, in quo omnimoda invenitur
determinatio; id vero sub hominis specie comprehenditur. De So crate' recte
enunciabis, quod fuerit philoso phus, quia attributum hoc ei convenit ob
scientiam, qua praeditus erat (S. 3. 4. ), quaeque inter Socratis proprielátes
individua • les enumeratur. Possesne id de specie, idest de homine pronuntiare?
Minime quidem: in determinationibus enim hominis specificis non scientia, sed
scientiae capacitas, nempe ra tio ', invenitur. Contra hanc regulam peccare
solent susurrones quidam, qui vitia vel de fectus in aliquo, vel aliquibus
individuis for san occurrentia toti speciei, coelui, vel clas si imputare non
erubescunt. ** Quum enim genus in specie, species pariter in individuo,
contineatur (§. 23. ): quidquid generi conyepit, cum specie coniungi; et quik
uid speciei convenit, de individuo quo Cap. I. de Ideis. 51 que enunciari debet
aeque, ac ab his removeri quod ab illis discrepat.E. g. Animal sentit, ergo
homo sentit: homo est intelligens, quia libet igitur homo intelligens est etc.
35. Res exsistentes rursus vel inira nos sunt vel extra nos. Prioris classis
sunt omnes animae actiones; posterioris vero obiecta quaecumque sensibus
nostris obyer santia, vel mutationes in corpore humano ciusque organis
supervenientes. SENSV INTERNO percipiuntur, sive REFLEXIONE, hae contra
SENSIBVS EXTERNIS. Liquet ergo 10, ideas omnes singulares sola sensionc adquiri
* Illae * Intra nos sunt affectus, et cogilationes vo strae, quae interno sensu,
conscientia refle xione (haec opinia idem significant ) perci piuntur. E. g. si
quis tristitiam, vel metum sentiat, ciusque idcam sibi formet, hanc sensu
intern:), sive conscientia, nempe atlen tione ad proprias actiónes adplicatà,
adqui sivisse dicitur. Extra nos porro sunt omnia alia obiecta etsistentia
sensibus obvia. Sic in deas omnes singulares, quaecumque illae sint, sensibus
percipi, nemo ignorat: superfluun enim ' esset id ' exemplis illustrare. **
Cuilibet autem de plebe noturn est, exter sensus quinque numerari, visum nein
pe, auditum, olfactnm, gustum, et tactum, nos C 2 52 Logic. Pars 1. iisque
totidem organa esse destinata; visui scilicet cculum, auditui aurem, olfactui
na res, gustui linguam, tactui denique specia tim manus, generaliter vero totam
corporis humani superficiem. 36. Quum ergo res exsistentes sensibus percipiantur;
ideoque ideae sin gulares sensione adquirantur; ex singula ribus vero
universales sola mentis abstra ctione formentur (S. 32. ): liquido infer tuir
11. omnes ideas vel SENSIÚNE, vel ABSTRACTIONE fieri dooque adeo esse ideas
adquirendi mcdos. ** * nem * Et hoc est, quod a multis docelur, omnes ideas
partim SENSIONE, partim ABSTRACTIONE, partim CONSCIENTIA, vel REFLEXIONE
adquiri. Vid. Heinec. Logic. S. 22. Nos enim sensio cum conscientia et
reflexione confundi debere, docuimus supra ſ. 35. ** Addunt alii tertium adhuc
ideas formandi modum ARBITRARIAM scilicet COMBINATIONEM, veluti quum quis ideam
hominis cum idea equi componit, novamque Centauri notionem conficit: cuius
census sunt etiam notiones montis aurei, intellectus perfectissimi etc., quae
nihil aliud revera sunt, nisi ice rum prius sensione adquisitarum combinatiores
ab intellectu, vel phaniasia in unum redactae, pro quarum veritate generalem
tradunt regulam: Si ideae arbitrio coniunctae sibi con tradixerint,
impossibiles sunt, adeoque fal sae (quae alio nomine CHIMERICAE, a Scola sticis
ENTIA RATIONIS vocantur ); si vero inter se non repugnent, pro possibilibus,
adeoque pro veris sunt habendae. TITIAS esse, 37. Ex quibus omnibus plane
consequi tur 12. recte adfirmari a Philosophis, i deas omnes ex earum origine
vel ADVEN. vel FACTITIAS. * INNA TAE namqne ab omnibus negantur, quid quid de
iis praedicent Plato, Cartesius eorumque asseclae, quorum tamen au ctoritas
tanta non est, ut eorum insomniis a sanioris Philosophiae cultoribus praebea
tur adsensus, ut in Psychologia distinctius adparebit. Per adventitias enim
intelligunt notiones sen sique adquisitas ($. 36. ): per fictitias vero illas
quae vel abstractione vel arbitraria combinatione fiunt. Plato namque animas
humanas ab aeterno praeexsistentes posuit singulas singula astra inhabitantes,
qnibus Deus monstruvii universi naturam, ac leges frtales edixit: sed quum a
diis inferioribus Dei ministris mones 'vocat in corpora fatali necessitate
inclusa fuissent eo rum omnium, aeternis ideis prius e rant intuitae, statim ob
quos dae. quae in с 3 51 Logic. Pars I. ' Jitas, non nisi longo sensuum usu, àc
nedita tione pristipam cognitionem recuperare. Plat. in Timaeo. Hinc vulgatum
eius effatum: Stu et discere idem esse, ac reminisci. Cicero Tuscul. quaest. 1.
24. Illas ergo ideas, quas antea habebant, vocavit innatas. Sed quum id purum
putumque sit Platonis som nium, nequaquam erimus de eo refutando solliciti.
Cartesius hoc nomine donavit facul tatem homini competentem omnia
intelligibilia videndi. Tom. I. ep. 99. Respons, ad art. 14: progranm. ann. Sed
pèr hanc rectam rationem intelligi, quisque videt, quam proin de ideam
adpellare est potentiam cum actu confundere. Cartesiani denique per ideas in
natas intellexerunt axiomata quaedam eviden tia, quae ab ipsa cogitaudi
facultate ortum ducunt, veluti: totum csse maius qualibet sui parte; non posse
idem simul csse, et non esse ctc. At quis rerum omnium ignarus iguo rat, haec
esse pura judicia, quae a termino runi illorum relatione, ac ab ideis totius et
partis, exsisteniiue et non exsistentiae, sen su et abstractione prius
adquisitis immediate pendent? Quae quum ita sini, ideas invatas nullo modo dari
posse, merito concludimus. 38. Ideae praeterea sunt aliae SIMPLICES, a quibus
nihil mente abstrahere pos sumus, ** aliae COMPOSITAE, bus per mentis
abstractionem plura divi dere, atque invicem separare licet. ** in qui Ex quo
necessaria consequutione conficitur 13. simplices ideas claras esse, at confu
sas; compositas vero etiam distinctas. Tales sunt ideae omnes colorum, sonorum
saporum, voluptatis, taedii, quas ideo aliis explicare non possumus, nec
illarum chara cteres invicem discernere, ut ita üs'definien dis omnino
incapaceś simus. ** Sic in idea mensae cuiusdam separatim con siderare possum
matericm, formam, figuram, colorem, magnitudincm, et id genus alia. His addunt
aliqui ideas ASSOCIATAS, si ve coniunctas, eas scilicet, quae ita simul a nobis
adquisitae sunt, ut quum una nobis occurrit, altera quoque menti obversetur:
veluti si rosain olim videns odoris simul no tionem accepi, quotiescumque
odorem illum sentio, rosae etiam idea menti fit praesens.Denique quuin vel
substantias, vel modos, vel relationes pobis repraesentare queamus, ideae sunt
vel SVBSTANTIARVM, vel MODORVM, vel RELATIONVM. Per SVBSTANTIAM intelligimus
ens, cui atiributa ei accidentia tan quam subiecto,: veluti inhaerere conci
piuntur.. *., MODI sunt adfectiones, et attributa substantiis inhaerentia, a
qui bus + D4 56 Log. Pars I. sola mentis abstractione separantur. RE LATIONVM
denique ideae sunt, quarum unius consideratio alterius considerationem includit
ita, ut haec sine illa non possit intelligi. *** figura, * Veluti diximus, ut
nostram imbecillitatem adivemus: id enim in substantiis creatis lo cum habet,
non autem in increata, in qua nulla inter essentiam et attributa, nec inter
ipsa attributa realis distinctio dari potest, ut in Theologia naturali
demonstratum ibimus. * MODI vero sunt vel INTERNI, si in ipsa substantia.
occurrant, ut dimensio, color etc. in corpore; vel EXTERNI, si in hominis mente
sint, et tamen substantiae tribuantur, veluti quum dicimus- virtutem ma sni
aeslimatam, quae tamen aestimalio est in hominum opinione. **** Relationes sunt
ideae omnes quantitatum, item Patris, Domini, Regis, et cetera id ge pus.
Videatur abunde ea in re Clericus in Logic. part. I. cap. 4. §. 2. seqq., et in
Arta Grit. part. 1. cap. Ex quibus plane colligitur 14. nas in substantiis
nihil aliud cognoscere, nisi mo dos, ips4s vero substantias prorsus ignora re;
idcoque 15. substantiarum ideas esse in relatione ad mentem nostram omnino sed
tantummodo abstractas et confuses, ram intelligibiles;. quinisomo ló. rerun
natu eo magis agaosci, quo plures modi nobis innotescunt; maximam adhiben dam
esse cautionem in perpendendis re lationibus, ne vel earum fundamentum non
recte considerantes, vel absolute de relativis ideis enunciantes,
praecipitantiae errorisque arguamur, * Quantum haec doctrina roboris habeat in
se dandis hominum adfectibus, dici profecto, non potest. Exemplo sit is, qui se
paupe rem esse dolet, quia divitum opes non ha bet, et id absolute profert. Si
vero relationis pondus expendat, observetque alterum omnia bus necessariis
rebus egentem: declamare de sinet, quia sibi tantum superflua desunt. Be ne
ergo Seneca in Troad. v. 1016. Est mi ser nemo, nisi comparatus, Schol.
Explicatis iam notionum diffe rentiis, ad huius doctrinae usuin acMilanius,
quem paucis, iisque perutilibus, include mus regulis. Quisquis ergo
Philosophiae operam navas si solidae cognitionis es cupidus, sequentes animo infigito.
CANONES. i. Curato, ut rerum, quas pertra ctare cupis ', claram semper et
distin ctam cognitionem adquiras: attentionem proinde, quae ad idearum
perfectionem utramque facit paginam, in omni re adhibeto. Quoniam vero
Matheseos studium mirifice at tentionem acuit: hinc est, ut hodie studio rum
initium a Mathesi capiatur, exemplo Platonis., qui neminem erudiendum suscipie
bat, nisi Geometria instructum. 2. In studendo praeproperam vitato
festinationem; praecipue in primis scien tiarum principiis diu haereto, nec,
nisi iisiprobe intelleétis, ad cetera pergito.* * Quantum enim festinatio
idearum claritati osobsit, diximus in. 21. adeoque in adole. soentibus
naturalis illa festinatio, et praeci pitantia caute est obtundenda, ne
superficia rie discant et errores saepe labantur. Vnde VERVLAMIVS opportune
docuit: Ius venum ingeniis, non plumas vel alas, sed plumbum el punderą auditinus.
Caveio, ne nimia rerun varietate mentem obruas, neve plura semel simul que
addiscenda putes. - Panca discito, eaque bune digesta contemplator. * Quum eaim
attentio ad plura dividitur, minor fit atque inepia: proindeque ideae
deteriores fiant: ita ut de iis perbelle dicat Seneca Ep. 2.: Nusquam est, qui
ubique est. Qua de re Plinius VII. ep.9. praeclaram il lud monitum studiosae
iuventuti perutile prae buit: Non multa 7, sed multum. to 3 * AC 4. Priusquam
ulterius progrediaris ad idearum tuarum relationem attendi si qua sitt:: ne
relativa pro absolu tis accipiens in errores incidas, 5. Mentis solitudinem,
animique tran quillitaiem amato; ne affectibus attentionem iurbes, iran,
tristitiam, an liaque pathemata; adeoque sodalitates, compotationes.,
spectacula fugito. ** * Bene monuit Ovidius Tristium l. v. 30. Carmina
proveniunt animo dédlicta serenos * Comessationibus enim corporis inertia aus
getur, mens obstupescit et habetatur, ani mus ad voluptates inclinatur s
spectaculis ve vero attentio distrahitur, i sensimqué a studüs 1 C 6 6o Logic.
Pars I. animus avertitur, quo fit, ut aut nullae ad quirantur ideae, vel saltem
obscurae, a qui bus errores ortum ducere infra docebimus. aut mie 6. Quae
legisti, audivisti > ditatus es, ita familiaria tibi reddito, ut eorum notas
aliis indicare queas. Ea proinde vel in chartam coniicito, te ipsum saepe
examinaudo, idcarum tuarum distinctionem experitor. ** * vel * Stilum Cicero
vocat oplimum, et praest an tissimum dicendi effectorem, et magistrum. De Orat.
l. 33. ** Notum est vulgatum illud; docendo disci mus. Rationem huius canonis
invenies supra. nes, utpote rei
immaterialis a stiones, nullo modo sensibus percipiuntur: ea non nisi signis,
quae in sensus incur ruot;; abis potefieri possunt. SIGNUM enim est, res
quaedam sensibilis quae praeter sui notionem excitat in mente ideam alterius
rei, Sed quum ideae ng ** strae
ordinario vel voce, vel scripto patefiant: binc prioris gencris signa VOCES,
posterioris TÈRMINI, ntraqne vero VERBA dicuntur. Hinc verba per idearum nostrarum
signa recte definiuntur, ut et voces signa quaedam sono articulato prolata, mentis
nostrae conceptus indicantia. Signa quidem generatim appellantur, quia praeter
soni vel scripturae; nationum nostrarum ideam in audientibus vel legentibus
excitant. E. g. Lacrimae sunt signum tristitiae: quia quum hominem videmus
lacrimantem, illico eum tristitia adfectum esse cogitamus. Fumus quoque est
SIGNVM ignis, quia eo viso non solum fumi, sed ignis etiam notionein ad
quirimus. Quae de signorum diversitate Scha Jastici docent utpote ad rem impertinentia, praetermittimus:
astin Ontologia quaedam observatu digna obiter attingemus. Cave tamen credas,
voces esse SIGNA conceptuum necessaria. Quum enim eaedem res non iisdem vocibus
a diversis gentibus exprimatur: liquet, tas ab hominum ARBITRIO pena der,
adeoque esse SIGNA conceptuum arbistraria. Cuique vero notum est, ad sona nar
ticulatum sex requiri, nempe PVLMONES, qui follis vice funguntur, ORGANUM VOCIS
scilicet trachea, eique apposita larynx cum suis apparatibus; LINGVA, cuius vis
Braliones vocem prae ceteris articulatam red dunt; PALATVM, nempe fornicem, ubi
lingua stras vid rationes exercet; quatuor DENTES incisores dicti, quibus sibilantes
litterae efformantur, et in quos nedum lingua, sed et labia vibrant; ac denique
LABIA, quae in se invicem et in dentes, inpingunt, ut fu sjus coram ostendemus.
Ex qua definitione patet verba et voces inter se differre: quum verba et iam
scripto, voces autem non nisi sono articulato proferri possint. Nos ideo voces
adhibere, ut ab aliis intelligamur; proindeque. Iita loquendum, easque vo ces
adhibendas esse, ut alii, quibuscum loquimur, mentem nostram intelligere pos
sint; adeoque non licere terminis in anibus vet notionem deceptricem
continentibus uti; sed tantum ii, qui ali quam notionem habent adlixam;
quitinimo, singulis terminis eamdem semper ideam, eamque claram, respondere
debere; ideo que cos, qui vel obscuram, vel non semper eamdem exprimunt
notionem, om nino esse proscribendos. Alterius vero mentem intelligere dicimur
quum, terminis easdem notiones adggimus, quas loquens cum iis coniunxit. mus TERMINUS
INANIS dicitur, qui nulla, habet notionem sibi coniunctam: adeoque nis hil,
praeter solam soni ideam, excitare potsest: quapropter vocari solet vor mente
case' sâ, vel sonus sine menie, a Scholasticis terminius insignificativus.
Talis est versus ille, quemia Nimiodo prolatum in infimo Tartari aditu fingit
Dyinus Poeta Etruscus: Raphel mai umech zabi alini. Dant. Inf. cant: Quoties
autem vocem proferentes, aliquid cogitare videinur, quum tamen nihil cogita
puldaunque sententiam cum ea donium ginius: tunc terninus ille NOTIONEM DECEPTRICIM
continere dicitur. Huiusmodi sunt casus Epicuri, sensibilitas physica Hel
yetii, historia e rationis penu depromta Boulangeri et Rousseau, quorum
analysin cora, et in Metaphysica conficiemus. Si nam que vox aliqua vel non
eamdem seniper, vel obscuram notionem habeat adfi xam. In primo casu auditor
dubius haerebit, quamnam cum ea loquens, coniunxerit ideam, adeoque cui non
intelligent. In secundo ves ro, quomodo mentem eius poterit intelligere, qui se
non intelligit TERMINVS CLARVS est, qui claram coiitinet notionem, OBSCVRYS,
qui eamdem habet obscuram. Terminusi qui eamdem semper exprimit ideam, FIXVS
vel DETERMINATV; qui vero incon der stantem vagunite tabet significatum, VAGVS
aut INDETERMINATVS dicitur, Plurės autem termini eandem rem significantes,
SYNONYMA, sive termini synonymici. adpellantur, Scolasticis eum adpellare
placuit univocum, sive unicam rem indicantem, ut ignis, aqua, A Scholis dicitur
“aequivocus”, hoc est plura aeque significans. E. g. Cultus varios habet
significatus: saepe enim pro adoratione Deo debita: quandoque pro honore:
nonnumquam pro corporis, vel animi decore; non raro quo que pro telluris
cultura accipitur, Tales sunt gladius, ensis, qui idem ar morum genus
exprimunt. Eos e Scholis qui dam vocant “paronymos”, id quod ad intelligendas
barbaras huiusmodi loquutiones breviter adnotavimus. Non heic inquirere licet:
utrum in quolibet idiomate revera dentur synonyma? quaestio namque haec ad
philologiam pertinent. Philosophia contra in exprimendis animae cogitationibus
usum loquendi servat, et colit, quem penes arbitrium est, et ius, et norma
loquendi (Horat. De Art. Poet. 8. 27). Terminus CONCRETVS est qui qualitatem
expriinit sabiecto inhaerentem, ABSTRACTUS vero qui qualitatem illam a subiecto
separatam indicat, Terminus PROPRIVS dicitur, quando rem exprimit, cui significandae
est destinatus; IMPROPRIVS vero, sive METAPHORICVS ad rem aliam indicandam
transferatur ob quamdam similitudinem. si Sic “pius” est terminus concretus, “pietas”
terminus abstractus, Concretus porro a Wolffio dicitur, qui notionem exprimit
concretam (sive singularem); abstractus contra, qui ideam continet abstractam
(sive universalem ). Haec autem omnia
idem significant. E. g. Vox oculis proprie sumitur, si organum visui destinatuin
indicet. Ubi vero Cicero Corinthum Graeciae oculum adpellat, eius uippe
ornamentum ac pracsidium: improprie sive metaphorice vocem illam usurpat, Hinc
vide, voces improprias esse vagas et indeterminatas. USVS LOQVENDI est
significatio vocum in communi sei mone propria. At quoniam in familiari sermone
voces aliquae occurrunt quas intelligimus quidem, li, cit ad notiones ipsis
adiixas animum non hae voces dicuntur termini FAMILIARES, et ad usum loquendi
non advertamus pertinent, Si quis ergo oculi vocem ad significandum organum
sensorium visui destinatum usurpet, is loquendi usum servabit. Tales sunt voces
omnes, quas frequentissime proferimus, ac memoriae mandavimus: ees enim
intelligimus, sed usu et consuetudine adeo familiares evaserunt, ut eas proferentes
ad sensum notionesque ipsis adfixas nusquam attendamus. Patet igitur
Philosophum servare debere usum loquendi, adeoque terminis claris, fixis, atque
in sensu proprio usurpatis ei utendum esse. Quod idem est, ac si dicas a
terminis vagis, obscuris, impropriis, et familiaribos esse abstinendum: aliter
enim non intelligeretur. Hic porro. Ex pluribus vocibus inter se apte connexis
oritur SERMO, sive ORATIO sive PROPOSITIO. Definitur autem sermo per nexium
plurium terminorum mentis nostrae conceptıbus exprimendis idoneum. а Logicis
dispesci solet in CIVILEM, et TECHNICVII, sive eruditim, quorum ille in vita
civili ab omnibus; hic in coinmunicandis ideis ad disciplinas pertinentibus,
vocabulorum technicorum pe, ab eruditis adhibetur. Nisi enim ideis nostris explicandis
sit idoneus, non sermo, sed confusus inanium vocum cumulus dici poterit.
Dicuntur autem verba, vel voces technicae, quae ideas scientificas quibusdam
disciplinis peculiares, usu annuente, exprimunt: cuiusmo di non pauca occurrunt
in qualibet disciplina. Schol. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, inania
faere evaderent, nisi doctrinae usum auditoribus nostris ostenderenus. Quae
igitur de iis observanda putamus paucis, isque tam familiari quain erudito
sermoni inservientibus, complectemur re gylis. Philosophus ergo noster scquentes
observet CANONES. Antequam oum aliis congrediaris, tecum attente perpendeto,
quid cogites: Cogitationes porro tuas totidem vocibus exprimilo, quot ideas
hubes. Quantum adiumenti adfcrat hic canon adolescentibus, ia promtu est. Quun
enim fis familiarissima sit inanis illa et garrnia loquacitas, fua fit, at
persaepe in te veritatis notam incurant des alimchanab inconsiifera to loquendi
puriniz násvatur; facile parei, cur qui cogitationibus suis atteindlit', nulla,
nisi benedigestum, emitiere posse verbum. Caveto, ne ideam soni habens, rei
quoque notionem habere te credas; aut voces coniunctas intelligere quas
disiunctas intelligis. Falluntur enim persaepe homines, quum ter minos inanes,
et notionem deceptricem con. tinentes effutiunt, in quibus solam ideam $ 9. ni
habent, et nihil cogitantes aliquid se cogitare creduat. E. g. Idea materiae et
idea cogitationis possibiles sunt, pariterque voces, quibus illae exprimuntur
singulae intelliguntur. Coaiunclae vero impossibiles evadunt, atque adeo
intelligi nequeunt. Ecquis enim materiam cogitantem exsistere posse imquam
probavit? Vid. Inst. nostr. Meiaph. P. 11. Cap. 4. eas 3. sum loquendi semper servato, nec novas
temere cudito voces: quod si ad id quandoque necessitate cogaris, adcurate
definito, ne obscurus fias. In hanc regulam peccatur, si quando vocabula
technica, utut civitate donata, furene novitatis amore mutantur; iis novae
voces substituuntur, quamvis rem, de qua a gitur, adcurate exprimant. Et si
houe termini philosophici, reiecta barbarie, pristinae restituuntur puritati,
ea non novatio dicen et proda est, sed renovatio, idest vocum ad pro prium avitumque
decus restitutio Peregrina vocabula Latino, vel Italico sermoni ne iminisceto,
nisi vel Tocendi, vel amici cuiusdam oblectandi caussa: alias eniin in
paedantismum Empinges. Vid. Heineccium in Fundam. Stil. cultior. Id vero egisse
Ciceronem ex eiusdem scriptis didacticis, et Epistolis ad Atticum abunde
colligitur. Quum eniin paedantismus sit inanis glorio lae cupiditas in minotüs,
ineptisque rebus sectandis quaesita; paedagogi vero, a quibus hoc nomen
obvenit, id quoque habeant in vitio, qnod singulis verbis latinas interse runt
phrases ac textos: ideo hanc notain incurruut quicumque, vel ad ostentandam e
ruditionis niultiplicitatem, vel ob nimium tem poribus inserviendi studium,
nullum, nisi pe regrino sale conditum, queunt formare ser monem. 5. Si aliis
displicere non vis, quoties cumque loqui oportuerit, modesto vultu atque amoeno
fuam proferto sententiam: ne docere ex cathodrá potius, quam veruin dicere,
videaris. 7Est et haec paedagogorum nota, qui pueris in docendo imponere
adsueti, inagisiral e illud supercilium ubique servant, seque invisos au
dientibus, maximo veritalis detrimento, red dunt. Vid. Buddei Oratio de bonarum
littera rum decrcinento nostra aetate non tenere me tucndo. Dea rei distincia completa
verbis expressa dicitur DEFINITIO. Res vero ipsá, sive definitionis obiectum, vocatur
DEFINITVM. Ordo igitur po stálat, ut post'ideas earumque signa; bre vein de
ddinitionibus tractationem hic sub iungamus, Quid sit idea distincta, et qua
ratione ad quiratur, dixiinus supra. seq. De idea completa cousule, quae
breviter do cuimus g. 25; diffusius enim hic, quae de illa dici merentur,
enodabimus.Quemadmodum antem idea voce prolata di citur terminus, isque clarus
si claram expri mat notionem; ad exprimendam, vero ideami distinctain, sive '
emuinerando; il dias characteres, non uno, sed pluribus claris opus est
termiuis: ita complexus ille yocum, * Cap. HI. De definitionilus. 71 hoc est
idea distincta completa sermone expli cata, definitio dici consuevit; adeoque
non abs re tractatus bic doctrinain sequitur ter minorum. 2. eas ** ne 49. Ex
qua definitione consequitur 1. in definitione notas et characteres enume rari
oportere, qui sulliciant ad definiturn in statu quolibet agnoscendum, et ab
aliis rebus distinguenduin; notas tales esse debere, ut nulli, nisi so li
definito in tota eius extensione, conve niant; quare 3. merito a Logicis ad
firmari, definitionem neque latiorem que angustiorem sno definito, sed ipsi
aco, qualem esse debere, ut sibi invicem sub stilui possint. *** * Id autem,
per quod res ab aliis rebus distin guitur, eius essentia a Metaphysicis
adpellari consuevit: inde ergojest, ut definitionem Lo gici esse dicant
orationem, qua rci essentia explicatur. Quia vero per extensionem intelligimus
quod cuinque subiectum, cui determinationes ideam aliquam constituentes tribui
possunt; perinde est, ac si dicas, definitionis notas tales esse debere, ut
omnibus subiectis, spe ciebus nempe, et individuis sub definito con tentis
conveniant. Porro inter characteres il los insunt proprietates genericae, et
specifi ** Logic. Pars I. *** Si cae, quae integram definili essentiam expo.
nunt, et repraesentant. Non iniuria igitur adfirmari solet, definitionem ex
genere et differentia specifica constare debere. Si namque definitio talis non
sit, ut possit definito substitui, vel (ut aliis placet ) cam eo reciprocari,
vel illo latior, vel angustior erit, adeoque deficiens. Substitutio autem in co
consistit, ut definitio pro subiecto, defini tum pro attributo, et contra,
adsumi possit. E. g. Spiritus est substantia intellectu et vo luntate praedita:
contra vero substantia intel lectu et voluntate praedita dicitur spiritus. 90.
Ex eodem quoque fluit 4 in defini tionem ingredi non posse, nisi ea, quae Jei
perpetuo et constanter insunt, idest ATTRIBUTA, vel ESSENTIALIA; proin deque 5.
locum in ea non habere ACCIDENTIA, seu MODOS. * * Quaenam sint essentialia, et
attributa, pate bit in Ontologia. Id unum hic notasse sull ciet, tam
essentialia, quam attributa rei cou stanter ac immutabiliter inesse: nam
attributa sunt eiusmodi characteres, quorum ratio suf ficiens cur rei insint,
in eiusdem essentia et natüra continctur: ut sunt tria latera et tres anguli in
triangulo. Quoniam vero definitio est idea rei distincta; haec autem est no nec tio clara notarum (5. 23. ): sequitur ut
ea vocibus claris sit exponenda, obscuri quidquam continentibus; ideoque 7. nec
vagis ($. 43. ), nec metaphoricis nec negativis ** terminis in illa sit locus.
Imo vero 8. eam in vitio poni perspicuum est, si sit IDENTICA vel CIRCVLVS in
definiendo committatur. Si tameu termini definitionem ingredientes ob scuri
quid habere videantur, prius adcurate definiantur, ut claritatem adquirant. Sic
in vidiae definitionein supra allatam nemini proferre licebit, nisi prius
taedii si gnificatus alia definitione sit determinatus. Terminis negativis
concipitur definitio > si explicet quid res non sit: ut si dicas, invi dia
non est commiseratio. Hinc vides, eam esse vagam et indeterminatam, adeoque
defi niti ideane inde oriri confusissim un, quod est contra definitionis
indolem: Exceptio tantum datur in rebus contradicto riis nullun inedium
adinittentibus, quarum una recte definita, altera negativis terminis explicari
potest. Sic ens simplex non immeri to dicitur quod partibus caret, substantia,
quae non exsistit in alio, tamquam in subie *** Definitio identica est, quae
idlem per idem explicat, cuiusmodi suut nonnullae Scholarum cio etc. definitiones
quas confusiones rectius dixeris. Exemplo sit quantitatis definitio ab iis
allata per accidens, a quo res dicitur quanta. Quid, quaeso, haec verba
significant, nisi quod quantitas sit quantitas? Cui vero usui definitiones
istae esse possint, tironibus ipsis iudicandum relinquimus. **** Circulus enim
Geometris est figura plana linea curva in se redeunte terminata: in defi niendo
ergo circulus committitur, si in evol vendis definitionis characteribus,
eorumque novis definitionibus formandis, in aliquam ipsarum definitum
ingrediatur. Tunc enim per definitum explicaretur id, per quod defini lum ipsum
explicari deberet; adeoque res re diret ad definitionem idemlicam, quae in vi
to posita est. Illa notas et characteres e numerat sufficientes, quibus
definitum ab aliis rebus in siatu quocumque discerni possit; haec autem rei
definitae genesin et originem exponit, ** unde et GENETICA dicitur. * Per
definitionem nominalem veteres intelligc bant grammaticam vocis explicationem,
qua vel radix sive origo nominis investigabatur, et tunc Etymologia dicebatur:
vel multiplex eiusdem significatio, eoque casu Homonymia; Cap. III. De
definitionibus. 25 vel denique plures voces eumdem sensum ha bentes, et
Synonymiae nomine veniebat. Quae enim nobis nominalis est, realis inter illos
audiebat. ** Nominalis ergo est definitio spiritus, si eum definiveris per
substantiam intellectu et volun tate praeditam: realis autem, si invidiam
definias per taedium ob alterius felicitatem: in ea enim eiusdem caussa et
origo explica tur. Vides hinc, nominales definitiones esse arbitrarias: reales
contra necessarias. > 53. Si vero idea rei distincta quidem sit sed
incompleta: tunc non definitio, sed DESCRIPTIO nominatur; adeoque in
descriptione accidentia qnoque locum inve piunt, qnae quum in individuis tantum
concreta observentur, hinc est, ut res sin gulares describantur, abstractae
vero deti niantur; ** proinde illae Oratorun et Poe tarum hae Philosophorum
propriae sint. Descriptio itaque, licet plures enumeret no tas; quam definitio,
eas tamen ad rem in sta tu quolibet agnoscendam exhibet insufficien tes. Tales
notae non exsistunt, nisi in rebus singularibus;, utpote omnimode determinatis:
universales namque ab iis mentis abstractione erguntur, paucio resque adeo, ac
sufficientes ipsis distinguendis Ꭰ. 76 Logic. pars I. > continent characteres. Inde ergo fit, ut
ha definiri possint, illae tantum describi. Intelligitnr hinc: cum generum et
specierum definitiones apud Philosophos inveniamus, in dividuorum nihil nisi
meras descriptiones Poetis ac Oratoribus familiares, et si ab his definitiones
proferri videmus, eas vel incom pletas novimus, vel magno verborum ambitu
expressas, ubi accidentia attributis, caussas effectibus permixta observamus,
quas tamen Philosopho imitari nefas erit, quippe cui idearum analysis,
essentiae rerum investiga. tio, verborum praeterea praecisio in deliciis esse
debent. Schol. Superest, ut quae studiosae iu ventuti utilitatem adferre
possunt, ea pau eis exponamus regulis huius doctrinae usum continentibus.
Philosophiae igitur initiatus, si quid a studiis suis commodi percipere cupit,
sequentes animo imbibat CANONES. 1. Definitiones, utpote rei naturam et
essentiam explicantés, ciim cura disci to, ' ạtque teneto. ' Iudicium porro cum
m moria coniungito: ideoque aliorum definitionibus ne adquiescito; sed ope rum
dato, ut eas intelligas, et ad tru tiram revoces. re Sunt enim, qui soli
memoriae consulentes, quidquid in aliorum scriptis repererint, id omne discunt,
ac turpe putant ab eo discedere. Hinc fit, ut si memoriae pondus inutile au
feras, nihil, praeter arroquarov quoddam, maneat. Homunciones isti memoriae
dumtaxat exercendae intenti, iudicii vero prorsus ex pertes, libros quosvis
sine delectu memoriae mandare adsueti, innumeris snnt expcsiti er roribus;
quotcnmque eorum oculis subiiciun tur. Ne igitur adolescentes, qui memoriam
tantum in Scholis huc usque exercuerunt, eamdem premant viam, sibique pessime
cou sulant: visum est, cautionem hanc eo neces sariam, quo prima scientiarum
hic funda menta sternuntur, ipsis suggerere et inculca re, ut iudicium
excolentes in aliorum senten tiis ad examen rcvocandis, et ad eruendas inde
propria meditatione veritates apti red dantur. ver 2. In legendis Auctorum
libris, prum phrasiumque lenociniis ne conti eto: sed ut sententiam ipsis
subiectam lare, ac distincte intelligas, pro vi ili curato. Ita vitabitur
stupida illa aliorum sententiis adquiescendi consuetudo, quae in caussa fuit,
ut liberculi aliquot ex transmontanis, transma rinisque regionibus huc appulsi
stilo quodam auribus pruriente tot incautos captarint ado D 3 78 Logic. pars.
I. lescentes, quos inter crassae incredulitatis te nebras errabundos non sine
magno dolore vi demus. Hi namque culpabili ignorantia verbis tantummodo
adquiescentes, nec sententias in tellexerunt, nec eas ad trutinam revocare sunt
ausi, iudicandi quippe facultate destituti. 3. Rerum, quas nondum distincte in
telligis, definitiones proprio marte con ficito, ut ex iteratis' actibus,
continua que exercitatione habitum in eo adqui ras. Res quidem non parvi
momenti erit, multun que laboris impendendum, pauco forsan aut irrito eventu.
Animo tamen non deficiant a: dolescentes: ab exiguis enim initiis maxima
procedunt, atque experientia tandem, qui sit huius canonis fructus, addiscent.
Poterit autem quisque imitando incipere, experiundo prosequi, ac notionum
analysi sednlam na vans operam felici demum exitu proficere. Vi de quae
docebimus infra. Caveto, ne res omnes definiri pos. vel debere, credas; * aut
definitio nes verbis diversas re quoque differre putes. ** * Videantur interim
a nobis ante dicta G. 27. Gap. III. De definitionibus. 79 ¥ Si namque dantur
synonyma, verba nempe et phrases eumdem habentes significatum, quidni
definitiones illae verbis diversae synonymicis erunt expressae terminis, adeo
que re unum idemque significare poterunt? 5. Si e Philosopho Orator aliquan
dofieri cupis, definitiones pro definitis adhibeto: tunc enim auditorum animos
inani verborum ambitu non fatig abis solidaeque doctrinae clarissimum dabis
indicium. Exemplo sit elegantissima M. Ant. Mureti pe riodus Part. I. Orat. 1.
ubi de laudibus Theo logiae acturus, amplificat syllogismun quam brevissimum
has continentem propositiones: Facultas hominem Deo con ugens est omnium
praestantissima. Egpyas a eius talis est. Nam si eorum omnium, quae in hac
inmensa re rum universitate cernuntur, unumquodque per ficiendi sui desiderio
tenetur; et animus no ster ad similitudinem Divinitatis effictus tan to
perfectior est, quanto propius ad illud, a quo ductus et propagatus est,
exemplar ac cedit: dubitari profecto non potest, quia ea sit omnium
praestantissima facultas, quae, quoad eius fieri potest, cum humanis divi na
copulando, mortalitatem nostram, quantum illius imbecillitas patitur, Divinae
natura e ar ctissima colligatione devincit. Vides hic Theo D 4 80 Logic. pars
1. logiae definitionem, oratorio licet more pro latam, multum orationi
pulchritudinis ac di gnitatis adferre. 6. Definitionem tuam, si ab aliis di
stingui exoptas, efformare curato; id que obtinebis, si intellectuales morales
que virtutes tibi comparare studueris. * Hi namque definitionis characteres
esse de bent. Quod ni facias in vulgi turba confu sus eris, nomenque tuum in
tenebris, ob scurumque manebit ila, ut vel patrio, vel alio adpellativo nomine
indigitari debeas. Notional Otionum analysin in adaequatarum idearum formatione
consistere, snpra iam ostensum est. Porro in hac o peratione ideam aliquam in
partes, sive notas dividi, hasque rursus in alias disper tiri, quisque novit
qui earum naturam habet exploratam. Tunc igitur idea illa ut totum consideratur,
characteres autem ut eius partes: adeoque non abs re analysis idearum verbis
expressa DIVISIO nominatur, * quae recte definitur, quod sit to tius in partes
resolutio. * Quum autem in divisione novae notarum de finitiones suppeditentur:
iure doctrinam hanc definitionibus subiungimus. 2 55. Quoniam vero quidlibet ut
totum considerari potest: variae totius relationes sunt enatae. Et quidem 1.
totum essan tiale quod constat ex partibus ad ajus essentiam pertinentibus, 2.
totum integra le, compositum nempe ex corporibus, quorum snmma eius
integritatem constituit, 3. genus, quod plures species suo ambitu comprehendit,
4. subiectum, quod plura accidentia sustinet, 5. accidens quod pluribus
subiectis inhaerere potest, 6. caus sa, quae plures producit 7 effectus, qui a
pluribus potet procedere caussis. Quidquid tandem pro ratione obiectorum, circa
' quae versatur in tot partes distribui potest, quot sunt objecta. Inde ergo
est, ut va riae a Logicis tradantur divisionis species veluti TOTIVS sive
essentialis, sive in tegralis, in suas partes, GENERIS in suas species
subordinatas, SVBIECTI in sua Accidentia in suos effectus, EFFECTVS CAVSSAE,
ACCIDENTIS in sua snb 7, D 5 82 Logic. pars 1. iecta, rei in suas caussas,
denique caiusvis per sua OBIECTA. Primae classis est haec: Homo dividitur in
animam et corpus; vel as dividitur in duo decim uncias. Secundae: Animal
dividitur in hominem, et brutum. Tertiae: Homo est, vel doctus vel indoctus.
Quartae: Bonum est. vel animi, vel corporis. Quintae: Philoso phiae dogmata
alia intellectuin instruunt, a. lia voluntatem dirigunt. Sextae: Veritatis
impugnatio, vel ab ignorantia, vel a malitia procedit. Septimae denique:
Philosophia theo retica alia circa res corporeas, alia circa incorporeas et
intellectuales versatur. 56. Totum illud, quod in divisionem cadit, DIVISUM;
partes vero, in quas dispertitur, MEMBRĀ DIVIDENTIA no minantur. Sin membra
haec in novas rur sus partes resolyamus., SVBDIVISIO di citar. * * E. g. Homo
dividitur in partes suas essentia les animam nempe et corpus; hoc autem in
caput, truncum o et artus reliquos. En subdivisionem, 57. Ex membrorum itidem
dividentiam numero nova quoque divisionis oritur dif ferentia. Si namque duo
fuerint membra Cap. IV. De divisionibus. 83 dichotomia sive DIMEMBRIS; si tres?
trichotomia seu TRIMEMBRIS; quatuor tetrachotomia hoc est QVA TRIMEMBRIS
divisio, appellabitur. SI Sic bimembris erit divisio lineae in rectam, et
curvam, trimembris trianguli in aequila terum, isosceles, et scalenum;
quatrimembris denique parallelogrammi in quadratum, rc ctanguluin, rhombum, et
rhomboidem., 58. Quoniam divisio est totius in par tes resolutio; totum autem
ae quale partibus simul sumtis esse debet: consequens est 1. ut membra
dividentia simul totum adaequare debeant divisum adeoqne nec plus illo, nec
minus compre hendant; * 2. ut non sibi coincidant, sed repugnent, sintque per
novas definitiones, easque oppositas, distincta; ** 3. ut ex ipsa rei
dividendae natura petantur, scili cet in tot membra totum dividatur, capax est;
4. denique ut ad confusio nem vitandam prius idea totalis ab am biguitate
liberetur, posteaque divisio insti tuatur. i quot *** * Contra hanc regulam
peccant, qui angulum dividunt in rectilineum et curvilineum, vel qui lineam
esse aiunt, vel rectam, vel curvam & derari potest: vel mixtam. In primo
enim casu membra di videntia simul sunt diviso minora; in se cundo autem eodem
maiora. ** Huic quoque regulae adversantur ii, qui bo. num dividunt in honestum,
utile, et iucundum: haec enim membra simul in uno coexistere debent, ut
genuinam boni denominationem tue ri possit: adeoque non sunt repugnantia.
Peccant etiam ii, qui licet totum in membra opposita distribuant, ea tameu
definitionibus non repugnantibus determinant, ut quum cns in simplex et
compositum diviserunt, et hoc esse dicunt, quod partibus constat: illud contra
definiunt per id, in quo nihil consi *** Repréhensionem ergo.eruditorum merito
incurrunt Ramistae, qui tam superstitiose di.chotomiis adhaerent, ut in plura
membra totum dividere irreligiosum putent. Nec ali ter iụdicandum est de iis,
qui nimiae mem brorum multiplicitatis sunt amatores. Idem enim vitii, inquit
Seneca, habet nimia, quod nulla divisió. Ep. 89. 59. Quum autem divisiones et
subdi visiones potionum analysin contineant, haec autem in idearum adaequa
tarum formatione consistat, ideo que ad maiorem distinctionem in nobis
producendam sit comparata: sequitur 5. ut divisionibus aeque, ac
subdivisionibus, quae iisdem ' reguntur regulis, omnia vi tentur, quae
confusionem adferre possunt; proindeque 6. liquido patet, non licere p? as ter
necessitatem subdivisiones multiplicare, ne memoria fatigetur, ac intellectui
veių. ti tenebrae offundantur, Schol. Haec de divisione. Ad hujus porro
doctrinae usum nunc transeamus quem paucissimis inde nascentibus include mus
regulis. Logicae itaque Tiro utilissi mos aeque, ac necessarios hosce discat
CANONES, In dividendo subdividendove non aliorum systemata, sed naturam tantum
consulito. Confusionem aeque, ac tae dium vitare curato. Hoc namque modo nec
Ramistarum supersti tiosa restrictio, nec Scholasticorum nimia di visionum
membrorumque multiplicatio locum habebit. Natura enim omnium optima, et ad
curatissima est magistra. 2. Divisiones ne per saltum facito. * Ordinem ac
seriem in unaquaque re ser vato. Dicitur autem civisio per sattum, quae ordi...
nem non scrval, et in qua ea, quae in sub divisione cxprirai deberent,
comprehendun tur: e.g. si ideam diviseris in claram et ina daequatam,
divisionem conficies per saltum; inadaequatam enim quae in subdivisionem
ingredi deberet in divisione locum habere observas. Series ergo atque ordo ne
pertur betur, quisque in studia incumbens cavere stu deat. CAPVT QUINTVM De
iudiciis, et propositionibus, 6o. Hactenus de ideis, earumque ana lysi, quantum
instituti brevitas tulit, actum. Eas vero si comparemus, scilicet si duas ideas
inter se coniungamus vel separemus, alia mentis oritur operatio, quae IVDI CIVM
adpellatur. Est autem iudicium duarum idearum comparatio earumque relationis
perceptio. Iudicium porro ver bis expressum dicitur PROPOSITIO vel ENUNCIATIO.
E. g. Si ideam spiritus cum idea indestructibi litaiis conferas, videasque unam
alteri conve nire, tunc spiritum esse indestructibilem ndi cas: contra, si
indestructibilitatis ideam cor Cap. V. De iud. et prop. 87 separas: haec poris
notioni non convenire observes,corpus non esse indestructibile colligis. In
primo ca su ideas coniungis; in altero mentis operatio, qua earum relationem ex
pendis, iudicii nomine venit. ** Nonnulli discrimen inter haec duo nomina
statuunt: ut prius locum inveniat, si in syllo gismo spectetur; posterius vero,
si extra id inveniatur. Sed in re tam parvi momenti diu immorari, foret
ineptum. 61. Quoniam iydicium duas ideas compa rat, et si verbis exprimatur,
propositio di citar ($. 60. ); idearum vero signa sunt voces seu termini:
liquet, quam libet enunciationem duobus constare termi nis, quorum ille, cui
aliquid convenire vel discrepare ennuciatur, SVBIECTVM; is vero, qui subiecto
tribuitur vel ab eo removetur, ATTRIBVTVM vel PRAEDICATVM nomiuatur, qui duo
simul pro positionis EXTREMA dici consueverunt. Quumque eorum nexus verbo
substanti vo exprimatur: merito vox illa ex hoc verbo desumta, quae propositionis
extrema coniungit, COPVLA vocatur. E. g. In hac propositione, “Deus est
aeternus,” Deus est subiectum, quia ipsi tribuitur aeternitas; aeternus dicitur
attributum, quia Deo convenire enunciatur; vox deniqne “EST”, quae duo haec
extrema coniungit, atque unum al teri convenire indicat, copula, hoc est coniunctio,
adpellatur. Hinc ergo colligitur, quain cumque propositionem SUBIECTO, COPVLA,
et ATTRIBVTO constare debere, ut enunciatio LOGICA PERFECTA dici pos sit. Si
namque horum aliquis lateat, CRYPTICA, vel IMPERFECTA dicilur, quia naturalis
compositio crypsi aliqua tegitur: id autem accidit, quum verbuin aliquod
copulae et attributi vices sustinet e. g. Deus mundum creavit: idem enim esset
ac dicere: Deus est Creator mundi. Est et alia propositionum crypticarum
species, iu quibus sub uno verbo tota enunciationis latet compositio per ellyp
sin eruenda: ut in illis: veni, vidi, vici: hic namque tres iusunt
enunciationes ex iis dem verbis repetendae, nempe: “Ego fui-ve nens, ego fui
videns, ego fui vinccns.” QvanVandoquidem
in qualibet idearum comparatione sex potissimum con fiderari possunt, scilicet:
materia, sive ideae quae comparantur; forma, seu comparatio ipsa; qualitas
comparationis; eiusdem quantitas; objectum, 6. denique evidentia relationis:
ideo sub totidem adspectibus propositiones intueri possumus; videlicet, ratione
MATERIAE, FORMAE, QVALITATIS, QVANTITATIS, OBIECTI, et EVIDENTIAE. Quamvis autem hunc ordinem
divisionis natura suppeditet: liceat nobis in hac tractatione qualitatem ante
omnia perpendere, utpote quae in aliis distributionibus usui esse debet; quaque
postposita, nonnulla obscuritate laborarent. Propositionis QVALITAS consistit in
extremorum combinatione tione. Quum ea coniungimus, scilicet prae vel separa dicatum
subiecto convenire enunciamus ADFIRMARE dicimur; NEGARE contra, si illa
seiungamus, seu unum ab altero discrepare pronuntiemus. Recte igitur omnis
propositio, si qualitatem spectes, dividitur in AIENTEM et NEGANTEM. E. g. Quum
dico, “Mundus est contigens”, praedicatum cum subiecto coniungo, adeoque de
mundo adfirmo esse contingentem. Quando vero enuncio, “Mundus NON est
aeternus”, extrema seiung, idest aeternitatem a mundo removeo et hoc est quod
dicitur negare. Ex quo vides, negationem (“NON”) copulae praepositam reddere
propositionem negantem: quod si non copulam, sed terininorum ali quem, vel eius
partem negatio afficia, non negans, sed INFINITA orietur enunciate. E. g.
Marcus Aurelius Romano Imperio pote ral non nocere, quia Philosophus. Distinctio
haec aliter ab aliis enunciatur, scilicet in adfirmativam et negativam. Vtrum
que apte. 64. Si ad propositionum materiam attendamus, eae sunt vel SIMPLICES,
vel COMPOSITAE. SIMPLEX enunciatio dicitur, cuius termini plures non sunt sed
unuin habet subiectum, et unum prae dicatum; COMPOSITA vero, quae plura >
Cap. V. De iud. et prop 91 continet vel subiecta, vel attributa; eaque est vel
EXPLICITA, si compositio sit mania festa, vel IMPLICITA, Scholastico nomine EXPONIBILIS,
si compositionem habeat latentem, et paullo obscuriorem. Addunt alii
enunciationem COMPLEXAM eamque haberi aiunt, quoties terminus ali. quis
propositionem contineat incidentem sibi adnexam, quae, licet ad essentiam
proposi tionis non pertineat, ad eam tamen intelli gendam plurimum confert,
exprimiturque per pronomen relativum QVI. E. g. Plato, qui divinus fuit dictus,
ideas innatas admisit. Propositio illa, qui divinus fuit dictus, in, çidens
est. Sed distinctio haec in Logica aut parvi, aut nullius fere est momenti. Simplex
ergo erit propositio: Deus est ae. ternus, iten que: aer est gravis. *** In quo
vero consistat palens, vel latens compositio, ex sequentibus abande patebit,
ubi de explicitarum implicitarum que enuncia tionum speciebus sermo erit. Id
porro sedulo observandum, in compositis non unam, sed plures contineri
enunciationes, id quod ex earum analysi poterit elucescere. EXPLICITA
enunciatio dividitor in CONDITIONALEM; CONIVNСТАМ; DISCRETAM; CAVSSALEM;
DISIVNCTAM et RELATAM. Conditionalis, alio nomine hypothetic, est, quae
praedicatum habet subiecto tributum sub aliqua conditione: e. g. “Si mundus est
ens contingens, non exsistit a se” -- in qua prima pars conditionem, altera
propositionem continet. De hac autem observandum. I. conditio existentiam non
largitur: visi enim veritatem adquirat, enunciatio vera esse non potest. Sic si
dicas, “Si navis ex Asia venerit, centum tibi me daturum promitio”: promissio
vera non erit, nisi navis ex Asia redux fuerit; 2. conditio impossibilis habet
vim negandi. Et -recte: nam conditio impossibilis numquam in exsistentem abire
poterit; adeoque enunciatio nullibi veritatem adquiret. Vnde idem est di cere:
si digito Coelun tetigeris, centum ti bi dabo, ac si diceres: numquam tibi dabo
centum: conditio namque impossibilis est. Coniuncta, sive copulativa dicitur, in
qua termini ita connectuntur, ut de pluribus su biectis idem attributum; vel
plura altributa de eodem subiecto enuncientur. E. g. “Iustitia et prudentia
sunt virtutes”; “Deus est aeternus et omnipotens”. Disiuncta, vel disiunctiva est, in qua uni
subiecto plura tribuuntur praedicata, vel u Cap. V. De iud. et prop. 93 num
attrubutum pluribus subiectis, ut plu ribus unum, vel uni plura conveniant,
licet indeterminate. E. g. Aut doctus eris, aut in doctus. Quae de hac
observari merentur, con fer in S. 58. cur (1 ) Caussalis est, in qua ratio
additur, praedicatum subiecto tribuatur. E. g. Vitia nostra, quia amamus,
defendimus: Politicas quia prudentiae regulas tradit, sedulo exco lenda, 1 Discreta
dicitur, quae duo de eodem s biecto judicia continet qualitate diversa: ut
illud Horatii. Coelum, nou animum mutant, qui trans mare currụnt. Item illud
Terent. andr. 1. SC. 2. Davus sum, non Oedipus. Relata, seu relativa est, cuius
una pars ab altera vim sunnit, ad eamque refertur ut il lud Virgilii Georg. II. v. 291. et quantum
vertice ad auras Aetherias, tantum radice in Tartara tendit. IMPLICITAE vero
species sunt EXCLVSIVA; EXCEPTIV; COMPARATA RESTRICTIVA: licet alii quoque
inceptivas, desitivas, et 'reduplicativus adiungant. Exclusiva est, in qua
sensus duplicatur per particulas exclusivas solum, tantum, dumta xat etc.,
estque vel exclusi praedicati, e. g. oculus tantummodo videt. Exceptiva est, in
qua particulae exceptivae praeter, nisi, et similes, sensum multiplicant. E.
g.: “Omne ens, praeter Deum, est contingens.” Comparata cicitur propositio, vel
particu la quaedam comparativa relationem adferat inter subiectum et
praedicatum, ita ut ge mipus inde emergat sensus e. g., “ira est amore
validior. Restrictiva denique est, quae
multiplicem continet sensum per particulas restrictivas. quatenus, in quantum,
quoad etc. geminatum. E. g.: Ilomo, quoad corpus ', est mortalis. INCEPTIVAS
vocant, quae actionem aliquam in principio enunciante, ut: successio temporum a
creatione incoepi; DESITIVAS, inquibus ejus cessatio et finis praedicatur, ut:
tutela pubertate finitur: REDVPLICACIVAS denique, in quibus subiectum geminalum
at liud iudicium continet tacitum. E. g. “Corpus, qua corpus est, a spiritu
differt. Sed de his plura coram. Si enunciationis FORMAM spectemus, erit
NECESSARIA, CONTINGENS (fortuitam Cicero adpellat), POSSIBILIS, IMPOSSIBILIS:
in quibus si necessita, contingentia, possibilitas etc. reticeantur, ABSOLVTAE
dicentur; si vero exprimantur, MENTALES. Necessariam dicimus, cuius extrema ita
contiunguntur, ut aliter se habere non possint. E. g. “Circulus est rotundus”.
Contingens est, cuius termini nullam neces sariam habent connexionem, sed ita
cohaerent, ut aliter esse queant. E. g.: “Crastinus dies erit serenus”. Possibilem vocamus, in qua attributum sn
biecto non repugnat, ut cera liquescit. Impossibilis dicitur proposition, cuius
termini inter se repugnant, ut, “Circulus est quadratus”. Ratione OVANTITATIS
enunciatio dividitur in VNIVERSALEM, si attri butum subiecto in tota huins 'extensione
conveniat; PARTICVLAREM, si ad aliquas tantum species, ant individua in
subiecti notione contenta extendatur; denique SINGVLAREM, si individuum
subiecto exprimatur, Addunt alii inde finitam, sed eam non esse ab universali
dstinctam, infra abunde patebit. in. Alia universalem vocant propositionem, qua
ratio sufficiens, cur praedicatum subie cio tribuatur, latet in ipsa subiecti
natura, scilicet, si praedicatum sit attributum essentiale subiecti. Ita haec
enunciatio, “Homo est libertatis capax”, est universalis tum quia subiectum in
tota eius extentione sumitur nullus enim homo invenietur, nullus enim homo
invenietur, cui libertate careat; tum quia ratio sufficiens, cur libertas
homini trihuitur, latet in ipsa hominis ESSENTIA et natura, hoc est, ut
Scolastici aiunt, rationalitate. Signum universitatis in aiente propositione
est “OMNIS” (italiano: “ogni”); in negante NVLLVS. Quae de universalitate
metaplıysica et morali Philosophi docent, ea hic persequi brevitas non patitur,
sed in ipsis praelectionibus aliqua no tabimus. Particularem propositionem alii
esse dicunt, in qua ratio sufficiens; cur praedicatum subiecto naturam est
repetenda; E. g. “quidam homines sunt crudili”. Vides hic subiectum non in tota
sua extensione accipi, sed ad aliqua tantum individua extendi, ita ut ratio
sufficiens, cur homini eruditio tribuatur hominis naturam inveniatur, scilicet
in studio aique exercitatione. Particularitatis nota est QUIDAM, ALIQVIS; in
negante vero additur particula NON. E.
g., Livius Romanorun historiam ad sua usque tempora scripsit. En propositionem
singularem: subiectum enim est terminus singularis. 6g. Ex quibus omnibus
consequitur v. ad essentiam propositionis universalis non reqniri notam
uuiversitatis, sed eam pro lubitu exprinii vel' omitti posse; INDEFINITAM dici
propositionen in qua pota reticetur ac proinde recte a Philosoplus adfirmari,
propositiones in definitas aequipollere universalibus; qui nimmo, signum
universale numquam efficere posse, ut enunciatio talis evadat; falli ergo eos,
qui universalem propositio hem defipiunt per eam, cuius subiectum signo
aificitur universali; particula rem facile in universalem commutari pos se, si
subiecto addatur ratio suficiens, cur ei convcniat allributum, Ecquis enim
propositionem hanc: “Omnis homo est doctus”, ideo universalem esse aufirmabit, quia
signo universali subiectum adficintur? Hinc si propositionem universalem particularibus,
vel particularem universalibus terminis signisque exprimamus a veritate
deficiet, ut suo loco dicemus. Sumas e. g. hanc propositionem: “Quidam homo est
philosophus”, habes propositionem particularem. Adde snbiecto caussam, cur de
homine esse philosophum enunciatur. scilicet scientiam; eamque sequenti modo
exprimito: “Omnis homo scientia praeditus est philosophus”, ex particulari in
universalem abibit. Mirum quantum transmulalio ist haec in scientiis prodest.
Ab ea enim pendet propositiomm analysis; puta earumdem resolutio in hypothesin
ct thesin. Nobis in secunda part, ubi de experientia sermo erit, huius modi
commutationis usus erit obiter attingen dus. Iuvat hic compendii loco addere,
veteres harum propositionum differentiam quatuor vocalibus indicasse: “A”, “E”,
“I” et “O”, id quod se quentibus expressere versiculis: Asserit “A”, negat. “E”,
verum universaliter ambae. Asserit I, negat O, sed particulariter ambo: De rat.
et Syll. De propositionibus mathematicae methodo inservientibus. Ostrema
enunciationum divisio quae earum obiectum, et evidentiam res spicit, ea est,
quae in recentioribus Phi osophorum et Mathematicorun scriptis pas sim observatur
peculiaribus desiguala nominibus, quaeque a nobis ideo distincte tradenda, quia
me!l dun mathematicas in hisce justitutionibus sequi statuimus. Ratione ilaque
OBIECTI pto positio est vel THEORETICA, in qua a liquid de subiecto enuncialur,
vel PRACTICA, quae aliquid fieri posse aut debere adfirmat. Sic propositio
theoretica est haec, “Omnes ro dii eiusdem circuli sunt aequales”. Practica
vero: “Quovis centro et intervallo circulus describi potest. Vides hinc,
theoreticam propossitionem veritatis alicuius enunciationem; pra cticam vero
operationis faciendae expositiouera continere, Quo ad EVIDENTIAM enunciatio vel
talis est, ut extremorum nexus per se clare pateat, vel quae demonstratione in
digeat. Illa INDEMONSTRABILIS, haec DEMONSTRABILIS dici consuevit. Quibus
enodatis, ad peculiaria propositionum nomina explicanda transcamus. Indemonstrabilis
ergo est enunciation, “Totum sua parte maius est”. Demonstrabilis. contra haec:
“Scientia Philosopho est necessaria”, ea enim ex collatione definitionum
scientiae et philosophi debet demonstrari. Propositio indemonstrabilis
theoretica dicitur AXIOMA. Si vero practica fuerit, POSTVLATVM vocalır. E.g. “Totum est aequale omnibus suis partibus
simul sumti”. D. de Tschirnausen axioma vocat quamcumque propositionem ab unica
definitione immediate deductam; Euclides au tem illam, quae primo intuitu ab
unoquoque perspici potest. Res eo redit, ut axioma vo cemus enunciationem per
se claram, adeoque demonstratione non indigentem, sive a defini tione, sive
aliunde evideutiam suam repetat: ac proinde nostra definitio utramque
amplectitur sententiam, ut diffusius coram ostendemus. ** E. g Quovis centro ac
quovis intervallo cir culum describere. Coguita enim circuli defini tione,
postulati huius veritasan. scitur, Cap. V. De iud. et prop. IOL Enunciatio
theoretica demonstrabilis THEOREMA vocatur; practica contra dicitur PROBLEMA. In
Theoremate ergo propositionis veritas ex plurium definitionum collatione
demonstrari debet. E. g., “Deus est aeternus” Huius enim demonstratio ex
definitionibus Dei, et aeter ni inter se collatis peti debet. Hinc est, ut
duabus illud constet partibus, nempe enunciatione, qua veritas șive propositio
theoretica enunciatur, et demonstratione, qua ea dein confirmatur: ideoque in
fine demonstra tionis addi solet Q. E.'D., hoc est, “quod erat demonstrandum.” Quum
Problema sit propositio practica, pa lam est, illud tribus absolvi,
propositione sci licet, quae quid faciendum proponit, solutione, quae modum,
quo fieri potest, ostendit, et demonstratione, quae rem bene processis se
concludit, addends, “Q. E. F”. idest, “quod erat faciendum”. Sic problema est
haec enunciatio: Commiserationem in altero excitare. COROLLARIVM, sive CONSEOTARIVM
dicitnr quaevis enunciatio, quae ab alia immediate, et necessariae
consequutione oritur. E. g. Cuum demonstraveris propositionem E T. hanc: Nihil
est sire ratione sufficiente, per teris inde eruere corollarium; Ergo, id omne,
quod ratione sufficiente destituitur, nec est, nec esse potest. SCHOLION, seu SCHOLIVM, est oratio, qua
illustratur quidquid in propositione obscurum videbatur. In eo igitur doctrinae
usus exponitur, historia narratur, auctorum sententiae referuntur aliorum
obiectiones proponuntur et refelluntur, ce teraque observatu digna enucleantur:
ut videre est in omnibus Mathematicorum, et Philosophorum recentium scriptis. LEMMA est proposititio ex aliena disciplina
desumta, quae tamen ad demon strandum aliquid in doctrina, quam tra ctamus in
subsidium adhibetur. Ita Aritmetici in costructione quadratornm et cuborum
lemmata ab Algebra muluantur, ut est propositio illa: Cuiuscumque numeri bi
partiti quadratum aequatur quadratis parti una cum facio dupli partis unius in
al teram lucti. um Cap. V. De iud. et prop. 103 S E C T10 lll. De propositionum
adfectionibus. HaecAec de enunciationum diversitate. Superest, ut de earum
adfectionibus pau ca dicamus, de quibus quamplurima in Scholis praecipiuntur
laboris quidem plena, vtilitatis autein expertia. Ad propositionum adfectiones
referuntur: OPPOSITIO, SVBALTERNATIO,
CONVERSIO, et AEQVIPOLLENTIA. OPPOSITIO est duarum proposi tionum inter se
pugnantium collatio: estque vel CONTRARIA, si earura utra que sit universalis
in qua propositio nes ambae possunt esse falsae, sed non ambae verae; vel
CONTRA-DICTORIA, si etiam quantitate differant, *** in qua enunciationum
illarum necessario una ve ra esse debet, altera falsa; vel deni que
SVBCONTRARIA, si ambae sint par ticulares, **** in eaque propositiones am bae
verae, at non ambae falsae esse possunt. * Sic oppositae sunt hae propositiones:
Omnis E 4 spiritus cogitat; nullus spiritus cogitat: pu. gnant enim inter se,
quum de eodem subie cto idem una adfirmet, altera neget. ** E. g. Omnis homo
est ratione praeditus: nullus homo est ratione praeditus, quarum una vera est,
altera falsa. Possunt tamen da ri casus, in quibus ambae falsae sint, veluti
huum unirersaliter enunciatur, quod particu lariter proferri debebat. E. g.
Omnis homa est eruditres: nullus homo est eruditus. Om nibus enim tribuere quod
quibusdam tan tum convenit, est falsum dicere dicere, ut infra videbimus. ***
Ita propositiones: Omnis spiritus cogitats quidain spiritus non cogitat, sunt
contradi ctoriae, earum enim una universaliter ait, al. tera particulariter
negat. Iure igitur exclusa altera includitur, et contra: nam falsum est a
quibusdam removere quod omnibus con renit, vel aliquibus tribuere quod nulli
com petit. ***** Talis est sequens oppositio Quidam ko mines sunt divites:
quidam homines non sunt divites: Vides hic ambas propositiones veras esse. Quod
si dicas: quidam homo est liber: quidam homo non est liber, quum haec falsa sit,
altera vera esse debet. Rationem eius re gulae, ne longius provehamur, coram
dabi una, mus. 7SVBALTERNATIO est duarum Cap. V. De iud. et prop. 105
propositionum sola quantitate differen tium, sed eosdem terminos habeniium
mutua quaedam relatio. Vniversalis enun ciatio SVB-ALTERNANS; particularis vero
SVB-ALTERNATA, a Logicis dici con suevit. * De qua adfectione duo notanda
occurrunt: 1. Veritatem subalternantis veritas quoque subalternatae consequi
tur, non contra **. 2: Falsitas propo sitionis ' subalternatae falsitatem etiam
subalternantis arguit, non autem con tra. E. g. Duarum propositionum:, Omnis
homo est eruditionis capax; quidam, homo est eruz ditionis capax, illa
subalternans, haec subal ternata dicitur. ** Sic quum ia superaddito exemplo
verum sit, omnes homines doctrinae esse capaces, verum quoque erit, quosdam
homines doctrinae capa ces esse. Ratio huius regulae est. Contrariae ambae
verae esse non possunt (S. 78. ). Si ergo 'subalternans vera sit; eius contrará
falsa erit. Quum autem huic contradıcat subalterna ta, et in contradictoriis
necessario una sit, altera falsa (C. eod. *** ), liquet subal ternatan
necessario verum esse debere; alias, enim in contradictione falsitas ex utraque
par te daretur, quod est absurdu:n. Contra ea si verum est, quosdam hom nºs
esse eruditos vera E 5 106 Logica Pars. I. cui quum non certe infertur omnes
homines eruditos esse. *** Si namque subalternata est falsa, eius con tradictoria
vera erit; sit contraria subalternans, haec non poterit non esse falsa, adeoque
subalternae falsitatem necessario sequi. E.g.Falsum est, aliquem spiri tum esse
mortalem: falsum qnoque erit, omnem spiritum esse mortalem. At şubalternantis
fal sitas non ita subalternatae falsitatem includit. Quum enim in subalternante,
utpote univer sali, subiectum in tota sua extensione suma tur ($. 68. ),
poterit attributum aliquod extra subiecti naturam rationem sui habere
sufficientem, adeoque aliquibus tantum spe ciebus, aut individuis conveniens
propositio piem efficere particularem (f. eod. *** ). Fal sa in hoc casu' erit
subalternáns, non vero subalternata. Hinc si falsuin est, omnes homi nes ésse
doctos, non ita falsum erit, quosdam homines esse doctas. CONVERSIO est mutua
extremorum salva enunciationis veritate, substitutio Ea fit tribus modis,
scilicet 1. SIMPLICITER, quum eadem qualitas et quantitas manet; 2. per
ACCIDENS, quin quan titas sola mutatur; 3. denique per CONTRA-POSITIONEM, quum
salva pro, positionis quantitate, terminis additur ne galio, qua fit, ut
enunciatio lex determi pata in infinitam abeat. Cap. V. De iud. et prop: 107 *
Scholerum est ha ec doctrina a nobis recensi ta in gratiam eor um, qui
huiusmodi loquite tiones scire cupiu nt; sed non caret sua uti litate; imo haud
raro est necessaria, Sim plex igitur est conversio: Omnis spiritus est
substantia cogitans: omnis substantia cogi tans est spiritus. E. g. Omnis
doctus est homo, copyertitur per accidens hoc modo: ergo quidam homo est
doctus. *** Sic: Quidam homo non est. pius, per con trapositionem convertitur:
ergo quoddam non pium est homo. Sed quorsum haec? ais. Con fer, Dan. Richterum
diss. de convcrs. propo • sition. Halae 1740 AEQUIPOLLENTES denique dicun tur
enunciationes, quae verbis licet di versae, cumdem tamen sensum habent. * Duae
ergo propositiones synonymicis termia nis expressionibusque prolatae
aequipollentes sunt, nempe eumdem valorem habentes. Ego Omne animal vivit et
sentio: nihil tam ani manti proprium est, quam vita et sensie. Quae de his
postremis propositionum adfectionibus laboriosius a Scholasticis traduntur,
tempus terendum potius, quam ad rationein excolendam sunt adcommodata. Nobis
haec tantum notasse sufficiet. Schol. Quae de iudiciis, ac propositio nibus
cupidae iuventuti observanda arbitra. mur, ea paucis exponenda supersunt. Qua
propter tironi Philosopho sequentes tenea di sunt CANON ES, 1, Q Voniam iudicia
sunt sapientiae, vel stultitiae fidelia indicia, par cius iudicato ne aliis sis
ludibrio teque in errorem temere coniicias. 4 * Sensus namque communis a
iudicandi peritia scientiam hominis metiri solet. Ea de re quum de alterius
sapientia vel stultitia iudicium proferre volumus eum criterio pollentem pel
carentem adpellamus. 2. De nuila re, nisi cuius adaequa tam, aut saltem distinctam
habes ideam, iudicium proferto, tuum. Idearum enim confusio praeiudiciorum
mater est fera cissima. * Quum enim rerum, de quibus iudicare volu mus,
distinctatu vel adaequatam habemus ide am: tunc eas undequaque cognoscimus, re
lationesque perpendimus; adeoque termino rum nexibus optime coguitis, recte
iudiça þimus, Cap. V. De ind. et prop. 109 4. In vel tuo i quocumque iudicio
vel alieno caussam et rationem atten te perspicito, cur tales ideae tali modo
coniungantur vel scparentur, nec alio. * * Etenim infra abunde patebit, verae
prope, sitionis criterium esse, si ratio sufficiens ad. sit, cur praedicatum
subiecto tribuatur, vel ab eo removeatur. Tali ergo ratione perspem cta, non
poterit iudicium non esse verum; ac proinde errandi metus procul aberit. 4.
Praecipitantiam fugito: ideoque in iudicando tardus, in enunciando tardior esto,
ne levitalis errorisve arguaris. Me mento Augustini praeclarum illud: ver IA
BIS AD LIMAM, SEMEL AD LINGUAM, Ne cit enim, monente Horatio, vox missa
Leverti. Notum est responsum illud nescio cui num quam loquuto, ac pro sapiente
seinper habi. to, datum, postquam semel toqui voluit: Si tacuisses, Philosophus
mansisses. 51. De moribus, et viia hominum num uam iudicato. Nemo enim alterius
in er est a Deo constituius: > Hinc sapientissimum illud Servatoris nostri
110 Logica Pars. I. monitom gauctiope muniiuin habemus Matth. VII. 1. Nolite
iudicare, ut non iudicemini. Qua vero ratione praeceptum istud homini bus
inculeatum sit, ostendemus in Iure Naturae. Quoniam duarum idearum convenien
tia, aut discrepantia non semper unica intuitu aguosci potest, adeoque dan tur
veritates demonstrabites(s 71. ); de monstratio autem ratiociniorum serie absol
vitur: ordinis ratio postulat, ut de ratiocinatione verba faciamus. Est vero
RATIOCINATIO, sive RATIOCINIVM, actio mentis, qua ex duobus iudiciis no tionein
communem habentibus tertium eli citur; vel practice est duarum idearum cum
teriia comparatio', earumque rela tionis. deductio. Ratiocinium porro verbis
expressa dicitur SYLLOGISMVS. * Quando igitur mens de veritate iudicii alicu
ius nouduin certa, eius extrema, sive ideas confert cum idea aliqua tertia, et
ab earum convenientia vel discrepantia, tertium elicit Cap. IV. De rat. et
Syll. III iudicinm: tunc ratiocinatur, hoc est rationes conficit, ut veritatem
inveniat. E. g. Ut sciat, an aer sit gravis comparat ideam aeris, et ideam
gravis; cum tertia idea corporis, ob servatque, num inter eas adsit
convenientia: qua comperta, duas illas ideas inter se quo que convenire
concludit hoc modo: Omne corpus est grave: Aer est corpus; Ergo aer est gravis.
En ratiocivium. Quod si verbis exprimatur, erit syllogismus. 83. Experientia
teste scimus, duas ide as cum tertia triplici modo comparari pos se: vel enim
cum illa conveniunt, vel u na convenit, altera discrepat, vel ambae ab ea
discrepant. In primo casu elicitur ter tium iudicium aiens, in secundo negans,
in tertio vero nihil exsurgit. Totum ergo ratiocinii pondus duobus his
axiomatis con tinetur: nempe 1. Quae conveniunt cum aliquo tertio ea conveniunt
inter se: 2. Quorum unum tertio cuidam convenit, alterum autem ab eo discrepat,
illa in ter se quoque discrepant * Primum axioma est ratio sufficiens
syllogismi aientis ut videre, est in exemplo supra al lato; alterum negantis: e
g. Qui Deo servit non servit Mammonae: sed Christianus Deo. 1. servit: ergo
Christianus non servit Mamm onae. Vides hic duaru n idearum Christiani et Mam
monae servientis., alteram convenire cnm ter tia Deo serviendi, alteram vero ab
ea di screpare: unde infertur a se invicem discrepare. 84. Ex quibus rebus
clare consequitur 1. in omni ratiocinatione tres tantummodo ideas esse debere,
adeoque 2. in omni syllogismo tres tantuin terminus; * unde 3. si plures ad
sint tirinini; guain tres, syllogisuum es se falsum. ** Quumque tres ideae
totidem combinationes adinittant (per exper. ): sequitur 4: ratiocinium tria
quoque iudicia continere; ac proinde 5. syllogismum tres, nec plures, enunciationes
admittere) Advertendum hic, tam terminos, quani pro positiones syllogismums,
componentes y pecu liaribus a Logicis ' donata fuisse nominibus. Et ut a
teruninis incipiamus, praedicatum tertiae propositionis,, quae principalis dici
potest, MATOR adpellatur, subiectum eiusdeni, MINOR; {erminus vero, qui tertiam
ideanı ex. primit, quique rationem continet suffizientem couvenientiae, vel
repugnantiae termini ma ioris cum minore, MEDIUS voćatur. E pro, Cap. V. De
iud. et prop. 113 > positionibus etiam illa, in qua medius cum maiore
confertur, MAIOR, vel PROPOSITIO simpliciter; illa, in qua medius cum minore
comparatur, MINOR vel ASSUMPTIO; ambae vero PRAEMISSAE dicuntur, propositio
denique, quam principalem supra, adpellavimus CONCLUSIO COMPLE xto, a
Scholasticis CONSEQUENTIA nos minantur. Sic in primo exemplo gravis est
terminus maior, aer minor, cor pus est terminus medius, adeoque prima pro
positio est maior, altera minor, tertia con clusio. * Solet enim quandoque
quartus irreperę ter. minus, et syllogismum corrumpere, idque raro patenter;
nam saepius in termino aliquo, vel compositione latet. Fieri hoc potest 1. per
aequivocationem, ut fi terminuin aliquiem yagnum adhibeas in sensu diverso: eg:
Vilpes habet qualuorpedes, Herodes est vulpes; er go Herodes habet quatuor
pedes. In quo ob servas vocem vulpes prino proprie; secundo vero metaphorice
suintam; 3. per supposi tionis mutationem, ut si idem terminus ma terialiter in
una, formaliter in premissarum altera sumatır. E. g. Iinne ens est generis
neutrius: femina est ens, ergo fernina est ge neris ncutrius, in quo nocens in
miori gran. matice; in minori philosophice anceptum est; 3. per confusionem
termini abstracti cum con creto. E.g. Omnis prudentia est habitus bo nus:
Titius est prudens: ergo Titius est ha bitus bonus. Tres ergo enuuciationes
syllogismi materia dici possunt: forma namque legibus absolvi tur, quas infra
'exibebimus. 85. Quamvis vero ratiocinium tam fa cilis exequutionis primo
intuitu videatur: difficilis tamen admodum est termini me dii, qui communis
idearum mensura est inventio. Sed ut omois difficultas evanescat, experientiam
philosophiae matrem consule re decet. Ea enim duce discimus, mentem postrani in
ratiocinando duplieem ingredi viam: vel enim notionum alteram ad pro prium
genus, vel speciem revocat, et quid quid his convenit, illi quoque tribuit, vel
definitionis characteres evolvit, eosque al. teri convenire observans definic
tum quoque coniungit. Duplex ergo est medium inveniendi methodus: altera sub
iectum ad genus, vel speciem, sub qua continetur, reducendi, eique tribuendi,
vel adimendi quidquid ideae genericae con vepit, vel ab ea discrepat; altera
attributi definitionem cum subiecto comparandi, et ab eorum convenientia vel
discrepantia, praedicati quoque cum subiecto coniunctio nem eruendi. cum ea
Cap. IV. De rat. et Syll. Exemplo sit sillogismiis supra adductus. Scire cupis,
aer sit gravis? Reduc subiectum sub genere corporis, et vide, utrum huic
conveniat gravitas, eam de aere quoque enunciabis, ita ratiocinando. Quodlibet
corpus est grave, aer est corpus: ergo aer est gravis. Haec erit prima medium
inveniendi methodus. Rursum gravitatis defi nitionem evolve, eiusque
characteres, nem pe corporum inferiorum pressionem confer cum aere. Quumque ei
conveniant, attribu tum cum subiecto coniunges hoc modo: Quidquid corpora
inferiora premit, est grave: Aer premit corpora inferiora: Ergo aer est gravis
Habes hic alteram medium inveniendi me thodum. Eodemque modo in aliis
ratiociniis investigando procedes: quod si adcurate ser ves, numquam tua te
fallet ratiocinatio. 86. Ex hoc principio fluunt sequentes regulae ratiocinii
fundamentales. I. Quid quid convenit generi vel speciei, conve nit etiam
omnibus speciebus, et indivi duis eorum ambitu conteniis. 2. Quid quid repugnat
vel generi specici, repugn it omnibus quoque speciebus, et individuis sub iisdem
contentis. * 3. Cui convenit definitio,
convenit pariter definitum: ac proinde 4. a quo discrepat definitto, di screpat
etiam definitum. * Vides ergo ideam mediam semel universaliter sumi debere,
quia ideam universalem, ge. mus nempe vel speciem, exhibet. Quod si bis
particulariter sumeretur, ratiocininm vi tio laboraret, ut infra dicetur.
Quumque praedicatum tam latc pateat, quam subiectum cui tribuitur, ut cuique
manifestum est: li quet, propositionem, in qua medius vicem praedicati sustinet,
particularem esse. Debet ergo medius terminis universaliter sumi in ea
propositione, cuius subiectum constituit Et quoniam propositio, in qua
subiectum in tota sua extensione sumitur, est universalis: liquido infertur,
saltem unam praemissaram esse debere universalem. Variae syllogismorum figurae
Scho lasticis fuere in deliciis, quas barbaris ali quot vocabulis, versibusque
distinguere consueverunt. Nos, missis futilibus tracla tionibus, regulas
quasdam Tironibus ma xime inservituras, quibus syllogismi leges breviter
exponuntur, hic subiiciinus, quas. sequcntes exhibent. Cap. IV. De rat. et
Syll. 119 CANONES. In syllogismo non plures termini sunto, quamtres. Si quartus
irrepserit, vitiosusiesto. Est lex eo magis observanda, quo omnia sophismata,
si bene perpendantur, contra illam peccare observamus. Ecquid enim sunt
fallaciae tanto labore a Scholis evolutae, an liquitatis, amphboliae, dictionis
composi tionis, divisionis, caussae, dicti simpliciter, con e juentis,
accidentis, cetera, nisi syllogi smi e quatuor terminis conflati, in quibus
quarins cryptice latet? Veritas hace altcate consideranti baud aegre patescet.
Vide quae de quatuor terminis diximus g. Medius terminus numquam conclu sionem
ingreditor. Monstruosuin enim es set, caussam in effectus constitutionem
immisceri.: * → Intellectus enim in ratiocinando vice Mathe matici fungitur.
Quia vero Mathematicus dua rum magnitudinuin aeqnalitatem ex cniusdam tertii
adplicatione cognoscit, nec, nisi in comparatione, mensuram adhibet: ita et in
tellectus in ratiocinando ex duobus indiciis 118 Logica Pars. I. * tertium
ervit, in quod medium comparatio nis ingredi, valde foret absurdum. Vitiosum
ergo esset ita raziocinati: Omnis bonus Phi losophus est homo: Titius est bonus
Philo sophur: ergo Titius est bonus homo. Medius Damque terminus ex parte in
conclusionem irrepsit. 4. Non esto plus minusve in conclu sione, ac fuit in
praemissis, ne quatuor inde éxoriantur termini. Si nanque praemissae sunt veluti
comparatio nes duarum magnitudinum cụm tertio eisdem adplicato, scilicet
mersura: iudicium ex comparatione ipsa procedens, perfecte com parationibus
ipsis convenire debet. Quando vero in conclusione plus minusve continetur, quam
in praemissis, idem esset, ac si dice res productum maius vel minus esse
altero, quod ex iisdem factoribus est ortum Plus cotineret conclusio, si ita
diceres: Qui alium l'aesit, puniendus est: Cajus alterum laesit: Cajus ergo
morte puniendus est. Minus con tra, si sic ratiocinaris: Qui furium commi sit,
restitutioni et poenac subiacet: Titius fur tum commisit: tius restitutioni
subiacet. 4. Ex puris particularibus, vel ne gantibus (praemissis ) nihil sequi,
ius estc. Cap. V. De rat. et Syll. 119 * Diximus enim f. 86. *, praemissarum
unam saltem esse debere universalem: unde si am hae essent particulares,
impingeretur in regulam 1.1. S. cit.; si vero ambae negantes, tunc duarum
idearum neutra cum tertia conveniret, adeoque nihil sequeretur per S. 83.
Falsum ergo esset dicere: Quidam bo mines suni doeti: quidam homines sunt in
docti: ergo quidam docti sunt indocti. Item Nullus impius salvatur: nullus
impius est pius: ergo nullns pius salvatur. 5. Conclusio partem sequatur
debilio rem, probe curato, ne in superiora pecces. * Pars debilior est
propositio particularis, vel negativa. Si ergo una praemissarum fuerit
particularis, conclusio quoque particnlaris, conclusio quoque particularis esse
debet, alias plus esset in conclusione, quam in praemissis; quod est contra
regulam 3.: si vero una praemissarum fuerit negans con clusio adfirmans contra
regulam 2. In hoc eniin casu extremorum conclusionis unum cum medio convenit,
alterum ab eo discre pat; adeoque ea inter se quoque discrepare concludendum
est; quare conclusio negans esse dcbet. Quae de diversis syllogismorum figuris
regulae vulgo traduntur, eae ad rem non faciunt; ac proinde a nobis tuto prae
terinittuntur, 120 Logita Pars. I. CAPVT SEPTIMVM. De aliis ratiocinandi modis.
38. Sunt et aliae ratiocinandi formae, quae licet a syllogismo diversae
adpareant syllogismum tamen continent vel 1. CRYPTICVM, vel 2., COMPOSITVM, vel
3. MVLTIPLICEM. De his obiter praesenti ca pite agemus. SYLLOGISMUS CRYPTICVS
est, in quo forma ordinaria (*. 71 * ) quo modolibet périurbatur, aut
occultatur. CRYPSIS ergo inducitur i. per ordinis perturbationem, *. 2. per
propositionum aequipollentiam per propositionis alicuius omissionem, quo casu
dicitur ENTHYMEMA, 4. denum per contractionem. * Ordo perturbatur, ai quando
propositiones transponuntnr: ut si prino conclusionen vel minorem, de nde
maiorein vel conclusio riem ponas. E. g. Quum ira sit adfectus minor ), debei
omnino compesci (conclusio); omnis namque adfectus est compesccn dus (maior ). ܪ Cap. VII. De aliis rat. " modis. 121 ** E: 8. Adfectus est
attentionem turbare. Quum ergo ira sit molus vehementior appe tus sensitivi ':
infertur, in iracundo attcntio nem mirifice perturbari. *** ENTHYMEMA igitur
est syllogismus dua bus constans propositionibus, quarum prima ANTECEDENS
altera dicitur CONSEQUENS. In hac argumentandi forma praemise sarum aliqua
reticetur, speciatim vero illa, quae cuique patet, ut: omnis adfectus tur bat
attentionem: ergo ira turbat attentionem. Minor deest, utpote quae ab audiente
sup pleri potest. Eodem modo et maior retice ri, minor contra exprimi solet: e.
g. ir & est adfectus: ergo estcompescenda. SYLLOGISMUS CONTRACTUS dicitur
in quo solus maior cum medio termino pro punijatur, relicto iniuore cum omni
combi patione. Talis est Cartesii syllogismus. Cogi 10, ergo sum: ubi eogito
est medius, est terminus maior; adeoque minor, scilicet ego, cum tota
propositionum connexione reticetur: integrum enim ratiocinium lioc,mo do
exponendum erat: Quid juid cogitat,exsistit ego cogiio: ego igitur exsisto. SYLLOGISMVS
COMPOSITVS est, in quo adest aliqua' propositio composiía, estoque vel
HYPOTHETICVS; * vel CO PULATIVUS, ** vel DISIVNCTIVVS, vel tandem ex hoc
primoque coalescens, qui proprio nomine vocatur DILEMMA. Tom. I. F. Sun: Hypotheticus,
sive conditionalis est, eut ius maior est propositio hypothetica: é g. Si homo
est rationalis, sequi tnr, ut sit libertatis capax: atqui est ratio nalis; ergo
est capax liberatis De hoc te nenda regula: Adfirmata conditione, adfir matur
conditionatum; et negato conditionato, negatur conditio. Quum enim in hypothesi
contineatur ratio sufficiens veritxtis proposi tionis, adfirmata caussá
adfirmatur effectus contra vero negato effectu, eius quoque caus sa negari
debet.. ** Copulativus, sive coniunctus est, qui malo. iorem habet duas simul
propositiones coniun gentem, et negantein, quarum unam minor adfirmat, alteram
conclusio negat. E. g. Non potest anima sinni aeternum vivere, et cum corpore
perire, atqni aelernum vivit: ergo non perit cum corpore. ** Disiunctivas est
cuius propositio maior est dis iunctiva. E. &. Aut anima cst ens ' simple:
aut compositum: sed non est cns compositum, ergo est simplex. Notanda crgo
regula: Ad firmato uno disi!ınctionis membro, reliqua negantur; ct negatis
rcliyuis, unuin ad fir tur. Confer tamen quae de disiunctivis pro positionibus
diximus. Si ergo in maiori propositio bypothetica cum disiunctiva copuletur,
DILEMMA con surgit quod argumentatio bicornis vel crocodilina vocari solet. Id
vero definitur: Syllogismus hypotheticus, cuius mai oris ' al 7 Cap. VII. De
aliis rat. mo dis. Tera pars est disiunctiva, quae in minore negatur, et in
conclusione totum destruitur. E. g. Si ens simplex naturaliter cx alio en te
oritur tunc aut ex alio simplici, aut e composito oriri debet: sed neque ex
alio ente simplici, neque c composito oriri potest: ergo naturaliter ex alio
ente non potest orlum du cere. Mirificum est Dilemma AVGVSTINI Tract. 1. in
Joann, quo Arianorum errorem circa Verbi aeternitatem egregie confutarit Huc
referenda quae diximus de divisione MVLTIPLICEM SYLLOGISMVM, licet imperfecte
exhibent 1. EPICHERE MA, in quo alterutri, vel utrique prae missarum probatio
additur; * 2 PROSYLLOGISMVS, in quo ' prioris syllogismi conclusio posterioris
eidem iuncti maiorem constituit POLYSYLLOGISMUS, qui plurium syllogismorum
connexionem contínet, e SORITES, qui plures ita connectit propositiones, ut
prioris aliribu tudi si ! posterioris subicctum. EPICHEREMA ergo rsl syllogisms.
cuius praemissis compendii caussa ralio Quirlitur Exemplum habes iu Cic. pro
Sex Rusc. MAI. Vt quis parricidii sit suspectus, is sce lestissimus ét
audacissimus sit, oporlei. RATIO est enim crimen horrendum. NIIN. Sex Roscius
non est talis PROB. Non est audax, non luxuriosus mon avarus. 124 Loigica Pars.
I. CONCL. Non ergo est parricidii suspectus. ** In PROSELLOGISMO itaque duo
adsunt syllogismi coniuncti, quorum posterior ma iorem habet in prioris
conclusione contentam: quapropter eius minor SVBSVNTA vocatur MAI. Omnis
spiritus est ens simplex, MIN. Anima humana est spiritus: CONCL. Ergo anima
humana estens simplex. MIN. SVBSVMTA. Atqui ens simplex est indestructibile.
CONCL. Ergo anima humana est indestructibilis. Si prosyllogismus uiterius
procedat, aliae que minores subsumtae et conclusiones snb inugantnr, dicetur
polysyllogismus, hoc est plurium syllogismorum connexio legitime fa cta. Exemplum
habebis infra Part. II. Cap.3. Sect. 2. ubi demonstrationis specimen dabimus.
SORITES a Cicerone de Divin. Lib II. cap. 4. acervalis dictus, est plurium
propos sitionum cumulus ita connexarum, ut unius praedicatum sit alterius
subiectum, adeoque tot syllogismos continet, quot sunt propo sitiones, demptis
duabus, eodem fere modo, quo polygonum aa Geometris per diagonales in tot
triangula resolvi potest, quot sunt la tera demtis duobus. Haec autem argumenta
tio nisi cautiones quedam adhibeantur ad fallendum aptior est. Cautiones istae
funt. 1. Nulla praemissarum diibia sit, aut falsa: > 1 Cap. VII. De aliis
rał. modis. 123 coram. ex falso enim antecedente non potest verum consequens
oriri.2. Non insint in Sorite duae propositiones negantcs. Hoc enim casu in
eius resolutione aderit syllogismus ambas praemis sarum negantes habens, quem
vitio laborare supra observavimus (F. 87. can. 4. ). En Soritis exemplum.
Quodlibet corpus est ali quo loco: quod est in uno loco, potest etiam esse in
alio: quod potest esse in alio loco, potest rnutare locum: quod potest mutare
lo cum, est mobile: ergo quodlibet corpus est mobile. Eius vero analysis
rationem reddemus 92. Syllogismo, eiusque speciebus. e diametro opponitur
INDVCTIO, quse vere ac proprie dici potest argumentatio a posteriori, quippe
quae a singularibus ad particularia, alquc ab bis ad universa lia procedit.
Haec autem syllogismo prior est: nam quum ope experientiae praemis sas
conficiat, indeque conclusiones eliciat universales, hac vero syllogismi
praemissas constituant, utpote qui ab universalibus ad particularia, vel ab his
ad singularia gra dum facit: hunc sine illa construi non posse, quisque videt,
INDVCTIO itaque est argumentatio, in qua quiquid de singulis speciebus vel
individuis speciation praedicatur, generatim quoque de toto genere vel speeie
enunciatur; adeoque in ea tot minores adsunt, quot species vel in F 3 dividua
exprimuntnr. E. g. aurum, argentuan orichalcum, cuprum, stannum, plumbun,
ferrum, igni inieclun liquefiunt: ergo omne metallum igni ni ectum liquefit. Ad
inductio nem ergo duo requiruntur, 1. plena partium enumeratio, 2. ut quod
inferioribus tribuitur, ile superiori pariter enuncietur. Si ergo par tes omnes
enuncientur, inductio dicelur com pleta, sin aliquae tantum, incompleta erit:
si denique una dumtaxat fars proponatur, EXEMPLUM adpellabitur, quod tamen ad
oratores non ad Philosophos pertinet, quum sit contra 34. S. n. 6. ** Ex iis
enim, quae diximus Cap. 1., liquet, ideas universales abstractionis ope a singulari
bus erui. Eodem modo Par. 11. Cap. 4. Sect. I. ostendemus, indicia universalia
a sin gularibus abstrahendo confici. Id vero est, quod Inductionem constituit.
Quum autein praemissarum syllogismi saltem una debeat es se universalis, patet,
In ductionem syllogismo principia praestruere: adeoque illo priorem esse.
Schol. De hụius doctrinae usu tandem pauca delibare juvabit. Quae de universa
hac tractatione homini philosopho servanda sunt, qui sequuntur, exponunt. Cap.
VII. De aliis rat, modis.127 CANONES, QVandaquidem ratiocinando veritas + vi.
innotescit, principia prius con siderato num solida sint et indubia.
Propositiones deinde ad trutinam revo cato, ac denique eurum connexionem
adcurate perpendilo, ne in quolibet r'a riocinandi modo fallaris: “. Quum enim
syllogismus materia et forma con siet: illan vero propositiones, hanc propo
sitionum connexio, lioc est syllogismi "leges constituant; cuiuslibet
autem rei bonitas materiae soliditate ac formae aptitudine absolvatur: patet;
Philosophum de utraque sollicitum esse debere, ut ratioci. nia sua tulo
proferre possit. 2. Quoniam omnis argumentatio ad unum redit syllogismum, id
agito, ut huius leges nocturna diurnaque manu verses: alioquin loqui scies, non
ratio cinari. Exploratum namque est, quamcumque ar gumentationem syllogismuni
esse vel crypti cum ", vel compositum, vel multiplicem: nisi ergo
syllogismi probe gnaa rus, nulliusmodi argumenta poterit quisque proferre. Qua
de remiramur, viros alioquin F4 doctissimos, et de Philosophia optime atque
abunde meritos, syllogismo fuisse adeo in fensos, ut eum inutilem, immo nullins
bo ni effectorem esse clamitarint. Infra vero ab unde patebit, scientificam
methodum sola syllogismorum concatenatione absolvi: unde evidenter proseguisque
deducet, syllogismum homini philosopho esse omnino necessarium Videatur
Wolffius in Log. Germ. S. III. seq., ubi mathematicas demonstrationes absque
illo fieri non posse, experiundo ostendit 3. Si cum alio res tibi fuerit, omnia
eius argumenta in syllogismos resolvito: tunc enim clare perspicies, cunctane
re. cte procedant, an aliquis lateat error, an sub ambagibus fallacia
occultetur. Varii namque sunt fallcndi inodi a Scholasti cis magno labore
evoluti, qui tamen si ad sillogismum eiusque leges, tamquam ail ly, dium
lapidem, exigantur, oppido evanescent, Ut hoc exempli loco addamus, si soriten
duas propositiones negantes habentem in syl logismos resolvas: 'nonne statim patescet
do lus, quum tres negantes propositiones in ra tiocinio, adeoqoe contra quartam
eiusdem " legem peccatum esse, observabis. Praeclaro igitur hoc duce uti
nolle idem esset, ac in. ventis frugibus, glandibus vesci. Hucusque usque satis
satis.dede mentis mentis ope ope rationibus actum. Quum autem Logicae sit non
contentiones nequicquam fovere, sed hominum vitae consulere, atque intel lectum
in veritatis investigatione dirigere: doceamus, oportet, qua ratio ne tribus
hisce mentis operationibus in cognoscendo diiudicandoque vero recte uti
debeamus. Quod ut commodius effici pos sit, pauca quaedam de veritate generatim
spectata, eiusque genuina tessera, hic prae mittemus, VERITAS est, vel
METAPHYSICA, quum ens aliquod actu exsistens suam habet essentiam; vel ETHICA
quando quilibet sermo interno sensųi, F 5 130 Logica Pars. II. scilicet
conscientiae, respondet; ** vel denique LOGICA, si cogitationes nostrae
obiectis suis sint conformes. Quia vero hic cum Metaphysica atque Ethicą nihil
no bis est negotii, de veritate logica verba tantummodo faciemus. Metaphysice
ergo verum dicitur quidquid om nibus gaudet proprietatibus, quae ad con
stituendam eius essentiam sunt necessariae: adeoque huic falsum opponi nequit,
qoia es: sentia entis est necessaria et immutabilis ut in Metaphysica fusius
docebimus, ac proin de nequit ens exsistere, et sua simul essen. tia carere.
Ita aurum est verum aurum, qu pin omnia auri adsunt requisita. At non_da tur,
inquies, falsum aurum? Minime. Tunc enim non aurum, sed cuprum, orichalcum,
aliudve, aut e pluribus metallis revera mi xtum erit. Illud autem verum aurum
iudica. re, est nubem po lunone amplecti, atque a veritate Logica aberrare. **
Verę loqui dicimur, quum secundum cong scientiam loquimur, idest dicimus quae
trinsechs sentimus. Atque ḥaec veritas dicitur moralis sive ethica, cui
opponitur falsilo suium, quod est sermo contra concientiam prolatus, de in
Moralibus agemus. quo 93. VERITATIS LOGICAE vocabulo itelligimus convenientiam
cogitationum no strarum cum rebus ipsis, Quumquç no. De ver. eiusq. crit. 131
stra congitandi facultas tribus tantum mo dis sese exserat, vel in ideis
forinandis vel in iudiciis eruendis vel denique in rationibus conficiendis (S.
15. ): liquet, logicam veritatem vel in ideis, vel in iu diciis, vel in
ratiocinatione reperiri. * Hac definitione veritatem abstracto modo con
sideramus: concreto namque definiri posset per cogitationem obiecto suo
consentaneam. Porro veritasa Logicis dispescitur in FORMALEM, et OBIECTIVAM.
Illa est, cuius obiea ctum extra nos vel non existit vel non tale ut a mente
nostra concipitur: quales sunt veritates omnes purae geometricae; haec ve ro,
cuius obiectum extra nos realiter exsistit. Ham alii INTERNAM hanc EXTERNAM
adpellare consueverunt. Illa est clara, distin cta, et indeficiens, quippe qua
mens de se suisque operationibus iudicat, haec vero ob scura, dubia, et
fallibilis: non enim per eam, scire possumus, utrum cogitatioues nostrae
obiectis suis extra nos positis conveniant necne? adeoque quum veritatem
habemus in ternam, de reali extra nos obiecti exsistentia iudicare non possumus;
quum contra veritatis externae compotes certi simus obiectum in cogitatione
exsistens extra eamdem etiam rea liter existere. 96 IDEA VERA dicitur, si
quando nca bis rem, uti in seu est, repraesentemus: *verum est lyDICIVM,
siconiungenda co 2 F 6 132 pulemus, separanda seinngamus; 've rum itidem
RATIOCINIVŇ, si ' neque in materia, neque in forma peccaverit, * Idea ergo
singularis ($. 28. ) vera est, si quando eius obiectum extra nos realiter exsi
stat, eoque modo, quo nobis illud reprae sentamus: vera pariter dici debet idea
uni versalis, dum compositio vel abstractio a re rum natura non recedit, ita ut
characteres illam comitantes simul in uno inveniri pos sint. Vides hinc, ideas
deceptrices, chimae ricas, aliasque obiectis suis nullo modo re spondentes dici
non posse veras. Advertas - tamen, absolutam obiecti deficientiam, vel ideae ab
eo discrepantiam veritati nocere. Si namque obiectum non sit evidens, nec ideae
characteres eum eo conferre queamus; con tra vero sufficientibus indiciis de
eius verita te certi simus: notionem illam deceptricem vel terminum eam
exprimentem inanem ad pellare, est contra Logicae regulas, ac pri ma
cognitionis humanae principia tnrpissime peccare. In hunc errorem incidunt
quicum que de mysteriis Sanctae Religionis sermonem instituentes, aliquam
credentibus notam inu rere conantur, quod vocabula mente cassa proferant e id
quod alibi diffuse enodabimus. ** Nimirum si de re quapiam aliquid adfirme mus
vel negernus, quod adfirmari aut negari oporteret: veluti quum soli spendorem
iri, buimus vel tenebras ab removemus? tunc judícia nostra veritate gaudebunt,
f 2 2 eo 2 Cap. I. De ver. eiusq. crit. 133 *** Ratiocinationis, sive
syllogismi materiam es se tres illas propositiones, e quibus confla tur; formam
vero leges. (S. 87. ) expositas, supra docuimus (6- 84.** ). Si ergo pro
positiones fuerint verae: leges autem adcuras te servatae, ratiocinium non
poterit non es se verum: quia, quum qualis est caussa, ta lis esse debeat
effectus, non potest ex veris praemissis falsa legitime fluere conclusic. Ex
quo liquido colligi potest, eum, qui prae missas concessit, non posse negare
conclusio nem ex iis legitimo nexu fluentem. Cave tas men, ne ex conclusione,
licet evidenter ex praemissis deducta, de hárum veritate audeas áudicare:
potest enim conclusio vera legitime ex falsis ambabus oriri praemissis. Talis
es, set sequens syllogismus: Omnis virtus est fugienda: Avaritią est virtus;
Ergo avaritia est fugienda, Vides hic veram conclusionem legitime ex fal sis
praemissis deductam. Possesne conclusionis veritate praemissarum quoque
veritatem ar 97. Quoniam iudicium verbis expres sumi propositio dicitur (§. 60.
): evi dens est. propositionem dici veram, quae adfirmanda adfirmat negandaque
ne gat, servata ubique quantitate. * Sed quia non omnium cnunciationum veritas,
nec ab omnibus distincte perspicitur: criterium aliquod inveniatur, oportet, ad
quod guere? 134 Logica Pars. I1. tamquam ad lydium lapidem, propositio nem
quamcuinque exigentes, eius verita tem dignoscere queamus. ** • Veluti quum
particulariter enunciatur de su biecto quidquid extra illius naturam; vel uni
versaliter quidquid in eius essentia rationem habet sufficientem. Vid. supra
Part. I. Cap. 5. Sect. 1.. 68. ** Hoc autem criterium exsistere debet quo
propositiones veras a falsis, a phanta smatis, realitates ab insomniis
discernere pos simus: alias enim homo in perpetua illusia ne versaretur, id
quod est Divinae sapientiae, homini, ipsiqne humanae menti iniurium. Quia de te
Philosophi omnes in eo consenserunt, li cet in adsignanda illa tessera in
contrarias partes opinando ierint, res 98. CRITERIVM VERITATIS est ra tio
quaedam sufficiens, per quam intel. ligitur cur praedicatum subiecto tribua tur,
vel ab eo removeatur. * Nimirum ut cogitationum nostrarum cum obiectis suis
conformitatem perspicere possimus in 93. ), eiusmodi characteres in promtu
haberi de bent, quibus attributi cuin subiecto con venientia vel discrepantia
ita determinetur, nt mens adquiescat, nec ullus de earum veritate supersit
dubitanli locus. Qua propter characteres illi REQVISITA ad peritatein recte
dicuntur, *** Cap. I. De ver. eiusq. crit. 135 Variae de veritatis criteriis
omni aetate fuere Philosophorum opiniones, exceptis Academi cis, üsqne, qui
Scepticismum ad furorem usque provehere ausi, atque a Pyrrkone Pyr. rhonistarum
nomine insigniti, nihil a nobis vere sciri posse, temerario ausu adfirmarunt,
quorum insania comploranda potius esset, quam confutanda. PLATO yeri tesseram
es se statuit, evidentiam intelligibilem aeterna rum idearum mentibus
participatarum; EPI CURUS fidem sensuum. ARISTOTELES medium inter hos iter
tenens, utramque evi dentiam veri criterium posuit: illam nempe in
intelligibilibus; hanc in iis, quae sensi bus percipiuntur. STOICI, secundum
Laer, tium, veri indicinm aibeant comprehensibilcm phantasiam hoc est,
evidentiam &maginationum; CARTESIUS cum recentioribus, elaram, et distin
ctam perceptionem: in Medit. 4.; MALEBRANCHIUS cam evidentiam, quam inter na
animi coactio sequitur, ut ei adsensum denegare nequeamus. Lib.I.de inquir.
verit. LEIDNIȚIUS in triplici evia dentia, intellectus, sensus et auctoritatis
criterium illud posuit. Quae vero de his ob servari merentur, in ipsis
praelectionibus ex ponemus. In hac ergo propositione: Aer est gravis, qualitas
attributi, hoc est gravitas, per no tionem aeris determinatur: in hac enim
inest ratio sufficiens cur ipsi illam tribuatur. Quum enim aer corpora
inferiora premat; idque > 136 Logica Pars. U. ad costituendam gravitatis
notionem requira tur: clare patescit, aerem esse gravem, adeo que propositionem
esse veram. Et hoc est, quod Wolffius, criterium verae proposi, tionis ésse
determinabilitatem attributi per notionem subiecti. 7 *** E. In hac
propositione: Caius est invia dus, requisita ad veritatem sunt invidiae cha
racterés alibi enumerati, qni in Caio deprehenduntur, quique rationem con
tinent sufficientem, cur Caio to invidum es se tribuatur, Quum igitur veritatis
criterium in ratione sulficiente consistat, et a requisitorum collectione
constituatur sequitur 1. ut inter veritatis crite ria adnumerari debeant
quaecumqne iis de terminationibus praedita sunt, ut a mente, quamvis invita,
adsensum extorquere pos sint. At quia experientia quotidiana docet, mentem
nostram non convinci, nisi ' sen suun testimonio in rebus sensibilibus, * in
tellectus evidentia in intelligibilibus, auctoritatis deuique pondere in iis,
quae neque sensu, nec ratione percipi possunt: liquet 2. criteria illa pro
rerum di. versitate tria statuenda #Y *** esse, intellectus sensuum et
auctoritatis EVIDENTIAM. nempe, Cap.II. De ver. eiusq. crit. 137 * Per res
sensibiles intelligimus non modo cor poreas quae sensibus exsternis, sed et
ipsas animae actiones, quae sensu interno perci piuntur. Quum igitur:Naturae sa
pientissimus Auctor hominem conscientia, sen suque cum omnibns organis
instruxerit, ut: omnium cogitationum suarum obiecta distin gueret, eorumque
conscius esset: non ab re vera esse pronuntiamus, quae internus eter nique
sensus ita se habere testantur. ** Et quidem omnium axiomatum evidentia a primo
cognitionis humanae principio, nempe non posee idem simul esse et non esse, ori
ginem suam repetit; hoc vero principium in timo sensu cunctis innotescit.
Quaecumque porro propositiones a veritatibns evidentibus legitimo nexu
deducuntur eamdem evidentiam adquirunt, quam illae habebant, id quod ra tione
duce ac demonstratioris ope conficitur quibus intellectus convincitur,et mens
adquie scit: evidens ergo est, veritates tam demon strabiles, quam
indemonstrabiles ad Logicae reguias cxactas revera exsistere, ab homini bus
certo cognosci posse, earumque criterium in intellectus adquiescentia reponi
debere nempe ut Malebranchius ait, iu ea 'eviden ' tia, qnae internam producit
coactionem, at que a mente adsensum extorquet. Huiusmodi sunt propositiones
humanum ca ptum superantes, nobisque ideo imperviae, quae quum ab Ente
intelligentissimo tantum agnosci possint, revelatae tandem addiscun tur,
fidemque mereatur: quum entis illius perfectiones sint infinitae, nec de illarum
2 I veritate addubitari sinant. Eiusdem commatis sunt facta, sive propositiones
singulares, quae in locis temporibusve remotis extiterunt, qnae que nec.
sensibus, nec ratione a nobis una quam erui possunt, quidquid contra dicat D.
Rousseau Disc. sur l ' inegalité parmi les ho mm.; sed sensibus olim ab adstantibus
coaevis que percepta, ab his vero vel scriptis vel per manus tiadita ad. nos
pervenerunt: ct quia narrantium auctoritas suspecta non est, certitudinem, aut
saltem probabilitatem in mente producunt. Vides hinc, sententiam nostram in
intelli gibilibus rationem, in sensibilibus experien liam, in factis rebusve
humanum captum ex superantibus auctoritatem commend.ve; adec que eamdem asse
cuin Cartesiana, Malebran chiana, et Leibnitiana. Sed quia tessera haec
certitudinem potius, mentis scilicet nostrae statum, quam rei veritatem
respicit, de ea, quam producit, evidentia plura infra, ubi de veritate certa
sermo erit, haud spernen da dicemus. Interim confereudus Io.And. Osiander Diss.
de Crit. Verit. Tubingae 1748. FALSITAS veritati opposita est di screpantia
cogitationum nostrarum ab obiectis. Quumque oppositorum contrariae sint
adfectiones, patet, falsitatem vel in ideis, vel in judiciis, vel in ratiociniis
reperi ii; * adeoque FALSITATIS CRITERIVM esse manifestum rationis illius
sufficientis defectum. Cap. I. De ver. eiusq. Falsa ergo est idea, quum aliter
se habet a re repraesentata; falsum iudicium aiens., si quando subiecto non
conveniat attributum, negans vero quoties boc illi conveniat; adeo que falsa
propositio, quae neganda adfirmat, adfirmandaque negat, vel quae universaliter
enunciat quod particulariter enunciari debe. bat; falsum denique ratiocinium,
quod in materia vel forma peccat: i illa, quando propositiones sunt falsae; in
bac vero, quum syllogismi leges, violatae sunt. ** Propositionis falsae rera
tessera est, si non modo desit ratio sufficiens, cur praeuicatum subiecto
tribuatur, vel non; verum adsit rl tio, cur contrariuin enuncietur: tunc enim
subiecti notio determinal qualitatem attribu ti oppositi. Porro in
ratiociniorum forma fal sitas esse potest vel patens, vel latens. Si vitinn sit
manifestum, dicuntur PARALOGISMI; si vero crypsi aliqua tegatur, vo cantur
SOPHISMATA A Scholasticis am bo vocantur FALLACIAE. Paralogismus est sequens:
Omne homicidium est vitandum, nullum furtum est homicidium ergo nullum furtum
est vitandum. In co enim aperto peccalum est colra Can. 4.6. 87.: me dius enim
terminus his particulariter sumtus est. Sophisma contra crii, si sie
ratiocinabea ris: Populus ex terra crescit: mulliluilo ko. 140 Logica Pars. II.
minum est populus: ergo multitudo hominum ex terra crescit: quatuor namque
termini ir repsere per aequivocationem termini populus, qui in maiori arborem,
in minori hominum multitudinem siguificat. ** Plurima de fallaciis ad nauseam
usque a Scho laflicis tradita invenientur, qui tamen tot tan tisque
tractationibus nullum fecerunt operae pretium. Quia vero in huiusmodi
failaciis, fi ve dictionis, five (ut ipsi aiunt) extra di ctionem, vitium
plerumque latet in quarto termino cryptice tecto: Auditorum nostro rum mentes
non ultra fatigabimus: attamen, si sapient, syllogismi leges memoriae inscul
pent, et ad terminorum numerum semper animum adverlut. Quibens relligiose
servatis, aut nihil scimus, aut numquam, neque de cipi ratiocinando, nec alios
deçipere pote runt. Schol. De huius tandem docirinae usu opus cst, ut aliqua
addamus. Ea paucis iisquo baud spernendis comprehendemus regulis. Qui ergo
Philosophi nomen adse qui cupit, hos probe teneat. Cap. 1. De ver. eiusq. crit.
CANONE S. I Dea, quae characteres continet si * bi invicem repugnantes,
deceptrix est: imaginaria vero, qua ob similitudinem quampiam nobis fingimus
quod non est, ut quasi per imagniem oculis obiectum praesens sistamus. ** * Hae
igitur ideae proprie loquendo non falsae, sed potius impossibiles dici possunt,
quia nihil sumt: ut ' idea circuli quadrati, ligni ferrei, creaturae
infinitue', ec. ** Vocantur istae a Wolffio vicariae realium, quia earum vices
gerunt, ut si memoriam ti bi rapraesentes per receptaculum idearumi: licet enim
nulla adsit analogia inter spiritum el corpus, atque adeo inter eorum proprie
lates: ob similitudinem tamen, quod, sicut in receptaculo plura servamus, quae
inde, quum opus fuerit, depromiinus, ila memoria plures ideas, quae tamdiu
latuere nobis sug gerit, memória ipsam veluti receptaculum nobis sistinus 2. De
eo, cuius clare et distincte ra tionem perspicis sufficientem, tuto adfir mato:
negalo vero, quod eidem pari ratione refragari cognoscis. Si eam non adhuc
nosti: licet pro incerto haberi 142 Logica Pars. II. ſas sit, ne temere
iudicato, donec veri tatis eius, falsitatisve criterio polleas. Hoc quidem modo
vitari poterit audax illa in iudicando praecipitaptia, quae incautos maxime
adolescentes quamplurimis subjicit erroribus. Hi ramque sola suarum virium
praesumtione freti iudicia sua nec rationc ful ciunt, nec ad criterium aliquod
exigunt; quo fit, ut ea praecipitanter nimis prouentiare adsueti, ratione
tandem destituantur, et quid quid in buccam venerit effutiant. 5. Si diu in
veritate invenienda fru. stra taboraveris, examen reintegrato. Si ne id qutdem
profuerit, ne rem pro falsa, aut impossibili venditato, nitam ridiculus sis,
qui mentem tuam veri ful sigue mensurani esse existimes. * * Perutilem harc
cautionem inculcat Genu eusis noster, quae dici non potest, quanto sit omuibus
adiumento. Quum enim obscurilas plerumque sit relativa, eiusque caussa in - bo
mirum n.entibus, raro in re percepta, sit quaerenda (S. 20. ): nullum est
huiusmo di iudicium, quod non ex praecipitantia fluat. Qui enim ita se gerunt,
ni mia de in tellectus sui viribus praesamtione laborant, idque agunt, perinde
ac si supremum persprie caciae cognitionisge gradum obtineant, cui an tefcratur
remo, pauci pares putentnr. In hanc rigrilam offendunt quicumque mundi creatio
Cap. II De ign. et er. cor. caus. 143 nem iu tempore, aliasve doctrinas, quas
intellectu adsequi nequeunt, proimpossibi libus venditant, ut fusius in
Metaphysica docebimns. Id vero quam ridiculum sit, nemo non videt. De
ignorantia et errore, eorumque caussis. A Ctio mentis, qua verum (S. 94. )
agnoscit, resque sibi re praesentat ac percipit, COGNITIO adpellatur. Eius vero
absentia dicitur IGNORANTIA, quae definiri pot est per statum mentis cognitione
desti tulae. * Sic e g. qui disciplinae alicuius veritates ac praecepta novit,
eaque mente tenet, illius cognitione gaudet: contra vero, si ea cogni lione sit
'destitutus, disciplinam illam igno rare diciiur. 103. Experientia quisque sna
it aliena doceri potest, hominnm plerosque nihil aut minipium admodum in rebus
cogno scere; plurima quoque nesciri ab iis, qui acriori se praeditos ingenio
jactant: cos vero, qui doctissimorum virorum nomine gaudent, quo longius sua
sese exserit co gnitio, eo plurima se ignorare comperient. 144 Logic. Pars II.
* Ex innumerabili rerum, quae sciri possunt, puniero ingenii cuiuscumque vires
superante, domesticaque experientia fluxit mos ille lau dabilis ad utilium
rerum cognitionem ani mum adplicandi, neglectis iis, quae ad cu iusqne statum
minime pertinentes, inter su ferflua et inuțilia referuntur. Recte namque
observaverat Seneca necessaria a nobis igno rari, quia superflua discimus. Id
ipsum er go argumento est, homines, postquam ad sublimiorem, ut aiunt,
cognitionis apicem pervenerint, quamplurima adhuc habere, quorum nulla se
gaudere cognitione animad vertant, illoruinqe esse admodum ignaros. 104. Ex quo
patet 1. omnes homines in stalu verae ignorantiae versari, ac ne minem un quani
reperiri posse, qui omui moda rerum cognitione praeditum se tuto adfirmet:
quapropter oportere 2. ordine na in studiorum curriculo servari, ut primo
necessaria * deinde ütilia, postremo iu cunda discantur; adeoque 3. eruditorum
reprchensionem merito incurrere eos, qui neglecta hac methodo ad superfluarum
re rum siudiuin animum adplicant, param curantes ea, quae ad interni extervique
status suiperfectionem sunt necessaria. Necessaria dicuntur, quae Dei suique
cogni tionem spectant, item quae facultatem quam quisque profitetur, postremo
quae ad socie tatis commoda promovenda pertinent. Cap. II. De ign. et er. eor.
cans. 1.45 ** Suo itaque officio deesset Medicus, si ne glecta medendi arte,
eruditioni, hoc est quid quid extra Medicinae ambitum est, operam daret.
Ignorantiam quoque suam magis pro moreret Legisperitus, si pro legum codici bus,
medicos aliosve sibi inutiles libros evol veret. Alque utinam nostro hoc aevo
Lit teratores isti extra aleam aberrantes defide, rarentur ! 105. Ad
ignorantiae porro caussas de tegendas nobis lucem quam maximam ail fert
experientia. Ea enim duce scimus igno rantain oriri a 1. DEFECTV IDEARVM, non
solum in iis rebus, quae nostrum si perant captum, sed etiam in iis, quae iu
jus limites von excedunt, 2. MENTIS IMBECILLITATE, sive impotentia co gnoscendi
idearum nostrarum relationem, LABORIS IMPATIENTIA, qua fit, ut attentio
minuatur, ideaeque fiant deterio res, STVDIORVM CONFVSIONE, MEMORIA vel nimia,
vel labili, 6. denique SVBSIDIORVY INOPIA. (t ) Impotentia haec ab idearum
mediarum defe ctu pendet: quo fit, ut communi illa defi ciente mensura, nec
conferre inter se nolis nec propterea vertalem delegere quaemus. (ones T. 1. ** Confusio studiorum habetur, vel quia fine
attentione aut ordine fiunt, vel quia plurima eodem tempore cursimque discuntur:
ex quo pluribus intentus minor est ad singula sen sus. Hinc nimia illa
sciolorum turba, solis frontispiciis praefationibusque furfuroscrum, nostram
invasit aetatem, ** Nimia namque memoriae praestantia laboris impatientiam,
adeoque ignorantiam parit; illius vero infidelitas cognitionis defectum au get.
Ecqua enim cognitio ei, qui unam al teramve propositionein memoria retinere non
valet? (+ ) Subsidiorum nomine veniunt Magistri, si ve viventes illi sint, sive
mortni, scilicet li bri. Ex horum enim defecte lici non po test, quot sublimia
vilescant ingenia, quae vel mechanicis adeo artibus, aut otio et libidi ni se
addicunt. Elegantissimum est Alciati em blema, quo ingenia ista iuveni euidam
com parat, cuius sinistra manus duabus alis in Coclum tollitur, dextera vero
ingenti pon dere impedita deorsum fertur. Cujus em blematis dilucidationem
reddemus Dolendum autem magnopere est, quod si quando iuvenes isti litterario
furfure vix in crustati Rempublicam invadunt, societatis perturbatores,
bilingues, susurrones, ad pessima demum et turpissima quaeque, (si paucos
excipias ) parati evadunt. 106. Haec de ignorantia. Quando au tem propositicni
verre dissensim, falsae contra adsensum praebemus, tunc ERRA coram Cap. II De
ign. et ei. cor. caus. 147 RE dicimur, sive judicia confundere. Qua propter
ERROR definiri potest, quod sit confusio iudiciorun. Error autem in iu dicando
commissus PRAEIVDICIVM * adpellatur, quod esse dicimus iudicium erroneum
praecipitanter et sine maturi tale latum. Dicitur vero praeiudicium, vel quia
sanae mentis praevenit iudicium, vel quia praema ture et fine criterio
profertur. Talia sunt pleraque vulgi praeiudicia, veluti: discum solis
diametrum habere circiter bipalmarein: cometas esse bellorum caussas: et alia
eius modi. 107. Quum praejudicium sit iudicium erroneum; error vero confusio
iudiciorun: evidens est s. praeiudicia na sci ex idearum ob curitate et
confusione, adeoque 2. eorum originem ab intellectus corruptione unice esse
petendam. Equidem sunt plerique, qui praeiudiciorum originem a voluntaté
repetunt, eamque pri us emendandam esse aiunt; ii tamen io to aberrant coelo:
voluntariam namque praeiudiciis adhaesionem vel negligen liam animum ab iis
liberandi, pro praeiudia ciis venditant. Si vero rem probe per penderint
videbunt, ea, quae voluntatis vitia asserunt, ab intellectus vitiis vel imagin
natione pendere: et si qui méntem obun brant ad feclus, appetitus quippe
sensitiyi * * 7 G 2 148 Logica Pars. It. ** vehementiores molus, non aliunde,
quam ah ideis obscuris et confusis ortum trahunt. Qua de re legatur Syrbius in
Phil. rat p: 5. 108. Duo intérim sunt praeiudiciorum genera, AVCTORITATIS
scilicet, et NIMIAE CONFIDENTIAE. * Illa sunt, quae nostris viribus parum
confisi, nimi aque oscitantia laborantes ab aliorum, quorum apud nos plurimum
valet ancio ritas, scriptis vel sententiis kausta adopta mus, eaque pro sanctis
habenda puta mus; hec vero, quae nostris viribus niinium fidentes, quamquam
praecipitan ter et sine meditatione prolata., tainquam vera lamen adsumunus
illis firmiter achae remus, et proeiis, veluti pro aris et fo. cis, pugnamus. *
Addunt alii praeiudicia AETATIS. At quum illa non sint, nisi opiniones
praeconceptae a nutricibus parentibus, atque magistris a teneris, ut aiunt,
unguiculis haustae: ea ad auctoritatis praeiudicia referri, nemo non ri det.
Illustris VERULAMIUS de augm. scient V. 4. praeiudicia,, quae iilola vocat, in
quatuor dividit classes, quarum prima am plectitur idola tribus, scilicet quae
in ipsa hamana natura fundata sunt; altera idola specus, hoc est hypotheses a
nobis ipsis provenientes; tertia i: lola fori, idest prae concept as opiniones,
quae ab hominum com mercio mabant; quarta denique idola the *** Cap. II. de
ign. et er. eor. caus. 149 atri, videlicet erronea iudicia, quae ex Phi
losophorum sententiis bauriuntur. Quae 0 mnia ad duas, quas retulimus, classes
com mode referri possunt, ut coram ostende mus. * Auctoritatis praeiudicia sunt
ea, quae a nu tricibus, magistris (vivis illis mortuisve ), aut populo haurimus:
eiusmodi sunt opinio pes omnes aliquibus civitatibus, familiis, vel.: sectis
familiares, quarum cultores illis, tam quam glebae, adscripli, nulloque utentes
iu dicio, eas, tamquam oracula, pronuntiant seque inde dimoveri non patiuntur.
Curio sissima est Galilaei narratio in Systemate co smico, de viro quodam
nobili Peripatheticae philosophiae addicto, qui qunm Venetiis in domo cuiusdam
Medici sectionem anatomicam perfici vidisset, in qua maximam nervorum stirpem e
cerebro exeuntem, per cervicem transire, per spiralem distendi, ac postea per
totum corpus divaricari observasset, nec, nisi tenue filamentum, funiculi
instar, ad cor pertingere, a Medico rogatus, adhuc in Aristotelis sententia
manere vellet rumque originem a corde repelere? non sine magno adstantium risu
respondit: Equide:n ita aperte rem oculis subiecisti, ut nisi tex tus.
Aristotelicus aperto nervos corde deducens obstaret, in sententiam tuam per
tracturus me fueris. Quis, quaeso, haec au diens a risu ' temperaret? ***
Vocari quoque solent praeiudicia receptae hypotheseos, novitatis, similia: ut
sunt sy nervo e G 3 750 Logica Pars 11. MAE, stemata omnia ab eruditis inventa,
quibus tam acriter inhaerent, ut uullum sit rationis pondus, quo ab opinione
sua dimoveri pa tiantur. 109. De errorum caussis, restat, ut paulo ca addamus,
Eae vel REMOTAE sunt quae mentem ad errores ac praeiudicia praeparant et
disponunt; vel " PROXI., quae mentem ipsam ad iudicio rum confusionem
impellunt, erroresque producunt. Remotae rursus in generales dividuntur, et
speciales. Caussae generales sunt ATTENTIONIS DEFÈCTVS, qui ideas reddit
deteriores ADFECTVS, quos attentionem turbare, idearumque obscuritatem parere
supra ob. Servavimus, SCIENDI LIBRO ciun ralurali corporis inertia, COMPENDIA
et DICTIONARIA disciplinarum, in quibus nulla idearum analysis reperitur MALVS
vocabulorum VSVS, quo fit, ut auctorum sensus non intelligatur denique LIBERTAS
PHILOSOPHANDI. Praeiudiciorum cnim origo ab idearum ob scuritate repetenda est,
idearum vero obscuritatem pariunt attentionis defe clus et adfectus er his ergo
caussis praeiudicia nasci, quisque intelligit. Quainvis enim corporis inertia
laboris impa Cap. 11. De ign. et er. Cor. caus. ¥ tientiam creet, adeoque
ignorantiae tantum Caussa esse possit (* 105. ): cum sciendi tamen libidine
conjuncta errorum genitrix est: etenim sciendi pruritus efflcit, ut intellectus
tali cupiditate ductus intra ignorantiae fuae te niebras consistere nolit,
opportunisque prae • diis vacuus ea investiget, quibus par non est, ac proinde
in plurimos lahatur errores. ** Libertas enim philosophandi iuxto maior in
receptas hypotheses illidit; nimis autem con etricia in auctoritatis
praeiudicia nos urget, sel saltem crassam parit ignorantiam. 110. Speciatim
autem AVCTORITA TIS praeiudicia oriuntur harum trium abaliqua EDVCATIONE,
scilicet, CONVERSATIONE [conversazione], et CONSVETVDINE; ut et praeiudicia
NIMIAE CONFIDENTIAE aa nimia INGENII FIDUCIA. Et ut de educatione quaedam
singularia attingamus, id sedulo notandum: praeiu dicia, quae ab ca procedunt,
tribus cha racteribus optime distingui, temporis BREVITATE, 2. loci RESTRICTIONE,
cognitionis DEFECTV. Qui quidem characteres si desint, propositio non in ter
praeiudicia, sed inter veritates com muni hominum consensione probat as est
referenda. Quot mala hominibus adferat educatio, vix dici potet. Parentes enim
tantum abest, ut puerorum intellectum perficere eorumquemor is mederi curent,
ut potius eorum aninum maximis praeiudiciis, anilibus fabeliis, erro neisque
opinionibus imbuant. De magistrorum educatione nihil dicemus, ab iis enim quam
multa hauriuntur praeiudicia, quum iuvenes in magistrorum verba iurantes
quaeuis eo run effata sancta esse putent, ac de illis veluti de Religione,
dimicent ! Conversatio cuin libris et eruditis, consuetudo cum po pulo quot
foveant errores, quum res sit me ridiana luce clarior, in ea explicanda nihil
immorabimur Legatur interim Tullius Tuscul quaest. Lib. III. cap. 1. Qui nimium
suo indulget ingenio, fieri non potest, quin in errores incidat, el pacdın
tismum vel contradictionis spirituin induat, quae duo vitia aliorum aversionem
odiuinque conciliant. Praeterquam quod novitatis studi um quanta hominibus mala
produxerit, ii sciunt, qui Ecclesiae vel litterarum vices er annalibus
didicerunt. *** Nimirum educationis praeiudicia tantisper in animo sedent,
donec ad maturitatem ra tionisque perfectionem sit perventum; nou sunt ubique
earlem, sed quamvis in cuius cumque Regionis gentibus praeiudicia sedeant,
diversa tamen pro educationis morumque di versitate inveniuntur; rudium tandem
von eti am sapientum mentes occupant ita, ut dum illi inter praeconceptas
opiniones erroresque iacent, hi eorum insipientiam ac ignorantiam destruere
nullo modo valentes vel rideant, vel de ea conquerantur. Cap. II, De ign. ei er.
eor. caus. 253 mus Omnes illae, quas recensuimus caussae praeiudiciorum remotae
sunt; pro Xima namque est PRAECIPITANTIA. Quae quum ita sint, optimum, idqne
uni cum, ad praeiudicia vitanda remedium est iudicium suspendere, seu DUBITARE:
est: enim DUBITATIO « prudens iudicii su spensio. Tanc autem iudicium suspendi
quum propositionein aliquam nec adfirmamus neque negamus. * Cave la nen credas,
ad praeiudicia vitandą conferre Scepticismum, vel Pyrrhonismum insanam nempe
illum de onnibus dubitandi miorem, quo hodiernos incredulitatis fauto. res uii,
non sine dolore videmus. Stolidi tas enim, nedum temeritas infanda foret sine
sufficienti ratione dubitare. Sobriam quip pe ac prudentem commendamus
dubitationem eo fine institutam, ut suspendatur iu licium, donec mens ad ideas
distinctas clarasve per veniat. ** Totum hoc de rebus intra rationis fines ex
sistentibus, nullaque evidentia suffultis est intelligendum. Etenim quae Divina
auctorita te nituntur, aut mathematica gaudent eviden tia de illis dubitare,
impium; de his ve ro, foret adprime stullum. Schol. Espositis mentis humanae
imbe. cillitate et vitiis, reliquum est jis praebeanius medelam. Quamvis
Feromul, 7 ut aptam ti philosophicarum rerum Magistri, inter quos Nicolaus
Malebranchius, et Antonius Genuensis, quamplurima ad id remedia. proposuerint,
quibus vel minimum quidem addere, non opis est nostrae; licebit ta men, ad
Auditorum nostrorum instructio nem, si plura n quimus, eadem saltem ab ipsis
tradita paucis repetere. Quisquis ergo ignorantiam errorenive yitare cupis, hos
menti infigito CANONES. MEREntem sedulo studio attentio ne, meditatione ab
obscuritate et confusione liberato. * In hoc enim in. tellectus perfectio sita
est, a qua exsu lant ignorantia et praeiudicia. * Ut id consequantur
adolescentes, prae ocnlis habeant quae in prima harum Institutionum parte
observavimus, ea praecipue, quae de ideis cap. 1. Schol. adnotavimus. 2. Ad
studia praeiudiciis liber ac do cilis, uti modo in lucem editis infans,
accedito. Magistrum eligito optimum ab eoque necessaria atque utilia disci io,
nihil verens ab eius, qui te ad sa pientiam manuducit, prius ore pendere: Cap.
II. De ign, et er. eor. caus. 155 ut praecepta demum, quum te ignoran tia
deseruerit ad examen revocare possis. * In Magistrorum electione magna cautio
adhi benda est: abea namque pendet cognitionum nostraram soliditas et
rectitudo. Ad eorum dotes praecipue attendendum, de quibus ideo pauca inferius
delibabimus. 3. Methodum ubique atque ordinem cordi habeto. In studiis
eapraecedant per quae sequentia intelliguntur. Ex hujus canonis neglectu oritur
studiorum confusio, quam ignorantiae caus sam haud postremam esse, experientia
sensusque com munis evidenter ostendit Auctoritati nec nihil, nec multum
deferto. Nimia namque aliis adhaesio servum pecus; sensus vero communi ne
glectus audacem efficit, omniaque sibi permittentem. 5. De iis, quae vel Divina
auctori tate, vel maxima evidentia destituta sunt, prudenter dubitato, donec
certus fias. Rectam rationem prius, sensum dein de optimorum communem consulito.
Quae captum vero tuum superant ne perqui rito, nisi prius opportunis mediis
probę fueris instructus. * G6 156 Logica Pars. II. * Si vero captum humanum
superent, ca non investigare omnino, recta ratio docet. 6. Laboris patiens,
memoriae ac per spicaciae tuae ne nimis fidens esto. Me mento Poetae illud:
ABSQUE LABO RE.NEMO MUSARUM SCANDIT AD ARCEM. Vides hinc, quam immerito a
nostrae aetatis adolescentibus voluptati ac vanitati deditis laboremque
horrentibus cognitio studiorum que felix exitus expectetur. Compendia et
dictionaria, quippe quae nihil solidi profundique continent, ne multum amato.
Paucos habeto libros, eosque lectissimos. * Cum lectione me ditationem semper
coniungito Non nostrum est praeceptum,
sed Senecae, qui ut facilem Lucilio suo viam ad virtutem aperiret, librorum
paucitatem diserte com mendat his verbis: Cum legere non possis quantum
habueris, sat est habere quantum legas. Ep. 2. Vide quae diximns Part. I. 8.
Poetas caute legito, ne inanibus fabellis animunı imbuas. Populum, utpo te
pessimi argumentum, ut anguem fu gito. Senecam audito dicentem: SANA TIMUR,
SIMODO SEPAREMUR A ÇOETU, cap. 1. Schol. Cap. II. De ign. et er. cor. caus. 157
Ad poetas quod attinet, eorum lectionem adolescentibus vel omnino interdicendan,
vel arctissimis includiendam cancellis cuperernus, quippe qui vivida phanthasia
pollentes ima ginationi retinere potius, quam laxare debent habenas: id quod ia
legendis Poetis contra evenit. Populi porro damna paucis expressit idem Seneca,
quum ait: Inimica est mullorum convcrsatu. Ep. 7. De Veritate ceria, melliisque
ad cam perveniendi. $ 12. sis ad veritatis investigationem gradum faciamus.
VERITAS vel CERTA est, si in ea adsint omnia veritatis requisita, ut nulla
nobis de illa re maneat suspicio aut dubium, vel PROBABILIS, si propius ad
certitudinem acce dat, nempe quum non omnia insunt re quisita. De illa nunc, de
hac subsequen ti Capite agemus. CERTITUDO est mentis status veritati adensum
ita praebentis ut nulla de opposito adsit sollicitudo Ex consequitur i, ut si
quam minima adsit suspicio non certitudo, sed INCERTITUDO vocetur. Et quia non
idem est om. nibus mentis status, sequitur 2. eamdem evunciationem uni certam
esse posse, al teri incertam. Tandem quoniam quisque mentis suae statum
agnoscit, consequens est 3. ut nemo aliorum certitudinis sed suae tantum iudex
esse possit. * Quia omne, quod verum est, vel absolute et in se tale est vel in
relatione ad mentem, quae non semper terminorum nexum distincte percipit: ideo
Philosophi certitudinem divide bant in OBIECTIVAM et FORMALEM, il lamque esse,
aiebant, nexum propositionis in trinsecum, hanc mentis nostrae statum respi
cere. Nos illam proprie VERITATEM, hanc CERTITUDINEM adpellamus. E. 8. Axioma;
Totum est maius sua parte, si absolute et in se spectetur, VERUM dicitur, si
vero ad men tem referatur, CERTUM est, quia talia ad sunt indicia, ut ipsi
absque ulla oppositi formi dine adsensuin praestemus. Quoniam indicia ad
certitudinem ducentia trium generum esse possunt, sci licet vel absolute
infallibilia vel dalis tantum permanentibus caussis naturalibus, vel denique
sccundum huinanae prudentiae leges: evidens est 4. triplicem etiam esse
certitudinem, METAPHYSICAM nempe yel MATIEMATICAM, quae illis; PHY. Cap. 111.
De veritate certa etc. 159 SICAM, quae istis; MORALEM tandem, quae his fulcitur
indiciis, quaeque alio no mine FIDES HUMANA adpellatur. * Primi generis sunt
axiomata, aliaeque pro positiones nullis obnoxiae vicibus;alterius haec
propositio: corpus non suffultum cadt: pos fremi vero haec: Augustus fuit
primus Ro manorum Imperator. 115. Experientia abunde constat, men tem nostram
non statim, nec semper, quod verum est, certo cognoscere- Via ergo quaedam ipsi
monstranda est, qua tuto ad certitudinem perveniat: eaque, pro certitudinis
varietate, diversa est; spe ciatim vero triplex, EXPERIENTIA sci licet, RATIO
seu DEMONSTRATIO, et AUCTORITAS, de quibus singillatim, et quantum res ipsa furet,
breviter agemus. Uidquid a nobis sciri potest, vel singulare est vel universale
(S. 26. seqq. ); itemque vel effectus, vel caussa. Singulares porro ideas sensibus
ad quirimus; universales' vero in 160 Logica Pars II. tellectus abtractione
conficimus. Rursus quaelibet caussa effecluin salte in natura, praecedit, ut in
Metaphysica do. cebimus. Duae igitur cognoscendi viae no bis aperiuntur, altera,
quae a singulari bus ad universalia; itemque ab effectibus ad caussas ascendit,
nemp: a sensibus, si ve experientia incipit; ideoqne dicitur co gnitio a
posteriori: altera, quae ab uni versalibus ad particularia, a caussis ad ef
fectus rationis ope descendit descendit,, ac proinde vócatur cogniíio a priori.
De illa nunc; de hac sequenti sectione agemus. Omue itaque, quod experientiae
ope scimus, dicitur COGNITIO A POSTERIORI. Est autem EXPERIENTIA cognitio adqui
sita ex attentione ad obiecta sensibus obvia, Sic per experieutiam novi'nus
aquam made. facere, ignem col fucere, ceram igni admo tam liquefieri, ct id
genus alia. 117. Quum experientia sit in rebus sen sibus obviis; sensibus auien
percipianlur les exisientes sive indiviadua: patet 1. a uobis res tan tum
singulars experimento addisci, * extra eas nsilium alind esse experientiae
obiectum, adeoque 3. eam in abstractiş 2 2. Cap. Ill. de Veritate certa ctc.
161 sensus et universalibus locum non habere, licet haec ab ipsa deriventur. Igi
tur 4. qui demonstrationem aliqu am posteriori conficere vult, is casum singu
larein, allegare debet, dummodo experien tia non sit cuivis obvia; 5. denique,
ex perientia non datur in iis, quorum n ullam habenius ideam. * Quoniam vero
est vel internus, vel externus experientia quoque est vel INTERNA, vel EXTERNA.
Illa habetur qnum nobis ipsis attendentes aliquid in anima nostra contingere
percipimus: e. g quoties nobis malum aliquod repraesentamus; toties taedio nos
adfici animadvertimus; haec ve ro, si res in organis nostris mutationem pro
ducentes percipimus: ut si manu igui admota, calorem igui inesse observemus.
"Experientia rursus dividitur in VVLGAREM, quae mnibus aeque patet, ut
calor ignis, et ERVDITAM, quae speciali studio, atque adhi bitis necessariis
mediis cooficitur, arleoque so lis innotescit eruditis, ut ' aeris gravitas,
elasticitas ctc. 118. Habitus, sive promtitudo aliorum vel propria esperimenta
colline andi, et ex iis conlusiones elicianendi, dicitur ARS EXPERIVNDI. Quae
quidem ab experientia tam longe distat, quantum ba bitus dfert ab actu. * Non
ergo sufficit unam alteramye experientiam peragere, aut aliquot instrumenta s
ertractan. 162 Logica Pars II. di peritiam habere, ut experiundi arte prae
ditus quis dici possit, sed opus est habitn longa exercitatione adquisito, non
solum res experimento subiiciendi, sed propria aliorum que experimenta ad
critices regulas exigendi, atque ex iis conclusiones scientificas, sive corolla
ria legitimo rationis usu deducendi 119. Quoniam experientia sensibus ni titur;
ad sensionem autem duo requiruntur, scilicet mutatio in or ganis sensoriis ab
externis obiectis produ cta, et repraesentatio in anima huic obie cto conformis
(ut in Psychologia ostende mus ): consequens est 6. ut sensus, po sitis ad
sentiendam requisitis quam fallant; * proindeque 7. nos non & sensibus, sed
a iudicio, quod ani ma praccipitanter fert super experientia, persaepe falli.
Rinc. 8. cautiones quaedam ad errorem hunc vitandum adhibendae > num sunt. et
Requisita ad sentiendum tria sunt, orga norum sensoriorum sanitas 2. attentio,
3. justa obiecti distantia. Quotiescumque ve ro de visu agitur, et quartum
requisitum adesse debet, nempe èiusdem mcdii in ter obiectum et organum
interpositio. Quum enim in visione radii lucis in corporum superficiem
incidentes reflectantur, et in acre prius, deinde in oculi humoribus ac lente
cristalli ua refracti ad retinam usque pertingaat, u Cap. 111. De Veritatė
certa etc. 163 hi motum in nervo optico, quod sensationis caput est, producunt:
si partim in aere partim in aqua aliove densiori medio obie clum ponatur, non
eadem erit lucis refra ctio, adeoque non idem locus obiecti parti ' bus
adsignabitur: unde fit, ut illud fractum vel recurvum adpareat. Si ergo
neglecto hoc requisito adparentiam illam pro realitate sumamus, non sensuum,
sed judicii defectú id provenire, fatendum est. Cautiones, quas inculcamus sunt
1. ut sior gana sensoria paullo debiliora fuerint, debi tis armentur
instrumentis, 2. ut obiecta in iusta ab organis distantia posita attente ob
serventur 3. ad tot sensus, ad quot redi gi possunt, redigantur. Si cautiones
istae adhibeantur nullus in percipiendis rebus sensibilibus irrepere poterit
error: si vero quae dicta sunt probe attendantur, non in surgent amplius
difficultates, nec erunt qui vetustissimam cipionis in aqua fracti, turris que
emimus rotundae adparentis cantilenam ad nauseam usque repetentes, sensuum fal
laciam ulterius inculcare velint. 120. Quia vero per experientiam sin gularia
tantum cognoscimus sequitur ut VITIVM SVBREPTIONIS incurrant ii, qui ea, quae
minime ex perti sunt, vel quae imaginationi aut ra tiociniis experientia
deductis debentur, pro experientia obtrudunt. * Tales sunt, qui pliaenomeni
alicuius caussam raperientia constare adserdut. Veluti si quis 164 Logica Pars
II. ferrum a magnete altrahi videns, experien. tia compertum esse diçat, ex
magnete efflu - via exire ferrurn attrahendi vim habentia, vitium subreptionis
incurret. Quum ergo res singulares tantum modo experiamur; earum ve ro
repraesentatio dicatur idea singularis: recte infertur 10. notiones expe
rientiae ope immediate formatas esse ideas singulares, ut et 11. singularia
iudicia ipsis innixa. * Quumque his nova deducta iudicia non nisi
ratiocinationis ope eruan tur: evidens est 12. haec nova iu dicia di ci non
posse singularia, sed DIANOETICA sive ratiocinantia.Vocantur huiusmodi iudicia
INTVITIVA, quia in his, quae in rei cuiusdain notione comprehensa intuemur,
eidem tribuimus: ut ignis est rulidus: aqua madefacit. Scholastici ea vocabant
discursiva: ratioci nium namque ab iis dicebatur discursus. E. g. ignis est
cctivus: vapor est elasticus. Quandoquidem indicia intuitiva conficiuntur
tribuendo rei quidquid in ipsi us potione comprehenditur: sequilur. 13. ut ea
conficianlur accipiendo rem perceptam pro subiecto, eique tribuen I 22. Cap.
III De Veritate certa ete. 165 do quidquid attente consideranti in ipsa
occurrit, vel ab ca removendo quod in aliis, non etiam in illa observatur. *
remove * In primo casu habebis iudicium aiens, in secundo negans. E. g. Ignem
percipis eique calorein inesse observas. Sume ergo ignem. pro subiecto, calorem
pro attributo, et ha bebis iudicium aiens: ignis est calidus. Contra quia alias
observasti aquam madefa cere, id vero in igne non intueris: ab igne hoc
attributum, eritque indiciun negans: ignis non adefacit. 123. Quemadmodun autem
enunciatio. nes particulares in universales comunitari possunt: ita, quamvis
notiones et iudicia ab experientia deducta sint singularia, commode tamen in u
niversalia transmulari possunt, si regulae sequenies exacte servcolur. 12.
Quoniain individua'sunt omnimo de determinata ($. 18., et variis circum stantiis
involuta: 14. at tente separari a re percepta debent acci dentia sive modi ab
attributis essentialibus, quibus tantumu modo est attendendun: 15. allributa
haec essentialia onipibus speciebus vel individuis 166 Logica Pars II.
convenientia abstractionis ope retinenda, atque inde notae characteristicae
depro mendae sunt, quae ad rem illam ab a liis discernendam sulliciant. Hi
quidem ermut characteres definitionis a posteriori ex in dividuis casibus
eruendae. 125. Vt antem operatio recte procedat, oportet 16. tot facere iudicia
intuitiua quot res ipsa percepta suppeditat, 17. ac cidentia omittere, 18.
attributa, quae non seinper eadem sunt, determinationis bus particularibus
liberare, ac tandem 19. plura ea in re adducere exempla magna pe sollertia
attendere in quibus perpcluo conveniant, aut inter se discrc pent. * E. g. Vt
scias quid sit commiseratio, ob serva casum aliquem, in quo videas te, aut
alium alterius commiseratione percelli. Ad duc et aliam huius modi speciem, aut
plu res etiam, si id res exigat, videtoque cir cumstantias, quae sunt perpetuo
similes. Hoc modo in notescet tibi commiserationis idea universalis, cuius
notae definitionem suppe ditabunt realem, commiserationem nempe es. se tacdinm
ob alterius infelicitateir. Conf Wolfi. Log. Lat. §. 492. 126. Nunc quo modo
iudicia universa lia a posteriori coulcianlur, observemus. Cap. III. De
Veritate certa etc. 167 Quia ab experientia oriuntur iudicia intuitiva:
videatur primum, num praedicatum sit attributum rei perceptae essentiale: quo
casu enunciatio erit uni versalis ($. 68* ). Deinde experientiam multoties
repetendo dispiciatur, utjum at tributum illud rei perceptae perpetuo et
costanter insit. Quod si non semper illud inveniatur, investiganda est ratio,
cur in ea aliquando deprehendatur, eamque biecto addendo, indiciuin enascetur
uni versale (5. 69. ): * Ita e. g. esperientia novimus, igni semper calorem
inesse, ceram autem non seinper es se liquidam. Iudicium ergo ignein esse cali
dum erit universale: at non universaliter ius ferre poterimus ceram esse
liquidam;sed opor tet invenire rationem cera aliquando liguescat, quae quun sit
in igne, cui tunc admovetur, hac subiecto addita, universalis orietur
ennnciatio: cera igni admota li quescit. cur > 1 127. Philosophus interim in
rerum ca ussis et rationibus investigandis studiose versatus regulas quasdam
sequa tur oportet, ut veriiates ex experientia de ducere queat. llae regulae
sunt: 1. Si in obiecto aliquo mutatio observetur, qun ties obiecto alteri
iungitur, idquc con 168 Logica Pars I. stanter: tunc hoc esse illius caussano 3
tuto concludi potest. * 2. Si duo vel plura, licet perpetuo, coexsistere wel se
mutuo sequi observeniur, sta tim inferre licet, unum esse alterius ca ussam,
nisi prius recta rario sic esse convicerit. non * Id clare patet exemplo cerae
liquentis igni, aut solis radiis admotae. ** Si ergo bellum simul cum cometa
existat, vel eumdem sequatur: praecipitantia erit iu dicare, hunc esse caussam
illius. 21. 128 Ex quibus omn: bus clare deducitur 20 propositiones ex
experientia legitime uistitala confectas esse certo veras; quouicumque sensioni
omnibus requisitis in stuctae convenit, pro certo haberi, adeo. que 22. et
definitiones experientiae adiu mento legitime efformatas, et 23. axio mata vel
postulata ex his de ducta itidem certitudine pollere. Rationem definivimus per facile tum distincte
perspiciendi. Il la ergo utimur si qnando enunciationem, de cuius veritate
iudicium ferre volumus, ita cuin aliis connectimus, ut inde ter minorum nexus
ctare perspiciatur: id ve. ro est, quod dicimus COGNITIONEM A PRIORI. Connexio
isthaec vocatur DEMONSTRATIO, cuius est veritates ex certis principiis per
legitimam ratioci nandi seriem eriiere (š. cod. ). SERI ES porro RATIOCINÀNDI
habetur, si ex pluribus syllogismis invicem connexis conclusio prioris sit
praemissa sequentis ut inox adparebit: qni quidem SYLLOGIS MI CONCATENATI
dicuntur. 130. Ex quibus nullo negotio sequitue 1. in omni demonstratione duo
requiri, nempe principia demonstrandi certa it in: dubia, eorumqne cum
conclusione coone xionem. Et quia experientiae rite institu definitiones,
axiomata et postulata T. 1. tae, 2 > H 170 Logic. Pars II. certitudine
gaudent (s. 128. ): infertur 2. ea ad eiusmodi principia esse referen da,
proindeque 3. illum adserta sua nou demonstrare, qui ea ex incertis dubiisque
principiis deducit. 131. Quia vero duplex cognitio datur, a priori scilicet,
sive per rationem; et a posteriori, seu per expe rientiam: sequitur hiec 4.
duplicem quoque dari demonstrationem, earoque vel A PRIORI confici vel A PO.
STERIORI: illam haberi, quando veri tatem aliquam a principiis legitime
connexis deducimus, vel effectum per suas caussas probamus; si quando eam ex experientia
reete institu ta, vel caussam per suos effectus demon stramus. ** Quum ergo a
priori demonstrare volumus, principia statuamus necesse est, antequam ad
syllogismorum concatenationem deveniamus. Id darius fiet exemplo. Ponamus hanc
proposi tionem: Deus caret adfectibus. Eam a prio. ri sic demonstrabimus.
DEFINITIONES. 1. Deus estens perfectissimun. 2. Intellectus perfectissimus est,
qui omnia * hanc vero, sibi distinctissime repraesentat, 3. Appetitus
sensitivus est. qui oritur ex idea boni confusa. 4. A'fectus sunt motus
vehementiores appe 1. tu sensitivi. Cap. II!. De Veritate certa etc. 1. ): sed
era mo AXIOMATA. 1. Ens perfectissimum gaudet in tellectu perfectissimo. 2.
Distinctissima omnium repraesentatio ex cludit quamcumque idearum confusionem.
THEOREMA. Deus caret adfectibus. DEMONSTRATIO. 1. Ens perfectissimum in
tellectu gaudet perfectissimo (ax. Deus cst ens perfectissimum (def. 1. ); go
Deus gaudet intellectu perfectissimo. 2. Quicumque intellectu gaudet
perfectissi omnia sibi distinctissime repraesentat. Deus vero gaudet intellectu
perfectissimo (num. 1. ): onania ergo sibi distinctissime repraesentat. 3. Qui
omnia sihi distictissime rapraesentat, ideis caret confusis (ax. 2. ): at Deus
om niasibi distinctissime repraesentat. (num. 2 ): ergo Deus caret ideis
confusis. 4. Ab ideis boni confusis oritur appeti !us ser sitivus (def.?. ):
quuin ergo Deuts careat idcis confusis (num.' 3. ); liquet, eum care re quoque
appetitus sensitivi. 5. Qui appetău caret sensitivo, is caret adfe clibus (def.
4. ): atqui Deus carct appetitie sensitivo (num. 4. ): ergo Deus caret adfe
ctibus. Vides hic syllogismorum connexione a principiis ceriis deducta
confectam esse demonstratio nem. ** A posteriori demonstratur animae in nobis
exsistentia hoc modo. EXPER. Si nobis ipsis attendamus, obserica biinus,
aliquid in nobis esse, cuius ope nosa H 2 172 Logic. Pars. II. metipsos ab
aliis rebus extra nos positis, inter eas vero alias ab aliis distinguiinus, boc
est nostri rerumque extra nos positarum conscii sumus. DEFINITIO. Id. ipsum,
quod nobis sui rerumque extra se positarum est conscium, dicitur anima.
TIIEOREMA. Exsistit in nobis anima. DEMONSTRATIO. Experientia enim constat,
aliquid in nobis esse nostri rerumque extra nos positarum conscium: id ipsiin
autem est quod dicitur anima (per defin. ): e: c sistit ergo in nobis anima. Demonstratio
iterum est, vel D. RECTA sive Ostensiva * vel INDIRE DIRECTA seu apogogica. **.
Illa est qua ex notione subiecti colligitur eius nexus cum attributo; haec
autem in qua oppositum tamquam verum assumen tes, conclusionem falsam inde
deduci mus, ut propositionis nostrae veritas elucescat. Directa ergo erit
demonstratio, si ordinem sequatur hactenus explicatum ($. 131., si ve a priori
sil, sive a posteriori: ut videre est in superadductis exemplis ($: 131 "
); ** Indirecta demonstratio vocari quoque solet redactio ad impossibile vel
ard absurdum, quia oppositam propositionem ut veram alla sumens, ex ea absurdum
aliquod, sive cou clusionem impossibilem, eruit. Talis crit de monstralio
scyueas. THEOREMA. Nibil est sine ratione sufficiente. DEMOSTRATIO. Ponamus
aliquid esse sine ratione sufficiente. Ratio ergo, cur id sit aut fiat, erit in
nihilo: adeoque nihilum ex sistet simul, et non exsistet. Essistet, quia aliter
non posset esse caussa alterius: non exsistet, quia aliter non esset nihilum.
Quod quum contradictionem involvat, sitque ideo impossibile: ergo nihil est
sine ratione suffi ciente. 133. Ex hactenus dictis patet 1. quam cumque
propositionem legitime demonstra tam esse certo veram idest certitudine gaudere
metaphysica, proindeqne 2. de inonstrationem csse viam ad certitudinem
perveniendi praestantissimam. Quumque ex perientiae et demonstraționis
excellentiam ostenderimus: ' recie concludi mous 3. veritatem certain dici.
dubia ' sensione, vel evidenti principio ni titur, dummodo in demonstrando
CIRCU LUS non irrepscrit. In hoc vitiuni incurrunt ii, qui propositio nem
probantem demonstrant per propositio nem probandam: quia in tali casu idem per
idem demonstratur. Huic adfiuis est illa, quae a Scholasticis adpellari solet
PETITIO PRINCIPII, nempe quum principium de monstrandi vel nullum est, vel
nulla certi tudine aut ' evidentia gaudet. Huiusmodi sunt pleraeque
enunciationes Epicuraeorum, Pla quae in H 3 174 Logic. Pars Ir. quis tonicorum,
Stoicorum, aliorumque, de bus in Metaphysica erit disserendi locus. 134.
Quoniam autem in detegendis per demonstrationem veritatibus ordo, sive methodus
requiritur: ne longius hic pro grediamur, de ea sequenti capite, prout res
exegerit, breviter enodateque tracta bimus. R Elite ut de AVCTORI TATE pauca
dieamns. Ea non scientiam, ut experientia et rutio; sed FIDEM parit. Est autem
FIDES: ad sensus propositioni datus, alterius te stimonio itinixus. Ex quo
patet, rationem fidei sufficientem esse narrantis auctorita tem. Quumque
auctoritas vel Divina sit, vel humana: fides quoque in DIVINAM et HVMANAM recte
dispertitur. 136. Ex qnibus liquido infertur 1. fidei fundamentum in eo
consistere, ut narrans taliasit, qui nec falli nec tallere possit; ac proinde
2. eo firmiorem esse fidem quo certiores sumus de scientia et veraci tate
narrantis. Et quia Deus est omniscius Gap. VI. De Veritate certa 175 et
infinite verax, quippe in quem nulla cadere potest ' imperfectio (per princip;
Theo. nat. ): evidens est 3. fidem Dic vinam parere certitudinem omni
exceptione maiorem; pariterque 4. Dei loquentis au ctoritatem esse fundamentum
veritatis com pletum, omnibusque numeris absolutum; adeoqu 5. debere nos Deo
loquenti ad quiescere, nec umqnam Dei testimonio demonstrationem ullam opponere,
utpote vel falsam prorsus, vel indigestam. * Non potest enim certitudo
certitudini adver: sari, quia si id esset, tunc contrariarum propositionum
utraqua vera esset, adeoque idem simul esset et non esset: quod quum repugnet,
non potest ergo fidei Divinae demonstratio ulla obiici. Quumque Dei verbum sit
fundamentum veritatis com pletum (num. 4. f. huius. ): patet, quam cumque
demonstrationem ei adversantem esse falsam. Quandoquidem autem auctoritas humana
fidem parit bumanam, et certitudinem moralem: de ea pauca adhuc addenda
supersunt. Et primo quidem, quum fundamentum fidei sit opi nio, quam de
narrantis scientia bitate habemus; eoque fir mior sit fides, quo certiores
sumus de hu et pro H 4 196 Logic. Pars II. jasmodi dotibus (S. eod. ): liquet
6. l dem humanam parere in nobis certitudi Nem moralem completam, si non adsit
ra tio, cur in narrante aut imperitiain, aut malitiam supponere possimus:
veluti si evidentia scientiae probitatisque indicia de derit si nihil
emolamenti ex iis, quae narrat, perceperit, si ' parratio rectae ra tioni non
repugnet; si denique pro nar rationis suae veritate dimicaverit, vel per
secntionem passus sit. * Deinde quoniam non omnes homines eadem praediti sunt
scientia et probitate, nec de his semper certo iudicare possumus, quum id io so
la opinione versetur: exsurgit hinc probabi litas, de qua paullo post praecepta
dabimus. * Postremâ haec conditio maius certitudini mo rali pondus adiungit: si
vero deficiat, liu modo priores adfint circumstantiae, certilu do vim suam non
amittit.. Schol. Nunc in eo sumus, ut explica tae doctrinae usum paucis
tradamus. Qua propter Philosophus noster hos, qui se quuntur, observet. CANON E
S. AMD quidlibet erudite experiundum, nisi necessariis praemunitusa in
strumentis me accedito. Si haec desint, Cap. III. De Veritate certa etc. 177
aliorum experimenta consulito, dummo do eorum integritatis scientiaeque con
stiterit, atque inde tuas deducito con clusiones. Si per insrumenta liceat,
aliorum experimenta ad examen revo cato ut sacriorem eorum ideam ad quiras,
caussasque facilius investigare possis. * Et quidem experientia erudita
instrumentis opus habet, sine quibus experimenta fieri nequeunt. Si ergo desint,
observationes nul lae erunt: ac proinde aliorum experimenta consulenda,
praemissis cautionibus, quae de eorum veritate dubitare non sinant. Hinc
Physicis admodum necessarius est machina rum instrumentorumque apparatus, ut
phaea nomena observari possint, a quibus ad caus sas proximas rationis ope
concludendum est. 2. Ne phantasiae partus, aut ratiocim nia ex experimentis
deducta pro expe rientia venditato ne subreptionis ar guaris. *. Quidquid enim
imaginationi debetur, reale non est, sed phantasticum. At in experientia realis
rerum exsistentia observatur; adeoque qui phantas mata pro rebus obtrudunt, su
bripiendo a dsensum extorquere conantur: et tunc evenit, ut cum ratione
experientia pu gnare videatue, de quo infra sermo erit. Quod sem el expertus es,
ne teme? depromito, sed experimenta saepius H 5 178 Logic. Pars II. repetens,
an costantia sint, observato; nec, nisi certior omnino factus, de iis enunciato.
Saepe enim accidit, ut effectus aliqui a cir cumstantiis oriatur accidentalibus,
vel caus sae cuidam externae debeantur. Repetenda er go experimenta, ut
diiudicari possit, utrum principali, an accessorüs caussis, effectus il le
tribuendus sit, adeoque non mirum, si facta semel observatione, effectus
productio propriae caussae non tribuatur, 4. Demonstrationes non nisi certis in
dubiisque principiis superstruito. Ratio ciniorum catenam ne interrumpito; sed
sequentium veritas ex antecedentibus patefiat. * Eo namque modo habebitur
legitima syllo gismorum concatenatio in qua demonstras tionis essentia sita est,
ut supra diximus. Ne ciedito, quamcumque enuncia tionis probationem pro
demonstratione sumi posse: qaamvis omnis demonstra tio sit probatio. Ex
debilibus enim prae inissarum probationibus exilis enervisque exsurgit
demonstratio cui nihil potest roboris accedere. * Nimiruni demonstrationis
robur a praemis stabilitate, legitimaque connexione procedit, adeoque pro;
earum firmitate con clusionis pondus augetur, vel minuitur. sarumriat, 6.
Demonstratio, ut certitudinem ра talis esto, quae neque per mate riam, neque
per formam ulla possit ra tione convelli. Iunc enim adsensum etiam ab invito,
extorquebis. 7. Si metaphysicae certitudini expe rientia adversetur, haecfallax
esto. Absurdum namque foret id exsistere, quod rectae rationi repugnat. * Eo
namque casu duas habemus 'propositiones inter se contradicentes, alteram
singularem, quae quidpiam exsistere pronuntiat, univers salem alteram, quae
idem existere posse ne gat; adeoque duo haec enunciata inter se pugnantia ita
comparata sunt, ut quod pri mum sensibus perceptum fuisse ait, illud alte rum
solidis rationibus intrinsecus impossibile esse demonstrat. Quum itaque ab
impossibi litate ad non exsistentiam conclusio duci pose sit (per princ, Ontol,
): recte colligitúc, in hac collisione rationem vincere, ac proinde
experientiam dici debere fallacem, quippe non experientia, sed subreptionis
vitium rea pse adpellanda. Et hoc universali omnium phi losophorum consensione
pro inconcusso axiom mate habendum est: ut ita Genuensis noster praecipuum
inter suos de veritatis criterio cả nones illum posuerit: Si intellig:bili
evidentiae physica adversetur, FALLAX HABETVR PHYSICA, est enim haecminor, cui
proii # 6 180 Logica Pars 11. + de vals dicere, quam de intelligibili
subdubitan re, quae summa est, acmathematicam parit certitudinem, par est. Cui
deinde subiungit: Fingamus (quaquam id falsum keputo, ma thematica evidentia
demonstrari terram mye veri: si qui sensuum evidentiam reponeret, non esset
audiendus, nisi matorem minori evi dentiae praeferre velimus. Art. Lozicocrit
Lib. IIT. cap. 3. 15. can 1, Sed quid, in quies, alienam auctoritatem in re tam
evi, denti confulere conaris? Nimirum quia canon bic a quibusdam, apud quos
Genuensis no stri plurimum valet auctoritas, nigro lapillo notatus est: ut
sciant sententiam nostram non singularem aut phantasticam, sed ratio De aç
unanimi hominum ratione utentium consensione fultam. cum eius quoque Viri ipsis
non suspecti adsertione congruere. 8. Nihil Divinae auctoritatį opponere fas
esto, Quum Deum loquutum esse con stal, cuncta silento. Huic metaphisicą,
certitudo numquam refragator: sed si per rationem liceat, demonstrationes ad
calculum revocato; * vel si Dei vera bum explicatione egeat, Ecclesiam in,
fallibilem eius interpretem con sulit o. * Referentes nồs ad ea, quae diximns,
quia demonstratio Dei verbo repugnans fal sa est, dummodo intra rationis fines
quaer stip sit rationes,iterum conficiautur, e de Cap. IX. De. Methodo. 181
monstrationes ad calculum revocentur, ut adpareat, undenam oppositio illa ortum
duxe rit, principiisne dubiis et incertis,, an a defectu legitimae connexionis?
* Ratio huius canonis haec est, Onnis lex eiusdem Legislatoris spiritu est
explican da Si enim leges humanae difficultate aut: ob scuritate aliqua
laborent, earum explic atio et interpretatio tantum a Legislatore, eius que
Administris est petenda, non a pri vatis Doctoribus proprio marte cudenda. Quan
to magis ergo Divina lex quae verbo Dei con tinetur, ab eo qui eiusdem Dei
spiritu gau det est explicanda. Ecclesiam autem Dei spi șitum habere, patet ex
ipsis Servatoris no stri verbis Matth. ult, ubi Apostolis ait Ec ce ego
vobiscum sum omnibus diebus usque ad consumationem saeculi. Et loan. XVI. 18.
Cum, venerit ille Spiritus veritatis (Pa. raclitus ), docebit vos omnem
veritatem. Quid quid ergo Ecclesia pronuntiat, assistente su premo animarum
Pastore Christo, et docente Spiritu Sancto pronuntiat; adeoque per eana Deus
ipse suum interpetatur verbum 182 Logica Pars. Į1. G A PUT QVARTV M De Methodo.
138. Vum in demonstrationibus con clusiones ex certis principiis per legitimam
ratiociniorum seriem dedu ci debeant; illa vero series arglimentorum METHODVS
dicatur: non abs re brevem hanc de metho do tractationem doctrinae de
demonstrationis bus subiungiinus. 139. Quilibet experiundo agnoscere po - test,
enunciationis cuiusvis veritatem du plici modo detigi posse, scilicet vel eam
dividendo, et ope analyseosed prima simpliciaque principia perveniendo, vel
componendo idest, principiis ad conclu siones sensim ac legitimo nexu progre.
diupdo. Vnde clare patet, methodum esse vel ANALYTICAM sive divisionis, vel
SYNTHETICAM seu compositionis. * Methodus ergo anulytica a principiatis ad
principia, synthetica a principiis ad princi piata (uti Scholae aiunt )
procedit. Dla composita resolvit. haec simplicia componit, Rem exemplis illustrabimus.
Ad demqnstran dam enunciationem alibi (S. 131, ) allatam? Deus earet adfectibus:
analytice ita ratio cinabimur. 1. Quicumque caret appeti tusensitivo, caret
@ap. IV. De Methodo, 183 etiam affectibus (per defin. aff. ): atqui Deus caret
appetitu sensitivo; ergo Deus caret affectibus. a, Min. prob. Quicumque caret
repraesentatio nibus confusis, caret quoque appetitu sensi tivo (per defin.
app. ): Deus vero caret repraesentationibus confusis, ergo Deus ca. ret
appetitu sensitivo. 3 Min prob. Quicumque omnia sibi distinctist sime
repracsentat, repraesentationibus caret confusis (est axioma ): sed Deus omnia
si bi distinctissime repraesentat: caret ergo repraesentationibus confasis. 4.
Min. prob. intellectu gaudens perfcctissi mo omnia sibi distinctissime
repraesentat (per defin. intell. Quum igitur Deus gau deat intellectu
perfectissimo: omnia sibi distictissime repraesentat 5. Min. prob. Ens
perfectissimum intellectu gaudet perfectissimo (est axioma ): Deus autem est
ens perfectissimum (per defin. Dei ): ergo Deus gaudet intellectu perfe
ctissimo Eamdem propositionem synthetice demonstravi mus ($. 131. * ). At in
gratiam Tironum, quos ad Philosophiam manuducere instituimus, aliam adhuc
dabimus demonstrationem, bre vem illam, at mathematico more confectam hoc modo:
THEOREMA, Deus caret affectibus. DEMONSTRATIO. Est enim ens perfectism simum
(defin. 1. ), cuius est intcllectu gaudere perfectissimo (ex 1. ), qmniaque 184
Logica Pars ir. sibi distinctissime repraesentare (defin. 2. ) id quod
omnimodam ab eo idearum confu şionem excludit (ax. 2. ), Quum itaque ab idearun
confusione pendeat appetitus sen sitivus (defin. 3. ) ', cuius vehementiores
motus dicuntur affectus (defin. 3. ): iure colligitur, Deum omnino affectibus
carere. Vides hic, quam bene monuerimus in fine primae partis, maximum atque
insignem esse usum syllogismorum in conficiendis mathema ticis
demonstrationibus: atque hinc patet, quam inepti ad demonstrandum sint ii, qui
syllogisınıim eiusque leges negligunt, et igno rata vituperante 140. Quoniam
methodus analytica a dif ficilibus ad facilia, a compositis ad sim. plicia
progreditur (s. 139. ); synthetica vero a principiis ad conclusiones (S. eod. )
conséquens est 1. ut illa in veritate inve nienda, haec in alios docendo
adhibeatur; * adeoque 2. eruditorum reprehensionem in currant qui ip docendo
illam potius, quain hanc sequi amant. Et quia feracior illa est, haec sterilior
**: novit quisque 3. docendi ordinem id exigere, ut post quan auditoribus
synthetice veritas fuerit explanata, iisdem "analytice modus. indi cetur,
quo fuit ab auctore inventa. Analyticam enim methodum in docendo ad bibere idem
esset, aç opposita et difficili ti 9 Cap. IV. De Methodo. 185 rones ducere via,
eosque ad veritatem vel numquam, vel raro admodum pervenire ** Feracior quidem
est analytien methodus quia singula ad examen revocat, minuta quae que
considerat, atque possibiles omnes fin git casus, inde ab hac quasi sylva
conserta, enodatis extricatisque ambagibus, ad rem ipsam perveniat; synthetica
vero sterilior, & generalibus namque principiis brevi atque ex pedita via
pergit conclusiones. Eadem autem ratione illa difficilior, haec facilior est:
adeoqne illa viatori tramitis inscio, qui di vinando et om nia tentando
difficiliter quo tedebat pervenit: haec eidem perito similis, qui brevi
apertaque via iter conficit, et finem ideo suum cito consequitur, 541. Iam ad
melhodi leges, tum utri que communes cum alterotri peculiares, tradendas
acMilanius. Eas aliquot complc clemur regulis; quarni quinque genera les,
ceterae vero speciales sunt, analyticae praesertim methodo inserviturae. Quicum
que igitur veram: methodum in veritatis investigatione cailere cupit, hos
rigides servet. 186 Logica Pars. II. CANON E S. I. Q Votiescumque ad
demonstrandum accedis, cur ato, ut a facilibus notisque incipias, indeque ad
ignota et difficilia gradatim progrediaris. Prin cipia itaque solida, ideasque
selig ito medias, atque ea semper cordi habelo * Est haec lex, quam
inculcavimus ($. 130. ) et alibi retulimus. In -singulis ratiocinationis
gradibus eamdem semper servato evidentiam, ut altei um ab altero derivari clare
sentias. * * Ita vitabitur paedantismus, hoc est inutile illud memoriae pondus
iudicio destitutum, et in minimis quibusque sectandis vanam quae ritans
gloriolam, de quo vide supra Part. I. Cap. 3. Schol. Can. 4 3. Stilo utitor
facili, ac naturali, non oratorio vel ampulloso. Verborum tantum, quantum ideis
clare exprimen dis satis est adhibeto: nec, nisi in ideis claris, quidquam
tentato. * Verborum enim copia ignorantiae confusioni sve indicium est: quae
namque ignoramus vel confuse scimus, ea nimia verborum cir cuitione explicare
cogimur. Cap. IV. De Methodo. Argumentum pertractanduſ ab am biguitate, si
quafuerit, liberato prius; deinde in tot membra dividito, quot ca pax est:
singula attente examinato ac definito: * omnia clarissimis explica to verbis,
ac quaestione quam simplicis sime exprimito. * Prae oeulis tamen habeantur,
quae de de finitionibus diximus Verba: quce obscuritatis aliquid habent,
adcurata definitione dctermina to, in eoque semper sensu adhibeto. * Confer
quae diximus SS. 5. 46. De methodo analitica livec habeto: 6. Ad veritatem
inveniendam, quae stionemve solvendam, ne nudus princi. piorumque inscius
accedito: num sorida cognitione ad id paratus advenias, se dulo perpendito. *
Sinamque incapax principiisque destitutus rem aliquam adgrederis, fieri non
poterit, quin inepta et ridicula effutias. 7. Quaecumque cum proposita quae
stione aliquam habent connexionem di 古
88 Logica Pars II. ligenter exquirito: omnes possibiles ti bifingito hypotheses:
quaecumque ei lu men adferre possunt, ne rciicito sed Omnia simul colligito et
comparato. 8. Principia quaeque atque ideas mutuo conferto: omnium relationes
perpendito efinesque sectator, eaque, superflua de mendo in parvum referto
numerum. Omnia deinde corrigito diuque considera to, ut tibi familiaria fiant.
* Speciatim vero principiis diu haereto. Repetitione namque attentio renovatur
ius ope ideas meliores fieri docuimus F. 19. Schol. Quas de syudetica methodo
tradenda forent, ea partim a nobis incul. cata sunt, partim infra, ubi de modo
alios docendi sormo erit, enodabuntur. Si quis autem metho dum hanc callere
cupiat, is Christiani Wolf fii tractatum de methodo mathematica, universae
Matheseos elementis * praemis-. sibi curet reddere familiare CU sum * Exstant
haec 5. voluminibus in 4. excusa Ha lae Magdeburgicae. Cap. V. De Veritete
Probabili. GA P VT QUIN T V M De Veritate probabili -542. o 142 Eritatein dici
certam mnia adsunt requisita quamcum que oppositi formidinem excludentia, su
pra docuimus. At intellectus nostri infirmitas persarpe impedimento est, quo
minus nobis illa veritatis indicia pa. teant ita, ut veram absque ulla oppositi
suspicione perspiciamus. Hinc ergo est, cur in praesenti capite de
probabilitate, quantum satis erit, dicere instituerimus. Est autem PROBABILITAS
status mentis ex indiciis insufficientibus verita ti adhaerentis, cum aliqua
tamen op positi formidine, PROBABILIS ergo di cilur enunciatio in quc adest
ratio in sufficiens, cur praedicatum subiecto tri bu atur. * Ita Cicero pro
Milon. cap. 10 probabilibus argumentis probat, Clodium Miloni insidias
struxisse. Ait enim: Clodium dixisse, Milo nem esse occidendum; 2. eum Miloni
neces sarium iter Lanuvium facienti obviam ivisse, 3. idque itinere effecisse
maxime expedito, et praeter consueludiuem; 4. servos cu: n les lis ante fundum
suum collocasse. Probat id 190 Logica Pars I. esse > in quidem, sed
probabiliter, insufficientibus quippe indiciis, adeo ut aliqua adhuc adsit
oppositi formido. Ex quibus definitionibus clare de ducitur 1. eo probabiliorem
esse proposi tionem, quo plura adsunt veritatis indicia 2. dici vero DVBIAM, si
ex alterutra parte aequalia fuerint rationum momenta, adeoque 3. IMPROBABILEM
qua paucissima inveniuntur; quibusque e contrario fortiora indicia opponuntnr;
4. omne probabile, esse quoque possibile, quamvis 5. non omne possibile dici
pro babile possit. * Probabilitas enim supponit possibilitatem: quum enim
probabilitas veritatis alicuius exsi sicntiam indicet, exsistere vero nequeat,
cui deest possibilitas, liquet, tunc de pro. babilitate qnaestionem institui
posse quum rei possibilitas firmata sit: ut ita qui eam esse im possibilem
demonstravit, uihil aliud oneris habeat, omnemquede probabilitate contro
versiai tollat. Possibilitas autem non infert probabilitatem: nam quum
possibile sit, quod non involvit contradictionein (per princ. Onol. ), non ideo
probabile dici potest, nisi quaedam adsint circumstantiae, quae id revera
exsislere evincant. 145. Quia dantur enunciationes probabi les, sillogismus
autem propositionibusconstat: liquet 6. Cap. V. De Veritate Probabili. 191 dari
quoque syllogismum probabilem. Et quia couclusio sequidebet partem debiliorem;
debilior vero est pro positio probabilis, prae certa: consequens est 7. ut
conclusio sit probabilis, si alte rutra praemissarum talis sit. Sed quoniam
conclusionis vis est aggregatum virium praemissarum (s. 82. seqq. ), infertur
8. ut si utraque praemissarum sit probabilis, conclusionis probabilitas
minuatur pro sum ma graduum, quibus illae a certitudine recedunt. * Denique
quum demonstra tiones coficiantur ex syllogismis concatena tis, quorum unus ab
altero vim sumit: evidens est 9. integram de monstrationem, in qua vel una
probabi lis propositio irrepsit, non esse, nisi 7 pro babilen. * Certitudo
namque in philosophicis se habet, ut aeqealitas in mathematicis. Sicuti ergo ae
qualitatis nulli sunt gradus, ita et certitudi nis. Probabilitas autem maior
est vel minor provt minus magisve a certitudine recedit,ut et inaequalitas
servata proportione. Ponamus ergo certitudinem constare gradibus 12. Si una
prae missarum tantum certa sit, altera duobus gradibus ab ea recedat, habebimus
conclu sionem probabilem duobus dumtaxat gradi 192 Logica Pars II. Io bus a
certitndine distantem: tunc enim ma ior erit Ei, minor -, quibus addie tis,
babetur in conclusione summa = 2. quae duobus tantum gradibus ab unitate, sive
certitudine diftat. Ponamus porro prae missarum unam ita probabilem esse, ut
duo bus gradibus a cerit udine deficiat, altera ve ro tribus; habebimus
conclusionem sive summam fractorum et E quae quinque gradibus ab uuitate pe a
certitudine recedit, quot deerant in am babus praemissis. Dem. 146. His
generatim expositis, ad pro babilitatis species transeamus. Probabilitas recie
dividitur ib HISTORICAM, PHYSICAM, POLITICAM, PRACTICAM, et HERMENEVTICAM. De singulis
pau ca delibabimus. A probabilitate differt OPINIO, quae est propositio
insnfficienter probata, scilicet a principiis nondum certis, et precariis dedu
cta, quae ideo est mutabilis, ac proinde po test ut plurimum esse falsa: unde
opinio di viditer in PROBABILEM, et IMPROBA, BILEM, prout principia sunt prout
princi pia sunt probabilia, vel precaria, omni nem pe rationis auxilio
destituta. Sap. 7. De Veritate probabili. He completanarratio eae De
probabilitate historica. SISTORIA, est factorum fidelis et. Eius au ctores sunt
homines: fidem ergo parit hu mapam. Homo vero factum aliquod fideliter et
complete narrans, HISTORICUS vel TESTIS dicitur. Sed quia aliorum narrationes
neque experientia, nec demonstratione ad examen revocari possunt ob vitae
intellectusque nostri brevitatem mentisque imbecillitatem, nec de omnium
probitate certo constare potest: quando ` id in sola opinione versetur, non
certitudinem, sed probabilitatem in nobis gignunt. Quumque hominum aucto ritate
freti adsensun historiae praebeamus: evidens est, historicae probabilitatis
funda mentum esse fidem humanam. * Ut autem narratio historia dicatur, dcbet
non modo esse fidelis, hoc est res clare, eoque, quo contigerunt, ordine
narrare, sed completa etian ', omnia scilicet factorum adiuncta, circumstantias,
relationes, caussas; et fines amplecti.Hinc Cicero Historici perinde, ac
Oratoris dotes paucis expressit, nempe talem esse debere ne quid falsi dicere audeat
ne quid veri non audeat.Quia fides aliorum testimonio in nititur, estque
fundamentum pro babilitatis historicae; homines autem ob ignorantiam malitiamve,
aut fal li aut fallere possunt, ut experientia testa tur: consequens est, ut ad
adsequendam probabilitatem historicam cautiones quae dam adhibendae sint,
quibus testium an ctoritas, factorum genuinitas, natrationuin qucque veritas
dignoscatur. eam * Hinc ergo enata est ARS CRITĪCA, sive habitus aliorum
auctoritatem ad trutinam re. vocandi, recte adhibendi, factaque scienter ac
sine erroris nota dijudicandi:Tapinps 1 namque indicium notat. Et quamvis artis
cri ticae officium, vulgarem sequuti opinionem, infra ad solum librorum examen
atque in terpretationem restringamus; non ideo no bilissimam hanc artem
cancellis adeo angu stis coarctare volumus; sed quidquid de usi auctoritatis,
rernm gestarum examine ac in dicio dicenda sunt, ea ad artem criticam:
pertinere, qnisque sciat: id quod semel pro sem per observandum. 119. Quia ergo
in omni narratione tria considerari possunt; narrans nempe, bar ratiun, et ipsa
narratio: hinc est, ut in fide humana ad tria potissimum attendi so leat,
scilicet i. ad homines narrantes, ad res narratas, 3. ad modima parran di. * Ab
hominibus nunc ordiamur. * Atque in his, quae sequuntur, regulis tam historicam,
quam hermeneuticam probabilita tem respicientibus, nedum librorum genui nitatem
integritatsmve expendentibus, gene rales totius críticae leges ad singulares
spe cies et circumstantias adplicandae consistunt, in quibus addiscendis eo
maiorem operam collocare debet, qui philosophi nomen tue ri cupit, quo
frequentius in evolvendis li bris, factisque diiudicandis erit ei, re exi gente,
versandum, Quoniam hominibus, licet eadem natura, non cadem tamen est
perspicacia, mcrumque probitas, nec omnes iisden sensibus eamdein rem percipere
possunt (per cxper. ); hoinnes autem factum aliquod narrantes testes vocantur
147. ): patet in quolibet teste tria concia derari posse, scilicet INTELLECTVM,
VOLUNTATEM et SENSUS, Si intellectus spectetur, testesa sunt vel PRVDENTES ac
PERSPICACES, yet RVDES et IGNARI; si VOLVNTAS,idem sunt vel NEVTRI PARTI, vel
VNITANTVM faventes, itemque vel PROB!, vel IMPROBI; si denique SENSVS, sunt vel
I 2 ATI 196 Logica Pars II. OCVLATI, qui factum quod narrant ocu lis
perceperunt, vel AVRITI, qui illud ab aliis audiverunt; et hi denno vel Co AEVI
sunt, qui eodem facti tempore vi xerunt, vel RECENTIORES qui id postea ab aliis
acceperunt. Sic Livius inter testes
prudentes est referen dus: multo namque po!lebat iudicio. Idem tamen Romariorum
parti favebat, quippe Romanus et ipse. Tandem factorum, quae sua aetate
evenerunt, testis coaevus, eorum autem, quae ante conditam condendanıve urbem,
ac per tot saecula ad sua usqne tem posa accidisse tradebantur, recentior dicen
dus est. 152. Ex quibus omnibus patet 1. in fa cti alicuius narratione, quod
attentionem iudiciumque requirit, homines prudentes et perspicaces rudioribus
ignavisque esse antehabendos; promiscue vero se habe re in rebus solis sensibus,
non etiam iu dicio, indigentibus, dummodo in illis af fectus partiumve studium
non metuatur: tunc enim rudiorum testimonium proba bilius erit; 3. testes
neutrales alterutri parti faventibus recie pracferri, nec non 4. oculatos
auritis, 5. coaevos recentiori. bus, inter auritos autem prudentes ru dioribus, eos
tamen, ad quos ex oculato Cap. IV. De Veritate Probalili. 197 nullam esse, fide
digno magnaque auctoritate pollente facti fama pervenit, ceteris incerto alio.
quin rumore ductis esse anteferendos, ac denique 8. coaevi testimonium plurium
contestium narratione augeri, cui nescio quidnam ad probabilitatem ultra deesse
possit, 153. Quod altinet ad res ipsas narratas síve facta; observandumu 9.
probabilitatem si circumstantiae adsint sibi invicem repugnantes;nihil enim
impossibi le potest esse probabile (S. 144. ); 10. nullam quoque esse
probabilitatem, si testis unicus factum aliqnod insolitum et mira bile narret:
licet 11. probabilius id ha bendum sit, si a pluribus probatae fidei viris
unico contesta narretur; 12. nulla itidem probabilitate gaudere, narrationem,
quae claris rationibus -aperto repugnat; 13. non idem tamen dicendum de ea,
quae moribus opinionibusque nostris ad versatur, *** nec 14. si caussa modusque
ignoretur, aut vim artemque nostram su peret. Sic pleraque prodigià ab uno
Livio narrata nullam merentur fidem, utpote omni proba bilitate destituta:
veluti quod scribit Lib. 1. ca. 12. post pugnam Romanorum cum Albanis, Tullo '
Hostrilio Rege 1 factam, I 3 198 Logica Pars. II. in Monte Albano lapidibus
pluisse; vel quando, Tarquinio Prisco regnante, Au guris Attii Nevii cotem
novacula discissam refert Lib. I. cap. 25.: id enim mirabile quidem et
insolitum, sed a Livio tantum relatum. Qua de re iure idem Historicus de his,
fimilibusque factis improbabilibus vocabulo ferunt fidem suam sartam tectam
servat, non modo singulorum narratione, sed et in historiae suae proaemio, ubi
cas ideo nea adfirmare, nec refellere velle fatetur, ut potc poeticis magis
decora fabulis, quam incor. ruptis rerum gestarum monumentis confirm mata.
nempe Lu nam ** Huiusmodi sunt fabulae illae, quibus Mu hamedanum scatet
Alkorauum, a Muhamede bifarian digito divisam partemque in vestis manicam
delapsam iterum in coelum repositam; palmae eiulatus in eius absentia, et id
genus alia. > *** Sunt enim, mores pro regionum ac tem porum varietate,
varii. Quidquid ergo mori bus nostris turpe est, fortasse apud alias Gentes
honestum erit, et quod nostro sae culo nefas habetur id licitum esse alio:
tempore potuit. Quis enim ut cum Cornelio Nepote loquamur, non vitio verteret
The bano Epaminondae, saltasse eumcommode scienterque tibiis cantasse? Et tamen
haec aliaque nostris moribus indecora inter eius virtutes commemorantur. Nepos.
in Proem. Cap. V. De Veritate probabili. 199 154 Quoad modum narraudi tandem,
id sedulo advertendum, facta stilo simplici non oratorio aut poetico, narrari
debere. Si itaque simpliciter atque historice nar ratio scripta legatur,
maiorem meretur lidem, quam quae poeticis pigmentis aut oratorio fuco
lasciviens aures demulcere conatur. SECTIO II. De Probabilitate physica,
politica, et practica. 153.TJAEc de fide humana, quam qui ritatis praeiudicio
occupatus conseri debet. Ad alteram nunc probabilitatis speciem ac Milanius,
nempe PHYSICAM; quae ha betur, quum ex pluribus phaenomenis ad caussam aliquam
physicani concludimus, cui illos tribuimus effectus. Gravesandius eas vocat
hypotheses. 8 Probabile est, fluxum maris à lunae solisque attractione pendere:
nam ex plurie. bus phaenomenis hanc illius caussam ess posse, compertum est. Ad
physicam probabilitatem eruen dam quatuor adhibendae sunt cautiories: 1. ut
phaenomenon adstumtum sit certum, eiusque distincta idea, aut clara saltem,
habeatur, ne chimaeram pro re, aut nu bem pro Iunone amplectamur; 2. si phae
nomenon illud sit ab alio relatum ad historicae probabilitatis regulas, tamquam
ad lydium lapidem, exigatur: 3. eius porro caussae omnes pose sibiles
investigentur, et.cum phaenomeno conferantur; ac denique 4. ex iis una plu
resvc adsumantur, quae cum omnibus cir cumstantiis apte conveniant. * Quum
autem doctrina haec ad Physicam fa cultatem pertineat: sufficiat de ea quaedam
tantum hic notasse: commodius enim in Phi. sica tractabitur. POLITICA
probabilitas ea est, qua ex alicujus personae phaenomenis in dolem animi
arguimus. ' Quumque in ex propensiopuni signis ad ipsas propen siones
concludamus: evidens est tracta tionem hanc ad Ethicam potius, quam ad Logicam
pertinere: adeoque non mirum, si eam inoffenso pede oniittamus. ea Ut clarius
politica probabilitas intelligi pos sit, sumamus e. g. aliquem, in quo vultus
hilaritas, iocandi studium, corporis mobi litas, laboris impatientia,
prodigalitas', in constantia, garrulitas etc. observentur: non ne eum statim
voluptati deditum esse con Cap. V. De Veritate probabili. cludes: Haec erit
probabilitas politica. Lega tur interim Cl. Heineccii dissertatio: Dein cessu
animi indice. Quae de probabilitate PRACTICA dici inerentur, ea fusius
persequuti sunt Andreas Rutigerus in Lib. de sensu peri et falsi. III. 8., et
Ludovic. Mart. Kallius in Elementis Logicae probabilium Nos paucis rem
expediemus. Eam Rudige rus vocat, qua ex physicis vel moralibus principiis
futurum aliquem praedicimus even tum. Quod quum in practica casuum si milium
expectatione consistat, eaque ex pectatio vocetur analogia evidens est
practicam probabilitatem recte adpellari ARGUMENTUM AB ANALOGIA; id quod maximo
apud Politicos usui esse solet. * * Politici namque in gubernandis rebus publi
cis probe versati probabiliter unius aut alterius Regni praedicunt eversionem,
propte rea quod aliae res publicae post easdem cir cumstantias subversae sint:
adeoque a simi Jium casuum exspectatione practicam eruunt probabilitatem. CA
habetur, quum a quibus dam in Auctoris scripto obviis eius sen. surn eruimus.
Saepe enim accidit, ut in auctoris alicuius interpretatione quaedam occurrant,
quae multiplicem sensum ad mittunt: tunc ex auctoris fine, verborum
significatione, locorumque collatione pro babiliter colligitur, quidnam auctor
ille voluerit intelligere, idque fit ope ARTIS HERMENEUTICAE, quae definiri
potest per habitum Auctorum loca interpretan, di, sive eorum sensum eruendi. SENSUS
AUCTORIS est ceptus, quem scriptor vel loquens vult in legentium auditorumve
animis per ver ba produci. Auctorem ergo interpretari dicimur, qumun ex legitimis
principiis eius sensus investigamus. Et quia ars hermes neutica est facultas
auctorum loca inter pretandi; consequens est 1., ut eius sit genuinum auctoris
sensum erue Te; adeoque 2. regnlae tradantur, opor tet, quarum ope sensus ille
quam proba, bilius investigari possit, соп Cap. v. De Veritate,probabili. 203
Quumque in his regulis totius Hermeneuticae adeoque et Criticae artis leges
Auctorum in terpretationem respicientes pofitae fint: non mirum, si a canonibus
huic sectioni subii.. ciendis abstineamus, quippe qui superflui omnino forent,
et loquacitatem potius, quam logicam praecisionem arguerent. Quoniam Scriptoris
sensus perver ba significatur: colligitur in de 3. ut interpres linguam, qua
scriptor conceptus suos expressit, eiusque idiotis, mos probe calleat: adeoque
patet 4. falli eos, qui linguam illam ignorantes aliorum versionibus
translationibusque fidunt; 5. ut ad scriptoris sectam, finem, affectus,mu nus,
aetatem, gentis suae mores ' attendat: unde 6. integrum Auctoris systema prae
oculis babeat, ac de eo secu dnm dome sticas notiones, non ex propriis opinioni
bus, iudicium ferat., quid > * Praeclare id monet Clericus Arte Critica
Part. Il Sect. 2. cap. 2. $. 7. et 8. Opor tct, inquit Vir eruditissimus,
nostrarum opi nionum veluti oblivisci, el quaerere, veteres illi Magistri senserint
non quod sentire dcbuisse nobis videniur, ut sape rent. 162. Ex eodem principio
fluit 7 inter pretein affectibus, praeconceptisque opinionibns omnino vacuum
esse debere; nee 8. Auctoris verba extra contextum legere aut considerare, sed
antecedentia et con sequentia attente conferre: multoque ma gis y. loca
parallela auctoris eiusdem sol licite comparare, ut quod obscuritatis ir,
repserat, statim evanescat. Quumque ad cognitionis claritatem ac distinctionem
om ne momentum ferat attentio (m. 19. ): sequitur 10. ut qui librum aliquem
probe interpretari vult, eum attente atque ordi ne legat, et codicem habere '
curet quam emendatissimum. ' * Quantum ad librorum interpretationem con ferat
editio, ratio in promptu est. Videmus enim, quam multis scateant erroribus edi
tiones quaedam ab indoctis ignarisque con fectae typographis, ut Delio saepe
notatore opus habeant. "Nitidissimae prae ceteris sunt editiones a Viris
claris, qui id oneris susce perunt, effectae, quibus multum iure merita debet
Respublica litteraria, Cop. V. De Veritate probabili. Uoniam magno
Hermeneuticae adiumento est Ars Critica: non abs re fuerit, pauca de hac
illustri arte haud contemnenda degustare. Quam bene de ea meritus sit Vir
multiplici eruditione praeditus Ioannes Clericus, communi sa pientum consensu
probatur. Nos eius du ctu regulas saltem generales nostris audi toribus
trademus ut quantum fieri pote rit, libros genuinos a nothis, integros a corruptis
discernere valeant. Res quidem foret laboris plenissima et satis prolixa, si
Critices distincte praecepta trade re conaremus. Id adcurate cxsequutus est
Clericus, quo'nemo elaboratius eam pertra ctare, operaeque pretium facere
posset. Nos autem tironibus scribentes, notiones maxime genericas jis
suppeditare adlaboramus; quia, quum perfectum fuerit ipsorum iudicium, et
matura aetas, omnia, quae hoc super argu mento scienda forent, in eodem Clerico
legent. ARS CRITICA est habitus libro Fum genuinitatem et integritatem diiudi,
20 Logica Pars I. Candi. * Quae definitio ut intelligatur, oportet claras
notiones genuinitatis, et in tegritatis librorum in legentium animis excitare.
* Notandum tamen hic Crilices vocabulum strictissimo iure usurpari', regulasque
ea in re generales tironibus suppeditari: latiori Damque significatione tam
historicam proba bilitatem, quam hermeneuticam amplectitur, de quibus per summa
capita praecedentibus sectionibus sermonem instituentes praecepta, yeluti per
lancem saluram, ex hibuimus. Earum. LIBER GENUINUS dicitur, qui ab eo, cuius
nomen prae se fert,-. fuit exaratus; SUPPOSITUS autem, qui ab alio, quam cuius
nomine insignitúr, scripius est. * Liber dicitur INTEGER, si tantum contineat,
quantum Auctor in eo descripsit, CORRUPTUS vero al quid ab alio additub sit,
vel demtum: speciatin Viro si additum INTERPOLATVS; sin den tuni, MVTILVS appel.
latur. si 2 * Dici quoque solet spurius fictus vel fictitius: liniec vocabula
ab aliis distinguantur. Sed non est idoneus huic quaestioni locus, Cap. V. De
Veritate probabili. 2014 * Huius corruptionis quatuor caussas tradit Clericus:
nempe Librarios (dictantes perin de, ac scribentes ), Criticos, impostores,
tempus. Satis erit haec generatim scire guia singillatim percurrerenon vacat.
166. Criticae leges ab eodein Clerico de cem adisignantur. Eas nos sequentibus
ex ponemius regulis, quas philosophus nos ter observabit. Sequantur ergo. CANONES
t. " S " ppositum habeto librum, qui in vetuslis codicibus alii
tribuitur Auctori; interpolatum, si in aliis de sideretur, quod in eo
reperitur; muti lum denique, si quae in ipso desunt in antiquis codicibus
inveniantur. 2. Si a veteribus quaedam a libro ali quo exarata sint, ea vero
nunc in li eadem inscriptione. insignito deside rentur: aut alius esto, aili
muiilus. Si aliter legantur, suspeciels. Si vero omnia aptu cohaereant,
genuinus esto et inte ger, nisi alia adsit ratio dubitandi. 3. Liber, cuius
nulla fit inentio in veteribus catalogis, aut a scriptoribus proxime
sequentibus, plerumque fictus esto, cut saltem suspectus,. 209 Logica Pars I.
> 4. Scriptá a veteribus diserte reiecta, aut in dubium vocata, nequit
recentio, rum auctoritas, nisi gravissimis rationi. bus,, pro genuinis
admittere. 5. Liber dogmata continens iis con trária, quae scriptor cuius nomen
praefert, alibi constanter defendit, ut plurimum aut spurius esto, aut interpo
latus. 6. Idem iudicium ferto de eo, in quo personae, facta, uut nomina com
memorantur Auctore, cui tribuitur, recentiora. 7. Spurium quoque aut interpolatum
iudicato librum in quo controversiae tractantur post Scriptoris tempora na tae,
vel adest scriporis imitatio. 8. Talis quoque ut plurimum esto si fabulis
scatens, aut ineptus, viro docto minimeque imperito tribuatur. 9. Liber stilo
scriptus diverso a stilo Auctoris aut saeculi, in quo ille vixit, spurius esto,
eiusque censendus, ius stilo est conformis. In. Vocabula recentiora Auctorem
arguunto recentiorem, aut libri interpo Talioncm: in translatione vero, si ni
hil est quod sapiet linguam, in qua scripsisse constat Auctorem, cui tribyi:
utr, translatio non esto, cu * Cap. V. De Veritatc probabili. 209 * Pluribus
hanc doctrinam persequi deberemus, idoneisque illustrare exemplis: sed res est
maximi momenti, et nimis implicata, nec in stituti brevitas eam disquisitionem
patitur. Quivero plura cupit, adeat Clericum in Ar te Critica, ubi plurima
inveniet suo gustui. adcommodata. Id interim notasse sufficiet, in hisce
omnibus ad praxin adplicandis ma gna cautione opus, esse ne in praecipitan tiam,
adeoque in errores prono cursu la bamurSendus pecialior Logicae usus nunc evol
vendus, nempe PRAXIS, qua mentis nostrae operationes sint in verita tis
investigatione dirigendae.Veritas inveni tur vel proprio marte, sive per
meditatio nem rite institutam; vel ab aliis inventa quaeritur et ud trutinam
revocatur. Quia vero nec meditationi, nec bonae lectioni par est, qui hasce
lautitias nondum degus tavit: Logicae est regulas suppeditare quibus mapuducti
adolescentes et recte mea ditari, et libros cum fructu legere dis cant. Quumque
nostrum sit auditorum nos trorum utilitati studere: de duobus his veri tatem
inveniendi modis hoc capite agemns. MEDEDITATIO est conformis co gitationum
nostrarum bonae methodi legibus adplicatio. Meditamur itaque, quum cogitationes
nostra's bonae methodi legibus g. 138. seqq. ) ita dirigimus, ut veritates ex
veritatibus, co gnitiones ex cognitionibus eruamus. Ex qua definitione sequitur
1. ait quantum diſfert regula ab eius adplica tione, tantum optima methodus a
medi tatione distet,. meditaturus leges quibus bona methodus absolvitur (S.
141. ), callere debeat; adeome 3. eo felicius meditetur, quo exactius leges
illas esequitur; nec non 3. aliquarum saltem veritatum debeat es se gnarus, ut
ex ijs veritates aljas erue re legitime possit (S. 167. ). 5. Tirones ergo,
aliique bonae methodi, veritaium que ignari ad meditandum sunt inepti. * Cui
enim serei principium deest, nullo mo do seriem ipsam, hoc est veritatum
catenam conficere potest. Pari modo qui concatenationis leges ignorat,
quantumvis veritatum mente te *} Cap, VI. De Veritat. inquisitione. 211 neat,
nec illas recte disponere, nec ordina tam seriem formare valet. 170. Quia ad
bonam methodum requi ritur idearum claritas (5 141. cap. 3. ); ad claritatem
autem confert attentio (S. 19. );consequens est 6. ut qui feliciter meditari
vult, attenitonem praecipue colat; quin 7. et praeiudiciis liber et 8. certis
indubiisqoe principiis (S. 131 ) praemunitus ad meditandum accedat. Quum que ad
principia referantur praecipue de finitiones (f. eod. ): recte consequi tur 9.
ut res de qua institui vult mcdi. tatio, edcurate definiatur, f. 141. cap. 5. ),
ac inde novis definitionibus omnia dividantur. El * Serventur tamen, quae de
definitionibus (Par. I. Cap. 3. ), et divisionihu:s (Cap. 4. ) docuimus, et
quomodo definitiones ex ex perientia eruantur. quoniam inter principia etiam
axiomata et postulata enumerantur (S. 130 ), eaque es definitionibus legitimue
eruuntur: liquido infertur 10. medita turo innotescere quoque debere modum ex
definitionibus axiomata eruendi, * ut om nes principiorum species probe tencat.
Quonam autem modo ex unica definitione ar. iomata et postulata formentur, hic
adden dum. Tribus quidem modis id effici posse certum est: scilicet PARTIS
OMISSIONE, nempe quum genus vel differentiam specificam omittimus. E. g. ab hac
definitio ne: Invidia est taedium ob alterius felicita tem, omitte genus, et
habebitur axioma: Invidia respicit felicitatem alterius: omitte differentiam,
eritque aliud axioma: Invidia est taedium 2. INVERSIONE, si definitio in
definiti locum substituatur. E. g. Qui er alterius felicitate taedium percipit
est invi. dus 3. CONVERSIONE, si aientes pro positiones in negantes convertamus
E. g. Qui ex alterius felicitate non percipit taedium, -non esi invidus; vel
eum, qui non est in vidus, alterius feliciiaiis non taedet. Postu lata eadein
ratione conficiuntur, si nempe modus exprimatur, quo quid fieri potest: sed ea
melius ex realibus, quam ex nomi nalibus definitionibus deducuntur. Sic ex ea
dem definitione habebis postulatum: Invidia excitatur, si invido alterius
felicitas reprae sentetur. 172. Praestructis ita principiis, opor tet il. ut ex
eorum collatione THEO REMATA, vel PROBLEMATA compo nantur, j 12. et unde
consequentiae im mediatae sese offerunt, COROLLARIA deducantur, vel 13. ubi maiori
explicatio ni locus erit SCHOLIA subiungantur. De Veritatis Inquisitione. 213
Est enim Theorema propositio theoretica de monstabililis, demonstratio autem ex
principiorum collatione conficitur, ut videre est in superioribus Cap 3. Sect.
2. et Cap. 4. Hoc modo ex principiis (§. 171. * confectis erui poterit theorema:
Invidia oritur ab odio, et similia. Pari mo do quia Problema est propositio
practica, eius solutio et demonstratio ex eorumdem principiorum collatione
petitur. Ita ex eisdem principiis orietur problema: Juvidiam in altero excitare;
cuius solutio haec erit Invidia ex odio nascitur. Fac er go ut is, in quo
invidiam excitare vis, ala terum odio prosequatur, cuius inde felicita tem ei
ostende: ex ea namque taedium per cipiet, adeoque in eo invidia excitabitur.
Corrollaria vero tam ex indemonstrabilibus, quam ex demonstrabilibus
enunciationibus des duci possunt. Sic ex superioribus axiomatis varia oriuntur
corollaria, veluti ergo qui tae dii non est capax, invidus esse non potest:
item ex postulato: ergo ubi non adest feli citatis repraesentatio, locum non
habet invi dia ex secundo item theoremate ergo qui alterum amat, ei non invidet;
atque ita porro. 173. Haec omnia vero praecepta, ut aemoriae infingantur,
brevissimis ample temur regulis, quas, qui sequuntur, shibent 214 Logica Pars
II. CANONES. ANicquam meditationem instituas, ipsam quantum natura ipsa fert,
exa cte dividito. 2. Ex definitionibus axiomata, item postulata deducito, atque
ab his per im mediatas consequutiones corollaria con ficito. 3. Plura principia
vel antecedentes propositiones mutuo conferto, et sic theoremata vel problemata
efformabis, ex quibus, quae haberi poterunt, erues consectaria. 4.
Propositiones - inventas bona me thodo legitimoque nexu comparato, et id agito,
ut omnia per demonstratio nes apte cohaereant. 1 * Ita novae orientur veritates,
novaque semper ratiocinia fluent. Perinde ' vero est, qua met hodo
ratiociniorum series in ordinem rediga tur, modo regulae alias ($. 141. )
propositae rite observeutur. Scol. Sint haee satis de meditatione, ei usque
legibus, quae numerosias protra here non fert instituti compendium. Qui Cap.
YI. Da Veritatis Inquisitione. 115. vero longius et distinctius meditandi re
gulas vellet addiscere, ei Baumeisteri dis sertatio de arte meditandi attente
legen da foret, eaque in syccuin et sanguinem vertenda. Interim ad auditorum
nostrorum instructionem hic brevem subiicere praxin censuimus, quo facilius
artem hanc per discere possint. Qua de re eruditissimiVic ri exemplopi
addncemus pulcherrimum. Si quis AMICI characteres sit exploratu. rus, absque
librornm auxilio, sequentem instituens meditationen, haec habibit. §. I. Ex
casuum sin vularium observa tione g. 124. seq. ) critor Amici DEFI TIO: Amicus
est persona, quae nos amat, f. II. Ad definitionis porro notas atten dens
quisque videt, notionem amoris de. finitione indigere. Eodem igitur modo. hacc
noya definitio eraalur. Sic. amare alierum nihil aliud significat, quam ex
alterius felicitatc volup'atem percipere. 6. JIÍ. Ex his definitionibus eo, quo
diximus, artificio axiomata de dacantur. Et quidem ex prima definitione (1. )
fiunt AXIOMATA. 1. Amicus al terum amat. 2. Qui alterum non amat non est
amicus.3.Quicumque obligatur ad ali un amandum, ad amicitiam ei praestan 116
Logica Pars 11. dam obligantur.4. Vbi nullus amor, ibi nulla omicitia. 5.
Quamdiu durat amor, tamdiu durat amicitia. 6. Qui efficit, ut ab alio ametur,
eum sibi red dit amicum. Quidquid amorem in altero excitat amicitiam foret. 8.
Quid quid amorem impedit, amicitiam tollit. Ex amoris defimtione ori untur
sequentia. 1. Qui alinm amat, ex illius felicitate deleciatur. 2. Quicumque
obligatur ad volupiatem ex aiterius fe licitate capiendan, obligatur ad alte
rum amandum. 3. Qui iubet, ut volup tatem ex a terius felicitate capiamus,
alterum, iubet, ! ť umemus. 4. Quid quid promovet voluptatem, ex alterius
felicitate capiendain, promovet amo rem. 5. Qui illum impedit, hunc sis tit. V.
Collatis inter se duabus illis de. finitionibus, nascitur. THEOREMA. Amicus
alterius feli. citate delectatur. DEMONSTRATIO. Qui alterum a. mat, alterius
felicitate delectatur (s. 1. ): amicus alteruu amat (§. III. cud 1. ); ergo
amicus alte rius felicitaie delectatur. 5. VI. Ex quo inmediata consequutico ne
cequentia fluunt, IV. AX Cop. IV. De Veritatis Inquisitione. 217 COROLLARIA. 1.
Anicus ergo ex amatae personaefelicitate nullo taedio afficitur. 2. Sed potius
ex eius infeli citate taedium sentit. S. VII. In quibus, quum taedii facta sit
mentio, perapte addi potest. SCHOLION. Est autem invidus, qui, ex alterius
felicitate taedium percipit misericors vero, quem alterius infelici. tatis
taedet. $. VIII. Hinc ergo habentur THEOREMA I. Amicus non est in vidus.
DEMONSTR. Invidus enim est, qili ob'alterius felicitatem taedio adficitur (S.
VII. ): Quod quum in amico non reperiatur: amicus " go non est invidus.
THEOREMA. Amicus est mise ' icors. DEMONSTR. Taedium enim percipit x personae
amatae infelicitate ) $. II. or. 2: ): quod quum dicatur coinmise atio (5. VII.
): amicus ergo commi eratione tangitur erga personum ama zm. §. IX. Nova rursus
inde sequenlur COROLLARIA. 1. Invidus ergo non si bonus amicus. 2. Qui ergo
nescit Tom. 1. 218 Logica Pars. Ij. > novae r'e commiserari alterius vices,
eumque ab infelicitate, dum potest, non vult eri pere, non se dicat amicum. 6.
X. Si meditatio continuetur inde sequentur veritates. Et quidem defi niendo
rursus notas voluptatis et felicita tis, maxima enunciationum seges adpare bit.
Sint ergo. DEFINITIONES. Voluptas sive delectatio est sensus perfectionis. 2.
For licitas est status durabilis gaudii.. XI. Ex quarum prima oriuntur
AXIOMAT'A. 1. Delectutio ex aliqua supponit eius bonitatem ac per feciionem,
earumque repraesentationem. 2. Quicumque obligatur ad sensum per fectionis in
altero promovendum, obli gatur. ad voluptatem in eo excitandum. 3. Oui - iubet
primum, praecipit secun dum. §. XII. Ex altera vero fluunt sequentia AXI. 1.
Qui alterius felicitate dele ctatur, ex eius statu durabilis gaudii voluptatem
capit. 2. Qui alterius statum durabilis gaudii promovet, eius felici tatem
promovet. 3. Qui illud iubet, hoc quoque iubet. 4 Quicumque obligatur ad primum,
obligatur ad secundum. 1. XIII. Conferantur definitiones cum antecedentibus,
indeque nasceutur. Cap. VI. De Veritatis Inquisitione. THEOREMA I. Amicus
alterius feli citatem sibi, tamquam bonum, reprae sentat. DEMONSTR. Alterius
enim felicita te delectatur ($. V. ): quod quum fie ri nequeat, nisi illam sibi,
iamquam bonum, repravsentet. Ergo amicus alterius felicitatem sibi tamquam
bonum, repraesentat. THEOREMA II. Amicus delectatur alterius statu durabilis
gaudii. DEMONSTR. Quum enim ex alterius felicitate delectetur; felicitas vero
sit status durabilis gaudii (S. X. def. 2. ): ex hoc patet, amicum, quo que va
luptatem percipere, THEOREMA. Amicus alterius gauuium durabile sibi, tamquam
bonum repraesentat. DEMONSTR. Eius namque statu de lectatur (per theor. 2. ),
quod fieri non potest, nisi id, tamquam bonum, sibi repraesentet. Ergo amicus
alterius gaudiun durabile si bi, tamquambonum, repraesentat. §. XIV. SCHOLION.
His praemissio succurrit lex appetitus, qua anima id, quod sibi, tamquam bonum
repraesen tal, adpetit, et promovere studet. Plurimae hinc propositiones de
duci poterunt. Et quidem THEOREMA. Amicus alterius felici tatem, idest gaudium
durabile, adpe tit, et promovere studet. DEMONSTR. Omne, quod nobis, tamqnam
bonum, repraesentamus, ad petimus et promovere studemus (XIV. ) amicus sibi
alterius felicitatem statum que durabilis gaudii, tamquam bonum, repraeseníat:
er go ea omnia adpeiit; et promovere stil det. *. XVI. Ex quo, sponte manant,
COROLLARIA. Ergo amicus om nia cavet, quae alterum taedio affi ciunt 2. nec
ullam omittit occasionem quai personae amatae iucunditatem et voluptatem
promovere possit. S. XVII. Durabilis gaudii porro notio nem evolvendo occurret.
DEFINITIO. Durabile gaudium est voluptas eminentior ex possessione ve iarum
perfectionum grta. 9. XVI. Ex qua ultro sese off -rt. AXIOMA. Qui alterius
gaudium du rabile promovet, eius quoque proinovet perfectiones. Atque inde
exurget novum THEOREMA. Amicus alterius per fectiones promovet. DEMONSTR. Eius
enim gaudium durabile promovet ($. XV. ), quod idem est ac promovere eius
perfections. F. XX. SCHOL. Est autem
legis Natu rae iussum: Tuas aliorumque promove to perfectiones. S. XXI. Jude
ergo oriuntur. COROLLARIA. 1. Amicus ergo legem Naturae observat 2. Nos ergo
obligati sumus ad amicitiam colendam, 3. Adeoque,qui homines sibi reddit ini.
micos Naturae legem violat. 4. Vo. luntati ergo Divinae: conveniens est, ut
aliis simils amici. etc. Haec brevi meditatione compertae sunt veritates, Quod
si modilatio aliquamdiu proferretur, dici non potest, quot novae propositiones
exurgerent. Huic autem exer citationi si adolescentes adsueverint, aut nostra
nos fallit opivio, aut sine multa lectione, brevi tempore, minimoque la bore
Philosophi acutissimi evadent. K 3 2? 222 Logica Pars IT S E C T I O. II. De
librorum lectione. Q" non 174 Vum intellectus noster arctis simis sit
limitibus circumscrip tus, atque adeo veritatibus omnibus pro pria meditatione
eruendis incapax:facile est and intelligendnm, cur aliorum scripta le genda
sint, ut quae proprio marte possumus, ab alis detecta inueniamus. Sed quia non
omnia ab omnibus adcurate scri pta, plerique etiam intellectus voluntatis vitio
laborant, ideoque errare possunt: cautio quaedam adhibenda est in legendis
eorum libris, ac proinde Lo gicae interest praecepta tradere, quibns in jis ad
examen revocandis, dijudicandisqne veritatibus ab aliis inventis aut exaratis
mens dirigatur: id quod in praesenti se ctione docendum. 175. LIBER est aut
HISTORICVS, aut ŚCIENTIFICVS.Ille, in quo facta, seu enunciationes singulares;
hic, in quo pro positiones universales et dogmata traduntor.* * Hac librorum
divisione nulla alia exactior. Quorum eum librorum habemus notitiam, Cap. VI.
De Veritatis Inquisitione. 223 nihil, nisi duorum, quae enunciavimus, ar
gumentorum alterutrum esse potest obiectum Patet ergo ratio, cur libros omnes
in histo ricos, et didacticos sive scientificos distri buerimus. 176. HISTORIA,
quum sit rerum quae acciderunt fidelis narratio (S. 147. ), facta vero vel
Naturae opera, vel Societatem vel fidelium communionem nempe Eccle siam, vel
deniqne litterariam Rempublicain spectent, esse potest NATVRALIS, ClVILIS,
ECCLESIASTICA, vel LITTERARIA. * Rursus quoniam omnium, aut quo rumdam, vel
alicuius ex quatuor illis, fa cta refert, dividitnr in UNIVERSALEM,
PARTICULAREM, et SINGULAREM. Jarum prima Naturae opera enumerat, altera hominum
vices et facta commemorat, iertia Ecclesiae vicissitudines et annalia narrat,
po strema vel disciplinarum et librorum, vel eru ditorum vitas et fata omnia
refert. ** Historia Naturalis ergo erit VNIVERSA LIS, si omnia in ea Naturae
opera eno dentur; PARTICVLARIS si alicuius tantum classis, veluti ex Regno
vegetabili, fossili, ani mali etc. SINGVLARIS si alicuius tantummo do plantae,
lapidis, metalli, aut viventis inventio, usus, incrementum etc, narrentur. K 4
224 Logica Pars II. civili, ecclesiastica, et litteraria, de quibus plura coram
177. Quia libri vel scripta ideo. legun tur ut veritates ab aliis inventae et
dete ctae discántur (5. 274. ); ea vero verbis referta sunt, ut auctoris sensus
intelliga. tur (§. 160. ), idest eaedem ideae ver bis adsignentur, quas Auctor
cum iis con iunxit (S. eod. ): per se patet genera lis in legendo servandus.
CΑΝΟΝ. IMN legendis, aliorum scriptis curato, uit easdem notiones cum verbis
con iungas, quas Auctor voluit iisdem adfigi. 178. Ex quo legitima
consequutione na scitur i. in cuiuscumque libri lectione at tendendum esse ad
definitiones, quibus sin gularum significatio determinatur, vel and conceptum
ab usu loquendi tributum 11s, quae sine definitione adsumuntur. Et quia claras
ideas ac distinctas adquirere si ne attentione non possumus (9. 19. ): se
quitur 2. ut ad id potissimum requiratur attentio, crebriorque repetitio, in
libris praecipue historicis ut facta facilius me inoriae mandentur. * 9 Cap.
VI. De Veritatis Inquisitione. 225 * Vide quae de attentione ac repetitione
dixi mus in Part. I. cap. 1. Seol. can. ult. 179. Et quoniam in historia tria
potis simum spectantur, nempe veritas, ordo ac finis, facile patet 3. in libris
histori cis legendis attendi debere ' ad rerum sive factorum veritatem, ad
eorum ordinem et legitimam seriem et ad finem an sci licet liber Auctoris scopo
respondeat. > * Pro diiudicanda rerum VERITATE, bislo ricae probabilitatis
regulae traditae sunt($.152. seqq. ). ORDO vero tuin in locorum, tuna in
temporis circumstantiis consistit. Eius ergo legiiimitatem quoad loca
suppeditat GEO GRAPHIA, circa teinporis autem seriem CHRONOLOGIA. FINIS demum
ex üsdem scriptis abunde patebit, adeoque, an ei res pondeant, ex eorum
lectione diiudicari pote rit Historiae nituralis finis est obiecta rario ra
adcurate describere, phaenomeni alicuius cuncta notatıı digna, partiunqne nexum
di stincte exponere; Civilis est politices civilis que prudentiae regulas
exemplis et factis con firmare; Ecclesiasticae scopus est, statum Ecciesiae,
incrementin, in file costantiain, in profligandis erroribus - prudentiam Su
premi item Numinis, in ea conservanda au gondaque Providentiam, 2 gelis,
ostendere; Litteraria? tandeſ, inveniendi arlena, quam EVRISTICAM vocant, aptis
aliaque id K 5 226 Logica Pars II: subsidiis, et veritatum a veteribus invenla
rum cognitione perficere. Cognito itaque libri scopo, restat ut attente legatur
(S. 178. ) statimque innotescet, utrum suo fini respon deat. 1 180. De librorum
scientificorum lectio ne sat erit, si pauca degustemus. Quo niam in scriptis
didacticis methodus reqni rit, ut nullus adsumatur terminus, nisi notionem
habeat sibi adiunctam, atque ut ea praemittantur, per quae sequentia in
telliguntur: consequens est 4. ut in iis legendis singulae veritates prius in
classes dispescantur, ibique videatur utrum ad principia an ad propositiones iu
de deductis pertincant; deinde 5. ad sin gulas voces et notiones jis ab Auctore
ad fixas attendatur; (ac deni que 6. ut legens veritates antecedentes si bi
reddat familiares, nedum demonstratio nes in syllogismos resolvat, in quibus
vi. deat, si quid doli contineatur. 181. In scriptorum porro didacticorum
examine ad eorum dotes potissimum respi ciendum, de quibus sequenti capite age.
mus. Id unum porro meminisse juvabit; ad illorum examen conficiendum requiri
absolụtam et continuatam libri lectionem, Cap. VII. De l'erit. comm. 227
attenta mque veritatum earumque nexus con templationem: * quae omnia si desint,
le ctio dicetur SUPERFICIARIA. * Ad id ergo ineptissimi videntur scioli quidam
in sola romanensiiim fabellarum lectione ver sati, qui in dijudicandis per
tabernas comoe diis scurrilibus, aut ephemeridibus omnia studia sua contulerunt;
vel adolescentuli vo culis tantum, phrasibusque meinoriae infi gendis adsueti,
qui vix e paedagogorum fe rula manum subduxerunt: " Requiritur autem
laboris patientia, attentio, mens methodo ac meditationi adsuefacta, non vero
in expen ex. dendis rerum corticibus solo sensuum et phan tasiae ductu
exercita. OVampdoquidem a Platone * monitum non praeclare, non est no bis solum
nati sumus, adeoque nec nobis sed aliorum commoda pro movere debemus: veritates
a nobis dete ctas, vel quae ab aliis inven tae nobis ope lectionis innotuerunt,
aliis proponere Natura obligamur. Qui vero verbis alium ad ignotarum veri talum
cognitionem perducit, is eum Do 5 K 6 228 Logica Pars. Ir. CERE dicitur adeoque
DOCTOR CO gnominatur. 7 * Ip Ep. ad Archytam Tarentium. Vid. Cic. de Fin. Lib.
II. cap. 14. ** Latius hic patet docendi vocabulum, qu am a Cicerone de Offic.
Prooem. usurpatur. Id ve ro ex definitione admodum completa prono, ut aiunt,
alveo fluit. Ceterum in hoc usum loquendi sequuti sumus: vulgari namque ser
mone tritum est, Magistrorum alios esse vi VOS, alios mortuos, qui Scriptorum
vel Auctorum nomine distinguuntur, ita ut libros melonymicę magistros mortuos
vulgo appel lent. 183. Et quoniam verba vel voce profe runtur, vel scripto
exaranțur (S. 42. ): patet, duplicem esse docendi modum, vo ce scilicet, atque
scriptis; adeoque MA GISTRUM dici debere, tam eum qui li þros in lucem edit,
quam cum qui in A cademiis iuventutem instruit. Speciatim autem in sequentibus
eum, qui scripta didactica (de quibus hic tantum ser mo est ) conficit,
SCRIPTOREM vel AU. CTOREM; eum vero, qui adolescentes ro ce docet DOCENTEM,
DOCTOREM, MAGISTRVM dicemus: idque ad evitan dam confusionem, atque inutilem
verborum repetitionem. Sed quia doctrinam hanc in dus as dividere instituimus
sectiones, nt de utri Cap. VII. De Verit. commun. 229 se esse usque virtutibus
ac vitiis aliqua dicere posse mus: nunc, quae utrique communia sunt,
dispiciemus. Ad calcem denique capitis quae dam de discentium dotibus ae naevis
com pendii loco addemus. 184. Quia vero docents est, alios ad ignotaruin
veritatum cognitiovem prducere; cognitio avlein debet certa et distincta eaque
vel a posteriori vel a priori: consegucas esi 1. ut lectores vel auditores de
veritatibus certi reddendi sint, adeoque 2, indiciis sufficientibus at que
inf.l.bilibus ad veritatis cognitionem adducendi ($. 1: 4. ). quod ut fiat, 0
portet 5. ut docens ab iis intelligatur, ideoque 4. sit perspicuus, ad quod
requiritur 5. ut artein, in qua versatur, distincte intelligat * ($. 24 ) 6.
bonam methodum rigide servet (. 138. seqq. ), 7. et si quid implicatum confu
suinque occurrat, distincte explicet. > * Criterium enim notionis distinctae
est, si cum aliis eam possimus per verba communi Care: nisi ergo distincta
artis suae docens cognitione gaudeat, fieri non potest, ut eius praecepta
perspicue aliis proponere queat. CONVICTIO est actio, qua al terum de veritate
certum reddimus. Quod quum fiat demoustrationis ope (. 133. ) quisque videt,
convictionem sola demon stratione absolvi. * Ex quo liquet 8. do centem alios
de veritate, quam docet, debere convincere, ** ac proinde 9. pro babilibus
argumentis uti ei non licere: *** nisi res talis sit, ut sola probabilita te
cognosci possit. * Quoniam ergo convictio demonstratione ab solvitur
demonstratio vero est vel directa vel indirecta, vel a priori vel a poste riori:
non abs re convictioni ea dem nomina, prout veritates demonstrantur, a
Philosophis tributa sunt. ** Vt vero rationis pondus in convincendo ani mum
sese insinuet, oportet, ut iHe sit atten tus, in demonstrationibus versatus, et
talis; qui rationum momenta perpendere possit. Quapropter solidis
demonstrationibus, non conviciis, irrisionibus, dictisque iniuriam in
ferentibus ad veritatem est trahendus. Convi cia nanque odium iramque pariunt,
et atten tionem turbant. *** Dici haec solet PERSUASIO, quae quum sit
rationibus insufficientibus innixa, convi ctio dici nequit, quippe quae a
convictione longe multumque distat. " Hinc vides, convictio sit
Philosophcrum propria, perсиг Cap. VII. De Verit. commun. 231 suasio vero
Oratorum, qui in investigatione verosimilium argumentorum versantur, quan tum
sufficiat ad caussam probabilem redden dam, de quo conferendus est Cicero de In
vent. cap. * 186. SOLIDITAS est completa artis, quam profitemur, methodique
cognitio, Hinc ergo patet 10 maximam et praeci puam doceotium dotem esse
soliditatem, adeoque 11. litteratos superficiarios es se ad scribendum aeque,
ac docendum ineptos. * Vitium vero soliditati oppositum in speciali bus
tractationibus infra explicabimus. Ad eas itaque progrediamur, SECTIO I. De
Librorum dotibus. IBER, in quo veritates continen tur, SCIENTIFICVS dicitur,
alio nomine SCRIPTUM DIDACTICVM. Eius dotes sunt SOLIDITAS, PERSPICVITAS, METHODVS,
et SVFFICIENTIA. SOLIDITAS consistit in principio rum firmitate, ac
deinonstrationum stabi 232 Logica Pars II. bilate. Solidus ergo dicitur liber
1. si eius dim principia certa fuerint atque indubia ($. 150. ), 3. si
propositiones singulae rig de sini demonstratae, si bona me thodus in
demonstrando adbibita pec in
demonstrando cir culus irrepserit. Si vero bonae methodi leges fuerint negle
ctae, tunc liber SVPERFICIARVS dice tur. Huiusmodi vero libris Rempublicam ca
rere litterariam, foret maguopere optandum. 189. PERSPICVITAS in verborum pro
prietate, iustaque eorum cum ideis pro portione sita est. Verborum PROPRIETAS
es'git, ut voces omnis secundum usum loquendi fixo sign ficatu adbibeantur, adcuratisque
definitionibus deter spineniar. Iusta verborum cum ideis PROFORTIÓ requirit, ut
liber non sit prolixior, nec brevior, quam scopo SIO conveniat. * Quemadmodum
enim prolixitas verborum mul titudine mentem obruit: ita et nimia brevi tas
Auctoris sensum occultat, adeoque am bae oliscuritatem pariunt, scilicet vitium
per spicuitati oppositum Vid. Heinec. Fundam. Stili culiior. Part. S. cap. 2 §.
50. Cap. VII.De Verit. comm un. nexu 190. METHODVS in eo est ut veri tates ex
veritatibus et principiata, ut aiunt, ex principiis legitimo et continuo sint
deducta, nihilque confusionis vel perturbationis inveniatur; denique si ea
praecesserint, per quae sequentia intel. ligi possunt. SVFFICIENTIA tandem id
exigit, ut liber sit COMPLETVS, idest veritates et propositiones exhibeat
Auctoris fin i suf ficientes: qui namque finem non ahso lvit, INCOMPLETVS
adpellatur. * Longum valde foret, si sufficientiae particu lares characteres,
hoc est fines lot tantorum que librorum percurrere vellemus. Sufficiat tamen
generales eiusdem notas evolvisse: id enim ex attenta cuinsque libri lectione
quisque poterit diiudicare. 192. SYSTEVIA est congeries verita tum inter se
connexurum, et a prin cipiis suis legitime deductarum. Et quia id quatuor, quas
recensuimus, dotibus absolvitur: hinc est, ut Logici dicant, librum quemcumque
scien titicum systematice scribi oportere. * Non omnes tamen qui libros
scribunt systema conficere possunt; sed ii tantum qui veritates a se detectas,
et ad eumdem 234 Logica Pars IT. > scopum tendentes in libros referunt.
Eorum autem, qui alienis laboribus insudant, alii sunt COMPILATORES, qui
aliorum opera hinc inde dispersa colligunt, atque in lucem edunt, mulla ordinis
habita ratione; E PITOMATORES qui brevius aliorum scripta prolixiora componunt.
Et hi qui dem reprehensionem numquam, quandoque vero laudem (illi praecipue )
ab eruditorum universitate reportant. Sunt vero quidam, qui aliorum scripta
suffurantes ea typis man dant, impudentique fronte suo nomine inscrie bunt,
iique PLAGIARII nuncupantur. De his autem quidnam dicendum, sit, omnes no runt.
SECTIO II. De Doctorum virtutibus et vitis. DOCTO OCTOR appellatur, qui alios
voce ad rerum ignotarum co gnitionem perducit, vcos de veritatibus, qnas tradit,
certos reddit, atque convincit. Eius virtutes partim ab inte !lectu, par tim a
natura, partim a voluntate penden tes, sunt quatuor: ab intellectu SOLIDITAS,
et in doendo PRUDENTIA; a na tura DOCENDI DONUM; a volnntate ve ro AMOR. De
singulis pauca disquiremus. Cap. VII. De Verit. Commun. Ex doctoris definitione
sequitur 1. ut generales docentis characte res possidere debeat is, qui
doctoris munere fungi vult; adeoque 2. prima et praecipua eius virtus sit SOLIDITAS
qua fit 3. ut res abstractas et intellectu difficiles exemplis illustret, at
que propositionum omnium sive a se, si ve ab aliis enunciataruin analysin
instituat. Nisi enim exemplis ac similitudinibus res dif ficiles illustrentur,
aegre ab auditoribus au dietur, quibus abstrahendi ars vel ignota prorsus est,
vel laboriosa: adeoque taedium concipientes attentione carebunt nihilque
intelligentes doctorem fine suo frustrabunt. 195. Quia vero doctor auditores
suos de veritate cerlos reddere debet (S. 184. ); ad certitudinem autem ducit
demonstratio: consequens est 5. nt scientia praeditus, verborum facilitate in fructus
ct ad rationem de omnibus red dendain promlus esse debeat. Et quia au ditores
convincendi sunt, et ad hoc in eis attentio requiritur: patet 6. Doctorem
DOCENDI DONO in. signitum esse debere, idest dicendi promti tudine et suavitate,
quo deficiente, ad proprium munus obeundum ineptus erit. 236 Logica Pars II.
parvum in eo 9 a do * Vt enim auditor sit attentus, cavere debet qui eum docet,
ne taedio, eum adficiat. Tae dium autem haud excita bit, si verborum inopia,
dicendi infelici tate, animique imbecillitate laboret. Eo nam que casu non modo
attentionem minuet sed et illius ludibrio se exponet. Qui ergo se huiusmodi
suavitate ac promtitudine senserit destitutum, ei auctores fuerimus, ut cendi
munere se abstineat, si operae preti um perdere nolit. 196. Quoniam autem non
eadein omni bus est adolescentibus perspicacia, que non tam voce, quam exemplo
erudiuntur: liquido infertur 7. ut doctor facoltate gau deat doctrinas ad
discentium captum ge niumgne adcommodandi. ac media ad fi nem rite disponendi,
nec non 8. in ex sequendis praeceptis auditores manuducat, seque iis pracheat
antecessorem: praecipue veio 9. si in moralibus vitaque civili ver setur
institutic, animum ipse prius ad vir tutem instruat, ut ad hoc vivum exemplar
omnes conformari studeant. * Et hoc est, quod dici soiet PRVDENTIA INDOCENDO. *
Si namque docentis actiones a praeceptis dis crepent, nequicquam laborum suorum
fru ctum exspectabit, et adolescentes exemplum potius malum, quam bonam vocem
sequuti Cap. VII. De verit. commun. 237 nihil, praeter praeceptoris imitationem,
prae se ferent: quum bene monuerit Iuvenalis: Omnes duciles sumus pravis ac turpibus
imi tandis suos.Postrema doctoris virtus eaque magni momenti, est AMOR erga
Quum enim in erudiendis pueris aut ado lescentibus permulta opus sit fidelitate
inserviendi promtitudine, patientia patientia, et labore haec auien omma nisi
ab iis, qui nos amant, sperare non possumus: recte infertur 10. doctorem
sincero audi tores suos amore prosequi; adeoque 11. et studio; 7 commoda
promoveadi adfcctum esse debere. eorum * Quam necessaria sit haec in doctore
virtus, ex sequentibus alimde patebii. Si namque amor deficiat, et studium
deerit disceniium utilitati inserviendi: ac proinde pro doctore exsurget
mercenarius vel utilitati, vel existi mationi propriae consulens; et tanc nec
morun ratio umquam habebitur, et omnes lucri fa cendi artes promovebuntur. Si
haec omnia ponantor, habebimns magistrum, vel leo poribus inservientem, in
muneris exercitio ne gligentem, timidum, sui dumtaxat studio abreptum, et ad
vilissima quaeqne facilem; vel inaccessibilem, clatum, ' omnia sibi per
mitientem, quandoque etiam garrulum, ét e cathedra, tamquam e suggestu, aliorum
no mina lacerantem, quo tutius possit de suis virtutibus declamare. 198. Si
virtutum quas recensuimus opposita evolvautur, illico doctorum vi tia ad
parebunt, quae breviter enumera bimus. Eorum primum et praecipuum est IMPERITIA,
idest artis methodique-igno. ratio. Huius effectus sunt 1. obscuritas, qua fit,
ut talis doctor terminis inanibus, vagis obscuris, nec recte definitis sit con
tentus, resque difficiles exemplis illustrare nequeat: 2. confusio quae methodi
negli gentiam, analyseos ignorantiam, ac con vincendi impoientiam parit: 3.
docendi ineptitudo; quum enim ars ignoratur et methodus, deficit prompitudo et
suavitas, quibus ducendi donum absolvitur * (S. 95.): 4. molesta prolixilas,
aut obscurabre vitas; ignorata namque arte vocabula quoque technica ignorantur,
quo fit, ut vel inanibus circumloquutionibus, vel paucis et insufficientibus
rei explicandae verbis uta tur: 5. superfluorum tractatio et necessa riorum
omissio, quam veram ignorantiae causam esse ait Sencea (S. 103. * ): 6. ser
monis barbarics, cui proxima est obscuri. tas et taediuin, adeoque ad minuendam
ten dit attentionem. Non desunt equidem, qui naturali quodam suavitatis defectu
laborantes nec genio, nec captui auditorum se accommodare sciunt, li cet
doctissimi sint et omnimoda, eruditione praediti. Naturalis autem haec
imbecillitas non inter vitia sed inter defectus est referen da, adeoque
imperitia dici neqnit. Quamvis enim huiusmodi doctoribus lepor desit: me diorum
tamen excogitatio aliaqne pruden tiae subsidia praesto sunt. Ineptitudinis ergo
caussa non alia adsignari debet, quam impe ritia, scilicet soliditatis
absentia. > 199. Alterum doctoris vitium a primo oilum ducens est
IMPRVDENTIA in docendo, quae in caussa est, ut auditorum Caplui genioque se
adcommodare, atque media ad finem ducentia excogitare, ac proinde animis morbo
aliquo laborantibus mederi nesciat. Quae enim prudentia in imperito?
Imprudentiae quoque debetur illa paedagogo rum imbecillitas, qua inter se
invicem de futilibus inoptisque rebus decertantes, vel aliis invidentes
discentium animos adversus aemulos stimulanti. et ad pueriles irrisiones
dicacitatesque concitant: quo fit, ut ipsi in spretum et abietionem incidant,
adolescentes contra pessimos, audaces, ridiculosque mo res induant. 240 Logica
Pars II. 200. Ad voluntatis vitia, quae amorem excludunt, referuntur: AMBITIO,
si ve nimia gloriae laudisque cupiditas, qua fit, ut vana eruditionis, autº
eloquentiae ostentatione, nimioque sermonis fuco di sciplinarum praecepta non
explicentur, sed implicentur, propriaeque existimationi potius, quam discentium
utilitati doctores consulant. - 3. AVARITIA, quae omnia trabit commodum
efficitque, ut sola sit utilitas iusti prope mater et aequi: VOLVPTATIS CONSECTATIO,
quae ignaviam, laboris im pa tientiam oilierique neglectum parit, atque
soliditatis defecium arguit, quum bene monterit Genuensis.noster: difficile
esse reperire hominem vere doctum simul autem et mollem, ad suum > * * * *
Inde quoque fluxit Cynicus iile mos, et ef fraenis alios lacerandi consuetndo,
quae in caussa fuit, ut de quorumdam adolescentum petnlantia ad satyras
proclivium emunctae nae ris homines conquesti · gint: videbant enim pravam
consuetudinen a pessimo doctorum exemplo vatan in naturam paullatim ac cor
ruptionem abituran Ex codem tandem fons te manat ctiam illa docentium
praesumtio, qui, ne discipulus supra magistrum esse vie deatur, vel aliquot
sublimiores doctrinas sla Cap. VII. De verit: commun. 241 bi solis reservant,
vel sublimia auditornm in genia deprimunt ac despiciunt. Praeterquam quod
ambitio in doctoribus novitatis amorem gignit, eosque opinionum singularium et
ab surdarum, saepe etiam impietatis studiosos efficit: id quod maximo
adolescentihus detri mento est, praecipue quum auctoritatis prae indicium
altius in iis radices agat. Vid Hei nec. Ethic. l. 77. ** Quando quis avaritiae
studet, non aliorum, sed sua tantum commoda promovet, idque per fas an nefas,
nihil sua referre videtur. Hinc auditorum quosdam opibus pellantes, vel
praeceptorum gratiam muneribus ementes reliquis praeferunt, eos seorsum
instruunt, ac speciali cura in aliquibns reconditis rebus erudiunt, eaque
praedilectione prosequuntur, ut se aliorum odio, invidiae vero illos expo nant,
adeoque nihil neque hi pro. ficiant. *** Art. Logicocritic. Lib. I. cap. Voluptati
nanque dediti plerumque sunt ignavi, desides, et laboris impatientes; atque
inde fit, ut non satis praeparati ad doces dum accedcntes in lycaeo quidquid in
buccain vererit effutiant, et quia ex abundantia cor dis, ut Servator ait, os
loquitur, bonos persaepe mores verbis factisme corrumpant. Delicatuli isti suat
etiam meticulosi, adeoque veritatem, quam alias intrepido vultu, si ri te
munere suo fungi vellent, dicere debe ne aliorum indignationen incurruni Tom.
I. L neque illi reni, ) 242 Logica Pars II. aut dissimulant, aut tegunt, aut (quod
val de dolendum ) foede corrumpunt. Praeterea in huiusmodi hominibus ridicula
quaedam et thrasonica reperitur ambitio, scilicet paedan tismus', quo furentes
nusquam, nisi de suis rebus gestis plurima exaggeranti, auditorum, que risui se
exponunt. 201 • Superest, ut doctrinae usum do etorumque officia exponamus, ut
si qui munus hoc inire cupiunt, bene incipere, feliciusque prosequi possini.
Quicunque cr go ad istruendam iuventutem animum ad. pellis, hos diligenter
observato: CANON ES. Avditores eligito perspicaces, mui toque supientiae umore
Nagrantes. Eo rum porro attentionem excitato sae pius, ac vitia, quibus eos
laborare per cipis, prudenter sensimque corrigito. 2. Doctoris munus, nisi
solida artis methodique cognitione imbutus, ne te mere suscipito: idque summa
fidelitate, prucuttia, ac sincero erga discentes amore absolvito. 3.
Adolescentes in moralibus civili Cap. VII. De Verit. comm. 243 busque
disciplinis non tam voce, quam exemplis erudito. Evidentissimum numiz que,
teste Augustino, docendi genus est subiectio exemplorum. 4. Religionis amorem,
morumque in tegritatem in discentibus foveto, neque te illis familiarem nimis
reddito, ne, excusso subiectionis fraeno, doctores parvipendentes nihil
proficiant, et ad pessima quaeque praecipites ruant. "De Discentium
dotibus ac naevisn's 202, Am de dotibus IAm vitiisque discça tium pauca
apperidicis loco ad damus. Eorum est de veritatibus certos reddi; solidache
imbui co gnitione, quae non nisi es claris distinctisque oritur notionibus. Ad
claras vero ac distinctas ideas adquirendas requiritur attentio et libertas a
praeiudiciis: Quidquid ergo attentionem tur bat, vel praeiudicia fovet, ab iis
abesse debet. 203. Priina ergo et maxima discentium dos est BONA NENS,
DOCILITAS, ATTENTIO sincerus erga stu. dia et docentes AMOR, LABORIS PATIENTIA et otii fuga, + 6. de. nique
ANIMI SOLITUDO. It * Bonae mentis vocabulo intelligimus non mo do naturalem
ingenii perspicaciam, cuius de fectus hominem reddit cognitionis incapacem,
verum etiam animum bene educatum vcrae que Relligionis amantem: quum Divino
oracu lo monituin sit initiuin om nis sapientiae esse timorem Domini. Hoc est libertas a praeiudiciis,ut supra di
clum est, animique inclinatio ad quaecunque praecepta ediscenda, et ad pra xin
adplicanda. ID adeo Si namque Doctores et studia amemus, his sedulam navamus
operam, illosque atter te auscultamus: si vero amor hinc absit, taedium
supervenit., attentio minuitur, que aut parum aut nihil in studiis profie mus.
| Laboris enim impatientia ignorantiae cause est, ut dixiinus; quoniam veri
tates vel propria meditatioue vel Aucts rum lectione inveniuntur, medtatio vero
perinde ac lectio laborem cai gunt, ut ex superioribus abunde constat. De
verit. eomm. 245 # Multitudo namque non modo praeiudicio rum fons est sed at
tentionem quoque distrahit aut saltem mi nuit: adeoque solum oportet esse, qui
sa pientiae sentit amorem. Ex iisdem principiis sponte manant discentium vitia,
qualia sunt 1. Religionis spretus, quem conse quitur voluntaria praeiudiciis
adhaesio, 2. mentis hebetudo, 3. attentionis distra ctio, 4. otium et laboris
impatientia a dolescenlibus familiarissima, 4. aversio a studiis vel doctoribus,
6. denique spe ctaculorum, multitudinis, et sodalita tum amor, quo fit, ut
attentio distraha tur ($. 40. Schol. Can. 5. ), et ad voluptatem inde ac
perditionem praccipiti Cursu ruant. Schol. Quae de discentium officiis tra
lendae forent regulae, eae ab eadem do trina huc usque exposita facile deduci
po erunt. Quapropter hic a canonum addi tione con mode abstinemus. De
litterario certamine. zv ERTAMINIS LITTERARII no Emine intelligimus quascumque
disputationes, quae pro veritatis disquisitione vel diiudicatione instituuntur.
Hae disceptationes similiter vel scriptis, vel vo. ce liont: et quidem SCRIPTO,
vel alio rum errores confutamus, vel nosmet ab eorum imputationibus defendimus:
VOCE autem rationes utrinque conficiuntur, et ad examen revocantur. Si ergo
alterius errores scripto detegantur, actio haec dicilnr CONFITATIO; si pro
positiones ab alterius impugnatione vindicentur, DEFENSIO, si denique coram
disce platio instituatur, propio nomine DISPVTATIO adpellatur. De harum qualibet
diversis sectionibus agemus qua alium erroris convincimus. Ex qua definitione
patet 1. confutantem de Cdium erroris convincimus. Ex bere falsitatem
propositionis, quam alter pro vera asseruit demonstrare, idque a priori vel a
posteriori, directe aut apogogice indiciis sufficientibus, hoc est principiis
demonstrandi certis ei utendum esse. Etquia eadem propositio non potest esse
simul vera et falsa (alias in contradictionem inpingeretur ): evidens est.
propositio nem legitime denionstratam confutari non posse, adeoque. eius
demonstration, nem esse contrariae confutationem. Antequam vero confutatio
instituatur opore tet STATVM QVAESTIONIS conficere, idest verum suctoris sensum
intelligere, ut propositionem falsam ex ipsius auctoris men le demonstret. Eo
enim ipso vitabitur LOGOMACHIA, qua propositio vera impetitur, cuius veritas,
licet ab adversario sit cognita, aliis tamen verbis expriiuiiur et impugnatur,
adeoquc insurgit quaestio de verbis. Vid. Weienfelsium de logomachiis
eruditorum. Si vero indicia fuerint insufficientia, scilicet principia
probabilia et precaria, tunc non con L'utilis, sed IMPVGNATIO dicetur.
Impugnari tamen potest, nempe dubiis au dificultatibus quisbusdam subiici, ut eius
veritas clarius elucescat, nec ulla remaneat op positi suspicio, id quod infra
in Seet. 3. docebimus. Quoniam confutatio ost convictio; haec autein requirit,
ut con vincendus sit attentus, nec adfectus in eo attentionem turbantes
exciteptur: liquido infertur 5. confutantem ea omnia quae attentionem in altero
per turbant, atque adfectus excitant, vitare debere; consequenter 6. a
conviciis, ir risionibus, vel consequeniiis periculosis, quae confutandi famam laetlunt,
abstinen dum esse. Sunt autem PERICVLOSAE huiusmodi CONSEQVENTIAE, quae non
quidem ex genui no Auctoris sensi, sed ex confutantis opi nione eruuntur,
quaeque non veritatis de fendendae gratia deducuntur, sed ut adver sarii fama
in discrimen vocetur, isque alio rum ludibrio exponatur. Harum porro con
sequentiaruin confectores proprio nomine CONSEQVENTIARII vocantur. 208. Qaum
ergo consequentiae pericu losae aliorum odium Auctori concilient eique invidiam
creent: non abs re a Philosophis argumenta ab invi L4 1 + Cap. ult. de titt.
cerlamine. 249 * dia fuerunt appellatae. Ex quo patet ARGUMENTUM AB INVIDIA
ductum in confutando sollicite esse vitandum; a deoque 8.non abs re
consequentiarios a Wolfio PERSECUTORES cognominari. * Logic. Lat. pag. 752.
Idque iure merito. Nam confutator vere dicitur, qui veritatem ab al terius
paralogismis vindicare studet. At qui non veritatem, sed adversarii famam perse
quitur, nullo inodo confutator dicendus est, sed alterius persecutor, quia id
non rationis auxilio, sed invidiae stimulo perficit. Schol. Quoniam itaque in
confutante solius veritatis amor exigitur: ut in con futatione nihil vel
minimum peccetur, hos qui sequuntur, servare curato. CAN ONE S. I. A, D
confutandum solo veritatis a more, non odio adversus alte rum ductus accedito.
Adversarium soli dis rationibus non conviciis, dictisve famae nocentibus de
errore et falsitate convincito. 2. Si obscuro impropriove stilo ad edəssarius
scripsit, ut dictionem corriagat, seque intelligendum praestet, ad wertito. Si
quid ab altero in demonstran do peccatum, sive principia falsa sint, sive
connexio illegitima, cuncta distincte modesteque patefacito. Demonstrationis
rigidus custos principiorum diligens investigator esto, ne tibi ab adversario
nota inuratur. E tenim TURPE EST DOCTORI, QUUM CULPA RE DARGUIT IPSUM. DEFENSIO
est propositionis ab alterius impugnatione vindi catio. Ex eadem ergo
definitione sequitur 1. ut propositio legitime confutata defen din non possit,
ut et 2. ad defensionem propositionis sufficiat eius veritatem solide
demonstrare, aut 3. si de terminis tan tum quaestio sit, eos adcuratis definitio
nibus determinare. Duobus vero modis defensio insti taitur. Vel enim
propositionis veritatem ab alterius impugnatione vindicamus, vel Cap. ult. De
litt. ccrtumine. 251 impugnantis errores itidem detegimus. Pri mae classis
seripla dicuntur APOLOGE TICA; alterius vero POLEMICA vel E RISTICA. * jin, *
Horum quidem scriptorum minorem num rum Respublica optaret litteraria. His nam
que nec veritas invenitur, nec ratio perfici tur, sed contentiones animique
perturbatio nes aluntur, nulla prorsus utilitate, magno autem Societatis, ac
iuventutis studiosae malo.? 211. Defendenti ergo, ne a recto. aber ret,
Sequentes proponimus., C ANONES. 1. PhoRopositionem a te légitime demon Stratam,
aut notionem cum ver bis rite ' conjunctam ab alterius cuiusvis impugnatione ne
defendito. Pro të nam que evidentia pugnabito?? 2. Eius, qui te maledictis
conviciis que laesit, scriptis modesto respondeto silentio. * la cedendo victor
abibis. * Si namque simili stilo, respondeas, nullum operae pretium facies,
adversarii petulantiam temeritate lua iustificabis, inque idem vitium incides,
quod in alio reprehendis. Quidquid ab altero tibi impugnari sentis, in eo tua
versetur defensio. * Si vero argumentis ab invidia periculosis que
consequentiis ab aliquo persecutore adfectus fueris, sat est eius malitiam et
nocendi studium ostendere teque commiseratione potius, quam ira per citum
perhibere. Si ergo deverborum sensu quaestio sit, eum te explicasse sufficiet:
si principia impugna tor urgeat eorum certitudinem ostendas oportet: si in
demonstrationibus te ar guere velit, earuin legitimam connexiouem prae oculis
ponere; si vero aliqua consequen tia absurda tibi impPombaur, aut ipsius conse
quentiae veritatem, aut eam ab adversario non recte deductam, demonstrare
debebis. Quod si persecutor obscurae famae sit, te tacente veritas ipsa
loqietur, tuaque mo destia impudeutem adversarium confusione " obruet. Ad
veritatis tandem disquisitionem acMilanius, quae non scripto, sed voce fit,
quaeque disputationis no. De litt. certaminemine venit. Est igitur DISPUTATIO
-aru ritatis alicuius discussio voce facta. Ea tribus ' personis absolvitur,
quarum una propositionem'impugnat, altera eamdem defendit, tertia vero huic
suppetias fert. * Adeoque qui veritatem difficultatibus du bisque implicat,
OPPONENS; qui vero eaka ab eiusmodi impugnatione vindicat, DEFENDENS, vel
RESPONDENS; qui deni que huic aliquid adiumenti adfert, PRAESES aupellatur. Ex
qua definitione liquet 1. di-, sputationem esse impugnationem proposi tionis
veraen eiusque. defensionem; ideo que 2., utramque demonstratione absol vi, ut
disputantium alteruter de veri tate convincatur; quare 3. quidquid ge neratim
de convictione dictum, de disputatione etiam intelligatur, prae cipue vero 4.
status quaestionis formandus et 5.
oportet, ut lingua loquantur clara et intelligbili, hoc est amboruin captui
adcommodata 6. ut u trique nec animus nec lingua deficiat. Su per omnia autem 7
affectibus carcant, odio, praesertim et invidia, Non enim ad rixandum, sed ad disputandum.
descendunt. At affectus convicia iniuriasque pariunt, quibus attentio turbatur (S.
207. ): ac proinde a disputantibus louge debent ab esse, ne ira odiove perciti
tantum absit ut veritatem inveniant, ut potius.a convicis ad manus transeánt. Ex
eadem definitione fluit 8. di sputantes debere in terminis contradicto. riis
versari, hoc est ut idein ab uno a d. firmetur, ab altero negetur'. Et quia
idem subiectum in contradictione requiritur; eruitur 9. disputantes debere in
terminorum notionibus convenire: quapro pter 10 si verborum sensus- lateat,
eorum explicationem a respondente peti posse, ut in claris distinctisque rebus
incidat contro versia, ct ' sic logomachiae vitentur. Disputatio vel' ACADEMICA
est, vel DIALECTICA. Illa continuato ac paene oratorio dicendi genere, haeć
syllo gistico more conficitur. In illa opponens disscrtatione quadam propositionis
veritatem impugnat, respondens contra eodemstilo obiectiones diluit, ihesiique
defendit; in hoc vero syllogisniis aliisque ratiocinandi modis chunciationem
opponens inpugnat, ' et ex Cap. ult. De litt. certamine. adverso respondens
ratio cinia ad trutinam revocans propositiones veras concedit, falsas negat,
dubiasque distinguit, eoque progre diuntur, donec ad principia perveniant.Addi
potest methodus disputandi SOCRATI CA, quae Opponentis interrogationibus, et
Defendentis responsionibus dialogico stilo ab solvitur. Sed quum ea iam pridem
ab usu recesserit: ab eius explicatione merito ab stinemus: in ipsis tamen
praelectionibus, quae de ill a dicenda forent, paucis expe diemus. Vides ergo
methodum Academicam ad eru ditionis et eloquentiae ostentationem in Aca demiis
prae se ferendam unice inventam esse. In disputando autem, quum homini pede
stanti in uno ñec eruditio, nec verborum copia praesto esse possit, Dialectica
metho dus merito praeterenda, Vtcumque vero disputatio instituatur invabit
disputantiirin munera paucis expo nére: id quol sequentibus exequemur re gulis.
Et primo quidem amborum, dein de opponentis; postremo respondentis mu nia
recensebimus. Quisquis ergo ad dis putandum accedis, hos religiose castodito: Phim
Rimum omnium controversiae sta tum conjici ! ). Nihil porro, nisi terminis
claris fixisque expressum, in e am incidito. Obscura quaeque explica to. 2.
Dispu'ans adfectibus vacuus, veria tatis tantum amans, eiusque invenienda
cupidus esto. Cuncta modeste, suaviter, amice proferto. Convicia et dicta mor
dacia, velut angiem, fugito. OPPONENTIS hae fere partes sunto. 3. Quacunque
meihodo thesin aliquam adoriris, syllogisticam artem cuidi ha beto. Argumentu
solida non sophismata ineptasve fallacias, proponito. Conclu sio thesi
impugnatae semper e diametro contraria esto 4. Si quid a respondente tibi propo
nitur explicandum, explicato: si vero probandum, tamdiu syllogismorum, au xilio
probato, donec ad principia per veneris. Ad singula respondentis verba et
distinctiones attendito. Si illa obscura sint, illi explicanda dato; si vero
clara, Cap. ult. De litt. certamine. 257 novas exceptiones, prout res tulerit,
contra formato. Praecipue videto, si ad versarium ex assertis suis convincere
et refutare, proprioque, ut aiunt, gladio iu gulare possis Et hoc est, quod
vocari solet ARGVMENTVM AD HOMINEM, de quo tamen videa tur lo. Lockius de
intell. bum. IV. 17., qui eius insufficientiam in vero inveniendo et de
bilitatem ostendit. Nos autem tantum in ex ercitationibus litterariis, quae
coram fiunt id commendamus: de veri namque investiga tione fusius supra
tractavimuis. RESPONDENS demum id sibi negotii sciat praecipue datum. Argumentum
opponentis prius repe tito, deinde sedulo perpendito, num de bila gaudeat
soliditate. Praenissarum quae tibi dubiae videbuntur, probatio nem postulato.
7. Syllogismum in forma peccantem totum reiicito. Si haec bene processerit
materiam ad examen reyocaio. Propo sitiones falsas negato, veras concedito,
dubias vero distinguito: sed de omnibus rationem reddere memento., ne
ridiculas, evadas. 258 Logic. Pars. ii. 本
Perridicula ergo est illa Scholasticorum regula: Semper nega, numquam concede
raro distingue. Si namque casu neges, duo rum alterum exspectare debebis, vel
ut ne gationis caussam adferas, vel ut lucem quo que neges meridianam: utrumque
homini sen sibili acerbissimum.. 8. Si oppositae propositionis impossi
bilitatem demostrare possis; nihil ultra oneris habebis. Si vero in auctoritate
probatio ' versetur: sat erit adversarii te.ctus obscuros claris auctoritatibus
re fellere. 9. Caveto, ne propositionem concedas, in qua adversarius struxit
insidias: ne cx eius admissione incidas in laqucos. Schol. Ceterum disputandi
regulac usu magis ct exercitio, quam praeceptis, ad discuntur '. Si tamen
dicendum quod res est, in huiusmodi litterariis contentionibus von soliditas,
sed promtitudo, immo ve ro impudentia valet et veritas amittitur potius, quam
invenitur: Qua de re vide inus eruditos doctosque viros raro admodum ad
disputandum descendere. Legatur Bud seus Obseru. in Plit. instrum. Pur: III.
Cup. 3. g. 11.
AN OUTLINE OF SEMATOLOGY; OR,
AN ESSAY TOWARDS ESTABLISHING A NEW THEORY OF GRAMMAR, LOGIC,
AND RHETORIC. “Perhaps if words were distinctly weighed and duly considered,
they would afibrd us another sort of Logic and Cretic, than what we have
been hitherto acquainted w4th." — Locke. LONDON
: JOHN RTCHARDSON, ROYAL EXCHANGE. G WOODPALL, AHQEh COUBT, •KllfWl*
tTRWT, LOWDON. I PUT not my name to these pages, nor shall I, beyond this
notice, speak in the first per- son singular, but assume the pomp and
cir- cumstance of the editorial "we". Why I choose for
the present to remain unknown, I leave the reader to settle as his fancy
pleases. He is at liberty to think that, being of no note or
reputation, and fearing for my book the fate of George Primrose's
Paradoxes, I do not place my name in the title page, because it
would inevitably make that fate more cer- tain. Or, if he chooses, he may
imagine a better motive. He may suppose me to be the celebrated
author of ***** *, with half the alphabet in capitals at the end of
my name ; and that I prefer an incogfiito, lest he, my "
cotirteous reader", should relax the rigour of examination, and
receive as true, on the authority of a name, a theory that may be
false. In the last chapter of Locke's Essay on the Human
Understanding , there is a threefold division of knowledge into
^uo-t*^, TrpaxriK^, and trtjfieiaTiK'^. If we might call the whole
body of instruction wliich acquaints ua with TO. <f>v<TtKa by the
name Physicology, and that which teaches to -irpaKTixa by the name
Practkology, — all instruction for the use of TO <7?j^aTo, or the
signs of our knowledge, might be called Sematology. Physicology, far more
comprehensive than the sense to wliich Physiology is fixed, would in this
case signify the doctrine of the nature of all things what- ever
which exist independently of the mind's concep- tion of them, and of the
human will ; which things in- clude all whose nature we grow
acquainted with by ex- perience, and can know in no other way, and
therefi>re include the mind, and God ; since of the mind as well
as of sensible things we know the nature only by ex- perience, and since,
abstracted from Revelation, we know the existence of a God only by
experiencing His providence, Practicology, the next division, is
the doctrine of human actions determined by the will to s
preconceived end, namely, something beneficial to in- dividuals, or to
communities, or the welfare of the kJ The signs which
the mind makes use of in order to obtain and to communicate know-
ledge, are chiefly words ; and the proper and skilful use of words is, in
different ways, the object of, 1. Grammar, of 2. Logic, and of 3.
Rhetoric. Our outline of Sematology will therefore be comprised in three
chap- ters, corresponding with these three di- visions.
species at large. As to Sematology, the third division, it is the
doctrine of signs, showing h ow the mind ope- rates by their means
in obtaining the knowledge com- prehended in the other divisions. It
includes Meta- physics, when Metaphysics are properly limited to
things TB /*ETa Tct pi/fiKa, i. e. things beyond natural things — things
which exist not independently of the mind's conception of them ; e. g. a
line in the abstract, or the notion of man generally: for these are
merely signs which the mind invents and uses to carry on a train of
reasoning independently of actual existences ; e. g. independently of
lines in concrete, or of men in- dividually and particularly. But as to
the class of signs which the former of these instances has in view,
and which are peculiar to Mathematics, there will be no necessity, in
this treatise, to make much allusion to them: it is to the signs
indicated by the other example that reference will chiefly be made: for
these are the great instruments of human reason, and we believe
they have never yet had their suitable doctrine. To ascertain the true
principles of Gram- mar, the method often pursued will be adopt- ed
here j namely, to imagine the progress of speech upward as from its first
invention. As to the question, whether speech was or was not, in
the first instance, revealed to man, we shall not meddle with it : we do
not propose to inquire how the first man came to speak ^^ ^
Beattie and Cowper, poets if not philosophers, ate among those who insist
that speech must have been revealed. The former thus turns to ridicule
the well L known passage in the Satires of Horace, Cvm
pro- repseruntf &c. lib. I. Sat 3* v. 99 : — ^^ When men
out of the earth of old A dumb and beastly vermin crawled. For
acorns, first, and holes of shelter, • They, tooth and nail, and bdter
dceker, B 2 4 ON CiSAUMAH. [CHAP. I.
but whether language is not a necessary effect of reason, as well
as its necessary instrument, Fought fist to fist ; then with a club
Each learned hia brother brute to drub ; Till more experienced grown,
these cattle Forged fit accoutrements for battle. At last,
(Lucretius Bays, and Creech,) They set their wits to work on speech
: And that their thoughts might all have marks To make them known,
these learned clerks Left ofi' the trade of cracking crowns, And
manufactured verba and nouns." Theory of Language, Part
I. Chap 6. (in a note.) The other poet does not, on this occasion,
appear in metre, but is equally merry. " I ta';e it for
granted that these good men are phi- Bophically correct in their account
of the origin of language ; and if the Scripture had left us in the
dark upon that article, I should very readily adopt their
hypothesis for want of better information. I should suppose, for
instance, that man made his first effort in speech in the way of an
interjection, and that ah ! or oh ! being uttered with wonderful
gesticulation and variety of attitude, must have left hia powers of
ex- presdon quite exhausted ; that, in a course of time, he would
invent many names for many things, but first for the objects of his daily
wants. An apple would consequently be called an apple ; and perhaps
not SECT. 1.] ON GRAMMAR. 5 growing out of those
powers originally bestow- ed on man, and essential to their further
deve- lopment. many years would elapse before the appellation
would receive the sanction of general use. In this case, atid upon
this supposition, seeing one in the hand of another man, he would
exclaim, with a most moving pathos, * Oh apple !' Well and good, — ' Oh
apple,** is a very affecting speech, but in the mean time it
profits him nothing. The man that holds it, eats it, and he goes
away with ' Oh apple!** in his mouth, and nothing better. Reflecting on
his disappointment, and that perhaps it arose from his not being more
explicit, he contrives a term to denote his idea of transfer,, or
gratuitous communication, and the next occasion that offers of a similar
kind, performs his part accordingly. His speech now stands thus — * Oh
give apple ! ** The apple-holder perceives himself called upon to part
with his fruit, and having satisfied his own hunger, is perhaps not
unwilling to do so. But unfortunately there is still room for a mistake,
and a third person being present, he gives the apple to him. Again
dis- appointed, and again perceiving that his language has not all
the precision that is requisite, the orator retires to his study, and
there, after much deep thinking, conceives that the insertion of a
pronoun, whose office shall be to signify, that he not only wants the
apple to be given, but given to himself, will remedy all
defects; Now instead of taking it for granted, as others have done
who have pursued the method proposed, that men sat down to invent
the parts of speech, because they found they had ideas which
respectively required them, we as- sert that men have originally no such
ideas as correspond to the parts of speech. The im- pulse of nature
is, to express by some single sound, or mixture of sounds (not divisible
in- to significant parts) whatever the mind is conscious of; nor is
there any thing in the na- ture of our thoughts that leads to a
different procedure, till artificial language begins to be he
uses it the next opportunity, succeeds to a wonder, obtains the apple,
and, by his success, such credit to his invention, that pronouns continue
to be in great repute ever afl^er. Now as my two syllable-mongers,
Bcattie and Bl^r, both agree that language was originally inspired, and
that the great variety of languages we find on earth at present, took its
rise from the confusion of tongues at Babel, I am not perfectly
convinced, that there is any just occasion to invent this very ingenious
solution of a diiEculty, which Scripture has solved already."
Letter to the Rev. Wm. Unwin, April 5, \'J8i.
invented or imitated. Let us take, for our first fact, the
cry for food of a new-born infant: that is an instinctive ciy, wholly
unconnected, we presume, with reason and knowledge. In pro- portion
as the knowledge grows, that the want, when it occurs, can be supplied,
the cry be- comes rational, and may at last be said to sig- nify,
" Give me food," or more at full," I want you to give me
food." In what does the ra- tional cry, (rational when compared with
the instinctive cry,) differ from the still more ra- tional
sentence? Notin its nieaning,but simply thus, that the one is a sign
suggested directly by nature, and the other is a sign aijsing out
of such art, as, in its first acquirement, (we are about to presume,)
nature or necessity gradu- ally teaches our species. Now, that the
arti- ficial sign is made up of parts, (namely the words that
compose the sentence,) and that the natural sign is not made up of
significant parts, we affirm to be simply a consequence of the
constitution of artificial speech, and not to follow from any thing in
the nature of the com- munication which the mind has
to make. The natural cry, if understood, is, for the purpose in
view, quite as good as the sentence, nor does the sentence, as a whole,
signify any thing more. Taking the words separately, there is indeed
much more contained in the sentence than in the cry ; namely, the
knowledge of what it is to give under other circumstances as well
as that of giving food ; — oi'Jbod un- der other circumstances as well as
that of be- ing given to me; — of me under other circumt \ Btances
as well as that of wanting food: but all this knowledge, in this and
similar cases for which a cry might suffice, is un- necessary, and
the indivisible sign, if equally understood for the actual purpose, is,
for this purpose, quite adequate to the artificially compounded
sign. S. The truth is this, that every perception by the
senses, and every conception* which • *' By Conception I
mean that power of the mind, which enables it to fonn a notion of an
absent object of perception ; or of a sensation which it has
formerly follows from such perception, as well as
every desire, emotion, and passion arising out of them, is
individual and particular; and if lan- guage had continued to be nothing
more than an outward indication of these its passive affec- tions,
it would have consisted of single indivi- dual signs for single
individual occasions, like those which are originally prompted by
na- ture. But it was impossible to find a new sign for every new
occasion, and therefore an ex- pedient was of necessity adopted; which
ex- pedient, from its rudest to its most refined ope- ration, will
be found one and the same, — an expedient of reason, and that through
which all the improvements of reason are derived. The expedient is
nothing more than this : — when a new expression is wanted, two or
more signs, each of which has served a particular purpose, are put
together in such a manner as to modify each other, and thus, in their united
fclt." — Dugald Stewart : I'hilos. of the Human Mind,
Vol. I. Chap. 3. [capacity, to answer the new particular purpose in
view. In this manner, words, individually, cease to be signs of our
perceptions or con- ceptions, and stand (individually) for what are
properly called notions', that is, for what the mind knows ; —
collectivelif, that is, in sen- tences, they can signify any perception
by the senses, or conception arising from such per- ception, any
desire, emotion, or passion — in short, any impression which nature would
have prompted us to signify by an indivisible sign, if such a sign could
have been found : — but individually, (we repeat,) each word be-
longing to such sentence, or to any sentence, is not the sign of any idea
whatever which the mind passively receives, but of an abstractiont
• Notio or notitia from «o«co, I knov. (It is a pity we cannot
trace the word to ado instead of noac.->.) Note, Locke will be mucli
more intelligible, if, in the majority of places, we substitute "
tlie knowledge of" for what he calls " the idea of" His
wide use of the word idea has been a cause of the widest con&slon
in other writers. t Home Tooke's doctrine is very different
from wliich reason obtains by acts of comparison and
judgment upon its passively-received ideas. tbis. He says
(Diversions of Purley [2d edit. 1798] Vol. I. page 51,) " That the
business of the mind, as far as regards language, extends no further than
to re- ceive impressions, that is, to have sensations or feel-
ings"; — he affirms (pa££^im) that what iscalled abstrac- tion has
no existence in the mind, but belongs to lan- guage only, and that "
the very term metapht/sic is nonsense "' {page 399). It is hoped
that what follows in the test will prove these opinions to be
erroneous. Could the proper name John, or any word being an ar-
tificial part of speech, have been invented, if the mind had not
exerte d its active powers upon its passively r&- ceived
ideas ? For whatever ideas of this last kind we have of John must be
ideas arising out of particular perceptions ; and ve must irame him to
our minds standing, or sitting, or walking; talking, or silent;
dressed or undressed, with other circumstances which imagination can
vary, but cannot set aside. It is only by comparison that we know John to
be independent of all these, and the name is the effect of this
know- ledge, not the cause of it. The abstraction is not in the
word only ; for till we know that Jolm is separate (abstract) from whatever
circumstance the perception of him includes, how can his name exclude it
? Neither is the terra iiietaphysic nonsense when applied to this
The sentence " John walks " may express what
is actually perceived by the senses ; or any other
abstraction. For John separate from cir- cumBtancea that must enter into
an actual perception, ifithe nameof anotion /iCTa^ua-ixii, i.e.outof
nature, or of which we have no example in external nature, though
it may esist in our minds, like a line in mathematics, which is deifined
as that which has length without breadth, and which is therefore, for the
same reason, properly called a metaphysical notion, and pure
mathematics are justly considered a part of metaphysics. It was because
H. Tooke set out with these principles thus fiindamentally erroneous,
that he could not com- plete his system when he had brought it to ail but
a close. With admirable acuteness of inquiry, he had tracedup every
part of speech till he found it, originally, either a noun or a verb, and
he then left his book im- perfect, because he could not, on the
principles he had started with, explain the difference bet ween
these : — he promised indeed to return to the inquiry, but he never
fiiliilled his promise for the best of reasons, that there was no pushing
it further in the way he had gone ; he must have contradicted all his
early premises to have reached a true conclusion. The whole cause of
his error seems to havebeen a too unqualified understanding of
Locke's doctrine, that the mind has no innate ideas. but neither
word, separately, can be said to express a part of that perception, since
the perception is of John walkmg, and if we per- ceive John
separate from walking, then he is not walking, and consequently it is
another perception ; and so if we perceive walking se- parately
from John, it must be that we per- ceive somebody else walking, and not
him. The separate words, then, do not stand for passively received
ideas, but for abstract no- tions ; — so far as they express what is pec-
ij ceived by the senses, they have no separate meaning ; it is only
with reference to the un- derstanding that each has a separate
meaning. The separate meaning of the word John is a knowledge (and
therefore properly called a I notion not an idea*) that John has existed
and ] Hence, Tooke acknowledges nothing originally but ] the
senseB, and the experience of those senses, calling reason " the effect
and result of those senses and that experience." See Vol, II. page
16. " If indeed the word idea were uniformly employed to
signify what is here meant by notion, and nothing else, little objection
could be made : such use would will exist, independently of the present
per- ception, and the separate meaning of the word •walks, is a linowledge
that another may waik as well as John. This is not an idea of John or
an idea of walking such as the senses give, or such as memory
revives : for the senses present no such object as John in the abstract,
that is, neither walking, nor not walking ; nor do they furnish any
such idea as that of •walking inde- pendently of one who walks. There is
then a double force in these words, — their separate force, which
is derived from the understanding, and their united force, by which, in
this in- stance, they signify a perception by the senses.
nearly correspond in effect though not in theory, with the old
Platonic Bcnse, and in the Platonic sense Lord Mooboddo constantly
employs it in his work on the " Origin and Progress of
Language." But as Dr. Reid observes, ** in popular language idea
signifies the same thing as conception, apprehension. To have KD
idea of a thing is to conceive it." This sense of the word Dugald
Stewart adopts. (Philos. of the Human Mind, Vol. L Chap. 4. Sect. 2.) Locke,
as already intimated, uses the word in all the senses it will
bear. In otlier instances, the united significa- tion of words may
not be a perception of the senses j but whatever may be their
united meaning, they will separately include know- ledge not
expressed by the whole sentence, though, if the meaning of the sentence
be ab- stract, the knowledge included in the separate words will be
necessary to the knowledge ex- pressed by the sentence. " Pride
offends," is a sentence whose whole meaning is abstract; but
pride separately, and offends separately, are still more abstract, and in
using them to form the sentence, we refer to knowledge be- yond the
meaning of the sentence as a whole, namely, to pride under other
circumstances than that of offending, and to offending under other
circumstances than that of pride offend- ing ; and here, tlie knowledge
referred to seems necessary, in order to come at the know- ledge
expressed by the sentence. " John walks," (or, according to our
English idiom, " John is walking,") is a perception by
the senses, and does not therefore depend on a knowledge of John,
and of walking in the ab- stract ; (though to express the perception
in this way requires it;) but " Pride offends," does not
express an individual perception, nor would many individual perceptions
of pride offending give the knowledge which the sen- tence
expresses : we must have obser\'ed what pride is, separately from its
offending, and we must have observed what offending is, separately
from pride offending, before we can rationally understand, or try to
make known to others, that Pride offends. In this DOUBLE force of
words, by which they signify at the same time the actual thought, and re-
fer to knowledge necessary perhaps to come at it, we shall find, as we
proceed, the ele- ments, the true principles of Logic and of
Rhetoric; while in tracingthe necessity which obliged men to signiiy in
this manner even tliose individual perceptions which nature would
have prompted them to make known by a single sign, (if such sign could
have been found,) we shall ascertain the true principles of
Gkammau. The last mentioned subject must occupy our first
attention. 5. To get at the parts of speech on our hy-
pothesis, we must consider them to be evolved from a cry or natural word.
Not that this is the present principle on which words are invented
; for art having furnished the pattern, we now invent upon that pattern j
but our purpose is to consider how the pattern itself is produced
by the workings of the human mind on its first ideas. Those ideas can
be none other than the mind passively receives through the senses ;
and perhaps the first ac- tive operation of the mind is to abstract (sepa-
rate) the subjects or exterior causes of sensa- tion from the sensations
themselves. When we see, we find we can touch, or taste, or smell,
or hear ; and when the perception through one of these senses is
different, we find a difference in one or more of the others. We also
recollect (conceive) our former per- ceptions, and finding the actual
sensations not recoverable by an effort of the mind alone,
we recognize the separate existence of the ma- terial world. All this is
Knowledge, ac- quired indeed so early in life, that its com-
mencing and progressing steps are forgotten ; but we are nevertheless
warranted in affirm- ing that not the least part of it, is an
original gift of nature. Along with this knowledge we acquire
emotions and passions ; for to knoia material objects, is to know them as
causes of pleasurable or painful sensation, and hence to feel for
them, in various degrees, and with various modifications, desire and
aversion, joy and grief, hope and fear. And here, as the same
object does not always produce the same emotion, or the same emotion
arise from the same object, we begin a new class of abstrac- tions
: we separate, mentally, the object from the emotion or the emotion from
the object : we are enabled in consequence to abstract and consider
those differences in the objects, from which the different effects arise,
and to ascer- tain, by trial, how far they yield to volition ope-
rating by the exterior bodily members, which SECT. we have
previously discovered to be subservient to the will. In this new class of
abstractions, and the consequences which arise from them, we shall
find the beginning of that knowledge which human reason is privileged to
obtain, compared with that which the higher orders of the brute
creation in common with man, are able to reach j and from this point
we shall be able to trace how man becomes /ie'poyjr, or divider of
a natural word into parts of speech *, while other animals retain
unaltered the cries by which their desires and passions are first
expressed. 6. As we are able to separate, mentally, the
object from the emotion, and to remem- ber the natural cry after the
occasion that produced it ceases, the natural cry might re- main as
a sign either of the object or of the emotiont. But this does not carry
us beyond • Thia is the sense in which we choose to under-
stand the word, and not merely voice-dividing or ar- ticulating. f
For instance, as, in the present state of language, the exclamation of surprise
ha-ha '. is either an inter- to the mind which
forms the abstraction, and has the power to establish a sign
(wliether audible or not) to fix and remember it: — our inquiry is,
how a communication can be made from mind to mind, when the signs which
na- ture furnishes are inadequate to the occasion. And first be it
observed, that only such occa- sions must, at the outset, be imagined as
do but just rise above those for which the cries of nature are
sufficient: — we must not sup- pose a necessity for communicating those
ab- stract truths which grow out of an improved use of language,
and which could not there- fore yet have existence in the mind. And
we have further to observe that no com- munication can be made from one
mind to another, but by means of knowledge which the other mind
possesses; — the cries of na- ture can find their way only into a
conscious breast, — that is to say, a breast that has known,
jection eignifyiDg that emotiou, or the n so placed ae to give
occasion to it. or at least can know, the feelings which are to be
communicated, and is capable, therefore, of sympathy or antipathy ; and
knowledge of whatever kind can be conveyed to another mind only by
appealing to knowledge which is already there. To suppose otherwise,
would be to attribute to human minds what has been imagined of pure
spirits, — the power of so mingling essences that the two have at
once a common intelligence. To human minds It is certain that this
way of communicating is not given, but each mind can gain knowledge
only by comparing and judging for itself, and to communicate it, is only
to suggest the sub- jects for comparison. Let us suppose that a
communication is to be made for which a na- tural cry is not sufficient,
— the difficulty, then, can be met only by appealing to the know-
ledge which the mind to be informed already possesses. The occasion will
create some cry or tone of emotion ; but this we presuppose to be
insufficient. It will however be under- stood as far as the hearer's
knowledge may enable him to interpret it — that is, he will know it
to be the sign of an emotion which himself has felt, and he will think
perhaps of some occasion on which himself used it. But the cry is
to be taken from any former par- ticular occasion, and applied to
another; and he who has the communication to make, will try to give
it this new application by joining another sign, such as he thinks the
hearer is hkewise acquainted with. The natural cry thus taking to
its assistance the other sign, and each limiting the other to the purpose
in hand, they will, in their united capacity, be an ex- pression
for the exigence, and will, to all in- tents and purposes, be a
sentence. 7. In some cases, nature seems to furnish an
instinctive pattern for the process here de- scribed : —a man cries out
or groans with pain ; he puts his hand to the part affected, and we
at once interpret his cry more particularly than we could have done
without the latter sign. In other cases, we are driven to the same
process not by an instinct, but by the ingenuity of reason seeking to
provide that which nature has not furnished. If a man unskilled in
language, or not using that which his hearers understand, should try to
make known what art expresses by a sentence such as " I am in
fear from a serpent hidden there," his first effort would be the
instinctive cry of fear ; but aware that this could be particularly
interpreted only of a known, and not of an un- known occasion, he would,
by an easy effiirt of ingenuity, fix it for the present purpose by
add- ing a sign or name of the reptile, (for mimick- ing the hiss
of the reptile would obviously be a name,) and by joining to both these a
ges- ticulative indication of place. The instinctive cry thus newly
determined and appUed, is a sentence ; and however clumsy it may
seem when compared with the more complicated one previously given,
yet the art employed is of the same kind in both. We leave the
read- er to smile at the example as he pleases, and will join in
his smile while he compares it with that in the epistle of the poet in
the note at Sect. 1.; and, if he is disposed to smile
again, we will suppose another example : — Two men going in the
same direction, are stopped by an unexpected ditch, and ejaculate the
na- tural cry of surprise ha-ha/ This is remem- bered as the
expression suited for that par- ticular occasion; and the mind, the
human mind, seems to have the power of generalizing it for every
similar object. Suppose one of these men finding another ditch very
offensive to his nose, signifies this sensation by screwing up the
part offended, an d uttering the nasal interjection proper for the
case ; — the inter- jection may not be sufficient j for the other
man may remain to be informed of what his companion knows,
namely that the offence proceeds from the ditch. To fix the mean-
ing, therefore, o f the interjection to the case in hand, the
communicator adds the former natural cry in order to signify the ditch,
and the two signs qualifying each other, are a sentence.
8. An artificial instrument as language is, growing
(as we suppoaej out of necessity, and adapted at first to the rudest
occasions ; per- fected by degrees, and becoming more com- plicated
in proportion as the occasions grow numerous and refined ; — such an
instrument, when we compare its earliest conceivable state with
that in which it has received its iiighest improvement, must
appear clumsy and awk- ward in the extreme. But in the very rude
state in which we here suppose it, the art em- ployed is essentially the
same as afterwards : — two or more signs are joined together, each
" sign referring separately to presupposed know- ledge, but in
their united capacity communi- i eating what is supposed to be unknown.
Of the signs used, that must be considered the , principal by which
the speaker intimates the , actual emotion j the other signs, which do
but j fix its meaning, are secondary. Thereforej ; though the
appellation word (that is p^/io, i dictum, or communication,) strictly
belongs to the whole expression or sentence, we may reasonably give
that appellation to the principal sign. According to this supposition,
the original verb was an expression equiva- lent to what we now signify
by I hunger, I thirst, I am warm, I am cold, I see, I hear, IJeel,
&c., / am in pain, I am delighted, I am angry, 1 love, I hate, I
fear, I assent, I dis- sent, I command, I obey, &c. Whether
this a priori conjecture has any facts in its favour, is an inquiry
suitable to the etymologist, but fo reign to our purpose, because,
whether true or not, the general argument by which we in- tend to
prove the nature of the parts of speech, will remain the same*.
" Vet it may be worth while to quote the coinci- dent
opinion of another writer. " It may be asked " says Lord
Monboddo, " what words were (irst invented. My answer is, that if by
words are meant what are commonly called parts of speech, no words at all
were first invented ; but the first articulate sounds that were
formed denoted whole sentences ; and those sentences expressed some
appetite, desire, or inclination, relating either to the individual, or
to the common business which I suppose must have been carrying on by a
herd of savages before language was invented. And in this We
have next to imagine the use of any of the foregoing verbs in the third
per- son ; for that, it should seem, would be the next step. In
communicating that anothet- hungers or thirsts, or sees or hears, or is
angry or pleased, &c., the difficulty would be to give the word
this new application, and a limiting sign would, as usual, be necessary.
A proper name would be the sign required ; and if not too great a
tax upon fancy, we may conceive the invention of these from the mimicking
of a man's characteristic tone, or his most frequent cry ; not to
mention the assistance of gesticu- lative indication. But when verbs had
thus lost the reference which, at first we presume, they always
bore to the speaker, a sign, whether a change of form, or a separate
word, would be wanted to bring them back to their early meaning as
often as occas ion required. A gesticulative indication of the
speaker and way I believe language continued, perhaps for
many ages, before names were invented." — Origin and Pro-
grese of Language. Vol. I. Book 3. Chap. 1 1- of the person spoken to,
can easily be con- ceived : how soon tliese would give place to
equivalent audible signs, the reader is left to calculate j and as to the
pronoun of the third person, he may allow a longer time for its in-
vention, especially as even in the finest of lan- guages, tliere is no
word exactly answering to ille in Latin and he in English.
10. We have suggested a clew to the in- -yention of proper names,
and (for the reader jnust allow us much) we will suppose these, L ^
far as need requires, to be invented. But r piost of these, from the
difficulty of inventing a new name for every individual, would gra-
dually become common. If a man has called I the animal he rides on by a
proper appellation I corresponding to horse, what shall he call t
Other animals that he knows are not the same; and yet resemble?
Because he is unprovided .. r jwith a name for each individual, he will
call' I each of them horse*, and the name will then "
Compare Adam Smith, " Considerations con- cerning the First
Formation of Languages," appended no longer be proper but common. But
the same powers of observation which acquaint us with the points of
resemblance, likewise show the points of difference, and when we
wish to distinguish the animals from each other, how is this to be done ?
The question is easily answered when we have a perfect lan- guage
to refer to, but it was a real difficulty when the expedient was first to
he sought. Yet the difficulty not unfrequently occurs even in a
mature state of language, and the manner in which it is overcome, will
enable us to conceive how, in the rude state of Ian- guage we are
supposing, itwas universally met, till the noun-adjective became a part
of speech*. Of two horses, we observe that one to his work on
the Theory of Moral Sentiments. As a proof how prone we are to extend the
appellation of an individual to others, he remarks that " A child
just learning to speak, calls every person who comes to the house
its papa or its mamma ; and thus bestows upon the whole species those
names which it had been taught to apply to two individuals." '
The Mohegans " (an American tribe) " have so has
the colour of a chestnut, and the other is variegated hke a pie ; and we
call the former a cfieslnut horse, and the other a pied or piebald
horse. Here we perceive are two nouns-sub- stantive joined together to
signify an indivi- dual object, and employed, Ui their united ca-
pacity, to signify what would otherwise have been denoted by an
individual or proper name. This, then, is their meaning,
respectively, as a single expression. In their abstract or separate
capacity, the one word denotes either one or the other of the two animals
without reference to the difference between them : the other word
denotes, not a chestnut or a pi^ but that colour in a chestnut, and those
varie- gated colours in a pie, by which one of the animals is
distinguished from the other, and these words are no longer
nouns-substantive DO adjectives in all their language. Although it
may at first seem not only singular and ciuious, but im- possible
that a language should exist without adjectives, yet it is an indubitable
fact," — Dr. Jonathan Edwards — quoted by H. Tooke, Diversions of
Purley, Vol. II. p. 463. but nouns-adjective *. And here the
ques- tion will naturally occur, how would a hearer know when a
noun was used substantively, and when adjectively ? As this would
often be attended with doubt and ambiguity, the necessity of the
case would soon suggest some slight alteration in the word as ofi;en
as it was used adjectively ; and the same all- powerful cause would
likewise, in time, dia- tinguish adverbs from adjectives : for at
first an adjective would be used without scruple to limit the verb,
as to limit the substantive j since • " The invention
of the simplest nouns-adjective,*' says Adam Smith, " must have
required more meta- physics than we are apt to be aware of." But the
dif- ficulty he imagines is done away by the hypothesis suggested
above ; and how near it is to the truth, will fae conceived by calling to
mind the ready use of al- most any substantive as an adjective, as often
as need requires : e. g. a chestnut horse, a horse chestnut ; a
grammar school, a school grammar ; a man child, a cock sparrow, an earth
worm, an air hole, a (ireking, a water lily ; not to mention the
innumerable com- pounds that are considered single words ; as,
seaman^ Iiorsenian, footman, inkstand, coalhole, bookcase, Sic.
«t this is often done even in the
present state of language j but the doubt whether it was to be taken
with the substantive or the verb* would soon produce some general difference
of form ; and thus the adverb would be brought into being as a
distinct part of speech. 11. Still it would often happen, that
in endeavouring to limit a verb to the particular communication in
view, no substantive or pro- noun joined to it, not even with the
further aid of an adjective or adverb joined to the substantive or
verb, would suffice ; and failing, therefore, to convey the communication
by one sentence, it would become necessary to add another to limit
or determine the significa- tion of the first. Now a qualifying
sentence thus joined, when completely understood in connexion with
that it was meant to qualify, would be esteemed as a part of the same
sen- tence, and the verb, in the added sentence, • E.
g. whether " I love much society " is to be understood /
much-li/ve suciety, or, / Iwe 7iutch- society.
would possibly then lose its force as the sign of a distinct
communication. This again, will easily be understood by a reference to
what occurs in the present state of language. Look- ing at the
sentence, " In making up your par-- ty, except me," no one
hesitates to call concept a verb ; but in this sentence, *^ All were
there, except me," although the word except has pre^^ cisely
the same meaning, yet, as we do not con^ sider the clause except TTie to
be a distinct com- munication, but only a qualification to suit the
whole sentence to the purpose in view, we call except a preposition *, that
is, a word put be^ * This solution of the difficulty in the
invention of prepositions, which seems so considerable to Adam
Smith, is suggested, as the reader will perceive, by the etymological
discoveries of Home Tooke, and will receive complete confirmation by the
study of his ad- mirable work. Let it not be supposed, however,
that we have nothing to object to in the Diversions of Purley :
some ftmdamental principles we have already marked for inquiry ; and on
the point before us, we have to observe on that curious way of thinking,
which leads him, because a word was once a verb or a noun.
fore another to join it to the sentence that goes
before. 12. But in thus qualifying sentence by sen- tence, it
may sometimes be necessary to use three verbs, one of them being merely
the sin- gle verb that joins the two sentences together ; as,
" I was at the party, and (i. e. add, or join this further
communication) I was much de- lighted." Sometimes a noun will be
used in this way ; as, " I esteemed him, because (i. e. this
the cause) I knew his worth." Any par- ticular form of verb or noun
used frequently in this manner to join sentence to sentence, will
cease at last to be considered any thing more than a conjunction *.
IS. As to the article, we have only to sup- to esteem it always so
; on the same principle, no doubt, that, because the word truth comes
from he trou-eth or thinkelh, a.aA a man's thoughts are always
changing, he denies that there is any such thing as eternal, im-
mutable truth. * Again the reader is referred to the Diversions
of Purley, for a confirniation of this account of the birth of
conjuncticms. pose some adjective used in a particular
limit- ing sense so frequently, that we at last regard it as
nothing more than a common prefix to substantives : — as to a participle^
it is confess- edly, when in actual use, either a part of the verb,
or a substantive, or an adjective : — and as to an interjection^ this we
have supposed to be the parent word of the whole progeny ; and if
it is sometimes used among the parts of an artificial sentence, it is
only as a vibration of the general tone of feeling that belongs to
the whole. 14. In this manner, or in a manner like this in
principle and procedure, would lan- guage grow out of those powers
bestowed on man by his Creator, even though it had not been
directly communicated from heaven :-— in this manner is the progress from
natural cries to artificial signs contemplated and pro- vided for
by the constitution of the human mind; — in this manner would the parts
of speech be developed j and men placed in so- ciety, and endowed
with powers for observation, reflexion, comparison, judgment, would, in
time, become fiepoire^f or dividers of a na- tural word into significant
parts, with the same kind of certainty that they become bipeds or
walkers on two legs* ; being bom neither one nor the other. *
And according to Monboddo, with the same certainty that they lose their
tails; for when they were mutu/m, et turpe pecus^ he appears to
think they might have been so appendaged ; nay, he knew a Scotchman
that had a tail, though he always took care to hide it : (his lordship
was surely in luck^s way to find it out.) After all, it would be
difficult to prove, notwithstanding the authorities Monboddo quotes,
that herds of men were ever found destitute of language. Leaving,
therefore, the origin of the first language, and the subsequent
confiision or division of it precisely as those two &ct8 stand in
Genesis, all we mean to assert in the text is this, — that if a number of
children having their natural faculties perfect, were suffered to
grow up together without hearing a language spoken, they would invent a
language for themselves : though, for a long time, it might remain nothing
better than that of the Hurons described by Monboddo, (Origin and
Progress of Lang. VoL I. Book 3. Chap. 9.) in which the parts of speech
are scarcely evolved, from the original elements, but what in a formed
language But the object of the foregoing at- tempt,
was not so much to trace the origin is expressed by several
words, is expressed by a sign not divisible into significant parts. Thus,
he says, there is no word which signifies simply to cut, but many
that denote cuttingjish^ cutting wood^ cutting chaths, cutting the heady
the arm^ &c. And so of the language throughout. More than one
generation would be re- quired, and very favourable stimulating
circumstances, to bring such a chaos of a language into form ; but
that the human mind has within itself the powers for accomplishing it
sooner or later, we see no cause to doubt — These words, and the whole of
the hypothesis in the text above, were written before the third
Volume of Dugald Stewart's Philosophy of the Human Mind had been
seen. From that part which treats on Lan- guage we quote the following
passages : ^^ That the human faculties are competent to the
formation of language, I hold to be certain.* Language in its rudest state
would consist partly of natural, partly of artificial signs ;
substantives being denoted by the latter, verbs by the
former.*" These are among the many passages which
coincide with the views opened in the previous hypothesis. It is to
be added, that D. Stewart considers the imperative mood to be the first
form in which the artificial verb would be displayed. and
first progress of language, as to get at the real ground of diflference
among the se- veral parts of speech. On this subject, there
prevails a universal misconception. Prom the definitions and general
reasoning in Gram- mar ; — from the theories laid down in Logic ; —
and the basis on which the rules and prac- tice of Rhetoric are presumed
to stand, this principle seems to be taken for granted, that the
parts of speech have their origin in the mind independently of the
outward signs, when, in truth, they are uothing more than parts in
the structure of language ; contrivances adopted at first on the
spur of theoccasion, the shifts and expedients to which a person is
driven, ■when not being able to lay bare his mind at once according
to his consciousness, he tries, by putting such signs together as were
used for former occasions and therefore known as regards them, to
form an expression, which, as a whole, will he a new one, and meet the
pur- pose in hand. True indeed it is, that these very contrivances
become, in their more refined use, the great instruments of hmnan rea-
son by which all improvement, all extensive knowledge, is obtained; but
we are not to confound the instrument with the intelli- gence that
uses it/ nor to suppose that the parts of which it is composed, have, of
ne- cessity, any parts corresponding with them in the thought
itself. It is not what a word signi- fies that determines it to be this
or that part of speech, but how it assists other words in ma- king
up the sentence. If it is commissioned to unite the whole by the
reference immediate or mediate which all the other words are to
bear to it, and to signify that they are a sen- tence, that is, the sign
of a purposed commu- nication, then it is the verb : — if it has
not this power, (namely, of uniting the other words into a
sentence,) and yet is capable, in all other respects, of standing as an
independent sign, (this sign not being the sign of a purposed
communication) then it is a substantive .-—if it is the implied adjunct
of a substantive, it is an adjective or an article^ — if of a verb^ an
adverb : — if we know it to be a word, which, in a sentence, is fitted to
precede a substantive, (or words taken substantively) in order to
con- nect such substantive with -what goes before, then it is a
preposition : — and if it goes before, or mingles in a sentence, in order
to connect it with another sentence, then it is a conjunc- tion.
These are the only real differences of the parts of speech : — as to the
meaning, that does not of necessity differ because a word is a
different part of speech ; — the following words, for instance, all express
the same notion : Add Addition Additional
Additionally With* Andt * The
imperative of the Saxon verb Jpi^an to join. -|- The imperative of
the Saxon verb ananab to add. The place and ofHce of these six
words in a sentence would of course differ, and the sentences in which
they were respectively used would require a various arrange- Our
definitions reach the real differences among these words, and they will
be found adequate to all differences, when, by the ob^ servation
hereafter to be made, we are quali- fied to make due allowance for the
licences assumed by the practical grammarian *• In ment to
meet the same purpose, but as to the meaning of the words, it would be
the same in whatever sentence : e. g. Add something to our
bounty. Make an addition to our bounty. Give an
additional something to our bounty. Give additionally to our
bounty. Increase o ur bounty with the gift of something.
Consider our bounty and give likewise. * To suit our definitions to
an elementary grammar, they must be quaUfied and circumstanced: — a
verb, for instance, must be shewn to be a word that is by itself a
sentence, as esurio ; or which signifies a sentence, as I am hungry ; or
which is fitted to sig- nify a sentence, as am, lovest. A verb in the
infinitive mood, is a verb named but not used ; a8 to be, to love ;
or if used in a sentence, it is not the verb. A noun- substantive is a
name capable of standing independently, but it cannot enter into a
sentence except by being connected directly or indirectly with a verb.
The in- flexion of a noun-substantive, as Mard, Mark'' 8^
is the mean time, in order to throw as much light as possible
on the nature of the con- nexion between thought and language, let
us look back a little on foregoing statements, and partially
anticipate those which are to be opened more at full under the heads of
Logic and Rhetoric. called a substantive, bnt in so calling
it, we must say a Bubstantive in the genitive, or other case. A
noun- adjective is a name not fitted to stand independently, but to
be joined to a noun-substantive, and so to form with it one compound
name. An adverb is a word not fitted to stand independently, but to be
joined to a verb, and to form with it one compound verb, A
preposition ig a word governing as its object a substantive or pro-
noun in the manner of a verb, but not an obvious part of a verb, nor
capable, like a verb, of signifying a sentence. The article, pronoun,
participle, conjunc- tion, and interjection, may be defined as usual.
We would suggest moreoverthat in an elementary grammar, no
definition, and no part of a definition, should be brought forward, till
absolutely required by the examples that are immediately to follow it.
In teaching a child, it is the greatest absurdity in the world to
set out with general principles, when the business is, to reach those
principles by the eiiamina- tion of particulars. It may be that the
organs of sensation are not all fully developed in a new-born in-
fant ; but if, for the sake of our argument, we allow that they are so,
this is as much as to say, that our earliest sensations from the
ob- jects of the material world, are the same that they are
afterwards. But there must be this most important difference, — that the
early sensations are -wilkoui knowledge, and the lat- ter, with it.
I know that the object which now affects my sense of vision, is a being
like my- self, — I know him to be one of a great many similar
beings ; — I know him to be older or younger than many of them, — to be
taller or shorter; — I know pretty nearly the distance he is from
me ; — 1 know that the particular circumstances under which he is now
seen, are not essential to him, but that he may be seen under other
circumstances : — I know that what now affects my sense of hearing, is
the cry or bark of a dog j — I know, although my eyes are shut,
that there are roses near me, or something obtained from roses j — I
knoie u
that sometliing hard has been put into my mouth ; — and now
I know it to be part of an apple. All the sensations by which the
various knowledge here spoken of is brought before the mind, the new-born
infant may possibly be capable of; but as to the know- ledge, there
is no reason to believe he lias the least portion of it. For the
knowledge is gained by experience, requiring and com- prising many
individual acts of observation, comparison, and judgment j all which
we suppose yet to take place in the new-born infant. Now, in
looking back to what has been said on the acquirement of language,
we find the effect of our progressing knowledge to be this, that
every sign arising out of a par- ticular occasion, will lose that
particular re- ference in proportion as we find it can be used on
other occasions j and so all words will, at last, in their individual
capacity, become ab- stract or general. This is as true of such
words as yellow, white, heat, cold, soft, hard, . bitter, sweet, and the
like signs of what Locke calls simple ideas as of any other * :
for we can evidently use these words on an infinity of different
occasions j and the power of so using them is an effect and a proof of
our knowing that the different occasions on which we use the same
word, have a something in common, or in some way resemble. But
while all words thus acquire an abstract or general meanipg, every
communication which we purpose to make by their means, must, in
comparison with their separate signification, be particular ; and our
putting them together in order to form a sign for the more
particular thought, will be to deprive them of the abstract or
general meaning which they had indi- vidually. If this is the real nature
of the process, we are completely mistaken if we suppose that every
word in a sentence sig- nifies a part of the whole thought, and
that the progression of the words is in corre- spondence with a
progression of ideas which the mind first puts togetlier within, and
then * Vide Locke, Book II. Chap. 1. Sect. 3. signifies
without What deceives us into this impression, is, that on considering
each word separately, each is found to have .1 meaning. Let us try,
however, whether the joining of words into a sentence, does not take from
them the meaning they have separately. Put to- gether the three
words " My head aches," and we have an expression, namely the
whole sentence, which signifies what, from a want of clearness in
our remarks, may possibly be the reader's present particular sensation:
hut my, separately, signifies the general knowledge I have attained
of what belongs to ine as dis- tinguished from what belongs to another j
a knowledge which is not at all necessary (that is, the ^'•CTJcra/
knowledge) to the sensation it- self, nor even to the expression ofit, if
we could find any single sign in lieu of the three which we have
put together. Accordingly, the word my, as soon as it is joined to the
other words, drops that meaning which it had separately, and
receives a particular limitation from the word head, which word head is
likewise limited by the word rrof ; and the more particular meaning which
both these receive by each other, is limited to the particular oc-
casion by the word aches. Yet, it may perhaps be thought, that in this,
and in every other sentence, each word, as the mind suggests it to
the lips, is accompanied by the knowledge of its separate meaning, and
that, in this manner, if we use the word idea in the un- restricted
sense familiar to the readers of Locke, each word may be said to
represent an idea. Without entirely denying the justice of this
view of the matter, we offer in its place the following statement :
17. In forming a sentence for its proper occasion, the knowledge of
which each sepa- rate word is fitted to be the sign, may, or may
not be in the mind of the speaker: it may be entirely there, or only in
part, or not at all there ; that is to say, the speaker may not
know the separate meaning of a word, but only the meaning it is to have
in union with the other words. And even if the speaker does know the
full separate meaning of each word, yet he is not under the neces-
sity of thinking of that separate meaning every time he uses it : nor
does he, in fact, think of the separate meaning of words while, in
putting them together, his purpose is to ex. press what has been often
expressed before, but only (and even then but partially and occa*
tonally) when he uses words to work out some conclusion not yet
established in his own mind, or when a train of argument is required
to convince or persuade other minds. This statement will of course
require some con- siderations in proof. 18. And first, as to
the knowledge of which each separate word is fitted to the sign, it
is to be observed that our knowledge grows with the use of words, and
therefore our firet use of them is unaccompanied by that know-
ledge which we gain by subsequent use. This is true, whether we invent
words, or adopt those already invented. In the rude beginning of
language, the first use of a word for head, would be a use of it for a
particular occasion, and the word would be particular or proper. If
the speaker used it with reference to himself, it would signify what we
now sig- nify fay the two words my head ". By observ- ation
and comparison, he would find he could extend the meaning of the word,
and apply it with reference to his neighbours as well as himself,
and it would then no longer be proper but common ; that is to say, it
would signify a human head, and not mj/ head. Extending his observations
still more widely, he would ap- ply it with reference to every other
living crea- ture, and it would accordingly then signify a /(u- ing
creature's head. Looking and comparing still further, he would apply it
with referenceto every object, in which he discovered a part having
the same relation to the whole as the head of a living creature has to
its remaining parts ; and the word would then, and not till then,
have its present meaning ; that is to " Compare the
characteristics of the Huron lan- guage referred to in the note appended
to Sect. 14. say, in a separate unlimited state it would
signify neither my head, nor a human head, nor a living creature's head,
but the top, chief part, beginning, supremacy of any thing
whatever. Nor is the process essentially different in acquiring the use
of words already invented. A child does not at first put words
together, but, if his head aches, he will say perhaps "head! head!"
using the single word in place of a sentence. At length he will say
mi/ head, and brother's liead, and horse's head, and cradle's head. Still
there are other applications of the word to be learned by use ; and
it surely will not be contended that any one knows the meaning of a
word beyond the cases to which he can apply it. The knowledge which a
separate word is fitted to signify, may then be wholly or may be
partly in the mind of him who uses it in a sentence ; and it is very
possible not to be there at all. A foreigner, for in- stance, who
had beard the phrase the head of the army applied to the
general-in-chief, would know the meaning of the phrase, but might be
quite ignorant of the meaning of the separate words, or even that it was
com- posed of separable words : and probably most people can look
back to a time in early life, when they were in the habit of using many
a phrase with a just application as a whole, without being aware
that it was reducible into parts in any other way than as a poly-
syllabic word is reducible. ig. But even when the speaker, in
form- ing a sentence, has previous possession of all the knowledge
of which each word is sepa- rately fitted to be the sign, yet he does not
in general think of their separate meaning while he is putting them
together, but only of the meaning he intends to express by the
whole sentence. For through the frequent use of phrases and
sentences whose forms are hence become familiar, there is scarcely any
senti- ment, feehng, or thought, that suddenly arises in the mind,
that does not as suddenly sug- gest an appropriate form of expression.
This [chap. is manifestly the case with such
sentences as arc in constant use for common occasions : these the
speaker cannot be said to make, they occur ready-made, and he
pronounces the words that compose them with as little thought of
their separate meaning as if he had never known them separate. Even
when sentences ready-made do not occur, yet the forms of sentences
will occur, and the speaker will, in general, do nothing more than insert
new words here and there till the sentence suits his purpose. Thus he who
had said " My head aches," will recollect the form of
sentence when his shoulder aches, and in using the sentence, will only
displace head for shoulder: or if his head " is giddy,"
he will only displace aches for the two words quoted, in order to
say what he feels. 20. When indeed we use language for higher
occasions than the most ordinary in- tercourse of life ; when by its
means we pro- secute our inquiries after truth, or use it dis-
cursively as an instrument of persuasion, then the operation itself is
carried on by dwell- ing on and enforcing the abstract mean- ing of
some of the words and some of the phrases whUe in their progress towards
form- ing sentences, as of the sentences while in their progress
toward forming the whole ora- tion or book. But in such cases,
language may more properly be said to help others to come at our
thoughts , than to represent our thoughts : although it is likewise
true, that we could not ourselves have come at them but by similar
means. Independently of the words, therefore, the thoughts would
have had no existence j neither should we have proposed the inquiry
after the truths we seek, nor have imagined any thing in other
minds, by addressing which they could be influenced. Still,
however, in these higher uses of lan- guage, (uses which are to be dwelt
on more at full in the chapters on Logic and Rhe- toric,) there is
the same difference between words separately, and the meaning they
re- ceive by mutual qualification and restriction ;
«* that is to say, in these higher uses of lan- guage,
83 well as in those already remarked upon, the parts that make up the
whole ex- pression, are parts of the expression in the same manner
as syllables are parts of a word, but are 7tol parts of the one whole
meaning in any other way than as the instrumental means for
reaching and for communicating that meaning. And suppose the
communication cannot be made but by more signs than use will allow
to a sentence, — suppose many sen- tences are required — many sections,
chapters, books, — we affirm that, as the communica- tion is not
made till all the words, sentences, sections, &c. are enounced, no
part is to be considered as having its meaning separately, but each
word is to its sentence what each syllable is to its word ; each sentence
to its section, what each word is to its sentence ; each section to
its chapter what each sen- tence is to its section, &c. Thus does
our theory apply to all the larger portions of dis- course, and to
the discourse itself, Aristotle's definition of a word, namely, ** a sound
sig. niiicant. of which no part is by itself signi^ ficant ;"
* for if our theory- is true, the words of a sentence, understood in
their separate ^rapacity, do not constitute the meaning of the
whole sentence, (i. e. are not parts of its whole meaning,) and
therefore, as parts of that sentence, they are not by themselves
significant ; neither do the sentences of the discourse, understood
abstractedly, constitute the meaning of the whole discourse, and
therefore, as parts of that discourse, they are not by themselves
significant : they are sig- nificant only as the instrumental means
for getting at the meaning of the whole sentepce or the whole
discourse. Till that sentence m oration is completed, the Word t is
unsaid which represents the speaker's thought- If ♦ 4^6jvii
(ni/xAVrixiii vi'; A*sf oj oOih B<rri xalP abrh arif/iotv-i
rikiv. De Poetic c. 20. f In this wide sense of the
expression is the Bible called the Word of God. We shall distinguish
the term by capitals, as often as we have occasion to use it with
simitat comprehensiveness erf meaning. it be
asserted that the parallel does not hold good with regard to such words
as Aristotle has in view, because, of words ordinarily so called,
the parts, namely the syllables, are not significant at all, while words
and sentences which are parts of larger portions of dis- course,
are admitted to be abstractedly sig- nificant, however it may be that
their abstract meaning is distinct from the meaning they re- ceive
by mutual limitation, — we deny the fact which is thus advanced to
disprove the parallel : we affirm that syllables are signifi- cant
which are common to many words ; for instance, common prefixes, as wn,
mis, corif dis, bi, tri, &c.; and common terminations, as
nesSjJul, hood, tion, fy, &c. j and so would every syllable be
separately significant, if it occurred frequently in different
combinations, and we could abstract out of such combina- tions the
least shade of something common in their application : nor is it peculiar
to syllables to be without signification individually; the same
thing happens to words when they are always combined in one and the same
way in sentences *. Conceiving, then, that we are fully warranted
in the foregoing statement, we affirm it to be the true basis of Grammar,
Lo- gic, and Rhetoric. Leaving the latter two subjects for their
respective chapters, we pro- ceed, in this chapter, with such further
proofs as may be necessary to confirm our position as far as
Grammar is concerned. 21. We have imagined the gradual de-
velopment of all the parts of speech recog- nized by grammarians ; but no
reference has yet been made to the inflexions which some of them
undergo; nor to the diflference of meaning they receive in consequence of
such inflexion ; nor to interchanges of duty among the several
parts of speech ; nor to pecu- liarities of use, which so oflen take from
them their characteristic differences; nor to va- " What
separate meaning, for instance, is there, now, in the words which compose
such phrases as, by- and'bij, goodJi'ye, ftatc-du-you-do, 8cc.
I ON GEAMMAB. t^CHAP. I. riety of phrase in expressing
the same mean- ing j nor to the power which we frequently exercise
of making the same communication by one or by several sentences ; nor,
in short, to the multitude of refinements which grow out of an
improving use of language, many of which seem to confound and
destroy the definitions we obtain from the first and simplest forms
of speech. All these seeming irregularities will, however, find a ready
key in the general principles we have ascertained. For our general
principles are these : i. That two or more words joined together in
order to receive, by means of each other, a more particular
meaning, are, with respect to that meaning, inseparable j since, if
separated, they severally express a general meaning not included in
the more particular one. Hence it follows, that words may as easdy
receive a more particular meaning by some change of form, as by
having other words added to them : nay, it seems more natural, when
the principle is considered, to give them a more particular meaninjj
by a change of form than fay any other way. — ii. That a word is tliis
or that part of speech only from the. office it fulfils in making
up a sentence. From this principle it follows, that a word is liable
to lose its characteristic difference as often as it changes the
nature of its relation to other words in a sentence ; and it also
follows, that every now and then a word may be used ia L8ome
capacity wliich makes it difficult to be assigned to any of the received
classes of words. — iii. That since the parts of which a sentence
is composed denote general know- ledge, distinct from the more particular
mean- ing of the whole sentence, it may be possible i to work our
way to a particular conclusion, either in reasoning for ourselves or in
per- j auading others, by putting such words to- gether as form a
sentence, that, as a whole, expresses the particular conclusion; but
that when, from the length of the process, this cannot be
accomplished in a single sentence, we shall be obliged to work our way by
many sentences, whicli will bear the same relation to the conclusion
implied by them as a whole, as the parts of each sentence bear to
what the sentence expresses. From this principle it follows, that
using many or fewer sentences to arrive at the same result, will
frequently be optional. The examination of these se- veral
consequences a Httle more in detail with reference to the principles from
which, i they flow, will complete the chapter. It is well known,
that the inflexions which nouns, verba, and kindred words are
liable to in many languages, are comparatively unknown in English, the
end being for the most part attained by additions in the shape of
distinct words. Thusthe particular re- lation of the word Marcus to the
other words in the sentence, which in Latin is made known by
altering the word into Marco, is signified in English by the word io ;
and to MarcuSy esteeming the two words as one ex- pression, is the
same as Marco. So likewise the word amo, which in English signifies
/ Gl l&ve, is adapted to a
different meaning by being changed into amabit, which in English is
to be signified by he mil love, the three words, taken as a whole, being
the same as the single Latin word. Shall we call to Mar- cus the
dative case of Afarcus, and he will , love, the third person singular of
the future tense of / love, as Marco and amabit are re- spectively
called with reference to Marcus and amo? or shall we parse (resolve
into grammatical parts) those English sentences, and so deny, in
our language, a dative case and ' a future tense ? It is evident that
this is a question which only the elementary grammar- writer is
concerned with : he may suit his own convenience, and contend the point
as he -I pleases. Thus much is certain, and is quite sufficient for
our purpose, — that to Marcus , cannot be considered a dative case, nor
he wiU ] love a future tense, on any other principle than the one
it is stated to flow from, namely; that marked i. in Sect. 21.
23. To the practical grammarian we may likewise frequently allow,
for the sake of con- venience, the continuing a word under its usual
denomination, when its office, and con- sequently its character, are
essentially changed. He will love, taking the three words as one
expression, are a verb both on the principles we have ascertained, and in
the practice of the elementary grammarian : but in parsing tliis
verb — this p^iio, dictum, communication, 01 sentence, — only one of the
three words can properly retain the denomination of verb, viz. that
word to which the others have a re- ference, by which they hang together,
and are signified to be a sentence, namely, ■will. As to the word
love, which the practical grammarian will tell us is a verb in the
infi- nitive mood, it does not in fact fulfil the office of a verb,
but of a substantive. But if, by calling it a verb in the infinitive
mood, its character for practical purposes is con- veniently
marked, we may fairly leave the matter as it stands. All we insist upon
is, that the doubtful character of the word is a
consequence of the principle marked ii. in Sect 21."
I • Strictly, there is no verb but when a c cation ib actually
made ; and that word is then the verb, which expreaseB the
communicatioti, or which, when several words are necessary, ie the sign
of union among the whole of them. A verb not actually in use is
acaptain out of commission, and if we still call it a verb, it is by
courtesy. Home Tooke never an- swered his own question, " What is
that peculiar dif- ferential circumstance, which added to the
definition of a noun, constitutes a verb ?" (Diversions of
Purley, Vol. II. p. 514),) because he bad previously blinded
himself to the perception of what it is, by laying down the principle
already animadverted upon in a note ap^ ponded to Sect. 3., namely, that
the business of the mind, as far as regards language, extends no fiirther
than to receive impressions: the consequence of which priuciple would be,
(if it could have any consequence at all,) that the first invented
elements of speech were nouns, or names for those impressions ; which
accord- ingly seems to be his notion, and that verba afterwards
arose from nouns, by assuming the difierential some^ thing that was found
to be wanting. Our doctrine is, that the original element of speech
contained both the artificial noun and the artiiicial verb ; that the
mind exerted its active powers in order to evolve the artir ficial
parts ; that the act of joining them together It might also perhaps
admit of dis- pute, whether substantives in what are called their
oblique cases, do not, by being the ad- juncts to other words, and taking
a change of form to signify their servitude, cease in fact to be
substantives, and merit no higher name than adjectives or adverbs. But
here again we consult convenience by using the descriptive title, a
substantive in the geni- tive, dative, accusative, or ablative case.
We only need insist, as philosophical inquirers, that the
definition of a substantive in Sect. 15., is not less correct, because it
does not in- clude a substantive in these oblique cases*.
i^ain, made them a verb ; but if the title was given to one more
than to the other, it was given to that which arose most immediately from
the occasion, and took the other to fis or determine it ; and that
subsequently that word in a sentence came to be coneidcred the
verb, which joined the parts K^ether, and signified them to be a
sentence. * The only oblique case in English substantives, is
the genitive terminating in 'fi or having only the apostrophe, the s
being elided. Grammarians, in- deed, have found it necessary to allow an
accusative. The very doubt itself which so often arises, whether a
word is this or that part of speech, — the varying classification of the
parts of speech by different grammarians, — are cir- cumstances
entirely favourable to the theory advanced, and adverse to any theory
which attempts to explain the parts of speech by a reference to the
nature of our thoughts in- dependently of language. For if the parts
of speech had taken their origin from this cause* because
pronouns have it : for if in the sentence Cas- s-iua loved
him, we put the noun where the pronoun stands, and say, Casmus loved
Brutus, it seems con- venient to consider the noun to be in the same
case that the pronoun was in. On the same principle, the
substantives which, in the classical languages, have no accusative
distinct from the nominative, are neverthe- less considered to have an
accusative, because, lite other substantives, they can be used
objectively with regard to verbs active and certain prepositions.
On the score of convenienee this must be allowed. But when words
are taken separately, (and this, by the very delinttion of the word, is
the business of parsing,) it is evident that only those
substantives are, strictly speaking, in the accusative case, which,
when uaed as just staled, have a form to signify it. surely we
could never have been in doubt either as to vskat, or koio many, they
were. But our theory accounts at once for the in- certitude on
these, and many other points. We admit no original element of speech but
the VERB, or that one sign which denotes what the speaker wishes to
communicate. If no one sign can be found adequate to the occa-
sion, then we must make up a sign out of two or more. Now the division of
a verb into these parts of speech, is necessarily attended by the
consequence, that each part is insigni- ficant of a communication by
itself, and that they signify it only by being joined together.
Supposing a sentence never consisted but of two parts, the mere act of
joining them to- gether, would be sufficient to signify that they
were a sentence or verb. But the ne- cessity or usage of speech being
such, that the hearer knows a sentence may consist of two or of
many words, how is he to be warned that a sentence is formed, unless to
certain words is given the power of signifying a sentence, while to other
words this power is de- nied until associated with a word of the
for- mer class? Hence the distinction between noun and verb ; a distinction
arising out of the necessities of speech, and not out of the nature
of our thoughts. The noun and the verb, then, are the original parts of
speech, the verb beingthepreviouselementof both. But as each
derives its office and character solely from an understanding between the
speaker and the hearer, a change of understanding may make them
change their offices, and so the verb shall sometimes be a noun, and
the noun a verb. These changes occur in fact so frequently, as to
require no example. Then, as we have seen, a noun will frequently
be used as the adjunct of another noun, and so become an adjective j an
adjective or other word may be joined to a verb, and so become an
adverb j and any of these, by frequent use in particular combinations,
may acquire, or seem to acquire, a new and peculiar office, and so
become articles, prepositions, and conjunctions. But who can ascertain that
de- gree of use, which, to the satisfaction of every grammarian,
shall fix them in their acquired character • ? Nay, must not every such
word, of necessity, while in transitu, be at one period quite
uncertain in its character ? In this man- ner do the effects arising out
of such a theory of the parts of speech as we have supposed, agree
with actual effects, and fully explain them. 26. Again, on any other
hypothesis than the one before us, what are we to think of
compounded nouns, adjectives, verbs, adverbs, &c., of which all
languages are full ? With- out adverting to established compounds,
such as (to take the first that occur) husbandman. *
What, for instance, shnll we call the word fi/ce in such phrases as like
him, like me? Originally theword unto intervening between it and the
pronoun, govern- ed the latter ; but unio cannot now be aid to govern
the pronoun, since it has been so long disused, as to be no longer
mtderstood. We miglit therefore say, that like is a preposition governing
the pronoun : — the point perhaps is disputed ; — be it so : for this
fact jugt serves our argument. : m
worJcmanlike, waylay, browbeat, nevertheless ; without
bringing words from the ilUmitably compounded Greek language, — we may
refer to such as are not established, but compounded ibr the
particular purpose ; as when Locke speaksof '* Mr. 'Nev/ton'sjiever-enough-io
be ad- mired book," where the words in italic are an
adjective; and when some old lady pettishly says to her grandchild "
Don't dear Grand' mother me i" v/here the whole sentence, ex-
cept the pronoun governed in the accusative, is a verb. So in the phrases
to fiAxov <rvvoia-eiv 7^ iroXei the
being-about-to-be'prqfitable-to-t/ie- Ci'/y,— and, TO Tct Tou
iroXefiov raj^ii xal Kara Kaipov Trpa.TTea$at, the
completing-spcedili/'and- seasonablif-the'lhings-for-the-war, we are war-
ranted in considering the whole of the words following the article, to
be, in each instance, a noun-substantive. For these, and for every
other species of compound, the theory before US at once accounts. For it
shows that the use of many words to form one sentence, arises out
of the necessities of language only, the na- tiira]
impulse of the mind being tomake its com- munication by a single
expression. Having complied, then, with the necessities of lan-
guage, and rendered it capable of serving as the interpreter of much more
knowledge than we could have attained without its help ; we then
return on our steps, and give a unity to our expressions in every
possible way. 27. The corruption of early phrases, by which,
in so many instances, they come under the denomination of adverb, will be
found another obvious consequence of the present theory, while they
abundantly perplex the grammarian who attempts to reconcile them to
any other system. "Omnis pars orationis" says Servius, "quando
desinit esse quod est, migrat in adverbium." " I think"
says Home Tooke, " I can translate this intelligibly — Every
word, quando desinit esse quod est, when a grammarian knows not what to
make of it, migrat in adverbium, he calls an ad- verb."* What
indeed can be made of such ' Divctsioiia vi Puiky, Vol.
I. expressions as at all, by and by, to be sure, for
ever, long ago, no, yes. They are adverbs, say the grammarians. But (to
take the phrases first) what are the words, individually, of which
the adverbs are composed? The answer will be, they are prepositions,
adjec- tives, &c., which remain from the corruption of regular
phrases once in use. This is a true , account of the matter : — yet it
leaves us still to ask, what ai'e these single words, now that the
phrases which produced them exist no longer in their original state. Let
any gram- marian, if he can, prove their right to the name of any
of the received parts of speech. Our system, if it does not make a
provision tor them by a name for a new class of words, at least
shows the cause and the nature of their difference. For according to our
principles, words have both a separate and a, joint signifi-
cation. But if words should be constantly another place, he
says " that this class of words, (ad- verb,) is the common sink and
repository of all hetero- geneous, unknown corruptions."
occurring in particular combination, this ef- fect will enaue, —
that their separate significa- tion in such hackneyed phrase, will at
last be quite unattended to, and their joint significa- tion alone
regarded ; — and such phrases will then be as liable to be clipped in the
currency of speech, as any long word which is trouble- some to be
uttered at full : — thus will the re- maining parts of the phrase be
fixed for ever in their joint, and lose for ever their separate
signification*. So much for the words com- posing adverbial phrases. But
what are we to say for no, yes, which probably had the same origin
as the phrases ? These have not, Hke the phrases, a compound form, nor
do they, like the phrases, always assist in making up a sentence,
but are frequently and proper- ly pointed oft' by the full stop. Are we,
un- der such circumstances, to call them adverbs P •• Yes."
This is the answer our grammarians make. But is there, in these words,
any • Thcwordtoas asignofthcinfiiiitivL'moodcumcs
onilcr this doicnption. thing which gives them a just claim to
be ranked with any of the received classes of words? "
No." This is an assertion it would be difficult to gainsay. For
consider them well, and we shall find, that, in their present use,
they are not j3ar/s of speech at all, except with reference to the larger
portions of dis- course of which all the sentences are parts : they
are sentences ; and they afford a striking example of what was intimated
in the prece- ding section, namely the tendency oflanguage, in a
mature state, to return on its early steps as far as can be done without
losing the ad- vantages gained : for not only do we, when- ever we
can, bring the smaller parts of speech into such union as to form larger
parts, but in some instances, (as in these last,) we come round
again to the simpHcity of natural signs. 28. This union of the smaller
into larger parts of speech, and the power we have to dis- pose the
same materials into more or fewer sentences, will furnish further proofs,
that the present theory of language can alone be the true one. A
proper examination of compound sentences will show, that the
grammatical parts into which they are first resolvable, are not the
single words, but the clauses which are formed by those words ; which
clauses are substantives, and verbs, and adjectives, and adverbs,
with respect to the whole sentence, however they may, in their turn, be
resolva- ble into subordinate parts of speech bearing the same or
other names. To take the fol- lowing as an example : " The sun which
set this evening in the west, will rise tomorrow morning in the
east." The two parts into which this sentence is resolvable, are, to
all intents and purposes, a noun-substantive and a verb, if
considered with respect to the whole sentence*. This is the first, or
broadest ana- * And HO may the two parts (technically called
the protasis and apodosis) of every periodic sentence be considered
: for every period, (TEfi'ofos, a circle,) is re- solvable into two chief
parts, the one assimilated to the semicircle tending out, the other to
the rendering- in, or completing semicircle. These answering parts
ate commonly indicated in Greek by iJth — ft; in En- ]lysis. Then taking
the former of these two chief constructive parts, we shall find it
re- solvable into these two subordinate parts, viz. the sun, a noun
substantive, and w?iick set this evening in the west, its adjunct or
adjective : — the latter chief constructive part being in the same
way resolvable into will rise, a verb, — and, tomorrow morning in the
east, its ad- junct or adverb. Returning to the adjective of the
former chief constructive part, we shall gUsh very frequently by as
— so; though — yet, &c. There may exist a doubt in most sentences so
construct- ed, whether the one part has a claim to be considered
tlie verb more than the other : each part is meant to be insignificant by
itself, and, {as was lately supposed of the parts of speech in their
early institution, before a sentence was composed of more than two
words,) they Bifrnify a communication by the very act of being
join- ed together. Yet as the protasis is a clause in sus- pense,
and so resembles a substantive in the nomina- tive case before the verb
is enounced ; — as the apodo- 618 removes the suspense, and so resembles
the verb in its effect on tlie substantive ; — it seems that in
con- Hidering the protasis as a nominative case and the apo- dosis
aa its verb, we shall not be far from taking a , right view of the
principle and procedure. 7find it, if separately viewed, to
be a sentence having its nominative which, its verb set, and the
latter having its adverb tins evening in the ivest ; which adverb is
resolvable into two clauses of which the former consists of the de-
monstrative adjective this, and evening, a sub- stantive used objectively
with relation to the preposition on understood •• The latter clause
in the west is nearly similar in its grammatical parts ; but the
preposition it depends upon, is not understood. This subordinate or
adjec- tived sentence which we have thus taken to pieces, (viz.
which set this evening in the west,') is however no sentence when
considered with " Or more properly this eeening is an adverb ;
for a word cannot justly be called understood, when its ab- sence
is not suspected till the grammarian informg us of it : — on before euch
phrases when the custom to omit it had just begun, was indeed understood;
it is now understood no longer, and what remains of any such phrase
is an adverb. As the next clauses, in the tceat, retains its preposition,
we are at liberty to parse the clause, instead of considering it, in the
whole, as an adverb attcndijig the verb set, though we are also
ab liberty to consider it in the latter way. reference
to the larger sentence of which it is a grammatical part : but it might,
if the speaker had pleased, have been kept distinct, and the same
meaning have been conveyed by two simple sentences, as by the one
com- pound one : e. g. " The sun set this evening in the west
: — It will rise tomorrow morning in the east." Here, we have two
sentences or commuuications. But this is nothing more than a
difference in the manner of conveying the thought, precisely analogous to
the using of two words that restrict each other, in place of a
single appropriate sign. In the instance before us, the thought, whether
expressed by the one sentence or the two, is the same ; and it is
one and entire, whatever the expression may be. For we must not confound
the two facts referred to in the sentences, with what the mind
thinks of the facts : — it is the con- nexion of the facts that the
speaker seeks to make known. Yet he may imagine he can best make it
known by using the two sen- tences ; for though, it is true, that while
they are in progress, they will be understood se- parately, yet no
sooner will they be com. pleted, than the hearer will understand
them limited and determined the one by the other, and no longer
abstractedly as while they were in progress. In this manner, in
correspond- ence with the principle stated Sect. 21 . iii., will the
same result be obtained by the two, as by tlie one sentence.
29. This power, which exists in all lan- guages, of expressing the
same thought in a variety of different ways, is, one would think, a
suiEcient proof, by itself; that thoughts and words have not the kind of
correspondence whicli is commonly imagined : for if such cor-
respondence had existed, the same thoughts would always have been
expressed, if not by the same words, yet by words of similar mean-
ing in the same order. Let us suppose that tlie expressing a thought by
several words,' I had been, (which it is not,) a process analo-
gous to that of expressing the combined sounds of a single word by
several letters. There is the more propriety in instituting tlie
compa- rison, because men were driven to the latter expedient by a
necessity similar to that which drove them to the former. For, no
doubt, the first idea of the inventors of writing was, to
appropriate a character for every word ; and we are told that, to this
day, a practice near to this prevails in China, But it was soon
found that the immense number of characters this would require, must make
the completion of the design next to impracticable ; and the
expedient was at length adopted of spelling words. By this expedient,
twenty four cha- racters, by their endless varieties of position
with each other, are capable of signifying the multitude of words, and
the innumerable sen- tences, which constitute speech. The parts of
speech were set on foot by a similar urgency, and in tlie same way. At
first, every sound was a sentence. But the communications which the
business of life required, far, far outnumbered every possible variety of
sound. It was fortunate, therefore, when a necessity
eo ON C arose to give to some of the
sounds a less par- ticular application ; for then the requisite
sign was formed out of two or more sounds already in use, and no
new sound was required. So far the parallel holds ; but it will go no
further. In the spelling of words by letters, the same letters must
always be used, — if not the same characters, yet characters of the same
power. And it would have been the same in spelling a thought by
words, if the process had been what it is commonly supposed to be :— that
is to say, the same thought would always have been expressed by the
same words, or if the words had been changed, the change must have
been word for word, as in a completely literal translation from one
lan- guage to another. How different this is from fact, hardly
needs further examples in proof. Mr. Harris attempts to shew *,
that • Hermes, Book I. Chap. 8. We cordially agree in
Home Tooke's opinion of thia well-known work, that it is " an improved
compilation of almost all the enors which grammarians liave been
accumulating S tlic different forms or
modes of sentences, depend on the nature of our thoughts. That the
character of a thought has an influence in determming our preference of
this or that mode of speech, needs not be questioned; but all the
modes of speech, are interchangeable at pleasure, and therefore they
cannot aub- stantiallydepend on thenature of our thoughts. An
affirmative sentence, " 1 am going out of town," ma be
made imperative, " know, that I am going out of town ;" or interrogative,
*' Is it necessary to say, that I am going out of town ?" A negative
sentence, " No man is immortal," maybe made affirmative,
"Every man is mortal." It would waste time and patience
to multiply examples. The con- clusion, then, is, that the parts of
speech and from the time of Aristotle, to our present days."
Di- versions of Furley, Vol. I. page 120. Vet occasionally, when
our etymologist runs a little bard on this Com- piler of errors, the
theory we advance, opposite as it ib in its general tenor to all that the
Hermes conttuns, will be found to lend its author a lift. See the
section ensuing in the text. the forms of sentences,
are alike attributable to the necessities and conveniences of lan-
guage, and not to the nature of our thoughts independently of language.
Perhaps by this time it may almost seem that an opinion con- trary
to this has no defined existence, and that the combat has been against a
shadow. But this is not true. If the opinion opposed to the
principles contended for, is seldom ^rwio% expressed, it is nevertheless
universally under- stood — it is at the bottom of all the systems
of grammar, of logic, and of rhetoric, which we study in our youth, and
which we after- wards make our children study ; and as it is an
opinion radically, essentially wrong, the pains employed to overthrow it,
cannot, if successful, have been supeiHuous. In no other way was a
preparation to be made for an outline of the higher departments of
Sema- tology. 30. New, however, as we believe our
theory to be, yet it is not without authorities in its favour ; and with
these we shall conclude the chapter. Harris, the author of"
Hermes," in treating of connectives, stumbles unawares on the
fact, that a word which is significant when alone, may he no significant
part of what is meant hy the expression it helps to form. He makes
nothing indeed of the fact, further than to lay himself open to the
ridicule of Home Tooke for tKe inconsistent assertions in which it
involves him. " Having" says Tooke *, "defined a word to
he a sound significant, he (viz. Harris) now defines a pre- position to
be a word devoid of signification ; and a few pages after, he says, '
prepositions commonly transfuse something of their own meaning into
the words with which they are compounded.' Now if I agree with
him," continues Tooke, " that words ai'e sounds
significant, how can I agree that there are sorts of words devoid of
signification ? And if I could suppose that prepositions are devoid
of signification, how could I afterwards allow, ' Diversions
of Purley, Vol. I. Cliap. 9. 9» that they
transfuse something of their own meaning?" Yet with all this, Harris
is right, only that he is not aware of the principle, which lies at
the bottom of his own doctriue. A preposition, as well as every other
word, is a sound significant j — it has an independent abstract
signification : but being joined into a sentence, it is devoid of that
signification it had when alone : it has then transfused its own
meaning into the word with which It is compounded, as that word has
transfused its meaning into the preposition — that is to say, they
have but one meaning between them. 31. But Dugaid Stewart, in his
Philoso- phical Essays, furnishes a direct, and a more satisfactory
authority in favour of the theory we have advanced. " In reading
" says he •, " the enunciation of a preposition, we are
apt to fancy, that for every word contained in it, there is an idea
presented to the understand- ing ; from the combination and comparison
of which ideas, results that act of the mind • Philosophical
Essays, Essay 5. Chap. I. called judgment. So different is
all this from fact, that our words, when examined sepa- rately, are
often as completely insignificant aa the letters of which they are
composed, de- riving their meaning solely from the connexion or
relation in which they stand to others." — Again : " When we
listen to a language which admits of such transpositions in the arrange-
ment of words as are familiar to us in Latin, the artificial structure of
the discourse suspends, in a great measure, our conjectures about
the sense, till, at the close of the period, the verb, in the very
instant of its utterance, unriddles the jenigma. Previous to this,
the former words and phrases resemble those detached and unmeaning
patches of different colours, which compose what op- ticians call
an anamorphosis ; while the effect of the verb, at the end, may be
compared to that of the mirror, by which the anamorphosis is
reformed, and which combines these appa- rently fortuitous materials,
into a beautiful portrait or landscape. In instances of this sort,
it will generally be found, upon an accurate examination, that the
intellectual act, as far as we are able to trace it, is altogether
simple, and incapable of analysis ; and that the elements into which we
flatter ourselves we have resolved it, are nothing more than the
grammatical elements of speech j — the logical doctrine about the
com- parison of ideas, bearing a much closer affinity to the task
of a school-boy in parsing his lesson, than to the researches of
philoso- phers able to form a just conception of the mystery to be
explained." — Had this acute philosopher brought these views of
language to the elucidation of Grammar, Logic, and Rhetoric, and so
have cleared them from the incrusted errors of immemorial
antiquity, the reader's patience would not have been tried by the
chapter now finished and those which are to follow. Say,
first, of God above, or man below. What can we reason, but from
what we know. POPE. 1. In commencing this branch of
Semato- logy, it may be as well to define not only this but the
other branches, that their presumed relation and difference may at once
appear : i. Grammar, then, is the right use of words with a
view to their several functions and inflexions in forming them into
sentences ; ii. Logic is the right use of words with a view
to the investigation of truth ; and iii. Rhetoric is the right use
of words with a view to inform, convince, or persuade *. *
This definition includes the poet^s use of words as well as that of every
other person, who, having one or more of the purposes mentioned in view,
speaks or fts 2, The
object of the present chapter will be, to show that there is no art of
Logic (except sucli as is an imposition on the un- derstanding but
that which arises out of the principles ascertained in the previous
chap- ter ; — that tliis, which is the Logic every man uses, agrees
with the definition in the previ- ous section; —and that we cannot carry
the definition further, without transgressing a clearly marked line
which will usefidly distin- guish between Logic and Rhetoric.
3. In affirming that there is no art of Lo- gic but that which
arises out of the use of signs, we do not mean that reason itself is
de- writes skilfully. Should it be said, that the poet's end is to
delight, — we answer that he gains this end by in- forming, convincing,
or persuading. The true dis- tinction between the poet and any other
speaker or wri- ter, lies iu the different nature of their thoughts,
In communicating his thoughts, the poet, like others who are skilful
in the use of words to inform, convince, or persuade, is a rhetorician ;
although, with reference to the creative genius displayed, {iroix^n a
jrcn'm,) and al- so with reference to the added ornament of metre
or rhyme, we chU the result, a poem.
pendent on language. Reason must exist pri- or to language, or
language could not be in- Vented or adopted. What we affirm is,
that prior to the use of words or equivalent signs, »o art exists :
the mind then perceives, as far fts its powers extend, intuitively; and
thus working without media, it can no morye ope- rate otherwise
than as at first, than the eye can see otherwise than nature enables it.
The mind can, however, invent the means to assist its operations,
as it has invented the telescope to assist the eye ; the difference
being, that the telescope is not such an instrument as all minds
would invent, but the use of signs to assist its operations, grows out of
the human mind by its very constitution, and the influ- ence of society
upon that constitution. 4. That writers on Logic do not in gene-
' ral view the matter in this light, is evident from this, that
they devote, or at least they persuade themselves and their readers
that they devote, a great pait of their considera- tion to the
operations of the mind indepeud- 9entlyof language, which,
for any practical end, must evidently be nugatory on the supposi-
tion stated above ; since, if the mind, without the aid of signs, can but
operate as nature en- ables it, all instruction concerning what the
mind does by itself*, will but be an attempt * WattB Bays t&at
" the design of Logic, b to teaeli us the right use of our
reason." Recurring to our comparisDU in the previous section,
this is as if any one had proposed to teach the right use of the eye.
It is true indeed, a man may be taught a right use of the eye, —
that is, he may be taught to observe proper ob- jects by its means ; and
so may he be taught a right use of reason by applying it to those things
which are conducive to his improvement and happiness. But all this
belongs to Morals not to Logic ; nor was this Watts's meaning. He
imagined a man could be tattght how to use his reason independently of
any considera- tion of an instrument to work with ; as if any one
had offered to teach mankind how to sec with their eyes. Now, there
is nothing preposterous in offering to show how a telescope is to be used
in order to assist the eye ; nor any thing preposterous in trying to
show how words may be used in a better manner than com- mon custom
instructs us, in order to assist the mind. — Be it observed that the
objection here made, is to what was proposed to be done by Watts, and
not to teach us that which every one does with- out teaching, and
which no teaching can make us do better : but if, by the use of
signs, the mind can carry its natural operations to things which it
could not reach without signs, the instruction of the logician should at
once begin by pointing out the use and the abuse of signs. Now this
is in fact the point at which every teacher of logic does begin,
how- ever he may disguise the real proceeding from himself, and
whatever confusion he may throw over his subject, by not knowing in what
way he is concerned with it. In pretending to teach us the nature
of ideas j logicians do no- thing but teach us what knowledge we
attain to what he actually does, except so far as he has done
it amiss from setting out badly. What follows in the text will explain
this last observation. Our illustration must not lead the reader to
think we are ignorant of the fact that men do learn to see, that
is, to correct, by experience and judgment, the im- pression of objects
on the retina. We take the matter as commonly understood, namely, that
men see correct- ly by nature, which is near enough to the truth for
our present purpose. by means of words-, and when Home
Tooke says of Locke's great work, that it is " merely a
grammatical Essay or Treatise on words," * be comes so near the
truth, that it is wonder- ful he should have so wrongly interpreted
other parts of that philosopher's doctrine. Putting a wrong construction
on Locke's just fundamental principle, that the mind has no innate
ideas, Tooke affirms that '* the busi- ness of the mind, as far as it
regards language, extends no further than to receive impres- sions,
that is, to have sensations or feelings. What are called its operations
are merely the operations of language." t This is palpably
absurd ; ftx how can language operate of it- • Diversions of
I'utley, Vol. I. page 31, note. -j- Diversions of Purley, Vol. I.
page 51. We have already quoted this passage ; and perhaps more
than ontc : but it is hoped we need not apologise for the re-
petitions whicli may be found in this and the next chapter. Our purpose
is to trace Grammar, Logic, and Rhetoric, to a common source, and in
doing so, if they really have an origin in common, we must
necesEarily traverse the same ground repeatedly to come at it
aelf? The mind must observe, compare,
and judge *, before it can invent or adopt the lan- guage of art ;
and having adopted it, every use of it is an exercise of the reasoning
facul- ty, excepting only that kind of instinctive use, in which
some short sentence takes the place of a natural ejaculation. Feelings or
sensa- tions we cannot help having ; but these do not help us to
language. This requires the ac- tive powers of the mind ; and every word,
in- dividually, will accordingly be found the sign of something we
kno-w, obtained, as every thing we know must be obtained, by
previous acts of comparison and judgment, involving, * These
powers of the mind are innate, — that is to e&y, they belong to tlie
mind by its constitution, al- though sensation is the appointed means for
first call- ing them forth. It should seem as if Tooke thought
nothing was bom with man except the power to receive senEStionB or
feelings, and that reason comes from Un- guage ; an opinion so
preposterous that we can hardly think him capable of it ; and yet, from
what he says, no other can be understood : — " Jleason,""
he says, " ia the result of the senses, and of experience."
Diver- sions of Purley, Vol. 11, p^e 16. J^
in every instance beyond that which sets the sign on foot, an
inference gained by the use of a medium. And such, as we have seen,
are the necessities of speech, that tliey lead us constantly to extend
the application of words ; which extension requires new acts of
comparison and judgment; and thus, by means of words, (or signs
equivalent to words,) we are constantly adding to our knowledge,
still carrying the signs with us, to mark and contain it, and to serve
afterwards as the media for reaching new conclusions. It is only
ne- cessary to read Locke's Essay with this ac- count of the matter
in view, to prove that it is the true account j so readily will all that
he has said on ideas, yield to this simple inter- pretation *, He
who first made use of words * " Read," saya Home
Tookc, " the Essay on the Underslnnding over with attention, and see
whether all that its immortal author has justly concluded, will not
hold equally true and clear, if we substitute the composition, &c. of
lerraa, wherever he has supposed a composition, Sec. of ideas. And if
that, upon strict examination, appear to you to be the case, you
will equivalent to yellow, white, heat, cold, soft, hard, bitter,
sweet*, used them, respectivelyy to signify the individual sensation he
was con- scious of, and in that first use, the expression must have
been a sentence, or tantamount to a sentence. By experience, he came to
know the exterior cause of that sensation, and after- wards, by the
same means, to know that other need no other argument against the
composition of ideas : it being exactly similar to that unanswerable
one which Mr. Locke himself declares to be sufficient against their
being innate. For the supposition is un- necessary : every purpose for
which the composition of ideas was imagined being more easily and
naturally answered by the composition of terms, whilst at the same
time it does likewise clear up many difficulties in which the supposed
composition of ideas necessarily in- volves us." Diversions of
Purley, Vol, I. page 38. In this, and other passages, H. Tooke is very
near the trutli ; but he nevertheless misses it. " The com-
position, Sic. of terms "' in lieu of " the composition,
&c. of ideas," does not describe the actual process. But Tooke,
who discovers that Locke has started at a wrong place, begins his own
theory from a false found-4 ation. • yide Locke, B. 2. ad
initium : we have used the examples before. Chap. I, Sect. 16.
ol^ects produced the same sensation. To these several
objects he would naturally apply the expression (originally tantamount to
a sen- tence) by which he first signified the sensa- tion ; and
suppose those objects already pro- vided with namesj the expression
would, in such pew application, be tantamount to a name or
noun-adjective. Thus in the several instances, he would use two names for
one thing, in correspondence with our present practice when we say,
yclhw flower, yellow sky, yellow earth, yellow skin. Such a proce-
dure is an effect and a proof of what the speak- er has observed in
common, and of what he observes to be different, in the several ob-
jects; and this is a knowledge evidently ob- tained from comparison and
judgment exer- cised on many particulars. The same know- ledge
enables us, when we please, to drop the words which name the objects
accojding to their differences, and to retain only that which
signifies their similarity, and the name-adjec- tiv e then becomes a
name-substantive standing for the sensation itself whenever or how4 ever
produced, and not standing for it in amy particular case, until limited
to do so by the assistance of other words. Individually and
separately, then, these words^ viz. yellow; white, heat, cold, soft,
&c. are, to him who has properly used them in particulars, tiie
eigns of the knowledge he ha^ gained by com^ paring those particulars
:«^hey denote con- clusions arising out of a rational process which
has been carried on by their means ; which conclusion, as to the
word^elloWf for instaop^ is this, — ^that there are » great mwy
Qbjepte which produce the same sensation, or a sensar tion very
nearly the same j*— ^(very nearly the same, since yeU&w^ by all who
have acquired a full use of the word, is applied to different
shades of yellow j — ) and to understand the word, is to have arrived at,
or kno^ this cof^- elusion. 5. The words so far referred to,
are those which denote what Locke calls simple ide^js. Now, we may
reasonably doubt wheth^ the mind could have obtained the knowledge,
which, as we have seen, is included even in a word of this kind, if it
had not been gifted with the power of inventing a sign to assist
itself in the operation. That sign needs not be a word, though words are
the signs com- monly used. He who remembers the sensa- tion of
colour produced by a crocus, is re- minded of the crocus the next time he
has the same sensation from a different thing ; and the crocus may
become the sign of that sensation arising from the new object, and
from every future one. And this is the way in which the mind probably
assists itself an- tecedently to the use of language, or where, (as
in the case of the totally deaf *,) the use of * Though long
for a quotation, yet we cannot re- sist transcribing, from a work by Dr.
Watson, master of the Deaf and Dumb Asylum, Kent Road, near London,
the following able remarks : — they will help to shew how for superior
are audible signs to every other kind, and place in its proper light the
misfor- tune of being naturally incapable of them. He is speaking
of the comparative importance of the two it, by the ordinary means of
attainment, is precluded. But for this power of the mind,
senBES, hearing and seeing. " Were the point," he says,
" to be determined by the value of the direct sensations transmitted
to the sensorium through each of them, merely as direct sensations, there
could not be any ground for a moment's hesitation in pro. ,
nouncing the almost infinite superiority of the ej/e to ] the ear. For
what is the sum of that which we derive I from the car as direct
sensation P It is sound ; and sound indeed admits of infinite variety ;
but strip it of j the value it derives Irom arbitrary associations, and
it is but a titillation of the organ of sense, painful or
pleasurable according as it is shrilly soft, rough, dis- cordant, or
harmonious, Sec. Should one, on tlic con- trary, attempt to set forth the
sum of the information we derive from the eye " — independently of
the aid derived from arbitrary means — " it is so immense, that volumes
could not contain a full description of it ; so precious, ' that no words
short of those we apply to the mind itself, can adequately express its
value. Indeed, all lan- guages bear witness to this, by figuratively
adopting visible imagery to signify the highest operations of in-
tellect. Expunge such imagery from any language, and what will be left !
What, in this case, must be- come of the most admired productions of
human ge- nius P Whence then (and the question is often asked) 1
does it arise, that those bom blind have such su- h2 which
seems pecuHai* to man, and is the cause of language, (not the effect of
it, as perlority of imelligence over those bom deaf?
Take, it miglit be said, ii boy nine or ten years of age who has
never seen the light, and you will find him con- versable, and ready to
give long narratives of past oc- currenceH, &c. Place by his side a
boy of the same age who baa had the misfortune to be bom deaf, and
observe the contrast. The latter is insensible to all you say : he
smiles, perhaps, and his countenance ie brightened by tlie beams of '
holy light;' he enjoys the face of nature; nay, reads with attention
your features ; and, by sympathy, reflects your smile or your
frown. But he remains mute : he gives no ac- count of past experience or
of future hopes. You at- tempt to draw something of this sort from him :
he tries to understand, and to make himself understood ; but he
cannot. He becomes embarrassed : you feci for him, and turn away from a
scene so trying, under an impression that, of these two children of
mi^ fortune, the com])ari8on is greatly in favour of the blind, who
appears, by his language, to enter into all your feelings and
conceptions, while the unfortunate deaf mute can hardly be regarded as a
rational being ; yet he possesses all the advantages of vi- sual
information. All this is true. But the cause of this apparent superiority
of intelligence in the blind, is seldom properly understood. It is not
that those H. Tooke seems to tliiak,) we never should have
been able to arrange olyects in classes, who are blind possess a
greater, or anything like an equai stock of materiak for mental op^adons,
but bs- cause they possess an invaluable etigine for forward- ing
those operotioiis, however scanty the materials to operate upon —
artificial language. Language is de- fined to be the expression of
thought ; so it is : but it is, moreover, the medium of thinking. Its
value U> man is nearly equivalent to that of his reasoning fa-
culties: without it, he would hardly be rational. It is the want of
language, and not the want of hearing, (unless as being the cause of the
wont of language,) that occasions that deficiency of intelligence or
ine&. pansion of the reasoning faculty, so observable in the
naturally deaf and dumb. Give them but language, by which they may
designate, compare, classiiy, an4 consequently remember, excite, and
express their sen^ sations and ideas, — then they must surpass the
origin< ally and permanently blind in intellectual perspicuity
and correctness of comprehension, (as far as having kctual ideas afiixed
to words and phrases is concerned,) by as much as the sense of seeing,
furnishes matter for mental operations beyond the sense of hearing,
con- Eidered as direct sensation. It is one thing to have a^
fluency of words, and quite another to have correct no- tions or precise
ideas annexed to them. But though the car furnishes us only with the sensation
of sound, and reason on them when so arranged ; nor to
consider some common quality in many ob- jects, separately from the
objects themselves. Every object might have produced the same
individual effect by the senses, which it now produces, and have been
recognized as the same object when it produced the effect
again ; for all this happens to other animals, as to man ; but to know a
something in each which is common to many, implies a remem- brance
of that something in the rest at the time of perceiving each individually
j and how can this remembrance, (a remembrance and sound,
merely as such, can stand no comparlEOD with the multiform, delightful,
and important informa- tion derived from visual imprestiioDS ; yet as
sound admits of such astonishing variety, (above all when
articulated,) and is associablc, at pleasure, in the mind with our other
sensations, and with our ideas," (notions,) " it becomes the
ready exponent or nomenclature of thought ; and in this view is important
indeed. It is on thie account, chiefly, that the want of hearing is
to be deplored as a melancholy chasm in the human frame.'"
Instruction of the Deaf and Dumb, not of the objects, but of a common
some- thing in all of them,) how can it be kept up, but by a sign
fitted to this duty ; which sign, as just observed, may be either a word,
or one of the objects set up to denote the com- mon characteristic,
and retained in mind Bolely for this purpose, in this
representative capacity ? 6. In proceeding from what are
called by Locke simple ideas to those he denominates [ complex, we
shall find the account just given equally applicable. The words he refers
to . under the threefold division of Modes, Sub- stances,
Relations, are, as our last examples, signs of certain conclusions
obtained from s comparison of particulars. This is true even \ of a
proper name ; for a proper name, as was ' shewn Chap. I. Sect. 3., does
not denote an individual as we actually perceive him, or as. J we
remember him at any one time ; but it J denotes a notion, that is, a
knowledge of him I drawn out of, or separated from all our par- '
I04f oNr Lo&ic. [cHap. ii. ticular perceptions *•
For such an effect of reason^ we have however nb certainty that the
superior powers of the huknan mind ar« indispensable; nor is it eiisy to
ascertaiq any peculiar privilege it enjoys till we find it rising
from individuals to classes. As soon as it sets up a sign to represent
some property, whether pure or mixed, which has been observed iA
many individuals,— or to re- * It id aft efifect of reaisoiiing to
know that a pa]>> ticular act or situation, which enters into our
percep- tion or conception of an object, is not essential — to
know, for instance, tliat the act of walkiAg is ftot es- iBentiAl to
John. The reasoning by which «uch k^w- ledge is acquired, occurs indeed
so early, that the operation is forgotten ; but there was a time when
our perceptions were without the knowledge, because they had not
been repeated i^ isu^ti^t hUtiibet to leHkbl^ the mind to make the
BCcessary ootaipluidcms^ Th^ natives of the South Sea Islands^ when
Cttptaia Cook <8nd his companions first made their appearance
among them, took every sailor and his garments to be one creature,
and did not arrive at a different condhision, but by o{>portuiiitte6
fdr comparicon. present the whole class of individuals,
so classed because of the common property, — ^it displays a power
of assisting itself which we have no cause to think any of the
inferior animals enjoy. To ahew how this takes place in producing
what Locke calls complex ideas, and which he subdivides into Modes,
Sub- stances, Relations, would only carry us onc^ more over the
ground we have so often cur- Lsorily traversed. We should have to
shew, for instance, how some word, at first equiva- lent to a
sentence, by which a man expressed his delight at a particular visible
object, came to be a name for the object ; how this name beauly,
came to be applied as a noun-adjec- tive to the nouns-subatantive of
other objects producing the same or a similar emotion j how, by the
continued application of this noun-adjective, we kept on comparing
innu? merable particulars, till our knowledge (no- tion) included a
very wide class of things very different indeed in other respects, —
nay^ including objects of other senses than sight— but still,
agreeing with each other in a certain effect produced on the mind : and
that then, dropping the nouns-substantive of the nu- merous
individuals, we retained solely in con- templation the noun beautiful or
beauty, the sign of the knowledge we had gained from this extensive
comparison— of the induction derived from these numerous particulars
*. • Very few persons reach so wide a knowledge of the
subject as we here refer to, and books may be, and have been written, to
teach us how to apply the word beautiful with taste, and critical — nay,
moral pro- priety. Having attained so far, we are not to suppose
that beautiful or beauty is a real existence independently of the
classification of objects we have thus established. All we have learned
is, to know the objects which pro- duce a certain elfect ; to know why
they produce it ; to enjoy, it is probable, the pleasure of that effect
with higher relish ; and to be prepared, by means of the
classiUcation we have formed, to lise, in our reasonings on the objects
it contains, to higher truths, and still more important conclusions. Now,
if the reader would see how a business so plain and simple, may
appear very complex and mysterious, let him
consult Plato on the beautiful or t'o xayjtv, as he will find
it treated, for instance, in the dialogue called STMHOSION : Let
him admire as he will, (for who can help it. We should again have to shew,
(to take another instance,) how a word once expres- sive of some
sentiment or recognition of which a horse was the subject, came to
be used as a name for that particular horse i that the name came
afterwards to be given to another resembling creature, — thence to
another, — and to others, till the points of re- semblance which led to
this extension of the word, could be found no longer *. We should
especially in company with Cicero, — witness his Errare tnekercule
malo cum Plaione, quam cum istia vere sentire?) let him admire the
sublimity which the amiable and highly-gifted Athenian throws over
his doctrine ; but let him not be betrayed into an opinion, that a
speculation which is in the most exalted etriun liipoeh'y, belongs to the
sober, the undazzled, and tin- dazzling views of philosophy.
• Compare Chap. I.Sect, 10. We may be per- mitted once more to
observe, that, with regard to sab- stances at least, the sign of the
class needs not be a word : one individual set up for all, will equally
serve the purpose. Not that the boundaries of a class are plain,
till an accurate logic determines them ; but the general differences (as
of the horse, for instance) are sufficiently obvious to prevent a person
from being likewise have toshew, (totake a third instance,)
how some word,-^originally equivalent, like the others, to a sentence, —
by which a man expressed his gratitude for kind offices, might come
to be a name for every one to whom gratitude for similar offices was due;
and how this ua.me,Jriend, applied at first only to
misled, who carries one individual in his mind ae the eign of all
he has seen, and all he calculates on seeing, and reasonB on this one,
with a conviction that the reasoning includes all the others. The idea of
an in- dividual thing which is thus set up as the represent- ative
of a class, may perhaps, without impropriety, be called a general idea ;
and if Locke had never used the expression but in subservience to such an
cxplana- uon, little or no exception could have been taken to it.
There is a passage (Essay on the Understanding, Book III., Chap. 3. Sect.
Jl.) which perfectly ac- cords with the doctrine in the text, and proves
that though Locke had misled himself by setting out with an opinion
that the operations of the human under- standing could be treated of
independently of words, he had more correct thoughts on the subject as
he proceeded. Another passage, giving a correct account of
abstraction with reference to language as the instru- ment, will be found
Book IL Chap. II- Sect. 9- one who stood in this ration to
the speaker, came at last, by observing and comparing other cases,
to be applied to all who stood in the same relation to any other person.
We should, in short, have to shew the same pro- cess with regard to
all the examples of modes, substances, and relations, which Locke's
Es- say supplies; but with these brief hints to guide him, the
reader may be left, in other instances, to trace the process for
himsdf. It will now be time, — still witii reference to the
principles ascertained in the last chapter, —to examine some other points
of doctrine in- sisted upon by writers on Logic. 7. The
operations of the mind necessary in Logic are said to be three, viz.
Percep- tion or Simple Apprehension ; Judgment ; and Reasoning.
Under the first of these di- visions, writers on Logic treat of ideas,
or the notions denoted by separate words, that is, words not joined
into sentences ; — under the second, they give us separate
sentences, technically called propositions j — ^and under the
third, they shew how two propositions may of necessity produce another,
so that the three shall express one act of reasoning. Now, that
perception, judgment, and reasoning, are all essential to Logic, needs
not be called in question ; but if the theory we have before us in
this treatise be true, the common doc- trine will appear, by the manner
in which it ex- emplifies these acts of the mind, to have com-
pletely confounded what really takes place, in the preparation for, and
in the exercise of this art. What, in the first place, is perception but
a sensation or sensations from exterior objects accompanied by a
judgment ? Our earliest sensations are unaccompanied by any judg-
ment upon them ; for we must have ma- terials to compare in order to
judge ; and these materials, in the earliest period of our
existence, are yet to be collected. At length, we can compare j and
because we can com- pare, we judge, and hence we come to know : —
" I know that the object which now affects my sense of vision is a
being like myself; I know him to be one of a
great many similar beings j I know him to be older or younger, &c.
; I know that what now affects my sense of = hearing, is the cry or bark
of a dog" •, &c.j I could not know all this, if I had had
no means of judging ; and I can have no means of judging which the
senses do not originally furnish or give rise to. Perceptiouj then,
(which in every case is more than mere sen- sation,) always includes an
act of judgment ; and to treat of Perception and Judgment under
different divisions of Logic, must pre- vent the proper understanding of
both. In- stead, however, of the term Perception, some writers t
use that of Simple Apprehension. *' Simple apprehension," says Dr.
"Wliately, *' is the notion (or conception) of any object in
the mind, analogous to the perception of the senses." t The examples
appended to • See Chap. I. Sect. 16. of- Viz.
Professor Duncan and Dr. Whately. J Elements of Logic by Dr. Whately,
Chap. II. Part I. Sect. 1. this definition, are,
*'inan;" "horse;" •'cards ;" " a man on
horseback ;" " a pack of cards." Now, if the notion or
conception of tliese, 13 analogous to the perception of them by the
senses, — then, as the perception includes an act of judgment, so
Ukewise does the conception. But, in truth, the no- tion
corresponding to any of these expressions, is very different from the
perception of a man, a horse, a man on horseback, &c. ; and the
word or phrase in a detached state does not stand for a perception or
concep- tion inclusive only of an act of judgment, but signifies an
inference obtained by the use of a medium, — in other words, a
rational conclusion. For in all cases, what gives the name and
character of rational to a proceed- ing, is the use of means to gain the
end in view. When we perceive intuitively of two men, that one is
taller than the other, al- though the judgment we form may be an
e0ect of reason, yet we do not describe it as a rational process ; but if
the investigator, not being able to make a direct comparison
between them, introduces a medium, and by its means infers that one is
taller than the other, then we say the conclusion has been obtained
by a process of reason *. So, in applying a common name to two
individuals that are intuitively perceived to resemble, we may be
said to exert the judgment, and nothing more ; but if we apply it to a
third, and a fourth, and a fifth, it is a proof that we measure
each by the common qualities ob- served in the first two, and that we
carry in the mind a sign of those common qualities (whether the
name, or one of the former in- dividuals) for the purpose of carrying on
the process. In this way, an abstract word or phrase, let it
signify what it will, provided it be but abstract, is both the sign of
some ra- • Reasnn is the capacity for using mpdia of
any kind, and it consequent capacity for language : — the term
reasoning has reference to tlie act of thinking, with the aid of media in
order to reach a couclu- tional conclusion the mind has
already come to, and the means of reaching other conclu- sions :
which statement is true even of a proper name. For the name John, for
in- stance, underetood abstractedly, does not sig- nify John as we
now perceive him, or as we have perceived him at any one time ; but
it signifies our knowledge of him separately from any of those
perceptions. But we could not know of him separately from our
percep- tions, unless we had the power of setting up some sign
(whether the name or aught else) of what was common to all those
perceptions, and comparing them all with that sign *. • It is
not meant that we could not know him every time we perceived him, but
that we could not know of him separately from our perceptiong, if we
bad not the power spoken of in the text. It might be curious to
trace this distinction in the case of a dog. A dog knowE his master every
time he perceives him : — when he does not perceive him, he is reminded
of his absence by some change in his sensations, — (smcU, for
instance, as well as sight, and perhaps some others ;) he therefore seeks
him, and irets if he cannot find him. But abstracted from all perception,
and It appears, then, from
what precedes, that words and phrases which writers on Logic give
as examples of Perception or Simple Apprehension distinct from
Judg- ment and from Reasoning, are no examples at all of the first
distinct i'rom the latter two ; and equally groundless will appear that
dis- tinction which refers a proposition to an act of judgment
separate from reasoning. Not that an act of reasoning takes place
whenever a proposition or sentence is uttered. For, as we have seen
in the previous chapter, (Sect. 19.) a speaker does not always think of
the separate meaning of the words when he utters a sentence ; and
if a sentence denotes, as a whole, some sensation or emotion not
de- pendent on reason, (for instance, " My head aches;"
•' My eyes are delighted,") the ut- tering of it as a whole, without
attending to the sqiarate words, will no moj'e express aa
from all notice by change of sensation, it will scarcely be
contended that a dog knows of his master, as a ra- tionsl being knows of
his absent friend. act of reasoning, or even of judgment,
than would a natural ejaculation arising out of the occasion, and
used in place of the sentence. But the following propositions, "
Plato was a philosopher;" "No man is innocent ;"
which are given in Watts's Logic as examples of the act of the mind
called Judgment, stand on a different footing ; and we affirm that,
being used Logically, they involve not an act of judgment merely,
but express a conclusion drawn from acts of reasoning. 9-
Previously to shewing what has just been asserted, let us distinguish a
grammati- cal, and an historical understanding of these sentences ;
for a mere grammatical under- standing of them must be, and an historical
may be, essentially different from the logical understanding of them. A
grammatical un- derstanding, for example, of the sentence, Plato
was a philosopher, is merely a recog- nition of its correctness as a form
of speech without considering whether it conveys any meaning or not
; and it would be grammatically understood if any words whatever were
substituted for those that compose the sen- tence, provided they had a
proper syntactical agreement. An historical understanding im- plies
some concern with the meaning of the sentence ; but this may be very
different in kind and degree, as depending on the know- ledge
whicli the mind is previously possessed of. If the hearer did not know
what Plato waa previously to the communication, but knew the
meaning of the word philosopher, he would, by the sentence, be informed
what he was, If he previously knew, from history, how Plato lived,
thought, and acted, but did not know the meaning of the term philosopher,
the ad- ditional information conveyed to him by the sentence, would
be but little : he would be in- formed. Indeed, that he was called a
philoso- pher, but why or wherefore, he could, for the present,
only guess. Let us suppose, however, that before he comes to calculate
why Plato is called a philosopher, he had heard the word plied to
others : if he bad heard Socrates m
[chap. II. called a philosopher, and Confucius a philosopher,
he would, on hearing Plato so called, compafe the individuals in order to
ascertain some common qualities in all, of which the word might be
the sign, and getting these, he would know or have a notion of the
word philosopher ; though the notion would pro- bably undergo many
modifications as otlier individuals, Solomon, Seneca, Locke, Rous-
seau, Newton, were successively subjected to the common sign : — for if
the hearer fixes his notion at once, many individuals will perhaps
be excluded from his class of philosophers, which other people include
under that term ; and perhaps he will include many, which the usage
of the term excludes. In this way, then, while our knowledge of what is
included in separate words or phrases is imperfect, we may
nevertheless have some understanding of the sentences we hear or read ;
and this his- torical understanding suggests the reasoning process
just described, by which we get a logical understanding of the separate
words. But now to make a logical use of tfaem in framing a
proposition. We suppose the preliminary steps, namely the knowledge
included in the separate words ; we suppose it to be known, from history,
how Plato lived, thought, and acted ; we suppose it to be known
what is meant by philosopfier, by having heard the word applied to many
indi- viduals i but we have not yet applied it to ' Plato ; in
other words, we have yet to ascer- tain whether Plato belongs to the
class of in- dividuals denominated philosophers. Writers on Logic
talk of a comparison of ideas for this purpose, and of an intuition or
judgment ; but this, to say the best of it, is an imperfect and
bungled account of the matter. If, in- deed, to know how Plato lived and
acted can be called an idea, it is necessary to have this idea ; it
is further necessary to have a clear notion of the term philosopher, — if
this again can be called an idea: — and it is true enough that in
comparing Plato with this sign, we judge or know their agreement
intuitively. But out of this intuitive judgment an infer- ence
arises, and the sentence expresses that inference : a comparison has been
instituted through the intervention of a medium, in order to
ascertain whether Plato is to be as- signed to a certain class of
individuals ; we intuitively perceive his agreement with the
medium, and draw or pronounce our infer- ence accordingly, — " Plato
was a philoso- pher." Nor is this the splitting of a hair, but
a real distinction, marked and determined by that difference in the words
so often pointed out, when understood detachedly, and when
understood as a sentence. The proposition, Plalu was a pJiilosopher, may
be understood as a whole, without making the comparison in the mind
between what Plato, and what philosopher, abstractedly signify j
but this, with a full understanding of the whole sentence, can be done
only after the comparison has once at least been effectually made :
— then indeed, when the comparison has been made, and the inference
drawn, the sentence which expresses that inference, be- comes, like
any single word, the sign of knowledge deposited in the mind, and,
like such single term, it is fitted to be an instru- ment of new
comparisons, and further con- clusions. 11. Let us now take
another proposition : *' A philosopher, or every philosopher,"
(for the meaning is the same,) " is deserving of
respect." This, hke the other, is an infer- ence from a comparison
which took place in the mind ; previously to which comparison, the
notion or knowledge included in the word I philosopher was obtained in
the manner lately described (Sect. 9.) : and the notion included in
the phrase to be deserving of respect was similarly obtained, but
independently of the knowledge denoted by the other expression ; —
that is to say, the phrase deserving of re- spect, was originally, we
suppose, a sentence applied to some one thing deserving of re-
spect J whence it was successively applied to other things till a class
was formed — in other words, till a notion (knowledge) was esta-
blished in the mind of what things are de- serving of respect. Now, the
present ques- tion is, whether a philosopher is deserving of
respect ? To determine this, we consider what a philosopher is, (it is
presupposed tliat we have this knowledge,) and we then niea- Bure
our notion of a philosopher with our no- tion of what is deserving of
respect, and thus £nd that a philosopher is to be admitted among
the things to which we had been ac- customed to apply the designation
deserving qf respect : that is to say, we come to the conclusion,
that a philosopher is deserving of respect. Here, therefore, as before,
there has been a reasoning process previously to the proposition,
and the proposition expresses the inference from it. And the
comparison having once been made in this instance as in the other,
the sentence becomes, like any single term, the sign of knowledge
deposited in the mind, and like such single term, is fitted to be
an instrument of new compsrisons, and further conclusions. Well then, we
know from reasoning these two things, that " Plato IB a philosopher,"
and that " a philosopher is deserving of respect." These are
detached WORDS* or sentences : but the mind, in com- paring them,
at once comes to the inference that Plato is deserving of respect: and
the whole may be expressed in one sentence ; thus ; " Plato,
who is a philosopher, is deserv- ing of respect j" where
Plato-who-is-a-pJiiio- sopher, is equivalent to a noun-substantive
in the construction of the whole sentence ; and,
deserving-qf-respect is equivalent to another ; and thus the two, with
the assistance of the verb which signifies them to be a sentence,
are but one proposition. Here, as in the former cases, a comparison has
been made \ij. means of the signs of deposited knowledge ^ for we
knew that Plato was a phUosopher; we knew a class of things or persons
deserv- ing of respect: — comparing our knowledge by • See
the second note (Aristotle's definition of a' vord bcuig the first)
appmded to Sect. 20. Chap. I. ir. means of the sign
deserving-of-respect, the in- ference follows, that " Plato, who is
a philo- sopher, is deserving of respect." And the comparison
having once been made in this instance as in the others, the sentence
be- comes, like any single terra , the sign of know- ledge
deposited in the mind, and either in this or any other equivalent form,
is fitted to be an instrument of new comparisons and further
conclusions. And in this manner are we able, ad infinitum, to investigate
new truths by means of those already ascertained, always making use
of former words or their equivalents, as the means of operation.
12. Now, so far as Logic is the art of in- vestigating truth, (and
we intend to show that its office ought not to be considered of
further extent,) this is the whole of its theory. We have defined
it as the right use of words with a view to the investigation of truth ;
and the way in which words are used for the purpose, is that which
has been described : — in brief, they are used by the mind in making
such comparisons as it cannot make intuitively. Of two objects, or
of a sensation or emotion twcie experienced, we can intuitively
judge what there is in common between them;, l< suppose a third
object, or a sensation, &c« thrice experienced, an intuitive judgment
can still be applied only to two at a time, and wei can but know in
this way what there is common to every two. But if we set up tf
sign of what is common to two, we can compare with the sign a third, and
a fourth, and a fifth, and judging intuitively how far it agrees
with the sign, we infer its agreement in thq same proportion with the
things signified, In Logic, the sign used is always presumed to be
a word. Now, in our theory of Ian- guage, every word was once a sentence
; and every sentence which does not express the full communication
intended, but is qualified by another sentence, or becomes a clause of
a larger sentence, is precisely of the nature of any single word
making part of a sentence *. • See Chap. I. Sect. 28.
IM I^CMAP. 11, From the first
moment, then, of converting the expression used for a particular
communi. cation, into an abstract sign of the sentiment or truth
which that communication conveyed, the mind came into possession of the
instru- mental means for furthering its knowledge : and this means
always remains the same in kind, and is always used in the same
way. The word which once signified a present par- ticular
perception, ceased, through the ne- cessities of language, to signify
that percep- tion in particular, and came to signify, in the
abstract, any perception of the same kind, or the object of any such
perception. In this state, it no longer communicated what the mind
felt, thought, or discovered at the moment, but was a sign of knowledge
gather- ed by comparisons on the past. By u«ng this Bign, the mind
was able to pursue its inves> tigations, and every new discovery was
de- noted by a sentence which the sign helped to form, its general
application being limited to the particular purpose by other signs. But
if one WORD" ' may lose its particular pnrpose, and
become an abstract sign, so may another, and be the means, in its turn,
of prosecuting further truths, and entering into the com- position
of new WORDS. Thus will the procesa which constitutes Logic, be aiways found
one and the same in kind, having for its basis the constitution of
artificial language, such as it was ascertained to be in the previous
chapter. H 13. Now of this Lc^ic, — the Logic, uni- H
versally, of ntpotres, or woKD-dividing men, — H let the
characteristics be well observed, in order H to keep it clear from
any other mode of using H signs for the purpose of reasoning, to
which H the name of Logic is attributed. The Logic H
here described, is a use of words to regista- H our knowledge as
fast as we can add to it, by H new examinations, and new
comparisons of I things } each new esamination, each new
H sen! • The reader will bear in mind the
comprehenBive sense of the term which we have in view, when it is
printed in capitate. comparison, being made with the help and the
advantage of our previous knowledge. The reasoning takes place in the
mind in such a manner that it is not a comparison of terms, but a
comparison of what we newly observe, with what we previously knew. Words
indeed are used, because without signs of one kind or of another to
keep before the mind the knowledge already gained, we could compare
only individuals j but however words may in- tervene, it is always
understood that the mind, at bottom, compares the things, A man may
be informed, that, " Plato who is a phi- losopher, is deserving of
respect;" that, " William who is recommended to his
service, is an honest man ;" that, *• A particular tree in his
garden, is a mulberry tree ;" that, " Stealing is a vice, and
temperance is a virtue ;" that, " Throughout the Universe,
all greater bodies attract the smaller ;" that, " A
triangle described within two circles in such a manner that one of its
sides is a radius of both, and the others, radii of each
circle respectively, is an equilateral triangle;" — a man may
be informed of these and similar ^'things, and may entirely believe the
inform- ation; nay, hemayjustifiably believe it J for he may know
of those who give it, that their ho- nesty is such, that they would not
wilfully de- ceive him ; that their intelligence and inform- ation
are such, that they are not likely to say what they do not know to be
true : but a man can be said to know these things of his own
knowledge, and in this way to be convinced of their truth, only by a
process of reasoning that musl take place within his own mind ; a
process which can take place only in a mind by nature competent to it,
and which requires, in every case, its proper data or facts, aided,
it is true, by language, or by signs such as Ian- guage consists of, to
register each inference *, • The necessity of language, as a means of
in- vestigation, applies not to our last example. The mincl may
investigate (though no one can demonstrate) mathematical truths, with no
other aid than visible diagrams ; or even diagrams that are seen only
by " the mind's eye." and so to get from one inference to
another, and thus, ad infinitum^ toward truth. Be- cause the
several steps, leach of which is a conclusion so far attained, cannot
take place, without the instrumentality of signs to assist the
mind, we consider the process an art ; and if the signs used are words,
the art is pro- perly called Logic. But whatever aid the reasoner
may borrow from words, the only true grounds of his knowledge are the
facts about which the reasoning is employed. Without them, no
comparison of the terms can force any conviction further than that the
terms agree or disagree. He may be told that — " Every philosopher
is deserving of respect,*' and that, — " Plato is a philosopher
:** but if he knows not what a philosopher is, or what it is to be
deserving of respect, the comparison of the terms in order to draw
a conclusion from them, will be a mockery of reason : — it will be
reasoning indeed, but reasoning without a rational end. And suppose
the knowledge to have been acquired of what a philosopher is by the
application of the word to many particulars, and by a
consequent classification of them in the mind, — supposing the
knowledge of what is deserving of respect to have been acquired in the
same way, — supposing the inquirer has learned from history what
Plato was in his opinions and manner of life, — the conclusion takes
place by a com- parison of the thingSj by means indeed of words,
but not by any comparison of the terms independently of the things ; nor
is the con- viction in the least fortified, or the process ex-
plained, bya demonstration that in reasoning with the terms alone,
independently of their meaning, we get at the conclusion ; — by
shewing, for instance, that the terms which include the facts, may be
forced into cor- respondence with the following ^nwwfa; Every B is
A : C is B : Therefore C is A. Every philosopher — is—
deserving of respect : Plato — is— a philosopher : Therefore
Plato — ^is — deserving of respect. This way of drawing a conclusion from
a comparison of terms, is. properly speaking, to reason or argue
with words ; but in the Lo- gic we have ascertained, every conclusion
is required to be drawn from a comparison of the facts which the
case furnishes ; and words being used only for the purpose of
registering our conclusions, such Logic is properly de- fined the art
of reasoning by means of words. The inquirer who seeks to know, of his
own knowledge—" Whether William who is re- commended to his
service, is an honest man", — will gather facts of William's conduct
by his own observation ; and these he will com- pare by the light
of his previous notion (i. e. knowledge) of what an honest man is :
but then he must have that previous notion, or he cannot make the
comparison ; and the notion will have been gained by a process just
like that he is pursuing : and so downwards to the original
comparison of individiial tJujigs, from which all knowledge begins. So
again, if an inquirer seeks to know that " a particular tree is a
mulberry tree", — he must first know what a mulberry tree is; and
how can he know this but by a comparison of different trees? There
must be some art employed to classify the individual trees, otherwisehe
could never know more than the difference between every two trees.
By setting up one tree, or some equivalent sign, as a word, to denote
the common qualities observed in many, he comes to know what a mulberry
tree is ; and looking at the particular tree in question, he sees
that it has the common qualities indica- ted by the sign, and infers that
it is a mul- berry tree. So likewise, if an inquirer seeks to be
convinced that " SteaUng is a vice", or that "Temperance
is a virtue", — he must have such facts before him as will
enable him to come to a clear conclusion as to what is vice, and what is
virtue : and this conclusion will either include or ex- clude
stealing with respect to his notion of vice, and temperance with respect
to his notion of virtue, and he will consequently be convinceti or
not convinced of tlie proposition in question. So, once more, if an
inquirer desires to know, of his own knowledge, *' Whether,
throughout the universe, all greater bodies attract the smaller", —
he must first observe certain facts from which the ge- neral law
may be assumed hypothetical ly : — he must then ascertain what, according
to other notions gained from experience, would be the effect
throughout the universe of the general law which he has so assumed ; and
if the effects arising out of the hypothesis cor- respond with
actual effects, and no other by- pothesis to account for them can be framed,
he will have all the proof the subject permits, and know of his own
knowledge, as far as can be known, the conclusion asserted. So,
lastly, if an inquirer seeks to be convinced that "a triangle
described within two circles in such a manner that one of its sides is a
radius of both, and the others radii of each circle re- spectively,
is an equilateral triangle", — he must first form within his mind
the notions of a triangle, and of a circle, the latter of which he
will find can be conceived perfect in no other way than in correspondence
with this definition : — "a plane figure bounded by one line
called- the circumference ; and is such that all straight lines,
(called radii,) drawn from a certain point within it to the
circumference, are equal to one another. " Having formed this
notionr^ he will find, by certain acts of comparison^ (which must
take place within the mind, al- though they may be attsisted by a*
visible sign-J^ that the previous proposition is an inevitable
consequence of the notfon so formed, and his' conviction: wiU be
comffiete. If the convic- tion, in the previous ifrstances, has not
the same force as iiti the last^ — ^if, in those instances, the
force may be diffident m. degree, while in the last there can be no
coD^victioa short of lliat which iS' absolute an4- entire, the
cause^ in not that the reasoning process^ is different in kind, but
that the facts or data about which" it is' employed are dii&re»t.
In the last in^ stance^ the reasoning is employed about notions, which
admit uf being so defined, that every mind capable of the reasoning
at once assumes them before the reasoning pro- cess begins ; but in
the other instances, the facts or the notions may be attended by cause
for doubt. A man, if he have any notion of a philosopher at all, cannot
indeed but be quite sure (consciously sure) of his own no- tion of
a philosopher j but how can he be sure that others have the same notion,
or even quite sure that Plato had the qualities that conform to his
own notion ? In the same way, he will be quite sure (consciously
sure) of his own notion of an honest man ; but he may be deceived
as to the facts which bring William within that notion. He will be
quite sure (consciously sure) of the notion he has in naming a tree
a mulberry tree ; but that notion may be totally unlike the notion
which other people entertain ; or if the general no- tion agrees,
he may mistake the characteristics in the particular instance. He will be
quite sure (consciously sure) of his own notion of vice or of
virtue, and whether it includes or excludes this or that conduct, action,
habit, or quahtjr ; and in this case the conviction is absolute and
entire while the reasoner confines himself to his own notion ; but the
moment he steps out of this, and begins to inquire whether it
agrees with that of others, he finds cause to doubt. He must be quite
sure (sen- sibly sure) that bodies near above the earth's surface
have a tendency towards it ; and by proper experiments he may convince
himself that all bodies without exception which are so situated,
have the same tendency. In sup- , posing the fact universal of the
tendency of smaller bodies to the greater, his conviction of the
consequences involved in that hypo- thesis, must, as soon as he has
mentally traced them, be absolute and entire ; but he has yet to
find whether reality corresponds with the hy- pothesis. The strongest
proof of this will be, the correspondence of the consequences of
the hypothesis with the phenomena of na- ture, joined to the
impossibility of forming 138 ON LOGIC. [chap. II.
another hypothesis which shall account for these phenomena; and the
doubt, if any, will attach to that impossibility, and to the
accuracy of bis observatioda of the pheno* rneoa* I^ then, there is roonr
for doubt, and cocise^aently for various degrees of assent, in all
the instances except m that whose facts or data are notions which the
mind is bound to tstke up according to the definitions before it
enters on the argument, we are not to con- clude that the reasoning
process is different in kind iti any of them ; since the difl^ence
in the facts or data about which the reasoning process i&
employed, fully accounts for the ab- solute and entire conviction which
takes place in one instance, and the degrees of convictioti which
are liable to happen in such cases as^ the others. 14. But
what IB a process or act of rea^ soning? Is it, abstractedly from the
means' u£^d to register its conclusions, and so pro- ceed to new
acts of the same kind, — ^is it aa act which rules can teach, or any
generalbsau- tion make clearer, or more satisfactory than it is
originally ? We shall find, upon examina- tioH, that any such pretence
resolves itself in- i to a mere verbal generalization, or the
appli- cation of the same act to itself; and that this does in no
way assist the act of reasoning, or explain, or account for, or confirm
it. A man requires not to be told — *' It is impossible for the
same thing to be and not to be," in order to know that himself
exists ; he requires not the previous axiom, " The whole is
greater than its part, or contains its part, " in order to
know that, reckoning his nose a part of his head, his head is greater
than his nose, or his nose belongs to his head ; neither is the
previous axiom, " Things equal to the same, are equal to one
another", necessary to be enounced, before he can understand, that
if he is as tall as his father, and his father as his friend, he is
as tall as his friend *. Whatever neatness of arrangement a system may
derive from being • Compare Lofku's Essay, Book IV. ChajHeis
7 and 12. 1headed with such verbal generalizations, it
is manifest that they neither assist the reasoning nor explain it :
nor must a generalization of , this kind be confounded with the
enunciation of what is called a law of nature*, — (the law of
attraction and gravitation for instance, — ) since this last is a
discovery by a process of experiment and reasoning, but a verbal
gene- ralization is no discovery at all ; — it is merely a mode of
expressing what is known by every " rational mind at the very
first opportunity for exercising its powers. Or more properly speaking,
the laws of reasoning, which are gratuitously expressed by what are
called axioms, are nothing else than a mode of de- * See
Whately's Logic, Chap. I. Sect. 4, where he attempts to evade Dugald
Stewart's oh^ection to the Ariatotelian syllogism, that it is a
demonstration of b demoiigtration, by comparing the Dictum de omni
et de nullo to the enimciation of a law of nature. — It is rather
pleasant, in the first note of the Chapter referred to, to hear the
doctor running riot upon Locke's con- fuinon of thought and common place
declamation, be- cause the latter had the sense to sec the futility
and puerility of the syllogism. SECT. 14.] ON LOGIC.
141 scribing the constitution of a rational mind.;—* they are
identical with the capacity itself for reasoning: to view them in any
other light is to mistake a circumlocution for the discovery of a
principle. And this kind of mistake every one labours under who supposes
that, by any means whatever, an act of reasoning is assisted or
explained, accounted for, or con- firmed. Nothing is more certain, than
that if two terijns agree with a third, they agree with each other,
— if one agrees and the other dis- agrees, they disagree with each other:
but every other act of reasoning has a conclusion equally certain
(the facts or data about which an act of reasoning is conversant being
the sole cause of any doubt in the conclusion*,) and this or any
other attempt at explaining or accounting for the act, will therefore
only . * And note, that when people are said to draw a wrong
conclusion from facts, the correct account would be, that they do not
reason from them, but from some- thing which they mistake for them,
through their ina- ability to understand, or their carelessness to the
na- ture of, the facts given. I4!l
[chap. ir. amount to the placing of one such act by
the side of another; as if any one should set a pair of legs in
motion by the side of another pair, and call it an explanation of the act
of walking. Such would at once appear to be the character of the
Aristotelian Syllogism, were it not for the complicated apparatus
ac- companying it ; an apparatus of distinctions and rules rendered
necessary by the nature of the terms compared. For these terms
being obtained by the division of a sentence, are such that they
agree or disagree with each other only in the sense they bore before
the division took place. Our theory makes this plain; for it shows
that words which form a sentence limit and determine each other,
and thus have a different meaning from tliat which belongs to them
when understood abstracted- ly. Therefore, though it may be true
that " Plato is a man deserving of respect, ' does not follow
that " Plato " and " A maai deserving of respect "
shall agree togetiier as abstract terms : accordingly the latter
term understood abstractedly, signifies any or every man desei-ving
of respect, and does not agree with Plato. It must be obvious, then,
that terms obtained iirthis way, can be compared with other terms
similarly obtained, only un- der the safeguard of certain rules. Such
rules are accordingly provided ; and tliat they may not want the
appearance of scientific general- ization and simplicity, they are all referred
to one common principle, — the celebrated dic- tum de omni et de
nullo ; whose purport is, that what is affirmed or denied of the
whole genus, may be affirmed or denied of every species or
individual under it ; — which indeed is nothing more than a verbal
generalization of such a fact as this, that what is true of every
philosopher, is true of any one philosopher. All tliese pretences to the
discovery of a uni- versal principle, do but leave us just where we
were, a few high-sounding empty words ex- cepted; and this must ever be
the case when we seek to account for that which is, by the
constitution of things as far aa we can ascertain them, an ultimalefact. An act
of reason- ing is the natural working of a rational mind upon the
objects, whatever they may be, which are placed before it, when, having
formed one judgment intuitively, it makes use of the re- sult as
the medium for reaching another: and the pretence to assist or explain
this operation by the introduction of such an instrument as the
syllogism, is an imposition on the under- standing. 15. This
will more plainly appear when we examine the real use, (if use it can be
called,) of the Aristotelian art of reasoning. It may be described
as the art of arguing unreason- ably, or of gaining a victory in
argument without convincing the understanding. As it reasons
"with words, and not merely by means of words, it fixes on
expressions not on things, and is satisfied with proving a conse-
quence, or exposing a non-sequitur in those, without inquiring into the
actual notions of the speaker. " Do you admit " says a
syllogi- zer, " that every philosopher is deserving of respect?
" " I do;" says the non-syllogi- zing respondent. "
And you admit, (for I have heard you call him by the name,) that
Voltaire is a philosopher : you admit, there- fore, that Voltaire is
deserving of respect. " Now, if the notion of the respondent is,
that Voltaire is not deserving of respect, here is a victory gained
over him in spite of his con- viction. Arguing from the words, and allow-
ing no appeal from them when once conceded, the conclusion is decisive*.
But in looking beyond the words to the things intended, we shall
find that the respondent either did not mean every philosoplier, as a
metaphysical, but only as a moral universal, or else (and the
supposition is the more likely of the two) that in calling Voltaire a
philosopher, he called • " If," says a. doughty
Aristotelian doctor, " a imiyeraity is charged with cultivating only
the mere elements of mathematics, and in reply a list of the hooks
studied there is produced, ^should even any one of those books be not
elementary," [" / day here on my biynd,''] " the charge is
in fiiirncss refuted." Whately's Logic, Chap III. Sect. 18.
. II. him so according to the custom of others, and
not according to his own notion. In a Logic whose object is truth and not
victory, the business would not therefore end here. An attempt
would be made to change the notion of the respondent (supposing it to be
wrong) by an appeal to things. His mind might in- deed be so choked
with prejudice as to be in- capable of the truth ; but at least would
the only way have been taken to remove the one and procure
admission for the other. — To the foregoing, let another kind of example
be add- ed : " Every rational agent is accountable ; brutes
are not rational agents ; therefore, they are not accountable." *
" Non sequitur*^ cries the Aristotelian respondent. The other
man, who reasons by means of words and not merely mth words, is certain
that the internal process by which he reached the conclusion is
correct ; nor is he persuaded to the contrary, or at all enlightened as
to his fault, when he is told that he has been guilty of an illicit
pro- ♦ From Whately's Logic, Chap. I. Sect. 3. cess of
the major. He is informed, however, that his mode of reasoning finds a
parallel in the following example : " Every horse is an animal
; sheep are not horses ; therefore they are not animals.'* * But this he
denies ; be- <:ause he is sure that his mode of reasoning would
never bring him to such a conclusion as the last. All this time, while
the Aristo- telian has the triumph of having at least puzzled his
uninitiated opponent, the real cause of diflference is kept out of sight,
name- ly, that the one refers to that reasoning which is conducted
merely with words, and not by means of words only, while the other refers
to that reasoning which looks to things, inatten- tive perhaps, as
in this instance, to the expres- sions. If the latter had used no other
ex- pression than " Brutes are not rational agents ; therefore
they are not accountable ;•" — the as- sertion and the reason for
it, must have been suffered to pass; but because another sen- tence
is prefixed to these two, and the whole * Whately'*s Logic, Chap.
I. Sect. 3. l2 F 1 of
them happen to make a violated syllogism, the speaker is charged with
having been guilty of that violation, when in fact he has not at-
tempted to reason syllogistically at all ; i. e. to draw his conclusion
from a comparison of the extremes with the middle, but from a judg-
ment on the facts of the case. In a Logic which gets at its conclusions
by jneans of words, and not by the artifice we have just referred
to, an expression which does not reach the full facts reasoned from,
(every rational agent, for instance, where it should have been said
none but a rational agent,J would not be deemed an error of the
rea- soning, but a defect in the expression of the reasoning.
] 6. These examples will, it is hoped, be sufficient to show the
real worth of the Aris- totelian syllogism, ft is indeed, as its
advo- cates assert, an admirable instrument of ar- gumentation ;
but of argumentation distinct from the fair exercise of reason. It is a
pro- per appendage to the doctrine of ReaUsm, SECT.
16.]] 149 and with that exploded doctrine
it should long ago have been suffered to sink. While ge- nera and
species were deemed real independ- ent essences, to argue from words was
con- sistently supposed to be arguing from things : but now that
words are allowed to be only counters in the hands of wise men, the
Logic of Aristotle, which takes them for money, should surely be
esteemed the Logic of fools". The claim for its conclusions of
demonstrative certainty, rests solely on the condition that words
are so taken. Every conclusion from an act of reasoning, would have that
charac- ter, if the notions about which it was employ- ed were
notions universally fixed and agreed upon. In mathematics, this
circumstance is the sole ground of the peculiar certainty at-
tained. All men agree in the metaphysical notion of a point, of a line, a
superficies, a circle, and so forth t : if all men necessarily
* " Words are the counters of wise men, but the money
of fools," — Hobbes. f According tu Sugald Stewart,
mathematical agreed in the notion of who is a philosopher and who
is not, of what is vice and what is virtuBj and so forth ; our
conclusions on these and similar subjects, would, as in
mathematics, be demonstrative : but till definitions can be framed
for Ethics in which men must agree, there is little chance of erecting
this branch of learning, with any praciical benefit, into a
science, according to the notion insisted on with some earnestness in
Locke's Essay*, lu Physics we can do more ; for men agree pretty
well as to what is a mulberry tree, and what is a pear tree ; what is a
beast, and what is a bird ;— by experiment they can be shewn what
are the component parts of this sub- stance, what the qualities of the
other j and so forth : so that here, our conclusions need
definitions are mci-e hypotheses. Do they not rather describe
notions of and relating to quantity, which, by the congtitution of the
mind, it must reach, if, setting aside the sensible instances of a point,
a line, a circle, &c., it tries to conceive them perfect ?
* Book IV. Chap. III. Sect. 18,: and the same book Chap. XII. Sect.
8. not be wanting in all necessary certainty; although, as
that certainty depends on the conformity between our notions, and the
out* ward or sensible objects of them, it will be of a different
kind from the certainty obtained in meta-Phi/sicSj and therefore not
called de- monstrative. In the latter department, (Me- taphysics,)
the chain of evidence has its first hold, as well as every subsequent
link, in the mind, and the mind cannot therefore but be sure of the
whole. 17. As we propose to limit the province of Logic to
the investigation of truth, the re- marks and examples in the section
preceding the last (15.), might have been spared till we come to
consider Rhetoric, to which we in- tend to assign, among its other
ofiices, that of proving truth. How far the form of ex- pression
which corresponds to the syllogism, is calculated to be useful to a
speaker or wri- ter, may at that time draw forth another ob-
servation on the subject. Meanwhile we pro- pose to exclude it entirely
from Logic; and in truth the common practice of manlcind out
of the schools, has never admitted it as an in- strument either for the
one purpose or the other. Common sense has always been op- posed to
it ; and Logic is a word of bad reputa- tion, because it is supposed to
mean the art of arguing for the sake of victory, and not for the
sake of truth. In vain have Locke, Campbell, Reid, Stewart, and other
sound thinkers, endeavoured to clear the art from its reproach by
detaching the cause : the Aristo- telian Syllogism has been repeatedly
over- thrown ; yet some one is ever at hand to set it on its three
legs again, and argue in defence of the instrument of arguing : — some
per- tinacious schoolmaster may always be found Who e'en though
vanquished yet will ahgue still; While words oflearncd length and
thundering sound*. Amaze the gazing rustics ranged around.
* Videlicet, Terms middle and extreme ; premiss major and minor ,-
quantity and quality of propositions ; Universal affirmative ; Universal
negative ; Particular affirmative ; Particular negative ; Distribution
and non- distribution of terms; Undistributed middle; Illicit pro-
So much — (till, in the next chapter we come to a parting
word — ) so much for the Aris- totelian Syllogism. 18. As to
the Logic which we have en- deavoured to ascertain, it is, we repeat it,
the Logic which all men learn, and all men ope- rate with in
gathering knowledge ; and the only inquiries which remain are, i. Whether,
so far as we have gone, there is ground or ne- cessity for principles and
rules in the exercise of Logic, as there is for grammar in speaking
a language; and ii. Whether we ought to consider its limits as extending
beyond the cBss of the major ; Illicit piocese of the Tninor
; Mood itnd figure— Barbsrs, Celarent, Darii, Ferio, Cesare,
CameBtres, Festino, Baroko, Darapti, Disamis, Datisi, Felapton, Bokardo,
Feriso, Bramantip, Camenes, BU maris, Fesapo, FrcBison ; Categoricals,
Modals, Hypo- theticals. Conditionals, Constructive form.
Destructive form, Oatcnsive reduction, Illatire conversion, &c.
kc &c. Well may we join with Mons. Jourdain — " Voila dee
mots qui sont trop rebarbatifs. Cette logique ]& ne me rcvient point.
Apprcnons autre chose qui soit plus joli.'* . [chap.
II. bounds proposed at tlie commencement ot* this
Chapter. 19. Though few persons would be dis- posed to answer
the former question in the negative, yet an analogous case may induce a
moment's pause in our reply. At the conclu- sion of the first note
appended to Sect. 4., allusion was made to the fact, that men do
not see truly by nature, but acquire, through judgment and experience,
the power of know- ing by sight the tangible qualities of objects
and their relative distances. Now, the in- terference of rules, supposing
them possible, to assist this early discipline of the eye, would be
useless — perhaps raiscliievous : — why are we to think differently of
the discipline of the mind, as regards the use of those signs
which, if our theory is true, are forced upon us at first by an
inevitable necessity ? Because the art of seeing truly is necessary to
the preserva- tion of the individual ; and nature takes care,
therefore, that we do not teach ourselves im- pertectly or erroneously ;
but the conducting of a train of reasoning with accuracy and pre-
cision into remote consequences, is unne- cessary in a rude state of
society j and man, who is left to improve his physical and moral
condition, has the instrument of that improve- ment confided to his own
care, that he may add to its powers, and form for himself rules for
using it with much more precision and much more effect, than any random
use of it can be attended with. Accordingly, if we look to that
department of knowledge which Locke calls ipvaiK^ * , we shall find that
it owes its existence to the accurate Logic by which inquirers
registered all their observations and all their experiments, and by which
they as- cended from individuals to classes, till each had
comprehended in his scheme all he de- sired to consider. Here then begins
the pro- per business of Logic as a system of instruc- tion : it
ought to lay open all the various me- thods of arrangement and
classification by ' Vide the lutrixluction to this
Treatise. which science is acquired and enlarged ;
and if something may yet be done toward im- proving these methods,
it should open the way to such improvement. The Aristotelian rules
for definition, which are a sound part of Logic, should be explained and
illustrated ; and the nomenclatures invented by various
philosophers, particularly that which is used in modern chemistry, should
be detailed and investigated. SO. But if, by the application
of a more accurate Logic than belongs to a random use of language,
men have been able to accom- plish so much in ^uo-ik^, it does not
appear that they have great cause to boast of their success in the
other department, namely ■n-paKTiK-^. Do they act, whether as com-
munities or individuals, muck better with a view to their real interests,
than they did two thousand years ago ? If improvement here, as in
the other department, is possible, how is it to be accomplished ? We live
in an at- mosphere of passions, prejudices, opinions,
which mould our thoughts, and give a cer- tain character and hue to
all the objects of them ; — these we do not examine, but take them
as they appear to us, and our reasonings too often start from them as
from first facts. As to the process itself, — a process which every
individual conducts ■within his avra mind according to the power which
nature gives him, — we affirm that it cannot be other than it is,
and that, provided it starts from true data, it can never lead us wrong :
but if that is false which at the outset we take for true, then
indeed our conclusions may be perniciously, ruinously erroneous. It is
ac- cordingly the business of the moralist to re- move the false
hue which habit, opinion, and passion, cast over the surface of things ;
and it should be the business of the politician to examine the
principles on which the general affairs of the world are conducted, and
open the eyes of mankind to their pernicious ten- dency, if in the
whole or in part they are per- nicious. But neither the moralist nor
the politician can come at the necessary truthis intvitiveljf : they
must use the mediaj and the media consist in that use of words which
con- stitutes Logic, as we have described it. We do not intend to
say that language affords the means of reaching equal results to
every person who makes the right logical use of it ; for men's
minds are very different in natural capacity; and some are able to
perceive truths intuitively, which others attain only by a slow
process; as tall men can reach at once, what short men must mount a
ladder to : but we do intend to say, that, let the natural powers
of any human mind be what they will, there is no chance for it of any
ex- tensive knowledge, but through the employ- ment of media to
assist its natural operations ; <and, we repeat it, the media which
nature suggests, and leaves for our industry to im- prove, is
language *. Well then, if our im- * The reader does not understand
us, if he deems it an objection to our reasoning, that many highly
gifted men in point of understanding, do not provement in ntpaKrucrfj is, at
this time of ^ay, less than we might expect, is it not reason- able
to think that, with regard to this depart- ment, we do not quite
understand the instru- mental means, and consequently do not ap-
ply them with complete effect ? Surely there is some ground for such a
suspicion, when we find a doctor (of some repute we presume) in one
of our two great places of learning, de- claring that '^ the rules of Logic
have nothing to do with the truth or falsity of the premises, but
merely teach us to decide (not whether the premises are fairly laid down,
but) appear to have a skilful use of language. A man may be
rhetorically unskilful in language without being logically so ; — he may
be imable to convey to others how and what he thinks ; but he may make
use of media in the most skilful manner to assist his own thoughts.
And if his capacity is such that he seei many truths intuitively for
which others require media^ it is evident that he cannot convey
those truths to them till he has searched out the means. The nature
and the principle of such an operation be- longs to our next chapter on
Rhetoric. fim whether the
conclusion fairly follows from the premises." * We acknowledge that
the Logic to which this description applies, has never been the
Logic of mankind at large, however it may have been the baby-game
of men in colleges ; but that the office of Logic should be
described so completely opposite to what it really is, at a time when its
proper office and character ought to have been long ago thoroughly
understood, is not a little surprising, and may reasonably warrant
the suspicion stated above. We have no doubt our reader is by this
time convinced, that men who reason at all, do not want rules for
drawing their conclusions fairly, if we could but get them to draw those
conclusions from right premises ; and that to get at right pre-
mises is every thing in Logic. For this end, it is our business to set
all notions aside that have not been cautiously acquired ; and to
begin the formation of new ones at the point * Whateiy'a Logic.
Provinceof Reasoning, Cliap- I. Sect. 1. sf;ct.
20.] IGI where all genuine knowledge
commences, — the intuitive comparison of particulars or single
facts ; to make use of the knowledge (notions) hence obtained as media
for new comparisons or judgments; and so on ad in- Jinitum. Alas!
it is but too certain, that though we draw our conclusions faiily
enough, our premises, in a vast proportion of cases, are laid down
most foully, because they are laid down by our ignorance, our
passions, and our prejudices ; and because language itself, when
its use is not guarded, is a means of deception*. • We arc
somewhat backward in offering examples of general remarks, such as is
this last ; because it is scarcely possible to be particular without
touching on questions in religion or politics that carry with them,
either way, a taint of parti zanshi p ; and we hold it to be very
impertinent in a writer on Logic, to turn those general precepts for the
discovery of truth which he is bound to ascertain, into a particular
chan- nel in order to serve his own sect or party. What business
had Watts to exempliiy so many of hU cautionary rules by the errors of
Papistical doctrine, at a time when its doctrine was a subordinate
and But can the assistance which lan- guage is
intended to furnish, be rendered such party queBtioit, and be
himself was a sectarian opposed to it ? We trust that no exception of the
same kind can be taken {particularly as we give them only in a.
note) to two examples we are about to submit of the remark in the text,
that language itself may lie the means of deceiving us into wrong
premiseB : — they are by no means singular, hut Guch as may he met
with every hour on almost every question. The ph rase natural state
is, as we all know, a very com- mon expression, which we are much in the
habit of applying to things that have not been abused or per-
verted from the form or condition in which nature first placed them. Now,
because the same phrase happens to be frequently applied to man in a
rude state of society, we start, in many of our reasonings, with
the notion, that in proportion as we have depart- ed from such a state,
we have perverted and abused the purposes of nature ; when, in truth, it
seems wiser to inquire, whether we have yet reached the state which
nature means for creatures such as we are, and whether she is not
constantly urging us on to such an unattained state. Our other example is
of narrower in- terest, and belongs to politics, or rather to what
is called political economy. The word price, in general loose
speaking, means that which is given (be it what it may) to obtain some
other thing ; but in a strict as to lead us to truth in spite of
ignorance, passion, and prejudice, and in spite of the delusions of
which it is itself the cause? Why not, if the guarded and careful use of
it, is fitted to diminish these obstacles, and if we do not look
for the ultimate effects -faster than, by the use of the means, the
obstruc- tions ^ive way ? Nor are mankind inattentive to improve
the means, nor are the means and mercantile Bense, it has a
uniform reference, direct or indirect, to the quantity of precious metal
given for commodity ; inasmuch as gold and silver are the sole
universal medium of barter throughout the world, and every promise to pay
has reference to a certain quan- tity of one or the other of these
metals. These things premised, it must be obvious that the phrase price
of gold, using price in a strict sense, is an abeurdity, and could
arise only from confounding the meaning which prevails in ordinary speech
with the meaning in which the merchant uses it. What, then, are we to
think of an English House of Commons, which, some twenty years ago,
deputed to a committee the task of in- quiring into the causes of the
high price of bullion ? Might not the committee, with as much reason,
have been deputed to inquire, why the foot rule was more or less
than a foot ? without effect : for when we ask, whether
their moral and political condition is much ad- vanced beyond what
it was in the most pro- mising state of the world in past days *, we
do not mean to deny what every one of common knowledge and
observation is aware of, that it has advanced : all we urge is, that a
sys- tematic attention to the means of investigating truth, might,
peradventure, in politics and morals, as it has in physics, have been
at- tended with effects more widely beneficial. Neither do we afSrm
that existing works on Logic are destitute of many admirable pre-
cepts for investigating truth, although we assert that the precepts are
referred either * Note, that it is unfair to fix on a particular
part of the world in proof of what it was in the whole. States and
cities may advance themselves for a time by a partial policy which keeps
others backward : but the policy will fail in the end. By a natural
course of things the advanced state will merge in the mass and
improve it : and thus the world will keep on advancing, although the
spectator, who contemplates only the particular state, will think it is
retrograding. to a false principle, or to no principle at all
fitted to unite them into one body of sys- tematic instruction. The work
lately referred to *, fnrnishes, for instance, many excellent
precepts for avoiding errors in the use of words, and for guarding
against the snares of sophistry; and if such precepts and such ex-
amples as it offers, distinct from the doctrine of the syllogism, were
industriously collected, and brought forward in aid of the Logic
which all men learn and all men use, they would be of inestimable value.
A useful system of Logic will guard our notions from error not only
while we think, but while we are reasoned witht: for one chief way
by which truth enters the mind, is through the * Viz,
Whately's Logic. + Our meaning will be understood ; but wc
express it by ii distinction which is grounded on no real dif-
ference. He who is reasoned with, if he understands the ai^ument, is set
a thinking ; and his agreeing or disagreeing with the argument is the
effect of his own thoughts, however these may be set in motion, and
perhaps unreasonably influenced, by what he hears. medium of language as
employed by others : and Logic should therefore arm us with all
possible means for coming at truth so offered, through the various
entanglements by which the medium may be accompanied. Hence, the
various sophisms of speech accompanied by their appropriate names, would
still occupy a place in such a Logic ; nay, for this purpose, and
for this alone, would the Aristotelian doctrine of the syllogism deserve
explanation ; namely to understand how a conclusion drawn from mere
terms, may, as a conclusion from them, be perfectly true and perfectly
useless, and thus to induce us to bottom all our reasoning on
things. — Having thus offered, on the first of the questions proposed in
Sect. 18, such observations in the affirmative as we thought it
required, we now proceed to the second question. 22. That
question was. Whether we ought to consider the limits of Logic as
extending beyond the bounds proposed at the com- mencement of this
chapter : towards answering which, we may first inquire how far
other views of it extend. By the Scotch metaphy- sicians, and
generally in the schools of North Britain, the word Logic seems to be so
used as to imply the cultivation of the powers of the mind
generally, correspondently with M'atts's definition of tlie purpose of
Logic, namely, " the right use of reason." " I have
always been convinced," says DugaJd Stewart*, " that it was a
fundamental error of Aristotle, to confine his views to reasoning
or the discursive faculty, instead of aiming at the improvement of our
nature in all its parts." And he then goes on to mention the
following as among the subjects that ought to be con- sidered in a
just and comprehensive system of Logic. " Association of ideas ;
Imagina- tion ; Imitation j the use of language as the GREAT
INSTRUMENT OP THOUGHT ; and the artificial habits of judging
imposed by the principles and manners in whicli we have
* Fhilotiuphical Essays. Chap. 16s been
educated." * Now if the threeibld di- vision of human knowledge is a
just one, which, in the Introduction of this work, was
his * io the same purpose, Philosophy of the
Humat n the second volume of Mind, (Chap. III.
Sect. S.) he speaks thu^ ' The following,
(which mention by way of specimen,) seem to be among
the most powerful of the causes of our felse judgments. The
imperfections of language both as an instru- ment of thought, and as a
medium of philosophical communication. 2. The difficulty in many of
our most important inquiries of ascertaining the facts on which our
reasonings are to proceed. 3. The partial and narrow views, which, from
want of information, or some defect in our intellectual
comprehension, we are apt to take of subjects which are peculiarly
complicated in their details, or which are connected by numerous
relations with other questions equally problematical. And lastly, (which
is of all perhaps the most copious source of speculative error) the
pre- judices which authority and fashion fortified by early
impressions and associations, create to warp our opinions. To illustrate
these and other circumstances by which the judgment is apt to be misled
in the search of truth, and to point out the most effectual means
of guarding against them, would form a very important article in a
philosophical system of Logic," borrowed from Locke,— namely
into, it., the knowledge of things tiiat are, — ii., of things fitting
to be rfonc, — and, Hi., of the means of acquiring and improving both
these branches of knowledge;— it wUl at once appear that all the
subjects referred to in this enumeration of Stewart's, except the fourth,
which we print in capitals, come under the denomination of physica
: — they are energies or tendencies of the mind derived from nature, or
habits arising out of natural causes ; and they come accordingly
under the division of things ex- isting in nature, which things, as they
all concern the mind, it is the business of the Pliilosophy of the
human mind to explortf: but the fourth of the subjects mentioned in
the quotation from Stewart, viz •* the use of LANGUAGE AS THE GREAT
INSTRUMENT OF THOUGHT," comes under the third of the
divisions laid down by Locke, and ought cer- tainly to be distinguished
from the other subjects, because it is the means of becoming
acquainted with them : it is the instrument.
m and they are among its objects. True, we discover, as
we proceed in the use of it, and we are properly warned by those who
have used it before, that its efficacy is assisted or impeded by
extraneous causes, as well as by defects in the instrument itself:
similar dis- coveries will be made, and similar warnings must be
given, in the practice of almost every art: but these ought not to enter
into the de- finition of the art, although it will be proper to
bring them forward, incidentally, as we open its rules. " A method
of invigorating and properly directing all the powers of the mind
is indeed," says Dr, Whately, " a most magnificent object, but
one which not only does not fall under the province of Logic, but
cannot be accomplished by anyone science or system that can even be
conceived to exist. The attempt to comprehend so wide a field is no
extension of science, but a mere verbal ge- neralization, which leads
only to vague and barren declamation. In every pursuit, the more
precise aud definite our object, the more likely we ai'e to obtain
some valuable result j if, like the Platonists, who sought after
the avTodyaSov, — the abstract idea of good, — we pursue some
specious but ill-defined scheme of universal knowledge, we shall
lose the substance while grasping at a shadow, and bewilder
ourselves in empty generalities." *To these just remarks, we may add our
ex- pression of regret that Dugald Stewart never had opportunity to
do more than speak pro- ^'^ectively of *' a just and comprehensive
system of Logic ;" " to prepare the way for which, was,"
he says, " one of the main objects he had in view when he first
entered upon his inquiries into the human mind."t Had he
himself completed such a design in- stead of leaving it for others, we
doubt not he would have found the necessity of circura- scribing
Logic within the bounds we have proposed, in order to give it existence
as an • Whately's Logic ; Introduction, t Pliilos.
Essays. Prelim. Diss. Chap. II.: in the paragraph immediately following
the last quotation. fjtt ON LOGIC. [chap. U. art
distinct from the wide ocean of intellectual philosophy. 23.
But Dr. Whateiy, who deems, with us, that every consideration of the mind
con- ducted without reference to its making use of language as its
instrument, lies out of the de- partment of the teacher of Logic*,
com- pletely differs from us, as to the province of the art. Of the
question, " whether it is by a process of reasoning that new truths
are brought to light," he maintains the negative t, and
consequently denies that investigation be- longs to Logic. Afler what has
been ad- vanced in the former sections of this chapter, we think it
quite unnecessary to combat this opinion here ; and as Dr. Whateiy
concedes, that " if a system could be devised to direct
• Dr. Whateiy defines Logic (Chap. II. Part I. Sect. 2.) " the
art of employing language properly for the purpose of reasoning."
But with him, reasoning B argumentation. t Whateiy "s
Logic, Province of llcasoning, Chap. II. Sect. 1.
^ the. mind in the progress of inveBtigation ",
it might be " allowed to bear the name of Lo- gic, since it
would not be worth while to con- tend about a name " *; — as,
moreover, we propose to comprehend under Rhetoric all that belongs
to the proving of truth — that is, convincing others of it after we have
found it ourselves ; — we might be satisfied with stating that this
is the distribution we choose to adopt, and there let the matter end. Be-
lieving, however, that our reasons will shew this distribution to be not
only useful, but al- most indispensable, we proceed to offer them.
24, And first, that, so far as we have gone, the art we have described
ought to be called Logic, we think will hardly now be de- nied: —
for we have proved that from be-' ginning to end, it is a process of
reason, that is to say, a process to reach an end by mediae and we
have shown that the media are • Whalely't* Logic, Province
of Jteasoiiing, Chap. II. Sect. 4. Wi
words, (Xo'yoi.) If
the term Logic is not pro- perly applied to such an art as this, we
know not where an instance can be found of pro- priety in a name.
But shall we include the of- fice of proving truth under this name, as
well as that of investigating it ? We answer, no, for these two
reasons : first that the things them- selves are difierent, and ought
therefore to be assigned to different departments ; since it is one
thing to find out a truth, and another to put a different mind in a
posture for finding it out likewise : And, second, that persuasion
by means of language, which is the recognized office of Rhetoric,
is not so distinct from con- viction by means of language, as to admit
of our saying, precisely, where one ends, and the other begins.
That common situation in life. Video meUora proboque, deteriora
sequor, proves indeed there are degrees of conviction which yield
to persuasion, as thei'e are other degrees which no persuasion can subdue
: yet perhaps we shall hereafter be able to show, that such
junctures do but exhibit one set of motives outweighing anol^ier, and
that the ap- plication of the term persuasion to the one set, and
of conviction to the other, is in many cases arbitrary, rather than
dictated by a corre- spondent difference in the things. If, then,
the finding a truth, and the proving it to others, ought to be
assigned to different departments of Sematology, why not, leaving the
former to Logic, consider the latter as appertaining to Rhetoric,
seeing that convincing is not always, and on every subject, clearly
distinguishable from persuading, which latter is the acknow- ledged
province of Rhetoric ? Thus will ana- ^5ii' uniformly belong to Logic,
and synthesis to Rhetoric. While we use language as the medium for
reaching further knowledge than the notions (knowledge) we have
already gained, we shall be using it logically : when, knowing all
we intend to make known, we employ it to put others in possession of
the same knowledge, we shall be using it rhetorically. As learners we
are, according to this distribution, to be deemed logicians }— .as
176 [chap, II. teachers,
rhetoricians. The two purposes are quite distinct, though they are often
con- founded under the same name, reasoning ; which sometimes means
investigation, and sometimes argumentation*, or a process with
• 111 spite of all we have said against taking up no- tions from
mere terms, (for " what's in a name ?") we confeES a strong
antipathy to the word argumentatmi. It no sooner meets our eyes, than,
fearing the approach of some Docteur Pancrace, we instinctively put
our hands to our ears. " Voub voulez peut-etre savoir, si la
substance et Vaceident sont termes synonymes on equivoques k I'egard de
Tetre? Sganarelle. Point du tout. Je... Pancrace. Si la lo^ que est un
art, ou une science.^ Sgan. Ce n'est pas cela. Je... Pancr. Si elle
a pour objet les trois operations de I'esprit, ou la troieieme seulement
? Sgan. Non. Je... Poner. S'il y a dix categories, ou s'il n'y en a
qu'une ? Sgan. Point. Je... Pancr. Si la conclusion est Vessence du
sylle^sme ? Sgan. Nenni. Je... Pancr. Si fessence du bien est mise dans
I'appetibilite, ou dans la convenancc? Sgan. Non. Je... Pancr. Si
le bien se rcciproque avec la fin ? Sgan. He, non! Je... Pancr. Si
la fin nous pent emouvoir par son etre reel, ou par son Stre intentionel
? Sgnn. Non, non, non, non, non, dc par tons lea diables, non.
(Moli&re's Mariage Force.) We join in our friend Sganarelle'g
a view to proof: and the confusion is promoted by the circumstance,
that the two pro- cesses are often used in subservience to each
other. Thus, when a writer sits down to a work of philosophical
investigation, it is to be expected that the general truths he designs
to prove, are already in his possession ; but he has to seek the
means of proving them. Now in searching for these, it is not unlikely,
that, with regard to the detail, he will frequently come to
conclusions different from those he was inclined to entertain, though the
final re- sult he had entertained may remain un- changed. At one
moment, therefore, he is a logician, at another, a rhetorician. His
reader, on the other hand, is a logician throughout : in following
and weighing the arguments offer- ed, he is an investigator of the truths
which deprecation, wishing to shun all argumentation, except
of that quiet kind which takes place when the talkers on both sides are
disposed to truth, ilot victory. If the word conveyed to us the notion of
so peaceable a meeting, we should have no objection to it ; but we
have confessed our prejudice. the other undertakes to prove.
In this man- ner may the same composition, accordingly as it
exercises the inquiring or the demon- strating mind, be considered at one
time with reference to Logic, at another with reference to
Rhetoric. Still must it be admitted, that to investigate and to prove are
different things ; and conceiving there is sufficient ground for
confining Logic to the former office, we shall conclude our chapter as
we began it, by defining Logic to be the right use of WORDS with a
view to the investiga- tion of truth. Non posse Oratorem
esse nisi viriim bonum. AKG, CAP. I. LIB. XII. QtriN. 1N3. In
the chapter just finished, it was shown that the use of language as a
Logical instru- ment, entirely agrees with the theory of Gram- mar
we ascertained in the first chapter, and that, on no other principles
than those which arise from that theory, can Logic be pro- fitably
studied. We have now to show that the use of language as a Rhetorical
instrument agrees with the same theory, and that the view of the
art hence obtained, lays open its true nature, and the proper basis for
its rules. 2. The language of cries or ejaculations, which in the
first chapter we started with, may be called the Rhetoric of nature.
To this succeeds the learning of artificial lan- guage ; and the
process, whether of invention or of imitation, brings into being the
Logic described in the preceding chapter. For whether we invent a
language, or learn a lan- guage already invented, (presuming it to
be the first language we learn,) we must learn, (if we do not learn
like parrots,) the things of which language is significant. All
words whatever, not excepting even proper names *, express notions
(knowledge) obtained from the observation and comparison of many
par- ticulars ; and singly and separately, each word has reference
to the particulars from which the knowledge has been gained. But it is
by degrees we reach the knowledge of which each single word is
fitted to be the sign. We begin by understanding those sentences,
or single words understood as sentences>, that signify our most
obvious affections and wants, and which, taking the place of our
natural cries, retain the tone of those cries as far as the
articulate sounds they are united with permit. In all cases, as a
sentence expresses * Vide Chap. II. Sect. 7- ad fincm.
a particular meaning in comparison with the general terms of which it is
composed^ the hearer may be competent to the meaning of the
sentence, who is not competent to the full meaning of the separate words.
A cry, a gesture, may deprecate evil, or supplicate good ; and a
sentence which takes the place of, or accompanies that cry or gesture,
will, as a whole, be quickly interpreted. But the speaker and the
hearer must have made con- siderable progress in the acquirement of
know- ledge by means of language, before the one can put together,
and the other can separate^ understand, such words as, ^^ A fellow
creature implores"; "A friend entreats *\ It is by
frequently hearing the same word in context with others, that a full
knowledge of its meaning is at length obtained * ; but this implies
that the several occasions on which it * Consult, on this subject,
Chapter 4th of Du- gald Stewart's Essay " on the Tendency of some
late Philological Speculations,^ being the fifkh of bis " Phi-
losophical Essays^. [chap.
hi. is used, are observed and comjiared; it im- plies, in
short, a constant enlargement of our knowledge by the use of language as
an in- strument to attain it. 3. But he who uses language as
a logical, will also use it, when need requires, as a rhe- torical
instrument. The Rhetoric of nature, the inarticulate cries of the mere
animal, he will lay aside ; or at least he will employ them (and he
will then do so instinctively) only on tliose occasions for which they
are still best suited, — for the expression of feelings re- quiring
immediate sympathy. On all other occasions, he will use the Rhetoric by
which a mind endowed with knowledge, may expect to influence minds
that are similarly endowed ; and our inquiry now is, how the effect is
pro- duced;— how, by means of words, (taking words to be nothing
else than our theory of language has ascertained them to be,) —
how, by such means, we inform, convince, and persuade.
4. According to our theory, wobds are to be considered as having a
double capacity ; in the first, as expressing the speaker's actual
thought ; — ^in the second, as being the signs of knowledge obtained by
antecedent acts of judgment, and deposited in the mind ; which
signs are fitted to be the means of reaching further knowledge. Now, when
we use lan- guage as a rhetorical instrument, we use it, or at
least pretend to use it, in order to make known our actual thought, — in
order that other minds should have that information, or be
enlightened by that conviction, which we have reached. Could this be done
by a single indivisible word — could we realize the wish of the
poet — Could I embody and unbosom now That which is
most within me ; could I wreak My thoughts upon expression, and
thus throw Soul, heart, mind, passions, feelings, strong or
weak. All that I would have sought, and all I seek,
Bear, know, feel, and yet breathe, into One Word* Were this
instantaneous communication with- ♦ Byron's Childe Harold, Canto III.
Stanza 97- in our power. Rhetoric would be a natural faculty, not an
art, and our inquiry into its means of operation would be idle. But
getting beyond the occasions for which the Rhetoric of nature is
sufficient, and for which those sentences are sufficient that serve
the most ordinary purposes of life, an instan- taneous
communication from mind to mind, is impossible. The information, the
conviction, or the sensitive associations, which we have wrought
out by the exercise of our observing and reasoning powers, can be given
to another mind only by giving it the means to work out the same results
for itself ; and, as a rhetorical instrument, language is, in truth, much
more used to explore the minds of those who are addressed, than to
represent, by an expression of correspondent unity, the thought of
the speaker ; — rather to put other minds into a certain posture or
train of thinking, than pre- tending to convey at once what the
speaker thinks. Contrary as this doctrine will ap- pe$ir to common
opinion on the subject, a very little reflection will show that it must be
true. For a word can communicate to another mind what is in the
speaker's, only by having the same meaning in the hearer^s : but if it
have the same meaning, then it signifies no more than what the
hearer knows already, or what he has previously experienced. And this
is plainly the case with sentences (words) in familiar use, which
signify what all have at times occasion to express, which are used
over and over again for their respective pur- poses, and of which, while
uttering or hearing them, we do not attend to the meaning of the
separate words, but only to the meaning of the whole expression *. Here,
it is confessed, the communication is made at once ; but then it is
a communication which the hearer is pre- pared to receive, because he has
himself used the same expression for the same purpose. What is to
be done when the information or the conviction is altogether strange to
the mind which is to receive it ? In this case the ♦ Refer to
Chap. I. Sect 19. ON RHETOKIC. QCHAP. HI.
speaker will seek in vain, as in the first case, for an expression
previously familiar to the hearer; and he will have to form an
expres- sion. But how shall he form it? As words have the power of
representing only what is known on both sides, he must form it not
with signs of what is to be made known, but of what is already known. In
this way, he may produce an expression — whether that expression
take the name of sentence, oration, treatise, poem, &c. * — which, as
a whole, de- notes that which his mind has been labouring to
communicate — the information, the con- viction, or the sensitive
associations he is de- sirous that others should entertain in
common with himself. The necessity of so protracted, so artful a
process, must be set down to the hearer's account, not to the speaker's.
The latter is (or ought to be) in previous possession of what he
seeks to communicate — he has been through the process, and reached
the result : but that result he cannot give at once ' Compiirc
Chap. I. Sect. 20. and gratuitously to others : he can
but lead them to it, as he himself was led, by address- ing what
they already know or feel ; and his skill in rhetoric will be the skill
with which, for this purpose, he explores their minds. It will be a
process of synthesis on his part, and of analysis on theirs. He will form
an ex- pression out of WORDS which signify what they already know,
or what they have already felt : and the separate understanding of
these on their part, will enable them to understand his expression
as a whole. This being the theory of Rhetoric which grows out of
our theory of language, we now proceed to show that the actual
practice of every speaker, and of every writer, is in accordance with it.
5. To begin with Description and Narra- tion : — Is it not obvious,
that, to procure in another mind the idea of things unknown, we
proceed by raising the conception of those that are known ? An object of
sight which the party addressed has never seen, we give an idea of
by allusions made iu various ways to objects he has seen :— or if, being new as
a whole, it is made up of parts not new, we give the idea of the
whole by naming the parts, and their manner of union. An unknown
sound, or combination of sounds, an unknown taste, smell, or feel, is
suggested to another mind by a comparison, direct or indirect, with
a known sound, taste, smell, &c. As to conceptions purely
intellectual, it is a proof how little one mind can directly represent or
open, itself to another, that, in the first in- stance, such conceptions
can be made known not by words that directly stand for them, not by
comparisons with things of their own nature, but only by comparisons with
affec- tions and effects outwardly perceptible; as would at once be
obvious in tracing to their origin all words that relate to the faculties
and operations of the mind *'y although it is true * Thus
afdrnvs^ amma^ +*'%»», originally signify wind or breath : ^vfiog /Mevog^
mens^ impetuosity ; in- tellect is from inter and lego, I collect from
among ; perception and oonceptUm are from capio I take, — a
that these words at last become well under- stood names, that at
once suggest their re« spective objects, without bringing up the
ideas of the objects of comparison that once in- tervened. In
narration we proceed by similar means. We presume the hearer to be
ac- quainted with facts or events of the same kind as that which is
to be made known, though not with the particular event ; for we
\x%Q generalievmSy i. e. terms expressing kinds or sorts, in order to
form every more par- ticular expression. If the hearer should be
unacquainted with facts or events of die same kind, the communicator then
has recourse to use of the verb still common in such phrases as ^^
I take in with my eye,'' and, " I take your meaning ;''
judgment is from jus dicere ; understanding suggests its own etymology ;
refleadon implies a casting or throwing back again; imagination is from
imago^ an image or representation; to thinks according to Home
Tooke, is from thing ; — " Res-^k thing (he says) gives us refyr I
am thinged,'' i. e. operated upon by things. These are etymologies
suggested by authori- ties universally accessible ; — the curious in this
depart- ment of learning would be able to add much more.
circuitous comparisons. If nothing is pre- viously known to
wliich the action or event can, however remotely, be compared, the
attempt to make it known must be as fruitless as that of giving an idea
of colours to one bom blind, or of sounds to one born deaf*.
* Not without reason does the angel thus speak to Adam in the
Paradise Lost : High matter thou enjoin'st me, O prime of men,
— and hard : for how shall I relate To human sense the invisible
exploits Of warring spirits ? And he proposes to overcome the
difficulty in the only way in which it can be concaved possible to be
over- — what surmounts the reach Of human sense, I shall
delineate so By likening spiritual to corporal forms, As may express
them best. Far. Lost. Book 5. 1. 5G3. Still must the
discourse of the Angel have been unin- telli^ble to Adam : for the latter
must be supposed ignorant not only of the things to be illustrated,
but of far the greater part of the illustrations. There was no
keeping clear of this defect in the philosophy of die jwem, if, in a
poem, we arc to look for philoso- phy. The discourse even of Adam and
Eve, though Thus, then, when we make use of words in order to
inform, we produce the effect by adapting them to what the hearer
already knows. In using words in order to convince and persuade, we
produce the effect in the same way. But to convince, it is ne-
cessary to inform — to acquaint the hearer either with something he did
not know before, or with something he did not attend to ; and the
information is called the argument * or proof. Thus the information that
"Plato was a philosopher," is an argument or proof that
he is deserving of respect: and the clear testimony that " a man has
killed another maliciously," proves that the perpetrator is
guilty of murder. But why do we account the information in the respective
instances an argument or proof of the conclusion ? For
Iieautifully fiimple, is tilled with alluaions to things which the
least philosophy will teach us they could not be acquainted with.
* The word argument is commonly used iii the sense we here assign
to it ; though it is likewise often used with » more coniprelicnBivc
meaning. no Other reason than this, that it is addressed to a
notion (knowledge) previously acquired of what persons are deserving of
respect, (in the first instance,) and of what constitutes the crime
of murder, (in the second instance.) Take away this previous knowledge,
and the information remains indeed, and may perhaps be clearly
understood, but in neither instance can it lead the hearer to the
conclusion, — that is to say, it will not then be an argument for
the end in view : it will communicate, perhaps, what it professes to make
known, but there the matter will end. In every process, then, by
which we propose to convince others of a truth, there are three things
implied or expressed : i. that which we intend to prove true, and
which, if stated first, is called the proposition, if last, the
conclusion : ii. the in- formation by which we try to prove it, and
which is accordingly called the argument or pro of; iii. the
previous notion (knowledge) to which the information is addressed,
and which is frequently called the datum ; being that which is
presumed to be already known, and therefore conceded or given by the
person reasoned with ; on account of which, and solely on this
account, the information is offered in the capacity of an argument or
proof. Now, here we have the parts of a syllogism, (though in reversed
order, viz. the conclusion, the minor, the major,) and this may
serve to show, without having recourse to the Aristotelian doctrine of
the comparison of a middle with extremes, why the form of a
syllogism, where necessary, must always be a forcible way of stating an
argument. For first we state that which our hearer cannot but.
concede j (major ;) then we state that which he did not know or attend
to, in such a way that he must receive it on our testi- mony, or
admit as evident as soon as it is attended toj (minor;) and these two
being admitted, they are found to contain what we proposed to
prove: which we then draw from them without the possibility of a
rational contradiction; (conclusion.) For example; o
our hearer knows by experience what persons are deserving of
respect: he knows, then, that ** Every philosopher is
deserving of respect.^ We then remind him of the fact which he has
learned from history, that " Plato is a philosopher :''
Hence on his own knowledge we advance the undeniable
conclusion, " Plato is deserving of respect'' Is
this conclusion at all fortified — is the process which led to it
explained — by shew- ing that a comparison of the terms independ-
ently of the things, produces the proposition which expresses it ? Both
the hearer and the speaker must have the kno'wledgevfYiicYi the
first two propositions refer to, or the conclusion can- not be
drawn for any rational end : and if they have the knowledge, they have
the conclusion in that knowledge. In convincing the hearer, the
speaker does nothing but remind him that he (the hearer) has the
necessary knowledge ; and the syllogism, we admit, puts the matter home
in a very forcible way : but that is all : another form of speaking will
oflen do equally well : for instance, " Plato who is a
philosopher is deserving of respect." Whether the truth is stated in
this way, or in the for- mer way, or in any other way, the extract-
ing of a middle and extremes out of the ex* pression, and demonstrating
that these agree or disagree, is, we repeat it, a puerile addition
to the process that has previously taken place. Again, with regard to the
other example at the beginning of the section: — Our hearer knows,
(suppose him to be a juryman,) either of his own knowledge, or by the
definition laid down by the judge, that ^^ Maliciously
killing a man is murder.''^ This is the datum, or major. He
receives in charge, i. e. he is informed that A. B. killed a man
maliciously, which is tantamount to saying that " What
A. B. did, is killing a man maliciously.*" o 2
196 ON RHETORIC. [CHAP. Ill, This information is to be the
argument or minor by which the conclusion is to be esta- blished;
but the juryman must be made sure of its truth, — he must know it, —
before he can receive it in this capacity : — well, he is made sure
of its truth : — must he then go to Aristotle, and be taught to compare
the middle with the extremes, in order to pro- nounce his verdict
that " What A. B. did, is murder:'' that is, he is
guilty of murder? Will he be MORE satisfied with his own verdict, if he
is able to do so ? Common sense pronounces, no. Let us, then, for
ever have done with the Aristotelian Syllogism ; admitting, how-
ever, in favour of the form of expression, that to express (i.) the
datum, — (ii.) the inform- ation which, because it is addressed to the
da- tum, is an argument,— and (iii.) the conclusion from them — in
three distinct propositions, is a very forcible way of stating a truth
which we have reason to believe our hearer is prepared to admit the
moment it is so stated. But the syllogism thus detached from the
artifice of comparing a middle with extremes, is only one among the
innumerable ways of express- ing a truth, which the custom of
language permits, and is no more the invention of Aristotle in
particular, than any of those other forms that might be used
instead of it *. 7. This brief notice of the syllogism
in addition to what was advanced in the last chapter, occurs by the
way : — ^the point we had in hand, was, to show that in convincing
others by means of words, we adapt our words to what they already know.
And this must be evident from what has preceded. For we previously
proved, that, in order to inform, * Our observations on the
syllogism are not meant to call in question the intellectual capacity of
the in- ventor. For what we conceive to be a just estimate of his
merits, we refer to Dugald Stewart'^s Second Vol. of the Philos. of the
Human Mind, Chap. III. Sect. 3., near the middle of the section.
we adapt our words to what our hearers al- ready know ; and
we have just shown that the process of convincing them, is a process
in which we address some information to a pre- existing notion. Let
us now see how this doctrine tallies with the terras of art which
are already in recognised use ; and, as occa- sion may offer, let us
inquire if there be any difference, and what, between conviction
and persuasion. 8. That every argument used to
influence others, is considered to derive its efficacy from some
pre-existing notion, opinion, or rul- ing motive, whether permanent or
transitory, in the hearer, is evident from the following and similar
expressions : argumentum ad Judi- cium, by which we signify that our
inform- ation is addressed to such general principles of judgment
as mankind at large are guided by : argumentum ad hominem, by which we
imply that we address those peculiar principles by which the
individual man is actuated. Again ; argumentum ad vtrvcundiam, argumentum
ad ignorantiam, argumentum ad Jidem, argumcn- tum ad passiones, all
imply arguments (infoim- ation) addressed to some partial motives
of judgment and action ; and in all these, the conclusion arising
out of the reasoning has the same validity, as far as regards the
mere act of reasoning : it is the difference of the data that makes
it of very different value. A conclusion from an argument addressed
to principles which all men recognise, is obvious- ly a conclusion
of universal force; but one which arises from an argument addressed
to peculiar principles, can of course be convinc- ing only to such
as admit those principles. So likewise a conclusion which arises from
the reverence entertained for the author of the principles
professed ; — or which follows in the hearer's mind from his limited
notions, and would not follow if he were better inlorra- ed ;— or
which follows because of his faith, and would not follow, if he had not
that iaith J— or because his passions are previously disposed, and
would not follow, if they were otherwise disposed: — in these and in
similar cases, the argument is valid, and therefore ef- fective
with respect to the minds for which it is adapted, but addressed to other
and more general motives or knowledge, it may be no argument at all
*. Here, then, we may perhaps see how the difference arises between
conviction and persuasion ; — mere persuasion is conviction as far as it
goes ; but it is con- viction arising out of partial data : the
person persuaded is conscious that the reasoning process itself is
right, but he suspects — perhaps more than suspects — tliat the
data which he has permitted his inclinations to lay • Hence,
what is Rhetoric at one tune and to one set of auditors, may be none
whatever at another time. Who has not admired tlie Rhetoric of Marc
Antony, (the Hpeecb over Ciesar's body,) in Shakspeare's play of Jnhua
Caesar ? But why do we admire it F Is it such Rhetoric as would persuade
all people under the circumstances supposed ? No. But it is just
such Rhetoiic as was fitted for the multitude under those
circumstances; and we admire the dramatist who so completely suits the
oration to the art of the speaker, und the minds of those whom be has to
operate upon. down, are wrong: he perceives another
con- clusion from other and less suspicious data, though he has not
resolution enough to em- brace it : so that the case we referred to
in the last chapter* as being so common in life, Video meliora
proboque^ deteriora sequor, amounts to this, — that we are divided
between two conclusions, the one drawn from data which we know to
have the sanction of uni- versal consent, the other from data
supplied by private motives. Thus, when Macbeth is bunging in doubt
between the suggestions of duty and ambition t, the conclusion from
each source is reasonably drawn : but he is not ignorant of the
different value of the respec- tive sources. He has nearly determined
in favour of the conclusion drawn from duty, when his wife enters,
who, by addressing con- siderations (information, arguments,) to
his known sentiments of greatness and courageous * Chap. II.
Sect. 2+. f Shakspcare's Macbetb, Act I. Scene 7-
daring, persuades him to murder Duncan and seize the crown.
9. So much for the terms of art by which we signify the quaUty of
the arguments we use, as depending on the known motives, or
information, or disposition, of the persons addressed : which terms suit
our theory so well, that they seem to be invented for it. Nest, for
the terms by which the arguments themselves are technically
distinguished. First, we have a distinction of them into Ex- ternal
and Internal. Now, according to our theory, every argument consists of
some in- formation which we communicate to the per- son reasoned
with : — but this information may be something that he could not
possibly have discovered by any consideration of the subject itself
J or it may be something that he might have so discovered ; in which
latter case, our information will amount to nothing more than
making him aware of what he had overlooked. The former, then, will be an
ex- temal argument or
proof; the latter, an in- temal argument. Of the former, the
evidence in a court of justice is an example ; as are al- so proofs
from history and other writings, and irom the testimony of the senses. Of
the lat- ter kind, are all arguments from what are call- ed the
topica or loci communes : — for instance, from the definition or
conditions of a thing j as when certain lines are inferred to be
equal to each other from their nature or conditions as being radii of
the same circle : — from enumeration ; as when we prove that a
whole nation hates a man, by enumerating the several ranks in it,
who all do so : — from nota~ tion or etymology ; as when we infer that
Lo- gic has reference to the use of words in reasoning, from its
connexion with the Greek Xt'yw I speak, and \6yoi a word :— from genus
f as when we prove that Plato is deserving of respect, by showing
that he is one of a getius or kind that is deserving of respect : —
from species ; as when we infer the excellence of ^ virtue in
general from that which we observe eo* [chap. lit. in some
particular act of virtue : — anil so like- wise of the same kind, namely
internal, are aiguments from the other well known topics ; (not to
prolong the instances, which are easily imagined ;) from cause, whether
efficient, JiJial, Jbrmal, or material; from adjuncts, antecedents,
consequences, contraries, opposiles, similitudeSy dissimilitudes, things
greater, less, or equal: &c. The deriving of arguments from
these internal topics*, is nothing more, on the part of the
speaker, than turning a subject into every point of view that may suggest
a some- thing relating to it, overlooked perhaps by the hearer, and
which, by being brought to his notice, and addressed to his
pre-existing notions, may prove, or render probable, the
proposition in hand ; and according to the de- gree of force which the
argument carries, it is • The reader needs not be reminded how
largely this subject of topics, (or places for finding the internal
or artiiicial proofs in contradiGtinction to the external or artificial,)
ia treated by the ancients : for instance, by Aristotle, by Cicero, (vide
the book called Topu-a,) and by Quinctilian. deemed an
instrument of conviction or of persuasion. An argument from defimlion ; —
- (for instance from the conditions of a problem or theorem j as
where lines are required to he drawn which are to be radii of the same
cir- cle J ) which argument is addressed to a notion assumed among
the general conditions of the I reasoning ; (for instance, that " a
circle is suct]^ ] a figure that all lines, (called radii,) drawn,
j from a certain point within it to the circum- ference are equal
" ;) — an argument so derived and so addressed, is demonstrative of
the pro- position which it is brought to prove : (e. g^ that the
lines are equal.) An argument froni[1 enumeration, — (for instance, from
a statement 1 of the several ranks that are found in a n&- ]
tion,) addressed to a notion that the parta J enumerated are all the
parts, (for instance^ j that the several ranks of people that hate A.
j B. comprise the whole nation,) is also de- monstrative with
respect to that notion ; but if the enumeration should not comprehend
all the parts in the hearer's notion of the whole, or if the hearer
should doubt whether his own notion is sufficiently comprehensive, no
ab- solute conviction takes place. Still, the enu- meration may
induce belief, and will in such case be said to persuade, though not to
con- vince. The same might be shown of the ar- guments derived from
all the other topics. Entire conviction would follow from any of
them, if the hearer were fully satisfied both of the truth of what is
offered in the way of ar- gument, and of the correctness of his own
no- tion to which the argument is addressed : but greater or less
degrees of doubt may accom- pany each of these, and greater or less
de- grees of doubt will therefore attach to the conclusions which flow
from them. We may moreover observe, that the truths a speaker has
in view, do not always stand in need of demonstration : they are perhaps
admitted al- ready, but it may be that they do not suffici- ently
influence the hearer's sensibilities. The object of an argument will then
be, to awaken those sensibilities, and with this effect its purpose wiU
stop : as, for instance, when in or- der to awaken sensibility to the
frail nature of man's existence, (not to demonstrate it,) the
speaker draws his argument from simili- tude : Ah ! few and
full of sorrows are the days Of mieerable man ! his life decays
Like that fair flower that with the sun's uprise Its bud unfolds, and
with the evening dies. Here, the argument is obviously meant
for persuasion. There may, at the same time, be an ultimate truth
in view, which the speaker designs to enforce when he has prepared
the mind for receiving it; and he will then employ arguments of a
different kind, and address them to notions of universal dominion. —
But with regard to any of the arguments which, in this brief review
we have glanced at — whether external or internal, whether demon-
strative, or only inducing belief, whether de- signed to convince, or
fitted but to per- suade, — the process accords with the theory
assumed: — the speaker adapts words to knowledge the hearers have already
attained, or to feeliugs they have already experienced, in order to
conduct them to some discovery he wishes them to make, or to some
unexperienc- ed train of thought conducive to such dis-
covery. 10. The assumption of this as the great principle of
the art, will, in the next place, enable us to clear it from certain
misdirected charges to which it has always been liable. The
expedients which the orator employs, the various tropes and figures of
which his discourse is made up, are apt to be looked upon as means
to dissemble and put a gloss upon, rather than to discover his real
sentiments*. That, like all other useful * We refer more especially
to the following pas- sage with which Locke concludes his Chapter ^^ on
the Abuse of Words ;^ being the 10th of his 3d book. ^^ Since wit
and &ncy find easier entertainment in the world than dry truth and
real knowledge, figurative speeches and allusion in language will hardly
be ad- mitted as an imperfection or abuse of it. I confess in
discourses where we seek rather pleasure and de- SECT. 10.]
ON RHETORIC. 209 things, they ^re sometimes abused*, nobody
• E/ 3f, ort /jieyaKa jSxa\J/£(£v av b xi^f^^^°^ d^Uag Tn roKzuTn
^uvifAEi tcHv Aoywv, touto re Jtoivov eo'ti Kara ^ivruv Tuv ayaOav*
Arist. Rhet. I. 1. light than information and improvement,
such orna- ments as are borrowed from them can scarce pass for
faults. But yet if we would speak of things as they are, we must allow
that all the art of rhetoric, besides order and clearness, all the
artificial and figurative ap- plication of words eloquence hath invented,
are for nothing else but to insinuate wrong ideas, move the
passions, and thereby mislead the judgment, and so indeed are perfect
cheats : and therefore however laudable or allowable oratory may rehder
them in ha- rangues and popular addresses, they are certainly, in
all discourses that pretend to inform or instruct, wholly to be avoided ;
and where truth and knowledge are con- cerned, cannot but be thought a
great fault either of the language or the person that makes use of
them. What, and how various they are, will be superfluous here to
notice ; the books of rhetoric which abound in the world, will instruct
those who want to be informed : only I cannot but observe how little the
preservation and improvement of truth and knowledge is the care and
concern of mankind ; since the arts of fallacy are endowed and preferred.
It is evident how much men will deny : but to consider them by their
very nature as instruments of deception, only proves that the
objector utterly misconceives the relation between thought and
language. These expedients are, in fact, essential parts of the
original structure of language ; and however they may sometimes serve the
pur- poses of falsehood, they are, on most occa- sions,
indispensable to the effective communi- cation of truth. It is only by
expedients that mind can unfold itself to mind;— lan- guage is made
up of them ; there is no such thing as an express and direct image
of thought. Let a man's mind be penetrated love to deceive
and be deceived, since rhetoric, that powerftil instrument of error and
deceit, has its esta- blished professors, is publicly taught, and has
always been had in great reputation : and I doubt not but it will
be thought great boldness, if not brutality in me, to have said thus much
against it. Eloquence, like the fair sex, has too prevailing beauties in
it, to suf- fer itself ever to be spoken against. And it is in vain
to find fault with those arts of deceiving, wherein men find pleasure to
be deceived.'*' with the clearest truth — let him burn to com-
luunicate the blessing to others ; — ^yet can he, in no way, at once lay
bare, nor can their minds at once receive, the truth as he is con-
scious of it. He therefore makes use of ex- pedients : — he conceals,
perhaps, his final pur- pose ; for the mind which is to be
informed, may not yet be ripe for it :— ^he has recourse to every
form of comparison, (allegory, simile, metaphor*,) by which he may awaken
pre- disposing associations : — he changes one name for another,
(metonymy,) connected with more agreeable, or more favourable
associa- tions : — he pretends to conceal what in fact he declares
; — (apophasis ; — ) to pass by what * In referring to these and
other figures of speech, it is impossible not to be reminded of Butler'^s
distich, that All a rhetorician'^s rules Teach
nothing but to name his tools. The fact is as the satirist states
it. But then it is something to a workman to have a name for his tools
; for this implies that he can find them handily. — May we add to
our remark, that the world is scarcely yet in truth he reveals ; —
(paraleipsis) he interrogates when he wants no answer ;— (ero- tesis ; —
) exclaims, when to himself there can be no sudden surprise;—
(ecphonesis) he corrects an expression he designedly uttered ; —
(epanorthosis) he exaggerates ;— (hyperbole) he gathers a number of
particu- lars into one heap; — (synathroesmus) he ascends step by
step to his strongest position ; — (climax ) he uses terms of praise in
a sense quite opposite to their meaning ; — (ironia) he personifies that
which has no life, perhaps no sensible existence ; — (prosopopoeia) he
imagines he sees what is not actually present ;— (hypotyposis) he calls
upon aware how much it owes to such men as Butler, Moliere,
Shakspeare, Pppe ;r-^men who joined to other rich gifts of intellect,
that of plain sound sense, which enabled them at once to see, in their
true light, the vanities and absurdities of (misqalled) learningp But for
the histo- rian of Martinus Scriblerus, his predecessors and suc-
cessors, the world might still be under the dominion of a set of solemn
coxcombs, whose whole merit consisted in making small matters seem big
ones, and themselves to appear wiser than their neighbours.
the living and the dead ; — (apostrophe) all these, and many more
than these, are the ar- tifices which the orator* employs ; but
they are artifices which belong essentially to lan- guage ; nor are
there other means, taking them in their kind and not individually,
by which men can be effectually informedy or perstuidedj or
convinced. Could the prophet at once have made the royal seducer of
Uriah's wife fully conscious of the sin he had committed, he would not
have approached him with a parable t : that parable was the means
of opening his heart and understanding to the true nature of his crime ;
and it is a proper instance of the principle on which all eloquence
proceeds. It is true, we do not * We trust the reader scarcely
needs to be remind- ed, that the word Orator isused throughout this treatise,
in the comprehensive sense which includes all who wield the implements of
Eloquence. In modem times, the influential orator is read not heard ; or
if heard, his hearers are few in number compared with his
readers. t 2 Sam. 12. now make use of parables
fully drawn out ; but all metaphorical expressions, all compa-
risons direct or indirect, are to the same pur- pose ; namely, that of
bringing the mind of the hearer into a state or temper fitted for
the apprehension of truth. Nor, (we repeat,) must it be thought
that the means referred to, (excepting some instances in bad
taste,) are ornaments superinduced on the plain mat- ter of
language, and capable of being detached from it : they are the original
texture of Ian- guage, and that from which whatever is now plain at
first arose. All words are originally tropes ; that is, expressions
turned (for such is the meaning of trope) from their first pur-
pose, and extended to others. Thus, when a particular name is enlarged to
a general one, as our theory shows to have happened with all words
now general, the change in the first instance was a trope. A trope ceases
how- ever to be one, when a word is fixed and re- membered only in
its acquired meaning ; and in this way it is that all plain expressions
have originated. In a mature language, a speaker or writer may,
therefore, if he pleases, avoid figurative expressions. But the same
neces- sity, the same strong feelings, which originally gave birth
to language, will still produce new figures, or lead the speaker to
prefer those already in use to plain expressions, if, by the
former, he can touch the chords, or awaken the associations, that are
linked with the truths iie seeks to establish. Our theory of
language, and consequent theory of Rhetoric, will, in the next place, no
longer leave us to wonder at an ef- fect, which Dr. Campbell has laboured
to account for with much ingenuity; namely, that nonsense so often
escapes being detect- ed both by the writer and the reader*. For
according to our theory, words have a sepa- rate and a connected meaning,
each of which is distinct from the other. Now, suppose a succession
of words to have no connected Chap. VII.
See Philosophy of Rhetoric, Vol. II. Book II. meaning,
which is as much as to say, suppose them to be nonsense ; yet, in their
separate capacity, they will nevertheless stand for things that
have been known and felt ; and if both the speaker and the hearer shbuld be
satisfied with the vague revival of this know- ledge and of these
feelings, they will neither of them seek for, and consequently will
not detect the absence of an ulterior purpose. The effect which is
produced by words thus used, (or rather misused,) extends no
further than that produced by instrumental music, and is of the
same kind. For no one will pretend that a piece of niusic expresses, or
can express, independently of words, a series of ra- tional
propositions ; yet it awakens some sen- timents or feelings of a
suflSciently definite cha- racter to occupy the mind agreeably. Now
perhaps it is not an unwarrantable libel on one half of the reading
world, if we affirm, that they read poetry and other amusing
composition for no further end, and with no further effect, than the
pleasure of such vague Sentiments or feelings as spring from music
: and to such readers it is of little moment whether the words make
sense or not. Ac- cordingly, when composition like the follow- ing
is put before them^ which presents striking though incongruous notions,
in words gram- matically united, agreeably jingled, and having a
connexion, probably, with certain sensitive associations, they are liable
to read on, not only without feeling their taste shocked, but
perhaps with some pleasure. Hark ! I hear the strain erratic
Dimly glance from pole to pole ; Raptures sweet and dreams
ecstatic, Fire my everlasting soul. Where is Cupid's crimson
motion, Billowy ecstasy of wo ? Bear me straight, meandering
ocean, Where the stagnant torrents flow. Blood in every
vein is gushing, Vixen vengeance lulls my heart ; See, the
Gorgon gang is rushing ! Never, never let us part *. * "
Rejected Addresses ;^ the particular example Nor is it in
(pretended) poetry alone, that the eflFect here alluded to tahes place.
Bring to- gether the rabble of a political party, and place before
them a favourite haranguer: — it 13 not by any means necessary that he
should make a speech which they understand, or even himself: he has
only to string, in plausible order, the accustomed slang words of
the party, and to utter them with the usual fer- vour ; the wonted
huzzas will follow as a matter of course, and fill each pause that
the speaker's art or necessity prescribes. And BO likewise in an
assembly of a different de- scription, — the piously disposed
congregation above being in ridicule of Rosa Matilda's
style. See also Pope's " Song by a Person of Quality."
The reader whose taste is gratified by such composition as is here
caricatured, stands at the other extreme from that mathematical reader,
who returned Thomson's Seasons to the lender with an expression of
disgust, that he had not been able to find a single thing proved
from the beginning to the end of the book. The reader for whom the
genuine poet writes, is equally removed from each extreme. of
a conventicle : the good man whom they are accustomed to hear has but to
put to- gether the words of familiar sound and evan- gelical
association — grace, and spirit, and new light, regeneration and
sanctification, edification and glorification ; an inward call, a
wrestling with Satan, experience, new birth, and the glory of the elect ;
interweaving the whole with unceasing repetitions of the sa- cred
name, accompanied by varied epithets of, blessed, holy, and divine : and
with no further assistance than the appropriated tone and frequent
upturned eye, he will throw them into a holy transport, and dismiss them,
as they will declare, comforted and edified. This effect, which is
apt to be attributed to hypocrisy because the ordinary notions of
language suggest no cause for it, our theory explains with no heavy
scandal to the parties. 12. Concerning the elements of
Rhetoric ranged under the divisions of Invention and Elocution, we
have now made what remarks our object required. There yet remains
one division, namely, Pronunciation *; which will, however,
scarcely furnish occasion for extend- ing our observations ; since our
theory is not in any peculiar manner concerned with it. As we
started with the Rhetoric of nature, namely, tone, looks, and gesture, so
we are at * Disposition and Memory are in general adde4 to
these three. " Omnis oratoris vis ac facnltas,'*^ says Cicero, ^^ in
quinque partes est distributa ; ut deberet reperire primum, quid diceret;
deinde in- venta non solum ordire, sed etiam momento quodam atque
judicio dispensare atque componere ; tiun ea de- nique vestire, atque
omare oratione ; post, memoria sepire; ad extremum, agere cum dignitate
et venustate.^ De Orat. 1. 31. As to two of these divisions, we
have no occasion to notice them, because there is nothing in our
theory of language which requires them to be viewed in a new or peculiar
light : — We may take oc- casion to observe, before' concluding the note,
that the modem use of the term Elocution, assigns it to sig- nify
what the ancients denoted by Pronunciation or Action : and Dr. Whately
sanctions this modem sense by adopting it in his Rhetoric. We have used
it in the foregoing page in the ancient sense : ^^ quam Graeci
f^aa-iv vocant,^ says Quinctilian, ^^ Latine dicimus Elocutionem.'*'*
Ins. viii. 1. once ready to admit that these may, and ought
to accompany the language of art ; — that they ought not to be absent
even from the recollection of him who writes, lest his style be
deficient in vivacity. In union with these parts of Pronunciation, is
that ele- ment of artificial oral speech called Empha- sis ; and it
will be to our purpose to observe, how very inadequate are the common
notions of language to account for the actual practice of emphasis,
as it may be observed in English speech. The common view of words
that make up a sentence, is, that they respectively correspond to
ideas that make up the thought : and therefore, in a written sentence, if
we would know the emphatic word, we are de- sired to consider which
word expresses the most important idea*. Thus, when Dr. * To
this end some teacher of elocution (elocution in the modem sense)
somewhere says : ^^ If, in every assemblage of objects, some appear more
worthy of no- tice than others ; if, in every assemblage of ideas,
which arc pictures of those objects, the same difference Johnson was
asked how we ought to pro- nounce the commandment, ** Thou shalt not
bear false witness against thy neighbour/* he gave as his opinion that
not should have the emphasis, because it seemed the most im-
portant word to the whole sense. But Garrick influenced by no assumed
theory, pronounced according to the practice of English speech, **
Thou shalt-not bear," * &c. There is in fact no other rule than
custom in English speech for the accenting of words in a sentence,
any more than there is for accenting syllables in a word. A
peculiar or referential meaning may indeed disturb the usual accent of
a prevail, — it consequently must follow, that in every
assemblage of words, which are pictures of these ideas, there must be
some that claim the distinction called emphasis.^ All this ingenious
parallel, with Aristotle^s authority to back it, we affirm to be purely
visionary, and we hope the reader by this time thinks as^ we do.
Yet is the passage in entire accordance with the no- tions of language
that commonly — nay, it should seem, universally prevail. *
The story is somewhere related by BoswelL word : for instance, the common
accent of the word for^ve, will be displaced if the word is
pronounced referentially to a word that has a syllable in common ; as in
saying to give and loj'drgive. And just so will it be in a sentence
which is pronounced refer- entially to an antecedent or a
subsequent sentence, either expressed or understood : which would
be the case, if we pronounced tie ninth commandment in contradiction to
one who had said "Thou shaltbear false witness," &C.,
for then we should accent it in Johnson's way, and say " Thou shalt
n6t bear," &c. Now this is what is properly called
emphasis, namely, some peculiar way of accenting a sentence in
order to give it a referential mean- ing. A sentence pronounced to have a
plain meaning has its customary accents, but no emphasis. The
commonest example will be the best ; and therefore we will quote
one that may be found in every book in which emphasis is treated
of: "Do you ride to town to-day?" If this is pronounced without
allusive meaning, ride, town, and day, are equally accented by the custom
of the language, and there Is no emphasis properly so called :
which, by the way, is a pronunciation of the sentence that teachers of
read- ing, in their search after its possible oblique meanings,
forget to tell us of. Suppose we give an emphasis to ride, then
lide-to-toivn-to day will be allusive to ■wdlk-to-town-to-day, as
we might accent the word intrinsical in the mauner marked with a reference
to the word Extrinsical, although the plain accentuation is
intrinsical. So again to-loTvn-lo-day is allusive to the-country-to-day,
and to-town-to-ddy is al- lusive to to-town-to-m6rrow ; as the word
powerless might be accented on the last syl- lable with a view to poweiiful.
That the ac- tual practice of emphasis corresponds with this
account, the reader may satisfy himself by observing the conversation of
the well- bred, — not their reading, for that is oflen conducted on
mistaken principles : — and we scarcely need point out how completely
this practice accords with our theory of language. For with us, a
sentence is a word, not more resolvabie into parts that constitute its
whole meaning, than a word made up of syllables ; and as with
regard to a word of the latter de- scription, the accent is determined to
one syl- lable by custom, but is disturbed and placed on another
syllable in making allusion to another word having syllables in common
; so with regard to a sentence (word) made up of words, the accents
are likewise determined to certain words that usually bear Ihem,
but these accents are disturbed and placed on other words in making
allusion to a meaning which has, orwhich, if expressed, would have,
words in common. And here, with this new kind of proof in favour of our
theory, and with the last subject usually treated of in Rhetoric,
we might stop the hand that has traced this OutHne. But there remain a
few remarks that could not be introduced earlier, for which the
patience of the reader is en- treated a little longer. We may take
the liberty in the first place to observe, that, with regard to the
materials of Sematology which have been con- sidered, our theory leaves
them what they were : it pretends only to show the true basis on which
they stand, and that the learned distribution of them, is not that which
accords with the actual practice of mankind. Suppose then, (if we
may suppose so much,) that our Grammars, our Books of Logic, and our
In- stitutes of Rhetoric, are to be altered in con- formity with
the views which have been opened, the changes will not affect the
detail, but the general preliminary doctrine, and the subsequent
arrangement. As to doctrine, the changes will mostly consist of
omissions. In Grammar, if we omit the common de- finitions of the
parts of speech *, and allow * God help the poor children that are
set to learn these, and other of the definitions in elementary
grammars, particularly English grammars; for the Latin ones are a little
more sensible. That jumble of a grammar that has the name of a Lindley
Mturay in the title page, after defining a verb to be ^^ a wend
the tyro to learn what they are by the parsing of sentences
— that is, to ascend from par- ihat Bignifiea to be, to do, or to
suffer," {as if no other part of speech signified to be, to do, or
to suffer,) — after saying what is true enough, but cannot be
under- stood by a child till he has practically discovered it, that
" common names stand for kinds containing many sorts, or for sorts
containing many individuals under them;" — with many like things,
picked up from Lowth and others, equally fitted for the instruction
of young minds; condescends to give a few plain di- rections for
knowing the parts of speech, such as the tyro is likely to understand:
but the author, as if ashamed of having been intelligible, remarks
that " the observations wliich have been made to aid learners
in distinguishing the parts of speech from one another, may afford them
some small assistance ; but it will certainly be mucli more instructive
to distinguish them by the definitions, and an accurate knowledge
of their nature" Now the observations referred to, are, in
fact, the only passages calculated to give a just un- derstanding of the
parts of speech ; the definitions wliich the writer enhances, being
founded in an es- sentially wrong notion of the nature of grammar.
It is speaking to the purpose to tell the tyro that " a
substantive may be distinguished by its taking an article before it, or
by its making sense of itself;"^ that, " an adjective may be
known by its making sense with ticulars to generals instead of
descending from generals to particulars, — there la nothing
the wortl thing, or any particular Gubstantive ;" that, "
a verb may be diBtinguishcd by its making sense with any of the personal
pronoiuiB ;" that, " a preposi- tion may be known by its
admitting after it a personal pronoun in the objective case ;" and
so forth. These are not only plain directions for the purpose
professed, but they suggest the real differences among the parts of
speech; and if the compiler had condescended throughout his book (or
books, for there are appen- dages) to adapt his explanations, in the same
manner, to the minds of those who were to be taught, he would have
avoided the errors of doctrine which he always runs into when be attempts
to give, what as the author of an elementary grammar he has never any
buaiiiesa to give, namely a philosophical or general principle.
Moreover, in the arrangement of his materials, he seems incapable of, ot
at least is inattentive to, the clearest and most necessary distinctions.
Thus, (to take at random two examples from liis book of ex-
ercises,) he gives the following as instances of bad grammar : "
Ambition is so insatiable, that it will make any sacrifices to attain its
objects." (12mo. edit, p. 128.) " When so good a man as
Socrates fell a victim to the madness of the people, truth, virtue,
re- ligion, fell with him." (Ibid 116.) The former of these
sentences exemplifies the Logical fault, non- in what remains that
can be objected to : the declining of nouns, the conjugatiiig of
verbs, scquitur, and the latter will advantageouBly receive
the Rheimcal ornament polysyndeton : but to give them as instanccB of
defective Grammar, b to blind the learner to the nature of the art he is
studying. — The grammatical works wc are referring to, seem, from
the number of editions they have gone through, to be in very general
iise, or we should not have deemed them worth so long a note. \Ve pass to
a remark on another grammatical work of very different character
and value, the Greek grammar of Matthise. This work has justly won the
approbation of the learned throughout the world; but we conceive
the praise belongs to its elaborate detail, and not to such
principles as the following. " Every proposition, even the simplest,
must contain two principal ideas, namely that of the Subject a thing or
person, of which any thing is asserted in the proposition, and that of
the I'redicate, that which is asserted of that person or
thing." (Matth. Gr. § 293.) To state our objections to tliis passage
is difficult, because we do not know how the author or translator may
define a propositic»i, or what they may mean by the principal ideas in
it. Perhaps they may consider no expression a proposition which
does not consist of a subject and predicate. Wc deny that, from the
nature of the thought, any commu* nication requires these grammatical
parts, {they are A and the other business of
the grammar-scliool, we deem, as it has always been deemed, in-
dispensable. In Logic, if we omit ail that is taught concerning ideas
independently of words ; if we omit what ia taught concerning the
two operations of the mind, Perception and Judgment distinct from
Reasoning, not because those operations do not take place, but
because every single abstract word fully understood, (and Logic begins
with words,) expresses a conclusion from a rational process as
efTectually as a syllogism ; and if we further omit (and the omission is
important) whatever is peculiar to Aristotelian Logic ; — all that
remains will, on the principles we have had before us, be essentially
useful to the learner ; namely, the precepts for accurate definition
; the precepts against the assumption of un- warranted premises j
the precepts for guarding against the false conclusions to which we
are merely g^rammalical,) though the necessities of
lan- guage in general prescribe them. See Chap. I. SecL 25. ; about
the middle of the Section. liable when we reason tvith words, and
not merely by means of words; the precepts for guarding against
being led away by true con- clusions, when there may be conclusions
like- wise true and more important from other data ; which data,
with their conclusions, are, kept out of sight by the art of the speaker,
or . the blindness of the inquirer*. In Rhetoric, there is less to
be omitted than in the other branches ; but in this department, the
general views we have opened are important, because they exhibit
the art in connexion with a great and worthy end; an end which, it should
seem> has not always been thought essential to it.
* We mean to say, that the7na(e)'taZsof acomplete budy of
ioEtructioD ia Logic already exist in Literature ; but tliey esisE not in
any one system. They are more- over BO mingled with what is erroneous hi
doctrine, that the good is difficult to reach, without imbibing a
great many wrong notions that frustrate the practical benefit How
can it be otherwise, if what we have endeavoured to prove, is true, that
the principle of the Logic which all men use and all men operate witli,
has never yet been cxpIaiRvd ? For as Rhetoric is an
instrumental art, we are told that it ought to be considered ab-
stractedly from the ends which the speaker or writer may propose in using
it j and Quinctilian who insists that the Orator, (that is, of
course, the consummate orator,) must be a virtuous man, lias been classed
with those whom atraihevffla, and aXai^ovela have betrayed ioto a
wrong estimate of the art*. As we think the good old Roman schoolmaster
is not quite beside the mark in his notion on this point, we
propose to inquire wliether the placing of Rhetoric on the basis we
have ascertained, does not lead to the position he so stoutly
maintains. Now, the immediate basis of Rhetoric is Logic ; and our
remarks will therefore begin with the latter. 14. Logic as
well as Rhetoric is an in- strumental art ; but if our definition is
correct, it is an instrument for the discovery of truth, and it is
then only perfect as an instrument when it is completely adapted to that
end. • See Whately's Rhetoric. A great and worthy end is therefore
essential to Logic ; and a correspondent effect will appear in
those who have made a skilful use of it. But the Logic we speak of, is
that which is applied to things, namely to Physicot and Practica *;
that is to say, which is em- ployed to ascertain the constitution of
the world in which we Uve, and of ourselves who live in it, and
thence to deduce what we ought to do: — but the examination of the
world, and of ourselves, and of our duties, is the examination of
particulars ; and our Logic has recourse to universals for no other
purpose than to understand particulars the better. If there is a
Logic, which, resting in universals, confers the power of talking
learnedly and wisely, yet leaves a man to act the part of an
Ignoramus and a fool in the commonest concerns of life, this is not the
Logic we have had in view. There is indeed a learned ig- norance,
aa there is an ignorance from want of learning ; there is also an ignorance
from natural incapacity, and an ignorance from superinduced insanity
; by any one of wliich tbe mind may be prevented from reaching
truth. Not that in any case whatever the reasoning process is wrong ; but
if the reasoning proceeds on wrong or insufficient premises, which
it will in any of these cases, the conclusion will of course be wrong.
Some one has said that " the difference between a madman and a
fool is, that the former reasons justly from false data, and the latter
erro- neously from just data." This is incorrectly said : —
the idiot who walks into the water because he knows no better, is
incapable of the just datum, and therefore cannot be said to reason
from it : if he knew the datum, namely that the water would drown him,
he would not walk into it ; but he does not know this, and
therefore he walks into it : in doing which, he reasons, so far as his
know- ledge goes, as justly as the madman, who walks into it
because his disturbed fancy makes him take it for a garden. Wlien
the SECT. 14.] ON RHETORIC. 235 road to truth is
blocked up by either of these two causes, namely irabeciUty or
insanity. Logic can do nothing ; but ignorance whether from wrong
learning or from want of learning, is to be removed by the appUcation of
ge- nuine Logic to P/it/ska and Praclica. Still, independently of
tlie toil to be encountered, there are obstructions and delusions
which are liable to turn the most ardent inquirer out of the path.
There may not be natural im- becility, nor permanent insanity ; yet
there may be an habitual incapacity of judgment from the influence
of prejudice, and aa occasional insanity of judgment from the in-
fluence of passion. But among other things we learn in Pki/sica, these
facts are to be reckoned ; and the precepts which warn us of them,
are among the most important of those which belong to Praclica. In the
mean time, that we may be induced to persevere in the search after
truth, till our real interests become so plain that we cannot but
embrace them, we are not permitted to feel at ease under the
mists which passion and prejudice create. The fool and the madman to
whom mists are reaUties, are satisfied in their judg- ments; but it
is not so with those who see dimly through the fog, and suspect there may
be better paths than those they are pursuing. This suspicion, as light
breaks in, may at last become conviction, strong enough to subdue
even the habit or inclination by which a wrong path is made easy, and a
departure from it difficult. True, indeed, such over- powering
conviction may not reacii the ma- jority of mankind at present: they may
be compelled, as heretofore, to wear out life in struggles between
right and wrong, between inclination and duty, between future good
and present solicitation : but are we forbidden to hope, for future
generations, a gradual alleviation of so painful a conflict, in
propor- tion as what is good and what is evil shall be made plainer
to the eye of reason • P At least > * All vice is ignorance or
habit. Who would not take the best way of being happy, if he knew it —
that may we affirm, that all learniag has, or ought to have, this
consummation in view. is, knev it to conviction — and his habits
did not prevent him ? But he may discover the best way when hia
bahitE are fixed; as a miEerable dnmkard, who drinks on to escape from
utter dcepair, sees with bitter regrel the happiness of a sober life.
With a common notion of learning and ignorance, an objector will demur
to our statement ; but such an objectot should be told, that a man
may have run the circle of the sciences aa they are commonly taught, and
yet remain in ignorance of what is most important to be known. This is
s truth which not only Christian teachers, but the wise among the
heathen inculcate. In that admirable relic of Socratic philosophy,
£;EBHT02 niNAH, there are, among the personifications, two that bear
the names of naiitia and "Htuimaihla, (Learning and
Counterfeit-learning,) by the latter of which is ligured all that,
independently of the knowledge which makes I men permanently happy,
passes under the name of I learning. Now, in that knowledge which alone
ia | valuable, a man cannot be called learned, whose coik viction
is not strong enough to determine his practice. The thirsty wight Tiho,
in a state of profuse perspira* tion, calls for a glass of iced-water,
may know there is danger in the draught : but if his knowledge is
not strong enough to prevent the act, what is its value ?— at the
moment, it is even worse than useless ; since Such then is the aim
and scope of Lo- gic in relation to Physica and Pracika : it is
may be sufficient to disquiet the luxury of the draught, though not
sufficient to subdue the desire for it. When Macbeth, (for the case is
not dissimilar,) resolves to gratify his ambition, he is not ignorant
of the danger he runs, and the secure happiness he leaves behind
him ; but he is so far ignorant as to prefer the phantom of happiness to
the reality. Yet he is not so ignorant as his wife, and he reaps, in
consequence, less immediate gratification. Having once held the
balance, with some impartiality, between right and wrong, he is
incapable, even for a moment, of being a triumphant villain. The
crooked-baek Richard, (for having begun our examples with Shakspeare, we
will continue with him,) is not so distracted by divided data. "
Securely privileged," says Mr. Foster, " from all interference
of doubt that can linger, or hiunanity that can soften, or timidity
that can shrink, he advances with a grim con- centrated constancy through
scene after scene of atrocity, still fiilfilling his vow to ' cut his way
through with a bloody ase.' He does not waver while he pursues his
object, nor relent when he seizes it." (Essays on Decision of
Character, &c.) Yet both he and Macbeth's wife at length get nervous
in their sleep : for so it is, that if one scruple of conscience
lurk in the soul, it will produce its effect sooner or later; and
tliat effect will begin when the bodily powers are the means of discovering
truth in botli these departments. Now we assume, that the pro-
weakest; and as body and mind have a mutual in- fluence, the former -will
sicken and perpetuate the horrors of the latter, unless, as with Richard,
a violent death intervene. The three wretches vc have thus far
referred to, have this in common, that they do not embrace vice for its
own sake, but as a means of reaching the phantom of happiness that dances
before them. But there is a state of vice brought on by habit, in
which a man finds a pleasure in doing evil, and is in- capable of any
other pleasure. lago is our example — a character which, it is to be
feared, is by no means out of life. Imagine a shrewd and selfish child
per- mitted from infancy to create for himself a satis- faction in
the disquietude of others — a little worrier of defenceless creatures— a
petty tyrant indulged in his worst caprices ; — imagine such a one, as he
grows up, placed where his habits cannot be indulged but in secret,
and where those around him are such, that he must, in his own mind,
either hate them, or hate himself: imagine all this, and lago will appear
too possible a character. Some critics have objected, that there is
no sufficient motive for the mischief he brings on Othello, Desdemona,
and Cassio. Can there be, to Aim, a stronger motive, than that they arc
noble- minded, benevolent, and happy, and tacitly remind him, at
every instant, that he is in all respects a per business of Rhetoric is
to make truth known when found j which assumption, if ad- mitted,
would at once establish our position ; for to suppose a consummate orator
would, in such case, be to suppose one who is too fully possessed
of truth not to be led by it himself, while acting as a guide to others.
After ad- mitting the assumption, it would signify little wretch? He
knows and bitterly feels, tliat each " hath a daily beauty in his
life that makes him ugly-" The only pleasure which habit has given
him, in lieu of those of which it has made him incapable, is, to
torture the beings that wound his self-love to the quick, and to destroy
the happiness he cannot partake in. Such is the power of habit. Though
the means, when properly applied, of putting a human being in train
to become an angel, yet added to, and encouraging the tendencies of
his uninstructed nature, it will render him, prematurely, a fiend. lago
is utterly depraved — a be- ing incapable of Paradise if placed in it —
more odious tlian Milton has been able to depict even Satan him-
self; for that majestic bdng, (the hero of the poem as Drydeu truly says
he is,) never appears " less than arcliangel ruined. " The
" demi-devil " of the dra- matist, excels, in mental deformity,
what the epic muse has been able to conceive of " the author of all
evil. " to object the actual characters of those who
speak and write ; for they may be pretenders in Rhetoric j or their
advance in it, though real, may be very inconsiderable toward the
perfection we are supposing. But it may be said that the assumption begs
the question, and leaves us still to show that the office of leading men
to truth is essential to Rhetoric, in contradiction to those who view it
as a mere instrument equally fitted for the purposes of truth and
falsehood. Now, it must be con- fessed, with regard to the means employed
in Rhetoric, that they frequently seem adapted to the prejudices of
men, — to meet rather than to oppose their ignorance and their
passions. And if there were any way of conveying truth at once into
minds unfitted to receive it *, the * It is a comiuoii thing
to say of a person, that he vtiU not be convinced. The fact generally
stands thus : we use arguments that convince ourselves, and presume
they are fitted to convince him, not knowing or not observing, that all
argument derives its force &om the previous knowledge in the mind to
which it is addressed ; and that our hearer may have been so use of
such means would be conclusive against an honest purpose in the speaker.
But the instantaneous communication of truth, is, un- der most
circumstances, impossible ; and there- fore we may next ask, what
interest a writer or speaker can have in an ultimate purpose to
deceive. The answer will be, — to serve one or other of those partial
purposes, of which the common business of life, whether we look
into its private circles, or into the forum or senate house, furnishes
hourly examples. But may we not describe all this as a conflict, in
educated as to render convicUon impoBsible by iuch arguments as we
offer him. Suppose, however, it be true, that our hearer mill not be
convinced, — thai is to say, does not wish to be convinced, because his
par- ty perhaps, or his profession, or the career (be it what it
may) into which he has entered, does not agree witli what is sought to be
established : let us in candour consider in such a case what a vantage
ground we oc- cupy, inasmuch as we see our own interest, temporal
or eterual, coupled with the proposition in view ; and let us condescend,
by the argumeittum ad homhiem, to give him a similar advant^e, before we
expect his conviction from the argumentum ad judicium.
which each is eager to show just so much truth as suits the present
purpose, and to veil the rest? And will not the whole of truth be
shown in this manner, as far at least as men have discovered it, although
not shown at once ? Of these skirmishers that use the arms
ufiensive and defensive of the art, each takes credit for a certain
degree of skill j but among them all, which is thg Orator? Is it not
he who soars above partial views and partial pur- poses, who unites
into one comprehensive whole what others advocate in parts, who
teaches men to postpone petty for greater ad- vantages, and to seek the
welfare of the indi- vidual in the happiness of the kind ? If,
then, the palm of eloquence is permanently his alone, who contends
for it in this manner, our chain of argument will not want many links
before we reach the conclusion, that to undertake the art on a
valid principle, we must con- sider its purpose to be that of leading
men to truth. 16. A Rhetoric growing out of the Logic of
Aristotle *, which, as we have seen, is the art of reasoning mlh words,
and not merely by means of words, may indeed well be sus- pected as
a specious and delusive art. Aim- ing at plausibility alone, it gives the
power of talking largely without requiring the know- ledge which
grows up Irom experience in particulars ; and thus we have
statesmen, who, if we listen to them, are capable of setting the
world in order, but know not how to re- gulate their households ; we have
financiers ready to accept the control of a nation's •
Aristotle's own treatise on Rhetoric is a work completely to its purpose
; that is to say, fitted to make men prevailing speakers at the time in
wliich he wrote, by exhibiting comprehensively the bearings of the
ques- tions they would have to discuss, and the various kinds of persons
they would have to influence. It is indeed remarkable how little
Aristotle's other works are of a piece with his Logic ; nor is it without
some show of reason that Dugald Stewart supposes he was aware of
its empty pretensions, and was too wise to be deceived by it himself,
though lie chose to impose it on others. Sec Vol. II. of the Philosophy
of the Human Mind, Chap, III. Sect. 3. wealth, that have
never learaed to manage their own estates; we have lawyers, whom
the simplest questions of right and wrong would be sufficient to pei-ples
* ; and priests who, once a week, discourse " in good set
terms " to well dressed congregations, of vir- tue and of vice, of
this world and the next j but who would be incapable of oifering, from
their own stores, a single argument fitted to deter a plain
thinking, ignorant man from vice, or to stop the commission of a specific
offence by remonstrance adapted to the case. This specious
eloquence, however, like the Logic from which it springs, has almost lost
its re- putation and influence: we now require from speakers and
writers more substantial recom- mendations than the power of dwelling
on vague generalities ; and in proportion as • But perhaps,
with regard to lawyers, we are requiring knowledge, which, as matters stand,
would be an incumbrance to them. A special pleader may Bay, "
what have I to do with simple right and wrong ? My business is to see how
the letter of the law can be applied or evaded."
Mfi genuine Logic enlarges the empire of truth,
will the necessity appear of seeking in an en- lightened mind, and a
heart kindled by active philanthropy, for the true springs of elo-
quence. Thus will ambition be brought to side with virtue} because there
will be no way of winning distinction, but by cultivating the
powers of language in subservience to that knowledge, which gives a man
the de- sire and the faculty of beiug useful to others, and
governing himself. To conclude ; — the theory which, in this
treatise, we have endeavoured to establiah is this, — that we come at all
our knowledge by the use of media, which media are, chiefly, words;
and that, as the words procure the notions, the notions exist not
antecedently to language : —that when, by these means, we have
gained knowledge, and try, by similar means, to communicate it to others,
we do not, while the process is going on, represent our own
thoughts, but we set their minds a thinking iu a particular train ; that
our own thought 13 represented by nothing short of the completely
formed word, whose parts, if any or all of them are separately dwelt
upon, are not parts of our thought, but signs of knowledge which we
and our hearers possess in common, and which, by bringing their
minds into a particular attitude, enables them to conceive our thought,
when the whde WORD that expresses it, is formed : — that i§ before
this word is formed, there are parts by which something is Communicated
not known before, yet, being communicated, it is still but a part
of the means toward knowing something not yet communicated, and
stiU, therefore, the principle holds good, that we are adding part
to part of the whole word which is to express something not yet
com- municated ; which word, even though it ex- tend to an oration,
a treatise, a poem, &c., is as completely indivisible with respect to
the meaning conveyed by it as a whole, as is a word which consists
only of a single syllable, or a single sound. If this doctrine truly
de- scribes the nature of the connexion between thought and
language, we claim for it the merit of a discovery, because the
common theory, that is, the theory which men are presumed to act
upon, and to which all pre- ceptive works are adapted, — not the
theory which, unawares, they really act upon, — ex- hibits that
connexion in a very different light. And, as a discovery, we are the more
dis- posed to urge attention to it, because our soundest
metaphysicians have expressed them- selves as if there 'ooas something to
be dis- covered as regards the connexion we speak of, before a
system of Logic could be establisiied on a just foundation. Locke says
that when he first began his discourse on the Under- standing, and
a good while after, he thought that no consideration of language was at
all necessary to it. At the end of his second book, he discovers,
however, so close a con- nexion between words and knowledge, that
he is obliged to alter his first plan ; and having reached his concluding
chapter, he speaks as if he still felt that he had not yet
ascertained the full extent to which language is an instrument of reason.
Dugald Stewart, too, from whom, in the conclusion of our first
chapter, we quoted a passage which entirely agrees, so far as it
goes, with the views we have opened, ' has the following remark in
his last work, the third volume of the Philosophy of the Human
' Mind : " If a system of rational Logic should ever be
executed by a competent hand, this ** (viz. language as an instrument of
thought) '* will form the most important chapter." Our
doctrine is, that this will not merely form the most important chapter,
but that it wtU be the only chapter strictly belonging to Jjo^ I ^c
; and yet the theory we offer keeps deaf of the extreme which betrayed
Home Tooke, who appears to consider reason as the result of
language. We pretend, then, to have inade the discovery which Locke felt
to be necessary, and the nature of which Stewart more than i
conjectured j but oura is only " «?i Outline ; '* and the system of
rational Logic which the Scotch metaphysician speaks of, yet remains
to be "executed by a competent hand:" — we pretend but to
have ascertained for it the true foundation. — Something might be
add- ed on the importance which the subject de- rives from the
aspect of the times : for the most careless observer cannot but
remark, how the rapid communication of knowledge from mind to mind
moulds and forms public opinion ; and how the opinion of the many,
ac- quiring, day by day, a character and a weight that never
distinguished it before, threatens to become the law to which not only
individuals, but governments, and eventually the common- wealth of
nations, must conform ; and hence we might be led to urge that Philosophy
cannot be employed more opportunely, than in a new examination of
the instrument by which so much has been, and so much more is
likely to he effected. The consideration is, how- ever, too obvious
not to have occurred to the reader, and we therefore close our remarks.
At page 55, the assertione, that the words of a sentence, " as parts of
that sentence'''', and the sentences of a discourse, " na parts of
that discourse"", are not by themselves significant, would
perhaps sound a little less paradoxical, if, instead of each of the
phrases quo- ted, the reader were to substitute " as parts of
that completed expression ". At page 88, supply the
other parenthetical mark after " imderstanding" in line
4. At page 196, line 6, the question is asked, whether the
juryman must go to Aristotle, and be taught to compare the middle with
the extremes ? The reader will observe that the example is already farced
into a form, namely that of a syllogism in barbara, which a juryman
untaught by Aristotle would probably never think of giving it, the other
way of speaking being by far the more obvious, viz. To kill a man
maliciously is murder ; A. B. killed a man maliciously ; therefore
A. B. is guilty of murder. Here, instead of the Aria- totclian names
major and minor, we prefer calling the first proposition the datum, and
the second, with re- ference to the datum it is addressed to, the
argument ; and the truth of the argument having been proved by
testimony, we atfirm that the conclusion is as evident as a conclusion
can be, and that the Aristotelian formula is a needless and puerile
addition to a process already complete — a proof of what is proved : — it
is a use of language for the purpose of reasoning which does not
identify with, but goes beyond, and childishly refines upon that use of
language in which the logic of mankind at large consiets. The
doctrine of the whole work may receive some light from the following way
of stating it : — Man, in common with other animals, derives immediately
from nature the power to express hie immediate, or, as they are
commonly called, his natural wants and feelings. But he also possesses
the power of inventing or learn- ing a language which nature does not
teach ; and it is solely by the exertion of this power, which we
call reason, that he raises himself above the level of other
animals. By media such as artificial language consists of, and only by
such media, he acquires the knowledge which distinguishes him from other
creatures ; and each advance being but the step to another, he is a
being indefinitely improveable. But if words are the means of knowledge,
it is an error to describe or con- sider them in any other light ; and we
accordingly deem them not as, strictly speaking, the signs of
thought, but as the means by which we think, and set others a thinking.
This principle being admitted, renders unnecessary Locke's doctrine of ideas ;
and Sematology stands opposed to, and takes the place of, what the French
call Idealogy, With respect to these addenda, should the
reader ask, whether they are to be esteemed a part of our WORD, we
answer in the affirmative. We imagined our woED complete. If, on further
consideration, we had supposed so, we should not have added another
SYLLABLE. {^uT^Qh a ffvMMiiSavuv.) G. WoedbUi Frlnlei, Angd Courl,
SkJnnsi Street, Londoo. Giuseppe Capocasale. Keywords: sematologia,
la sematologia di Vico, dialettica, assoc: ‘a tear’ may be a sign of sadness –
or love – (‘una furtiva lagrima – ‘m’ama’) but the kind of sign that an idea or
conception of the soul, or ‘rivelazione’ of the animus -- are related with are arbitrario
– ad placitum -- arbitrary, not necessarily a natural causal sign or nature.
The correlation between the segnans and the segnato may be ‘imitativa’ or iconic,
arbitrary, arbitraria, associative, associative, etc. A sign is not essentially
connected with the purpose of communication (smoke means fire, spots mean
measles, a tear means love). Grice is into ‘communication,’ not sign as such –
a theory of communication, not a semeiotic. Capocasale does not expand on the
intricacies of the cocodrile’s tears (fake tears – or Grice’s frown), because
he is not interested, but it woud just take a footnote to his comment on
‘lacrima’ being a ‘signum’ traestitiae. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Capocasale” – The Swimming-Pool Library
Grice e Capocci – significare e santificare –
il sacramento evangelico significa grazia e sanctifica grazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Viterbo). Filosofo italiano. Grice: “I like Capocci; he was
a Griceian; he opposed Aquinas on the dependence of will and intellectus –
surely they are independent, and possibly the will is more basic! La ‘volonta,’
as the Italians call it! -- “That’s how I shall call himothers favour “Giacomo
da Viterbo.”” Essential Italian philosopher – Di
famiglia nobile, studia a Viterbo. His monicker was ‘il dottore speculativo”.
Insegna a Napoli. Il suo saggio più conosciuto, “De regimine christiano” Approfondisce i temi della teocrazia, e del
potere temporale del cesare e il suo stato. Altre opere: “Quaestiones disputatae
de praedicamentis in divinis”. “Summa de peccatorum distinctione” – “there are
surely more than seven sins – Multiply sins beyond necessity --. Dizionario Biografico degli Italiani.Vi sono
in cui Giacomo viene raffigurato con un'aureola – segno naturale accordo di
Peirce del santo.Mariani identified two manuscripts containing a Summa de
peccatorum distinctione: Biblioteca Nazionale di Napoli, cod. vii G. 101 and
Biblioteca di Montecassino, both of which ascribe the work to James. Ypma does
not mention. Summa de peccatorum distinctione Fratris Jacobi de Viterbio Sacrae
Theologiae Professoris, Fratrum Eremitarum Sancti Augustini, Archiepiscopi
Neapolitani. D. AMBRASI, La Summa de peccatorum distinctione del b.
Giacomo da Viterbo dal ms. VII G 101... D. GUTIERREZ, De vita et scriptis Beati
Iacobi de Viterbo, “ Analecta Augstiniana ”, XVI, 1937 Lectura super IV libros
Sententiarum Quaestiones Parisius disputatae De praedicamentis in divinis
Quaestione de animatione caeli Quaestiones disputatae de Verbo Quodlibeta quattuor Abbreviatio In Sententiarum Aegidii Romani De
perfectione specierum De regimine christiano Summa de peccatorum distinctione
Sermones diversarum rerum Concordantia psalmorum David De confessione De
episcopali officio Like many of his contemporaries,
James devotes serious attention to determining the status of theology as a
science and to specifying its object, or rather, as the scholastics say, its
subject. In Quodlibet III, q. 1, he asks whether theology is
principally a practical or a speculative science. Unsurprisingly, perhaps, for
an Augustinian, James responds that the end of theology resides principally not
in knowledge but in the love of God. The love of God, informed by grace, is
what distinguishes the way in which Christians worship God from the way in
which pagans worship their deities. For philosophers—James has Cicero in
mind—religion is a species of justice; worship is owed to God as a sign of
submission. For the Christian, by contrast, there can be no worship without an internal
affection of the soul, i.e., without love. James allows that there is some
recognition of this fact in Book X of the Nicomachean Ethics, for
the happy man would not be “most beloved of God,” as Aristotle claims he is, if
he did not love God by making him the object of his theorizing. In this sense,
it can be said that philosophy as well sees its end as the love of God as its
principal subject. But there is a difference, James contends, in the way in
which a science based on natural reason aims for the love of God and the way in
which sacred science does so: sacred science tends to the love of God in a more
perfect way. One way in which James illustrates the difference between both
approaches is by contrasting the ways in which God is the “highest” object for
metaphysics and for theology. The proper subject of metaphysics is being, not
God, although God is the highest being. Theology, on the other hand, views God
as its subject and considers being in relation to God. Thus, James concludes,
“theology is called divine or of God in a much more excellent and principal way
than metaphysics, for metaphysics considers God only in relation to common
being, whereas theology considers common being in relation to God” (Quodl.).
Another way in which James illustrates the difference between natural theology
and sacred science is by using St. Anselm's distinction between the love of
desire (amor concupiscientiae) and the love of friendship (amor
amicitiae). The love of desire is the love by which we desire an end; the
love of friendship is the love by which we wish someone well. The love of God
philosophers have in mind, James contends, is the love of desire; it cannot, by
the philosophers' own admission, be the love of friendship, for according to
Aristotle, at least in the Magna Moralia, friendship involves a
form of community or sharing between the friends that cannot possibly obtain
between mere mortals and the gods. Now although James concedes that a
“community of life” between God and man cannot be achieved by natural means, it
is possible through the gift of grace. The particular friendship grace affords
is called charity and it is to the conferring of charity that sacred scripture
is principally ordered.Like all scholastics since the early thirteenth century,
James subscribes to the distinction between God's ordained power, according to
which “he can only do what he preordained he would do according to wisdom and
will” (Quodl.) and his absolute power, according to which he can do
whatever is “doable,” i.e., whatever does not imply a contradiction. Problems
concerning what God can or cannot do arise only in the latter case. James
considers several questions: can God add an infinite number of created species
to the species already in existence (Quodl. I, q. 2)? Can he make
matter exist without form (Quodl.)? Can he make an accident subsist
without a substrate (Quodl.)? Can he create the seminal reason of a
rational soul in matter (Quodl.)? In response to the first question,
James explains, following Giles of Rome but against the opinion of Godfrey of
Fontaines and Henry of Ghent, that God can by his absolute power add an
infinite number of created species ad superius, in the ascending
order of perfection, if not in actuality, then at least in potency. God cannot,
however, add even one additional species of reality ad inferius,
between prime matter and pure nothingness, not because this exceeds his power
but because prime matter is contiguous to nothingness and leaves, so to speak,
no room for God to exercise his power (Côté). James is more hesitant about the
second question. He is sympathetic both to the arguments of those who deny that
God can make matter subsist independently of form and to the arguments of those
who claim he can. Both positions can reasonably be held, because each argues
from a different (and valid) perspective. Proponents of the first position
argue from the point of view of reason: because they rightly believe that God
cannot make what implies a contradiction, and because they believe (rightly or
wrongly) that making matter exist without form does involve a contradiction,
they conclude that God cannot make matter exist without form. Proponents of the
second group argue from the perspective of God's omnipotence which transcends
human reason: because they rightly assume that God's power exceeds human
comprehension, they conclude (rightly or wrongly) that making matter exist
without form is among those things exceeding human comprehension that God can
make come to pass.Another question James considers is whether God can make an
accident subsist without a subject or substrate. The question arises only with
respect to what he calls “absolute accidents,” namely quantity and quality, as
opposed to relational accidents—the remaining categories of accident. God clearly
cannot make relational accidents exist without a subject in which they inhere,
for this would entail a contradiction. This is so because relations for James,
as we will see below, are modes, not things.
What about absolute accidents? As a Catholic theologian, James is committed to
the view that some quantities and qualities can subsist without a subject, for
instance extension and color, a view for which he attempts to provide a
philosophical justification. His position, in a nutshell, is that accidents are
capable of existing independently if they are thing-like (dicunt rem).
Numbers, place (locus), and time are not thing-like and are thus not
capable of independent existence; extension, however, is and so can be made to
exist without a subject. The same reasoning applies to quality. This is
somewhat surprising, for according to the traditional account of the Eucharist,
whereas extension may exist without a subject, the qualities, color, odor,
texture, necessarily cannot; they inhere in the extension. James, however,
holds that just as God can make thing-like quantities to exist without a
subject, so too must he be able to make a thing-like quality exist without the
subject in which it inheres. Just which qualities are capable of existing
without a subject is determined by whether or not they are “modes of being,”
i.e., by whether or not they are relational. This seems to be the case with
health and shape: health is a proportion of the humors, and so, relational;
likewise, shape is related to parts of quantity, without which, therefore, it
cannot exist. Colors and weight, by contrast, are non-relational, according to
James, and are thus in principle capable of being made to exist without a
subject.The fourth question James considers in relation to God's omnipotence
raises the interesting problem of whether the rational soul can come from
matter. James proceeds carefully, claiming not to provide a definitive solution
but merely to investigate the issue (non determinando sed investigando).
The upshot of the investigation is that although there are many good reasons
(the soul's immortality, its spirituality and its per se existence)
to say that God cannot produce the seminal reason of the rational soul in
matter, in the end, James decides, with the help of Augustine, that such a
possibility must be open to God. Thus, it is true that in the order which God
has de facto instituted, the soul's incorruptibility is
repugnant to matter, but this is not so in absolute terms: if God can
miraculously cause something to come to existence through generation and confer
immortality upon it (James is presumably thinking of the birth of Christ), then
he can make it come to pass that souls are produced through generation without
being subject to corruption. Likewise, although it appears inconceivable that
something material could generate something endowed with per se existence,
it is not impossible absolutely speaking: if God can confer separate existence
upon an accident—despite the fact that accidents naturally inhere in their
substrates—then, in like manner, he can confer separate existence upon a soul,
although it has a seminal reason in matter. Scholastics held that because God
is the creative cause of all natural beings, he must possess the ideas
corresponding to each of his creatures. But because God is eternal and is not
subject to change, the ideas must be eternally present in him, although
creatures exist for only a finite period of time. This doctrine of course
raised many difficulties, which each author addressed with varying degrees of
success. One difficulty had to do with reconciling the multiplicity of ideas
with God's unity: since there are many species of being, there must be a
corresponding number of ideas; but God is one and, hence, cannot contain any
multiplicity. Another, directly related, difficulty had to do with the
ontological status of ideas: do ideas have any reality apart from God? If one
denied them any kind of reality, it was hard to see how they could function as
exemplar causes of things; but to attribute full-blown essential reality to
them was to run the risk of introducing multiplicity in God. One influential
solution to these difficulties was provided by Thomas Aquinas, who argued that
divine ideas are nothing else but the diverse ways in which God's essence is
capable of being imitated, so that God knows the ideas of things by knowing his
essence. Ideas are not distinct from God's essence, though they are distinct
from the essences of the things God creates (De veritate). One can
discern two answers to the problem of divine ideas in the works of James of
Viterbo. At an early stage of his career, in the Abbreviatio in
Sententiarum Aegidii Romani—assuming one accepts, as seems reasonable,
the early dating suggested by Ypma (1975)—James defends a position that is
almost identical to that of Thomas Aquinas (Giustiniani). In his Quodlibeta,
however, he moves to a position closer to that of Henry of Ghent. In the
following I will sketch James' position in the Quodlibeta as
it provides the most mature statement of his views. Although James agreed with
the notion that ideas are to be viewed as the differing ways in which God can
be imitated, he did not think that one could make sense of the claim that God
knows other things by cognizing his own essence unless one supposed that the
essences of those things preexist in some way (aliquo modo) in God.
James' solution is to distinguish two ways in which ideas are in God's
intellect. They are in God's intellect, firstly, as identical with it, and,
secondly, as distinct from it. The first mode of being is necessary as a means
of acknowledging God's unity; but the second mode of being is just as
necessary, for, as James puts it (Quodl. I, q. 5, p. 64, 65–67),
“if God knows creatures before they exist, even insofar as they are other than
him and distinct (from him), that which he knows is a cognized object, which
must needs be something; for that which nowise exists and is absolutely nothing
cannot be understood.” But James also thinks that the necessity of positing
distinct ideas in God follows from a consideration of God's essence. God enjoys
the highest degree of nobility and goodness. His mode of knowledge must be
commensurate with his nature. But according to Proclus, an author James is
quite fond of quoting, the highest form of knowledge is knowledge through a
thing's cause. That means that God knows things through his own essence.
However, he does so by knowing his essence as a cause, and
that is possible only by knowing “something (aliquid)
through a cause, not merely by knowing that which is the cause (i.e., God)”.
Although James' insistence on the distinctness of ideas with respect to God's
essence is reminiscent of Henry of Ghent's teaching, it is important to note,
as has been stressed by M. Gossiaux (2007), that James does not conceive of
this distinctness as Henry does. For Henry, ideas possess esse
essentiae; James, by contrast, while referring to divine ideas as things (res),
is careful to add that they are not things “in the absolute sense but only determinately,”
viz., as cognized objects (Quodl. I, q. 5, p. 63, 60). Thus,
divine ideas for James possess a lesser degree of distinction from God's
essence than do Henry of Ghent's. Nevertheless, because James did consider
ideas to be distinct in some sense from God, his position would be viewed by
some later authors—e.g., William of Alnwick—as compromising divine unity. The
concept of being, all the medievals agreed, is common. What was debated was the
nature of the commonness. According to James of Viterbo, all commonness is
founded on some agreement, and this agreement can be either merely nominal or
grounded in reality. Agreement is nominal when the same name is predicated of
wholly different things, without there being any objective basis for the application
of the common name; such is the case -of equivocal names. Agreement is real in
the following two cases: (1) if it is based on some essential resemblance
between the many things to which a particular concept applies, in which case
the concept applies to these many things by virtue of the self same ratio and
is said of them univocally; or (2) if that concept is truly common to the many
things of which it is said, although it is not said of them relative to the
same nature (ratio), but as prior to one and posterior to the others,
insofar as these are related in a certain way to the first. A concept that is
predicated of things in this way is said to be analogous, and the agreement
displayed by the things to which it applies is said to be an agreement of attribution
(convenientia attributionis). James believes that it is according to
this sense of analogy that being is said of God and creatures, and of substance
and accident (Quaestiones de divinis praedicamentis I, q. 1, p.
25, 674–80). For being is said in a prior sense of God and in a posterior sense
of creatures by virtue of a certain relation between the two; likewise, being
is said first of substance and secondarily of accidents, on account of the relation
of posteriority accidents have to substance. The reason why being is said in a
prior sense of God and in a secondary sense of creatures and, hence, the reason
why the ‘ratio’ or nature of being is different in the two cases is
that being, in God, is “the very thing which God is” (Quaestiones de
divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 412), whereas created being is only
being through something added to it. From this first difference follows a
second, namely, that created being is being by virtue of being related to an
agent, whereas uncreated being has no relation. These two differences can be
summarized by saying that divine being is being through itself (per se),
whereas created being is being through another (per aliud) (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 1, p. 16, 425–6). In sum, being is said of
God and creature, but according to a different ratio: it is said
of God according to the proper and perfect nature of being, but of creatures in
a derivative or secondary way.James' most detailed discussion of the
distinction between being and essence occurs in the context of a question that
asks if creation could be saved if being (esse) and essence were not
different (Quodl. I, q. 4). His answer is that although he finds
it difficult to see how one could account for creation if being and essence
were not really different, he does not believe it is necessary to conceive of
the real distinction in the way in which “certain Doctors” do. Which Doctors
does he have in mind? In Quodl. I, q. 4, he summarizes the
views of three authors: Godfrey of Fontaines, according to whom the distinction
is only conceptual (secundum rationem); Henry of Ghent, for whom esse is
only intentionally different from essence, a distinction that is less than a
real distinction but greater than a rational distinction; and finally, Giles of
Rome, for whom esse is one thing (res), and essence
another. Thus, James agrees with Giles, and disagrees with Henry and Godfrey,
that the distinction between being and essence is real; however, he disagrees
with Giles about the proper way of understanding the real distinction.The
starting point of his analysis is Anselm's statement in the Monologion that
the substantive lux (light), the infinitive lucere (to
emit light), and the present participle lucens (emitting
light) are related to each other in the same way as essentia (essence), esse (to
be), and ens (being). The relation of lucere to lux,
he tells us, is the relation of a concrete term to an abstract one.
To-emit-light denotes light as an act, just as to-be (esse) denotes
essence from the point of view of an act. Now, a concrete term signifies more
things than the corresponding abstract term, e.g., esse signifies
more things than essence, for essence signifies only the form, whereas esse signifies
the form principally and the subject secondarily. By ‘subject’ James means the
actually existing thing, which he also calls the aggregate or supposit (Wippel
1981). Esse and essence thus signify the same thing
principally, but differ in terms of what they signify secondarily. Although
this difference is only conceptual in the case of God, it is real in the case
of creatures. It is this difference that explains why one does not predicate
to-emit-light (lucere) of light itself (lux) or being of
essence: what properly exists is that which has essence, viz., the
supposit. Esse denotes essence as existing in a supposit.The
kernel of James' solution, then, lies in the distinction between what terms
signify primarily and secondarily. To his mind, this is what makes his solution
closer in spirit to Giles of Rome than to either Godfrey or Henry, without
committing him to a conception of the distinction as rigid as that of Giles.
The distinction is real for James, but in a qualified way (Gossiaux 1999).
Because identity or difference between things is determined to a greater degree
by primary rather than by secondary signification, it follows that essence and
existence are primarily and absolutely the same (idem) and
conditionally or secondarily distinct. Yet, although the distinction is
conditional or secondary, it is nonetheless James devotes five of his Quaestiones
de divinis praedicamentis (qq. 11–15), representing some 270 pages of
edited text, to the question of relations. It is with a view to providing a
proper account of divine relations, he explains, that it is “necessary to
examine the nature of relation with such diligence” (Quaestiones de divinis
praedicamentis, q. 11, p. 12, 300–301). But before turning to Trinitarian
relations, James devotes the whole of q.11 to the status of relations in
general. The following account focuses exclusively on q. 11. James in essence
adopts Henry of Ghent's “modalist” solution, which was to exercise considerable
influence among late thirteenth-century thinkers (Henninger 1989), although he
disagrees with Henry about the proper way of understanding what a mode is.The
question boils down to whether relations exist in some manner in extra-mental
reality or solely through the operation of the intellect, like second
intentions (species and genera). Many arguments can be adduced in support of
each position, as Simplicius had already shown in his commentary on
Aristotle's Categories—a work that would have a decisive
influence on James' thought. For instance, in support of the view that
relations are not real, one may point out that the intellect is able to
apprehend relations between existents and non-existents, e.g., the relation between
a father and his deceased son; yet, there cannot be anything real in the
relation given that one of the two relata is a non-existent. But if so, then
the same must be true of all relations, as the intellectual operation involved
is the same in all cases. Another argument concerns the way in which relations
come to be and cease to be. This appears to happen without any change taking
place in the subject which the relation is said to affect. For instance, a
child who has lost his mother is said to be an orphan until the age of
eighteen, at which point it ceases to be one, although no change has occurred:
“the relation recedes or ceases by reason of the mere passage of time.”But good
reasons can also be found in support of the opposing view. For one, Aristotle
clearly considers relations to be real, as they constitute one of the ten
categories that apply to things outside the soul. Furthermore, according to a
view commonly held by the scholastics, the perfection of the universe cannot
consist solely of the perfection of the individual things of which it is made;
it is also determined by the relations those things have to each other; hence,
those relations must be real.The correct solution to the question of whether
relations are real or not, James contends, depends on assigning to a given
relation no more but no less reality than is fitting to it. Those who rely on
arguments such as the first two above to infer that relations are entirely
devoid of reality are guilty of assigning relations too little reality; those
who appeal to arguments such as the last two, showing that relations are
distinct from their subjects in the way in which things are distinct from each
other, assign too great a degree of reality to relations. The correct view must
lie somewhere in between: relations are real, but are not distinct from their
subjects in the way one thing is distinct from another.That they must be real
is sufficiently shown by the first Simplician arguments mentioned above, to
which James adds some others of his own. However, showing that they are not
things is slightly more complicated. James' position, in fact, is that
relations are not things “properly and absolutely speaking,” but only “in a
certain way according to a less proper way of speaking.” A relation is not a
thing in an absolute sense because of the “meekness” of its being, for which
reason “it is like a middle point between being and non-being” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 11, p. 30, 668–9). The reasoning behind this
last statement is as follows: the more intrinsic some principle is to a thing,
the more that thing is said to be through it; what is maximally intrinsic to a
thing is its substance; a thing is therefore maximally said to be on account of
its substance. Now a thing's being related to another is, in the constellation
of accidents that qualify that thing, what is minimally intrinsic to it and
thus farthest from its being, and so closest to non-being. But if relations are
not things, at least in the absolute sense, what are they? James answers that
they are modes of being of their foundations. “The mode of
being of a thing does not differ from the thing in such a way as to constitute
another essence or thing. The relation, therefore, is not different from its
foundation” (Quaestiones de divinis praedicamentis, q. 11, p. 33,
745–7). Speaking of relations as modes allows us to acknowledge their reality,
as attested by experience, without hypostasizing them. A certain number's being
equal to another is clearly something distinct from the number itself. The number
and its being equal are two “somethings” (aliqua), says James; they
are not, however, two things; they are two in the sense that one
is a thing (the number) and the other is a mode of being of the number.In
making relations modes of being of the foundation, James was
clearly taking his cue from Henry of Ghent, who has been called “the chief
representative of the modalist theory of relation” (Henninger 1989). For Henry
and James, relations are real in the sense that they are distinct from their
foundations and belong to extra mental reality. However, James' understanding
of the way in which a relation is a mode differs from Henry's. For Henry, a
thing's mode is the same thing as its ratio or nature; it is
the particular type of being that thing has, what “specifies” it. But according
to James' understanding of the term, a mode lies beyond the ratio of
a thing, like an accident of that thing (Quaestiones de divinis
praedicamentis, p. 34, 767–8). In conclusion, one could say that in his
discussion of relations, James was guided by the same motivation as many of his
contemporaries, namely securing the objectivity of relations without conferring
full-blooded existence upon them. Relations do exhibit some form of being,
James believed, but it is a most faint one (debilissimum), the
existence of a mode qua accident. James discusses individuation in two places: Quodl. I,
q. 21 and Quodl. II, q. 1. I will focus on the first
treatment, because it is the lengthier of the two and because the tenor of
James' brief remarks on individuation in Quodl. II, q. 1,
despite certain similarities with his earlier discussion (Wippel 1994), make it
hard to see how they fit into an overall theory of individuation.The question
James faces in Quodl. I, q. 21 is a markedly theological
one, namely whether, if the soul were to take on other ashes at resurrection, a
man would be numerically the same as he was before. In order to answer that
question, James tells us, it is first necessary to determine what the cause of
numerical unity is in the case of composite beings. There have been numerous
answers to that question and James provides a short account of each. Some
philosophers have appealed to quantity as the principle of numerical unity;
others to matter; others yet to matter as subtending indeterminate dimensions;
finally, others have turned to form as the cause of individuation. According to
James, each of these answers is part of the correct explanation though it is
insufficient if taken on its own. The correct view, according to him, is that
form and matter taken together are the principal causes of numerical identity
in the composite, with quantity contributing something “in a certain manner.”
Form and matter, however, are principal causes in different ways; more
precisely, each accounts for a different kind of numerical unity. For by
‘singularity’ we can really mean two distinct things: we can mean the mere fact
of something's being singular, or we can point to a thing qua “something
complete and perfect within a certain species” (Quodl. I, 21,
227, 134–35). It is matter that accounts for the first kind of singularity, and
form for the second. Put otherwise, the kind of unity that accrues to a thing
on account of its being a mere singular, results from the concurrence of the
“substantial” unity provided by matter and the “accidental” unity provided by
quantity. By contrast, the unity that characterizes a thing by virtue of the
perfection or completeness it displays is conferred to it by the form, which is
the principle of perfection and actuality in composites.Although James thinks
he can quite legitimately enlist the support of such prestigious authorities as
Aristotle and Averroes in favor of the view that matter and form together are
constitutive of a thing's numerical unity, his solution has struck commentators
as a somewhat contrived and ad hoc attempt to reach a compromise solution at
all costs (Pickavé 2007; Wippel 1994). James, it has been suggested, “seems to
be driven by the desire to offer a compromise position with which everyone can
to some extent agree” (Pickavé 2007: 55). Such a suggestion does accord with
what we know about James' temperament, namely, his dislike of controversy and
his tendency, on the whole, to prefer solutions that present a “middle way” (Quaestiones
de divinis praedicamentis, q. 11, p. 23, 513; Quodl. II,
q. 7, p. 108, 118; De regimine christiano, 210; see also Quodl. II,
q. 5, p. 65, 208–209). However, James' professions of moderation must sometimes
be taken with a grain of salt, as there are some positions he wants to pass off
as moderate that are quite far from being so, as we will see in Section 7 below.The
belief that matter contains the ‘seeds’ of all the forms that can possibly
accrue to it is one of the hallmarks of James of Viterbo's thought, as is the
belief that the soul pre-contains, in the shape of “propensities” (idoneitates),
all the sensitive, intellective, and volitional forms it is able to take on. We
will look at James' doctrine of propensities in the intellect in Section 5, and his
doctrine of propensities in the will in Section 6. In this
section, we present James' arguments in favor of seminal reasonsOne important
reason for subscribing to the existence of seminal reasons is that the doctrine
enjoys the support of Augustine. Although James is sometimes quite
critical of his Augustinian contemporaries, including his predecessor Giles of
Rome, he is an unreserved follower of Augustine,
especially when it comes to the greater philosophical issues, such as knowledge
and natural causation. However, what is particularly interesting about James is
the way in which he enlists such decidedly un-Augustinian sources as Aristotle,
Averroes, and especially Simplicius in the service of his Augustinian
convictions (Côté 2009). James offers a thorough discussion of seminal reasons
in Quodl. II, q. 5. The question he raises there
is not so much whether there are seminal reasons, for this is “admitted by all
Catholic doctors” (Quodl. II, q. 5, p. 59, 16), but rather, how
one is to properly conceive of them. A seminal reason, according to James, has
two characteristics: it is (1) an inchoate state of the form to be, and (2) an
active principle. Most of the discussion in Quodl. II, q. 5
is devoted to establishing the first point. James thinks that the thesis that
forms are present in potency in matter is consonant with the teaching of
Aristotle, who, he claims, follows a “middle way” on the issue of generation,
eschewing both the position that forms are created, and also Anaxagoras'
“hidden-forms hypothesis,” according to which all forms are contained in act in
everything. Now to say that forms are present in matter inchoately or in
potency, according to James, entails that the potency of matter is
something distinct from matter itself. One argument in favor
of this thesis is that matter is not corrupted by the taking on of a form: it
remains in potency towards other forms. Also, potency is relational, whereas
matter is absolute. When James states that matter is distinct from potency he
does not mean to say that they are entirely distinct or unconnected, quite the
contrary: potency is the potency of matter. However, potency
adds three characteristics to the concept of matter. First, it adds the idea of
a relation to a form (matter is in potency towards a form); second, it adds the
idea that the form to which it is related is a form it lacks; finally, it
implies that the form which matter lacks is a form it has the capacity to
acquire, for as James explains, one does not say that a stone is in potency
toward the power of sight merely because it lacks sight. In order for something
to be in potency toward a particular form it must both lack that form and also
possess an aptitude to take it on. James neatly summarizes his views in the
following passage: “[the potency of matter] denotes a respect of the matter
toward the form, attendant upon its lacking that form and having the aptitude
to take it on, so that four properties are included in the concept of potency,
namely matter, lack of form, aptitude toward the form and a respect toward the
form insofar as it is educible by an agent and motor cause” (Quodl. II,
q. 5, p. 69, 359 – p. 70, 363). The originality of James' position lies in the way in
which he conceives matter's aptitudes. The term “aptitude” has a precise
technical meaning, which he fleshes out with the help of Simplicius' commentary
on the Categories. It denotes a certain incipient or inchoative
state of the form in matter. Potency and act, James tells us, are two states or
modes of the same thing, not two distinct things. What exists in the mode of
actuality must preexist in the mode of potency, but in an inchoate way. James
is aware of the several objections that may be leveled against his conception
of aptitudes or propensities. The most serious of these is perhaps the charge
that their existence makes generation, i.e., the production of new beings,
impossible or useless. James replies by suggesting that those who argue in this
fashion misconstrue Aristotle's doctrine of change. For change, according to
Averroes' understanding of Aristotle (see Quodl. III, q.
14), does not result from an agent's implanting a form in a receiving subject,
for this would imply that forms “migrate” from subject to subject; it results
rather from an agent's making that which is in potency to be in act. For this
to occur, however, more is required than the mere passive potency of matter:
the seminal reason must also be viewed as an active principle. The activity of
potency manifests itself in the shape of a natural inclination or tendency to
attain its completion. Generation thus requires two things (besides God's
general operative causality): the “transmutative” agency of an extrinsic cause
and the intrinsic agency of the formae inchoativum which
inclines the potency to attain its completion.
James' doctrine of seminal reasons would
elicit considerable criticism in the early fourteenth century and beyond
(Phelps 1980). The initial reaction came from Dominicans, e.g., Bernard of
Auvergne, the author of a series of Impugnationes (i.e.,
attacks) contra Jacobum de Viterbio, and John of Naples who
argued against James' distinction between the potency of matter and potency.
But James' theory would also encounter resistance from within the Augustinian
Order, e.g., from Alphonsus Vargas of Toledo. James' doctrine of cognition must also be understood in
the context of his thoroughgoing Augustinianism and against the backdrop of the
late thirteenth-century arguments against Thomistic abstraction theories. According
to Thomas Aquinas' theory of knowledge, the agent intellect abstracts a thing's
form or essential information from the image or representation of that thing.
The outcome of this process was what Aquinas called the intelligible species,
which was then taken to “move” the possible intellect to conceptual
understanding. However, as thinkers such as Vital du Four and Richard of
Middleton were to point out (see the articles by Robert and Noone), the
information coming in through the senses is related to a thing's accidental
properties, not to its substance. How, then, could abstraction from the senses
produce an intelligible species relating to the thing's essence? Although James of
Viterbo agreed by and large with the spirit of this objection and believed that
the replies by proponents of abstractionism were unsuccessful, he had another
reason for rejecting the theory. This was because it implied a view of the intellect
which he thought to be profoundly mistaken, namely, the view that there is a
real distinction between the agent intellect (which abstracts the species) and
the possible intellect (which receives it). If it were truly the case, he
reasoned, that one needed to posit a distinct agent intellect because phantasms
are only potentially intelligible, then, by the same token, one would have to
posit an “agent sense”, because sensibles “are only sensed in potency” (Quodl. I,
q. 12, p. 164, 234). But given that no proponent of abstraction admits an agent
sense, one should not allow them an agent intellect. Furthermore, if there were
an agent intellect distinct from the possible intellect, it would be a natural
power of the soul and so would be required for the cognition of all intelligibles,
not just a certain class of them. Similarly, qua natural power, its use would
be required not only in the present life but also in the afterlife. But of
course that would be absurd, as the agent intellect, ex hypothesi,
is only necessary to abstract form from matter, something the mind does only
when it is joined to a corruptible body. James was well aware that by
denying the distinction between the two intellects, he was opposing the
consensus view of Aristotle commentators. Indeed, his views seem to run counter
to the De anima itself, though, as he would mischievously
point out, it was difficult to determine just what Aristotle's doctrine was, so
obscure was its formulation (Quodl. I, q. 12, p. 169, 426—170,
439). He replied that what he was denying was not the existence of a
“difference” in the soul, but merely that the existence of a difference implied
a distinction of powers (Quodl. I, q. 12, p. 170, 440–45). The
intellect, he held, was both in act and in potency, active and passive, but one
could account for its having these contrary properties without resorting to the
two intellect model. This is because intellection is not a transient action
(like hitting a ball), requiring an active subject distinct from a passive
recipient; rather, it is an immanent action (like shining). James' solution, in
other words, was to conceive of the intellect (as indeed the will) as
essentially dynamic, as an “incomplete actuality”, its own formal cause,
spontaneously tending toward its completion, much in the way seminal reasons
tend toward their completing forms—indeed both discussions drew their
inspiration from the same source: Simplicius' commentary on Aristotle's
analysis of the second species of quality. The intellect was described as a
general (innate) propensity made up of a series of more specific (equally
innate) propensities, the number of which was a function of the number of
different things the intellect is able to know: “The intellective power is a
general propensity with respect to all intelligibles, that is, with respect to
the actual conforming to all intelligibles. On this general propensity are
founded other specific ones, which follow the diversity of intelligibles” (Quodl. VII,
q. 7, p. 93, 453–55). Of course, as James readily acknowledged, although the
intellect is its own formal cause, it cannot issue forth an act of intellection
without some input from the senses. However, the type of causality the senses
were viewed as exercising was deemed to be purely “excitatory” or “inclinatory”
(Quodl. I, q. 12, p. 175, 613–16), making the senses not the
principal but rather an instrumental cause of intellection. In all, three
causes account for the operation of the intellect, according to James: 1) God
as efficient cause; 2) the soul and its propensities as formal cause, and 3)
the object presented by the senses as “excitatory” cause. Although, as we have
just seen, James rejected the distinction between the agent and possible
intellects, there was another, equally widely-held distinction in the area of
psychology that he did maintain, namely the distinction between the soul and
its powers.For the purposes of this article, it will suffice to think of the
debate regarding the relation of the soul to its powers as being motivated at
least in part by the need to provide a coherent understanding of the soul's
structure and operations in view of two inconsistent but equally authoritative
accounts of the soul's relation to its powers. One was that of Augustine, who
had asserted that memory, intelligence, and will (i.e., three powers) were one
in substance (De trinitate X, 11), and so believed that the soul
was identical with its powers; the other was Aristotle's, who clearly believed
in a certain distinction, and whose remarks about natural capacities (dunameis)
as belonging to the second species of quality, in Categories c.
8,14–27, and hence to the category of accident, making them distinct from the
soul's essence, were commonly applied by the scholastics to the soul's powers.
Each view, of course, had its supporters; and, naturally, as was so often the
case, attempts were made to find a middle way that would accommodate both
positions. During James' tenure as Master at the University of Paris, the
majority view was very much that there was a real distinction. It was the view
held by many of the scholastics whose teachings he studied most carefully,
namely Aquinas, Giles of Rome, and Godfrey of Fontaines. There was, however, a
commonly discussed minority position, one that eschewed both real distinction
and identity: that of Henry of Ghent. Henry believed that the powers of the
soul were “intentionally”, not really, distinct from its essence. James,
however, sided with Thomas, Giles, and Godfrey, against Henry (Quodl. II,
q. 14, p. 160, 70–71; Quodl. III, q. 5, p. 83, 56—84, 63).
His reasoning was as follows. Given that everyone agreed that there was a real
distinction between the soul and one of its powers in act (between the soul
and, e.g., an occurrent act of willing), then if one denied that there was a
real distinction between the soul and its powers, as Henry had, one would be
committed to the existence of a real distinction between the power in act
(e.g., an occurrent act of willing) and that same power in potency (that is,
the will, qua power, as able to produce that act), since the power in act is
really the same as the soul. But as we saw in the preceding section, something
in potency is not really distinct from that same thing in act. This followed
from James' reading of Simplicius' account of qualities in the latter's
commentary on Aristotle's Categories. For instance, seminal
reasons are not really distinct from the fully-fledged forms that proceed from
them, nor are intellective “propensities” really distinct from the fully
actualized cognized forms. Hence, James concluded, the powers must be really distinct
from the soul's essence. The question of the will's freedom was of paramount
importance to the scholastics. Unlike modern thinkers, for whom establishing
that the will is free is tantamount to showing that its act falls outside the
natural nexus of cause and effect, showing that the will is free, for medieval
thinkers, usually involved showing that its act is independent of the
apprehension and judgment of the intellect. Although the
scholastics generally granted that a voluntary act results from the interplay
between will and intellect, most of them preferred to single out one of the two
faculties as the principal determinant of free choice. Thus, for Henry of
Ghent, the will is the sole cause of its free act (Quodl. I, q. 17),
so much so that he tends to relegate the intellect's role to that of a sine qua
non cause. For Godfrey of Fontaines, by contrast, it is the intellect that
exercises the decisive motion (Quodl. III, q. 16). Although James of
Viterbo sometimes claims to want to steer a middle course between Henry and
Godfrey (Quodl. II, q. 7), his preferences clearly lie with a position
like that of Henry's, as can be gathered from his most detailed treatment of
the question in Quodl. I, q. 7. James' thesis in Quodl. I, q. 7 is that the
will is a self-mover and that the object grasped by the intellect moves the
will only metaphorically. His main challenge is to show is that this position
is compatible with the Aristotelian principle that whatever is moved is moved by
another. As
we saw in the previous section, James believes that the soul is made up of what
he calls “aptitudes” or “propensities” (idoneitates), which are the
similitudes of all things knowable and desirable, “before [the soul] actually
knows or desires them” (Quodl. I, q. 7, p. 91, 407 – p. 92, 408). The
pre-existence of such aptitudes implies that the soul is neither a purely
passive potency nor made up of fully actualized forms, but rather an
“incomplete actuality” or, perhaps more correctly, a set of “incomplete
actualities,” which James describes as being “naturally inserted in [the soul],
and thus, remaining in it permanently, though sometimes in an imperfect state,
sometimes in a state perfected by the act” (Quodl. I, q. 7, p. 92,
419–24). In
order to show how this view of the soul is compatible with Aristotle's
postulate that every motion requires a mover distinct from the thing moved,
James introduces a distinction between two sorts of motion: efficient and
formal. Efficient motion occurs when motion is caused by a thing that possesses
the complete form of the particular motion caused; formal motion occurs when
the moving thing has the incomplete form of the thing moved. Heating is given
as an example of the first kind of motion; “gravity” or rather heaviness, i.e.,
the tendency of heavy bodies to fall, is cited as an example of the second kind
of motion. Aristotle's principle applies only to the first kind of motion,
James asserts, not the second. Things which possess an incomplete form
naturally—i.e., in and of themselves without an external mover—tend to their
completion and are prevented from reaching it only by the presence of an
external obstacle. For instance, a heavy object naturally tends to move
downward and will do so unless it is hindered. Such, mutatis mutandis,
is the case of the soul and especially of the will: the will as an incomplete
actuality naturally tends to its completion; in that sense, that is, formally
but not efficiently, it is self-moved. The difference between it and the heavy
object is that whereas the object moves upon the removal of
an obstacle, the will requires the presence of an object; it
requires, in other words, the intervention of the intellect in order to direct
it to a particular object. However, once again, the intellect's action is
viewed by James as being merely metaphorical, that is, extrinsic to the will's
proper operation. Like Albert the Great and Thomas Aquinas, James of Viterbo
holds that the moral virtues, considered as habits, i.e., virtuous dispositions
or acts, are connected. In other words, he believes that one cannot have one of
the virtues without having the others as well. The virtues he has in mind are
what he calls the “purely” moral virtues, that is, courage, justice, and
temperance, which he distinguishes from prudence, which is a partly moral,
partly intellectual virtue. In his discussion in Quodl. II, q. 17
James begins by granting that the question is difficult and proceeds to expound
Aristotle's solution, which he will ultimately adopt. As James sees it,
Aristotle proves in Nicomachean Ethics VI the connection of
the purely moral virtues by showing their necessary relation to prudence, and
this is to show that just as moral virtue cannot be had without prudence,
prudence cannot be had without moral virtue. The connection of the purely moral
virtues follows from this: they are necessarily connected because (1) each is
connected to prudence and (2) prudence is connected to the virtues (Quodl.
II, q. 17, p. 187, 436 – p. 188, 441). Since the time of Augustine, theologians
had agreed that man needs the gift of grace in order to love God more than
himself, and that he cannot do so by natural means. However, in the early
thirteenth century, theologians raised the question of whether, at least in his
pre-lapsarian state, man did not love God more than himself. That this was in
fact the case was the belief of Philip the Chancellor as well as Thomas
Aquinas. Other authors, such as Godfrey of Fontaines and Giles of Rome, argued
further that to deny man the natural capacity to love God more than himself,
while allowing this to happen as a result of grace, was to imply that the
operations of grace went counter to the those of nature, which was contrary to
the universally accepted axiom that grace perfects nature and does not destroy
it. By contrast, James of Viterbo famously argues in Quodl. II,
q. 2, against the overwhelming consensus of theologians, that man naturally
loves himself more than God. He has two arguments to show this (see Osborne
1999 and 2005 for a detailed commentary). The first is based on the principle
that the mode of natural love is commensurate with the mode of being and,
hence, of the mode of being one. Now a thing is one with itself by virtue of
numerical identity, but it is one with something else by virtue of a certain
conformity. For instance Socrates is one with himself by virtue of his being
Socrates, but he is one with Plato by virtue of the fact that both share the
same form. But the being something has by virtue of numerical identity is
“greater” than the being it has by reason of something it shares with another.
And given that the species of natural love follows the mode of being, it
follows that it is more perfect to love oneself than to love another (Quodl.
II, q. 20, p. 206, 148 – p. 149, 165). The second argument attempts to infer
the desired thesis from the universally accepted premise that “the love of
charity elevates nature” (Quodl. II, q. 20, p. 207, 166–67). This
is true both of the love of desire and the love of friendship. In the case of
love of desire, grace elevates by acting on the character of love: by natural
love of desire we love God as the universal good. Through grace God is loved as
the beatifying good. Regarding love of friendship, James explains that God's
charity can only elevate nature with respect to its “mode,” that is, with
respect to the object loved, by making God, not the self, the object of love.
In other words, James is telling us that if we are to take seriously the claim
that grace elevates nature, there is only one way in which this can occur, namely
by making God, not the self, the object of greatest love, which implies that in
his natural state man loves himself more than God. James' opposition to
the consensus position on the issue of the love of self vs. the love of God
would not go unnoticed. In the years following his death, such authors as
Durand of Saint-Pourçain and John of Naples criticized him vigorously and
attempted to refute his position (Jeschke 2009).
Although James touches briefly on political
issues in Quodl. I, q. 17 (see Côté, 2012), his most extensive
discussions occur in his celebrated De regimine christiano (On
Christian Government), written in 1302 during the bitter conflict pitting
Boniface VIII against the king of France Philip IV (the Fair). De
regimine christiano is often compared in aim and content with Giles
of Rome's De ecclesiastica potestate (On Ecclesiastical
Power), which offers one of the most extreme statements of pontifical
supremacy in the thirteenth century; indeed, in the words of De
regimine's editor, James' goal is “to formulate a theory of papal monarchy
that is every bit as imposing and ambitious as that of [Giles]” (De
regimine christiano: xxxiv). However, as scholars have also recognized,
James shows a greater sensitivity to the distinction between nature and grace
than Giles (Arquillière 1926). De regimine christiano is
divided into two parts. The first, dealing with the theory of the Church, is of
little philosophical interest, save for James' enlisting of Aristotle to show
that all human communities, including the Church, are rooted in the “natural
inclination of mankind.” The second and longest part is devoted to defining the
nature and extent of Christ's and the pope's power. One of James' most
characteristic doctrines is found in Book II, chapter 7, where he turns to the
question of whether temporal power must be “instituted” by spiritual power, in
other words, whether it derives its legitimacy from the spiritual, or possesses
a legitimacy of its own. James states outright that spiritual power does institute
temporal power, but notes that there have been two views in this regard. Some,
e. g., the proponents of the so-called “dualist” position such as John Quidort
of Paris, hold that the temporal power derives directly from God and thus in no
way needs to be instituted by the spiritual, while others, such as Giles of
Rome in De ecclesiastica potestate, contend that the temporal
derives wholly from the spiritual and is devoid of any legitimacy whatsoever
“unless it is united with spiritual power in the same person or instituted by
the spiritual power” (De regimine christiano: 211). James is dissatisfied
with both positions and, as he so often does, endeavors to find a “middle way”
between them. His solution is to say that the “being” of the temporal power's
institution comes both from God—by way of man's natural inclination—in “a material
and incomplete sense,” and from the spiritual power by which it is “perfected
and formed.” This is a very clever solution. On the one hand, by rooting the
temporal power in man's natural inclination, albeit in the imperfect sense just
mentioned, James was acknowledging the legitimacy of temporal rule
independently of its connection to the spiritual, thus “avoid[ing] the extreme
and implausible view of [Giles of Rome]” (Dyson 2009: xxix). On the other hand,
making the natural origins of temporal power merely the incomplete matter of
its being was a way of stressing its subordination and inferiority to the
spiritual order, in keeping with his papalist convictions. Still, James' very
choice of analogies to illustrate the relationship between the spiritual and
temporal realms showed that his solution lay much closer to the theocratic
position espoused by Giles of Rome than his efforts to find a “middle way”
would have us believe. Thus, comparing the spiritual power's relation to the
temporal in terms of the relation of light to color, he explains that although
“color has something of the nature of light, (…) it has such a feeble light
that, unless there is present a more excellent light by which it may be formed,
not in its own nature but in its power, it cannot move the vision” (De
regimine christiano: 211). In other words, James is telling us that
although temporal power does originate in man's natural inclinations, it is
ineffectual qua power unless it is informed by the spiritual. Bibliography Modern Editions of James' Works
Abbreviatio in I Sententiarum Aegidii Romani, dist. 36. Edited by P.
Giustiniani, Analecta Augustiniana, 42 (1979): 325–338. De regimine christiano.
A Critical Edition and Translation by R.W. Dyson, Leiden: Brill. Replaces
Arquillière's edition (see below for complete reference), as well as Dyson's
earlier translation in James of Viterbo, On Christian Government (De regimine
christiano). Edited and Translated by R.W. Dyson, Woodbridge: The Boydell
Press, 1995. Disputationes de quolibet. Edited by E. Ypma, Würzburg: Augustinus
Verlag, vols. I-III, and V, 1968-75. Prima quaestio disputata de Verbo. Edited
by C. Scanzillo in “Jacobus de Viterbio OSA: La ‘Prima quaestio disputata de
Verbo’ del codice A. 971 delle Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna.
Edizione e note,” Asprenas, Quaestiones de divinis praedicamentis, qq. I-X and
XI-XVII. Edited by E. Ypma (Corpus Scriptorum Augustianorum, Vol. V, 1–2),
Rome, Augustinianum, 1983, 1986; q. XVIII, Augustiniana, 38 (1988): 67–98; q.
XIX, Augustiniana, 39 (1989): 154–185; q. XX, Augustiniana, 42 (1992): 351–378;
q. XXI, Augustiniana, 44 (1994): 177–208; q. XXII, Augustiniana. Ypma's
declining health and subsequent death prevented him from completing the edition
of the remaining quaestiones. Summa de peccatorum distinctione. Edited by D.
Ambrasi, Asprenas, Ambrasi, D., 1959, “La Summa de peccatorum distinctione del
B. Giacomo da Viterbo dal ms. VII G 101 della Biblioteca Nazionale di Napoli,”
Asprenas, 6: 47–78, 189–218, 288–308. Anderson, D., 1995, “‘Dominus Ludovicus’
in the Sermons of Jacobus of Viterbo (Arch. S. Pietro D.213),” in Literature
and Religion in the Later Middle Ages: Philological Studies in Honor of Siegfried
Wenzel, R. Newhauser and J. A. Alford (eds.), Binghamton, N.Y.: Medieval &
Renaissance Texts & Studies, pp. 275–295. Arquillière, F.-X., 1926, Le plus
ancien traité de l'Église: Jacques de Viterbe ‘De regimine christiano’
(1301–1302). Étude des sources et édition critique, Paris: G. Beauchesne.
Bataillon, L. J., 1989, “Quelques utilisateurs des textes rares de
Moerbeke (Philopon, tria Opuscula) et particulièrement Jacques de Viterbe,” in
Guillaume de Moerbeke. Recueil d'études à l'occasion du 700e anniversaire de sa
mort (1286), J. Brams et W. Vanhamel (eds.), Leuven: Leuven University
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da Viterbo. L’iconografia dell’aureola tra Oriente e Occidente ARTE
L’iconografia dell’aureola tra Oriente e Occidente di Federico Nozza. Nell’arte
cristiana occidentale, ma anche in quella orientale, l’elemento dell’aureola
costituisce sicuramente uno degli attributi iconografici più
riconoscibili. La sua immagine identifica subito la rappresentazione di
un Santo, di Cristo stesso, ma anche della Madonna. Può essere
crocesegnata(ossia dotata di croce), per esempio nelle rappresentazioni di Cristo,
oppure semplice, come nei santi. Come elemento figurativo, la sua origine è
stata codificata iconograficamente fin dagli albori della figuratività
cristiana, ovvero nel IV secolo. Gli esempi del Mausoleo di
Sant’Elena a Roma e della Chiesa di San Vitale a Ravenna (IV e VI sec.)
Testimonianza preziosa e paradigmatica sono, ad esempio, i due mosaici delle
calotte absidali del Mausoleo di Santa Costanza a Roma. Si tratta di un cimelio
architettonico costruito attorno alla metà del IV secolo per la sepoltura della
figlia di Costantino. Nei due mosaici, parzialmente restaurati e tra i pochi ad
essersi conservati delle volte, si trovano due rappresentazioni di Cristo. La
prima lo vede seduto sul Globo, mentre consegna le chiavi del Regno dei Cieli a
Pietro (traditio clavium). La seconda, invece, lo identifica giovane e
apollineo mentre si erge sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi dell’Eden,
consegnando a Paolo la parola/legge della Nuova Alleanza (traditio legis). In
entrambe le rappresentazioni musive, che costituiscono alcuni dei primi esempi
di iconografia cristiana a Roma, il volto di Cristo è circonfuso da un’aureola
blu-azzurra. Quest’ultima conferisce e immediatamente attribuisce alla figura
un alone di divinità, disancorandolo dalla contingenza terrena e proiettandolo
nella dimensione del trascendente. Traditio clavium (a dx) e traditio
legis (a sx) in due calotte del deambulatorio del Mausoleo di Santa Costanza a
Roma (IV secolo) L’aureola è anche regale Talvolta, poi, sono i sovrani-imperatori
stessi ad auto-rappresentarsi col capo circonfuso da aureola, come negli
straordinari mosaici che arricchiscono il presbiterio della chiesa di San
Vitale a Ravenna.Quest’ultimo, databile al secondo quarto del VI secolo,
raffigura, tra gli altri, anche i ritratti degli imperatori Giustiniano e della
moglie Teodora,entrambi corredati da aureola dorata. L’imperatrice
Teodora (a sx), moglie dell’imperatore Giustiniano (a dx), in due mosaici del
presbiterio della Chiesa di San Vitale a Ravenna (VI secolo) Entrambi gli
esempi, sebbene distanziati da ben due secoli, testimoniano alle origini del
Cristianesimo ufficiale (ossia istituzionalizzato in una ecclesiae)
un’iconografia dell’aureola già compiutamente codificata diffusa. I
primi esempi figurativi di aureole Sebbene, come detto, l’aureola costituisca
un inconfondibile attributo iconografico cristiano, non è però nel
Cristianesimo (che del resto si istituzionalizza nei primi secoli d.C.) che
affondano le radici della sua nascita. Queste infatti, come del resto molti
altri aspetti della liturgia e religione cristiana, devono essere rintracciate
ben prima della nascita del Cristianesimo stesso. Tale scelta
figurativa risale a diversi secoli, se non millenni prima di Cristo.
Consiste nel rappresentare divinità (qualora queste potessero essere
rappresentate) inscritte, totalmente o parzialmente, in aloni di luce
funzionali a proiettare le figure in dimensioni ultraterrene ed evocarne la
natura divina. Per esempio, nella pittura parietale egizia, il dio Ra è
quasi sempre rappresentato con un disco solare situato sopra il suo capo e
inglobato da un cobra. In questo caso dunque, nelle rappresentazioni di Ra, il
disco solare ha soprattutto la funzione di rappresentare l’attributo del
sole, di cui Ra, secondo la cosmologia egizia, era il dio referente.
Rappresentazione di Ra e Imentet (a sx.) sulle pareti della tomba di
Nefertari nella Valle delle Regine a Luxor (Egitto) Quando l’aureola era ancora
una corona raggiante Tuttavia, per poter conoscere i primi veri esempi di
aureole, occorre risalire alle prime rappresentazioni della divinità di Mitra.
Questa è nata in origine dallo Zoroastrismo (dal profeta Zarathustra, o
Zoroastro) e successivamente, soprattutto presso l’Impero Romano, si è
costituita come divinità indipendente e inscritta in uno specifico culto (quasi
monoteista), detto appunto Mitraismo. Nella fase imperiale soprattutto,
il Mitraismodivenne la religione dominante dell’ecumene (sebbene non la sola) e
poi concorrente al Cristianesimo delle origini. Quello che interessa rilevare
però è che, in quanto dio solare e dunque simbolo di vita, anche nelle
rappresentazioni di Mitra, la divinità venne ben presto corredata con attributi
iconografici quali, per esempio, una “corona” raggiante. Rappresentazione
di Mitra come Sol Invictus su un disco argenteo romano Un simbolo trasversale
della divinità tra Occidente e Oriente Possono forse essere questi i
primi significativi antecedenti dell’iconografia dell’aureola? Ben presto
questa divenne un vero e proprio simbolo trasversale adottato in molte altre
religioni di origine orientale. Forse la sua adozione è legata all’efficacia
visiva con cui riesce a restituire allo sguardo un immediato riferimento alla
dimensione trascendente e/o spirituale. Dapprima adottato nel Cristianesimo,
questo riferimento venne poi, attraverso scambi culturali, trasmesso anche ad
altre religioni orientali, tra le quali il Buddismo. Sotto questo
profilo appare infatti singolare che proprio negli stessi secoli in cui l’iconografia
cristiana si codifica (tra il IV e il VI secolo), l’adozione dell’aureola come
attributo iconografico si manifesta anche in diverse rappresentazioni buddiste
in area cinese. Come si spiega questo utilizzo pressoché contemporaneo
dell’aureola come attributo figurativo del divino, in due religioni così
distanti e appartenenti a mondi diversi? La chiave di volta è costituita
ancora dal Mitraismo. Reliquiario di Bimaran, I sec. d.C. circa Il
Mitraismo è la chiave di lettura Per comprendere infatti la trasmissione di
tali scelte figurative tra la cultura latina e quella asiatica, occorre
risalire al primo secolo d.C. Per precisione quando gli Indo-sciti (popolazioni
nomadi originarie dell’attuale Iran, dove lo zoroastrismo e con lui il Dio
Mitra ebbero origine) e alcune popolazioni dell’Impero Kusana (originario
dell’attuale Afghanistan), invasero e conquistarono alcuni territori degli
attuali Pakistan e India. Portarono dunque con sé e trasferirono alle
popolazioni conquistate alcuni tratti della loro cultura e della loro
religione, tra cui anche il Mitraismo con i rispettivi attributi
iconografico-rappresentativi. Nella latinità mediterranea, dunque,
l’iconografia di Mitra avrebbe influenzato parzialmente quella cristiana.
Parallelamente, attraverso un processo di osmosi culturale, la medesima
iconografia veniva trasmessa anche alle culture e alle religioni orientali
(Pakistan, India meridionale e, attraverso questa, la Cina), tra le quali anche
il Buddismo. Questo processo pare avvenne precocemente, come testimonia il
celebre reliquiario di Bimaran (città al confine con il Pakistan), databile al
primo secolo d.C. Dipinto cinese raffigurante Buddha (al centro) Ci
sono poi altre importanti manifestazioni figurative del Buddismo, quali ad
esempio alcune statue di Buddha risalenti al II sec. d.C. e oggi conservate al
Tokyo National Museum. Oppure ancora diverse pitture cinesi raffiguranti Buddha
sempre con il capo circonfuso da aureola. Insomma, dalla pur brevissima
disamina effettuata, ci si rende conto di quanto la cultura occidentale e
quella orientale, dopo tutto, non siano poi così distanti. In questo senso, le
testimonianze figurative nate dalle rispettive pratiche cultuali e religiose ne
costituiscono un memorandum preziosissimo. Capocci. Keywords: peccatum –
sin – holiness – aureola segno naturale della santita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capocci” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Capodilista -- in principio era la conversazione – filosofia
fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Battaglia Terme). Filosofo italiano.
Grice: “I like Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is
difficult to comprehend, but when I was struggling to find examples of
implicatura due to exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking!
Keywords in his philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia
dell’espressione – metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco,
positive-negativo –“ “Un pensiero
perfetto in sé non esiste; un pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile
dei pensieri che nascono da esso.»
(Quaderni). Appartenente ad una famiglia veneziana di nobili origini,
nacque nella villa di famiglia da Angelo Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia
a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni sul nihilismo sono un'anticipazione
della filosofia di Heidegger. Debitore
dell'attualismo gentiliano. Partendo da questo, giunse a trasformarlo in una
filosofia dove l'atto è la re-figurazione dell'auto-negazione del nulla che
comunque conserva una sua funzione positiva così come nela religione romana la
morte del corpo ha la funzione di salvezza nella redenzione dello spirito
(animo). La forma superiore dello spirito intristisce e cerca invano di uscire
da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza di salvezza che trova senso
nella religione romana. Dio espia la sua universalità. Distrugge ogni valore e
il proprio, sì che lo sparire, il nascondersi di Dio nella sua espiazione non è
altro che la nuova creazione dei valori, e così il ciclo ricomincia. Dio si
abolisce col suo stesso realizzarsi. Un altro punto fondamentale di sua
filosofia è la figura centrale dell’intersoggetivita., del rapporto concreto
particoare, particolarizato, inter-personale contrapposto all’astrazioni di una
collettività IMpersonale generalizato (universalita, universabilita, generalita
formale, generalita applicazionale, generalita di contenuto --, sia quella
esaltata da uno stato etico (la communita, la popolazione, la societa). Una
diada conversazionale non può essere un dato. Una diada conversazionale può
essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due resurrezioni. Il filosofo è
assillato da questo fondamentale problema. Il problema è questo: di quali fedi
si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede autentica che lo sostiene nella
vita che gli dà la forza dell'attività e la convinzione di partecipare con la
sua vita (o la sua azione o il suo essere) alla immortalità, cioè all'assoluto?
La diada conversazionale ha bisogno dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto
il suo problema è questa partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà
l'assoluto le due uomini – le due maschi -- della diada conversazionale? Quale
sarà la sua fede laica? Non certo quella collettivistica-sociale che ha fatto
uso della violenza, la forza, e la autorita illegitima, e ha fallito ma neppure
quella etrusca che ha compresso la libertà di coscienza. I etruschi sono nati sotto il segno dello
scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa azione
originaria. Perché in ogni fede vi è
qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso
nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è
l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua
negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti
sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di
distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti
sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla
se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono
orgogliose delle due nudità che socializzanoa. È quindi con la libertà
degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di
uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola
di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza
duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta
espressione del "singolare duale".
Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo
musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia
e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico”
(Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci,
Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano
progressivamente come le monete, come, appunto, i valori. Quando
pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può
“usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se
comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.
La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una
verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima
irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che
altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione.
Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di
sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra. È lecito
ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità
di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei
romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi
scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi
estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come
l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio
se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più
mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire
in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna)
del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che
abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella
sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli
intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della
sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità,
conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio
unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se
stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A
noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci
dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.
Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono
la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si
risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La
memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica. La forma
letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola).
Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di
creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come
destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale
e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive
per sé. L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la
fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto
assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto
oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con
quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto,
l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto
puramente essa stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si
nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi
noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono,
cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità
dell’atto. (Q. 331, 1970) L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla,
appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata,
ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai
ripetersi? (Q. 336, 1970) Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto
stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio
nulla. (Q. 336, 1970) L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle
parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro
attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e
tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro
trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè
dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono
per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo
della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La
parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e
diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola
contiene il seme della frase, del discorso. Forse il nostro nome è soltanto uno
pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero
nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli
pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un
nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà
suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una
realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare. Gli
scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i
modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma
breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto,
e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative
all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza, ampie
come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale. Il Mangiaparole
rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una forma silenziosa
(fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di
non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre,
l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se
stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di
coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? La nostra
scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che
vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di
originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La parola
stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e perciò
coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che vuole
esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età
dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid
al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una
metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi
alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione. Noi siamo la
verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo
quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria
creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden,
noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed
esiliati. L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel
lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo.
Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci
di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con
l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. Soltanto l’inesprimibile è degno
di un’espressione. La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista in un
mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è
soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la
Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati
simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è
identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore
della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?) Il numero è la
massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non
possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa
irrazionalità; il numero può vivere? Noi parliamo, noi scriviamo, senza
ricordarci la suprema scadenza del silenzio. L’espressione più perfetta è
quella che crea l’inesprimibile. L’aforisma e l’ironia sono una professione di
scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi,
la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la
scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte. Come
esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe
essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in
genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello
verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica,
istintiva e simpatica affinità e parentela… (Q. 9, 1929) La quantità di
parole inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente
proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui
nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per
noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932). Il caso della vendita della
Palladiana Villa Emo a un magnate straniero. SEMBRA CHIUDERSI UN LUNGO MINUETTO
DURANTE IL QUALE LA BANCA DI CREDITO TREVIGIANO HA CONCRETIZZATO L’INTENZIONE
(SINO AD ORA MAI UFFICIALMENTE AMMESSA) DI ALIENARE IL BENE. La
vendita della Palladiana Villa Emo a Fanzolo di Vedelago è stata ufficializzata
lunedì 28 gennaio. Il consiglio di amministrazione di Banca di Credito
Trevigiano, che ne detiene la proprietà dal 2004 (da quando per 15 milioni di
euro la acquistò dall’ultimo erede, il conte Leonardo Marco Emo Capodilista) ha
messo ai voti il suo destino e ha deciso: accetterà l’offerta di uno
sconosciuto magante straniero. IL PERCORSO Sembra chiudersi così un lungo
minuetto durante il quale l’istituto di credito ha concretizzato l’intenzione
(sino ad ora mai ufficialmente ammessa) di alienare il bene. Il 9 gennaio la
prima avvisaglia attraverso un comunicato stampa che parlava di un’offerta
d’acquisto misteriosamente pervenuta “da un privato appassionato del Palladio,
e desideroso di riportare la Villa (Patrimonio Unesco dal 1996) al suo
originario splendore”. Ora la conferma di cedere “il solo edificio storico e
non gli adiacenti cespiti occupati dalla banca. L’immobile oggetto della
trattativa -specifica l’ultima comunicazione- non rappresenta un asset
strumentale all’attività bancaria e il Consiglio di amministrazione (…) ha
deciso di dare il via libera alle attività propedeutiche alla due diligence di
tipo tecnico per giungere all’eventuale chiusura della transazione entro l’anno
2019. Fatto salvo il diritto di prelazione previsto dal D.lgs. 42/2004 a favore
del Ministero dei Beni culturali e delle altre competenti autorità”. Nota,
quest’ultima, che, ad onor del vero, suona un po’ come una beffa: se lo stesso
ente di credito ad oggi dimostra di non poter investire nel mantenimento del
bene (ordinario e straordinario inclusi i restauri di cui gli affreschi dello
Zelotti avrebbero urgenza), ancor più lontana appare l’ipotesi che possa
farsene carico un ente pubblico. LA STORIA La storia recente del resto lo
conferma: dopo il commissariamento (seppur temporaneo) da parte di Bankitalia
nel 2014, la fondazione appositamente creata per la gestione della villa ha
dovuto dire addio ai 325mila euro annui che Credito Trevigiano versava.
Insufficienti i proventi derivanti da bigliettazione e affitto degli spazi.
Così i bilanci in perdita, primi licenziamenti per il personale della
fondazione, le dimissioni, nell’ottobre scorso del presidente Armando Cremasco.
Poi, reciproche accuse tra parti, la preoccupazione del sindaco, la petizione
“No alla vendita di Villa Emo a Fanzolo di Vedelago” su change.org che
raggiunge in pochi giorni quota 975 firme. Tentativo inutile ma che tocca,
negli intenti, un nodo fondamentale della vicenda: i firmatari sono soci,
clienti della banca e semplici cittadini che riconoscono in Villa Emo il bene
più rappresentativo della loro comunità. Un bene acquisito da una banca
strettamente legata al territorio e che su di esso ha come stesso suo mandato
quello di reinvestire. Una banca della comunità in cui però la comunità, a
seguito di questo atto, non si riconosce più. IL CASO DI VILLA EMO Il
caso di Villa Emo, generalizzando, appare uno fra molti nell’inarrestabile
processo di alienazione del nostro patrimonio storico. Perché agitarsi tanto
se, solo per citare i casi territorialmente più prossimi, la magnate cinese Ada
Koon Hang Tse ha recentemente acquisito Villa Cornaro a Piombino Dese (Padova)
e il veneziano Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande? Perché forse, per fare
un po’ d’ordine, ogni singola vicenda necessiterebbe d’un corretto approccio,
di una corretta lettura, esercitando invece proprio il diritto a una non
generalizzazione in polemiche a catena. Polemiche aventi nel nostro paese
sempre le stesse parole-chiave: sostenibilità, valorizzazione, gestione
strategica, autosufficienza nonché il terribile reiterato “fare sistema”. Anche
il caso di Villa Emo (per la verità per ora confinato alla cronaca locale) si
presterebbe quindi benissimo a dibattiti e disquisizioni filologiche in
rapporto al paesaggio, alla fruizione futura (sarà ancora accessibile?) agli
immancabili paragoni gestionali (esteri) qui in Italia spesso apparentemente
inattuabili. Ma servirebbero, ancora una volta, a tener desta per un po’
l’attenzione e nulla più. L’analisi dei fatti dimostra solamente una sola, nuda
verità: siamo bravissimi a scatenare il dibattito e a proporre a parole
soluzioni possibili ma anche stavolta, conti alla mano, non siamo stati capaci
di elaborare un piano di sostenibilità per tenerci stretto qualcosa che
appartiene alla nostra storia. Non resta che augurarci che il nuovo
proprietario si riveli un illuminato signore in villa. Così potremo risolvere
il tutto con la consueta, amara alzata di spalle: “molto rumore per
nulla”. Rodenigo Villa Emo is one of the many creations conceived by
Italian Renaissance architect Andrea Palladio. It is a patrician villa
located in the Veneto region of northern Italy, near the village of Fanzolo
di Vedelago, in the Province of Treviso. The patron of this villa was
Leonardo Emo and remained in the hands of the Emo family until it was sold in
2004. Since 1996, it has been conserved as part of the World Heritage Site
»City of Vicenza and the Palladian Villas of the Veneto«.[1] History
Andrea Palladio's architectural fame is considered to have come from the
many villas he designed. The building of Villa Emo was the culmination of
a long-lasting project of the patrician Emo family of the Republic of
Venice to develop its estates at Fanzolo. In 1509, which saw the defeat of
Venice in the War of the League of Cambrai, the estate on which the villa was
to be built was bought from the Barbarigo family.[2] Leonardo di Giovannia
Emo was a well-known Venetian aristocrat. He was born in 1538 and inherited
the Fanzolo estate in 1549. This property was dedicated to the agricultural
activities that the family prospered from. The Emo family's central interest
was at first in the cultivation of their newly acquired land. Not until two
generations had passed did Leonardo Emo commission Palladio to build a
new villa in Fanzolo. Historians unfortunately do not have firm
chronology of dates on the design, construction, or the commencement of the
new building: the years 1555 or 1558 is estimated to have been when the
building was designed, while the construction was thought to have been undertaken
between 1558 and 1561. There is no evidence showing that the villa was
built by 1549: however, it has been documented to have been built by 1561.
The 1560s saw the interior decoration added and the consecration of the
chapel in the west barchesse in 1567.[1] The date of completion is put at
1565; a document which attests to the marriage of Leonardo di Alvise with
Cornelia Grimani has lasted from that year.[3] Partial alterations were
made to the Villa Emo in 1744 by Francesco Muttoni. Arches within both wings
that were close to the central build were sealed off and additional residential
areas were created. The ceilings were altered. The villa and its surrounding
estate were purchased in 2004 by an institution and further restorations
were made. Since 1996, it has been conserved as part of the World Heritage
Site »City of Vicenza and the Palladian Villas of the Veneto«.[1] The
villa is at the centre of an extensive area that bears centuriation, or
land divisions, and extends northward. The landscape of Fanzolo has a continuous
history since Roman times and it has been suggested that the layout of the
villa reflects the straight lines of the Roman roads.[2] Architecture
Marcok The main building (casa dominicale). Villa Emo was a product of
Palladio's later period of architecture. It is one of the most accomplished
of the Palladian Villas, showing the benefit of 20 years of Palladio's experience
in domestic architecture. It has been praised for the simple mathematical
relationships expressed in its proportions, both in the elevation and
the dimensions of the rooms. Palladio used mathematics to create the
ideal villa. These «harmonic proportions» were a formulation of Palladio's
design theory. He thought that the beauty of architecture was not in the
use of orders and ornamentation, but in architecture devoid of ornamentation,
which could still be a delight to the eye if aesthetically pleasing portions
were incorporated. In 1570, Palladio published a plan of the villa in his
treatise I quattro libri dell'architettura. Unlike some of the other plans
he included in this work, the one of Villa Emo corresponds nearly exactly
to what was built. His classical architecture has stood the test of time
and designers still look to Palladio for inspiration.[1]
Renato Vecchiato [CC-BY-SA-3.0] Another view of Villa Emo. The layout of the
villa and its estate is strategically placed along the pre-existing Roman
grid plan. There is a long rectangular axis that runs across the estate in
a north-south direction. The agricultural crop fields and tree groves were
laid out and arranged along the long axis, as was the villa itself.[1]
The outer appearance of the Villa Emo is marked by a simple treatment of
the entire body of the building, whose structure is determined by a geometrical
rhythm. The construction consists of brick-work with a plaster finish, visible
wooden beams seen in the spaces of the piano nobile, and coffered ceilings
like that within the loggia. The central structure is an almost square residential
area.[4] The living quarters are raised above ground-level, as are all of
Palladio's other villas. Instead of the usual staircase going up to the main
front door, the building has a ramp with a gentle slope that is as wide as
the pronaos. This reveals the agricultural tradition of this complex. The
ramp, an innovation in the Palladian villas, was necessary for transportation
to the granaries by wheelbarrows loaded with food products and other goods.
The wide ramp leads up to the loggia which takes the form of a column portico
crowned by a gable – a temple front which Palladio applied to secular
buildings. As in the case with the Villa Badoer, the loggia does not stand
out from the core of the building as an entrance hall, but is retracted into
it. The emphasis of simplicity extends to the column order of the loggia,
for which Palladio chose the extremely plain Tuscan order.[2] Plain windows
embellish the piano nobile as well as the attic. The central building
of the villa is framed by two symmetrical long, lower colonnaded wings, or
barchesses, which originally housed agricultural facilities, like granaries,
cellars, and other service areas. This was a working villa like Villa Badoer
and a number of the other designs by Palladio. Both wings end with tall
dovecotes which are structures that house nesting holes for domesticated
pigeons. An arcade on the wings face the garden, consisting of columns
that have rectangular blocks for the bases and capitols. The west barchesse
also contains a chapel. The barchesses merge with the central residence,
forming one architectural unit. This typological format of a
villa-farm was invented by Palladio and can be found at Villa Barbaro and
Villa Baroer.[1] Andrea Palladio emphasises the usefulness of the
lay-out in his treatise. He points out that the grain stores and work areas
could be reached under cover, which was particularly important. Also, it
was necessary for the Villa Emo's size to correspond to the returns obtained
by good management. These returns must in fact have been considerable,
for the side-wings of the building are unusually long, a visible symbol
of prosperity. The Emo family introduced the cultivation of maize on
their estate (and the plant, still new in Europe, is depicted in one of
Zelotti's frescoes). In contrast to the traditional cultivation of millet,
considerably higher returns could be obtained from the maize.[5] It is not
clear if the long walk, made of large square paving-stones, which leads to the
front of the house, served a practical purpose. It seems to be a
fifteenth-century threshing floor.[6] However, Palladio advised that
threshing should not be carried out near a house. Hans A. Rosbach. Frescoes
by Giovanni Battista Zelotti, west wall of the hall Frescoes Hans A. Rosbach
[CC BY-SA 3.0] Hall West The exterior is simple, bare of any decoration.
In contrast, the interior is richly decorated with frescoes by the
Veronese painter Giovanni Battista Zelotti, who also worked on Villa Foscari
and other Palladian villas. The main series of frescoes in the villa is
grouped in an area with scenes featuring Venus, the goddess of love. Zelotti
appears to have completed the work on the frescoes by 1566.[1] In the
loggia, the frescoes have representations of Callisto, Jupiter, Jupiter
in the Guise of Diana, and Calisto transformed into a Bear by June. The Great
Room is filled with frescoes that were placed between Corinthian columns that
rise from high pedestals. The events in the frescoes concentrate on humanistic
ideals and Roman history alluding to marital virtues. Exemplary scenes
include Virtue portrayed in a scene from the life of Scipio Africanus. On
the left wall is the scene of Sciopio returns the girl betrothed to Allucius
and the right wall a scene showing The Killing of Virginia. The sides
of these frescoes have false niches that consist of monochrome figures:
Jupiter holding a torch, Juno and the Peacock, Neptune with the Dolphin,
and Cybele with the Lioness. These figures allude to the four natural elements
(fire, air, water, earth). Side panels contain enormous prisoners emerging
from the false architectural framework. On the south wall of the great hall
toward the vestibule is a false broken pediment that appears above a real
entrance arch. A fresco of two female figures, Prudence with the Mirror
and Peace with an Olive Branch, can be seen. The North wall at the center of
the upper part of the building contains the crest of the Emo Family. It is
carved and gilt wood, surrounded by trompe-l'œil cornices and
festoons.[1] To the left of the central chamber is the Hall of Hercules.
It contains episodes referring mainly to the mythological hero. The intent
was to emphasize the victory of virtue and reason over vice. The frescoes
are inserted in a framework of false ionic columns. The east wall contains
scenes of Hercules embracing Dejanira, Hercules throwing Lica into the
sea, and The Fame of Hercules at the center. The west wall is Hercules at
the Stake, placed within false arches. On the south wall is a panel above the
doorway that depicts a Noli me Tangere («Touch Me Not») scene.[1] To
the right of the central chamber is the Hall of Venus. This hall contains
episodes that refer to the Goddess of Love. On the west wall within false
arches are the scenes of Venus deters Adonis from Hunting and Venus aids the
Wounded Adonis. The east wall fresco shows Venus wounded by Love. On the south
wall is a panel above the doorway that shows Penitent St. Jerome.[1]
The Abstinence of Scipio appears frequently in cycles of frescoes for
Venetian villas. For example, the Villa la Porto Colleoni in Thiene and
Villa Cordellina in Montecchio Maggiore, built nearly 200 years later, also
use this image, fostering ideals which, had in the 15th and 16th centuries,
resulted from the renewed discussion of the depravity of town life, in
contrast to the tranquility, abundance, and freedom of artistic thought
associated with rural existence. Hence, another room in the villa is
called the Room of the Arts, featuring frescoes with allegories of individual
arts, such as astronomy, poetry or music.[7]Within the many frescoes are depictions
of different flowers and fruit, including corn, only recently introduced
into the Po Valley. Many of the frescoes are presented within false architecture,
like columns, arches and architectural framework.[1] Media Markhole
[CC BY-SA 4.0] Perspective view of the front grounds Marcok / it.wikipedia.org
[CC BY-SA 3.0] Perspective view of the rear garden. In the 1990s Villa Emo was
featured in Guide to Historic Homes: In Search of Palladio,[8]Bob Vila's
three-part six-hour production for A&E Network. The 2002 movie
Ripley's Game used the Villa Emo as a location. The City of Vicenza and The
Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the UNESCO Site. Italy: The Unesco
Office of the Municipality of Vicenza, the Ministry of Cultural Assets and
Activities. 2009. pp. 186–191. ^ a b c Wundram (1993), p. 164 ^ Wundram (1993),
p. 165 ^ Beltramini, Guido (2009). Palladio. Italy. . ^ Wundram. Palladio
Centre ArchivedJune 10, 2008, at the Wayback Machine (in English and Italian)Centro
Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, accessed September
2008 ^ Wundram (1993), p. 173 ^ BobVila.com. »Bob Vila's Guide to Historic
Homes: In Search of Palladio«. ^ »Ripley's Game News« ArchivedJune 9, 2008, at
the Wayback Machine Retrieved on 2008 05 31 Sources The City of Vicena and The
Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the Unesco Site. Italy: The Unesco
Office of the Municipality of the City of Vicenza. 2009. pp. 186–191. Wassell,
Stephen R. (Fall 2018). »Andrea Palladio (1508-1580)«. Nexus Network Journal:
213–222. Beltramini, Guido, Palladio. Italy. pp. 100–108, 258–322. ISBN
978-1-905711-24-6. Boucher, Bruce (1998) [1994]. Andrea Palladio: The Architect
in his Time (revised ed.). New York: Abbeville Press. Rybczynski, Witold
(2002). 'The Perfect House: A Journey with Renaissance Master Andrea Palladio.
New York: Scribner. Wundram, Manfred (1993). Andrea Palladio, Architect between
the Renaissance and Baroque, Cologne, Taschen. Andrea Emo Capodilista. Emo Capodilista. Keywords: in principio era la
conversazione, filosofia fascista, I taccuini del barone Capodilista, il
taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capodilista” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Capograssi – gl’eroi di Vico
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona).
Filosofo italiano. Grice: “I love Capograssi; at Oxford we’d call him a lawyer,
but the Italians call him a philosopher! My favourite of his tracts is his
attempts – linked as he was to the Napoli area – Vico relevant! Oddly, he
stresses the ‘Catholic,’ or RC, as we say at Oxford, rather than the heathen,
pagan, side, of this illustrious philosopher who Strawson – as along indeed
with Speranza -- think as the greatest Italian philosopher that ever lived – I
mean, what can be more Italian than Vico?!” Si occupa principalmente di
filosofia del diritto. Fu membro della Corte costituzionale. Da un'antica
famiglia nobile che vi si era trasferita da un comune della provincia di
Salerno nel 1319, a seguito del vescovo Andrea. Si laurea a Roma con “Lo stato
e la storia", in cui già affiorano le problematiche connesse alle
interrelazioni fra individuo, società e stato: problematiche che impegneranno tutta
la sua filosofia. Insegna a Sassari, Macerata, Padova, Roma, e Napoli.Nel
luglio del 1943 prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice
di Camaldoli. La sua filosofia si centra nell’esperienza giuridica ed è
rivolta alla centralizzazione della volontà del soggetto agente, che si imprime
nell'azione stessa, vera fonte di espressione giuridica e di vita. La filosofia
dovrebbe quindi occuparsi della vita e dell'azione, avendo a centro della sua
speculazione la "persona". Il suo pensiero si ricollega al
personalismo. Il ponere al centro della sua filosofia il rapporto essenziale
che intercorre fra il diritto inteso come esigenza giuridica e la vita consente
alla filosofia del diritto di superare il campo della tecnica giuridica per
pervenire ad una visione organica e totale del reale, cioè a Dio. Fede e
scienza; Lo Stato; Riflessioni sull'autorità; democrazia diretta; Analisi dell'esperienza
comune; L’esperienza giuridica; La vita etica; Il problema della scienza del
diritto); Incertezze sull'individuo, Milano, Giuffrè). “Pensieri” sono alcuni scritti vergati su
foglietti e conseglla. Nei Pensieri, poi raccolti e pubblicati, si colgono i
momenti salienti della sua filosofia. La teoria dei valori. Il
personalismo. Il positivismo giurdico in
Italia. Decentramento e autonomie nel pensiero politico europeo. I sentieri dell'uomo comune. Dizionario
biografico degli italiani. Kelsen avrebbe, invece, potuto utilizzare la stessa idea di una
Norma Fondamentale come un principio etico-politico costituente. Anzi, proprio
perché essa è tale, non si identifica con la pura fatticità della Forza, come,
invece, pensa Capograssi. Ed è rivendicando la funzione costituente della Norma
Fondamentale che Bobbio può osservare: Il Capograssi sostiene che tutta la
costruzione kelseniana è così solida solo perché poggia su alcuni presupposti,
e che questi presupposti non sono soltanto delle ipotesi di lavoro utili alla
ricerca, ma si fondano su una vera e propria concezione della realtà. E che
questa concezione è che il diritto è forza (N. BOBBIO, La teoria pura del
diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni
su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», poi in Opere,
Giuffrè, Milano). Le argomentazioni di Capograssi, secondo Bobbio,
rinviano a una concezione giusnaturalistica del diritto che confonde «il
criterio di validità e il criterio di giustificazione del diritto», e aggiunge
che il Kelsen si limita a dire che il diritto esiste (indipendentemente dal
fatto che sia giusto o ingiusto) solo quando la norma, oltre che valida, è
anche efficace (il cosiddetto principio di effettività). Non si potrebbe mai
trarre dalla concezione kelseniana il principio che il diritto è giusto in
quanto è comandato, perché da nessun passo del Kelsen si può trarre la
conclusione che il diritto, il quale esiste in quanto è comandato (e fatto
valere colla forza), sia anche giusto53. Dunque, l’insoddisfazione di Bobbio
per la soluzione kelseniana nasce dal fatto che il giurista viennese lascia
aperto il problema del che cosa fondi e legittimi il sistema normativo e
l’ordinamento giuridico, con la 50 N. BOBBIO, La teoria pura del diritto e i
suoi critici, in «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», poi
ristampato in ID., Studi sulla teoria generale del diritto, Giappichelli,
Torino 1955, pp. 75-107. Il saggio è ora in ID., Diritto e potere, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 1992. Utilizzo quest’ultima edizione. La citazione è alla p.
39. 51 Cfr. N. BOBBIO, MaxWeber e Hans Kelsen, «Sociologia del diritto», (1981)
8, pp. 135- 154, ora in ID., Diritto e potere, BOBBIO, La teoria pura del
diritto ecc., cit., p. 24. Per la posizione di Capograssi si veda: Impressioni
su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», (1952), 4,
pp. 767-810, poi in ID., Opere, vol. V, Giuffrè, Milano, BOBBIO, La teoria pura
del diritto, BISIGNANI conseguenza che la stessa funzione costituente della
Norma Fondamentale non viene esplicitata. L’esigenza di superare i limiti
teorici di Kelsen non comporta, però, il recupero del giusnaturalismo come
ideologia (come idea di una fondazione del diritto su valori assoluti e
trascendenti), ma sollecita il pieno recupero di quelle ragioni etiche e
sociali che, dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e dopo
l’olocausto, si erano manifestate come una “rinascita del
giusnaturalismo”54. Per queste ragioni Bobbio non si lascerà mai tentare
dal ridurre lo Stato al suo ordinamento giuridico; a quello Stato-Forza che
Capograssi rinfaccia a Kelsen. REFS.: Impressioni su Kelsen. CAPOGRASSI
E IL NICHILISMO GIURIDICO. ASPETTI DELLA CRISI DELLA SCIENZA GIURIDICA. Le “Impressioni
su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico kelseniano e
alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens” di
Capograssi. Capograssi scrisse le “impressioni su Kelsen tradotto” poco dopo la
traduzione della teoria generale del diritto e dello stato da Cotta e Treves,
edita dalle Edizioni di Comunità. Si tratta di un saggio denso, in cui la prosa
capograssiana e la sua cifra stilistica è mossa, libera, sinuosa, andante come
sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva,
concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella
“pars costruens” del saggio. La pars destruens è chiara e persuasiva. La
dottrina kelseniana dello stato e del diritto si pone fuori i reali problemi
della scienza giuridica ed una prima immediata impressione ha il lettore, e
deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così bello se
uno potesse accettare questo pensiero. Come si capisce il successo che ebbe
quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e che era
così facile ad accogliere ogni genere di illusioni. Qui non ci sono più
problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono
più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà. Ogni cosa è
sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e
distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare. Con
tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere. Il diritto come concepito e teorizzato dal
Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento
giuridico” richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato.
E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di
dovere contrapposta all’essere, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge
nell’opera surriferita, ma anche in altri scritti, tra natura (essere) e
spirito (devere). Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formale,
fondata sulla norma giuridica, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano.
Il diritto è un ordinamento coercitivo basato sulla validità, cioè la forza
vincolante e sull’efficacia cioè l’effettiva applicazione delle norme
giuridiche. L’ordinamento giuridico è un sistema di norme connesse fra loro in
base al principio che il diritto regola la propria creazione. Lo stato, il
potere dello stato, i tre poteri dello stato, gli elementi dello stato, sono
soltanto stadi diversi nella creazione dell’ordinamento giuridico. Così come,
in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali
forme di governo, democrazia ed autocrazia, sono modi diversi di creare
l’ordinamento giuridico. Lo stato, entro una simile ed asfittica concezione, è
un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci,
collocate in un sistema giuridico gerarchico, in cui ogni norma trae il
fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa
costituzione è ridotta a norma sulla normazione, sulle procedure di formazione
della legge. Capograssi nota opportunamente che lo stato è, altresì, un ordinamento
relativamente accentrato, a differenza dell’ordinamento internazionale più
decentrato. Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva la
giurisprudenza normativa, che coincide con un sistema di norme valide, che è
l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del filosofo della
giurisprudenza. Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen il diritto in senso
sociologico che descrive l’effettivo comportamento umano che rappresenta il
fenomeno del diritto e cerca di predire l’attività degli organi creatori del
diritto e specialmente quella dei tribunali e lo stato in senso sociologico
riguardano la sfera dell’ efficacia del diritto, delle norme, e sono
condizionati dal diritto normative, così come quest’ultimo concerne la sfera
della validità delle norme e condiziona la scienza sociologica del diritto. Ma
scienza delle norme e scienza dei fatti sono scisse, ciascuna vive di vita
propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed
eterogenee. In questi due mondi così puri l’uno e l’altro, il filosofo si muove
con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria. Di conseguenza, la
giurisprudenza normativa non si interseca mai con la giurisprudenza
sociologica, il diritto come tecnica della sanzione ed ordinamento coercitivo
può rivestire qualsiasi contenuto, in una concezione del dovere assolutamente
formale che non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dovere,
perché questo dovere non ha nulla del
dovere reale. E afferma altresì l’insigne autore, citando Bobbio e comparando
la teoria generale del Kelsen a quella di Carnelutti, che se la teoria generale
è teoria generale del diritto POSITIVO, sicuramente quella del Carnelutti, a
differenza di quella del Kelsen, è relativa alla vita stessa della realtà
giuridica, perché muove dalla nozione di diritto come composizione di conflitti
di interesse. La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla superficie
della norma e della vita dell’esperienza giuridica comunale, perché il sistema
gerarchico di norme valide trae il suo fondamento da una norma non da un fatto,
da una norma fondamentale, una “Grundnorm”, presupposta ed ipotetica, ricavata
con procedimento interpretativo dal filosofo. Quest’ultima pone una data
autorità, non si fonda su nessuna norma, è valida» in virtù del suo contenuto e
non «perché è stata creata in un certo modo, al pari di una norma di diritto
naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica, ed il suo
contenuto è il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale
come il primo fatto produttivo del diritto. La norma fondamentale cioè significa
in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto. La perfetta
separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da
qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la
norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano
proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il
contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale». L’«identificazione
perfetta» tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e “l’esteriorità”
del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del diritto «come
forza», come «diritto naturale della forza». E’sistema di «norme sanzionatorie»
che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al perpetuo oscillare
della forza», ma la cui validità è “emanazione” di una “norma fondamentale”, la
quale trae il proprio contenuto dall’ «evento di forza che si è assicurato il
potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote delle norme».Questo è
il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il «diritto naturale della forza»
che fonda il diritto positivo statale. La prosa capograssiana sul punto è
vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza organizzata, cioè forza e forma; la
forza sostiene e riempie la forma, la forma riveste la forza». La “pars
destruens” del saggio in esame giunge al suo acme con una metafora corrosiva:
«la rappresentazione del diritto che è in questo libro…richiama la visione di
quegli spettri di città e paesi, che i bombardamenti avevano demolito in modo
che erano rimasti in piedi muri e travi: non c’era più nulla tranne quel
tragico scheletro di case nude e vuote, terribili sotto la luna», «ma che si
sarebbe detto di uno di noi che avesse preso quei “cadavera urbium” per città
viventi, per le case dove gli uomini vivono? Ci sarebbe stato errore pari a
questo? E così accade per il diritto, come è esposto in questo libro». Il
diritto è, in definitiva, confuso dal Kelsen per «eventi di forza»,
«dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi». La “pars costruens” capograssiana
ed il richiamo al pensiero del Vico ed alla concezione del “diritto come
esperienza” La “pars costruens” dello scritto oggetto delle presenti
considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma convincenti, il pensiero
del Vico, sempre presente nella riflessione del Capograssi, la storia e lo
storicismo, la nozione di esperienza. Capograssi indica come prioritaria la
necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza del diritto, cioè
l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla cosiddetta forma
o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota forma»; la «necessità
di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua integralità vivente, nella
sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere perenne e quotidiano del diritto
come vita e come esperienza, e quindi con tutto quello per cui nasce, per cui
si afferma, per cui si concreta in forme concrete nella realtà». Al riguardo si
accennano idee di grande importanza che hanno più ampi sviluppi nell’opera
principale del Nostro, “Il problema della scienza del diritto”: la possibilità
della conoscenza della realtà e del diritto si compie «nella comune coscienza
umana di colui che osserva e conosce e di colui che opera nella realtà che è
osservata e conosciuta. In quanto chi osserva partecipa della stessa vita,
degli stessi principi, delle stesse esigenze di chi opera, è il segreto per cui
chi osserva riesce a rendersi conto di quello che fa colui che opera». Ne “Il
problema della scienza del diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con
tutto il suo lavoro l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene
faticosamente e lentamente, perché fa il suo cammino momento per momento e
tappa per tappa, scoprendo quella che è l’idea viva del diritto, la viene
scoprendo traverso tutte le forme concrete e particolari dell’esperienza che
essa forma». E «l’idea viva del diritto» si forma come «parte essenziale
dell’esperienza», «momento e parte della vita stessa dell’esperienza» che
«conosce sé stessa nella sua effettiva e determinata puntualità e riesce a
conservare la realtà di sé stessa nelle sue molteplici e puntuali
determinazioni». Capograssi, inoltre, soffermandosi ulteriormente sull’opera
del Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana che il mondo storico lo
conosciamo perché lo facciamo…»; richiama il monito, proprio del Vico, di non
«mettersi fuori dall’umanità…»E rileva che «se uno si mette al mondo
supponendolo già compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente
l’integralità dell’esperienza gli sfugge». In tal modo l’insigne autore coglie,
dunque, il punto di maggiore fragilità dell’impianto teorico del Kelsen, cioè
la netta, irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma giuridica” e la
“coscienza dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma
estrinseca al soggetto e il soggetto estrinseco alla norma». La “pars
costruens” capograssiana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità in
perenne movimento che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto,
«l’esperienza nella sua vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’
“oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati della teoria generale del
diritto e dello Stato di Kelsen. E l’illustre autore, perciò, individua la
«positività del diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita»,
«coerenza interna e vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle
«determinazioni della vita giuridica», che «vivono nel concreto», ricordando
un’opera in tal senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali
del diritto” del civilista Antonio Cicu. 3. – Sull’attualità del pensiero di
Giuseppe Capograssi e su alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della
scienza giuridica alla luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per
una critica del “nichilismo giuridico” (ontologico) Perché è attuale la critica
capograssiana al formalismo giuridico kelseniano? Perché nell’ “ambiguità del
diritto contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del
grande pensatore abruzzese, si parla di frequente di “crisi”, con ciò
indicando, per riprendere il linguaggio dello stesso Capograssi, «una
situazione che non vorremmo», «un elemento di disapprovazione» ed «un elemento
di speranza», il richiamo di una «situazione passata» o «pensata», «che
crediamo migliore, vale a dire che preferiremmo». Ora, tra gli autori che hanno
approfondito gli aspetti dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di
notevole importanza, a parere dello scrivente, tre saggi monografici, il
“Diritto senza società” di Pietro Barcellona, il “Nichilismo giuridico” (e la
più recente opera dello stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Natalino
Irti ed “Il diritto e il suo limite” di Stefano Rodotà. Ritengo che la sfida
più radicale ed invasiva[46], tra le teorie sviluppate in questi saggi, sia quella
del “nichilismo giuridico” (più precisamente del “nichilismo giuridico
ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente monografia di Mario
Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”, che lo distingue dal
“nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata
dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con
lucidità, risposte alternative al nichilismo. Il nichilismo, senza voler
entrare nel merito di tutti i suoi significati, secondo il filosofo Emanale
Severino ed il giurista Natalino Irti, significa, in un senso specifico al
diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle
al niente». Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di disorientamento
che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè
gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al “perché”e che come
tali illuminavano l’agire dell’uomo». Nietzsche ne parla come «il più
inquietante tra tutti gli ospiti». Sul punto penso al “Dialogo su diritto e
tecnica”, scritto in più atti dai due stessi importanti autori surrichiamati,
Irti e Severino, in cui l’Irti afferma che «l’unica superstite razionalità
riguarda il funzionamento delle procedure generatrici di norme», «la validità
non discende più da un contenuto, che sorregga e giustifichi la norma, ma
dall’osservanza delle procedure proprie di ciascun ordinamento» ed il Severino
ritiene che «la tecnica è destinata a diventare principio ordinatore di ogni
materia, la volontà che regola ogni altra volontà», «la “capacità” della
tecnica è la potenza effettiva (“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico)
di realizzare indefinitamente scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni».
L’idea di sistema giuridico unitario e di diritto statale «portatore di
valori», in un simile orizzonte, è ormai destinato al declino irreversibile,
sul viale tramonto. Il diritto della globalizzazione, e questo è il “topos” di
crisi più acuta, porta alle estreme conseguenze quella scissione tra
“liberalismo” e “liberismo” che Benedetto Croce già tracciava negli anni trenta.
Lo stesso Irti scrive che «la tecno-economia non conosce differenze soggettive
ma soltanto variazioni di quantità». Il “diritto globale”, come nota un altro
grande giurista, Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non
su quello di legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che
viene dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia globale», i
cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati
nazionali sovrani. E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso
insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del
diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca
ed originaria spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo
Stato nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile. Non solo:
i ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza, posti in
evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Severino, secondo lo
stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di norme giuridiche…» che
«attesta la “nientità” del diritto, i canali delle procedurequesti che potremmo
chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà dalla proposizione alla
posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi
può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto è
indifferenza verso tutti i contenuti…». Per cui, l’attuale crisi del diritto,
«nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza contenutistica” che
“sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò realizzazione ed
inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma
qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino definirebbe “logos
ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi ordinamento», è il trionfo del
vuoto formalismo giuspositivista che «si svela nelle procedure produttive di
norme», nella razionalità tecnica e nell’«autosufficienza della volontà
normativa». Al riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole autore, di
diversa formazione culturale, il filosofo marxista Galvano Della Volpe, che in
un saggio dal titolo emblematico, “Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica
dell’ideologia contemporanea”, individuava i limiti propri della dottrina del
diritto e dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad
una concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea
borghese del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto
importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha
giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina
adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di
contenuti. Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale
crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti
pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”, “senza società”, come
scrive Pietro Barcellona realizzazione anche, secondo quest’ultimo autore,
delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann. Rodotà nella sua opera
summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con una tecnica di cui è
stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la continua produzione di
fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così la tecnica
annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una umile funzione servente. Ma
questa è una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica diviene
progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare alla
tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in
questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado
quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione
della sua causa finale”»[68]. Per cui viene da chiedersi, in termini comunque
molto problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al declino dei
sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi di razionalità”,
per riprendere Habermas, delle società capitalistiche postmoderne,
all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti giuridici
democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo stesso
Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai
diritti fondamentali si presenta così come una guida quotidiana, come un test
permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti.
E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La
politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il
diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di
valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte tecnologiche»)
Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto? Ed in che senso l’antikelsenismo
vichiano e personalista di Capograssi[71] è attuale e può costituire,
“storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di lettura delle
asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e degli attuali “usi
sociali del diritto”? La critica
capograssiana al formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa
rappresenta una delle più significative alternative teoriche agli esiti del
nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole del Maestro che
ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia», per «realizzare la vita nei
suoi termini di attualità», e quindi il diritto «nella profonda vita delle sue
determinazioni positive»; anche perché il diritto, come scriveva un altro
importante giurista, Salvatore Satta, è «dover essere dell’essere» e non «dover
essere» contrapposto all’«essere»[74], “Sollen” staccato dal “Sein”. Capograssi
ne “L’ambiguità del diritto”propone delle conclusioni dense di speranza,
affermando che «quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così
gigantesche…non fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni
niente altro che l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità”
del diritto globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico
e massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino
ne “La filosofia futura”, che quasi lascia presagire la «fine della storia» e
del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere
Jhering, della “lotta per il diritto”. Il presente testo riprende, nelle linee
essenziali, la relazione presentata al convegno di studi internazionale sull’
“Attualità del pensiero di Capograssi”, Sassari, Mulino”. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto
pubblico”,1952/4, 767-810, ora in ID., Opere, Milano, KELSEN, General theory of
law and State (1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura
di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1952. [3] V. P. PIOVANI, Introduzione a
G.Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano, CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente concezione del
diritto critica verso il formalismo gradualista di Hans Kelsen v. G.WINKLER,
Teoria del diritto e dottrina della conoscenza.Per una critica della dottrina
pura del diritto (1990), tr. it. di A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è
scritto che «la dottrina pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio,
nelle sue premesse epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta
solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che «la dottrina pura del diritto di
Kelsen si impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi. Un aspetto di questi
dilemmi risiede nel tipo di determinazione dell’oggetto, un altro nella
concezione della scienza. Un altro ancora nella ipostatizzazione di un
orientamento metodologico che deifica il concetto teoretico del diritto, lo
interpreta nel senso della logica formale, lo deforma e lo priva al tempo
stesso del suo oggetto empirico»). [5] V. A. PIGLIARU, Persona umana ed
ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su quest’opera v. G. BIANCO,
Prefazione ad Antonio Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico, in “Diritto
@ storia”, n. 5, 2006 =
http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm
ed in A. PIGLIARU, op.ult.cit., Nuoro, KELSEN, Teoria generale del diritto e
dello Stato, Milano, KELSEN, Teoria generale del diritto e dello Stato,
op.cit., 30 ss., 111 ss., 125ss. [8] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto
e dello Stato, op.cit., 18 ss. [9] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e
dello Stato, op.cit., 29 ss., 123. [10] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto
e dello Stato, op.cit., 111ss. e G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
op. cit., 316-317. [11] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello
Stato, op.cit., 274 ss. [12] V. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello
Stato, op. cit., 288 ss. [13] V.H.KELSEN, Teoria generale del diritto e dello
Stato, op.cit., 126 ss. Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua
distinzione tra “Costituzione formale” e “Costituzione materiale” specificando
che «presupposta la norma fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto
grado del diritto statale. La costituzione è qui intesa non già in senso
formale, bensì in senso materiale. La costituzione in senso formale è un dato
documento solenne, un insieme di norme giuridiche che possono venir modificate
soltanto se si osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere
più difficile la modificazione di tali norme. La costituzione in senso
materiale consiste in quelle norme che regolano la creazione delle norme
giuridiche generali, ed in particolare la creazione delle leggi formali».
Questa distinzione è, ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione
formaleCostituzione materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da
Costantino Mortati, Carl Schmitt, Giuseppe Guarino, peraltro con connotazioni
peculiari in ciascuno degli autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel
che resta della Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in “La
Costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di
A. Catelani e S. Labriola, Milano, 2001, 487-502. [14] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 315. [15] V. H. KELSEN, Teoria
generale del diritto e dello Stato, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
op. cit., 318. [17] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit.,
319. [18] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 320. [19]
V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 327, nt. 1. [20] V.
G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su
Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328.
[23] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328-329. [24]
V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 331. [25] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332. [26] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro aggiunge nella stessa pagina, con il
consueto tono intelligente ed appassionato, che «concepito il diritto come
forza e come forma, è evidente che l’ordinamento giuridico ha una doppia
faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma, cioè la validità. La seconda
dipende dalla prima ed è condizionata dalla prima; la prima finchè dura si
esprime nella seconda; la validità è l’espressione formale dell’efficacia, e
l’efficacia è la realtà sostanziale della validità. Per questo i due diritti in
senso normativo e in senso sociologico si rispecchiano e vanno di conserva:
sono due facce dello stesso fatto»(p. 333). Dappresso è scritto che «la forza è
il principio del diritto; gli interessi, le passioni, le ideologie sono il
contenuto; e la forma è la norma come puro dispositivo della sanzione, e
l’ordinamento che è il sistema delle norme valide fondato sull’evento di forza
che costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si può dire, può non
chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di razionale: forza nuda dall’esterno,
poiché s’impone per qualsiasi via e vince se è legittimata, forza nuda
dall’interno di sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo
irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del diritto
come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita e più completa
coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi nelle forme
vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta il diritto
naturale della forza e la sua dogmatica». CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su
Kelsen tradotto, op. cit., 353 e 351. [30] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su
Kelsen tradotto, op. cit., 353. [31] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto, op. cit., 353. [32] V. G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del
diritto (1937), Milano, 1962 (con introduzione di Pietro Piovani) CAPOGRASSI,
Il problema della scienza del diritto. CAPOGRASSI, Il problema della scienza
del dirittv btg55zo, op.cit., 353. [35] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto, op.cit., 354. [36] V. G. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto,
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen
tradotto. CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355. [40] V. G.
CAPOGRASSI, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e
particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in
considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità
vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde
esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della
vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza
etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno
sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente
formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di
cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e
nelle profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze
costitutive della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il
collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo
traverso il quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e
l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie
sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è questo, che cosa è
il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché vive?» [41] V. G.
CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del
diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in ID., Opere, V, op. cit., 385 ss. [42] V.
G. CAPOGRASSI, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op.ult.cit., 387. [43] V.
P. BARCELLONA, Diritto senza società, Bari, IRTI, Nichilismo giuridico, Bari,
2004; ID., Il salvagente della forma. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto
e non diritto, Milano, 2006. [46] Sia consentito di rinviare a G. BIANCO,
Nichilismo giuridico, in Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III vol. di agg.,
Torino, 2007, BARCELLONA, Critica del nichilismo giuridico, Torino, RODOTÀ, La
vita e le regole, op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i molti
spunti presenti nel saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di
un’epoca nella quale esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi
viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei valori e da
controversie intorno al modo di dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una
frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16); «il
percorso tra diritto e non diritto porta al disvelamento progressivo
dell’inadeguatezza della dimensione giuridica tradizionalmente conosciuta
rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine giuridico possono annidarsi i
fattori che si oppongono al dispiegarsi della personalità, alla pienezza della
vita» (p. 23); «non siamo più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione
del soggetto»(p. 25). [49] V.in modo particolare sul punto M. HEIDEGGER, Il
nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano, 2003, 108; F.
NIETZSCHE, La volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E.
Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano,
2005, 7, 8, 17. [50] V. N. IRTI, Atto primo, in N. IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su
diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; ID., Nichilismo e metodo giuridico, in
“Nichilismo giuridico”, op. cit., 7. [51] V. F. VOLPI, Il nichilismo, Bari,
1996, 4. [52] V. F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, IRTI, Atto primo, in N.
IRTI-E. SEVERINO, Dialogo su diritto e tecnica, SEVERINO, Atto primo, in op.
ult. SEVERINO, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29. [56] Su cui v. B. CROCE,
Liberismo e liberalismo, in “Elementi di politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v.
al riguardo N. IRTI, Il diritto e gli scopi, in “Esercizi di lettura sul
nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento v. pure le riflessioni
contenute in B. LEONI, Conversazione su Einaudi e Croce, in ID., Il pensiero
politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala e con introduzionedi L.M.
Bassani, Macerata. IRTI, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura
sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo giuridico, op. cit., 144. [58] V. N.
IRTI, Nichilismo e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo
giuridico, op.ult.cit., 25. Sul pensiero del Galgano v. ID., Lex mercatoria,
Bologna, 2001, 234 ss. [59] V. N. IRTI, Le categorie giuridiche della
globalizzazione, in Norme e luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a
ed.), 143 ss., 144. [60] v. tra i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La
filosofia futura, Milano, 2006, p.150sgg.; Id., Destino della necessità,
Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg.
[61] V. N. IRTI, Atto secondo, in E. SEVERINO-N. IRTI, Dialogo su diritto e
tecnica. IRTI, Atto primo, in op.ult.cit., 8. [63] V. G. DELLA VOLPE,
Antikelsen, in ID., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, ABBAGNANO,
Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino, 1983 (2a ed.), 835. [65] V. P.
BARCELLONA, Diritto senza società, op. cit., 87 ss. e 151 ss. [66] V. P.
BARCELLONA, Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge
che l’epoca della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo
tramonto della società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso
la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto
dall’autogoverno della società, e come fine della storia intesa come
metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la dialettica
sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la forma
dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella
democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono
inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione».
BARCELLONA, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria
surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti,
della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed
ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della
riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della
sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la
sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della
modernità…»(p. 152). V. al riguardo N. LUHMANN, La differenziazione del diritto
(1981), tr. it., Bologna. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non
diritto, RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto. Su cui v. in
generale le classiche pagine di JHERING, Lo scopo del diritto, tr. it., con
introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è
il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non
debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato
opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi
intenzionali, consapevoli, voluti» (R. RACINARO, Presentazione di “La lotta per
il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX). [71] Sull’attualità
del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di BIANCO, Nichilismo
giuridico. Al riguardo v. la ricostruzione contenuta in S. RODOTÀ, La vita e le
regole. Tra diritto e non diritto, op.cit., 9 ss. [73] V. G. CAPOGRASSI,
Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. [74] Sul tema v. S. SATTA,
Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in memoria di Carlo Esposito”, III,
Padova, Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”,
Milano, 1963, IV, 589 e ora in ID., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova,
1968, 433 ss. Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed
ampia trattazione, a G. BIANCO, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore
Satta, in “Clio”. L’ambiguità del diritto contemporaneo. SEVERINO, La filosofia
futura. La volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in
questa direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide innanzitutto di
eseguire quell’insieme determinato di azioni che in quel momento aumentano determinatamente
la sua potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è quindi certa
dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in
cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente
non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la sua
potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in ogni
momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e cioè di
trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo. Decide che,
in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente, tenterà di
aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia
eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente riconosce la
possibilità del proprio annientamento»).
JHERING, La lotta per il diritto. Sostiene l’Insigne giurista che “il
diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del
tentare, del combattere, del lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto
come concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di
scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto incessantemente a tastare,
saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora
innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92). Giuseppe
Capograssi. The Antiquity of the Italian NationThe Cultural Origins of a
Political Myth in Modern Italy, 1796-1943 Antonino De Francesco. Oxford. With
Italy under Napoleon, the antiquarian topic of anti-Romanism is turned against
the dominant French culture and becomes a pillar of the nation-building
process. The antiquity of the Italian nation — prior to the Roman dominion — is
evoked in order to support an inveterate Italian cultural primacy and proves
very useful for creating Italian nationalism. The issue is completely forgotten
today because Italian studies of Roman history, following the example of
Mommsen, would drape a long veil over the period of earliest Italy, while,
subsequently, Fascism openly claims the legacy of the Roman Empire. Italic
antiquity, however, remains alive throughout those years and it often returns
as a theme, intersecting deeply with the political and cultural life Italy. Philosophy
examines the constantly reasserted antiquity of the Italian nation and its
different uses in history, archaeology, palaeoethnology, and anthropology, from
the Napoleonic period to the collapse of Fascism. Examining the fortunes and
misfortunes of this subject, it challenges the view of 19th-century Italian
nationalism as an ethnical movement, suggesting how deeply the image of
pre-Roman Italy forged the political and cultural sensibility of modern Italy.
Page of IntroductionIntroduction Chapter: (p.1) Introduction Source: The
Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. The resumption of studies
on Italian nationalism focuses upon the aggressive forms that Fascism comes to
represent. The introduction discusses the easy notions of ethnic or racial
nationalism, questioning these categories and suggesting how complex Italian
nationalism is. Regarding this, the theme of the antiquity of the Italian
nation—that is, the myth of a perpetual presence in the country substantiating
a cultural primacy—represents an important example. An examination of the
earliest Italy, as it was proposed in 19th-century Italian culture, suggests
how it did not have a racial or ethnic basis, its main feature being cultural.
This peculiar aspect of early Italian nationalism is outlined in its historical
perspective, and the structure of the essay is described, indicating how the
topic will be followed from its birth during the Napoleonic years to its final
demise shortly after the fall of Fascism. Keywords: Italian
nationalism, Fascism, earliest Italy.The historic past of the nation The
Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. This philosopher is devoted
to the first explicitly nationalizing reading of the myth of antiquity
developed by Cuoco, who, in his “Platone
in Italia”, recalls the existence at the dawn of humanity of a civilizing
people, the Etruscans. In this way, Cuoco, aiming to establish antecedents for
the Italian nation as it measures itself against the French cultural model,
could propose the ethnic-cultural unity of the peninsula’s inhabitants since
ancient times. Italian nationalists rediscover Cuoco’s thesis and see it as the
basis of Italian political identity.
However, some philosophers have underlined how this can be regarded as a
predatory operation, which overvalues the actual significance of “Platone in
Italia” in the cultural context of Italy. It also shows how “Platone in Italia”
remains known mainly for emphasizing the cultural primacy of the Italians
rather than its assertion of their ethnic uniformity. Cuoco, Platone in
Italia, Etruscans, Italian nationalists. A plural Italy. The Antiquity of the
Italian Nation. Francesco. Oxford. Cuoco’s interpretation of Italian antiquity
does not hold up against Micali’s Italy before the dominion of Rome. Micali responds
to Cuoco’s view, suggesting that cultural unity does not lead one to believe
that the country’s peoples necessarily share a common origin. It is Micali
rather than Cuoco that come to dominate the patriotic culture of the Italians.
The significant impact that Micali has is shown by the fact that Micali became
a subject of great interest throughout the country, accompanying the national
movement -- the so-called Risorgimento -- on its progress towards the events of
the revolution. Micali, Italy
before the dominion of Rome, Cuoco, Risorgimento, revolution. Unity in diversity. The Antiquity
of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford. We measure the impact of
Micali on the political culture of the Risorgimento, testing the importance of
his “Storia degl’antichi popoli italiani” on the studies of the Italic past
published in several areas around the peninsula, especially in Lombardia, which
remains the main Italian publishing centre, Napoli, and Sicilia. The analysis
shows the multiple and different nationalizing uses of Micali’s works in tthese
regions and confirms how his reading of a cultural, rather than ethnic,
uniformity of the Italian people, is overwhelmingly accepted by the patriots on
the eve of the revolution. Micali’s model appears, in fact, to be the only one
that could be followed in a country which, though culturally united for
centuries, is at the same time deprived of political cohesion. Micali,
Storia degl’antichi popoli italiani, Risorgimento, Naples, Sicily, Lombardy.
The other Italy. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford. Micali’s
model comes under fire when, after the political unification of the Italian
peninsula, it becomes clear that the encounter between the various parts of
Italy is not particularly harmonious. The problematic area of southern Italy
seems to obstruct, rather than smoothen, the way towards a rapid process of
stabilization for the newly unified state. We cast light on how the southern
regions’s difficulty in becoming an integral part of the new unified Italy
determine the reflections on the roots of a diversity which wocomes home to
roost in the considerations concerning the Aryan race which populates ancient
Italy. Unified Italy, southern Italy, Micali, Aryan race, Mediterranean
race. The anthropology of the nation. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco
Publisher: Oxford Those who insist on the racist nature of the unified state
improperly rely on Sergi’s anthropology as demonstrating firm evidence of his
racist tendencies and establishing a connection between liberal Italy and
Fascism. Philosophers have reconstructed Sergi’s career in order to re-situate
him in his specific political and cultural context. From this point of view,
his theme of racial differences within the nation suggests the existence of two
different peoples on the peninsula: one northern and Aryan, the other southern
and Mediterranean. This distinction remains popular and rapidly becomes a
political matter, pertaining to the left of the political spectrum rather than
the right. It is used to explain the reasons why the modernization of Italy
seems to be grinding to a halt, as well as to help sustain the political
struggle that the radical left launches against liberal Italy. Sergi,
anthropology, racist tendencies, liberal Italy, fascism Return to Rome. The
Antiquity of the Italian Nation. Francesco Publisher: Oxford. The Italian state
seems to be heading for an irreversible crisis. Faced with this challenge, many
academics are quick to reaffirm the value of the unified state and reject every
reading of Italian identity which does not sustain the idea of complete
uniformity. This area is covered by philosophy, which deals with the renewal of
the study of Roman history through the example of the work of Pais. A keen
admirer of Micali, Pais soon adopts the model suggested by Mommsen, which sees
in Roman expansionism a work of political and cultural unification of the whole
of Italy. Pais’s main concern, therefore, is the construction of the nation’s
common historical identity. That is why he aligns himself with all the
political choices of the nationalist movement, from colonialism to the
interventionism of The Great War and the acceptance of Fascism. Pais,
nationalist movement, colonialism, Fascism. The Italian Fascist Empire, racial
policy and Etruscology. The Antiquity of the Italian Nation. Francesco. Oxford.
Romanism does not eradicate the tradition of Italian plurality, founded on the
specific contributions of peoples of different origins. The theme of Italic
antiquity is useful during fascism. Following the war in Ethiopia and the
foundation of the Italian Empire, the idea of italic antiquity is used to
reject the mixing of races in the name of a civilising policy with regard to
populations held to be inferior. This theme helps to bring about a significant
return of academic interest in relation to the origins of Italy’s ancient civilisation.
Basing his ideas on the example of the
ancient Romans, Pallottino is able to re-read Etruscan origins as the result of
the meeting of different peoples through a cultural model that becomes common
property. In this way, the process turns full circle and the work of Micali makes a powerful comeback.
Romanism, Pallottino, Italic antiquity, Etruscan origins, Italian Empire,
Micali. Keywords: gl’eroi di Vico, il culto degl’eroi, positivismo, positivismo
giuridico, H. L. A. Hart, Kelsen, il concetto di stato, stato italiano, il mito
dell’Italia nuova -- stato come forza, stato come autorita, Capograssi contro
Bobbio. La critica di Bobbio a Capograssi, essere/devere – Capograssi/Hart –
Capograssi e il fascismo – la nazione d'Italia previa all’unificazione -- in
concetto di stato come medimen, medimen medimen medimen previous drafts -- il concetto di stato com medimen --– kelsen,
positivismo giuridico – l’esperienza giuridica, azione giuridica, due tipi
d’obbedenza: formale (vacua) e materiale (intenzione inclusa), intenzione,
agire, vita etica, intersoggetivita, intersoggetivo, soggeto, individuo,
interpersonalismo, l’interpersonalismo di Capograssi – Aligheri, Leopardi,
Zibaldone, Rosmini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capograssi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Caporali – Pitagora,
l’italiano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Como). Filosofo
italiano. Grice: “You gotta (as we say at Berkeley) love (as we say at
Berkeley) Caporali – typically Italian he dedicates his life to philosophise on
Pythagoras (or Pitagora, as he prefers) just because he is ‘italico,’ or
‘Italiano,’ with the capital I that was then in fashion!” Grice: “What I like
about Caporali is that, unlike the 98% of Italian philosoophers, he detests
German philosophy, as represented by Muri – “See how clear the religion of the
Italian anti-clerics is compared to the German obscurity of Muri!’ And right he
is, too!” -- Grice: “For the Oxonians I always recommend
his “epitome di filosofia italiana,’ which, I subtitle it as “From Pythagoras
to Pythagoras, and back!” – His three-part tract on Pythagoras (Natura, Uomo,
Other) is fascinating – especially the other – he also philosophised on
‘scienza nuova.’” -- Enrico Caporali (Como), filosofo. Laureatosi
in giurisprudenza all'Padova, studiò anche storia e geografia presso l'ateneo
bolognese, così come approcciò, sia Italia che all'estero, le scienze naturali
e la matematica. Nel corso dei suoi
viaggi si avvicinò al movimento metodista, tanto che nel 1875 a Milano, dove
l'anno prima aveva dato alle stampe la Geografia enciclopedica, ne ricevette
l'ordinazione a evangelista, mentre quella a diacono la ricevette a Terni nel
1879. E, non a caso, Caporali è stato segnalato fra le menti più eccelse
dell'evangelicismo. Dal 1876 a Perugia,
e poi come ministro a Todi dalla fine del 1881, finì per distaccarsi dal
movimento metodista. È in quel contesto che diede vita alla rivista La nuova
scienza, uscita in 6 volumi tra il 1882 e il 1896. La notorietà che ne conseguì
gli portò l'offerta di reggere come titolare, su indicazione di Nicola
Fornelli, la cattedra di filosofia all'Bologna, che tuttavia Caporali rifiutò. Dal 1905 riprese e approfondì le questioni
filosofiche, studiando, in particolare, la dottrina di Pitagora, che avrebbe
ricondotto, da nazionalista qual era, ad una tradizione italica e latina, in
funzione anti-straniera. Secondo Caporali, la formulazione pitagorica del
numero reale consentiva di riconoscere la relazione dell'espressione della
coscienza e della volontà umane con i problemi della vita. Opere principali Geografia enciclopedica
rispondente al bisogno degl'italiani ordinata alfabeticamente, Politti, Milano
1873. Epitome di Filosofia italica della nuova scienza. Vademecum delle persone
colte che vogliono diventare filosoficamente italiane, Tip. dell'Umbria,
Spoleto 1911; La natura secondo Pitagora, Atanor, Todi; L'uomo secondo
Pitagora, Atanor, Todi 1915; Il pitagorismo confrontato con le altre scuole,
Atanor, Todi 1916; La Chiara religione degli anticlericali italiani con la
nebbiosa tedesca di Romolo Murri (della pubblica opinione moderatore), Tip.
Tuderte, Todi. L'Enciclopedia Italiana, vedi, indica il 1841 come anno di
nascita. V. Vinay, Luigi Desanctis,
Claudiana, Torino 1965240. In tal senso
B. Croce, Pescasseroli, Laterza, Bari 192255, che lo cita con i filosofi
protestanti Taglialatela e Mazzarella.
G.B. Furiozzi, Enrico Caporali tra politica, religione e filosofia, in
Idem, Dal Risorgimento all'Italia liberale, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli R. Mariani, Del sommo filosofo
pitagorico Enrico Caporali da Como (1838-1918): da Pitagora ad Alberto Einstein,
Domini, Perugia 1955. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
Commons contiene immagini o altri file su Enrico Caporali M.C.C., «CAPORALI, Enrico», in Enciclopedia
Italiana, I Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1938. Luca
Pilone, «Enrico Caporali», in Dizionario biografico dei protestanti in Italia,
Società di studi valdesi, sito studivaldesi.org. Filosofia Filosofo del XIX
secoloFilosofi italiani Professore Como Todi Scrittori italiani del XX
secoloPersonalità del protestantesimo. LA NUOVA SCIENZA. Alcuni pedanti, non intendendo la sacra
scienza dei Numeri, o dei Principii Universali, che Pitagora fece il centro del
suo sistema, attribuirono a questo grande Maestro teorie confuse e assurde.
Così gli studiosi, i quali non seppero discernere il pensiero Pitagorico dalle
aggiunte e dalle non scientifiche interpretazioni che ne fnrono fatte dopo
Pitagora, supposero che la radice e i rampolli della Antiquissima Italicorum
Sapientia fossero ormai disseccati, e trascurarono l'Italo Maestro per andare
ad abbeverarsi a fonti straniere. Con tutta fede dunque, e sicuro di fare opera
veramente italiana, il Prof. Enrico Caporali, più di trentacinque anni fa, si
ritirò nella misteriosa solitudine della sua villa presso Todi per dedicarsi
tutto alla restaurazione del Pitagorismo tra il plauso e l'ammirazione dei
migliori pensatori nostrani e stranieri. Redasse allora la Nuova Scienza e in
seguito pubblicò altre opere fra le quali i volumi della Sapienza Italica
presso questa Casa Editrice. La quale, avendo ora rilevato dall'eredità
giacente dell'illu stre estinto, quel che rimaneva della sua prima opera
suddetta, la presenta agli studiosi. La Nuova Scienza è composta di 25 spessi
fascicoli in-8°, e va dal 1884 al 1892. Restano quarantasette copie dell'Obera
completa e si vendono al prezzo di L. 125 ognuna. Si vendono anche
separatamente alcuni fascicoli che possediamo in maggior numero, al prezzo di
L. 5 ciascuno. Diamo qui i titoli delle principali dissertazioni contenute
nella detta opera La Nuova Scienza: L'odierno pensiero Italiano. La Formula
Pitagorica della Cosmica Evoluzione. L'Evoluzione anti-clericale Germanica
nella disperazione. L'Evoluzione anticl. germ. negli errori finalisti. L'Evoluzione
malin tesa e la sua negazione. Monismo Pitagorico antico. Perpetua voce umana—
Commedia degli Spiriti. La psicogenia pitagorica di Pauthan . La sostanza
impasticciata di Pozzo. Il principio Eraclitico con frontato col Pitagorico -- Pitagorismo
di Bruno. La formula Pitagorica dell'Evoluzione Sociale. La Sapienza Italica
mmfà i opera insigne del filosofo nella quale facendo rivivere il Pitagorismo
alfa luce dello scibile moderno sì mira alla restaurazione della nazionale
*coltura Casa Editrice " Atanòr „ - Todi 1914 La Natura secondo
Pitagora ossia La progressiva concentrazione e sistemazione delle unità
senzienti. Tov ò\ov oòpavóv àp|iovóav sivat xat àpt&fiov. Tutto
l'iTiiiverso è numero e armonia. Pitagora. Oùx' fircstpog èaxl [isxa^oXr]
où5s(iia oì)xs auvsx^SNiente può cambiare nell'indeterminato e nel continuo.
Aristotele (Phys8). La Sapienza Italica i La Natura secondo Pitagora
opera insigne del filosofo Enrico Caporali il - nella quale facendo rivivere il
Pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della
nazionale coltura Con cenni storici su Pitagora e la sua Scuola Casa
Editrice " Atanòr „ – Todi. MI STORICI SO PITAGORA E LA SUA SCUOLA. Pitagora,
secondo Teopompo, Aristossene e Aristarco (citato da Clemente), e figlio di un
gioielliere etrusco, che mercanteggia a Samo. La Pitonessa di Delfo, consultata
mentre la sua madre e incinta, dice: Avrai un figlio che sarà utile a tutti gl’uomini,
in tutti i tempi. Pitagora, fin dalla sua prima gioventù avido di scienza, segue
le lezioni d’Ermodamate e quelle di Ferecide a Siro. Visita in Mileto Talete,
l'iniziatore della filosofia, e per suo consiglio viaggiò in Egitto. A Memfi,
presentato a quei sacerdoti d'Iside dal Faraone Amasis, al quale, dicesi, e
stato raccomandato da Policrate il tiranno di Samo, e da essi ricevuto nel loro
tempio e iniziato alle loro dottrine segrete. Così, durante gli anni di questa
sua iniziazione, il saggio di Crotone puo bene internarsi in esse, e
principalmente versarsi con ardore in quella sacra scienza del numero e dei principii
universali, che egli fece di poi il centro del suo sistema e formida in un modo
originale. Egli arriva agli alti gradi del tempio, ma, essendo avvenuta in
questa epoca una ribellione in Egitto, dopo aver assistito al saccheggio dei
santuarii e allo scempio compiuto su le opere millenarie dalle orde della
plebe, e condotto insieme con altri adepti a Babilonia. A Babilonia accresce il
suo sapere ed ha rivelati gli arcani dell'antica sapienza Caldea. Da qui ritorna
a Samo, che un usurpatore straniero, dissoluto e crudele, ora tiranneggia, e
volle subito fuggirne. Venne in Crotone, ove si stabilisce. Crotone, nel Golfo
di Taranto, e, con Sibari, la città più fiorente d' Italia. Ora egli che ha
attinto a sì pure fonti di filosofia e acquistato grande esperienza della vita,
nauseato dalla indisciplinatezza delle democrazie, dalla insipienza dei altri filosofi,
dall' ignoranza dei sacerdoti, dalla dissolutezza che venne a diffondersi, ha
visione di un rinnovamento da effettuare fra gl’uomini. Onde stabilì di fondare
una setta dalla quale usceno, non dei politicanti e dei sofisti, ma dei uomoni
dall'animo nel vero senso della parola virile, e che e il nucleo, come il punto
di partenza per la trasformazione graduale dell'organamento politico di Crotone,
in corrispondenza al suo ideale filosofico. Secondo questo ideale, affinchè lo stato
e ordinato armonicamente, dovesi conciliare il principio elettivo con un
reggimento della cosa pubblica costituito per la selezione dell'intelligenza e
della virtù. Sorse dunque a Cotrone il più grande istituto pedagogico di quei
tempi, che è pur da considerarsi come il più nobile tentativo d'iniziazione
laica che sia stato mai impreso; e in breve ha a fiorire in tal modo che, non
solo nell’area, come a Metaponto, a Taranto, e più tardi a Eraclea, sono
stabilite filiali, ma anche in altre parti d'Italia e principalmente in
Etruria, la sacra terra donde il maestro e oriundo. Egli si circonda di scelti
discepoli, e tutti seduce, poiché avviluppa di grazia l’austerità dei suoi
insegnamenti. Essi doveno levarsi all'alba, adorare il sole, seguendo una
dorica danza, quando il sole appare su l'orizzonte, passeggiare nel parco dell'
istituto dopo le abluzioni di rigore, recarsi nel tempio di Apollo in silenzio,
affinchè l'anima, così nella sua verginità, si raccoglia all'inizio del giorno.
Indi, in ampie sale, venneno istruiti nella matematica, nell'astronomia, nella
medicina e nelle scienze naturali, o nella politica, nella morale e nella
religione, secondo le classi o gradi d'iniziazione, e in altre ore nella musica
istrumentale e corale. A mezzogiorno, dopo la preghiera al sole, si fa un pasto
frugale di pane, mele, noci e olive, e quindi si anda allo stadio per gli
esercizi ginnastici, che tutti, fuor che la lotta e il pugilato, sono tenuti in
onore. Poi si discute di amministrazione della città, di morale e di 'politica
generale, e in fine si anda a cena, dove si mangia anche carne in piccola
quantità e si beve vino, sedendo intorno a ogni tavolo in numero di X, poiché X
è il numero perfetto. Durante la cena, si fa una lettura ad alta voce, e questa
lettura e seguita da libere obiezioni e discussion. Poi si ricordano le regole
dell' Istituto, e, cantando un inno ad Apollo, si anda a letto. Il vestito di tutti
i discepoli era di bisso, a forma egiziana o etnisca. Pitagora ha due figli,
Arimneste e Telangete. Arimneste e autore di prose e poesie morali. Telangete
divenne più tardi il maestro di Empedocle di Girgenti e a lui trasmise i
secreti della dottrina. Altro pitagorico fu il più celebre degli atleti, Milone
di Crotone. Dall'Istituto pitagorico usceno anche geometri, medici, artisti,
amministratori ed uomini politici ragguardevoli, che portano, sotto certi
aspetti, la Magna Grecia al disopra della Grecia. Non si concede di entrare
nell' Istituto a scolari di famiglie non onorate o di costumi cattivi. Fa per
avere rifiutato un certo Cilone, ricchissimo, il quale desidera di far parte
dell'Istituto, che Pitagora venne una sera assalito mentre sta in casa di
Milone. E, cogliendo pretesto dal voto contrario che Pitagora da sulla
distribuzione delle terre di Sibari, che i Crotoniati hanno conquistate, il suo
nemico Olone induce la plebaglia a dare l'assalto all'Istituto, uccidendo e
ferendo molti alunni. Pitagora si rifugia negli istituti filiali di Locri, di
Taranto e di Metaponto, dove muore. Pitagora non crede nella metempsicosi, ma
sol-tanto nella immortalità dell'anima razionale. Però permise che la
metempsicosi dei Misteri Orfici e presentata al popolo come opportuna per
spronare alla virtù ed impedire la delinquenza. Infatti egli non ha collegato
in nessun modo la metempsicosi al suo sistema filosofico. Egli si sforzava
sempre di liberare gli schiavi e di dare agli umili cittadini il sentimento
della dignità morale, e dice che la virtù non è perfetta se non è accompagnata
dalla fede nel Sole, perchè l'ordine universale si regge sulla mente divina
ordinatrice e perchè il Sole solo può dare alla morale sanzioni efficaci.
Diogene Laerzio narra che Pitagora scrive tre saggi, uno sulla Educazione, uno
sulla Politica ed il terzo più importante sulla Natura. Ma andarono tutti e tre
perduti e ne rimangono soltanto i frammenti citati da Aristotele e da altri
filosofi posteriori. Fra i discepoli di Pitagora si distingueno Archita di
Taranto, Timeo di Locri, Ocello di Lucania, Ecfanto di Siracusa, Filolao,
Eudossio, Alcmeone, Epicarmo ed Ipparco. Quando Platone viaggia in Italia, e
Archita di Taranto che gì' insegna la dottrina del numerante. Ma Platone la
guasta nell' intrecciarla alla sua teoria delle idee eterne ossia concetti
gènerali delle cose ch'egli suppone esistere da se, indipendenti e separati
dalle cose. Nella filiale pitagorica di Girgenti sorge Empedocle, il quale
abbraccia con ardore lo studio della Natura comune ai Pitagorici. Ma mentre Empedocle
osserva da vicino una eruzione dell’Etna
soccombette asfissiato. Nella filiale pitagorica di Siracusa brilla Archimede,
il fondatore della idrostatica, il quale scopre anche la quadratura della
parabola, oggi ancora ammirata dai Matematici. Ma qual era il carattere della
filosofia di questa setta di Crotone? Pitagora e l’enciclopedista del suo tempo.
Fonda la Filosofia Italica. Come fa notare Zeller gl’errori di Platone e di
Aristotele erano quelli del popolo ellenico, troppo idealista e portato a
giudicare le cose colla fantasia, ed a studiare poco la natura. Gl’ellenici
sono artisti e poeti, non filosofi o scienziati. Appena hanno fatto dell’osservazioni
superficiali, volano a stabilire delle massime generali. Invece Pitagora e in
stretto senso uno scienziato, un appassionato scrutatore della natura, sicché puo
fondare il Naturalismo Italiano. Da per primo il nome alla filosofia, come lo da
al mondo, chiamandolo “cosmo”, che vuol dire ‘ordine’, vale a dire che porta in
se la gran legge della tendenza di le IV elementi a formare più alta unità: in
modo che ogni particella sta in armonia col Tutto ed è fatta da una forza
numerante. L'Universo, secondo Pitagora, è la manifestazione dell’energia
divina, che si contrappone i punti di forza o atomi, i quali, derivando da una
potentissima Unità, tendono a riunirsi ed a ritornare alla unità primitiva,
sicché tutte le cose si fanno dal di dentro al di fuori. E un Monismo del
Noumenon vivente in ogni individuo, che fa i fenomeni della Sensazione e del
Moto. Gli Organismi sono governati dal Sentimento, trovando piacere nell’assurgere
a più alta Unità, e dolore nello scomporsi. Anche la Natura inorganica sente e
vuole il suo sviluppo, il suo godimento, benché non sia provvista di nervi. Ma
è da essa e dalla sua rudimentale sensazione e volontà, che a poco a poco,
attraverso la evoluzione delle attrazioni molecolari chimiche dei colloidi, si
vanno formando, per successiva divisione del lavoro, gl’organi ed i nervi. Egli
precisa con ripetuti esperimenti il rapporto fra la lunghezza, il diametro e la
tensione delle corde sonore e la qualità dei suoni; indovina per il primo che
la terra è sferica e gira attorno al sole, che le stelle sono altrettanti soli
in movimento. Scopre il teorema sulle proprietà del quadrato della ipotenusa
nel triangolo rettangolo. Calcola la teoria degl’ isoperimetri, dimostrando non
commensurabile il rapporto fra la diagonale ed un lato del quadrato. Introduce
nell’aritmetica il sistema decimale X, e nella musica l'ottava, VIII, la quarta
IV, e la quinta, V.. Il filosofo Lucio (in Plutarco Symp.) narra che gli’eruschi,
che stimano Pitagora quanto i Greci, osservano i simboli di Pitagora. Ad un
acuto osservatore come Pitagora non puo sfuggire la legge di attrazione e
coesione che forma e tiene assieme tutti i corpi gazosi, liquidi e Egli ne
supponeva la causa nella tendenza di tutti gli elementi a riunirsi ed a formare
più alta Unità, ed invano i fisici moderni ne cercarono la causa in pretese
pressioni dell'etere cosmico. Empedocle di Girgenti la chiama poeticamente “amore
universale”, contraponendovi l'odio o repulsione, che avviene contro tutto ciò
che disturba il piacere dell'unione. Empedocle pensa la Natura organica, piante
ed animali, come un processo di crescente unificazione e sistemazione -- benché
non conoscesse la cellula -- e la malattia e la morte come un processo di
dissoluzione delle particelle senzienti. L'Essere non è per Empedocle in
continuo flusso, il diventare non è un formarsi di cose nuove -- come
pretendeva Eraclito, l’eleno che emula Pitagora), ma è l'unirsi delle
particelle, lo ascendere a pnu alta Unità, il formarsi dai molti l'Uno: mentre
il morire discioglie la Unità nella Molteplicità. Era bene istruito del
pensiero pitagorico Anassagora, il primo filosofo che separa lo spirito dalla
materia, e che suppose le anime degli animali e degli uomini come formate di
Omeomerie, specie di Numeranti, che separano, distinguono, scelgono, conoscono
le cose utili e respingono le inutili al bene dell'individuo e della specie. Ma
i suoi discepoli Socrate e Platone intesero poco il pitagorismo, in modo che
dopo Anassagora la filosofìa d’Atene si allontana dalla Italica. Pitagora e il
genio tutelare del pensiero laico Italiano, e da sempre il midollo alla coltura
nazionale. E grazie a Pitagora che nell'antichità e nel Medio Evo l'Italia non e
una provincia della filosofia ellenica. E grazie a Pitagora che un po' alla
volta e sorpassato il Platonismo ed e vinto l'Aristotelismo. Nel Rinascimento
con le invasioni dei barbari dal Nord si oscura ogni luce di pensiero. Ma la
idea pitagorica torna a brillare per la prima e a dare impulso alla nuova
filosofia italiana grazie a Cuza, educato in Italia. Cuza scrive: «Ratio est
mensura quae omnia in multitudinem, magnitudinemque resolvit. Mens est viva
mensura quae mensurando alia, sui capacitatem atiingit. La mente è la unità che
si esplica nella diversità. Essa discerne confrontando e misurando. L'
investigazione della Natura, che era stata lo scopo principale della setta
Pitagorica venne promossa dall'Accademia di Cosenza, a 40 miglia da Cotrone,
fondata da Parrasio - dalla quale sorge Telesio che scrive: « Della natura
delle cose secondo i propri principii » -, dall'apertura in Padova del primo
Orto Botanico, dall’Aliatisi botanica iniziata nei giardini di Alfonso aVEsie,
dall’Accademie dei Lincei a Roma, del Cimento a Firenze, dei Segreti a Napoli
con Porta, le quali servirono di stimolo e di esempio ai popoli di oltralpe per
la fondazione delle loro accademie maggiori. Bruno sostenne poi contro i
filosofi del Lizio che gli elementi medesimi della natura si ritrovano in terra
e in cielo, indovina la trasformazione degli organi animali secondo l'uso che
se ne fa, nota che la Unità domina nell'uomo e che alla sua Monade centrale
convergono quelle periferiche del corpo, sicché l'organismo è come un
dispiegarsi dell'anima. Lontano dalla luce del Pitagorismo, Cartesio trasse per
alcuni anni in errore col definire la Materia come Res extensa, confondendola
con lo Spazio, fantasticandola come piena di vortici, credendola sostanziale.
Ma la verità Pitagorica della Attrazione e dimostrata da Newton e il newtoniano
Boscovich concepì gli Atomi come punti di forza. Ad essa furono poi aggiunte
l'attrazione molecolare chimica, elettrica e magnetica, le quali danno ragione
agli antichi Pitagorici e ad Empedocle. Supponiamo che Pitagora siasi istruito
dello scibile moderno, e consideriamo la Natura dal punto di vista pitagorico,
che è il più fecondo per intenderne le leggi. La Nafta secondo Pilajora La
progressiva concentrazione e sistemazioni delie unità senzienti. Noi fondiamo
la filosofìa sopra la totalità del- l'Esperienza, ossia stiamo sempre sulla
base dei fatti, come li prende, li elabora e li interpreta il nostro stromento
del conoscere (lì. Nessuno vorrà ammettere che una volta non ci fosse niente: e
che dal Niente venisse fuori l'Essere. Ex nihilo nihil. L’Hegelismo, che,
invece di stare ai fatti, fonda la filosofìa sui Concetti, e quindi prende il
Concetto del Nulla come equipollente a quello del- VEssere li ha sposati per
farne uscire il Diventare: ma per noi il Nulla è un vero Niente e lo la- sciamo
nei cervelli che lo pensano come reale. Dunque un Essere vi è sempre stato. Che
questo essere eterno fosse molteplice, nes- suno che guardi il mondo e conosca
la Unità delle forze fisiche che si manifesta, non solo sulla (1) Non bisogna
esagerare il bisogno di gnoseologia al punto di farla precedere ad ogni studio
filosofico. Di gnoseologia parleremo nel Volume L' uomo secondo Pitagora di
prossima pubblicazione. Coloro che non vogliono filo- sofare senza prima
determinare i confini della ragione, somigliano a colui che non vuol entrare
nell'acqua, se prima non ha imparato a nuotare. Terra, ma in tutti i 50 milioni
di stelle visibili nelle notti serene (anche in quelle più lontane la cui luce
impiega più di diecimila anni per ar- rivarci, quando si studiano colFanalisi
spettrale) nessuno potrà affermarlo. Dunque YEssere eterno era Uno. Che cosa
era questo Essere uno eterno? Ardigò dice che era la Sostanza Psicofisica,
ossia psiche (unità), e poi forza materiale (molteplicità). E così può essere.
Nel voi. IV. delle sue opere (pag. 270) egli ci dice che questo primo Essere ha
cominciato a sdoppiarsi in Spazio e Tempo, per poter fare la esteriorità, ossia
il Mondo: ed aggiunge che lo spazio era allora convertibile nel tempo e
viceversa, senza dirci a quanti anni, mesi, giorni ed ore corrisponda un
determinato spazio. Noi c'inchi- niamo al prof. Ardigò per questa bella trovata,
la più positiva e la più radicale della sua filosofìa, così immaginosa, che la
bellissima Cerezada, per divertire il potente sultano Sciariar nelle Mille ed
una notte, non avrebbe saputo inventare. Il male si è che (se fosse vera la
convertibilità dello spazio nel tempo e viceversa), sarebbe impossibile la
Natura. Il Senatore B. Croce poi, di natura non ne vuol sapere affatto e nel
gennaio 1909 scrisse nella sua Critica che la filosofia può abolire la natura
(1). Questa è fatta di sensazioni, di senti- menti, di volontà, di movimenti,
dei quali è dif- (1) S'intende che egli non pretende di abolire la Natura,
bensì, come dice a pag. 75, il concetto di Natura. E la filosofia ha da essere
tutta dello spirito, senza impicciarsi di Natura. fìcile formarsi concetti
esatti, e si richiede, per intenderla, uno studio vastissimo e profondo.
Sarebbe comodissimo di risparmiarlo. Le scienze naturali, dice il Croce, sono
fatte con concetti sbagliati, e la pratica che ne consegue, è fatta di volere e
di azione, ossia di soggetto fatto oggetto. Sia come ipostasi della scienza,
sia come forma pratica dello spirito, che diventa volontà ed azione, e quindi
oggetto, è meglio tagliar corto, e considerare come abolito il Concetto della
Natura. Fino ad ora nessun filosofo, neppur Hegel, ha potuto ^fare a meno di
tentare una Filosofìa della Natura. E vero che sarebbe stato prudente abolirla,
come la volpe dichiarava non matura quell'uva, alla quale non poteva arrivare.
Se vi è un lettore inimicato contro la Natura, potrà con essa conciliarsi in
questo Libro, nel quale cercheremo di penetrare appunto nella Natura.
Avvertiamo che V Essere eterno ed uno ha dovuto essere attivo sempre,
estrinsecandosi (poiché essere vuol dire essere attivo) pensando prima i due
sistemi di punti e di istanti (lo Spazio ed il Tempo) e poi contrapponendosi i
punti di energia. Dunque il nostro studio deve cominciare da queste
estrinsecazioni primissime dell'Essere Eterno; vale a dire la matematica in
spazio e tempo, e la fisica in atomi eterei ed atomi ponderali. La
fisiologia dei sensi ha mostrato come dal tatto, dalla vista, dal senso
muscolare sorga in noi l'idea dello spazio e le condizioni in cui questa
intuizione si forma ancora nei bambini. Questa esperienza è sempre diretta
dalla Unità di coscienza. Altro è la intuizione di spazio e il concetto dello
spazio, ed altro è lo Spazio, ossia il fondo eterno. Se un centimetro quadrato
contiene 1.000.000 di punti, mezzo centimetro quadrato dovrebbe con- tenerne
mezzo milione. Ma non si può ficcarvene dentro altri milioni allo infinito;
altrimenti i punti si toccano e diventano di due o tre un punto solo. Chi nega
la realtà dello spazio, nega la realtà del mondo, che è tutto esteriorità. Se
fosse puramente nostro subbiettivo e continuo, non vi sarebbero punti fissi,
uno fuori dell'altro, non vi sarebbe alcun luogo; quindi il moto, cioè il
passaggio di un corpo da un luogo ad un altro, non avrebbe realtà. Zenone di
Elea infatti negava la realtà del moto, perchè lo riteneva continuo, come
spazio e tempo, e diceva che, se il veloce Achille sta un passo dietro la
tartaruga, non la potrà mai raggiungere. Ma quando si considera lo spazio come
un si- stema bene connesso di punti pensati dall'Essere Divino e quindi reali,
e il tempo come un seguito di istanti, divisi da minimi intervalli, allora si
ca- pisce che il moto reale è possibile, perchè il corpo che si muove va a
scatti, cessando di essere nel punto dove era, per cominciare ad essere laddove
non era. Altrimenti un corpo in moto non sarebbe in nessun luogo. Celere è il
moto i cui intervalli o riposi sono brevi. Lento è quel moto i cui in- tervalli
sono meno brevi. Lo spazio ed il tempo non hanno energia motrice, ma non sono
nulli ed hanno una realtà numerica. E siccome il Numero è la realtà maggiore
della Logica, come dimostra Hegel, così la loro realtà è certa (1). Kant
suppose che noi creassimo lo spazio ed il tempo, ossia che fossero come
occhiali colorati o nostre intuizioni che ci obbligassero a vedere e toccare le
cose esteriori in un modo subbiettivo della nostra coscienza. Ipotesi resa
impossibile oggidì, giacche le fotografìe e le fonografìe ci di- mostrano che
le macchine fotografiche vedono le cose come noi e notano così le divisioni
dello spazio come noi, e le macchine fonografiche dividono il tempo come i
nostri orecchi, riproducendo le vibrazioni fonografate e quindi i suoni. È vero
che riconosciamo dapprima lo spazio ed il tempo em- (1) Lo spazio, il tempo,
gli atomi, sono la molteplicità del mondo che non può essere fatta se non da
una Unità spirituale. Se tutte le cose hanno relazioni numeriche tra loro, la
sostanza comune numerica dello spazio, del tempo e delle minime unità atomiche,
va considerata nella Unità Cosmica.piricamente: e che per i bambini non sono
altro che forme della distanza degli oggetti voluti e del moto necessario per
raggiungerli. Più della vista e del tatto è il senso muscolare, ossia il senso
dinamico della forza ricevuta e spesa, il senso del moto, e della resistenza,
che ci dà lo spazio ed il tempo: è questo il primo senso a comparire nella
evoluzione animale e nel feto. La realtà dello spazio è il da mihi ubi
constitam della filosofìa scientifica. Nella « Teoria del cielo » Kant
riconobbe la realtà dello spazio, e lo disse un assoluto, indi- pendente dalla
materia, anzi base della possibilità di sviluppo delle forze, eterno, infinito,
vuoto: e aggiungeva « dubito che se ne sia mai data una « definizione adeguata.
Le determinazioni dello « spazio non sono conseguenze del posto che oc- «
cupano reciprocamente gli atomi, ma queste sono « conseguenze dello spazio, e
le diversità nei corpi si « riferiscono sempre allo spazio assoluto, che non è
« oggetto di sensazione, ma è una idea fondamen- « tale, la quale rende
possibile tutte le altre. Di « modo che non si può percepire un corpo se non in
« relazioni spaziali con altri corpi ». Più tardi però Kant concepì spazio e
tempo come forme subiettive della visione e dell' intelletto, con le quali noi
mettiamo ordine nei fenomeni e fu in questa stra- nezza seguito dallo
Schopenhauer. Non però dagli altri maggiori pensatori della Germania, non da
Jacóbi, da Schelling, da Hegel, da Herbart, da Beneke, da Schleiermacher, da
Bitter, da Weisse, da Ueberweg, da Wundt, da Hartmann, da Zeller, da
Trendelenburg, da Lazarus) da Dilhring, da Baumann. Il danese Kromann ed altri provarono
che le difficoltà che Kant trovava nello spazio obbiettivo, rimangono anche se
lo spazio fosse meramente subbiettivo. Alcuni matematici, come Riemann,
credettero che, oltre al nostro, vi fosse uno spazio a molte dimensioni. Ma, se
lo spazio avesse più di tre dimensioni (larghezza, lunghezza e profondità),
tutti i corpi varerebbero di massa e di volume. Ogni azione a distanza
ritornerebbe sopra se stessa. La gravitazione sarebbe proporzionale
inversamente del cubo, e non già del quadrato della distanza, come dimostrò A.
Wiessner. Le leggi di gravità stabilite dal genio di Isacco Newton ci provano
che lo spazio a tre dimensioni è il solo reale; giacche la irradiazione degli
atomi si ripartisce sulla periferia interna delle sfere; appunto per il rapporto
inverso del quadrato della distanza. E se lo spazio avesse due sole dimensioni,
si ripartirebbe sulla periferia interna dei circoli. In altre ipotesi la
gravitazione sarebbe in rapporto inverso di ogni altra funzione delle distanze.
— Anche i tre assi perpendicolari dei cristalli ed altre leggi fisiche, ci
provano che lo spazio reale ha tre sole dimensioni. E lo dimostra anche il
chiaris- simo professore Federico Enriquez trattando della Geometria non
Euclidea e non Archimedea nei suoi « Problemi della scienza » Bologna 1905. La
realtà dello spazio assoluto a tre dimensioni, è tanto sicura, che il maggior
fisico del nostro tempo sir W. Thomson (creato poi Lord Kelvin), mostrò che si
deve prenderlo per base di tutte le misure (1). (1) Abbiamo riassunto le
ragioni e le proposte del Thomson nel volume quarto della nostra Nuova Scienza
pa- gina 81 a 84. La realtà del tempo
poi che (come dice Neioton) « fhixus mutari nequit, equabiliter fhlit » è
dimostrata vera da molte leggi. Se non vi fosse un centro immobile
nell'Universo, tutta la meccanica serebbe fallace. Se non fosse reale il Moto
assoluto, addio astronomia. Tutto cangia o di luogo, o di forma, o di qualità,
e nessun cangiamento può av- venire se il tempo non fosse una realtà. Si
potrebbe dubitare della realtà del tempo soltanto se niente si cambiasse. Non
sono inerti spazio e tempo, perchè assoggettano, come sistemi inalterabili di
punti e di istanti, a regole certe i moti, le azioni e le resistenze. Lo spazio
ed il tempo sono così obbiettivi come subiettivi, sono i due Oceani della
possibile espansione di qualsiasi energia. Il fondo eterno non può essere che
uno. Lo implica la interazione delle forze; lo implica il coesistere di un
numero enorme di scopi e di azioni e di moti che si incontrano e lottano fra
loro senza confusione. Se non vi fosse la sistemazione dei punti di spazio e
degli istanti di tempo, sistemazione che è tutta dovuta alla Unità Reale eterna
{Numerorum Fons di Giordano Bruno) discontinuando il tempo e lo spazio, il Moto
che è l'espansione della Energia in questi due Oceani, non avrebbe mai
precisione; anzi non sarebbe possibile. La possibilità dei coesistenti (spazio)
e dei successivi (tempo) rende facile l'azione dei punti di forza. — Spazio e
Tempo esistono per se come sistemi di termini puntuali indivisibili (1) e tra i
termini puntuali ci (lì Una superfìcie è definita lunghezza e larghezza, senza
profondità. Una linea lunghezza, senza larghezza, ne profondità. Un punto, ciò
che manca di larghezza, di sono intervalli infinitesimi, ma non nulli. Se fos-
sero nulli non sarebbe possibile il moto e specialmente il moto curvilineo, die
si calcola col diffe- renziale. Infatti una curva cambia continuamente di
direzione, con grandezze infinitesime, che cre- scono o diminuiscono. Il
differenziale è un valore che limita e non una grandezza numerata. Per variare
la direzione in una curva qualsiasi, vi è bi- sogno di un nuovo impulso, sia
pure infinitesimo, ma non nullo. Possiamo pensare come infiniti lo spazio ed il
tempo, ma lo infinito non è mai una realtà. La loro connessione e tale che
sembrano continui e si trattano come tali; nondimeno i punti dello spazio e
gl'istanti del tempo sono realmente fuori gli uni degli altri e quindi
numerabili, senza tener conto degl' intervalli infinitesimi (1). Ogni punto è
numelunghezza e di profondità. Se i punti, le linee, le superficie non avessero
per limiti dei punti indivisibili, questi limiti sarebbero composti di molte
parti, di cui nessuna sarebbe l' ultima; non vi sarebbe alcuna figura definita,
non vi sarebbe linea lunga e linea corta perchè tutte sarebbero composte di
parti infinite, mentre in realtà la linea corta è quella composta di minor
numero di punti. Ecco la realtà dello spazio: sta nell'essere numerabile. Il
tempo poi è composto di istanti indivisibili, perchè se non si potesse arrivare
alla fine della sua divisione, vi sarebbe un numero infinito di istanti (ossia
di elementi del tempo) contemporaneamente. Locchè è assurdo. Il tempo è fatto
dalla Unità cosmica e intuito dalla nostra Unità intima e non è un concetto
empirico. Senza l'Unità in- tima non riveleremmo il Moto e il cambiamento delle
cose tutte, come lo rilevano anche gli animali, perchè non si confronta se non
vi è l' Uno vivente. Gli istanti sono reali e numerabili e fanno la realtà del
Tempo. (1) Contro questi intervalli Pascal diceva che i punti dello spazio o si
toccano interamente e allora invece di rato, ogni istante del pari, sono tutti
diversi e discernibili, hanno tutti una esistenza separata e permettono di
evitare la confusione nel Cosmo e nella Scienza. Cartesio rinnovò la geometria
cambiando la qualità, ossia la forma dei corpi, in quantità; riducendo la forma
alla posizione e determinando la posizione con le linee coordinate potè
sostituire alla misura diretta la indiretta e trovare le quadrature, le
cubature ecc. Egli applicò l'al- gebra alla geometria, osservando che ogni
spazio chiuso può determinarsi dalla lunghezza delle li- nee perpendicolari
abbassate su due linee rette o su tre piani che si taglino nello stesso punto
ad angolo retto. Così le linee e le superfìcie curve possono determinarsi dalle
loro equazioni, in cui le relazioni variabili sono combinate con quantità
costanti, ed i numeri servono a constatare le proprietà dello spazio. Il che
sarebbe impossibile se lo spazio non fosse realmente composto di punti separati
indivisibili. Inversamente, le proprietà dello spazio, può dirsi che dipendano
dalle proprietà del numero; sicché lo spazio si risolve in un sistema di
numeri, pensato dalla Unità suprema del Cosmo. Galilei scoprendo le leggi d'
inerzia, scoprì an- che la necessità del moto assoluto, almeno nel calcolo, e
quindi del Tempo assoluto. — Kuno Fischer ha dimostrato (contro Trendelenburg)
che il moto è preceduto e spiegato dal tempo e non gedue sono uno: o si toccano
soltanto in parte e allora sono divisibili. E sbagliava, perchè non sono
circoli, ma punti e non hanno parti, ma essendo fuori l'uno dell'altro non si
toccano. L'estensione dello spazio deriva appunto da questo, che non si
toccano.nera né il concetto ne la intuizione pura del Tempo. Nei suoi «
Philosophiae naturalis Principia », 1714, (Def. Vili) Newton scrive: «Eadem est
Buratto seu perseverantia rerum, sive motus sint celeres, sive tardi, sive
nulli ». Il tempo sarebbe il medesimo anche se l' Universo e i suoi, moti
fossero affatto diversi da quelli che sono. È un pensiero della Eagione eterna
di cui Descartes (Lettera a Vatier nov. 1643) scriveva: « Tempus non est
affectio rerum sed modus cogitandi ». Aristotile. Phys. IV. 10 chiama
àpi&iioc, x^viqaeos ossia numero del moto. 11 tempo è eguale da per tutto e
questa sua ubi- quità non permette di prenderlo per una linea, benché sugli
orologi e nelle clessidre lo si misuri sopra una linea. Newton dice che il
tempo è un sistema d' istanti che non dipende dalla nostra coscienza. Ogni fi-
nalità si appoggia sulla idea del tempo, senza la quale niente si farebbe, non
potendo aspettarsi effetto alcuno dalle proprie azioni. La legge d' inerzia
prova che il moto è assoluto come lo spazio ed il tempo. Essa è dimostrata vera
da tutte le esperienze (benché sia impossibile la esperienza fondamentale
perché stiamo in un pianeta del sistema solare e non nel centro universale).
Essa prova la realtà dello spazio e del tempo e la loro uniformità. Che lo
spazio ed il tempo per noi sieno concetti a priori o sieno in- tuizioni, poco
importa. Quello che importa di sa- pere è quello che sono in se stessi. Sono
due sistemi di punti e di istanti separati e discernibili, perchè numerati. La
realtà che hanno è minima, mancando di energia, ma se non vi fosse, si avrebbe
il caos e la indeterminazione. Spinoza diceva: « Quo plus realitatis aut Esse
unaquaeque res habet, eo plura attributa ei competunt » e questi due sistemi di
punti e d'istanti non hanno altro attributo che l'ordine, il mimerò, la realtà
dell' Essere puro, del Numero. Lo esigono la Meccanica, l' Astronomia e tutte
le scienze esatte. Al principio delle cose non vi poteva mai essere (come
supposero parecchi Metafìsici, ed anche YArdigò) Vessere indeterminato. Come
prova il grande matematico Cantor, lo spazio ed il tempo sono due oceani di
punti e di istanti nei quali anzitutto si estrinseca l'Essere Uno Reale. Il
Numero è così alla genesi di ogni possibile energia. Pitagora, dando al Mondo
il nome di xoajjto? (ossia ordine) comprese che il generatore dell'ordine era
il Numero. E Leibnitz scrisse che « omnibus ex nihilo ducendis sufficit unum ».
La seconda estrinsecazione dell' Essere Primo (Atomi eterei e ponderali) Come
non sono continui lo spazio ed il tempo, così non è continua la Materia (come
crede Ardigò)1 e se lo fosse, non opporrebbe resistenza, come dimostrarono
Poisson e Cauchy. La forma sferica non basterebbe all'equilibrio di un corpo di
materia continua; una siffatta materia si dissi- perebbe nello spazio: sarebbe
una specie di atmosfera diffusa allo infinito, con strati concentrici, sempre
più rarefatti. Parti di numero indeterminato, mai non potrebbero fare un tutto
di numero determinato, come dimostrò fin dal 1844 Saint-Venant. Nella « Révue
du mois » 1906, Jean Perrin provò la discontinuità della materia con la
radioattività e con altri fatti. Ciò che è sostanziale non può concepirsi come
indeterminato o indefinito, quindi l' indistinto di Ardigò è un concetto
inapplicabile in fìsica. Tutte le leggi fisiche e chi- miche ci provano
concordi che gli atomi serbano sempre proporzioni definite nello scambiare le
loro forze (attrazione, calorici specifici, equivalenti elettrici e chimici,
ecc.). Il Secchi (« Unità nelle forze fìsiche » ) fa os- servare che teoricamente
l'equivalente definito e multiplo esige che la materia sia composta di centri
distinti e semplici. Questo lo aveva già in- tuito Pitagora, quando distinse
nettamente il nu- merato o numero concettuale dalla Unità Reale o sostanziale:
e fu svolto il suo pensiero da Ecfante di Siracusa, il quale mostrò che le
Unità reali erano Atomi, intendendoli come unità immateriali, esistenti a se,
come punti di energia propria se- movente, prevenendo così le obbiezioni degli
Eleatici contro la possibilità del moto. Spazio e tempo sono le condizioni
numeriche nelle quali ci si presentano la materia e il moto nelle esperienze di
forza, mentre l'energia atomica, come vedremo, sente e vuole e fa il moto
opponendo alle forze incidenti la forza propria della impenetrabilità. L'
Essere atomico non si lascia annichilire. Il dire che persiste la forza, la
volontà, ossia una attività, una realtà indeterminata, è vago e per nulla
scientifico, se non si dice che è la medesima in quantità. Bisogna dire che
quello che persiste è Vertergià, la Unità Reale. Il carattere distintivo della
scienza italica fu di eliminare l'in- determinato, e di cercare il concreto
misurabile. Il Moto non è altro che un rapporto di spazio e di tempo e non ha
esistenza in se stesso. La realtà sta nell' Atomo senziente e volente. Lo
ammise il Taine nel 1892 e lo aveva, dodici anni prima, ammesso anche Herbert
Spencer scrivendo nella Revue Philosophique de la France « La forza « cosmica
non può somigliare alla nostra: ma sic- « come la genera, devono essere modi
diversi della « stessa energia. Il potere manifestato in tutte le « cose è alla
fine quello che in noi scaturisce sotto «forma di coscienza. La materia vive in
ogni « Atomo per se stessa. Questo centro, questa Unità « interiore di tutte le
cose e inaccessibile alla nostra « coscienza: le scienze studiano i loro
fenomeni « e non la realtà conscia che li fa. Ma siccome « noi dobbiamo sempre
pensare la manifestazione « esterna nei termini della Energia intima, così, «
(conclude l'eminente filosofo inglese) si arriva « ad un concetto psichico
degli Àtomi ». Quando si dice che gli atomi sentono un tantino, è inutile
spiegare che non si parla dei nostri sensi, che sono frutto di lunghissima
evoluzione, nella quale gradualmente si sono accmnunati il sentire ed il volere
di milioni di Atomi, dividendosi il la- voro fisiologico, e formando così
organi perfezionati. Ma si intende che gli Atomi debbano avere il solo senso
dinamico (o della forza fondamentale che tende a formare più alta unità).
Infatti la coe- sione è universale e non è mai un moto, ne fatta da moti
esterni. E se viene disturbata, fa il moto termico o calorico e la elettricità
dinamica. In al- — 32 — tre parole si parla di quella sensazione primitiva
minima dell' Èssere in se, dalla quale derivano tutte le altre più complicate e
più raffinate della chimica e della biologia. Quando la violenza del verito fa
accavallare le onde del mare, un buon Capitano (come ce lo de- scrive
l'ammiraglio francese Cloué) fa portare in- torno i sacchi di telaforte, pieni
di stoppa imbevuta di olio di pesce, di foche o di marsuini, fa forare con aghi
da vele i sacchi, legandoli alla poppa o alla prora, non mai più vicini di
dieci metri fra loro. Ogni ora escono da tutti i sacchi da due a tre litri di
olio, formando quasi una strada piana, larga 50 a 80 metri, che manda lembi di
olio fino a 400 o 500 metri ai due lati della nave. Questa pellicola di olio
che si diffonde sul mare e calma le onde furiose, non può mai essere piegata
dal vento, per quanto sia veemente. Eppure questa pellicola ha lo spessore di i
/QQ, 0QQ di millimetro (poco più delle bolle di acqua saponata), e basta a far
cambiare la direzione alle molecole dell'acqua che arrivano con impeto. E
perchè? Unicamente per la forza di coesione delle minime molecole dell'olio. Il
Cloué ha avuto più di duecento rapporti concludenti da varie società di
salvataggio, da molti capitani di lungo corso, che attra- versano
periodicamente 1' Oceano Atlantico. La coesione è dunque una gran forza, se in
una pellicola poco più grossa della bolla di sapone può arrestare i marosi in
burrasca ! ! Ed è una forza indipendente da qualsiasi altra, che non deriva da
cause meccaniche, ma unicamente dalla sensazione dinamica, dal piacere di
unirsi delle molecole di olio. L'atomo di una goccia di acqua non vede, non
ode, non ha ne palato, ne olfatto, ne udito, né vista, ne tatto; ma ha bensì il
senso rudimentale, dal quale (con lunga evoluzione) uscì il tatto chi- mico e
quello delle cellule degli organismi inferiori. E quando milioni di atomi fanno
la goccia di acqua senza esserci costretti da alcun moto, da nessuna pressione
di etere (come fu constatato), la fanno godendo, altrimenti non la farebbero.
Il maggior neocritico tedesco, il Wundt, con- cepiva gli atomi come volontà
elementari, come es- seri attivi che sentono (benché più semplicemente di noi):
e li aveva concepiti così anche Antonio Rosmini, come si vedrà nel terzo
Volume. Materia inerte non esiste che in apparenza. « Instar arcus tensi, qui
non indigent stimulo alieno, sed sola suòlatione impedimenti» diceva Leibnitz.
La Materia è un Concetto vuoto di una cosa che la Scolastica credeva
sostanziale, che non ha qualità propria, ma si supponeva servisse di base alle
forze, le quali sarebbero state (secondo gli scolastici) meri accidenti: mentre
sono le vere realtà. La Materia (dice Righi) ha per proprietà distintiva
Vinerzia; e gli elettroni (o atomi veri), benché non sieno materiali, perchè le
loro masse crescono colla velocità (Moderna Teoria dei fenomeni fisici, 1907,
pag. 234), la mostrano in molti casi, quando stanno fermi, come punti di forza
disposti simmetricamente intorno ad un centro positivo; ma in moltissimi casi
non la mostrano, cambiando il modo di sentire e di volere. La cosa reale non
può essere che un sistema di punti di energia senziente. Anche nell'urto
meccanico, il corpo urtato si muove per una intiina reazione, ossia perchè le
molecole ritornano al posto in cui trovavano la coesione gradita. Nessuno
misura la Materia se non come peso, massa o volume: di cui i primi due si
risolvono in forze e il terzo in spazio occupato dalle forze. Gli atomi sono
punti, ma fanno la massa e la densità, perchè vi è fra loro dello spazio, anche
nei liquidi e nei solidi: ciascuno esiste in sé, e persistendo in relazioni
diverse, si sviluppa in molteplice. La causa del moto è sempre intima, nella
sensazione delle forze. Gli atomi veri che il prof. Stones ha chiamato
Elettroni, non sono estesi, perchè, se fossero estesi, sarebbero divisibili: ma
sono punti di energia, che irradiano nell'Etere il quale è pure discontinuo e
(secondo Helm e Vogt) darebbe origine agli Elettroni. Invece di Materia, si
dica dunque Corpo, vale a dire complesso di energie: e si lasci la Materia alla
scienza morta di Aristotile e degli scolastici medioevali e moderni. L' Energia
di qualsiasi specie si trasforma con- servando il suo valore numerico: ogni
Energia è potenziale rispetto a quella in cui si trasforma. L'Energia è sempre
misurabile ed è l'unica che ci interessa. Si compra la materia come la-
boratorio di energia. L'Elettrica ha un valore commerciale, dunque è
realissima, benché la parte materiale degli impianti elettrici non si alteri,
né diminuisca col consumo. Sembra che il calore sia energia cinetica, ma non si
può trovare la sua potenziale, se non è nel disturbo della coesione, che è un
modo di avvicinarsi godendo l'armonia. Nessuno sa se la Elettricità sia energia
cinetica oppure Energia potenziale: non è fatta dal movimento dagli atomi
complessi di Thomson, ma soltanto dal moto degli Elettroni. Questi sono punti
di forza senza nucleo materiale, senza caput mor- tuum che li porti, come la
terra va attorno al sole senza essere portata dall'Elefante o dalla tartaruga
degli Indiani. « Omnis Ens, aut in se, aut in alio est » diceva Spinoza e gli
Atomi sono in se, elementi psichici che non si lasciano distruggere e se
disturbati reagiscono. Lotze osserva che la reazione non è mai simile
all'azione, ne Veffetto somiglia alla causa, almeno nella qualità. Chi è
colpito si difende in modo diverso (Microcosmos I 165 a 168). E Lasson filosofo
di non minor valore del Lotze, aggiunge: « Non esistono cose meramente
oggettive, passive, esterne». Una energia reale (osserva Guyau) deve avere un
modo interno di essere: un appetito, una sensazione rudimentale. Così pensarono
eminenti fisici (oltre ai filosofi), quali furono: G. Bruno, Leibnitz, Kant,
Boscowich, Maupertius, Cauchy, Moigno, Ampère, Faraday, Tyndall, Zóllner,
Fechner, Wundt, Haeckel, Delboeuf, Cournot, Cope, Vacherot, Fouillée, Preyer,
Ostwald, Mach (1). Nella sua « Mechanik in ihrer Entwickelung » ossia « La
meccanica nel suo sviluppo, il Mach scriveva che « La mitologia Meccanica è
sbagliata. (1) Il Marchesini e gli altri discepoli di Ardigò credono che gli
Atomi siano materiali e si affannano a combattere la falange dei, veri
pensatori di cui qui abbiamo dato alcuni nomi. E giusto però osservare che
hanno male inteso Ardigò, il quale scrisse che « la Materia è Pensiero ».
S'intende non dei sassi, né dell'uomo, ma della Sostanza Psicofìsica, di quella
divinità inconscia dello Schelling ch'egli chiamò V Indistinto. - 36 - « La
nostra fame non è molto diversa dal bisogno « di combinarsi delle molecole. La
nostra Volontà « non è molto diversa dalla pressione del tetto « sulle pareti
di una casa ». E Kromann, filosofo di Copenhagen (Unsere Natur Erkentniss)
osserva: « se l'Atomo fosse ma- « teriale, non opererebbe se non nel posto ove
si « trova, non irradierebbe energia termica o elet- « trica; anzi non si
continuerebbe il moto dopo « V urto, se non per alcuni istanti, e andrebbe «
estinguendosi per l'attrito. Avviene l'opposto: « dunque l'Atomo è Energia
psichica ». Il considerare la Fisica come una estensione della Meccanica va
bene fino ad un certo punto, per la comodità dello studio esteriore, ma la
filo- sofia non è limitata dagli orizzonti della Materia estesa e cerca la
realtà intima che fa le forze originali. Bisogna evitare di fare della
scolastica positivista una Metafisica di Materia, di Forza, di Massa, di Moto,
di finzioni logiche, che si pigliano per reali quanto più sono lontane dalla
realtà, mentre sono meri simboli, meri concetti astratti. I fatti reali di
coesione, di solidarietà dell'etere e dell'aria, senza la quale non vedremmo la
luce, non ci arriverebbero ne luce, ne suoni, ci con- vincono che sotto le
astrazioni della scolastica materialista, ci sono le realtà psichiche indivi- duali
minime. L'Etere cosmico forma un tutto solidale ed elastico, è quindi composto
di tanti punti di forza che reagiscono. Quando questi punti di forza si
scindono in due elettricità, l'una positiva al centro e l'altra, composta di
elettroni negativi, alla periferia, fanno gli atomi ponderali, che tendono ad
unirsi, se vicini, con la coesione, e se lontani colla gravitazione, in ragione
inversa del quadrato della distanza. L'etere è il mezzo che porta
istantaneamente l'attrazione da un punto al- l'altro, per quanto sia lontano,
Coesione e gravitazione, ossia le forze attrattive, ci indicano che la prima
tendenza intima degli atomi è quella di formare più alta unità (1) anzi ce lo
indica già la costituzione degli atomi sferici in due specie di elettricità, il
cui centro è positivo e la periferia è negativa, ossia composta di elettroni
negativi (2). La massa è il numero degli atomi di un corpo, il peso è invece
relativo al corpo celeste sul quale si sta; cosicché un corpo pesante un
chilogramma sulla Terra, peserebbe sul Sole 28 chili, su Marte 4 /2 chilo,
sulla Luna 37 centigrammi. Ma il platino pesa 80 volte il sughero di egual
volume in qualunque posto si trovi. Le prime forze dunque sono di elettricità
statica. Quando questa è disturbata, ne segue un moto disordinato e dispersivo
che si dice calorico e sembra spiacevole, perchè appunto è disordinato e ogni
corpo cerca di rigettarlo sui vicini e si di- sperde. Questa è la seconda forza
fondamentale della Natura. Ed è sempre un eccitamento a ri- (1) Ben inteso che
l'attrazione o coesione incomincia a una distanza minima sì ma non quasi nulla,
perchè quel punto che si dice atomo non può essere annichilito. (2) Nella
nostra Nuova Scienza abbiamo lungamente mostrato che i tentativi di Lesage,
Secchi, Isenkrahe ed altri di spiegare la coesione e la gravitazione per pres-
sione dell'Etere, erano falliti; e di questa opinione sono tutti i maggiori
fisici, fra cui l'eminente prof. Augusto Righi. tornare all'armonia facendo la
elettricità dinamica, ossia quelle correnti che divennero nella moderna
industria mezzi di grande efficacia. Già nei vecchi esperimenti di Siebeck e di
Nobili il calorico si trasformava in elettrico contrasto. Che dal calo- rico
(moto disordinato) gli atomi appena lo possono, passino all' elettricità ed al
magnetismo (moti ordinati e piacevoli), venne recentemente dimostrato dai
professori Ettingshausen e Nernst, mettendo in un campo magnetico una piastra
di bismuto, perpendicolarmente alle linee di forza: poi riscaldando la piastra
da una parte, si vede dall'altra parte sorgere una corrente galvanica. Una data
quantità di energia termica è sempre equivalente ad una determinata quantità di
ener- gia elettrica (2) qualunque sia la sua temperatura; si ottiene sempre lo
stesso valore trasformando una nell'altra. L' Elettricità che non si manifesta
in tensione (statica) si manifesta in corrente (di- namica) o in rotazione
(magnetica) o irradiando e vibrando. Le proprietà di isolare o di condurre la
elettricità dipendono dall'aggregazione molecolare, p. es. il Carbonio nel
diamante isola, nella grafite conduce; i corpi a molecole bene orientate si
elettrizzano bene scaldandosi poco (come l'ambra, la ceralacca, il vetro); ma i
metalli composti di atomi neutri, avendo le molecole male (1) Avendo Carnot
provato che il calorico non si con- verte in lavoro meccanico se non quando
passa dai corpi caldi ai freddi, Thomson ne dedusse che una parte sempre
maggiore della Energia convertita in calorico si disperde nel cielo e il lavoro
scema: così alcuni credono che l'ener- gia dopo molti milioni di secoli si
estinguerà; ma questo sarebbe già raggiunto (se fosse vero), perchè l'Universo
non ha avuto principio nella sua energia potenziale. — 39 — orientate, si
lasciano molto riscaldare con lo sfre- gamento senza elettrizzarsi, sono
elettropositivi, e si possono jonizzare con poca energia. Un corpo carico di
elettrico, sebbene isolato, produce nei vicini uno stato elettrico di specie
opposta (negativa o positiva) in ragione inversa della distanza. Con una
macchina di induzione si elettrizzano migliaia di cilindri di latta. La
elettricità è un contrasto di correnti bipartite e non si ricompone se non
allora che la positiva è posta in contatto improvviso colla negativa. Niente
passa dal corpo inducente al corpo indotto; ma gli atomi di questo assumono la
corrente, senza che l'e- tere frapposto si elettrizzi ne si polarizzi - e
questo ci prova che non è l'etere che fa la elettricità. La fisica nuovissima
fa oggi sugli elettroni ossia sugli atomi elettrici ricerche perseveranti.
Studiando la conduttibilità della Elettricità attraverso i li- quidi ed i gas,
si vide che era costituita da Elettroni, ossia da Atomi elettrici, rispetto ai
quali le cariche sono multiple, come numeri interi di atomi elettrici.
Helmholtz l'aveva intuito e Lorentz lo dimostrò. Lodge e Righi trovarono che
l'Etere è elettri- cità di forza minima ed il principio di ogni materia, ha una
massa ed una forza viva, che dal punto centrale dell' Atomo fa i vortici
elettrici, l'atomo vorti- coso di sir William Thomson (lord Kelvin) il quale
conteggiò il numero degli Atomi minimi (Elettroni). Gli Elettroni sono emessi
con enorme velocità dal catodo, nei tubi a vuoto (raggi catodici) e dal radio
(raggi beta). Questi risultano da cariche elettriche in moto rapido assai e
sono deviati dalle calamite (1). fi) Kauffmann: La costituzione dell'Elettrone,
1906. - Annalen der Physik. Il prof. Abraham di Gottinga nel 1902 ha cal-
colato la massa apparente dell'Elettrone per le diverse velocità, supponendo
che abbia causa elet- tromagnetica e che l'Elettrone sia sferico e rigido.
Kauffmann confermò che non vi è nocciuolo materiale nell'Elettrone. Un magnete,
ossia una pietra di ferro sulla quale si scaricò probabilmente il fulmine e
nella quale le due elettricità restano separate ed in contrasto continuo,
attrae il ferro, come tutti sanno. Il magnete non attrae cei*to per la
pressione dell'etere, che si esercita su tutti i corpi. Dopo il ferro, il nikel
e il cobalto sono i metalli più magnetizzabili: un pezzo di acciaio che subisca
un forte sfregamento con un magnete, diventa un magnete e serve a fare altri
magneti. I gas e le materie contenute nelle fiamme sono magnetizzabili e di-
vidono le fiamme in due corni. Jonizzare vuol dire separare da un atomo neutro
alcuni suoi elettroni negativi: e si fa facilmente nei metalli, composti di
atomi neutri. Si jonizza sia col gran calore, sia con urti violenti che scal-
dano molto, sia coi raggi catodici, di Rontgen o di Becquerel. Un filo
arroventato jonizza il gas che lo tocca, ed i gas delle fiamme sono tutti for-
temente jonizzati e ridotti ai più semplici elementi Uberi. Le scariche
elettriche sono fatte dai joni dei gas, urtati violentemente, scomposti in
elet- troni negativi. La luce deriva da vibrazioni elettriche trasversali e
perpendicolari ai raggi da destra e da si- nistra. Se la destrogira o la
levogira ritarda, non danno più una riga sola nello spettro, ma due. I raggi
scoperti nel 1895 da Rontgen che partono dai catodi ossia dai poli negativi in
sfere di gas rarefatti, hanno onde quindici volte più corte di quelle della
luce del sole, e non si vedono, ma fotografano e non si rifrangono, non sono
carichi di elettricità come i raggi catodici; ma fanno sor- gere l'elettricità
nei corpi conduttori. I raggi scoperti da Becquerel nel 1897 non partono da
sfere di gas rarefatti, ma da corpi estratti dalla pecliblenda (q sono i
seguenti: radio, uranio, torio, bario, attimo) vengono emessi anche nel vuoto
ed a temperatura glaciale e sono di tre specie: alfa, beta e gamma. Gli alfa
sono fatti da joni positivi e deviabili e jonizzano i gas che urtano. I beta
più forti anche nel fotografare, si comportano come raggi catodici e deviano in
senso opposto agli alfa. I gamma sono più veloci e più penetranti degli alfa e
dei beta. Trasformano l'ossigeno in ozono, il fosforo bruno in rosso. Non
derivano da scomposizione chimica, ma da emissione di elettroni. Arrestano le
scintille di, una fortissima macchina elettrica, perchè egualizzano le elettri-
cità accumulate, e le scaricano da se. I raggi Rontgen sono esplosioni
elettriche (materia radiante di Crookes, il quarto stato di Faraday) e
scompongono gli atomi dei gas nei loro Elettroni negativi. Traversano i corpi
opachi, fanno vedere le ossa e le palle di fucile rimaste nelle ferite. I raggi
Becquerel dei corpi radio attivi permettono di scoprire in un miscuglio di gas
elementi in proporzioni assai più piccole di quelli indicati dallo
spettroscopio. Intorno agli Elettroni negativi l'Etere è teso in lunghezza e
premuto dalle parti trasversalmente. Le linee di forza magnetica sono cerchi
perpendicolari alla trajettoria centrale. Una corrente elet- trica è un flusso
di Elettroni negativi equidistanti: se il moto non è uniforme si ha Vinduzione,
come dice Righi - (La moderna teoria dei fenomeni fi- sici, 1907, Bologna, p.
257). Le aurore boreali e le corone dipendono dal magnetizzarsi della luce. La
efficacia della elet- tricità e del magnetismo diminuisce col quadrato della
distanza. Scaricando una corrente elettrica sopra un disco di vetro, la
positiva fa raggi diritti, mentre la negativa fa delle ramificazioni si- mili
alla radice di una pianta. R. Hertz trovò che l'elettricità si propaga con onde
dell'Etere cosmico che nel suo oscillatore erano ridotte a 6 centimetri, ma
colle bottiglie di Leyda superano 300 metri e nelle macchine dei telegrafi
senza fili arrivano a 7000 dalla stazione di Coltano. — Le onde di Hertz
dipendono da esplosioni per urto (1). La elettrolisi è la scomposizione in joni
degli elementi delle molecole: p. es. il sale di cucina sotto l'azione di una
pila e di due elettrodi, si di- vide in joni di Jodio positivi che vanno al
polo negativo, o Catodo, e in joni di Cloro, negativi, che vanno al polo
positivo o Ànodo. E l'acqua si scompone in ossigeno, che va al polo positivo, o
Anodo, ed in idrogeno, che va al polo negativo o Catodo. Sulla elettrolisi si
fondano gli accumulatori, o casse cariche di elettricità, ottenuta separando il
(1) Le scariche oscillanti, come quelle fatte negli Oscillatori di Marconi sono
prodotte da molti alternati passaggi, da una serie rapida di flussi che,
urtando violente- mente l'Etere, vi fanno delle onde concentriche assai lunghe.
Il ricevitore o coherer alternando lo stato magnetico permette di far segnali.
piombo dall'ossido di piombo (che si adoperano per muovere i tram elettrici).
La genesi degli elementi ossia delle varie specie di Atomi fu studiata dal
Crookes in Inghilterra, dal Mendelejew in Russia e da altri (1). Dalla in-
focata nebulosa, per la irradiazione del calorico, e l'abbassarsi della temperatura,
si formarono dapprima i 14 elementi leggeri (2) e poi, per successivi
raffreddamenti, anche gli elementi pesanti fino all'Uranio che pesa 240 volte
l'Idrogeno. Ogni elemento leggero diventò capolista di un gruppo, per
successive differenziazioni e complicazioni. — Raffreddandosi le stelle, la
elettricità ci va for- mando nuovi elementi e si complica la loro strut- tura.
Così nelle stelle bianche non vi è che Idrogeno, e poco Magnesio. Nelle stelle
gialle, come il sole, vi sono i metalli: ma non ancora i metalloidi. Nelle
stelle rosse che si raffreddano poi, come Ercole, ci sono metalloidi, e i
metalli sono (1) Tutti sanno che la piccolezza delle molecole è estrema. Gli
Elettroni non sono che punti di forza. Si può assottigliare l'oro in lamine di
cinque milionesimi di millimetro. Certi infusori provvisti di organi hanno un
diametro minore di un millesimo di millimetro. (2) Idrogeno, Litio, G-lucinio,
Boro, Carbonio, Azoto, Ossigeno, Fluoro, lodo, Magnesio, Alluminio, Silicio,
Fosforo, Solfo disposti in due serie: la elettrizzata positivamente e la
elettrizzata negativamente, ciascuna di 7 ele- menti. (Per gli elementi
seguenti vedi Wendt, Evolution der Elemente, 1891, Berlino). L'analisi
spettrale datante linee quanti sono gli elementi che compongono i corpi incandescenti.
Nei laboratorii chimici è difficile superare 2.400 gradi centigradi, tuttavia
gli atomi di idrogeno vibrano del pari nelle stelle, nel sole, nelle nebulose o
in un tubo di Geissler riscaldato, perchè danno lo stesso spettro. tutti
combinati. Ma ad altissima temperatura gli elementi si dissociano, perchè gli
Elementi non sono gli Elettroni o Atomi veri, ma sono atomi composti vorticosi,
che Thomson mostrò essere circolari, non tagliabili che vibrano quando sono
urtati. Dissociando gli elementi, diventano radioattivi, come dicemmo sopra, e
la dissociazione può arri- vare a tale energia che, col disgregare un soldo di
rame, si avrebbe forza bastante per far muovere un treno di centinaia di
quintali. Il prof. Ramsay vide il radio trasformarsi con- tinuamente in elio.
Le cinque leggi principali della fìsica pura mostrano la Unità ideale e reale
di azione e sono: Inerzia, Indipendenza delle Forze, Eguaglianza fra Azione e
Reazione, Conservazione della Materia e Conservazione della Forza potenziale
(non della manifestata). Del resto il principio di conservazione della Energia,
ha valore per i fatti osservati; ma è inesatto l'applicarlo agli altri. Tutti i
fatti meccanici, sono nello stesso tempo fatti elettrici o chimici. La
meccanica ne coglie un solo aspetto: risolvere il mondo in figure è una
mitologia. Le forze interne sono le essenziali, sono psichiche. Il nostro
Giambattista Vico diceva che il conato o virtus movendi è fatto dall'appetito,
dal desiderio. Del resto tutte le spiegazioni meccaniche, quando escono dal
problema dei tre corpi, ossia cercano di determinare le variabili che
preponderano, di tro- vare le relazioni funzionali tra loro, per predire lo
stato futuro di un sistema di corpi, non danno mai la certezza e sono soltanto
approssimative. Se si considerano sistemi isolati come conservativi, vi s'
introducono delle variabili, riguardandoli 45 come porzioni di un sistema
conservativo più ampio: ma gli attriti, le viscosità e le complicazioni dei
moti di altri corpi, e sopratutto le rotazioni, rendono la soluzione
impossibile: come ben dice E. Picard (La mécanique classique, 1906). Laplace,
invece di supporre che l' impulso fosse proporzionale alla velocità, ritenne
che fosse una funzione della velocità e variasse con la velocità, come si è
trovato poi per gli Elettroni, le cui masse crescono con la velocità, per cui
non sono materiali. Così bisogna abbandonare le equazioni differenziali e
cercare le equazioni funzionali, se si vuol prevedere l'avvenire di un sistema
di corpi. I corpi non sistemati o che sono in moto lento, sono soggetti a
cambiare direzione e velocità, se vengono urtati. Non è l'urto, ne la pressione
che si converte in calore: bensì l'urto eccita le forze- interne a difendersi
con moto rapido irregolare che dilata e si disperde. Se si urtano due palle
lanciate una contro l'altra, le forze che risultano sono momenti eguali, ma
opposti: così che entra nel corpo urtato la sola differenza. II moto che segue
all'urto non avviene mica per una infusione di moto come suppongono gl'ingenui:
ma esso si verifica sempre per la solidale elasticità delle molecole, che
ritornano al loro stato abituale di coesione, come ha dimostrato fin dal 1887
Todhunier (nella sua bella Theory of Elasticity). Fin qui abbiamo considerato
la Materia nel minimo, ossia nei suoi Atomi eterei e ponderali, cercando (per
quanto era possibile) le sue forze intime. Se ora la consideriamo nel massimo,
dobbiamo riconoscere che l'Universo non può essere infinito, come è sempre
ripetuto nella filosofia del prof. Ardigòy ne in massa, ne in energia
potenziale, perchè allora, come ha provato l'astronomo Olbers, il centro di
gravità sarebbe in ogni punto del mondo e la meccanica e l'astronomia se ne
andrebbero a rotoli: ed anche perchè, come notava Angelo Secchi (Le stelle,
pag. 334 a 336) se il mondo fosse infinito e popolato di infinite stelle, la
vòlta celeste ci comparirebbe lucida come il sole in tutta la sua estensione.
Chi avesse occhi sarebbe subito accecato, ma nessun occhio avrebbe potuto nem-
meno formarsi. Zollner credeva che l'Universo finito evaporerebbe nello spazio:
ma questo è impossibile, perche, alla temperatura di 270 gradi sotto zero, (che
è quella della Via Lattea) e tanto meno ai freddi maggiori delle regioni più
lontane della Via Lattea, nessun corpo può svaporare. Le forze della Materia
sono anzitutto attrattive, e di queste parleremo nel seguente Capitolo. Le
ripulsive sono quelle della impenetrabilità, del calorico, dell'elettricità che
abbia eguale dire- zione e le esplosive dei composti chimici in cui entri l'azoto
e delle cariche elettriche. Derivano dal disturbo del godimento che è
caratteristico delle forze attrattive. La solidarietà degli Atomi in generale
Coi principii delle scienze fìsiche insegnati da Cartesio in poi, non si è
riusciti mai a spiegare l'attrazione e la coesione, che tengono insieme tutti i
corpi e sono le prime forze iniziali (1). Quanto tendano a stare insieme gli
Atomi Eterei lo prova la flessibilità ed elasticità dell'Etere. Quanto tendano
a stare congiunti gli Atomi ponderali, ognuno lo vede nelle goccie di acqua,
nelle colle, nei cementi, nei marmi, nei legni duri, nei corami, nelle corde di
canapa, nei diamanti,. in molti metalli e specialmente nei fili di ferro: anzi
in tutti i corpi liquidi o solidi compreso il proprio. Al di là di una piccola
frazione di millimetro, la coesione diminuisce e si estingue e su- bentra
l'attrazione in ragione inversa del quadrato della distanza, perchè gli Atomi
irradiano sopra superfìcie tanto più grandi quanto più sono lontane. Newton e
Faraday hanno intavolato bene il problema dell'Attrazione Universale. Ma gli
Empirici,, ed anche il gesuita padre Secchi (che non era punto filosofo, e
credeva come tutti i Tomisti, nel Motore immobile divino) lo hanno oscurato.
(1) L'amore degli animali e anche dell'uomo è la su- blimazione di quella
tendenza fondamentale che tiene as- sieme tutti i corpi del mondo. — 48 —
Newton per un quarto di secolo ci meditò so- pra (1) e stabilì due punti vale a
dire che l'agente della gravitazione non può essere meccanico (nella Prefazione
ai suoi Principii 1713), e che l'agente immateriale muove. Dunque è la unità
energica psichica degli Atomi ponderali, che trasmette per l'Etere la tendenza
a congiungersi. Quando questa calma, istantanea irradiazione arriva ad altri
Atomi ponderali è sentita, ed avviene la attrazione reciproca. Faraday
commentando (nel Philosophical Magazine, 1884, pag. 143 del Volume XXIV),
scriveva « Nella gravitazione la forza va per l' Etere alle « maggiori
distanze, partendo dai punti Atomi di « Boscovich. Ogni Atomo irradia dal suo
centro a « tutto il sistema solare ». Newton non ammise che la gravitazione
fosse dovuta ad una causa immateriale (che sarebbe la psichica Unità reale
degli Atomi) perchè come fi- sico diceva « hypothesis non fìngo » ma non lo escluse
e lo lasciò pensare al lettore. Egli vide bene fin dal principio e concluse
definitivamente nel 1681 che ogni teoria meccanica sulla gravità non si può
sostenere mai, perchè non si propaga, non si al- tera, non devia per
l'interporsi di qualsiasi so- (1) Newton studiò la ipotetica pressione dell'
Etere per spiegare la gravitazione fin dal 1675, e ne scrisse una Memoria che
lesse alla Royal Society. Ma nel 1686 di- chiarò in una Lettera ad Halley che
tale ipotesi non aveva il minimo fondamento. Sfortunatamente per loro e per la
scienza fìsica alcuni Empirici ed anche il padre Secchi nei due ultimi secoli
perdettero il tempo nel tentare di scoprire come V Etere facesse tale
pressione, che già il genio di Newton, dopo maturo esame, aveva trovata
impossibile. — stanza gazosa, liquida o solida, non prende mai la direzione di
una risultante, non si rinette, non si rifrange, non si trasforma come la luce,
non può essere un moto, ne derivare da un moto, è istantanea. I tentativi di
Lesage, di Schramm e di Secchi di far derivare la coesione e la gravità dal
flusso e dalla pressione dell'Etere, per quanto ingegnosi, rimasero così
imbrogliati da difficoltà enormi che non persuasero alcun filosofo. Arago in
Francia, Maxwell in Inghilterra ed altri grandi fisici li dimostrarono inani.
Clerk Maxwell ne enumerò così gli assurdi: 1. — Eichiedono un punto motore che
agisca fuori e al di là dell'Universo. Esigono che la materia sia ora creata ed
ora annullata, giacche ora la forza è esaurita ed ora acquista una enorme velocità.
3. — Riducono la gravità, che è forza perenne in- distruttibile, ad un semplice
effetto di di- verse forze che ci sono ignote. Implicano la esistenza di
capitali strabocchevoli di energia nell' Etere, capitali che nes- suno ci ha
trovati. 5. — Se fossero vere, farebbero andare in frantumi varie volte al
giorno tutti i sistemi solari. II padre Secchi altro non fece che generalizzare
per isbaglio un caso speciale di Poinsot (N. Scienza,. IV voi., 282 e seg.)
(1). (1) È molto deplorevole che alcuni giovani, unicamente^ mossi dall'orrore
per la psiche e per ogni interiorità (senza- badare che essi sentono, vogliono
e pensano) e volendo spie- gare tutto il mondo con la esteriorità, ossia
meccanicamente, sprechino oggi il loro ingegno nel cercare a quali squili-
Newton (nell' Ottica) dichiarò assurdo che la gra- vitazione fosse proprietà
dovuta a moto di materia. Il suo concetto si trova nei Principia (alla fine del
libro) dove suppone che la forza psichica degli atomi faccia la gravità;
benché, come dice- vamo or ora, seguisse la regola del suo tempo, fondata sul
pregiudizio di Cartesio che la Materia nulla avesse di psichico, che « in
Philosophia experimentali hypotheses locum non habent » „ — Egli veramente non
arrivava fino a supporre che gli atomi avessero un germe di sensazione, ma cre-
deva in uno spirito pervadente gli atomi, e lasciò (come Cartesio) la materia
inerte passiva, mossa dallo spirito divino. Fu Voltaire che presentò alla
Francia il Newton della gravitazione universale, considerata come una brìi
dell'etere possano attribuirsi la coesione e la gravita- zione; dando prova
unicamente della insolubilità del pro- blema. Fra questi va notato l'egregio
ingegnere M. Barbèra nel suo libro «L'Etere e la materia ponderale» uscito a
Torino sulla fine del 1902, nel quale, in meno di 140 pa- gine fa 1400 ipotesi:
ma nella Prefazione del quale egli ha però il buon senso di confessare che il
meccanismo di ogni fenomeno fisico « rimane affatto misterioso, e che i
risultati della ricerca di esso sono quasi sempre concezioni stranissime ed
assurde, ma spera nondimeno che non sieno dannose ». Dal momento cbe fu
riconosciuto da eminenti fisici, fra cui in Italia da Righi ed altri, cbe gli
Elettroni (elementi degli Atomi) non hanno nucleo materiale, sarebbe meglio fare
a meno di scervellarsi per restare materialisti, limi- tandosi a dire: « Sic
volo, sic jubeo: sit prò ratione vo- luntas ». Se non è assurdo cbe io, cbe
sono composto di Atomi, senta, non sarà assurdo cbe un atomo abbia un germe di
sensazione gradita, nella Coesione. proprietà della Materia, e divulgò quello
che Newton dichiarò assurdo, vale a dire che la materia agisse dove non era. Ma
Voltaire non era che un letterato. Nella evoluzione fìsica in grandi masse,
come nella evoluzione chimica in piccole masse, più o meno lentamente, le parti
si rendono solidali nella sensazione rudimentale dinamica (o della forza):
perciò tutti i corpi (siano allo stato gasoso, liquido o solido), sono
elastici. Alla superfìcie di una massa liquida, per 10 a 12 milionesimi di
millimetro, la coesione è massima. Alla profondità doppia è diminuita di 3/4.
Rucker nel 1885 con esperimenti ottici elettrici confermò questi risultati.
Quincke nel 1887 ha analizzato le pellicole liquide che bagnano i solidi e
disse che a meno di 25 milionesimi di millimetro incomincia la coesione per le
molecole dell'ac- qua. Nelle bolle di sapone la pellicola è costante, se lo
spessore eccede cinque soli milionesimi di millimetro, e torna a crescere, se
lo spessore viene ridotto ad un milionesimo. Un liquido è formato da diversi
strati, cosicché due porzioni di acqua si attraggono quanto più stanno alla
superfìcie: alla distanza di un dieci- milionesimo di millimetro si attraggono
con una forza massima. Thomson nel 1886 disse che l'at- trazione capillare non
è altro che l'attrazione Newtoniana resa più intensa per le molecole
mobilissime che fanno il liquido. La forza di coesione è tanta da resistere a
grossi pesi. Da oltre un secolo Barton prese molti cubi di rame aventi le loro
superfìcie ben levigate e liscie, li mise sul tavolo uno sopra l'altro e vide
che, prendendo in mano il più alto, gli restavano attaccati tutti i sottoposti.
I fenomeni della capillarità nei tubi stretti sono ben conosciuti da tutti.
Centinaia di esperimenti svariati della solidarietà furono fatti da Plateau
(Statique expérimentale et théorique des liquides soumis aux seules forces
moléculaires). Facendo ca- dere a goccie certi olii sopra l'acqua, si
distendono come piani: mentre le goccie di altri olii cadendo si dispongono in
forma di lenti più o meno convesse. La coesione delle molecole di olio è tanta
che i marinai calmano le onde furiose del mare vicino alla loro nave col
versarvi sopra un sottile strato di olio nel modo indicato nel Capitolo
precedente. La natura numerica della coesione si può in- vestigare pigliando
certe soluzioni, fortemente colorate, di permanganato di potassa e facendone
cadere alcune goccie sull'acqua, a minima distanza da questa, e lentamente. Si
vedrà che la sostanza colorata, nel suo discendere e nel modificare l'as-
sociazione molecolare assume la forma di anelli vorticosi, cinti da una
pellicola, che, sempre più assottigliandosi, si rompe: ed ogni frammento degli
anelli maggiori, discendendo, assume subito la forma di minore anello vorticoso
e via di se- guito, dando una figura di polipo che genera sempre nuovi e minori
anellini vorticosi fino a che diviene invisibile. — Con una goccia di
inchiostro il fenomeno succede lo stesso ma con tanta velocità che riesce
impossibile di studiarlo. Gli anelli vorticosi sono sempre fatti in questo
esperimento dalla forza di coesione in lotta col peso: prova che molti atomi
simili sempre tendono ad unirsi e uniti una volta stentano a disunirsi, e che
l'unità domina i molti. Per quanto siano caldi i liquidi riescono a for- mare
delle goccie. L'astronomo Young (Il Sole, — 63 — p. 220) dice che il Sole (che
sembra sia in gran parte gazoso) deve formare la sua fotosfera con goccioline
di metalli. Non vi è corpo gazoso che non possa gustare la coesione. Infatti
Cailletet e Wriblowcki, con macchine possenti, sono riusciti a rendere liquidi
quasi tutti i gas. La teoria cinetica dei gas di Clausius, Joule e Maxwell non
si regge più, perchè gli urti obliqui farebbero roteare le molecole, il moto di
traslazione si rallenterebbe e cesserebbe, e perchè la legge di Mariotte e
Gaylussac (essere a temperatura costante il volume di un gas in ragione inversa
della pressione) non si verifica che poche volte, come provò Regnatili: anzi
Hirn variò a piacere la temperatura senza che cambiasse la resistenza (1).
Clausius cre- dette che le molecole dei gas corressero senza vi- brare e
spiegava così la discontinuità degli spettri dei gas, dei liquidi e dei solidi.
Ma recentemente vari fisici hanno attribuito gli spettri lineari dei gas alla
piccolezza delle loro molecole, invece che alla fantasticata loro corsa
vertiginosa, e fu tolto al Clausius l'ultimo suo rifugio che era lo
spettroscopio. Venne allora Hirn a provare che, se le molecole dei gas
corressero in linea retta, non vibre- rebbero e non potrebbero mai dare un
suono. Il suono ci prova che i gas hanno le loro parti solidali e sistemate,
come una corda tesa vibra; ma se non è tesa, non vibra più. Per vibrare occorre
(1) Tait nel suo bel libro Heat, nell'ultimo Capitolo indicava fin dal 1884 le
gravissime difficoltà che presen- tava l' ipotesi cinetica dei gas del
Clausius, che venne accettata per alcuni anni provvisoriamente. 4 che le
molecole ritornino allo stato di prima. L'aria vibra (come le lamine sonore di
Chladni e di Savart perchè è elastica e solidale. D'altronde se l'aria fosse
costituita al modo escogitato dal Clausius, essa non si alzerebbe più di dodici
chilometri, secondo Hirn, mentre si eleva a cento e più. Bisogna anche pensare
che tutti i corpi premuti si riscaldano e così si riscaldano anche le onde di
aria vibrante. Se non si riscaldasse, dice Hirn, il suono si propagherebbe in
un minuto secondo a 288 metri, mentre si propaga a 340, perchè il suono passa
da onda ad onda più calda. Il prof. Hirn conclude che gli atomi dei gas non
corrono, non si urtano, ma formano un sistema elastico solidale, che deriva
dalla stessa tendenza intima che fa la coesione dei solidi, dei liquidi e la
gravitazione. La facilità con cui si mescolano i gas, le leggi della pressione,
si spiegano senza bisogno che cor- rano molti chilometri al minuto e senza che
su- biscano tanti urti. — Il Sisifismo di Clausius può essere eliminato. La
solidarietà non è un moto, è uno stato psichico, in cui si forma un essere
collettivo, una grande unità. E il godimento è evidente in un esperimento che
tutti possono fare, mettendo dei cavalierini di carta sopra due o più corde
vibranti vicine e lontane. Quando due corde danno il medesimo suono, appena si
tocca coll'archetto una corda, si vede che dall'altra i cavalierini saltano
via, anche se la corda è lontana molti metri. Mentre, se non danno il medesimo
suono, anche se sono avvicinate quasi a toccarsi, i cavalierini delle corde non
toccate rimangono fermi ed indifferenti. Dunque l'aria è solidale, di una
solidarietà così intima da far vibrare tutto ciò che vibra nel medesimo tempo e
non ciò che vibra in altri tempi. Così se abbiamo due coristi eguali,
battendone uno, suona anche l'altro; se ne abbiamo cento o mille, tutti vibrano
del pari. Il rinforzo di un suono avviene sempre quando, in vicinanza del corpo
so- noro, ce ne sono altri che dieno lo stesso suono. I fabbricatori di
stromenti musicali applicano con- tinuamente questa legge, che prova la
solidarietà degli Atomi anche allo stato gasoso. Questa solidarietà è evidente
non soltanto fra gli Atomi ponderali allo stato solido, liquido e gasoso. ma
anche fra gli Atomi eterei, che sono infinitamente più piccoli degli Atomi
ponderali. Locke (nel suo Saggio sull'umano intelletto, II, 23) fece notare
quanto sia stupido cercar di spiegare la Coesione degli Atomi ponderali
inventando una pressione dell'Etere, perchè gli Atomi dell'Etere che sono
coerenti e solidali fra loro, esigerebbero per spiegare questa pressione un
secondo Etere che premesse il primo e questo esigerebbe un terzo etere e via di
seguito all'infinito. Sopra un'onda di luce rossa stanno 200 Atomi Eterei.
Faraday provò che il mezzo etereo è elastico, col mostrare che le sue linee di
forza si curvano. Hirn ne dedusse che gli Atomi Eterei sono solidali e formano
un tutto elastico persino nelle suddivisioni infinitesime. Se l'Etere fosse in
flusso continuo, se fosse di densità variabilissima come supponeva il padre
Secchi per poter darsi l'aria di spiegare la coesione, non potrebbe mai
trasmettere la luce con tanta regolarità e delicatezza. Questo è evidente se si
riflette un poco. Secondo Lorentz l'Etere deve — 56 — essere in stato di
relativa quiete e di solidarietà nel suo complesso, per permettere il moto
della Elettricità e della Luce. Senza questa solidarietà non avremmo la luce
del sole e delle stelle, come senza la solidarietà dell'aria non avremmo il
suono: quindi non si sarebbero formati ne occhi, ne orecchi; ed è alla
solidarietà dell' Etere e dei gas che dobbiamo la civiltà ed i maggiori piaceri
della parola e dell'arti belle. Alla stessa solidarietà dobbiamo le onde
scoperte dal prof. Hertz assai grandi, sulle quali si fondano i telegrafi senza
fili. Quando la coesione degli atomi e la loro solida- rietà vengono
disturbate, sorge il moto irregolare del calorico, che allontana gli atomi gli
uni dagli altri, dilata i corpi, liquefa i solidi, volatilizza i li- quidi,
disperde e non si concentra mai. Hirn schiacciando il piombo (senza accrescerne
la densità) provò che il calore deriva dal disturbo della coe- sione e che è un
moto degli atomi e non delle molecole. Ben a ragione dunque il fondatore della
ter- modinamica Mayer diceva che la coesione e l'at- trazione non sono moti, ma
tengono della natura della sensazione, sicché la Materia bruta inorganica ha un
senso di solidarietà innegabile e l' Unità do- mina la moltiplicità, il
molteplice tende ad unirsi e di questa tendenza sono visibili gli effetti in
tutta quanta la fìsica. Fra le soluzioni separate da membrane permeabili ha
luogo sempre uno scambio, nel quale la più densa assume più che non ceda e la
meno densa perde più che non acquisti; fatto che prova la tendenza ad
associarsi di tutti gli atomi. Il disturbo dell'armonia fa l'allontanamento
degli atomi, la dilatazione dei corpi, la disgregazione. La tendenza all'armonia fa i contrasti
elettrici della luce, la solidarità dell'Etere e dei gas, la coesione dei
liquidi e dei solidi, e l' attrazione dei corpi lontani. Così si manifesta
nella fisica la tendenza a for- mare più alta Unità, che si accentra poi e si
rende manifesta nella Chimica, e, ancor meglio, nella Biologia e nell'Amore
delle Piante e degli Animali, sempre per cause intime e non mai per le forze
incidenti dell'Ambiente. Nel succitato libro sul Calore il Prof. Tait di- ceva
bene: senza moto non vi è Calore, ma non ne segue che il Calorico sia un moto:
come senza Fosforo non vi è Pensiero; ma non ne segue che il Pensiero sia
Fosforo. Il Moto che fa la gravitazione, il Calorico e 1' Elettricità, ossia le
forze fondamentali dell'Universo, deve essere fatto dalla sensazione
rudimentale degli atomi e deve essere una manifestazione della loro volontà
primitiva. Come dicea Herbert Spencer: gli specialisti stu- dino pure i
fenomeni fisici come meri movimenti; ma la filosofìa badi alla realtà conscia,
ossia alla Unità interna di tutte le cose. (Vedi sopra Cap. II, pag. 20) (1).
Siamo coerenti e riconosciamo che la (1) Lo stesso Ardìgò scrisse, come
Schelling, che la Materia è una forma del Pensiero (e doveva dire non del
Pensiero, ma della sensazione della Volontà), ma in tutto il suo sistema non
seppe spiegarlo e adottò la fisica che attribuisce agli urti delle forze
incidenti ogni fenomeno. Newton aveva ben capito che della materia si poteva
affermare una forza sola generalissima, cioè la resistenza, scrivendo nei suoi
Principia Definitio IIIa: « Materiae « vis insita est potentia resistendi ».
Egli aveva pure compreso che l'aria e l'etere erano elastici fé quindi
solidali) scrivendo nella sua Ottica (Questione XVIII) che l'aere è assai più
elastico e più attivo dell'Aria. 58 vera filosofìa della Natura non può bandire
la psiche dalla fisica, ma può andare sotto la scorza delle cose e indovinare
la loro intimità. I filosofi che dicessero che noi fin qui abbiamo fatto della
fìsica e non della filosofia, mostrerebbero corto intelletto; perchè abbiamo
stabilito e provato che la Materia sente e che è tutta solidale. Il materiale
dei cristalli è chimico: ossia fatto da molecole; ma la costruzione è fisica, e
conserva le proprietà fìsiche delle molecole, orientandole secondo le direzioni
dei tre assi; e specialmente il calorico, la elettricità e la luce. Chi non
ammette la psiche nella Materia e si affanna a spiegare la coesione delle
molecole di una goccia di acqua, inventando la assurda pressione dell'Etere, ha
bisogno poi di tutt' altra pressione, per spiegare la formazione di un
cristallo e deve fare mille ipotesi di un Etere più schiacciante (1). (1)
L'Illustre Presidente della Società Geologica Inglese, il prof. Judd diceva che
« Each minerai like each plant, or animai, possess its own individuality ». Le
forze a tergo, gli urti, le pressioni non spiegherebbero mai la gran varietà di
strutture che presentano i cristalli (Sulla formazione dei cristalli parlammo
nella nostra Nuova Scienza, voi. IV. pag. 479 a 481 e in altri siti). La
coesione geometrica cristallina indica chiaramente la tendenza a godere la
Eleatica quiete fra i contrasti elettrici. Evers disse che la preparazione
biotica è evidente nei cristalli; è l'alba della vita che si chiude fra le pareti;
è una vita modesta, casalinga, incipiente, quella che si rappiatta fra i tre
assi di coesione geometrica e mantiene le loro pareti. Le molecole allo stato
liquido, quando si abbassa la temperatura (se trovano la calma e le soluzioni
necessarie) tendono a cristallizzarsi. E, dalla vescicola centrale che fa il
cristallo, gli Atomi della soluzione vanno disponendosi in tre assi
perpendicolari (i quali rivelano che sono tre e non più le dimensioni dello
spazio reale, come nel Capitolo I fu detto). E prendendo le forme di tetraedri,
di prismi, a base triangolare o parallelopipedi (1) non le prendono per quelle
forze esterne a cui lo Spencer e VArdigò ricorrono, e che non possono riunire
altro che detriti, arena, polveri e spazzature: le prendono per la tendenza
delle Unità interne a formare, unite coi simili, dei sistemi di equilibrio
stabile di godimento durevole, fra i contrasti elettrici. Il punto centrale
dove si intersecano i tre assi rimane indifferente fra le polarità. Scaldando
un (1) Ai sistemi cubico, prismatico, romboidale ecc. si aggiungano le
strutture lamellari dei marmi, la granulare del gres, la ramificata delle
miche, del bismuto, del cobalto grigio, la capillare dell'asbesto,
dell'amianto, quella a pagliette o lamine sottilissime degli scbisti. In
qualunque forma gli spigoli opposti si modificano insieme. Il clivaggio o
spaccatura produce polveri della forma medesima a quella di ogni cristallo.
Soltanto il granato e lo smeraldo si rompono in frammenti irregolari. cristallo,
l'asse dominante si dilata per primo e maggiormente; il polo positivo si
riscalda, il negativo si raffredda. Le proprietà ottiche variano secondo che la
luce segue l'asse principale o gli assi secondari. Nei cristalli della neve
cinque o sei aghi diacciati a forma di stella formano l'ossatura. Tra questi
gli aghetti trasversali formano un ricamo regolare. Si crede che le forme dei
cristalli sieno, se non eguali, almeno analoghe a quelle delle molecole della
medesima sostanza; perciò l'acqua, avendo le molecole semplicissime, di quasi
nove decimi di ossigeno e poco più di un decimo di idrogeno, cristallizza in
forma di aghi. Non cristallizzano i Colloidi, perchè le loro particelle o
molecole sono in moto irregolare e senza centro, e si ritengono essere reti di
cristalli filiformi, entro le quali si organizzano gruppetti di molecole che
tendono ad una elasticità variabile: però si induriscono facilmente in colle,
in pelli, in unghie, in corna. Nella parte non cri- stallina, non filiforme dei
colloidi, ossia nella parte elastica, la tendenza alla vita è di un altro
genere (gomma, amido, colla, destrina, tannino, albumina ecc.) diverso dal
cristallino, ma non an- cora cellulare. Lo stato colloidale si verifica anche
nell'argilla ed in qualche metallo. Le sostanze amorfe sembrano gelatine
compatte, come il vetro, il quale, benché assai duro, è elastico, probabilmente
per la gelatina inserita nella rete dei minimi filetti cristallini di silice,
dai quali derivano le sue proprietà ottiche di trasparenza. Nelle vere gelatine
le parti molli si ingrossano nell'acqua, assorbendola per endosmosi. Nelle
roccie cristalline vi sono molti cristalli. I metalli sono miscugli di
cristalli e di sostanze amorfe, che non lasciano passare la luce e la as-
sorbono o la riflettono. Per lo più le terre sono metalli ossidati. L'interna
struttura dei cristalli non è in generale omogenea: essi sono divisi in
magazzini, che contengono acido carbonico, ed alcuni liquidi ed hanno delle
vescicole che si muovono da se. I cristalli si formano subito nell'acqua
ipersaturata, quando vi sia un minimo frammento della loro specie. Il Thoulet
professore di mineralogia a Nancy col signor Germez, preparavano, ad esempio,
soluzioni ipersaturate contenenti del borace ottaedrico a 5 equivalenti di acqua,
e del borace rombico a 10 equivalenti di acqua e poi vi immergevano corpi di
diversa qualità senza che il liquido perdesse la sua purezza. Ma appena si
poneva nella prima un minimo frammento di bo- race ottaedrico e nella seconda
un minimo poliedro di borace rombico, la vita cristallina si cominciava, la
temperatura si elevava, ed in pochi minuti tutto quanto il borace disciolto
veniva cristallizzato. Sicché si può dire che ogni cristallo imita il tipo
della sua famiglia. Nessun cristallo scende verso gli inferiori; tutti cercano
di innalzarsi, di ascen- dere a più alta Unità. E se non arrivano ad imitare le
forme superiori, vi si avvicinano. Così il feldspato potassico triclinico si
trasforma in monoclinico, l'assofìlite monoclinica diventa tetra- gona ecc.
ecc. (Vedi Nuova Scienza, Voi. II, p. 94). II principio della inerzia o della
eredità, lotta an- che nei cristalli, come nelle cellule, col principio — 62 —
della variazione, secondo le circostanze valutate dalla Natura che si fa ossia
dall'intima Unità. Soltanto la formazione e lo adattamento e perfezionamento
dei cristalli sono molto più lenti e la loro vita è molto più semplice di
quella delle cellule. Link vide che il principio di ciascun cristallo che si
forma in una soluzione ipersaturata, sta in una vescicola più ipersaturata
nella quale le molecole si concentrano meglio. Attorno alla vescicola si
formano globuliti, mentre fanno i tre assi e le figure geometriche,
rivestendosi di pareti. Dalla molecola integrante di Hauy, alla molecola fìsica
di Delafosse, alla maglia cristallina di Bravais, si elevano, mediante il
polimorfismo, a forme più complesse. I cristalli mutilati, se hanno la
soluzione conveniente, si rifanno e si ripresentano intieri. Anche adulti, essi
variano per la pressione, il calore, la luce, e sentono ogni variazione del-
l'ambiente. Ma sempre e tutti si fanno dal di dentro al di fuori per virtù
propria, per la tendenza ad unirsi ed a godere e non per le forze incidenti
dall'ambiente, come pretende il falso Positivismo di Ardigò. La durezza, la
conduttibilità del calorico e delle elettricità, la fosforescenza ed altre
proprietà di- pendono dalla simmetria con cui sono disposte le molecole del
cristallo. La opacità dei cristalli deriva da squilibri termici, da incipienti
efflore- scenze e da disgregamenti molecolari. I minerali giovani sono molto
diversi dagli antichi. La Petrografia è la Paleontologia dei Minerali. I
cambiamenti vitali delle rocce provengono dalia- tendenza di quello che è
instabile a divenire stabile. Judd ha visto che esiste una perfetta gradazione
fra le roccie cristalline (granito, diorite, gabbro), i tipi vulcanici
(riobiti, basalti) ed i vetri vulcanici. La temperatura delle lave uscenti dai
vulcani è di 2,000 gradi centigradi. Alla superfìcie si raffreddano, nell'
interno restano semiliquide e vi- scose, solidificandosi mano mano che corrono
giù per il declivio del monte, in masse vitree oscuredi cui la metà è silice
(combinata sotto forma di sili- cati coll'allumina, col ferro, colla calce,
colla magnesia, con la potassa, colla soda). Queste masse vitree mostrano al
microscopio milioni di cristallini inci- pienti chiamati microliti. Ve ne sono
anche di più grossi, formati nell' interno del vulcano, prima di essere
eruttati, ma rotti dal magma infocato. Alcuni geologi scozzesi, inglesi e
francesi ten- tarono di riprodurre artificialmente, da un secolo in qua, tali
eruzioni vulcaniche. Daubrée, Fouqué, M. Levy scaldando i minerali al bianco
abbagliante, abbassandone poco a poco la temperatura al rosso aranciato (punto
a cui si fonde l'acciaio), alzando allora il crogiuolo sul forno e riducendo la
temperatura al rosso ciliegio (punto a cui si fonde il rame) e ritirando poi
dal forno, lasciarono tempo sufficiente alle molecole di cristallizzarsi (1) in
serie. Ed ottennero in tal (1) A rinforzare quanto nella Introduzione
dicevamosulla Unità della Natura, parliamo qualche minuto dei Cristalli formati
fuori della nostra Terra. Chi guarda una Meteorite entrare nella nostra
Atmosfera, a 60 chilometri di altezza, accendersi, correre 30 chi- modo la
leucotefrite del Vesuvio, la onte dei Pirenei, i Basalti e molte altre roocie,
della cui ori- gine ignea non si era ancora ben certi. Le più difficili ad
ottenersi sono le roccie primitive acide che racchiudono quarzo, mica ed
ortosi. Si è tentato recentemente di esperimentare i miscugli di detriti
organici nella formazione dei Cristalli e si sono ottenuti degli accentramenti
misti di forme nuove. Un sale in soluzione amorfa omogenea diede al prof, von
Schrón di Napoli delle petrocellule che si riprodussero per endogenesi. Il
prof. Dubois di Lione, depose sul brodo di gelatina dei cristalli di cloruro,
di bario e di radio, e ne fece sorgere muffe e granulazioni pseudovegetali, che
si dupli- carono. Hennequey di Parigi le disorganizzò presentandole al radio.
lometri al secondo e talvolta il doppio, chi ascolta le de- tonazioni che ne
succedono, crederebbe che si fondano. Invece alle volte si rompono, ma
rimangono solidi e freddi nel loro interno. La più grossa cadde a S. Caterina
nel Brasile e pesa 250 quintali: in termine medio non vanno oltre mezzo
quintale. Tre quarti cadono nei mari; delle altre ben poche in terre coltivate.
Le meteoriti ci mettono nella condizione di un generale che riesce ad
impadronirsi di qualche prigioniero, e lo interroga su tutto quello che si è
fatto nel cielo, perchè ogni minerale testimonia delle circostanze in cui
nacque. Ebbene, questi avanzi condensati delle nebulose, hanno gli elementi
delle primitive roccie Terrestri. Vi si trovano delle specie mineralogiche
identiche, che possiedono i medesimi angoli, le stesse faccie nei loro
cristalli, e sono spesso associate nel medesimo modo. La silice o acido
silicico (tanto energico nelle temperature elevate), ci testimonia l'alto
calore in cui furono generate le Meteoriti. Il Peridoto (il quale si forma
allor- ché nelle officine viene ossidato il silicio) lo si trova an- Nel 1904
BurTce mettendo sopra uno strato gelatinoso del cloruro o bromuro di radio,
guadagnò i primi Radichi, o microbi del radio, in uno, due o tre giorni.
Crescevano fino ad Vìooo ^ m^~ limetro, mai di più, avevano nuclei oscuri, si
segmentavano e si scioglievano nell'acqua. Il radioli distruggeva e finivano
col cristallizzarsi. Ben si vede nella materia inorganica una ten- denza ad
unificarsi sempre maggiore. Essa assuma aspetti diversi (come li abbiamo ora
indicati) nei colloidi, nelle gelatine, nei vetri, nei metalli, nei cristalli:
sempre la intima unità generatrice della forma cristallina, che dalla vescicola
centrale dispone le molecole in contrasti elettrici, o della forma colloi- dale
che fra le reti cristalline dà origine a gruppi elastici, o della forma
pseudocellulare che fa muffe e granulazioni nei miscugli di detriti organici
coi minerali, va assurgendo ad armonie speciali. che nelle meteoriti e nelle
roccie profonde del nostro globo e può dirsi la scoria universale. La
contestura soprafina delle Meteoriti rassomiglia a quella della neve, ed è do-
vuta all' immediato passaggio del vapore di acqua allo stato solido. Come la
neve, e malgrado la loro tendenza ad una cristallizzazione nettamente
geometrica, le combinazioni silicato delle Meteoriti presentano cristallini
confusi e minutissimi. Il silicio che sulla Terra ha bruciato, formando l'acido
silicico, deve essere stato causa di un gran riscaldamento degli astri quando
si combinò con l'ossigeno. Cuocendo il ferro fuso, per trasformarlo in ferro
malleabile od in acciaio, l'ossigeno dell'aria brucia il carbonio ed il silicio
ed una parte del ferro, producendo una scoria nera che contiene un Peridoto a
base di ferro che ha V identica chimica costituzione e la medesima forma
cristallina del Peridoto magnetico delle Meteoriti conser- vate nei principali
Musei. Sono frammenti di vecchi corpi celesti, errabondi fra i sistemi
stellari. Sono le forme primitive, spesso non ancora ben -definite della vita,
la quale diventerà poi libera e forte nell'accentramento Cellulare e più che
mai nell'Organico. Ogni forza attrattiva della Natura è ministra di ordine, che
parte dalle Unità senzienti, le quali non sono essenze incaliginate di una
filosofìa nebulosa, non sono Concetti antitetici da conciliare, uè Indistinti
che si vadano distinguendo colla di- visione delle forze come nello Hegelismo e
nell'^lr- digoismo, ma sono intime cause di fenomeni e di atti della Natura che
si fa coadunando, anno- dando, stringendo, godendo. Non è un lume pallido ed
intermittente quello che mandano i mille fatti fin qui accennati della coesione
e della solidarietà, ma diventa, raffron- tato con altri della Chimica, un cardine
di principii naturali, dei quali la scienza del pensiero è tenuta a fare
indagini nuove. Non si dirà, speriamo, che in queste pagine abbiamo fatto della
cristallografìa, perchè nelle descrizioni e nelle misure degli angoli di questa
non siamo entrati (e di goniometri e di polariscopi non abbiamo fatto alcun
cenno); abbiamo soltanto passato in rivista le diverse tendenze della materia
che si crede morta, stupida ed inerte alla finalità del piacere, all'esercizio
sempre più elevato •e complicato della coesione geometrica. L'ascesa alle
chimiche combinazioni La combinazione chimica è un perfezionamento notevole e
graduale della Coesione. Diciamo graduale perchè prima si fa coi simili e
poscia impara a sposarsi con altri elementi. Così l'ossigeno libero, il cloro
libero, lo idrogeno libero, lo azoto libero, il silicio libero sono sempre
appaiati in molecole di due atomi. Che l'energia chimica non derivi dagli urti
di particelle solide o liquide è dimostrato dal fatto che la energia di
qualsiasi elemento non sta in proporzione delle masse, e che i loro equivalenti
meccanici sono enormi. Ad esempio se si combi- nano per formare 36,5 di acido
cloridrico, un gramma di idrogeno con 35,5 di cloro, svolgono tanto calore da
innalzare di un grado la temperatura di venticinque chilogrammi di acqua (come
osserva Stallo). Non è certo per cause meccaniche che V azoto (il quale forma
quasi quattro quinti dell'aria) resta sempre il più inerte ed il più
indifferente di tutti gli elementi, non entra in alcuna combinazione se non vi
è spinto dalla elettricità. Ed è sempre pronto ad uscirne, abbandonando i
compagni. Non è per cause meccaniche che V Ossigeno si combina con quasi tutti
gli elementi con grande facilità od ardore. Unito con poco più di un decimo di
idrogeno fa l'acqua, così benefica in tutta la natura. Ma unito coi metalli fa
gli ossidi e le terre. Unito con corpi combustibili brucia, fa la fiamma del
legno, delle candele, dell'olio, ecc. e forma e conserva e rinnova i corpi
organici. Unito coll'azoto fa gli esplosivi, i cui atomi si spaccano, slanciano
i projetti con velocità di chilometri per minuto secondo (2 la polvere di
fucile, 7 ad 8 la nitro manite). Non è per cause meccaniche che il Carbonio e
sempre un elemento di accentrazione, il quale con l'ossigeno, l'idrogeno e
l'azoto serve a comporre i corpi organici, che vogliono continuamente scambiare
i loro elementi. Non è per cause meccaniche che tutti gli ele- menti i quali si
trovano in equilibrio instabile si combinano con ardore. La polvere da fuoco
alla prima scintilla svolge un grande volume di gas acido carbonico, grazie
all'azoto indifferente ed inerte, per cui l'ossigeno ed il carbonio si trovano
in equilibrio instabile. E più ancora nella nitro- glicerina e nella dinamite.
Non e per cause meccaniche che le combinazioni chimiche cambiano profondamente
il modo di sentire e di operare dei loro elementi. Chi ravviserebbe nel sale di
cucina, bianco, cristallino i suoi due componenti, vale a dire il cloro (gas
giallo attivissimo) ed il sodio (metallo argenteo leggerissimo). Chi
riconoscerebbe nell'acqua, composta per quasi nove decimi di ossigeno
comburente, con oltre un decimo di idrogeno, combustibile, i suoi elementi? Chi
troverebbe nel quarzo che cri- stallizza in aghi esagoni trasparenti, il
silicio nerastro ed il gas ossigeno che lo hanno formato? ~L'Ardigoismo venga
un po' qui col suo Indistinto, col suo incrociarsi delle famose linee del tempo
e dello spazio, e con la sua legge di formazione, dividendo la linea e
suddividendo all' infinito. Non è,'col dividere, ma coll'unire che si trova
piacere e si fa l'evoluzione. Lo Hegelismo spieghi un po' col processo
antitetico dei suoi concetti universali e concreti queste combinazioni chimiche
ed i loro effetti, dovuti evidentemente a modi diversi di sentire e di volere.
Non è per cause meccaniche che le sostanze iso- mere, vale a dire composte
della stessa qualità e del medesimo numero di Atomi, hanno spesso un modo
diverso di sentire e di operare. Ad esempio il fosforo bianco è velenoso; ma,
scaldato nel vuoto, fa il fosforo rosso, che è innocuo. Il cianato di ammoniaca
è velenoso, mentre non lo è l'urea. Sono Isomeri molte glucosi e saccarosi,
l'amido, il legno e la destrina. Se le cause meccaniche facessero le
combinazioni chimiche, la atomicità o valenza degli ele- menti (che si può
chiamare la loro dose di energia) avrebbe una legge invariabile. Questa fu
supposta quando nel 1855 il compianto senatore Cannizzaro (allora professore a
Pisa) provò che non esiste contraddizione fra la legge di Avogadro che determina
il peso delle molecole e quella di Dulong e Petit che determina il peso degli
Atomi. Ma la ipotesi svanì ben presto (1). (1) L'idrogeno ed il cloro valgono
1, l'ossigeno 2, l'azoto 3, il carbonio 4, e pochi elementi hanno una valenza
superiore. Infatti il carbonio si combina con 4 atomi di idrogeno e con 4 di
cloro, o con 3 di idrogeno ed 1 di cloro, o con 3 di cloro ed 1 d' idrogeno.
Invece 2 atomi di ossigeno, che è bivalente, si combinano con 1 atomo di
carbonio. Nelle sostituzioni la valenza ha importanza, p. es. 1 di azoto che è
trivalente, può surro- Anche i pronubi delle nozze (che sono in generale il
calorico e la elettricità) non danno il modo di predire le combinazioni. Quelle
che si fanno sviluppando calorico, dette esotermiche, hanno meno energia della
somma dei loro componenti, essendo rimaste esauste. Quelle invece che si fanno
convertendo subito il calorico in elettricità, senza perdita, dette
Endotermiche, hanno energia maggiore della somma dei loro elementi. Armstrong
considera la chimica affinità come una Elettrolisi rovesciata, in cui l'azione
è eguale alla reazione. L' intimo fattore delle formazioni chimiche pare sia la
tendenza a formare più alta Unità: infatti garsi a 3 di idrogeno, oppure a 1 di
idrogeno e 1 di ossi- geno. Se uno di carbonio sposa 3 atomi di idrogeno non è
saturato, e può appetirne e guadagnarne un altro di cloro o di idrogeno. Sempre
univalenti sono idrogeno, cloro, argento, ed i metalli alcalini terrosi. La
valenza è di 1, 3, 5, 7 in alcuni gruppi, di 2, 4, 6, 8 in altri. Una
combinazione non saturata serve di radicale per nuove combinazioni. La ipotesi
delle leggi di Atomicità o Valenza svanì quando si vide che l'ossigeno non è
sempre bivalente e si fa valere come tetravalente quando vuol combinarsi con
elementi più pesanti e che l'azoto non è sempre trivalente, perchè nella Urea 2
atomi di azoto ne sposano 1 di car- bonio ed invertendo l'urea in cianato di
ammoniaca la diversità aumenta con 4 di idrogeno. E si vide pure che il ferro
vale 2 nel bicloruro e vale 4 nel bisolfuro; si as- sodò che il solfo, il
selenio ed il tellurio valgono 2 con l'idrogeno e 4 negli acidi anidri e nelle
anidridi, e si constatò che l'azoto ed il fosforo che in generale sono tri-
valenti, in alcuni casi si fanno valere come 5. Anche il Carbonio che vale 4,
quando fa l'ossido di carbonio, di- venta soltanto bivalente. i fermenti o
catalizzatori le accelerano. La meccanica chimica è fondata sulle leggi di
Newton che non sono meccaniche. I composti binari della chimica organica
(idrogeni carburati), i composti ternari (alcool, olii, grassi, acidi) ed anche
i quaternari (amidi, ligneo, aldeidi, destrine, gomme, gelatine, albumine) esi-
gono lungo tempo per formarsi, moltissime essendo le loro molecole. Quando un
tipo è formato, questo si ripete e si sviluppa in una lunga serie: p. es. il
tipo dell' idrato di potassa, o quello dell' ammoniaca. Quando si presenta un
tipo di formazione superiore, è imitato e moltiplicato. E questo prova il
principio pitagorico dell'ascesa a più alta Unità per godere, insito in tutti
gli Atomi. Se non si frappongono ostacoli, la moltiplicazione dell'azione
chimica è continua. Così nelle fabbriche di acido solforico, pochissimo
biossido di azoto basta a provocare l'unione dell' ossigeno dell' aria con
grandi quantità di acido solforoso. Come è naturale le combinazioni chimiche
du- rano e resistono quanto più sono semplici. Fra i minerali, i protossidi, le
terre e gli alcali. Resistono meno i deutossidi, i tritossidi ed i perossidi
nei quali 2, 3, 4 Atomi di ossigeno stanno congiunti ad un Atomo di metallo o
di altro elemento. I sali poi, che sono composti di 5 o più Atomi, non
resistono al forte calore: meno che mai i sali doppi. Appena 30 o 40 gradi
centigradi bastano per danneggiare i composti organici, come è noto a chiunque:
e per poco che si vada oltre i quaranta si distruggono. La vita non sta mai
nelle sostanze chimiche, ma nella morfologia, ossia nella capacità unitaria di
fare funzioni ed organi, scambiando e dominando le sostanze chimiche. Perciò i
chimici non arriveranno mai a fare nei loro laboratori nna cellula. Nondimeno
l'analisi e la sintesi degli elementi organici si è ottenuta da mezzo secolo in
qua sempre meglio, nelle sostanze meno essenziali alla vita. Berthelot sperava
di arrivare a formare gli zuccheri. E. Fischer ottenne le sostanze zuccherine
naturali semplici. Nessuno arrivò ancora a fare le albumine. Hegel definiva la
vita e V idea arrivata alla esi- stenza immediata »; sicché le forze fìsiche
avrebbero, secondo Hegel, soltanto una esistenza mediata, ossia non esistono in
se: non sentono, non sof- frono, non godono. Ma allora sarebbero esseri
puramente passivi e quindi non esseri. L'Unità assimilafrice cellulare L'acqua
alla sua superficie, di 1 /25000 di milli- metro, tende a colloidare. E sotto
una atmosfera gravida di carbonio, e dopo che un vulcano abbia versato solfo e
fosforo, nel periodo geologico Laurenziano, sembra che alcuni Atomi isolati di
car- bonio si sieno combinati con l'ossigeno, con l'idro- geno dell'acqua e con
un po' di azoto dell'aria, per formare i primi biomori o granuli invisibili, i
quali poi diedero origine al bioplasma reticolato, visibile eoi microscopio.
Dal bioplasma si formarono i plastiduli ed i citodi che si sono concentrati in
cellule. Concentrazione mille volte disfatta e mille volte rifatta forse,
secondo le intemperie. Grazie alla intima tendenza delle molecole di formare
più alta unità, e di accrescere e rendere durevole il godimento, acquistando
capacità di fare moti volontari, tale concentrazione ha finito per durare. Da
queste prime Cellule è uscita tutta quanta la Natura organica sopra la Terra.
La forma sferica persistette poi in tutta la flora e la fauna allora quando,
abbondando gli alimenti, si moltiplicarono rapidamente e si concatenarono,
formando colonie di cellule. L'acqua rimane, anche negli organismi superiori,
l'elemento necessario ed universale, perchè tutte le reazioni chimiche vitali
avven- gono in essa, essendo essa composta, per quasi nove decimi, di ossigeno.
L'acqua discioglie e mette in circolazione ed in conflitto le sostanze di ogni
organismo, essa dissolve i sali in acidi ed in basi libere, come lo farebbe un
forte riscaldamento, perchè libera il suo calorico la- tente (Gautier). E
quando l'uomo stesso sente diffondersi sostanze inette alla vita, bevendo ac-
qua si prepara ad eliminarle. — I sali, e specialmente il marino, o cloruro di
sodio, rialzano lo scambio vitale, penetrando da per tutto, per la piccolezza
delle loro molecole e determinando la solubilità o insolubilità di molte so-
stanze proteiche. L'agente della vita non è una pretesa forza vitale staccata
dagli Atomi; ma è Velevazione delle Unità atomiche ad Unità più alta e a
godimenti maggiori (1). Se si guardano le cellule dal punto di vista della
Unità formatrice si intendono e si penetra nella causa che è la Natura che si
fa; mentre, se si guardano dal punto di vista del molteplice materiale, non si
hanno che dei frammenti slegati ed inerti. Delle prime cellule viventi ci può
dare un'idea oggidì il protoplasma o parte sempre giovine delle piante. La
cellula si forma unificando e restando una nella varietà. Infatti le molecole
binarie, ter- narie o quaternarie della sostanza proteina del protoplasma (per
la instabilità dell'azoto), sentono le variazioni di temperatura, e le
vibrazioni elettriche e luminose, come la coesione e l'attrazione molecolare.
Il protoplasma delle piante è colloide, viscoso, non traversa mai le membrane
per diffusione, ed è formato da due o più sostanze albuminoidi (2), con acqua e
sali. Non si scioglie nell'acqua, ma ne assorbe moltissima, e senza essa non
vive. Si muove sempre ed ha granuli (3) che vanno alle pareti della cellula a
prendere aria ossigenata (1) A questo innalzamento giovano molto gli accelera-
menti dei processi chimici che sono cagionati per Catalisi, ossia per la
presenza di una minima quantità del prodotto della combinazione bramata, che
ecciti al piacere della sensazione superiore. (2) Una molecola di albumina ha
72 Atomi di carbonio al centro, che trattengono in un solo sistema sociale pa- recchie
centinaia di Atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. (3) Questi granuli sono
per lo più di materie proteiche, però ve ne sono di grasse e di minerali e luce
ed a nutrirsi di polveri e fanno appendici come amebi, variando la vita a
seconda delle cir- costanze, finché queste non sono troppo avverse. Nei nostri
laboratorii si studiano le combinazioni in proporzioni costanti delle sostanze
non più viventi, perchè le viventi variano troppo le loro combinazioni per
essere osservate con sicu- rezza. Con l'acido acetico si scioglie il
protoplasma delle cellule, ma non il loro nucleo. Il protopla- sma staccato
dalla sua colonia è sempre morto, ed assorbe indifferentemente tutte le
sostanze, anche il cloruro di sodio ed il nitrato di potassa. Ma quando è vivente,
respinge queste e tutte le sostanze nocive, e non assorbe se non quelle che può
assimilare, provando così che la Unità interna fa la vita, e che la struttura
materiale, ossia la Natura fatta ne dipende. Infatti il protoplasma perde ogni
irritabilità e vitalità se viene sottoposto all'azione dell'etere e del
cloroformio, come se fosse un animale. Del protoplasma quattro quinti sono
acqua, un quinto è formato dalla materia granulosa vitale della quale ora
parleremo. Questa massa granulosa è sempre molle ed estensibile, ma non è densa
se non attorno al nucleo. Ogni varietà di granuli si assimila le materie
opportune. Senza sensazioni gradevoli o spiacenti, senza figurazioni non si
sarebbero mai fatte le cellule del protoplasma. La funzione precede la struttura;
ma il protoplasma rimane sempre allo stato ameboide. Una macchina a vapore è
fatta dal di fuori, unendo pezzo a pezzo, come l'uccello fa il suo nido e il
castoro la sua capanna; se viene guastata, non si accomoda da se, non si
provvede da se di ac- qua e di carbone, ed è indifferente se invece di carbone
si ponga materia non combustibile sotto la caldaia, e se dentro questa si metta
dell'arena invece di acqua, e se invece di vapori arrivi ghiaccio nel suo
distributore. Ma il protoplasma si fa da sé stesso, come una società
cooperativa, dal di dentro, per slancio delle energie chimiche, intente ad
accrescere le loro sensazioni rudimentali di os- sidazione. Perciò è pronto a
riparare una ferita, un danno. Non vi è una forza vitale particolare: ina tutte
le forze fisiche e chimiche cooperano nell'ascesa alla Unità Cellulare. 1j
assimilazione è una prima funzione delle Unità confrontanti, e sta nel fare
(come lo dice il nome), simili alla propria cellula le sostanze diverse che
incontra. L'azoto non serve se non come elemento indifferente, dando agli
elementi attivi (carbonio, ossigeno, idrogeno e sali) la facilità di scomporsi
e di ricomporsi, onde cambiare le molecole inerti e semplici in molecole
operose e composte, ascen- dendo (se l'ambiente è favorevole) a maggior pia-
cere di vivere. La cellula scompone le materie incontrate, trat- tenendo quelle
che può appropriarsi, dando loro il SUO tipo, e respingendo od escretando le
altre, conservandosi nella sua forma e nella sua chimica composizione, nella sua
armonia, come un Tutto bene sistemato. Il protoplasma è una continua
affermazione dell'Unità reale, ossia dell'Essere Uno, per se. Quando una
cellula è ben nodrita e si gonfia, la Unità formatrice si raddoppia, divide le
sue molecole in due segmenti, che diventano ciascuno eguale alla cellula madre,
e così di seguito. Ogni cellula ha il suo nucleo, distinto dai granuli
microscopici che lo attorniano. Il nucleo (nel quale ci è sempre un po' di fo-
sforo) è una minima cellula interna centrale, con sugo alcalino e molti
granuli, di cui il maggiore si dice nucleolo. Nella segmentazione (chiamata
Cariocinesi) vi è un centro-soma, ossia corpo centrale, che fa un citoplasma
(rete di fili colorati che contengono il protoplasma). Dal centro-soma
cominciano, nel momento della segmentazione, i due Astri (Aster) o centri di
fibre diramate verso la periferia e contenenti, nella loro rete, materie
contrattili e sostanze nutrienti. Ingrossandosi queste, e formando un solco, la
cellula madre si divide in due parti. Non vi sono genitori ne figli, ma la
Unità del Tutto che determina le parti, si ripete vitalmente migliaia e milioni
di volte. Questo processo di segmentazione continua nella nutrizione delle
piante e degli animali. La Unità cellulare è una legge sociale, che si conserva
in tutte le cellule derivate, con la stessa forza assimilatrice. La spiegazione
meccanica qui è, non solo impotente, ma diventa assurda; giacche tutti sanno
che dall' 1 al 2 non vi è frazione che possa condurre 1 +- V2 + 7^ -b 78 4- 716
ecc. ecc. Ed anche coi Differenziali, non si è mai trovata la costante degli
Integrali. L'agente della Cariocinesi è la Unità sociale ereditata, il tipo
assimilato?^ che sa conservare la sua identità in tutte le cellule che ne
derivano, distinguendosi sempre dall'ambiente. Chi volesse vedere la vita
incipiente non ha che a passeggiare lungo gli stagni. Se si raccoglie in uno
stagno una goccia di acqua, e se la si osserva col microscopio, si ve- dranno
cellule non protoplasmiche, ma separate le une dalle altre; cioè Amebi privi di
colore, che si muovono con lentezza e si nutrono di pol- vere vegetale, facendo
una lunga digestione e rigettando il soverchio. I più sviluppati sono la
Terricola, la Guttata, ed il Limax. Benché gli Amebi e le Molière non abbiano
struttura, hanno sensazioni e volontà e rispondono agli eccitamenti. Guardando
col microscopio la materia granulosa delle muffe, degli Amebi, non presenta
cel- lule: è un plasma semifluido con granuli che as- similano e si nutrono. In
questi, come in molti altri esempi, risulta chiaro che non è il tessuto che fa
la vita dal di fuori al di dentilo; ma all'opposto, la vita, che è tendenza
all'unità superiore e al piacere, funzionando dal di dentro al di fuori fa poco
a poco le strutture. Il prof. Verwoorn studiò le cellule dei Protozoari, prima
che divengano animali o piante, e vide che sentono gli eccitamenti, si nutrono,
as- similano, escretano, si adattano all'ambiente, ed accumulano energia
chimica. Cercano di acquistare materiali per rendersi indipendenti (ecco il principio
della vita, l'opposto dello Ardigojano che fa sorgere gli individui per le
forze incidenti dello ambiente) per rendersi indipendenti nel nutrirsi, nel
respirare e nel lottare. Esse manifestano la facoltà di discernere quello che è
utile da quello che è dannoso nel sistema di armonia che si ven- gono formando,
in cui trovano piacere (1). (1) Nessuna bestia mangia erbe velenose. Nella
putrefazione della carne, nascono in un paio di giorni innumerevoli bacteri, i
quali nel giorno seguente fanno cigli e flagelli, ed arrivano alla lungezza di
i j iQQ o 2/ l00 di pollice; poi si gonfiano e seminano un liquido da cui
nascono punti vivi, che diventano granuli e germinano i figli per
segmentazione. In alcuni infusori il protoplasma si differenzia in parte contrattile
e sensibile e parte digerente, che trasforma in clorofilla. In essi si vede la
ge- nesi dei due regni animale e vegetale. Quando la parte nutritiva di una
massa di cellule prevale sulla contrattile, sensibile, la vita ameboide si ri-
trae in pochi punti e si rivivifica solamente nella stagione degli amori. Gli
esseri inferiori assumono, a seconda dell'ambiente, il carattere vegetale o iL
carattere animale. Ad es. le Euglene, benché provvedute di bocca e di apparato
digerente, si nutrono come vegetali, prevalendo in esse la clorofilla. — I
Protozoari o Protofiti non sono organismi, perchè cambiano di struttura: ma
sentono il calore, la luce, l' umidità, il contatto, e si nutrono, si
moltiplicano. Alcuni tastano, gustano, nuotano, vi- vono in società e spiegano
i loro pseudopodi, ten- dono ad impadronirsi dei frammenti vegetali che trovano
vicini. Sono i viventi più piccoli e più allegri e non hanno struttura
visibile. I preludi delle azioni vitali sono per lo piùfatti dai fermenti. I
fermenti, figurati o no, aiutano l'assimilazione nelle piante e negli animali,
come Catalizzatori, accelerando o ritardando le reazioni, senza prendervi alle
volte parte attiva,, come fa la polvere di platino nella fabbricazione
dell'acido solforico. I fermenti aerobi respirano l'ossigeno dell'aria. I
fermenti anaerobi pigliano l'ossigeno senza contatto con l'aria, cercandolo nei
liquidi dove si trovano. Ogni fermento è una vitalizzazione od unificazione
(animale o vegetale) di succhi, e l'agente che li fa può essere solubile, ossia
senza forma organica, ma la sua solubilità è però soltanto apparente. Ve ne
sono in ogni protoplasma vivente; ce ne sono dei digestivi, degli idratanti,
che sa- ponificano i grassi (come la steapsina) degli ossi- danti (come la
laccasi) dei coagulanti (come la caseasi), degl' invertivi (sucrosi) che, se
affondati nel glucosio, scompongono lo zucchero per cavarne l'ossigeno, sia nel
mosto, sia nei frutti carnosi; se ne trovano anche nei germogli del grano e
della barbabietola. Il fermento lattico inacidisce lo zucchero del latte; il
mycoderma aceti ossida il vino e l'alcool, il mycoderma vini cambia l'al- -cool
in acqua e acido carbonico, alcune muffe di- struggono aerobicamente lo
zucchero e la celluiosi. Il lievito di birra, secondo le circostanze, è aerobio
o anaerobio. Invece il butirico e la maggior parte dei bacteri sono anaerobi;
tolgono l'os- sigeno agli zuccheri ed agli amidi e fanno all'oscuro la loro
sostanza albuminoide. Quasi tutte le terre contengono fermenti, i quali
trasformano l'azoto dei concimi animali in azoto nitrico. Le terre di
leguminose sono abitate da colonie di bacteri sopra le radici e nel 1886 furono
descritte da parecchi biologi. Nel 1906 l'inglese Bootmley ha scoperto il modo
di modificarli e di renderli adattabili anche ad altre piante coltivate, sicché
ogni coltura diventerebbe capace di ingras- sare la terra da se, senza
sfruttarla mai, come fanno adesso le lupinelle, i trifogli e le erbe me- — 81 —
diche, utilizzando tutto lo azoto che fa quattro quinti dell'aria e sotto
l'azione della elettricità investela terra arativa e fino ad oggi andava
perduto. Si intravvede così la possibilità di rendere facile la coltura
intensiva anche nelle terre inferiori. I batteri di radici non somigliano
affatto a quelli di cui parleremo nel Capitolo seguente, ne a quelli di cui fu
detto nella pagina precedente. Nei diversi modi di essere, di sentire, di
operare delle Cellule, vi sono tre fatti che altamente interessano la
filosofia, vale a dire il Dominio del nucleo sopra le parti circostanti, la
Segmentazione che è chiamata anche Cariocinesi, e VAssimilazione, Il dominio
del nucleo ci prova che le unità delle molecole e dei biomori accentrano il
loro senso* rudimentale, facendo delle moltissime piccole Unità solidali, una
Unità centrale. La segmentazione prova che questo governo centrale non riesce a
dominare un molteplice maggiore, per cui allorché questo supera il numero di
Atomi governabili, la solidarietà si divide in due cellule. Jj Assimilazione
dimostra che la Unità centrale così formata, rende gli Atomi nuovi inesperti,,
(che entrano con gli alimenti), solidali degli Atomi vecchi non soltanto, ma
che li sa ridurre (come lo dice il nome) simili ai precedenti facendo le
medesime chimiche combinazioni; e rigettando le materie inette ad essere
vivificate. Ecco il vero principio della vita. Questa tendenza, differenziata
in apposite funzioni, per diverse specie di cibi, formerà poi, negli organismi
superiori, le-' funzioni digestive. Fatti che non si spiegano certo con le sole
forze chimiche, e tanto meno con le sole forze incidenti dell'ambiente, al modo
Ardigojano; ossia dal di fuori al di dentro; ma che sorgono dalla forza
unitaria del piacere. E sono dovuti al grande progresso che ha ot- tenuto nella
cellula la originaria tendenza a più alta Unità, e ad accumimare stabilmente il
sentire e il volere degli atomi. Così avviene anche nelle società umane: p. es.
la Repubblica Portoghese non fu fatta nell'Ottobre 1910 da forze incidenti,
venute dal di fuori al modo Ardigojano per caso; ma dalla tendenza -a godere la
libertà ed a governare dei cittadini più istruiti, irradiando dall'Accademia a
tutta la Nazione la volontà e la forza che rovesciò la.Monarchia clericale dei
Braganza. Come le Unità Cellulari si accentrano nelle Piante per godere l'amore
Nelle grandi associazioni di cellule, le varie parti hanno sensazioni assai
diverse, perchè la Unità generale del Collettivismo dà a ciascuna parte
funzioni specifiche, e quindi si vanno for- mando differenti strutture. Però la
chimica composizione è presso a poco la medesima. Questa è una prova palmare
che le diverse tendenze e funzioni non dipendono da cause materiali. Ogni
cellula dell'organismo (oltre la funzione nutritiva e la facoltà di segmentarsi
in due) ha una funzione sociale, che le viene imposta dalla collettività
nell'atto della segmentazione. In generale le piante sono fatte da idrati di
carbonio (amido, zucchero, grassi, albumine e clorofille). L' amido diventa
celluiosi e legno, e nutre le piante dietro la luce che passa per le parti
verdi o clorofille. Anassagora ed Empedocle insegnarono per i primi che le piante
crescono per appetizione (éTuifruiila) e che la vita incomincia sentendo pia-
cere o dolore. In generale le piante sono colonie o collettivi- smi di amebi
protoplasmici che, facendo prevalere la parte nutritiva sulla semovente, si
sono fatte delle costruzioni sufficienti a ricoverarli moltiplicati, per godere
gli alimenti, l'aria, l'acqua, e la comodità di copularsi senza essere
disturbati. In- vece di essere fatte dall'ambiente (come pretende lo
Ardigoismo), cercarono fino dall'inizio di premunirsi e difendersi contro il
medesimo. La natura che si fa cerca sempre di rendersi indipendente
dall'ambiente. Noi vediamo le sole costruzioni e non i microscopici
costruttori. Questi differenziano una parte del protoplasma in piccoli dischi
di clorofilla con pigmento colo- rato in verde, per impedire la soverchia
ossidazione dei carbonati e per moderare la propria respirazione dell'ossigeno.
Della clorofilla due terzi sono carbonio, un sesto è ossigeno, 1' 11 °/
idrogeno, il B °/ azoto. Essa respira in modo contrario della parte animale
delle piante, cioè assorbe il gas acido carbonico, ed emette l'ossigeno, e
serve a proteggere gli amebi. Senza la clorofilla il protoplasma animale non resisterebbe
al sole e si dissolverebbe sotto la pioggia. Le cellule o dischi verdi
sovrapposte sopra le coste dei mari, fecero le Alghe ora in linee semplici, ora
a lamine, ed ora a rami. Si ingrandirono, riunendo le tre dimensioni, e si
ingrossa- rono, mentre il protoplasma animale ascendeva e le soluzioni saline
col gas acido carbonico penetravano per endosmosi attraverso le membrane di
celluiosi. Il protoplasma animale andava intanto concentrando il senso della
coesione e delle chimiche combinazioni in modo sempre più perfetto, ed ar-
rivava così a fare dei punti sintetici di amore ossia delle spore incipienti.
Il diletto dell'unione si affinò e le colonie vegetali crebbero d' importanza.
Come diremo nel Capitolo XIII, non si può chiamare memoria la riproduzione del
collettivismo vegetale, perchè è piuttosto una legge sociale diventata
meccanismo, come nella cellula la segmentazione in due cellule riproduce
raddoppiata la cellula prima, per un modo di associarsi divenuto abituale a
tutte. Le prime specie vegetali andarono così formandosi dal di dentro al di
fuori. Alcune specie di Alghe crebbero fino a cento metri. E nelle prime Epoche
Geologiche non vi furono altri vegetali che questi. Tutti sanno che le Epoche
Geologiche anteriori alla Quaternaria, in cui noi viviamo, furono quattro, e
che si dividono ciascuna in tre Periodi. Forse non tutti sanno che, ritenendo
che, per i detriti delle roccie e le terre portate dai fiumi, il fondo del mare
si alzi di un millimetro al se- colo (in termine medio) e misurando lo spessore
dei sedimenti sottomarini che, per le sollevazioni delle Catene montuose (1)
vennero in parte portati alla luce dalla prima Epoca in poi, si calcola che
sono passati 40 milioni di anni divisi così: PERIODI Nell'Epoca Primitiva o
Arcaica Laurenziano — 10 Milioni di anni Cambrico — 6 » > Siluriano — 7 » »
Neil' Epoca Primaria o Paleozoica Devoniano Carbonifero Permiano 12 Neil' Epoca
Secondaria o Mesozoica Trias Giurese Cretaceo Neil' Epoca Terziaria o
Ceiiozoica ) Eocene Miocene Pliocene (1) Una volta il sollevamento delle Catene
montuose veniva attribuito a spinte verticali date dal magma centrale dal sotto
in su. Elia de Beaumont, Machperson, Suess, Lapparent e molti altri, fra cui
Federico Sacco, professore di Paleontologia nella Università di Torino,
dimostrarono che deve attribuirsi invece al raffreddamento del globo, che
obbligò la prima crosta a corrugarsi, facendo delle catene montuose per la
j^ressione laterale. Ripetendosi la causa, si formarono molte catene parallele
una sotto l'altra come nelle Alpi, nell'Himalaya, nelle Cordigliere delle Ande
e nelle Montagne Rocciose: oppure 6 In tutto 40 o 41 milioni di anni dopo le
roccie primitive della scorza terrestre, e prima del periodo in cui viviamo
(1). Quando le acque si ritiravano per l' innalzamento graduale di qualche
costa, poco a poco le Alghe mandarono al fondo alcune appendici, che si tra-
sformarono in radici. In pari tempo si andarono complicando e perfezionando gli
organi della nutrizione, della re- spirazione e di difesa. Questi progressi
furono lenti e graduali e sempre la Natura che si fa restò la parte minima,
mentre la Natura fatta o meccanismo fu la parte una a distanza dall'altra in
linee arcuate o diritte. E lungo queste Catene si sprofondarono i mari, il cui
fondo, alle volte, veniva poi sollevato in parte. I vulcani trovansi sopra le
linee soggette a movimenti più pronunciati. I terremoti avvengono dove il
corrugarsi continua. L'eminente geologo prof. F. Sacco ha in molte memorie
chiarito queste ed altre leggi di orogenia, e specialmente nell' « Essai sur
l'Orogénie de la Terre», 1895, Turin. Clausen. Egli segue la nostra filosofìa
pitagorica e desi- dera che essa venga accolta dalla maggioranza degli
scienziati - anzi crede che questo dovrà verificarsi in un tempo più o meno
prossimo. (1) Si crede che soltanto al principio dell'Epoca Terziaria cominciassero
i ghiacci ai poli e sopra le più alte catene di montagne, ossia un milione di
anni fa, dice il Falsan « La période glaciaire », pag. 221. Sicché per 30
milioni di anni la nostra Terra potè svi- luppare una vegetazione di paesi
caldi. Ma i ghiacci si estesero in Europa soltanto quando il Sahara diventò un
mare e quando cambiò il corso del Gulf Stream dell'Atlantico. E il clima mite
nostro ritornò al disseccarsi del mare sahariano e al modificarsi della cor-
rente calda dell'Atlantico dalle Canarie alla Norvegia ed all'America. —massima
della vegetazione. Però la minima parte della Natura che si fa bastava a fare
l'Evoluzione ed a dare origine a migliaia di specie diverse, sempre più
rigogliose. Ancora oggi nelle Alghe Desmidie, nelle Diatomee, nelle Spirogire,
tutte Alghe unicellulari e microscopiche, la copula è di semplice
condensazione, e il protoplasma viene scambiato sotto la vecchia scorza e le fa
ringiovanire. Per dare un' idea del numero immenso di queste semplici Alghe
basterà dire che la scorza silicea delle Diatomee (numerosissime in tutte le
acque dolci e salate del mondo), forma quella terra fina detta tripoli che
serve a pulire i metalli. Benché una goccia di acqua contenga delle migliaia
di* queste minime Alghe, pure il loro numero è così grande, che ne sono formati
degli strati estesis- simi prima della Epoca Terziaria. Nelle Alghe composte di
molte cellule si formarono le prime spore come centri dell'Amore. La filosofìa
ha trascurato finora lo studio delle prime manifestazioni dell'amore, che tanti
insegnamenti racchiudono. Le zoospore, animaletti microscopici, riuniscono in
se la energia morfologica delle piante primitive, che non è Memoria come
pretendeva Federico Deipino « La psicologia dell'avvenire », ma è una legge
sociale la cui sintesi s'impone nel protoplasma animale delle piante. Nelle più
semplici Alghe Porfirie, le spore cadute si muovono strisciando come gli Amebi.
In altre Alghe esse si riuniscono in gruppi di cellule ovoidi, con delle appendici
vibranti, le quali, col fissarsi in terra e col segmentarsi, produssero i primi
talli germinanti. Molte Alghe per le inondazioni morirono nella melma; ma dai
loro frammenti privi di clorofilla, uscirono i Funghi composti di filamenti
ramificati. Da quelle poi che erano più putrefatte si crede che siensi formati
i Bacteri, i quali rimasero sempre minutissimi, ma si moltiplicarono assai, re-
stando innocui finche vivevano all'aria (1). Nelle Alghe superiori cominciò la
divisione delle spore in femmine ed in maschi. I due sessi si as- sociarono per
fare gli Sporangi od Oogoni capaci di germinare. Nei posti dove le Alghe erano
prossime ai Funghi si unirono con questi per formare i Licheni. Ma i Funghi ed
i Licheni (essendosi dati a vita parassita) rimasero piccoli e deboli. Le Alghe
Characee popolarono le acque dolci e gli stagni. (1) È noto che quando i
Bacteri penetrano nel sangue di un animale ferito, avendo bisogno di ossigeno,
ne alterano il sangue, producendo una malattia contagiosa. Sopra di essi venne
studiato il processo di evoluzione con facilità, perchè ve ne sono di quelli
che in due ore si raddoppiano, sicché in pochi anni si possono ottenere molte
migliaia di generazioni. E così si vide che era possibile col variare la loro
ali- mentazione e l'ambiente e di rendere innocue le specie più virulenti.
Pasteur li coltivava nel brodo, che presto si altera e non si coagula che a 0°
gradi. Roberto Koch di Berlino li coltivò nella gelatina, che si solidifica a
16 gradi centigradi e quindi nel clima di Berlino permette quasi tutto l'anno (meno
il breve estate) di fissare i bacteri sopra una lastra di vetro in un sottile
strato di gelatina e di osservarli col microscopio fornito del così detto «
Mare di luce Abbe ». Il Koch arrivò così a scoprire i bacilli della tisi, del
colera, della febbre gialla, della peste; riformò la teoria Le Fucacee furono
le più diffuse nei mari e formarono delle masse estese dette Sargassi. Al- cune
Alghe come la Macrocystis arrivarono alla lunghezza di centinaia di metri. Le
Alghe dei terreni che andavano asciugandosi, rese robuste, aspirando bene
l'ossigeno, si trasfor- marono poco a poco in Muscinee o Muschi non più alte di
mezzo metro. Nei Muschi acrocarpi le piante femmine producono degli archegoni o
sacchetti in cui si sviluppa l'oosfera che, fecondata, fa l'uovo che germinerà,
mentre le piante maschie fanno le anleridie o sacchetti dai quali scappano gli
anterozoidi, che vanno a fecondare le oosfere delle sorelle. Dalle Muscinee
vennero le Epatiche piene di spore, anch'esse per lo più divise in piante
maschie con anteridie e piante femmine con gli archegoni, piene di acido
malico, che attrae i maschi. delle infezioni ed ebbe numerosi discepoli, fra
cui il nostro Gosio professore a Roma. Anche la muffa delle cantine
(Pennicillum glaucum) le cui spore sono tanto minute che girano nell'aria,
messa nel sangue di un animale senz'altro muore; ma, se viene coltivata ed
abituata poco alla volta a stare nel sangue caldo, può far morire un coniglio
in due giorni. I Bacteri sono a milioni nei paesi tropicali e in certi paesi sono
cospersi o influiti da corpi radioattivi tanto da^ far luccicare le acque del
mare. Se ne raccolgono molti di questi innocenti bacteri per farne in Germania
delle lam- pade a luse verdastra-azzurra, le cui onde sono molto brevi, e si
conservano senza rinnovare l'aria per parecchi mesi, permettendo di leggere i
giornali di notte e di fare qua- lunque lavoro. Invece nei paesi assai freddi i
Bacteri mancano, o sono pochi. Per questa ragione la carne degli animali uccisi
si conserva benissimo nelle terre polari, giacche la causa della putrefazione
delle carni non è il calore, ma sta nei Bacteri. Le proporzioni crebbero nelle
Felci e nelle Preste. I vasi interni lunghi si moltiplicarono, per mandare in
alto i succhi nutrienti e per formare edifìci e magazzini dove albergare e
gustare la vita e l'amore, formando dei 'protalli. Alle Felci aventi spore,
seguirono i protalli a Félce, con generazione alternante: l'una intenta ad
accrescere la nutrizione, riproducendosi senza nozze; l'altra a gustare l'amore
ed a migliorare la morfologia, mediante la riproduzione sessuale. Nella Età
paleozoica le Crittogame avevano raggiunto proporzioni colossali anche ai poli:
ma oggi si sono ristrette alle regioni tropicali. Nelle Preste dove i maschi
erano separati dalle femmine, intorno al tallo permanente, ne sorsero altri più
piccoli, a formare lo sporogono nelle Ofioglossee. Lo sporogono o sporangio,
diventò il più gradito convegno di spore dei due sessi, e servì alla evo-
luzione morfologica delle specie superiori, fino alle Fanerogame del nostro
tempo. Dal periodo Devoniano al Permiano la vegetazione fu superba in
Crittogame ed in Gimnosperme, soprattutto in Pini, mentre nessuna Angiosperma
era ancor nata. Le Crittogame e Gimnosperme si svilupparono per milioni di anni
e lasciarono, laddove si sono fossilizzate, il Carbon fossile, che contiene
quattro quinti di Carbonio puro. Si restrinsero dopo il periodo Permiano e
allora prevalsero le Conifere e le Cicadee. Nel Trias co- minciarono le
Angiosperme. Dopo il periodo giurese prevalsero le Fanerogame, che prima erano
piccole, e crebbero in al- tezza. Fin dalle prime Ofioglossee il tallo
dell'amore si era impiccolito e fatto incoloro e sotterraneo, e si
moltiplicarono gli sporogoni o sporangi: il tallo poi fu ridotto quasi a nulla
nelle Rizocarpee, mentre lo sporogono dominando si divise in spore maschie e
spore femmine nei Licopodi. Finalmente nelle Fanerogame (Gimno ed Angiospermé)
lo spo- rogono nascose il tallo facendo spore maschili o polline e spore
femmine od ondi. Il protoplasma maschio non si organizzò più in corpuscoli, ma
attraversò per endosmosi le pareti del tubo pollinico e andò ad impregnare i
corpuscoli dell'ar- chegono. Le foglie dello sporogono furono trasfor- mate per
la festa dell'amore in variopinti e vellutati petali, stami e pistilli,
emulando le spighe a sporangio floreale delle Crittogame. Nelle Gimnosperme
(conifere e cicadee) la macrospora, ossia il sacchetto embrionale contenuto
nell'ovulo (macrosporangio) diede luogo ad un piccolo protallo che rimase nel- l'ovulo
e ad un endosperma con archegoni, che il polline andò a fecondare; dopo di che
YOosporo potè fare il granulo del seme. Il polline è un surrogato
dell'anterozoide delle Crittogame e non ha l'aspetto di ainebo, ma ne ha la
virtù, senza sforzare le piante a perdere la vigoria nutritiva; è un
perfezionamento che fa godere l'amore senza perdere la robustezza. In questa
lunga evoluzione degli organi sessuali riesce evidente che la psicogenia è
fatta dalla sen- sazione piacevole e che la somagenia non è altro che un
risultato della psicogenia ripetuta con per- severanza. La Natura che si faceva
nelle foreste era la parte minima, ma era piena di vita allegra. Nelle antere,
nei pistilli dei fiori è evidente la vita animale: sono relativamente caldi e
respirano più ossigeno che il resto della pianta. Uovulo ha molte cellule
irritabili, il cui nucleo si segmenta e fanno il sacco embrionale, composto di
due cellule che ricevono il polline, e sono nodrite dalle vicine: una di esse
farà il germe con due cotile- doni che diverranno la radichetta e la piumetta.
Nella Fanerogame la riproduzione è assicurata in tutte le parti giovani. I
Protonti tendevano a fare un protallo sessuale permanente: ma non vi
riuscirono: e già nelle Crittogame superiori e nelle Gimnosperme il protallo
sessuale era stremato. L' indirizzo assunto dalla maggior parte delle specie
vegetali fu quello invece di fare degli sprorogoni perpetui, nei quali per
spore e per germorgli si gode una riproduzione più diffusa, benché i germogli
non si stac- chino dalla pianta madre, come facevano le spore delle Felci. —
Rosai, Viti, Ciliegi, Peri, Meli, Spine e migliaia di altre specie meno comuni
nel clima temperato, si moltiplicano per germogli, quanto per semi - perchè
spore o germogli di spore sono quasi dapertutto. In generale nelle piante
attuali prevale la generazione agamica o la sessuale; ed è rara la generazione
alternante (fuorché nelle Conifere-vascolari). Nelle Fanerogame le parti
giovani hanno sempre spore e possono germogliare; tutti sanno che nelle Begonie
persino ogni foglia fa germogli avventizi, capaci di produrre una pianta
perfetta. Nelle Fanerogame il nodo del picciuolo delle fo- glie parte dal
centro del midollo e dà la morfologia e la chimica delle parti che ne derivano,
poco meno dei fiori. I fiori degli alberi corrispondono alle Meduse ed ai
Polipi idroidi e si individualizzano, mentre i nodi e le foglie si riproducono
senza nozze. Nelle miriadi di specie erbose ci sono individui agami alla radice,
e nel fusto: mentre in cima al fusto sorgono individui fiori. Il fusto risulta
dai fusticini posti a capo uno dell'altro, tutti con ra- dichette, con fibre,
con vasi, con trachee. Mirabile composizione, formata lentamente nell'ascesa a
più alta unità del collettivismo di ogni specie. Nelle Piante (come negli
Animali) il fattore delle maggiori trasformazioni fu l'Amore. L'ambiente, il
clima, l'uso e il non uso degli organi influirono meno della sintesi goduta nei
piaceri intimi della Natura che si fa liberamente. Dorhn variando Fambiente,
vide che gli organi restavano a lungo i medesimi, ma le funzioni variavano
subito; poco a poco la funzione che era secondaria, diventava primaria,
modificando in alcune generazioni tutta la struttura. Ed oggi il De Vries
attribuisce la evoluzione delle piante a rapide mutazioni. La maggior cernita
sta nelle mutazioni del si- stema riproduttivo, più che nell'adattamento al-
l'ambiente: perciò la prima cura dei giardinieri (come degli allevatori del
bestiame) è d' impedire Vincrociamento coi tipi vecchi e di somministrare all'
individuo che si vuol variare una forte nutrizione. L'Embriogenìà, origine
dell'individuo organico, è un raccorcio della Filogenìa, origine della specie,
anche fra le piante. Nelle Fanerogame si tro- vano reminiscenze delle
Thallofiti, delle Muscinee e delle Crittogame. Dove la pianta ha vita più
attiva è aerobia ed animale, come nel seme che germina, nella gemma che si
sviluppa, nella foglia che cresce, nel fiore che matura: e consumano molto ossigeno
riscal- dandosi. I fiori assorbono in 24 ore tanto ossigeno quanto l'uomo (a
parità di volume). Le parti più vive sono sempre più azotater giacche l'azoto,
essendo indifferente ed instabile, favorisce la decomposizione e la
ricomposizione delle molecole a seconda dei bisogni. Queste parti sono le più
calde e le più zoidi; però la parte animale delle piante resta sempre minima,
benché diffusa. Le piante più attive, come la sensitiva, si affaticano e poi
dormono. La Dionea chiude le foglie e stringe gli insetti in trappola. La
Drosera segrega in pari tempo un vischio che li uccide e li digerisce. Sono le
piante più azotate di tutte. — In tre piante insettivore fu scoperto nel 1900
da Huberland un vero organo del tatto, sopratutto nella Mimosa pudica. Nel 1904
Kollwitz vide il principio di una struttura nervosa anche in altre piante. F.
Hook attribuisce alle piante anche sentimenti e volizioni (1). La lenta
Evoluzione delle varie specie di piante compiuta in milioni di anni nelle
Epoche geologiche indicate fin qui, smentisce affatto gì' influssi delle idee-
eterne del Platonismo e dello Hegelismo e più ancora la pretesa formazione
naturale dell'Ardigoismo, che avverrebbe per lo incrocio della linea del tempo
nei punti dove si tagliano le tre linee fra loro perpendicolari dello spazio e
prova la verità del Pitagorismo, dimostrando che le piante si sono formate per
sensazione e volontà, cercando ed ottenendo il godimento e la
moltiplicazionedelie spore e dei germi di riproduzione. In generale le radici
sono coperte di uno strato di cellule piene di aperture, le quali (quanto più
si trovano verso la punta), assorbono per endo- (1) Sind Pflanzen und Thiere
beseelt? 1906, Lipsia. smosi i succhi minerali disciolti. L'acqua passa più
presto del fluido denso che empie le cellule e dietro essa i succhi minerali e
sopratutto la soda vicino al mare e in terra ferma soda, potassa, calce, silice
e talvolta il ferro. Darwin as- somigliava le radici a talpe, che volessero
andare a cercare il cibo sotterra e col muso procurassero di stendersi nel
terreno umido e grasso, evitando i sassi e all'occorrenza sciogliendoli
nell'acqua un po' alla volta. Alcune arrivano, perseverando, a sciogliere marmi
e silicati. Il moto di circumnutazione di queste radici sembra fatto dalla
intelligenza, per evitare o superare gli ostacoli; poco sopra delle punte vi
sono dei peli, che assorbono sempre succhi minerali. Nei fusti e nelle foglie
il protoplasma fa un moto di circumnutazione che si alza la sera e si abbassa
la mattina, ed è forte sotto i tropici* giovando a diminuire l'irradiazione
notturna. L'energia della pianta viene dalla combustione in piccola parte, ma
assai più dal sole; perchè i suoi cibi sono inossidabili ed inerti come lo sono
l'acqua, l'acido carbonico, i nitrati ed alcuni sali e quindi incombustibili.
Ma la luce fa operare la clorofilla, che aspirando il gas acido carbonico, lo
scompone e rigettando l'ossigeno (1) mette il carbonio in grado di far
zucchero, amido, grassi e albumine, e anzitutto l'amido (C6 H10 O 5 ) e la
glucosi (C6 H12 O 6 ); poi anche molecole azotate, (1) Di notte la pianta vive
come un animale assorbendo cioè l'ossigeno ed emettendo carbonio. Una foglia,
re- stando all'oscuro, prende in un giorno circa 8 volte il suo volume di
ossigeno, mentre l'uomo ne prende 14 vo- lumi ed un passero 200 a 260. pigliando
l'azoto dalla terra e non dall'aria, ossia pigliandolo dai nitrati. Con questi
elementi saturati incombustibili la pianta fa molecole combustibili non
saturate e cariche di energia. Lo sviluppo della clorofilla comincia nei punti
gialli dei cotiledoni chiamati leuciti, che alla luce fanno diventare verde il
loro pigmento. Sono glomeruli che dal calore del sole e dalla luce assumono
l'energia termico-elettrica, trasformandola in energia chimica che assorbe il carbonio.
Ogni specie ha una clorofilla apposita, e ad esempio negli spinacci è fatta di
C 40 H62 A2 O 4, nella erba medica G 42 H63 A2 O 4. Nelle piante acotile- doni
è ancora assai diversa. Assorbendo il carbonio, i glomeruli verdi formano le
aldeidi, gli zuccheri, gli amidi, i corpi grassi, il tannino e le materie
albuminoidi, con un lungo e fecondo lavorìo. Negli albuminoidi, oltre al
carbonio e agli elementi dell'acqua e dell'aria, entra sempre qualche po' di
solfo e alle volte anche di fosforo: elementi accentratori, che vedremo cre-
scere negli animali e di cui vi sono traccie già nei nuclei delle cellule degli
amebi e del protoplasma. L'acqua col carbonio fa l'aldeide più semplice, il
quale polirnerizzando fa lo zucchero. I fermenti della cellula, sotto la luce
del sole fanno nelle foglie zucchero ed amido. Tenuto al- l'oscuro l'amido si
cangia in celluiosi o mucilaggine. La celluiosi è una sostanza idrocarbonata
insolubile negli acidi e nelle basi (che sotto l'in- fluenza degli alcali può
tornare amido) con cui si fanno le parti più solide delle piante C 12 H10 O i0.
Le piante prendendo l'azoto non dall'aria, ma dalla terra, riducono i nitrati
ad acido cianidrico. Nelle sementi a lungo private di qualsiasi umidità i
gruppi di cristalli poliedrici delle aldeidi, gruppi (che si chiamano i miceli)
si toccano. Mase penetra l'acqua, si rianimano ossigenandosi, e, se la
temperatura è dolce, germogliano. Mettendo del grano di frumento nell'acqua te-
pida, non si cambia il suo amido finche non germina. Ma appena principia a
germogliare, l'amido si idrata e si trasforma in glucosi. Ed ora veniamo alle
analogie interne fra le piante e gli animali. Il liquido assorbito dai succhi
digestivi in cui le radici hanno trasformato i sali ed altre sostanze minerali
ascende nel fusto, sciogliendo alcune so- stanze che trova nel passaggio e
diventa linfa. Quanto più questa ascende, tanto più diviene densa. Essa forma
dei canali o arterie capillari, nei quali scorre, attratta dalle gemme
sbocciate sul fusto, ed arriva agli stomi, ossia alle bocche delle foglie, dove
si ossigena, evaporando l'acqua. Da queste foglie il succhio ridiscende sotto
la corteccia, divenuto latice (piccolo sangue, di cui la parte essenziale si
coagula, come il sangue ani- male). Come latice empie i canali laticiferi
ramificati dal parenchima, e fa, nelle fibre allungate, il così detto Libro. Il
latice è pieno di granuli vitali, che, come i globuli del sangue, circolano e
depongono il nutrimento nelle varie parti, fino alle radici e nel midollo,
formando quel deposito di materie nutritive che sta fra il legno e la corteccia
delle piante dicotiledoni, chiamato Cambio. Nelle piante monocotiledoni mancano
le gemme laterali, e le fibre del libro ed i vasi laticiferi sono contenuti nei
fasci fibrosi vascolari arcuati sparsi nel fusto. E perciò nelle monocotiledoni
il cambio si deposita in masse sparse. La gemma terminale unica di queste
Monocotiledoni approfitta del succhio elaborato dalle foglie precedenti; e così
avviene anche nelle Acotiledoni vascolari. I vasetti laticiferi abbondano
presso le ghiandole e sopratutto in quelle della resina e delle gomme sotto la
corteccia. Vere ghiandole sotto l'epidermide sono quelle dell'arando, del
mirto, della ruta, che secernono olii volatili. Le ghiandole interne ed opache
son fatte da peli gonfiati, come nelle ortiche. Le materie resinose, la cera
impermeabile all'acqua sono vernici utilissime, le quali moderano la
evaporazione, e non sono escre- menti. Così nei pini, nei pioppi, nei castagni
d'India. Nel Chili e nel Perù quasi tutti gli arboscelli hanno il trasudamento
resinoso, perchè il clima è asciutto e senza di esso svaporerebbero troppo i
succhi: la polvere di cera segregata da peli glandulosi copre le foglie dei
cavoli ed altre specie, le prugne, le uve, ed altri frutti. Molte piante
sommerse nell'acqua si rivestono di uno strato vischioso che impedisce
all'acqua di macerarle. Le resine e le gomme non sono escrezioni: lo sono
invece quelle •che escono nelle radici dai fiocchi gelatinosi. F. Loed (The
dinamics of living matter, 1906,.New-York) considera ogni organismo come una
macchina chimica, di colloidi; ma non può spiegare l'assimilazione e la
morfologia senza Vunità senziente collettiva, che provvede ad ogni bisogno
interno ed esterno delU piante. Le albumine vegetali sono eguali a quelle
animali. Tutte si coagulano a caldo, tutte reagiscono del pari agli acidi, alle
basi ed ai sali.Le globuline vegetali o Edestine, sono fatte per metà di
carbonio, per un quinto di azoto, per quasi un quarto di ossigeno: il resto è
idrogeno, con pochissimo solfo. I bacteri che (come dicevasi nel Cap. VI) in-
grassano le piante sono fatti di una globulina so- lubile nell'acqua chiamata
myco-proteina. Le caseine vegetali (tutte insolubili nell'acqua) fanno il
glutine e sono affini alle legumine estratte dai legumi. II protoplasma è
alcalino, ma il liquido che lo circonda è acido trasparente. Le fibrille vive
pulsano, e nei vacuoli si depongono sali, acidi, zuccheri, grassi, amidi, tutti
len- tamente segregati. Le glucosi formate nelle foglie di un albero, scendendo
nel cambio sotto la corteccia del fusto, e poi nelle radici, perdono la loro
acqua, e vanno depositando l'amido insolubile e la celluiosi. Rie- scono
polimerizzando a fare alcuni principii aro- matici. Una parte importante l'hanno
i fermenti. Dove la pianta cresce presto, lo si deve a fermenti ossi- danti
detti ossidasi. Ossidando molto le aldeidi si ottengono gli acidi. Nelle
sementi del papavero, del ricino, della canapa, del fico, del lino, della
veccia, del granturco, ci sono le steapsine che sa- ponificano i corpi grassi
ed idratano. Nel latice della pianta a lacca del Giappone ed in molti Funghi vi
è la laccasi, fermento che provoca la ossidazione dei tessuti ed agisce sui
germogli e fu trovato anche nella Dahlia e nella Barbabietola. Wiirtz trovò la
papeina, fortissimo fermento in altre specie vegetali. Vedremo negli Animali
quante funzioni vengano attivate dai fermenti. I fenomeni vitali aerobi,
distruggono nelle piante, come negli animali, i grassi, gl'idrati di carbonio,
con lenta combustione, che riscalda alquanto le cellule. Da per tutto dove si
moltiplicano le cellule in- terne e si organizzano, vi è combustione e riscal-
damento, emettendo gas acido-carbonico ed acqua, precisamente come si verifica
in un animale. Le diverse funzioni interne delle piante che abbiamo indicate
sono dunque analoghe a quelle di certi animali inferiori (meno la clorofilla o
parte verde). Non siamo entrati nella Botanica descrittiva, limitandoci ad
investigare la Natura che si fa delle Piante, le cause intime della loro
formazione ed evoluzione. I Botanici si arrestano quasi sempre alla Natura
fatta delle Piante e trascurano la Natura che si fa. Questa invece interessa
altamente la Filosofìa della Natura, perchè presenta una serie ricchissima di
fatti, che ci convincono che la parte materiale dei Vegetali è la persistenza
ereditata dei movimenti funzionali che, molte volte ripetuti, diventarono
strutture ed organi. Dalla psiche del Proto- plasma, non già dall'Inconscio
Indistinto, né dal caso, uscirono tutte le funzioni: e tutte le forme mirabili
della vegetazione universale, le cui centinaia di migliaia di specie
abbelliscono la faccia della Terra. Tutto si è fatto dal di dentro al di fuori,
all'opposto di quanto insegna VArdigoismo. « E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni
». Origine psichica delle specie animali Ogni forza nella sua intimità, lo
abbiamo visto fin qui nella Natura inferiore, è sentire e volere: sentire il
contatto delle cose esteriori portate nella propria unità; e poi volere
l'allontanamento di ciò che fa male e l'avvicinamento di ciò che fa bene: e
giova a sviluppare la propria vita ed a renderla indipendente. Quindi ogni
forza organica ha la sua finalità, benché si manifesti come Materia. La Natura
che si fa era, ed è ancor sempre nelle specie vegetali ed animali sentire,
desiderare e volere. Il sentire precede il desiderio, il volere e il muoversi
lo seguono. Negli animali più che nelle piante si manifesta la causa evolvente,
cioè la tendenza di elevarsi a sensazioni più armoniche, ad unità più
complesse, operando e dominando in relazione. « Et mihi res, non me rebus
submittere amor ». Orazio. Nel processo chimico la distruzione provoca a
rimettersi; nel processo morfologico la Vita è la evoluzione a forma più alta,
e più sicura di dominare gli ostacoli. Se fosse un mero processo chimico di
combustione, si potrebbe mantenere la vita nei membri mutilati degli animali
superiori, di cui si può conservare per alcune ore la digestione, la
respirazione, la circolazione del sangue e la secrezione delle ghiandole. La
formazione lenta e perseverante degli Organismi per fuggire il dolore e
procurarsi il piacere è universale. Essa fa le funzioni e le consolida in
organi, dapprima deboli e semplici, poi, con l'esercizio, vieppiù complicati e
robusti. La funzione è la distribuzione della forza che un organismo oppone a
quanto inceppa il suo libero sviluppo, ossia lo sviluppo del piacere. Il
materialista crede che le Turbellarie non re- spirano, perchè prive di
branchie, che i Polipi non sentono, perchè non hanno nervi, che gli Insetti non
hanno circolazione perchè non hanno arterie, né vene; ossia credono che la
funzione dipenda dall'organo, il quale organo poi si sarebbe fatto
miracolosamente per virtù dell'ambiente. Invece secondo Schelling, Hartmann si
sarebbe fatto per virtù dell'Inconscio, Indistinto, Infinito, secondo Ardigò da
tutti e due. Ma il zoologo filosofo sa che le funzioni prive di organi si
compiono meno bene, ma si compiono: e che ci vuole molto tempo a fare gli or-
gani. La vita intensa non si manifesta se non quando le materie azotate si
scompongono, per ricomporsi con atti Unitari Morfologici, che ordi- nano le
funzioni e formano poco alla volta gli organi. Le correnti interne delle Monere
fanno le prime appendici e la contrattibilità: esse non hanno ah tro organo
della volontà che i così detti falsi piedi, formati dal loro protoplasma
esterno viscoso: e quando hanno finito di muoversi, li ritraggono nella massa
comune. I cigli permanenti principiano negli Actiniferi ed irradiano da un
centro. Nelle specie superiori degli Infiisorii (1) si riuniscono in una coda,
detta flagello (anche le spore delle Alghe verdi hanno cigli vibratili). Le
larve dei Celenterati ne sono coperte. Engelmann distinse i moti degli Amebi,
che sono sarcodici o ad appendici brevi, o fila- mentosi, dai moti oscillanti
dei Bacteri. Gli animali sono in generale assai più azotati delle piante; e
quindi di composizione più instabile, più facile ad adattarsi alle nuove
circostanze e tendenti a dominarle. La loro psicogenia fa la somagenia più
presto che nei vegetali. Dalla gelatina che è Valfa delle materie proteiche,
essi arrivano in poco volgere di tempo a far Valbumina che ne è Vomega.
L'albumina, con 14 elementi diversi, forma molecole composte di centinaia di
Atomi, la cui struttura si presta alle più diverse funzioni, grazie alle
isomerie, per le quali (con l'aumento di Atomi della medesima specie nella
stessa molecola (polimerie) oppure con la metameria (che lascia lo stesso
numero di Atomi di ogni specie, cangiandone soltanto la disposizione) si
ottengono nuovi adattamenti all'ambiente e nuove forze per svilupparsi (2). (1)
Fin dal 1848 il prof. Ehrenberg di Berlino scoprì 400 specie di Infusori
microscopici che vivono in diversi strati dell'atmosfera, ed altre centinaia se
ne scopersero poi, di una piccolezza tale da essere invisibili, nella pioggia,
nella nebbia, nella neve, nel mare, negli stagni. La vita ani- male pullula
dapertutto dove vi è ossigeno, anche in forme minutissime. Ci sono animaletti
che si muovono con molta alacrità, sanno evitare gli ostacoli che si oppongono
al loro corso: i grossi vanno a caccia dei piccoli. Se ne sviluppano molti
nelle infusioni fredde o macerazioni vegetali. (2) Queste materie proteiche
vengono nei Laboratori delle Università, cimentate con l'idrato di barite, con
poco risul- tato, perchè l'albumina morta non è più capace di nulla. La sintesi
piacevole o dolorosa guida l'animale a fare le funzioni più adatte, trovando
mezzi migliori, e respingendo, abbandonando i meno utili per nutrirsi, per
respirare, per muoversi e per riprodursi. L'organo deriva dalla funzione, la
quale (come dicevamo) si compie anche se gli organi sono di- fettosi o mancano
del tutto, benché allora si compia meno bene. Così distrutti i reni, l'urea
viene estratta dal sangue nella superficie mucosa dell' in- testino. Quando una
funzione comincia a localizzarsi, è sempre confidata ad un vecchio organo
leggermente modificato. La Natura che si fa, tende sopratutto a modificare
opportunamente la Morfologia. La formazione degli organi di relazione e so-
pratutto degli organi dei sensi, ci mostra che una continua crescente
attenzione a determinati scopi fu rivolta dai più semplici animali. Le
successive accumulazioni di energia e di abilità acquisita, benché piccole
negl'individui, da- vano una grande somma, dopo una lunga serie di generazioni,
con la legge ben nota della diminuzione del lavoro biologico generale a
vantaggio di un organo particolare. Furono certamente figurate con perseveranza
le varie maniere di difesa che si fecero animali di scarsa intelligenza. Quando
un atto nuovo, per speciale combinazione, è trovato utile, i più stu- pidi
animali arrivano a farne una funzione, e ri- petendola per varie generazioni in
favorevoli cir- costanze un organo efficace. Così i Bagni in ori- gine
segregavano un liquido viscoso per farsene bozzoli; ma discendendo dalle
frasche mentre il vento li gettava sui rami prossimi, videro che ritornando più
volte al primo ramo ed incrociando i fili, pigliavano mosche, finche impararono
a far reti geometriche, che all'aria si induriscono. Alcune Formiche, il
Bombardiere, alcuni Scarafaggi videro che getti e spruzzi loro servivano ad
allontanare i nemici e ne appresero l'arte. La Seppia imparò ad intorbidare le
acque. Le Torpedini del Mediterraneo, i Siluri del Nilo e del Senegal, il
Gimnoto dell' Orenoco ed altri Pesci, con apparati nervosi pieni di cellule
prismatiche di gelatina, si fecero delle batterie elettriche con le quali danno
scosse violenti a chi li insegue. In un Vademecum destinato alle persone colte
in generale, per far meglio intendere la multiforme attività della psiche, che
va facendo e moltiplicando ogni specie, ci sembrò utile di dare alcuni esempi
caratteristici. Se una divinità inconscia presiedesse alla evoluzione degli
organismi o se questi fossero fatti dalle forze incidenti dell'ambiente (che
YArdigò, seguendo lo Spencer, crede tanto influenti), non sarebbe vero il fatto
osservabile in tutti gli ani- mali e nell'uomo stesso, che le funzioni fatte
con coscienza e ripetute, rendono i moti più facili e più coordinati, omettendo
gli inutili, per insistere sugli utili, con teleologia sempre più
chiaroveggente, interna dell'animale e non esterna dell' Inconscio cosmologico
universale. Quando la funzione, ripetuta per alcune generazioni, ha formato
sarcodi, muscoli, nervi e moti riflessi, cessa il lavoro di convergenza che
atten- deva ad un determinato progresso morfologico: la coscienza se ne ritira,
dirigendosi a soddisfare nuovi bisogni; ma la coscienza e la convergenza
ritornano sopra quei punti, quando cambiano le — 106 — circostanze, e l'animale
tituba sul da farsi, e deve fare nuovi movimenti e quando impara un mestiere.
La convergenza assomma le Unità senzienti come un fiume assomma le acque di tutta
una valle. La convergenza della Natura che si fa, trova i moti migliori e li
combina. La Natura fatta delle cellule associate per fare i moti nuovi, dopo
averli imparati, li continua come una macchina, come i soldati, dopo aver
imparato l'esercizio dagli uffi- ciali, li continuano da se soli e li ripetono
centinaia di volte facilmente. E questo meccanismo si fa poco a poco, perchè,
con la semplice ripetizione di un movimento, l'ani- male, sente fortificarsi i
muscoli che contrae, le ossa sulle quali i muscoli si inseriscono, ed i centri
nervosi che li eccitano. Un animale superiore racchiude in se milioni di
sensazioni delle sue cellule dei suoi organi, che egli, nella sua vita conscia
generale, non avverte. Se le sentisse sarebbe confuso, come un generale
condannato ad udire i discorsi dei suoi gregari. La cenestesia o sentimento
comune, accentra le Unità organiche e fa la sensazione interna sintetica, che
^impone di esercitare o di trascurare le funzioni. È un tatto interno, che
sente la vita scorrere nei visceri, nelle membrane mucose, nelle ghiandole, nei
muscoli, nelle arterie, nei polmoni, nelle articolazioni, nei nervi: è, come
vedremo nel Capitolo XIV, la base dell'anima giacche ne fa i sentimenti, le
sensazioni, i ricordi e le voli- zioni: base psichica, che viene dalle singole
unità delle cellule e degli organi e non dall'ambiente, ne dall'Inconscio,
Infinito, Indistinto. L'eredità ci dà gli organi, senza che il neonato sappia
ancora farli funzionare: la coscienza degli antenati li ha fatti poco a poco,
ma facilmente l'animale diventando adulto impara ad usarli. La funzione va
presto nell'animale nato da poco, da se come un meccanismo: senza nuove
aggiunte: finché non cambino le circostanze e non sorgano ostacoli impreveduti.
Per modificare le funzioni ci vuole la coscienza, l'attenzione, la Natura che
si fa, la sìntesi chiaroveggente, gaudente o sofferente. Essa per fare dei
cambiamenti minimi esige un grande lavoro, come osserva il Pouchet, mentre il
lavoro della psiche inconscia, passiva, che va come un meccanismo, ossia della
Natura fatta, non spende energia visibile, perchè si fa per con- vergenze
particolari, minute e locali, senza cercare nuove combinazioni. I vantaggi
acquisiti da poco tempo, si perdono, se non sono conservati e rafforzati coll'esercizio,
e se la Volontà li abbandona, gli organi si atrofizzano. La selezione fatale
per la sopravivenza dei più adatti a vivere in un determinato ambiente (the
sunnvance of the fittest) propugnata da Carlo Darwin esigerebbe molti più
milioni di anni di quelli che attesta la stratificazione dei sedimenti
geologici. Quindi bisogna con Naegeli dare molto maggiore importanza alle cause
intime, alla Unità noumenica, ossia non fenomenica, la quale sentendo,
desiderando, volendo, cambia le funzioni e le perfeziona. Romanes ha mostrato
che VAmore ha separato le specie animali, perchè, fra certe famiglie si
stringevano alleanze, che escludevano gli altri, e le isolava; cosicché alla
fine, le nozze con altre famiglie restavano sterili. Infatti la prima cura degli
allevatori è eli impedire l' incrociamento delle nuove varietà coi vecchi tipi.
— La figurazione amorosa, separando ed isolando, fece e fa le specie nuove. La
umana imaginazione è una piccola parte delle combinazioni di imagini e di sen-
sazioni che ebbero gli Animali, e sopratutto di quelle relative al
miglioramento delle proprie condizioni e dei propri organi ed alle scelte
sessuali. Sembra che le modificazioni degli animali su- periori sieno avvenute
bruscamente, nell'ovario o nella prima fase dell'embrione, quando erano state
lungamente richieste dalle circostanze e vi- vamente figurate e bramate dai
genitori. L' imaginazione della madre ha la più grande influenza sull'Embrione,
non soltanto nel concepirlo, ma anche quando si va svolgendo nel ventre, come
lo provano tanti fatti di cui alcuni ne ci- teremo in seguito (molti somigliano
a mostruosità). Ohi guarda le miriadi di specie minute resta meravigliato di
vedere come siensi fornite di organi così diversi, così opportuni per la vita,
nelle fo- reste, sui monti, sul mare, sulle acque dolci, correnti o stagnanti.
Gli Insetti che volano hanno valvole pulsanti sparse in tutto il corpo e
perfino nelle zampe, ed un intricato sistema di vasi e di tubetti secretori che
fanno sughi gastrici e in al- cune specie (numerosissime sulle rive del fiume
Orenoco in America) veleni per i nemici. GÌ' Insetti hanno foggiate le membra
loro a mille usi per afferrare o masticare i cibi, per succhiare od incidere le
piante e le carni (mandibole, palpi labiali, proboscidi, trombe, lancette). Alcune
specie, come VElater tropicale e le nostre Lucciole, sono fosforescenti e la
fosforescenza è dominata dalla loro volontà. Il verme di acqua dolce fa le
branchie dalla pelle; il Crostaceo phyllopodo le fa dalle zampe. Nel Gambero
gli anelli sono assai diversi: gli uni portano antenne, i seguenti mascelle,
zampe e l'addome. E tra le zampe, ve ne sono di ambulanti, di prensili, di
respiranti e di natanti. Tutti conoscono molte specie di Molluschi, le quali si
fecero un mantello, emettendo, a lamine di carbonato di calce, una Conchiglia
del colore del mantello, piccola casa portatile. Così gli Uccelli fanno le uova
con guscio calcare. In generale le parti mediane cambiano difficil- mente.
Invece le estremità vennero adattate fa- cilmente in tutta la Fauna ai nuovi
bisogni, quando duravano per varie generazioni. Il graduale innalzarsi (con
sentimento, desiderio e volontà) delle specie animali, fu studiato da C. Darwin
e da Haeckel e tenteremo di darne le linee principali (per quanto si può in un
paio di pagine), onde mostrare l'efficacia delle leggi generali di evoluzione
sopra esposte. Haeckel, con mente scrutatrice e geniale ha li- brato i fenomeni
della Embriologia e le testimonianze della Paleontologia, dando un quadro
approssimativo della generale evoluzione morfologica dalle prime colonie di
cellule. Dai Polipi idroidi derivano le Meduse e stac- candosi, formando la
testa, gli Anellidi. Gli Articolati (Anellidi, Miriapodi, Insetti, Ragni e
Crostacei) saldarono i loro muscoli ai tegumenti esteriori, che in principio
erano semplici indurimenti della pelle e poi si coprirono di chitina. Come
dagli Articolati venissero i Molluschi non è deciso, vi sono due spiegazioni.
(Vedi Capitolo XIII). Dai Molluschi si staccarono i Tunicati, animali assai
piccoli, per la tunica a sacco, nella quale chiusero le branchie, gl'intestini,
il cuore, ed i vasi sanguigni (Ascidìe, Bifore,.Pirosome, ecc. a generazione
alternante. Si crede che dai Tunicati, per mezzo dei Cordati e dello Amphioxus
(che non ha ancora cervello) sieno derivati i primi Pesci, alcune specie dei
quali sono prive di ossa ed hanno soltanto cartilagini ancora oggidì. Tutti i
Pesci hanno un cuore, che corrisponde alla metà del nostro, e sangue freddo:
tutti hanno molte dita per nuotare. Se ne staccarono i Dispneusti, nel periodo
Devoniano, i quali resero la loro vescica natatoria capace di funzionare come
polmoni, entrando per molte ore al giorno nelle foreste prossime al mare. Per
cacciare animaletti vivi i Dispneusti ridussero a poche le dita e le
accorciarono. Dai Dispneusti provennero gli Amfibi, i quali nascendo respirano
ancora con le branchie, ma nella età adulta respirano coi soli polmoni,
abituandosi a vivere sulla terra. Essi ridussero a 5 sole le dita di ogni
membro e queste rimasero poi 5 in tutti i Vertebrati, compreso YUomo. Le Rane
inghiottiscono l'aria per la bocca. Perdendo affatto la respirazione
bronchiale, complicando il cuore, ed acquistando quella membrana detta Amnio
che riveste il feto e li fece chiamare Amnioti, si formarono dai più elevati
Amfibi gli Stegocefali, che divennero padri dei Rettili. Come le più energiche
forze plutoniche erano necessarie per dare origine ai basalti ed alle altre Ili
roccie ignee della prima scorza terrestre, così le forze organiche più energiche
erano necessarie a dare i primi abbozzi della Flora e della Fauna. E le Unità
intime confrontanti in tanto carbonio e calore, come ne avevano i mari
nell'epoca Primaria o Secondaria, dovevano aver maggiore facilità di oggi nel
cambiare e scegliere le forme fondamentali. Perciò si trovano fino dalla Età
Mesozoica i tipi fondamentali delle varie specie già pronunciati. Nel periodo
Siluriano, ossia nell'Epoca Arcaica (subito dopo il Cambrico), vi erano già
Molluschi superiori ed anche Pesci. 1 Pesci Ganoidi del Si- luriano avevano un
sistema nervoso dorsale, di molto superiore a quello radiato o bilaterale o
centrale dei Molluschi. Questo ci prova che, fino dall'origine, vi erano
diversi tipi fondamentali e che non è vera la Evoluzione sopra una sola linea.
Nel periodo Cambrico, vi erano già Crostacei di forme gigantesche. Dal Cambrico
al Devoniano, abbondarono le Trilobiti (1), che sembrano essere stati i primi
Crostacei, tanto numerosi da formare coi loro scheletri dei depositi
estesissimi, ma estinte dopo il periodo Devoniano. Si moltiplicarono gli Amfibi
e i Rettili. Alla fine di questo periodo si alzarono le piante terrestri e
formarono grandi foreste che crebbero poi nel periodo Carbonifero. Nel
Devoniano erano Felci arboree colossali, Si- gillane e Lepidodentri) tutte
Crittogame, mentre nelle acque si moltiplicarono i Molluschi, i Cro- (1) H. E.
Ziegler: «Die Descendenz Theorie in der Zoologie », 1902, Iena. -Piate: « Das
Darwinistische Prinzip der Selection», 1905, Lipsia. stacci, i Zoofiti, i
Pesci. Parecchi degli Amfibi e dei Rettili raggiunsero dimensioni assai
notevoli. Alcuni Lepidodentri erano alti 30 metri e il loro tronco
aveva un diametro di 3 a 4 metri, che si trovano spesso nei sedimenti di
quel periodo. Le Sigillarle erano anche più alte, fino a 40 metri, con tronchi
enormi e cicatrici alla base delle loro lunghe e durissime foglie; bastino
questi esempi per mostrare in quale magnifica vegetazione si movessero quei
grossi e feroci Vertebrati. Dal Trias al periodo Permiano, Amfibi e Rettili
divennero padroni delle terre boscose e delle ac- que dolci. Il sangue restava
freddo, e si mescolava nel cuore, il venoso con lo arterioso, senza passare per
i polmoni. I più grossi furono gli Ictiosauri, carnivori per lo più, a lingua
secca, con pochissimo senso del gusto. Nel periodo Cretaceo, dalle Lucertole
derivarono i Fisomorfi e gli Ofidi o Serpenti, perdendo per inerzia ed atrofìa
le membra, e facendosi ad ogni vertebra una costola, perchè vivevano sempre
sdraiati e si limitavano a poltrire e strisciare (1) nel fango e fra le alte
erbe. Gli Amfibi antichi erano coperti di squame, mentre i viventi sono ignudi
avendo degenerato. Invece i Rettili antichi erano nudi, per lo più, e i viventi
arrivarono ad agguerrirsi con squame e con corazze. (1) L'apparato velenoso
delle Serpi sta nelle ghiandole salivari, che in parte secernono materia gialla
velenosa, che passa poi per i denti forati superiori, mentre la bestia afferra
la vittima (Vipera, Aspide, Sonagli, Crotalo o Tri- gonocefalo, Najadi). Dai
Rettili ai staccarono i Draghi, piccole lucertole che rivolsero una parte delle
costole a destra e a sinistra per sostenere due prolungamenti della pelle che,
senza permettere loro di volare, gio- vavano però a sostenerli come paracadute
nel sal- tare da un albero ad un altro lontano alcuni metri. Essi non stanno
quasi mai per terra, ma vi- vono sulle cime degli alberi o si gettano nelle
acque in cui nuotano con grande facilità, per prendere gl'insetti che mangiano.
Ve ne sono molte specie ancor oggi nell'India orientale e nelle Isole della
Sonda. Furono questi i primi Rettili che riuscirono a rendere caldo il loro
sangue. Pare che anche i Dinosauri ed i Plesiosauri avessero il sangue caldo;
essi vivevano nell'acqua ed erano provvisti di grossa coda, di natatoie potenti,
avevano un collo serpentino assai lungo, per lanciare la testa sopra le prede,
e sbranarle coi loro formidabili denti. Formati nel periodo Giurese si
estinsero nell'Epoca Terziaria. Erano lunghi da 4 a 6 metri. Fra le specie
affini ai Draghi e ai Dinosauri o Plesiosauri ve ne furono al principio
dell'Epoca Terziaria di quelle più piccole, che diedero ori- gine agli Uccelli,
diventando bipedi. A quelli che si appoggiavano sulle gambe di dietro, si
allargarono le membra anteriori, che si coprirono di piume, per far salti e
volate ed in- nalzarsi sulle Piante. Il passaggio dai Rettili agli Uccelli si
vede nel periodo Giurese nello Hesperornis senza ali, che viveva nell'acqua e
mangiava pesce, nello Ictyomis della Creta Americana e nell: " Archaeopterix
di Germania: tutti avevano denti e coda da Rettili. An- oor oggi gli embrioni
degli Uccelli sembrano Rettili, come le Rane neonate paiono Pesci. Nei Pesci
come nei Rettili e così negli Uccelli il cervello manca di circonvoluzioni.
Manca pure ad essi la vescica, e l'orina sbocca in un prolungamento del retto,
detto cloaca. I polmoni degli Uccelli continuano in tutto il corpo, con le cel-
lule membranose, perfino nelle ossa, per il grande esercizio della respirazione
che fanno volando. Lo sterno è grande e solido, dovendo sostenere le ali. Per
cercare sementi ed Insetti o Vermi ridussero la faccia a due mascelle, formando
il becco, ren- dendo così impossibile la masticazione; per cui in pari tempo
modificarono l'apparato digestivo, incominciando a digerire nel ventricolo
succenturiato, per continuare poi nel ventriglio, dove si forma il chilo. Neil'
Epoca Terziaria le specie degli Uccelli si moltiplicarono assai ed arrivarono a
proporzioni enormi. Alcune di queste poco o nulla volavano come YEpyornis del
Madagascar, oggi estinto, che era alto 4 metri, i Dinorni della Nuova Zelanda
alti 2 metri e mezzo, lo Struzzo dell'Africa e dell' India, alto anche più e
più grosso, ma che non vola più e corre fornito di cosce grosse come quelle di
un uomo, colle sue gambe alte 130 cent, più del cavallo. Vive in truppe e
mangia erbe; oggi si alleva con profìtto. Gli sono omologhi ed analoghi, ina un
po' meno alti, il Casoar nell'isole della Sonda, lo Emù dell'Australia, il
Nandù del- l'Argentina. Gli uccelli rapaci non raggiunsero mai quelle
dimensioni: VAquila dell'Europa e dell'Asia, il Condor delle Ande non superano
quasi mai il metro in lunghezza. Essi rappresentano nell'aria quella caccia fe-
roce che è stata continua sulla terra e nell'acqua, caccia clie si esercita
sempre contro altre specie. Fra i membri di una famiglia, fra quelli di una
società animale, regnano l'amore o l'amicizia, e vi sono esempi numerosi di
abnegazione e di sacrificio. Il numero delle specie di animali che vivono di
erbe supera quello delle specie che vivono di carni, come il numero delle tribù
selvaggie pacifiche, supera quello dei selvaggi feroci, e quello degli uomini
civili e laboriosi supera quello dei delinquenti. E bisogna guardare all'
origine dell' egoismo feroce. Come nella Fisica e nella Chimica le forze
fondamentali ed universali sono le attrattive, e sol- tanto quando l'armonia e
l'esistenza è minacciata sorgono le ripulsioni, così, quando le specie animali
imparano a far caccia e guerra, è per lo più quando sono minacciate nel
pacifico possesso dei loro mezzi di vivere, quando non trovano da sfa- marsi
(1). I primi Mammiferi furono i Sauro-mammoli ed i Monotremi nel Trias e ne
vennero 3400 specie, (1) Gli animali domestici ben trattati restano come
fanciulli affezionati, mentre quelli maltrattati perdono la natura pacifica
ereditata. All'opposto gli animali di specie feroce sono più o meno adatti a
diventare domestici. Così si fa con gli orsi nelle locande del gran Parco
Nazionale del Yellowstone negli Stati Uniti, così si fa con gli alligatori ed i
coccodrilli negli Stati meridionali di quella grande Repubblica, i quali ornai
nel Mississipi si allevano per venderli come carne da macello. delle quali metà
sono già estinte. Il periodo glaciale le obbligò a surrogare alle squame i
peli, mandando molto sangue alla pelle a formarvi le ghiandole pilifere per
ripararsi dal freddo; così si fecero anche le lane delle pecore. Meno gli
Equidi e le Antilopi, che impararono a correre più veloci, gli Ungulati, che
tanto si erano moltiplicati, furono tutti mangiati dai Carnivori, derivati nel
periodo Eocene dai Marsupiali, Laddove la persecuzione dei carnivori era più
minacciosa, i Cetacei, che erano e sono ancora Mammiferi {Balene, Delfini) ed i
Pinnipedi (Foche) si salvarono nel mare, lasciando inerti le membra posteriori,
svilupparono in natatoie le membra anteriori; ingrossarono la musculatura della
coda ed impararono ad allargare sempre più la bocca, per ingoiare molti
pesciolini ad una volta. Invece sui grassi pascoli del Miocene e del Plio- cene
dove i Carnivori non penetravano, i Ruminanti, riposando quando erano satolli,
digerendo lentamente, si fecero quattro stomachi, risalendo i cibi dal pansé
nella bocca per essere macinati, e tornare poi nel secondo stomaco {cuffia) e
nel terzo (centopelli) e passare finalmente nel caglio che termina la
digestione. I più grossi Mammiferi furono i Mammuti della Russia. Per prendere
i cibi nelle paludi, per bere, per sollevare qualsiasi piccolo oggetto, gli
Elefanti prolungarono il naso in proboscide, onde restare comodamente piantati
sulle grossissime gambe poco pieghevoli. Per scavar la terra le Talpe
cambiarono le zampe anteriori in uncini e zappe; per mangiare le foglie più
alte delle Palme le Giraffe allungarono molto il collo; per nutrirsi di mosche
e di farfalle not- turne il Pipistrello distese sopra le membra anteriori un
mantello, facendo crescere sulle 5 dita assai lunghe una membrana che serve
come di ali; ed anche il Pesce Dattilottero allargò le natatoie del petto e le
allungò in ali. Per difendersi, i Ruminanti si fecero spuntare sulla testa le
corna; per arrampicarsi sugli alberi le Scimmie cambiarono le zampe in mani;
per armarsi di sassi e di bastoni con le mani alcune di esse si abituarono a
stare dritte sulle membra posteriori e ne vennero i nostri piedi, e quell'af-
flusso di sangue al cervello durante la gestazione del feto, che aumentò
l'intelligenza. Studiando le differenze fra Scimmie ed Uomini il prof. Keit
trovò che 312 caratteri morfologici sono propri di questi; 186 sono comuni
all'Uomo ed al Gibbone, 272 all'Orangutano, 385 al Gorilla e 396 allo
Scimpanzè. Selenica mostrò che la embriogenià umana somiglia moltissimo a
quella di queste specie. Certo è che l'embrione nostro diventa successivamente
in nove mesi: Monerula, Morula, Blastosfera, Gastrula, Cordoniano, Acranio,
Ictioide, Àmnioto, Mammifero placentato e Primate, giacche la Ontogenia o
evoluzione dell'individuo è un raccorciamento della Filogenia o evoluzione
della specie. Il posto relativo delle parti negli animali di un medesimo tipo
non cambia mai; benché se ne foggino stromenti tanto diversi (come ne abbiamo
indicati parecchi) a seconda della loro volontà. Bisogna ben distinguere la
Omologia o somiglianza delle forme, dalla Analogia o somiglianza delle
funzioni, giacche la modificazione degli organi per farli servire a funzioni
nuove è stata assai frequente in tutti i tipi. Vi sono specie fluttuanti per i
molti incroci (cani, sorci, uomini ecc.). Il sentire-volere ha fatto tutte le
specie estinte o viventi, compendiando le anteriori. Quindi con perseverante
volontà l'uomo può perfezionare il sistema nervoso, il cervello sopratutto, il
sistema vasomotore, il muscolare, il cuore, i polmoni. Tutte le volte che i
figli tendono al medesimo scopo dei genitori, rinforzano la Natura che si fa e
perfezionano il corpo, facendo ereditare capacità fisiche ed intellettuali
migliori. Vi sono famiglie di atleti, di Boxers, di ballerine, e famiglie di
pittori, di musici e di scienziati. La Civiltà è una gara continua nel far
atten- zione a nuovi oggetti, un eccitamento perenne ad osservare, a pensare, e
quindi a sviluppare gli strati corticali del cerebro. L' Inconscio è sempre un
risultato della perse- veranza del Conscio nell'attivare nuove funzioni. Ne
abbiamo addotte in prova centinaia di fatti, mentre nessun fatto può addursi
per dimostrare che dall' Inconscio esca il Conscio. Ex nihilo nihil. Ciò
nullameno Schelling nel 1799 diede all'In- conscio la parte di fare l'Ordine
nel mondo, ed Ardigò lo riprodusse. « Die Materie ist erstarrte Intelligenz,
disse Schelling, la materia è pensiero congelato ». Ed Ardigò Voi. IV, p. 269 «
Il contenuto di ciò che si dice Materia, non è altro che lo stesso Pensiero del
quale è una forma ». «L'Infinito inconscio fa l'Ordine nel mondo» disse
Schelling. Ed Ardigò lo riprodusse, II, 235. « La Unità ordinatrice dello Indistinto
assoluto fa la Natura », p. 247. « Tutto risulta da urti: lavoro meccanico: ma
in fondo vi è una razionalità sapientissima », p. 249. « L' Indistinto
Universale, per cui tutto è uno, è la causa dell'ordine », p. 250. « L'ordine
nel caso, e il caso nell'ordine: ecco la ragione della distinzione o formazione
naturale », p. 129. «Lo Indistinto è Infinito, ed è l'ambiente che sta sotto ad
ogni distinto », p. 183. E Ardigò conchiude che 1' Indistinto assoluto esclu-
de il sopranaturale. E fa alcune osservazioni al padre Secchi, cercando di
provare che la Natura è infinita e che l'Ordine viene da questa Infinità. Però
noi abbiamo dimostrato nei primi Capitoli di questo Libro che l'Infinito non è
mai una realtà, che non vi può essere materia continua, che il mondo non può
essere infinito. Dalla falsa premessa che il mondo è infinito, non si può tirar
fuori l'ordine; e dal cambiare il sopra naturale in sotto naturale non si può
tirar fuori nulla, perchè l'effetto è lo stesso, che venga dal di sotto o dal
di sopra, V Indistinto è la causa dell'ordine. Però VArdigò si contradice
volendo parere positivista. Ed a tal uopo scrive, p. 249: « La Intelligenza
viene dopo e non prima dell'ordine e ne è un effetto ». I suoi discepoli poi
ripetono sempre questa seconda parte, e non la prima schellinghiana, del loro
maestro: Marchesini (« Vita e pensiero di Ardigò », 1907, p. 338), scrive:
«L'umano pensiero si è formato per la continuazione di accidentalità infinite,
succedentesi ed aggiuntesi a caso, le une alle altre ». E a pag. 259 ci dà
questa bella genesi degli Uccelli: « La specie della Gallina è un apparato « fisiologico riuscito, per aggiunte e
modificazioni « casuali, occasionate dalle azioni e reazioni del- « Vambiente ».
Qui dunque lo Indistinto Inconscio, razionalità sapientissima, non fa più
nulla: è il caso, è l'ac- cidente che fa tutto. E il ritmo che è la semplice
ripetizione di un moto ad intervalli eguali, viene ad aiutare il caso. L'
Indistinto a che cosa è ridotto? Si vuol ne- gare che venga da Schelling, da
Hegel, da Hart- mann. Si vuol tirarlo fuori dal nostro sentire: « Potendo
invertire le sensazioni che fanno il Me « da quelle del Mondo o Non Me, dice il
Mar- « chesini (pag. 308 a 312) si scopre che la sen- « sazione in se stessa è
indifferente ad essere « oggetto o soggetto, ed abbiamo così lo Indi- « stinto
sottostante ad ogni distinto. Indistinto po- « sitivo trovato per induzione. «
Via i misteri della divinità, avanti la conti- « nuità funzionale della Natura
infinita, che si « manifesta come Materia, come Spirito. La espone rienza della
nostra sensazione ci dà il sottostante « indistinto ». È questo il Positivismo
radicale delVArdigò. È facile osservare che questo sforzo di far apparire come
Positivo lo Indistinto Inconscio è impotente, perchè nessuno ha mai avuto una
sensazione che sia sensazione di nulla, vuota ed indistinta, indifferentemente
Oggetto o Soggetto: nessuno invertisce il proprio Io nelle cose o le cose nel
proprio Io. Ne Ardigò, ne alcun suo discepolo ha mai ten- tato di spiegare
l'ordine e la formazione delle specie vegetali ed animali, fuorché con trovate
come quella della gallina or menzionata. La me- schinità dell' Ardigoismo si
vede dai suoi frutti. L'oscillare continuo fra il Positivismo e l'Indistinto
Infinito ha costretto VArdigò a continue contraddizioni ed oscurità. La verità
è che la Natura che si fa, più o meno conscia e libera, ha fatto nella lunga
evoluzione le varie specie animali, organizzando la psiche inconscia o passiva
Natura fatta che va per necessità come un Meccanismo. Non andiamo a cercare la
causa delle varie specie animali nelle stelle, nelle nebulose, nello ambiente
infinito di Ardigò, nel caso e simili; siamo un po' più modesti e positivi, e
cerchiamola in quella Unità intima che ha fatto le cellule ed i primi viventi,
e che sentiamo capace di modificarci e di svilupparci ancora. Questo è il vero
Positivismo armonico, pitagorico, Italico. Come la psiche fa la vita interna
sana Fa sorridere il vedere Marchesini (nella sua- « Crisi del positivismo » )
stentar tanto a far venir fuori la sensazione dai corpi inorganici e il
pensiero dagli animali, mentre Ardigò d'accordo con (1) Non è una divinità
inconsapevole, inconscia, che rivolge l'attenzione a determinati scopi al
disopra o al disotto degli animali lasciandoli inerti materie, che si muovano
senza sapere perchè. Ma sono gli animali stessi che senza aspettare il caso,
come la gallina sopralodata, desiderano ed ottengono col perseverare il proprio
sviluppo. lo Schelling (nel Voi. IV sul compito della filo- sofia) scriveva che
la Materia è una forma del Pensiero: e negli altri Volumi insistè sulla unità
del Pensiero con la Materia. Per quanto cerchi di far prevalere nelle dot-
trine contradittorie del suo maestro la parte positivista sulla parte
schellinghiana panteista, pure egli è costretto a dire, p. 250: «L'Indistinto è
« la nebulosa verso il sistema solare, è l' Embrione rispetto all'animale
adulto. 253: L'In- « distinto è la realtà unica fondamentale della « Unità e
molteplicità della Natura. 254: la realtà «della psiche e della materia
insieme. 260: L'or- « dine si spiega per le due leggi dell' Indistinto « e del
ritmo. Per l'Indistinto ogni accidentalità « è subordinata all'ordine
universale. Per il ritmo « vi è ordine e numero (tautologia). 296: A sostrato «
dei due mondi psichico e fisico sta l'Indistinto psi- « cofisico che ne è la
ragione esplicativa (mentre « Ardigò diceva che l' Indistinto non si può spie-
« gare, perchè spiegare vuol dire distinguere e « questo è l'art. 6 del suo
Catechismo). 331: Il « che cosa sia non si rivela che sentendolo e si « risolve
nel Divenire che è VEssenza dell'Essere « (frase presa da Hegel). E il divenire
è per noi « ed in noi necessariamente sensazione ». Marchesini non ha capito
che, se il divenire è sensazione per noi, lo sarà anche per gli animali, le
piante, le cellule e le molecole. Quando Ardigò fu accusato di aver preso il
suo Indistinto dall'Omogeneo dello Spencer ebbe facile la risposta. — Io non
l'ho preso (come Spencer) dalla fisiologia, ma l' ho preso dal ^pensiero
filosofico, e poteva aggiungere tedesco. E in- fatti il Panteismo di Schelling
ed egli non ha mai negato di averlo preso dalla Germania: fu sempre studioso
assai della filosofia tedesca, citò nella Psicologia molti autori tedeschi, per
cento pagine, e quando fu accusato di essere Metafìsico, si schermì
evasivamente (come diremo nel nostro III Volume). Se prendiamo V Indistinto
deìYArdigò non verniciato di Positivismo,. non mascherato dal manto di
pontefice dell'Ateismo Italiano, vedremo che è una nebbia panteistica, che (a
quanto egli dice) contiene in sé la ragione della differenziazione e della
continuità fra i differenziati. Infatti il suo discepolo G. Marchesini sostiene
che la gran legge di formazione delle cose è questa: che una linea si suddivida
in punti infiniti (pag. 115). Certo la linea è continua e contiene in se i
punti. Ed è tutto. Questa è la sua gran spiegazione. Chi non se ne contenta,
non ha capito come si sono fatte le piante, le bestie, gli uomini e pretende
troppo dall'Ardigoismo. Ora questo Indistinto nebuloso e vago non ha fatto,
secondo noi, veramente niente. Tutto era preciso e numerato fin dalle prime
nebulose e dall'Etere. Quelle che hanno fatto l'ordine della flora e della
fauna sono le Unità viventi, distin- tissime e precisissime della Natura che si
fa, che cerca di aumentare la sensazione piacevole e di evitare la dolorosa,
formando le più utili funzioni (e con la loro ripetizione, gli organi), della
di- gestione, della respirazione, della sanguificazione o Ematosi,
dell'assimilazione, della generazione. Per poco che noi penetriamo nella genesi
della vita interna, potremo ben convincerci, sulla base dei fatti. Digerire
vuol dire scomporre, macerare, idroliz- zare le materie ingerite e poi
combinarle con le proprie sostanze. Arthus (Nature des Enzymes, 1896) suppone
che i fermenti sieno sostanze non materiali, formate dalla Unità generale dell'organismo.
Nei Protozoi comincia a separarsi la funzione digestiva dalla motrice. Nei
Celenterati si può già distinguere 1' Entoderma che modificando gli ali- menti
accumula energia, dall' Ectoderma che fa tentacoli. Gl'Infusori hanno bocca,
faringe e ca- vità digestiva protoplasmica. Ma nei Polizoari YEntoderma diventa
un canale alimentare, che si divide in esofago, stomaco ed intestino. Nelle
Ascidie il sugo nutriente si separa dalle feci. In principio il fegato, il
pancreas, sono semplici cellule escrementizie biliari: poi si riuniscono in
sacchetti con piccoli canali ramificati. A misura che l'assimilazione si
afferma, vengono segregandosi gli Enzimi o succhi digerenti come nelle Salpe.
Le ghiandole segreganti crescono negli Aneh lidi (1), negli Echinodermi, negli
Artropodi, e nei Molluschi: questi ultimi hanno un vero fegato. I Crostacei si
sono già formato un fegato di cellule peptiche ed epatiche. In tutte le cellule
delle ghiandole, che ricevono dalla unità generale dell' organismo la funzione
di secernere, si compie un delicato lavoro di scelte feconde, e finiscono
alcuni nervettini (i quali provengono negli animali superiori, sia dal gran
simpatico, sia dal sistema cerebro-spinale). Meno nella Tenia ed in altri
parassiti. Il corpo della Tenia riceve dapertutto gli alimenti, senza farsi un
apparato circolatorio, ne digestivo. Tutte le sue cellule si nutrono e
respirano. Sono questi nervettini che dirigono la funzione speciale del
secernere. E non hanno bisogno di essere animati dallo Inconscio di Schelling e
di Hartmann ne dallo Infinito sottonaturale che, se- condo Ardigò, è la causa
dell'ordine. Il parenchima (o epitelio ghiandolare) attrae dapprima dal sangue
l' acqua ed i principi in essa disciolti: la ghiandola, che era pallida, si ar-
rossa, e si riscalda, elaborando sotto l'azione del sentire - desiderare -
volere, mediante i nervettini, il suo secreto, traendo dal sangue, che filtra
at- traverso ai capillari ed ai tubi porosi, la sostanza specifica. Le
ghiandole sono i chimici o farmacisti del collettivismo organico. Il tessuto
retico- lare delle ghiandole è privo di fibre. Mettendo della pepsina e
dell'acido lattico con- tenuto nel sugo gastrigo in un bicchiere, si può fare
una digestione artificiale. Ma non si può nei laboratori chimici far nascere il
sugo gastrico. Per farlo è necessaria la sintesi organica, non fatta per
accidente ad uso Marchesini, ma per godere la vita. Tutte le secrezioni sono
finaliste, tutte si compiono per atto unitario sintetico, così quella del sugo
gastrigo, come quella della saliva, della bile, della milza, o dei reni. E una
finalità fatta poco alla volta, non venuta giù dall'Indistinto Infinito di
Ardigò, provando e riprovando, insistendo sulle sensazioni piacevoli ed
evitando quelle che dispiacciono. Per eredità della specie la digestione si fa
anche nell'embrione, che non è ancora provvisto di nervi. Negli animali
superiori la digestione rende i cibi capaci di essere assorbiti dalla mucosa
inte- stinale ed assimilati nel sangue e nei tessuti. Gli animali, mangiando vegetali,
ne desumono Carbonio, Azoto, Solfo, Idrogeno, Ossigeno, che sono pronti nelle
albumine e nei grassi. Se gii animali dovessero prendersi l'azoto ed il zolfo
fuori delle albumine vegetali, morirebbero: perchè essi non possono cavarli
dalla terra, ne dall'aria, come fanno le piante. La maggiore vitalità e
mobilità ottenuta dagli animali, dipende non già dall'Indistinto della teo-
logia germanica o dell'Ardigoismo, ma dalla facilità di alimentarsi mangiando i
vegetali, perchè le Unità senzienti formano più presto e più gagliarda la unità
organica dell'Animale. Il riassorbimento del chilo nell' intestino, è fatto
dalle cellule epiteliali (che tappezzano la parete interna dell'intestino) che
assumono il cibo per contrazione attiva, come fanno gli Amebi ed i Rizopodi.
Una parte più vitale l'hanno le cellule linfatiche, le quali emigrano dal
tessuto adenoide, vanno fra le cellule epiteliali fino alla superficie
dell'intestino, per ghermire le gocciole di grasso, e non lasciano passare
veleni. Va notato che le sostanze alimentari solubili nell' acqua, non scendono
mai dall' intestino al cuore per il condotto toracico, ma per la vena porta e
per il fegato (che le assimila prima che entrino nel sangue). Le cellule
linfatiche assu- mono sole il peptone disciolto nell'acqua. Le sostanze
velenose ingoiate si fermano tutte nella bile. La linfa empie gli interstizi
fra i tessuti ed i vasi linfatici ed è un complesso di trasudati non
utilizzati, composto di plasma liquido e di corpuscoli, granuli o globuletti bianchi
(circa 8.000 per millimetro cubico), e goccie di grasso. Quando ar- rivano nel
sangue questi globuletti, diventano globuli bianchi (più grossi), e poi rossi.
Nella linfa vi sono già gli elementi chimici del sangue (acqua, siero,
albumina, fibrina, grassi, e specialmente 1' acido butirico, cholesterina,
glucosio, leucina, urea, sali, carbonati e fosfati). Ma la linfa (che aumenta
sempre durante la digestione), si coagula più lentamente del sangue ed è meno
alcalina. Contraendosi ritmicamente il cuore, il sangue inturgidisce le arterie
formando il polso. I globuli rossi trasfusi in animali di altra specie si
combattono e si uccidono a vicenda, non già perchè abbiano una diversa
composizione chimica, ina perchè è diversa la loro sintesi, ossia l'impulso
loro dato dalla Unità generale organica, il che prova ad un tempo la
individualità dei globuli rossi, e la psiche passiva loro imposta dall'Unità
generale (1). Le unità dei globuli rossi debbono adunque es- sere formate da
elementi morfologici vitalissimi. Sono clorotici coloro, i cui globuli rossi
sono piccoli (una metà od un terzo del giusto), hanno cuore piccolo e vasi
troppo stretti. — Nelle morti apparenti, il sangue non è morto. Se si fa
entrare per due terzi nelle carni un ago pulito, dopo un'ora, se il sangue
vive, l'ago si può ritirare an- cora pulito: ma se il sangue è morto, l'ago
sarà arrugginito. — L'asfissia uccide i globuli rossi e (1) Va notato che (come
provarono Friedental ed altri), il sangue di un uomo si può mescolare senza
recare grave danno alla salute col sangue dello scimpanzè e viceversa, mentre
non sopporta la mescolanza con altre specie ani- mali, locchè prova una certa
consanguineità fra questo troglodite dell'Africa e l'uomo. l'ossido di carbonio
uccide la emoglobina del san- gue ed i tessuti. La formazione del cuore non si
spiega senza sintesi morfologica dell 1 Unità confrontante perchè nessuna
persistenza della forza può formare ventricoli ed orecchiette, arterie e vene
contemporaneamente. Ci vogliono figurazioni e moti sintetici mirabilmente
accordati in tutta la lenta formazione della specie, che viene accorciata nel
feto. Così la formazione del cuore insegna quanto sia falso at- tribuire
l'evoluzione alle forze esterne, come fanno il Positivismo e \Ardigoismo.
Bisogna penetrare nella intima compagine degli Organismi animali per vedere la
sintesi organica nella sua formazione sotto l' impulso del Noumenon e della
Volontà. L'assimilazione collettiva non dipende dalle materie che furono
mangiate, come si credeva dai naturalisti tedeschi mezzo secolo fa, che
scrissero Der Mann ist was er isst, ossia l'uomo è quello che egli mangia. Che
una donna mangi fratti o legumi, carne o formaggio, uova o patate, pasticci
dolci o erbe condite, le materie albuminoidi di questi alimenti si trasformano
nel suo sangue in serina, fibrinogene e globulina, nei suoi muscoli in
muscolina, nelle sue mammelle in caseina, nelle sue ossa in osseina, nel
tessuto congiuntivo in congiuntina, ed in elastina: tutte sostanze chimiche fra
loro differenti. La chi- mica organica ha ornai assicurato queste leggi (dice
Gautier). Se la Evoluzione si facesse dal di fuori al di dentro (come pretende
Ardigò) non vi sarebbe ne digestione, ne assimilazione. Perchè le stesse
albuminoidi, tratte da cibi molto diversi fra loro, si trasformano nelle varie parti
del corpo in sostanze chimiche così adatte a sviluppare o il sangue, o i
muscoli, o le ghiandole, o le ossa, o il tessuto congiuntivo? forse per le
accidentalità del Marchesini? venute non si sa da qual corpo estraneo? forse
per l' Infinito causa dell'ordine o per l'Indistinto sottostante ad ogni
distinto, il quale non ha altra legge di formazione se non la divisione della
linea in parti infinite? Dividere non è fare nuove sostanze chimiche. Dividere
e suddividere, distinguere e sotto di- stinguere non è fare da artista
morfologo. Dunque bisogna riconoscere che la Unità or- ganica intima, il
Noumenon reale, che cerca il piacere e fugge il dolore esercitando le funzioni
essenziali del digerire, del far sangue, della assi- milazione, organizza le
materie in modo da mantenere e sviluppare il proprio piacere ossia la propria
Vita, combina le molecole in guisa da dar loro efficacia, e esercitando la
funzione si fa la compagine fisiologica, adatta a lottare contro le dif-
ficoltà ed a rendersi indipendente dall'ambiente. Non è dividere e distinguere:
è piuttosto co- struire, riunire, combinare, disegnare nuove forme, nuovi
sistemi di forze: è unificare, in una paro] a r e quindi godere la varietà
nella Unità. La legge della Natura è l'ascesa a più alta Unità e non la
divisione e suddivisione di un Indistinto in pezzettini. Per la stessa forza di
assimilazione, l'animale trasforma gli idrati di carbonio che mangia in
glicogene nel fegato, in glicosi nel chilo e nel sangue, in inosite ed acido
lattico nei muscoli, in lat- tina nelle mammelle, in tunicina nella pelle dei
Tunicati, sempre sotto la influenza del sistema nervoso, che sente il dolore e
il piacere. Lo stesso dicasi dei grassi. Qualsiasi cibo prenda un animale, egli
farà (senza aiuto dello Inconscio Indistinto sopra o sotto naturale) nelle
cellule adi- pose della pelle butirina ed oleina, nel tessuto cel- lulare del
ventre stearina oleina e palmitina; nelle mammelle butirina e margarina; nelle
api farà della cera, e via dicendo. Eppure nel chilo, nei gangli del mesentere,
vi sono sostanze omogenee: ma questi grassi, quando.sono arrivati nei diversi
organi, si differenziano assai, ossia si specificano in sostanze nuove.
L'assimilazione non. è una scelta dei materiali portati dal sangue. È piuttosto
una metamorfosi operata da ogni cellula, sotto la influenza del si- stema nervoso,
ordinato dalla Unità organica del- l'animale, dando origine, col medesimo chilo
e con lo stesso sangue a nuove sostanze, le quali nel sangue e nel chilo non
esistevano. Anzi l'assimilazione complessiva, sotto la in- fluenza del sistema
nervoso, allorché l' animale non riceve più grassi, né principi amilacei, lo
rende capace di formarsi le sostanze occorrenti, traendole dai suoi propri
albuminoidi, idratandoli, ossidandoli ed arrivando a farsi nella milza la
Emoglobina o materia rossa del sangue, la quale pesa il doppio della albumina,
ed è assai più complicata delle albuminoidi mangiate. Tra i fattori dell'Ordine
secondo VArdigoismo primeggiava dal 1870 in poi l'Indistinto, pallida luna, la
cui luce rifletteva il sole dell'Inconscio di Schelling. Degenerando (per la
sua intrinseca contraddizione di essere in fondo panteismo germanico e di voler
parere ateismo positivista) ha finito col ridurre lo Indistinto ad una astrazione
dalla sensazione indifferente tra soggetto ed oggetto, tra spirito e materia, e
a renderlo così impotente a fare l'Ordine come da pag. 308 a 312 ci diceva, nel
suo tentativo di popolarizzare l'Ardigoismo, il Marchesini (vedi sopra).
Restarono così a far l'ordine in generale e Vor- dine biotico in particolare il
caso ed il ritmo. Ma il ritmo non è altro che la ripetizione ad intervalli
dello stesso moto e non può fare del nuovo, e il caso è antiscientifico. Così
VArdigoismo per la sua intrinseca contraddizione ed oscurità e per la sua
ostinata trascuranza di studiare la natura vegetale ed animale e le leggi di
tutti gli organismi, va isterilendosi in una ontologia e fraseologia
d'indistinto, d'infinito, e di casi. Perciò gli scienziati Biologi Italiani che
non seguono il Pitagorismo oggi si sono dati alla fi- losofia dell' Inconscio
di Schelling e di Hartmann (Die Philosophie des Unbewussten, 2 voi.) altri-
menti, per fare codazzo al rispettabile prof. Ardigò, sarebbero stati condotti
a dare di ogni or- ganismo una origine del tutto casuale, come quella insegnata
dal Marchesini (vedi sopra) (1). Ad ogni modo, se VIndistinto che sta sotto ad
ogni distinto è (come credeva VArdigò) un pensiero, ci si dica se questo
pensiero che opera sotto, en- tra davvero nélVanimale e lo fa sentire, volere,
godere o soffrire. Se sì, allora è inutile l' Inconscio e si viene nel nostro
Positivismo Pitagorico bruniano, ossia nella filosofìa Italica. (1) Si legga la
splendida Conferenza tenuta nell'Acca- demia dei Lincei dall'illustre fisiologo
prof. Giulio Fano di Firenze dinanzi a S. M. il Re nel 1910. Se no, allora
l'animale resta un trastullo della divinità. E nello Ardigoismo (che nega la
unità intima di ogni organismo) se non si ricorre al- l'Indistinto Inconscio
divino, manca ogni principio informatore, e la gallina e l'uomo stesso
(compreso il prof. Ardigò) diventano prodotti del caso cieco e sterile. Nel
delicatissimo lavorìo che prepara i succhi nutritivi, si manifesta la vita
sintetica della Unità organica generale, che determina le funzioni di ciascuna
ghiandola. I globuli bianchi sono preparati dal fegato e dalla milza, la quale
può dirsi una doppia ghiandola linfatica, sierosa, chiusa, piena di vasi
sottili, intrecciati in fitta rete, specialmente nei corpuscoli del Malpighi.
Dal fegato, dalla milza, dal chilo, dalla linfa, escono i globuli rossi
nuotando nel siero senza imbeversene, contrattili, e si chiamano Ematite, Il
plasma in cui le Ematie sono sospese contiene la fibrina (che manca nel siero)
e risulta dallo sdoppiamento del fibrinogene. La trama delle Ematie o globuli
rossi è fatta da un albuminoide ferruginoso detto Emoglobina, da globulina,
lecitina, cholesterina e sali minerali, per assimilazione sintetica senza che
intervenga nessun Inconscio Infinito. Di pari passo con la funzione
circolatoria procede quella di respirazione, che rinnova ad ogni istante il
sangue venoso a contatto con l'ossigeno. La pelle, fatta di tessuto connettivo
molle, non contrattile (ossia privo di muscoli) ma indurito all'aria, emette
sempre vapore acqueo, gas acido carbonico, ed un po' di azoto, assorbe
ossigeno, e fa, negli animali inferiori, quello che nei superiori è affidato
alle branchie ed ai polmoni. La funzione respiratoria si svolge lentamente come
la digestiva e la circolatoria. Nei Vermi marini le branchie sono foglietti di
vasi capillari. Nei Vermi superiori ed in alcuni Crostacei sono a fasci di fili
od a pennacchi. Nei Molluschi maggiori e nei Pesci diventano interne, quasi
fogli di un libro. 'NegYInsetti le trachee conducono l'aria dapertutto e così
anche in alcuni Ragni e negli Uccelli. Negli animali superiori, poi si sono
formati quei milioni di alveoli o sacchetti polmonari, fatti di fibre muscolari
liscie che nell'uomo presentano all'aria penetrata nei polmoni la superfìcie di
una sala (circa 200 metri quadrati) dove il sangue venoso cambia la sua
emoglobina in Oxy-emoglobina. Secondo Smith un uomo sdraiato prende un litro di
aria nel medesimo tempo in cui un uomo seduto ne piglia 1.18, ed un uomo in
piedi 1.33, chi cammina lento 1.90, chi va presto 4, chi corre 7 litri. La
funzione respiratoria tra le vitali è quella che si può aumentare e
perfezionare con maggiore facilità. In ogni organismo, oltre gli atti vitali,
vi sono quelli non vitali. Ogni cellula fa prima le sostanze azotate, poi le
non azotate, cioè i corpi grassi, la saccarosi, l'amido, la inosite, il
glicogene. Il sangue si depura per atto vitale nei reni, che spremono fuori dal
sangue la orina. Ma non è per atto vitale (bensì per forze chi- miche
soltanto), che le albuminoidi coli' idratarsi si cambiano in creatina,
lisatina, urea ed acido lattico. E per forze chimiche soltanto che la urea fa
il carbonato di ammoniaca. — 134 — Il sangue sano contiene mezzo grammo per
litro di acido urico che si idrata e si ossida e si elimina nei sani allo stato
di urea, di acido os- salico e di acido carbonico. Tutte le perdite di
carbonio, che è l'elemento accentratore, si fanno per atti non morfologici, non
vitali, non diretti dalla Unità organica generale, appena l'ascesa a più alta
unità, ossia al piacere di vivere, si rallenta in qualche parte. Queste perdite
avvengono disassimilandosi, idra- tandosi, e facendo i rifiuti da espellere. Le
funzioni principali della vita interna sana e specialmente l'assimilatrice sono
sempre fatte dalla Psiche poco a poco e diventano abituali, regolari, quanto
più sono ripetute di generazione in generazione e quanto più la specie ha
imparato a rendersi indipendente dall'ambiente, ed anzi padrona dell'ambiente
nel trovare abbondanti cibi, aria ed acqua salubri e nel perfezionare la
facoltà di vitalizzare il chilo, la linfa, ed il sangue. CAPITOLO X. Come la
Psiche fa le guarigioni. Come le malattie mentali derivano per lo più da disturbi
o da irregolarità della convergenza nervosa che fa l'Unità conscia generale, la
Per cezione e la Memoria, così le malattie del corpo dipendono spesso da
disturbi e da irregolarità nella irrigazione sanguigna. I vasetti capillari
sono lunghi nell'uomo 500 volte più delle arterie e delle vene non capillari.
Ogni capillare è composto di cellule fusiformi con un nucleo in cui arriva il
nervettino vaso- motore. Ogni organo può rendere indipendente dalla circolazione
generale la sua particolare. Vi sono due provenienze dei nervettini vasomotori:
quelli che dipendono dal gran simpatico, nelle emozioni si restringono e quindi
rallentano il corso del sangue; quelli invece che dipendono dal sistema
cerebro-spinale, si allargano, accele- rando il corso del sangue. Nell'uomo
sano, bene equilibrato, queste due azioni si alternano e si combinano in guisa
da mantenere l'armonia fra tutte le funzioni. Nell'uomo immorale si disturbano
a vicenda. I delinquenti ed i pazzi sono più o meno inetti a regolare i
vasomotori: ora la reazione è scarsa ed ora è eccessiva. La sfiducia e l'
inquietudine guastano le ghiandole e l'assimilazione, e quindi anche la ematosi
o sanguificazione e il sistema nervoso, ossia le vie per le quali corrono la
sensibilità e la volontà. Queste sono prove palmari che gli animali si fanno
dal di dentro al di fuori e sono sempre sintetizzati dalla propria unità
generale. I sentimenti di fiducia e di bontà sono i migliori per regolare la
Ematosi e quindi la nutrizione di tutti i tessuti. La psicogenia fa la somagenia,
ossia la psiche fa il corpo. I vasomotori sono i primi ministri della natura
che si fa col sentimento. La immoralità ed il vizio si traducono in una natura
che si fa morbosa. I capillari venosi, col sangue reso inetto, per avere
deposto, nel tessuto che irriga, gli elementi dei quali ha bisogno (1) portano
verso le uscite anche i veleni prodotti dalla fatica o ponogeni (dal greco
nóvoc, fatica) che sono l'acido lattico ed i leucomani, i quali impediscono di
rimanere attivi. La circolazione nutritiva della notte rifa le forze esaurite
nel lavoro diurno. I vasi capillari asportano per i reni, per i polmoni e per
la pelle i veleni ponogeni. I vasomotori regolano sempre la produzione del
calore animale. Si restringono se fa freddo, si dilatano se fa caldo per far
sudare e svaporare. Per molte ragioni adunque, guastare i vasomotori è guastare
la salute; e la Unità disordinata da desideri immorali e da passioni li guasta.
La febbre è fatta dal sistema nervoso del gran simpatico irritando i nervettini
vasomotori ed il cuore, e le arterie; alza la temperatura da due a sette gradi
sopra la normale, e stanca i muscoli. È una reazione naturale che eccita gli
organi ad eliminare le cause di malattia esterne ed interne e specialmente le
alterazioni del sangue: perciò questa reazione salutare (a parità di cause) è
maggiore nei fanciulli e minore nei vecchi. La reazione salutare è sempre più
benefica quanto più vi è fede, speranza e piacere e non avviene o resta debole
e fiacca in chi ha sfiducia o paura. Del resto gli animali tengono nella loro
milza un serbatoio di fagoceti. La milza fa (oltre ai globuli bianchi e rossi
della linfa e del sangue) anche i così detti Lenii) Anche calce e fosfati per
darli alle cellule del periosto e per rendere possibile la formazione e lo
induri- mento delle ossa, quanto più i muscoli vi si appoggiano. coceti o
Fagoceti che sono amebi atti a fare il tes- suto congiuntivo attorno alle
ferite ed a guarirle, cacciando via le infezioni. Infatti gli animali privati
della milza soffrono di infiammazioni. Nelle infiammazioni essudative i
Leucoceti cor- rono verso la parte che trovasi minacciata, come i medici
corrono agli ammalati. La infiammazione in generale come la febbre è un
processo salutare. Non è un processo fisico chimico, ma è una reazione di
queste guardie sanitarie benefiche che si chiamano Fagoceti o Leucoceti. I
quali corrono a prendere quella parte dei tessuti che si è guastata per
portarla fuori verso le uscite. Nelle malattie acute scendono a milioni a
purificare i tessuti, ed agguerriscono il corpo a procedere sicuro tra le
insidie dell'ambiente ed a rendersene indipendenti, all'opposto di quanto
pretende YArdigoismo. E sono sempre diretti dalla Unità generale dell'organismo
e non dall'Inconscio Infinito sopra o sotto naturale. Grazie alla polizia
sagace che viene esercitata dai Leucoceti, nelle orine dei malati si trovano
leucomani basiche dannosissime. Ma la psiche riesce diffi- cilmente ad impedire
il moltiplicarsi dei bacilli. Moltissime malattie sono formate dal moltiplicarsi
dei Bacteri e specialmente le contagiose: I microbi anaerobi fanno escrezioni
velenose che il prof. Selmi ha chiamate dal greco Ptomaine. Sono malattie ve-
nute dall'esterno, che poco dipendono da disturbi della irrigazione sanguigna.
Sono regali dell'ambiente, che fanno ammalare e mai guarire. Un'altra causa di
gravi morbi è l'eccesso del mangiare e del bere liquori e vini alcoolizzati,
che produce una combustione vitale non completa, arrivando a quadruplicare
l'acido urico. L'inazione, l'inerzia, produce gli stessi effetti della fatica
eccessiva, cioè acido urico, che si depone nelle giunture, perchè l'ossigeno
del san- gue stenta molto ad ossidare le cellule organiche. Le malattie per
combustione incompleta producono erpeti alla pelle, depositi artritici presso
le ossa, guasti epatici ed ingrossamenti del fe- gato, nefriti e litiasi: e
cagionano le così dette diatesi braditrofiche, ossia malattie croniche per
rallentamento della nutrizione. Poco a poco, col massaggio e la ginnastica, la
psiche può libe- rarsene. Tutti conoscono la riparazione dei tessuti che si
opera rimarginando le ferite con tessuti nuovi e simili, anche il nervoso. L'
uomo può riprodurre il cristallino dell'occhio (se non era stata levata la
capsula), può rinsaldare le ossa rotte, e rifarne la parte che manca (se è
rimasto il periosto). Gli animali inferiori riparano anche più presto.
Tagliando la zampa ad un Tritone, i Leucoceti gli fanno un tessuto embrionale
con vasi e pelle. Tagliandogli la coda può rifare le cellule grigie del midollo,
i gangli nervosi ed i muscoli. Se una impressione morbosa ha cagionato una
negmasia che ostruisca i vasi dei tessuti, si fa una neomembrana, detta
Essudato, in cui si or- ganizzano nuovi vasetti capillari, che riassorbono il
male, per espellerlo nel torrente della circola- zione. Se l'Essudato è
soverchio, e non può essere -assorbito, si liquefa, si cambia in pus, e va
verso le cavità sierose o verso la pelle. Se un corpo straniero è penetrato
nell' organismo, provoca una acuta negmasia, con suppurazione per espellerlo;
se poi il corpo estraneo è penetrato nelle parti profonde, dalle quali non si
può mandarlo via, viene circondato da vasetti capillari nuovi, che formano una
membrana di rivestimento o cisto, isolandolo per proteggere i tessuti. Anche
nei tumori del fegato formati da entozoari, avviene lo incistimento con
membrane apposite. I tumori fibrosi dell' utero si empiono di concrezioni
calcari che loro impediscono di cre- scere. I flemmoni acuti della fossa iliaca
dell'ovario e degli annessi dell' utero vanno nella vescica e negli intestini,
cercando l'uscita. Se un'arteria o una vena si chiude, si organizza una
vascolarità collaterale. Se entrano a piccole dosi delle sostanze vele- nose,
la Unità organica fa poco a poco i contraveleni. L'animale vaccinato con le
antitossine, diventa immune, anche con dosi di un cinquemilionesimo di grammo
(1). (1) Due o tre secoli fa quando moltissimi contadini inglesi andarono a
lavorare nelle fabbriche, la tisi fece strage. Nel secolo decimonono i loro
organismi in poche generazioni divennero resistenti ed oggi la mortalità per
tisi è inferiore in Inghilterra a quella di ogni altro paese, perchè, come
dimostrò il prof. Sanarelli della Università di Bologna, gli organismi (quando
se ne lasci il tempo oc- corrente) tendono ad immunizzarsi. Così nelle Pelli
Eosse e fra i Negri, i germi della tisi portati dagli Europei fecero morire a
centinaia, perchè i loro organismi non erano abituati a lottare ed a vincere i
bacilli di Koch. Tra gli emigranti Italiani che andarono a stare nelle città
industriose dell'America soccombettero alla tisi quelli che provenivano da
provincie Abruzzesi, Calabresi dove la tisi è rara, mentre quelli venuti dalla
Lombardia o dalla Liguria dove è frequente hanno resi- stito assai meglio.Le
malattie croniche sono per lo più cattive abitudini della natura che si faceva,
ossia meccanismi formati da errori e trascuranza dell'Unità di coscienza.
Creighton (Inconscious Memory in di- sease, 1886, London) attribuisce alle
cattive abitu- dini dei tessuti certi moti riflessi patologici, ed a quelle dei
tessuti certe febbri persistenti, certe affezioni cutanee ed anche catarri
cronici. Quando la legge sociale morbosa si è radicata, si forma una diatesi,
che viene ereditata. Ma l'esercizio muscolare e il sudore guariscono un po'
alla volta anche queste, e la Unità generale invita l'animale a far moto celere
per sudare. Il sudore (che traspira per la secrezione dell'acido lattico,
dovuta all'aumento della innervazione e della circolazione, al riscaldarsi del
sangue che corre verso la pelle per raffreddarsi) è il caccia- mali per
eccellenza, portando via ogni acidità e lasciando l'organismo alcalino e sano.
Quante guarigioni ha fatto il sudore! Il maggior vantaggio dell'esercizio
muscolare (sia fatto per lavoro professionale, o sia fatto per sport), sta
nell' accelerare la circolazione sanguigna, e quindi lo scambio dei materiali
inetti coi vitali, giacche in un muscolo che lavora passa 9 volte più sangue
che in un muscolo che riposa, mentre si rende più. facile la innervazione e la
dilatazione dei vasi. E siccome l'esercizio muscolare è sempre re- golato dalla
coscienza dell'individuo, ognuno ha il mezzo più sicuro per guarire dai suoi
mali. Il movimento non è necessario solamente al- l'apparato circolatorio, respiratorio
e al digestivo; ma a tutti gli altri apparati semplici e locali. Lo stato
liscio delle cartilagini, la secrezione regolare del liquido sinoviale, la
flessibilità dei ligamenti, tutte le condizioni anatomiche, indi- spensabili al
funzionare di un'articolazione, spariscono man mano che si sta fermi, arrivando
ad ossificare le fibre dei ligamenti, a fare delle ossa vicine un solo osso;
mentre chi molto si muove conserva benissimo le giunture e moltiplica le fibre
ligamentose. I muscoli stessi che, nella inazione si ritraggono, e perdono ogni
elasticità, l'acquistano a misura che vengono esercitati. Però va notato che il
moto non è mai un tocca e sana, un rimedio istantaneo, e produce le sue
modificazioni salutari soltanto un po' per giorno, sicché tardano per settimane
e per mesi a manifestarsi pienamente, dovendosi colla nostra natura che si fa,
formare una natura fatta, cioè un meccanismo che vada poi da se solo,
salubremente, regolarmente. Un poeta inglese disse: Mentre sei nella tua casa
di carne muoviti; ci sarà tempo di riposare poi nella casa di creta. Gli
Inglesi se lo ripetono e nella età matura non poltriscono, ma accrescono gli
esercizi. Il football da ottobre ad aprile è frequentato assai in tutti i prati
che rompono la monotonia dei sobborghi di Londra. Si corre, si salta, si danno
pugni non solo i diritti ma anche gli storpi. E in pari tempo si con- serva la
tranquillità dell'animo, la fiducia e l'al- legria. In America, Mistress Mary
Eddy Baker ha fondato una religione che chiamò « Christian Scientism », ha i
suoi templi in Boston ed altre città e diffonde la fiducia nella salute;
guarisce anche realmente molti mali e mantiene migliaia — 142 — di Ladies
Cureers (1). A questo proposito non è inutile di ricordare che in tutte le
religioni si sono curate le malattie con la fiducia e che a Cachemire, nella
moschea maggiore, si conser- vano tre peli della barba di Maometto i quali ogni
anno fanno delle cure mirabili. E chi se ne potrà meravigliare, se pensa che in
tutti gli atomi e specialmente in quelli che appartengono ad un organismo, nel
quale hanno accomunato il sentire ed il volere per un certo tempo, vi è un
unanime accordo nelVassurgere a vita più intensa e ad unità più alta? Accordo
delle Unità molecolari cellulari ben inteso, senza che venga giù dal Cielo
Infinito di Ardigò, dalla sotto natura o dalla sopra natura, alcuna di quelle
cause alle quali VArdigoismo attribuisce l'ordine. Si promuove la guarigione
col crederci e col volerla. Spesso gli organismi inferiori che parevano morti,
ma dei quali non si era guastata la morfologia, risorgono (come lo descrisse
fin dal 1860 il Pouchet nelle sue « Récherches et expériences sur les animaux
résuscitants » ). Egli fece risusci- tare fino a dieci volte dei Rotiferi
disseccati col tornare a bagnarli. E così pure fece rivivere degli Ostracodi e
dei Radiati, delle ova di Apus, e delle Anguillide. Gli atomi di ossigeno, di
idrogeno, di carbonio, e d'azoto, si elevano nella mor- (1) Educate nel «
Theological Metaphysical and Psychological College » di Boston. Il Finot nella
sua Revue disse che la volontà ha sopra l'organismo la potenza di
ringiovanirlo, guarirlo, raffor- zarlo. E consiglia di svolgere tutte le forze
con fiducia ottimista, preparandosi robusta salute e vita lunga. fologia
cellulare che trovano, rifacendo la Unità generale degli animali che sembravano
rigidi. Perfino dei Vertebrati offrirono non dubbi esempi di risurrezione.
Certe Rane chiuse da secoli fra le roccie appena ebbero l'aria si mossero.
Certi Pesci agghiacciati dai crudi inverni, quando ri- sentivano l'aria e
l'acqua tepida, poco a poco ricominciavano lo scambio col mondo esterno e
ritornavano sani. Qui non ci entra affatto l'Ipnotismo. Gli organismi si sono
fatti un po' alla volta per il piacere; e se la morfologia non è guastata,
appena il piacere ridiventa possibile {perchè ritorna la umidità od il calore
che mancavano)y ritorna la vita. Sopratutto nelle malattie che dipendono da
stasi sanguigne e in molte altre, la Psiche guarisce agevolmente. In quanti
sono i morbi che affliggono l'uomo poi, i bravi medici cercano sempre di
inspirare fiducia e coraggio, ben conoscendo che questi hanno maggiore
efficacia della Farmacopea. Non mancheremo, terminando questi cenni sulla
guarigione, di osservare che la Natura che si fa per guarire, non è solamente
la Unità generale dell'organismo; ma che vi concorrono le Unità dei singoli
organi, essendo tutti intenti, anche quelli della psiche passiva diventata
meccanismo, a conservare e ristabilire la salute. Come la Psiche fa il Sistema
Nervoso. Le due funzioni del sentire e del muoversi, quando furono ripetute,
depositano nelle vie per- corse delle sostanze più instabili, che sono deli-
catissime e dalle quali si formano i nervi e servono col semplice rivolgersi
delle loro molecole, a tra- smettere sensazioni e volontà. Il sistema nervoso è
assai rudimentale nei Celenterati, nei Polipi e Acalefi, come le Meduse, nelle
Pholades (molluschi inferiori). Diventa visibile nei Vermi inferiori, e cresce
bene nei Crostacei, nei Ragni e negl' Insetti, con- centrandosi in fili bianchi
formati da molti fasci e formando dei gangli o gruppi. I gangli si avvicinano
specialmente nel torace e nella testa. Nei Molluschi Cefalopodi i gangli si
accostano tanto da formare una sola massa attraversata dallo eso- fago. Negli
Scorpioni vi è quasi un piccolo cervello in due lobi, poco separato dal grosso
ganglio del petto. Le larve degli Insetti sembrano Vermi, e con- servano come i
Vermi la catena dei gangli: ma nella metamorfosi il sistema nervoso si
concentra in una massa, tripartita in testa, torace ed addome. I Tunicati e
YAmphioxus sviluppano meglio il sistema dorsale ed il cervello; e nei Pesci
inferiori questo si divide in midollo allungato o cervelletto, cervello medio
(di lobi ottici e tubercolari) e cervello anteriore, in due emisferi, che
ingrandiscono poi nei Vertebrati superiori. Sotto queste cinque forme (la
diffusa dei Protozoari, la disseminata dei Radiati inferiori, la ra- diata
delle Meduse e degli Echinodermi, la bilaterale ventrale dei Vermi, degli Artropodi
e di alcuni Molluschi e la mediana dorsale dei Tunicati e dei Vertebrati), la
composizione della sostanza nervosa si perfeziona gradualmente e arriva nei
Primati e nell' Uomo ad avere molta lecitina, che è la sostanza la più
instabile e la più adatta a ricevere impressioni. I fili nervosi fanno
cilindrassi, chiusi in fo- dere di Keratina e dal neurilemma. Della sostanza
nervosa tre quarti sono acqua, il quarto che resta solido è per metà di
albumina e gelatina, e per l'altra metà di lecitina, cholesterina, e di altre
sostanze grasse e di fosfati. I fosfati predominano nelle cellule grigie, che
stanno alla fine di ogni nervo sensibile ed al principio di ogni nervo motore,
ed hanno l'ufficio di ricevimento o di trasmissione dei dispacci. Nelle cellule
grigie quasi nove decimi è acqua,, il 12 °/ è solido. La sostanza bianca che
arriva nei gangli e nel cervello non ha che il cilindrasse e la myelina, senza
fodere; è acida, con poca lecitina. La lecitina si compone di molto carbonio,
ed ossigeno, con qualche grasso, con neurina ed acidi fosforici. La convergenza
che fa sorgere la Unità intima generale dell'organismo va sempre a finire nelle
cellule grigie. La Natura che si fa, col ripetere i moti, li fa andare con
crescente facilità, finche di- ventano moti riflessi, ossia Natura fatta.
Nell'uomo il centro moderatore degli atti riflessi della spina dorsale sta nel cervello,
dietro ai tubercoli quadrigemini. Vi sono nel cervello molti altri riflessi,
grazie ai quali vengono imparati i mestieri e si arriva a parlare presto. Tutti
gli atti riflessi si compiono senza V imagine} e non vengono impediti dal
cloroformio (1), mentre gli atti volontari non solo, ma anche gli abituali, e
quindi di psiche passiva, ma recente, in- dividuale, non ereditata (come lo
scrivere, il nuotare, la scherma, ecc.), esigono V imagine e sono arrestati dal
cloroformio. — Nella scherma si fanno per abitudine istintivamente delle
celerissime parate opportune che, pensandoci avrebbero voluto dieci volte più
tempo, e queste, come i mestieri imparati da lungo tempo da operai provetti,
sono impossibili sotto l'azione del cloroformio. Ma i veri atti riflessi
ereditari non soffrono per il cloroformio (2) e predominano in tutta l'
infanzia e l'adolescenza ed anche negli adulti nelle funzioni interne, quali
sono il deglutire, i moti peristaltici degli intestini, l'animazione dei
globuli rossi, il ritmo della respirazione, la contra- zione dei muscoli, la
defecazione, il parto, la regolazione del corso del sangue che fanno i
minutissimi nervettini vasomotori. (1) L'imperatore Commodo dava nel circo al
popolo Romano lo spettacolo di parecchi struzzi che, presa la corsa, erano
decapitati col lanciare frecce a falce al loro collo: essi compivano gli altri
tre quarti della corsa nell'anfiteatro, per puri atti riflessi della loro spina
dorsale. (2) Gli anestesici, cioè gli Eteri ed il Cloroformio, sono volatili ed
il loro effetto è passeggero. — I nervi motori si avvelenano col curaro, i
sensibili colla stricnina, e questi, essendo contripeti, basta avvelenarne uno
per ucci- dere l'animale. I muscoli si avvelenano col cianuro di potassio. Nei
moti riflessi abbiamo la prova evidente che il Conscio fa l'Inconscio. Questi
moti riflessi sono stati una volta imparati dalla psiche attiva dei genitori,
giacche l'In- conscio non può fare mai il Conscio. Ex nihilo nihil. E dalla
unità generale di coscienza dell'or- ganismo animale deriva la combinazione di
tutti gli scopi assunti nella evoluzione, che esprimono lunghe serie di atti
compiuti per godere la vita, e deriva pure la prevalenza nell'uomo dei nervi
sensibili sui nervi motori (1). La maggior parte dei moti riflessi dipende dal
sistema del gran simpatico, che va dal midollo allungato al petto ed al ventre
ed a tutte le ghiandole. Dipende pure in parte dal medio simpatico detto anche
nervo vago, o pneumogastrico, che regola i moti del cuore. Il midollo allungato
o bulbo, regola la respirazione, la deglutizione, e la voce (nodo vitale). Il
nervo splanchico può inibire l'intestino tenue. Il moto del cuore e quello
degl' intestini è fatto dai gangli delle loro pareti. Gli altri moti riflessi
dipendono dal si- stema rachidiano della spina dorsale, in cui, in-
trecciandosi i due sistemi nervosi (del cerebro e del gran simpatico), vi sono
quattro colonne: due dei nervi sensibili e due dei nervi motori. Anche le
cellule grigie sono doppie. (1) Sherrington mostrò nel 1906 (The integrative
action of the nervous system. New York) che i riflessi maggiori sono composti
di riflessi semplici e successivi, sopra una serie combinata di archi riflessi,
divisi ciascuno in metà efferente e metà afferente; ossia partendo dalle
cellule grigie ed andando al muscolo o alla ghiandola. Il nervo conduttore è
fatto di neuroni che si toccano, ma non sono mai continui. Nel cervello la sostanza grigia trovasi alla
periferia, sotto la corteccia nelle circonvoluzioni e supera la metà, e la
bianca con poca grigia sta nel centro; ma nel midollo la disposizione è in gran
parte contraria, ossia la bianca sta alla periferia e la grigia nel centro.
Però questa si con- tinua nella grigia del cervello fino allo strato ot- tico e
al corpo striato, dove si agglomera nel mezzo del cervello. Le cellule grigie
sono moltipolari, ossia hanno molti poli o prolungamenti e sono alcaline.
Quando una sensazione colpisce una cellula grigia, segue l'assimilazione nuova.
Il nervo in riposo è alcalino: lavorando diventa acido e le sue sostanze più
vitali cominciando a guastarsi, fanno la cholesterina. Alla filosofìa importa
molto la distinzione fra la Natura che si fa ed i moti riflessi, e tra la
scomposizione e la ricomposizione delle cellule grigie. Herzen credeva che si
avesse coscienza quando le cellule grigie si disintegrano; ma appena si di-
sintegrano la convergenza nervosa che fa la co- scienza le reintegra, con una
nuova figurazione. Allora alla negazione di ciò che sembrava male fondato,
ossia alla imagine difettosa, succede l'af- fermazione di quello che
dall'animale o dall'uomo è ritenuto vero, utile o bello, una imagine cor- retta
o nuova. Per sistemare il nuovo, occorre prima disgregare la formazione
erronea. Ritorneremo a parlare della Natura che si fa sotto quattro nuovi
diversi aspetti nel Cap. XII sui Muscoli, nel Cap. XIII sulla Psiche
generatrice, nel XIV sul Sentimento e nel XV sulla Volontà. Insistiamo sopra
questi rapporti, perchè la Natura che si fa è conscia: mentre la Natura fatta è
necessitata e va come un meccanismo, come quegli struzzi privati della testa,
che l'Imperatore Commodo dava in ispettacolo ai Romani. (Vedi sopra, la
noterella pag. 146). Come il midollo spinale ha quattro colonne, due dei nervi
sensibili e due dei nervi motori, così il cervello ha quattro parti, di cui le
due anteriori piò. alte giudicano e muovono in quei centri che il prof.
Flechsig chiamò i quattro centri spirituali; dopo che le due posteriori e più
basse hanno sentito in quei centri che lo stesso fisiologo ha chiamati i cinque
centri sensitivi. La massa delle cellule grigie nel cervello alto è distribuita
intorno sotto le meningi in 9 strati doppi sottili. Ha circa mezzo miliardo di
cellule, ciascuna delle quali mediante 4 fili comunica con le vicine e con la
sostanza bianca e grigia, che sta al centro del cervello. I cervelli sono
magazzini d'imagini che con- servano nelle cellule grigie le più minute divi-
sioni dello spazio e del tempo di quello che si è veduto, toccato ed udito. La
convergenza dei nervi per l'attenzione, si porta appunto sopra quelle cellule
grigie, dove si fa la percezione o che dopo fatta questa, in- teressano per
ravvivare nella memoria alcune determinate imagini. II punto focale della
convergenza generale è la vera Unità dell'organismo, e fa l' Io che gode,
soffre e pensa: e al di là, subito al di là di questo punto focale, una
minutissima divergenza delle stesse linee arrivate colla Convergenza, lascia
sul piano delle cellule grigie l'imagine di quello che si è percepito e che si
può in seguito rammentare, ritornando a convergervi le forze. Io. Il punto
focale della convergenza adunque è mobile, si forma a seconda dei bisogni di
questa o di quella parte. Le cellule grigie dove si riuniscono le imagini fatte
nel cervello basso o strato ottico, stanno negli strati corticali interni,
mentre nei seguenti, fino alle meningi le cellule grigie diventano sempre più
piccole e contengono probabilmente gli estratti dei simboli delle imagini.
Quando si pensa le cellule grigie cerebrali si consumano e si rinnovano cinque
volte più presto di quando non si pensa. Quando si fanno le percezioni o le
astrazioni o si correggono gli errori, si fanno nuove forme nelle cellule
grigie corticali. Mentre quando non si pensa, il rinnovamento delle cellule
grigie av- viene poco a poco per semplice nutrizione e scambio di materiali,
senza cambiare le forme delle impressioni ricevute o dei segni astratti, i
quali ultimi però rimangono sempre in stretta relazione con le imagini
materiali, ossia con le minime suddivisioni dello spazio e del tempo delle cose
vedute, toccate ed udite, ecc. Meno precise sono le imagini prodotte dai sensi
dell'odorato e del palato, anzi non sono imagini, ma reazioni sentite pensando
ai cibi e ai fiori o ad altre cose odorate. Precisissime sono invece quelle del
senso muscolare, che sono sempre collegate con quelle delle cose vedute,
toccate od udite. La Energia pensante ha le stesse origini della Energia
fisiologica e chimica e risulta dalla Convergenza che percepisce, ricorda,
rammenta o combina le imagini confrontando e giudicando. Dunque il Pensiero è
un lavoro che distrugge la sostanza nervosa più delicata, come il lavoro dei
muscoli consuma gli zuccheri ed i grassi che sono nascosti nella carne
contrattile. Il Pensiero ha il suo equivalente meccanico, ma è impossibile sta-
bilire quanto sia, per la difficoltà dell'esperimento. Il cervello anteriore
regola le correnti nervose di tutto il corpo. Il cervelletto regola il senso
muscolare ed il tatto, ed un poco anche l'udito, e ne partono i cordoni
posteriori del midollo. Per agire il cervello abbisogna di sangue arte- rioso e
ci arriva da due parti. Quella meringe che avvolge gli strati corticali ed è
chiamata la pia madre, riceve un gruppo di arterie per il cervello alto, ed un
altro per il cervello basso e posteriore. La rete chiamata nevroglie, sotto le
meningi, protegge i nove strati doppi di cellule grigie, del cervello alto, i
cui vasetti capillari venosi portano via i solfati ed i fosfati consumati nel
pensare. Se si arresta la irrorazione arteriosa del cervello, avvengono
svenimenti, sincopi, vertigini o colpi apopletici. Se la normale contrazione
dei vasetti capillari, per causa di qualsiasi sentimento, cessa ad un tratto,
si dilatano le arterie della faccia umana, che arrossisce. Basteranno questi
pochi cenni, per intendere quanto diremo sul Pensiero nel Volume Secondo
«L'Uomo secondo Pitagora». Il cervello umano pesa un solo quarantesimo del corpo,
ma riceve un sesto del nostro sangue per le due arterie carotidi e le due
vertebrali. Il cervello sta al peso del corpo come 1 a 5600 nei Pesci (che sono
i più stupidi fra i Vertebrati), come 1 a 1300 nei Rettili, come 1 a 212 negli
Uccelli, come 1 a 186 nei Mammiferi; numeri soltanto approssimativi e presi in
termine medio fra le varie specie di ogni ordine. Un cavallo che pesa come
sette uomini ha due libbre di cervello. Un uomo ne ha quattro libbre. Dunque,
relativamente, l'uomo ha quattordici volte più cervello e più pensiero del
cavallo. Come la Psiche fa il Sistema Muscolare Nei precedenti Capitoli abbiamo
veduto il progresso graduale mirabile della Natura che si fa. In questo vedremo
come ordina i moti. La Volontà si manifesta senza aver ancora al- cun organo
negli amebi e nei nostri globuli bianchi, il cui protoplasma contrattile si
compone di albumina coagulabile e di sostanze proteiche non solubili. Il
protoplasma contrattile degli Embrioni degli animali inferiori vi somiglia
assai. Tutti i muscoli cominciano nel feto allo stato di sarcodi amorfi: i
nervi li fanno diventar muscoli. Il primo muscolo a formarsi, e V ultimo a
morire, è quello che governa la circolazione del san- gue e non si arresta mai:
è il cuore. Al momento in cui dal sarcode si sviluppa in un uccello il muscolo
che pulsa (fra le ore 26 e 30 dalla incubazione della gallina), i suoi
movimenti sono rari e poco percettibili. Poco a poco si ac- celerano e si
pronunciano: ed allora si formano i vasi, pei quali si caccia il sangue (arterie)
e quelli per cui ritorna (vene) ed un'area vascolare provvisoria, una vescicola
che si allunga in ventricolo di sopra e in orecchietta di sotto: diventa un
cuore di pesce. Poi si contorce, mentre il ventricolo va sotto, la orecchietta
va sopra e diventa cuore di rettile con tre cavità. Finalmente fa la quarta ca-
vità e si completa come cuore di uccello o di mammifero. Come avviene la
contrazione dei muscoli? Avviene grazie a molecole di protoplasma assai grosse,
chiamate sarcous, che mutano forma con grande facilità, essendo molto
eccitabili e gonfiandosi col prendere il liquido ad esse vicino. Naturalmente
nel gonfiarsi si avvicinano e costringono così le fibrille intrapposte a
contrarsi, come ha dimostrato il prof. Arndt (Psychiatrie). Il sangue porta
continuamente ai muscoli car- bonio, sotto forma di grassi e di zuccheri (che
sono ambedue ossidi di carbonio). Il muscolo contraendosi non consuma la
propria sostanza, ma si bruciano questi materiali portati dal sangue arterioso;
anzitutto i ternari o idrocarbonati, cioè i grassi ed i zuccheri; e poi in
grado minore i quaternari cioè gli azotati (1). E la combustione non avviene
(1) I prodotti della combustione completa dei ternari sono l'acido carbonico e
l'acqua, e il prodotto della combustione completa dei quaternari è l'urea. Ma
se la combustione fu incompleta, il prodotto dei ternari è l'acido lattico, e
quello dei quaternari o azotati è l'acido urico, la creatina e la creatinina,
cause di grassezza, di artrite, di gotta, di renella, di calcoli orinari e di
nefrite. se non allora che la Volontà fa contrarre i muscoli gonfiando i
sarcous. Il gonfiamento dei piccoli in- visibili sarcous produce quello dei
muscoli visibili. Dunque la Psiche, che ha fatto i muscoli, è quella che li fa
contrarre. La combustione dei grassi e zuccheri è la principale sorgente del
calore animale. La contrazione è atto vitale psichico della Unità intima
volente, esercitata nella syntonina di cui fanno parte i sarcous. Invece la
elasticità, per cui le fibre muscolari ritornano ad allungarsi dopo che erano
contratte, è una proprietà fìsica della fodera delle fibre muscolari detta
sarcolemma. L' Unità intima col ripetere i moti, li fa diventare abituali ed
atti riflessi. Il plasma muscolare dei sarcous, detto myosina o syntonina, che
sta fra le fibre, si coagula come il sangue. I muscoli viventi sono elastici,
mentre i morti sono rigidi. Un muscolo affaticato non si contrae più. Ma se la
Volontà è forte, ed esercitata, bastano 2 minuti per riattivare tutti i
muscoli. I boxers inglesi ogni 3 minuti di lotta ne prendono 2 di riposo e così
continuano per parecchie ore. Ogni 3 minuti l' Unità intima raccoglie la sua
energia per tornare a gonfiare i sarcous. II sistema muscolare è una batteria
di archi intrecciati; ma chi lancia la freccia è la Volontà, forza unitaria più
delicata. Due uomini della stessa musculatura, lavorano molto diversamente,
secondo la loro volontà. La differenza può andare dall'uno al dieci. Quando i
nervi eccitano i muscoli a contrarsi, il sangue ci corre per avidità dell'
influsso nervoso — 155 — dal quale furono fatti, essendo il sistema muscolare
una continuazione dei nervi motori. E va notato che lo stesso nervo motore può
contrarre il muscolo e può anche inibire il movimento, secondo che comanda la
Unità intima, per il bene del Collet- tivismo organico. Il nervo motore
comincia a deperire nella cel- lula grigia cerebrale, perchè la volontà è
centri- fuga; mentre i nervi sensibili cominciano e deperiscono a partire dalla
periferia, essendo emissari del cervello, che devono prendere le impressioni
dell'ambiente. Perciò le sensazioni si diffondono; mentre il nervo motore muove
un solo muscolo. I muscoli sono un po' innervati continuamente, quanto maggiore
è la Energia della Natura che si fa; e sono quindi elastici, perchè gli
estensori ed i Settori si equilibrano. Marey dice che, se i muscoli non fossero
elastici, dovrebbero fare un lavoro decuplo, con un risultato ridotto al
decimo. La loro elasticità si può far crescere con la Volontà e con
l'esercizio, fino al punto da eseguire facilmente quei lavori di equilibrismo,
di acrobatismo, di ballo o di operazioni manuali difficili in alcune
professioni, che si ammirano. La Natura fatta della Volontà si può vedere sui
corpi delle persone addestrate da lungo tempo alle ginnastiche: ed è un
complesso di vasomotori, di nervettini del senso muscolare, di arterie, di
vene, di muscoli collegati, che permettono di fare con prontezza movimenti
impossibili a chi non è esperto, sempre diretti dalla Unità intima Volente.
Quando danno spettacolo di sé le ballerine, gli atleti, gli acrobati, gli
equilibristi, questa Natura fatta è già divenuta un Meccanismo. Allora i
pròtagonisti, stanno attenti con la Natura che si fa soltanto alle nuove
circostanze che si presentano nei loro compagni o nel pubblico. (Vedi Zucca,
Acrobatica ed atletica, 1902). I corpi di essi sono continuamente addestrati ad
innervare le spalle, i fianchi, le braccia, le gambe ed il ventre: e sono
incomparabilmente più elastici di quelli di chi fa vita sedentaria. I muscoli
hanno dei nervettini sensibili nelle loro fibre, che danno il senso muscolare,
col quale noi proporzioniamo tutto quello che facciamo. Le isteriche
anestesiche possono fare dei lavori di ago e di ricamo delicati, con la sola
sensibilità muscolare. Il senso muscolare è il primo ministro della Volontà.
Fra i muscoli bisogna distinguere quelli a fibre striate da quelli a fibre
liscie. Le fibre liscie (lunghe cellule nucleate) stanno nell'uretere, nella
vescica, nelle ghiandole, nello stomaco, nell'intestino, sempre alcaline e si
con- traggono ad ogni improvvisa emozione, avendo nervetti vasomotori assai
delicati che vengono dal gran simpatico, per atti riflessi. Dipendono dal gran
simpatico anche i muscoli che fanno rigettare gli alimenti dannosi (contraendo
l'addome ed il diafragma più dello stomaco). I più utili ad esercitarsi per
sviluppare la salute sono i muscoli psoailiaci del retro venfre, vicini alla
colonna dorsale, che sono i più ricchi di arterie, ed i più prossimi agi'
intestini. Piacere e dolore crescono con le fibre striate. I più dipendenti
dal^ cervello sono quelli della laringe. E evidente la Natura numerica della
Unità in- tima quando cantano Uccelli, Scimmie ed Uomini, perchè, senza una
interna ed elevata capacità di proporzionare la lunghezza delle corde vocali,
rie- sce impossibile di emettere i suoni voluti. A tal uopo la struttura fatta
dalla Volontà di cantare deve essere diventata un Meccanismo. Nell'uomo la
laringe ha due corde che fanno le note basse, vi- brando in tutta la loro lunghezza.
La glottide le ravvicina per farne vibrare una parte soltanto, a misura che il
suono si vuol fare più acuto. Finite le note di petto, la sola parte che vibra
dà un falsetto, perchè manca l'aria. Per fare le note gravi la faringe si
contrae, la epiglottide si alza. Un tenore, un baritono, un basso profondo, un
soprano, col muscolo tiroide (se hanno una Natura fatta esercitata) possono,
senza preamboli, emettere quella Nota che desiderano. Basterebbe osservare
questa facoltà di proporzionare i movimenti muscolari ed emettere le varie Note
per far diventare pitagorico chiunque vi rifletta. Abbiamo indicato alcuni
fatti della fisiologia utili a dar fondamento alla filosofia della vita. Il
Pitagorismo esclude l'indeterminato e vuole che tutto sia definito se è
possibile matematicamente, giacche la matematica è l'ossatura delle forze
fìsiche, chimiche e biotiche come disse il Galilei. In fisiologia questa
ossatura è determinata dalla Natura che si fa della Unità organica distinta e
precisa, che numera col numero reale (e non col concettuale) intenta ad
esercitare le funzioni es- senziali: digerire, respirare, sanguifìcare.
assimilare e generare, attenta a cercare il piacere e fuggire il dolore,
bramosa di ascendere a più alta unità e di affermarsi. Più che in tutti gli
altri muscoli, in quelli della laringe, i nervi nel farli, nell' intrecciarli,
nell'educarli, misurano col Numero reale. Della Parola diremo nel Yol. II. La
Psiche generatrice Vedemmo ette gli organismi sono associazioni collettivismi
di cellule, formati sentendo, desi- derando e volendo. Fra il sentire e il
volere, vi è di mezzo non già il Concetto Hegeliano, ne lo Indistinto
Ardigojano, ma una figurazione dell'atto necessario per svilupparsi. Ripetendo
quell'atto, la Natura che si fa lo cambia in Natura fatta poco a poco.
All'individuo bastano pochi giorni per fare un'abitudine: alla specie
abbisognano molte generazioni. Le abitudini di due o tre generazioni non
divengono Natura fatta della specie, ma quelle conti- nuate da molte
generazioni rendono durevole la modificazione. Nel Oap. sul sistema nervoso
abbiamo distinto gli atti riflessi che sono di natura fatta individuale o di
poche generazioni, da quelli di molte generazioni, che si compiono senza avere
la imagine e non vengono impediti dal cloroformio. Le parti più antiche, cioè i
tessuti epiteliali, sono quelle che resistono più di tutte agli anestesici. 1
muscoli resistono meno assai dei tessuti epiteliali, ma continuano ad essere
irritabili se non sopravvengono gravi guasti nell'organismo generale. Meno dei
muscoli resistono gl'intestini, le ghiandole, il senso nutritivo, il senso
respiratorio, il senso erotico. Invece la sensibilità conscia è subito abolita,
appena vengono somministrati Etere o Cloroformio. Gli atti della sensibilità
conscia progrediscono poco a poco e sono essi che fanno i piccoli
perfezionamenti degli organi digestivi, dei respiratori, della circolazione,
delle secrezioni, della sen- sazione e della locomozione clie vanno complicando
e perfezionando gli organismi, facendoli passare dallo stato di Protozoari a
quello di Animali più evoluti. La Natura fatta acquisita è una consuetudiner
una legge, un esercito addestrato in modo diverso e proprio di ciascuna specie,
in cui si riflettono tutte le sensazioni, tutte le volizioni, tutti i
coefficienti del passato: cosicché ogni dettaglio nelle forme e nelle funzioni
di un animale, ha avuto la sua causa intima. Questa legge di evoluzione si
riproduce rac- corciata nel seme, nell'embrione, nel suo modo di crescere e di
fruttificare — il che si esprime dicendo che la filogenia (origine della
specie) si ricapitola nella ontogenia (origine dell'individuo). Quindi bisogna
precisare che non è una memoria, come la chiamano molti naturalisti poco
filosofi, quella che fa uscire dal seme l'una o l'altra pianta, e dal seme di
un animale l'uno o l'altro tipo zoologico. Non è una Memoria,, ma è una Legge,
una forma di moto, una psiche obbediente, passiva, inconscia nel suo complesso.
Da molte uova di pesci e di uccelli di specie diversa, escono pesci ed uccelli
assai diversi. Da spermatozoidi e da ovuli di Rettili, di Quadrupedi, di
Primati, di Uomini, escono Vertebrati assai differenti, senza che la psiche
sociale inconscia, nel ricapitolare la lunga evoluzione della specie,. mostri
mai una libertà di volere, un qualsiasi arbitrio. Tutto va meccanicamente,
necessariamente; ed anche le mostruosità, le forme terato- logiche hanno sempre
cause straordinarie di di- sordine. I moti una volta imparati vanno senza
imagine, sono ornai voluti fortemente, organizzati, diventati meccanici:
camminando non pensiamo al moto delle gambe. Non si può chiamare Memoria se non
quella dell'Individuo, al quale ricorda le sue percezioni, i suoi atti. Non si
può avere Memoria senza possedere il sistema nervoso e specialmente la so-
stanza grigia, in cui deporre e conservare le inda- gini. Hering professore a
Vienna è stato il primo a chiamare erroneamente Memoria questa Legge o statuto
sociale, progressivo delle specie che si -evolgono. Nella sua Dissertazione
all'Accademia Viennese 1870 disse che la Memoria è una funzione generale della
natura organica, e questa parola male applicata ha generato poi molta con-
fusione così in zoologia, come in fisiologia ed in psicologia. La Legge o
statuto sociale organico procede sicura fintanto che l'ambiente non sia troppo
av- verso. E intimamente connessa con la Unità che la figurò. Le filosofìe
straniere non spiegano il mistero della vita. Lo Inconscio di Ed. Hartmann come
può far tante meraviglie nella sua inconsapevolezza? A che servirebbero il
dolore ed il piacere degli organismi, se questi sentimenti non governassero la
loro vita e la loro evoluzione e tutto fosse operato da una divinità inconscia?
Tanto più che nello Inconscio di Hartmann la Volontà lotta sempre con l'Idea. In realtà non vi è affatto questa pretesa
lotta; anzi non vi è neppure l'Idea: ma fra il Sentire e il Volere vi è la
figurazione del moto che può giovare, figurazione che non si può chiamare Idea,
Concetto o Pensiero. Le altre scuole non facendo la distinzione fondamentale
fra la Natura che si fa, libera, e la na- tura fatta, necessitata restano
impotenti nei problemi essenziali della vita e dimenticano la Unità intima che
dà il piacere di vivere, fattore primo ed essenziale. Piacere che è più che mai
sentito e goduto nell'Amore, quando tutte le psichi degli organi si fondono in
una grande unità, ed è sentita colla figurazione delle forme teleologiche del
sistema di forze proprio di ogni specie, ossia della legge o statuto sociale
dell'organismo. Un sentimento finalista, prepara in questa figurazione le
generazioni future. La sintesi del collettivismo organico, agognata e goduta
con sentimento, figurazione e volontà, è la causa della Eredità e somiglianza
dei figli agli antenati, salvo quelle piccole modificazioni che furono
vivamente bramate. I passi più notevoli nella bellezza e nell'utilità della
struttura, si preparano a lungo e si fanno prontamente nella sintesi Erotica, e
nell'Embrione quando il Collettivismo organico è vivamente sintetizzato.
Platone vedeva il divino nell'Amore ses- suale, perchè (egli diceva) prende
tutta l'idea della specie, e la realizza. Possiamo dire che è la tra- smissione
della Legge sociale del Collettivismo. La forza di ogni cellula dell'organismo,
con- verge e concentra sopra poche cellule tale funzione, sia che si faccia per
germinazione, sia che si faccia per fusione di nuclei germinativi sessuali.
Dapprima il piacere di congiungersi si compie senza sessi, ringiovanendo i
nuclei delle cellule, per semplice fusione, come nei Ciliati, nei Rizoidi e nei
Magellati. Le cause meccaniche non bastano per aggruppare intorno ad un
progenitore, per riproduzione senza nozze, individui primordiali, per formare
un individuo superiore, e tanto meno a dar ra- gione delle forme seriate, ossia
disposte in serie, e meno che mai a spiegare la differenziazione autonoma. Sono
necessarie le cause interne vitali (sensazione, desiderio, figurazione,
volontà) a trasfor- mare gli organi. Ci vuole poi gran concentrazione
morfologica per moltiplicare l' individuo e fare le -colonie. E gli animali
inferiori stentano tanto a fare tale concentrazione, che la prole resta
impotente a diventare adulta in breve tempo, ma gli embrioni gradatamente si
sviluppano fino a divenire adulti. Negli organismi inferiori {Celenterati,
Crinoidi, Vermi e Crostacei inferiori) l'uovo non produce quasi mai un
organismo uguale al genitore: ma sviluppa un essere embrionale, che ri- corda
il primo individuo delle colonie lineari (Idromeduse) od il centro dei
Corollari, e degli Echinodermi, che crescono a raggi (Radiati). Quando si
muove, diviene un primo anello, che ne germina dei successivi, ai quali servirà
poi di testa nei Vermi {Trochosphera) e negli Articolati (Nauplius). Nell'Idra
di acqua dolce non vi sono che quattro o cinque individui in colonia, ma nei
Polipi idrati sono migliaia. La Medusa in colonia non fa uova: ma quelle •che
si isolano nuotando per godere le nozze, le fanno. Un siconoforo è una
federazione fluttuante di Meduse, divise in prensori, locomotori, riproduttori
e nutrici. I Polipi del Corallo formano grandi co- lonie; ma anche fra essi vi
è VAnemone che vive isolato. Nei Briozoari e nei Tunicati si vede sempre il
rampollo, come nei Celenterati. Nei Vermi, negli Artropodi non si vede; ma sono
formati essi pure da meridi (ossia parti), derivate rampollando le une dalle
altre. Negli Anellidi la bocca e gli organi dei sensi stanno nella sola testa,
ma ogni anello ha le proprie gambe, il proprio canale digestivo, il suo ganglio
nervoso, e i suoi vasi saguigni, il suo sistema riproduttore. Se si separano,
fanno la generazione alternante, ora a gemme, ora ad uova, come le Salpe,
nuotatrici, tunicate, le une grosse come aranci e dedite all'amore, le altre
piccolissime, associate in catene fosforescenti. Così lo Sciphystoma, alterna
le funzioni riproduttive, in modo che il sessuato fa le uova, ma non le vede
nascere, e le nutrici allevano le larve nate dalle uova. I Vermi si distendono
con nuovi anelli sopra una linea lunga e diritta. Ma in alcuni la progressione
si fece per asse trasversale, obbligando ad accentrare e differenziare,
portando al centro gli organi di nutrizione e di circolazione, e ne vennero i
Molluschi, cancellando i segmenti; eppoi si fecero la conchiglia, per ripararsi
dai ne- mici (come pensano Perrier e Gegenbaur). Però nella loro Embriogenià,
non mostrano mai di es- sere segmentati, e possono anche non essere derivati
dai Vermi, come pensano Rabl e Cattaneo. La facoltà di rigenerare le meridi o
parti ta- gliate è evidente nell'Idra e nella Stella di mare, come nelle
Piante. I Crostacei derivano in gene- — 164 — rale da specie che avevano venti
segmenti. Il Pe- neonauplio aumenta gradatamente i suoi segmenti, mentre il
gambero ha 21 segmenti fin dalla nascita. Le larve degli insetti sono Embrioni
nati avanti tempo, ma capaci di svilupparsi con l'aiuto di nutrici, ed anche
senza di esse, quasi sempre con Metamorfosi, come nel Baco da seta. Questo ani-
maletto, finche mangia sul gelso, non ha sessi: farà le ghiandole sessuali
quando sarà crisalide e farfalla, giacche la Muta o Metamorfosi è sem- pre una
crisi di maturità genitale. E per godere l'amore che si chiudono ed elaborano i
germi della loro Unità più alta. Gli Artropodi fanno diverse mute, rigettando
il guscio. Il bruco, con bocca masticante, diventa farfalla, con bocca da
succhiare. Il verme bianco diviene scarafaggio senza mutar bocca. Nelle Api,
nelle Vespe, nelle Pidci, nei Lepidotteri, e nei molti Vermi inferiori, si
osserva la partenogenesi. La partenogenesi artificiale è sempre impossibile
senza le forze che accumulano le ener- gie delle precedenti generazioni (1). La
concentrazione erotica arriva a perfezionarsi negli spermatozoidi e negli
ovidi. I sessi si svolgono in ghiandole ermafrodite, nelle quali il di fuori è
maschile, il di dentro è femminile. Se prevale l'assimilazione si ha la
femmina: se prevale l'azione si avrà il maschio. (Vedi: Thomson Geddes:
Evolution of sex. 1890, Londra). (1) Nella « Biologia taurinensis » di A.
Gìglio 1906, il prof. A. Ceconi dice che chi vuol spiegare fisicamente la vita,
prende sempre per isbaglio delle analogie parziali, come se avessero valore
totale. L'ovulo nasce nella donna dall'epitelio dell'ovario, che è uno dei
tessuti più bassi, e più antichi dell'organismo. Anche gli spermatozoidi
nascono dal tessuto epiteliale dell' uomo. L' uovo fecondato del maschio non si
sviluppa in modo molto diverso dalle uova partogenetiche. Loeb e il prof.
Delage della Sorbona 1906, trovarono il modo (con so- luzioni saline e
semidolci miste a tannino), di pro- vocare la fecondazione artificiale delle
uova di al- cuni minuti animaletti marini, alternando la coa- gulazione (con
acidi) e la liquefazione (con alcali) delle albumine dell'uovo. L' uovo femmina
ha molto citoplasma ed un pronucleo privo di corpo centrale. Il maschio ha un
centrosoma, un pronucleo, e quasi nessun ci- toplasma. Il centrosoma maschio si
biparte fecondando la femmina. Ogni organismo superiore esce da uno sper-
matozoide che, nel suo mezzo milione di cel- lule, riunisce l'idea vitale da
svolgere, ossia la psiche passiva degli antenati, in sintesi morfologica, che
incomincia il suo impulso nell'astro del coito. Lo Spermatozoide e quasi uguale
in tutte le specie superiori, ma ben diversa è la psiche passiva che riceve dai
genitori. Entrando nell'ovulo lo irradia e lo vivifica, e ben presto la cellula
uovo principia a segmentarsi ed a sviluppare (con struttura semifluida)
l'embrione, dotato di una psiche passiva uguale a quella dei genitori. L'ovulo
prodotto in una delle vescicole dette di Qraaf, quando è maturo, riceve molto
sangue, gonfiandosi e rompe il follicolo, andando nelle trombe falloppiane,
facendo mestruare la scimmia e la donna (non i quadrupedi). 11 L'uovo dei
mammiferi è piccolissimo, ha quattro parti, cioè la vitellina, o zona pellucida
esterna, il vitello pieno di granuli, e fra queste la vesci- cola germinativa
di Purkinje e quella embrionale di Balbiani. Nelle uova degli Uccelli vi è di
più l'albume ed il guscio calcare, dovendo essere nutrito e riparato fuori
dell'alvo materno, covato tre settimane, mentre nei mammiferi l' uovo prende i
materiali nutrienti dalla placenta (che nella donna è una, nelle pecore e nelle
vacche sono parecchie). Il testicolo è fatto da molti tubetti stretti e lunghi
contorti, che sboccano nel canale eiaculatorio: in ogni tubetto si formano
strati di cellule di cui le più centrali allungano una coda e divengono così
Spermatozoidi. Brown Séquard iniettando sotto la pelle dei neurastenici
l'estratto dei testicoli di giovani animali fatto a freddo, ne guarì molti. La
spermina iniettata sotto la pelle è tonica per due settimane e non fa mai male.
Lo sperma contiene un numero enorme di sper- matozoidi ed uscendo si accompagna
al liquido delle ghiandole del canale eiaculatore, al fluido delle ghiandolette
del prostata ed a quello delle ghiandolette Cooper dell'uretra. Evaporato, lo
sperma cristallizza alla superfìcie il fosfato di spermina. Gli acidi
estinguono i movimenti degli spermatozoidi, gli alcalini a 35 gradi li
conservano. La testa dello spermatozoide è ricchissima di acido nucleinico, il
corpo è fatto da materie albuminoidi con lecitina e ce- rebrina, e il 5 °/ di
fosfati (1). La Psiche ge- (1) Hofmeister vide che le protamine sembrano fatte
dal trasformarsi delle proteine nel dar vita a spermatozoidi. Infatti nel Salinone,
il testicolo cresce a spese della neratrice è affidata a questi elementi
chimici, in- vestiti dalla Volontà o Legge o Statuto sociale ereditario. Quando
corre molto sangue all'utero fecondato, incomincia alle mammelle la secrezione
de] latte, umore albuminoso pieno di globuli bianchi e di cellule nucleate
dolci, che dopo il parto diventa un composto di caseina, di lactosi, di
sostanze grasse neutre e di sali. Siccome il sangue non contiene caseina, ne
zucchero di latte, così è certo che vengono segregate nelle mammelle che
gonfiano i loro acini. La caseosi emulsionata ed i globuli butirici rendono
opaco il latte. Nei giorni della mestruazione il latte si altera: ma presto
ritorna normale. Che cosa avviene nell'utero a cui corre il sangue dopo la
fecondazione dell'ovulo? Il suo nucleo, come quello di tutte le cellule nella
cariocinesi (di cui parlammo nal Cap. VI) fa una segmentazione che si
moltiplica, finche si forma la così detta Morula; un assieme di palline come
mora di gelso. Là si sgomitolano le membra venture dell'uomo. Nel centro della
Morula si apre una cavità, in cui corre un liquido che gonfia e spinge le
pareti, formando la Blastosfera. Questa va pigliando la musculatura del corpo,
intanto che gli animali non mangiano. — Secondo Bang, invece di protamine vi
sono istoni negli spermatozoidi in via di formazione e questi si sviluppano più
tardi in protamine e proteine, che for- mano le teste degli spermatozoidi. Del
resto la composizione chimica importa poco, poiché è la sintesi morfologica di
tutto il collettivismo organico che dà la vita agli spermatozoidi come agli
ovuli. Questa sintesi è del tutto psichica, come è evidente. forma di un ferro
di cavallo, detta Gastrula, ed ha di dentro VEntoderma e di fuori VEsoderma.
Neil' Entoderma (che diventa poi il canal digestivo) si fa un terzo foglio cioè
il Mesoderma in- vaginando: il Mesoderma svolge il cuore ed i vasi sanguigni.
L'Esoderma si sviluppa in sistema ner- voso muscolare, con un primo tubo di
nervettini liquidi viscosi; e questo tubo farà la spina dorsale ed il cranio.
La legge o statuto sociale è così divisa in tre dipartimenti. L'Embrione è un
corpicino animato dalla legge intima ereditaria, che riproduce gli antenati,
fa- cendo ogni giorno crescere la sensazione ed il moto del feto. La Unità che
diventa organica svolge la legge sociale formata nell'atto della fecondazione:
è V anima che fa il corpo, dal di dentro al di fuori, come dal di dentro al di
fuori si è fatta la specie. Lo studio degli embrioni e dei feti presenta molte
difficoltà per determinare nella Ontogenia la Filogenia, ossia per scoprire la
genesi della specie, perchè l'acceleramento embriogenico modifica nel feto gli
organi ed anche perchè si esige un magazzino di materie nutrienti che altera le
forme, come dice il Perrier (Philosophie zoologique). In uno stesso gruppo
zoologico la nascita avviene in stadi diversi; alle volte si saltano delle
fasi, o le cavità e gli organi che esse contengono si costituiscono
diversamente. La funzione generativa conferma adunque tutte le leggi di
formazione delle specie animali che si sono esposte nei capitoli precedenti. La
Unità infima nel Sentimento Il sentimento è il Governo del collettivismo
organico, ed è piacevole o doloroso. Esige più tempo delle sensazioni. La
sensibilità organica (che Rosmini chiama il sentimento fondamentale della vita
animale, tenendone gran conto, a differenza di tutti gli altri Metafisici)
detta in greco Cenestesia, in tedesco Gemeingefiihl, o tatto interno di tutti i
muscoli, nervi, della circolazione sanguigna, delle funzioni digestive, della
respirazione, delle secrezioni ghiandolari, del senso erotico, abituata da
milioni di anni ad unificare il suo tatto interno ed il piacere della vita e
della salute, è il fondamento delle tendenze individuali e del carattere: ed è
ereditata come psiche passiva, che può fare l'attiva convergendo nella Unità.
Il carattere viene dal complesso di tutte le cel- lule nervose, mentre l'
intelletto viene da una piccola parte di esse. Nelle malattie la cenestesia è
dolorosa quanto più vengono disturbate o minacciate le funzioni essenziali.
Nella convalescenza è piacevole, quando si va guarendo ed eliminando le ultime
stasi sanguigne; nella salute si gode fa- cendo una ginnastica, aumentando la
circolazione del sangue, la respirazione e la innervazione delle membra.
Dicemmo che il sentimento esige più tempo delle sensazioni, non però più di due
secondi minuti, dopo l'eccitamento; tempo necessario per fare il bilancio dei
vari organi e sapere se l'organismo guadagna o perde. Sono confronti fatti
dalla Unità generale, in cui il Numero concettuale non entra mai, relativi
all'ambiente, alla nutrizione, alla salute o malattia, all'età ed alle forze
dell'in- dividuo; sono dunque calcoli dell' Unità numerante intima. Il tempo è
abbreviato assai nelle gravi ferite. Le sensazioni sono reazioni localizzate
nei sensi speciali dalla cenestesia: ed avvengono in generale in 2 centesimi di
minuto secondo dopo l'ec- citamento. La differenza del tempo dal sentimento
alle sensazioni può dunque arrivare al centuplo. Ogni sentimento eccita il
cervello e qualche gruppo di ghiandole. Nella paura quelle degl'intestini,
nella collera quelle del fegato, nelle in- quietudini i reni e la vescica
depuratori del san- gue; nel dispiacere e nel dolore le lagrimali. Nei
sentimenti che deprimono, il cuore si ral- lenta e nel primo istante si
arresta. In quelli stellici il cuore batte più celere e le arterie si al-
largano, il cuore si vuota più facilmente, nelle emozioni liete, e più
difficilmente nelle emozioni tristi, per cui il popolo attribuisce i sentimenti
al cuore. I sentimenti di piacere e dolore, salute o malattia, coraggio o
paura, simpatia od antipatia esprimono il rapporto in cui stiamo con le cose e
in massima parte dipendono dal sistema nervoso del gran simpatico, operando sui
nervettini vasomotori. Essi promuovono la Evoluzione destando i desideri e
facendo la convergenza sulle sensazioni e sulle imagini che più giovano a
preparare il proprio vantaggio. Esprimono a fondo la Unità numerante, perchè
consistono dal principio alla fine in confronti di proporzioni (benché fatti
senza Numero astratto) e sono comuni agli animali ed all' uomo. Le scelte fatte
fra le varie vie, i cibi, le bevande, le azioni di ogni specie, i diversi modi
di condursi, le risoluzioni importanti prese d' improvviso e anche le meditate
sono suggerite dal sentimento e fatte con lampi di attenzione. Sotto l'azione
del sentimento il sistema vaso- motore modifica la digestione e la secrezione
della saliva, dei reni, delle lagrime, del latte (1) ecc. Il piacere ed il
dolore sono i due modi sostanziali dell'essere noumenico, dell'Intensivo conti-
nuo nella sua intima forza: Varmonia che fa espandere le Energie, la disarmonia
che le co- costringe a soffrire e ad estinguersi. Ogni piacere aumenta la forza
muscolare; prova che ogni energia vuole ascendere. La felicità corporea sta
nell' accumulare forza nervosa; è salute il condensarla ed è vizio il
dissiparla. Il piacere, in chi non degenera, è una continua nascita ed è quindi
ascendente in ogni specie, in ogni individuo che progredisce. Ogni Io sorge in
condizioni diverse dagli altri, e (come diceva Góihè) chi gode meno è chi
scimiotta i godimenti degli altri. Ogni uomo intelligente è originale nel modo
di godere. Ogni acquisto di nuova sensazione armonica fa piacere più assai che
la ripetizione delle co- (1) La gioia aumenta la secrezione del latte, la paura
la diminuisce e l'arresta. La vacca e la capra munte da mano straniera non
danno latte. nosciute e già provate: e questo è lo stimolo che fa ascendere i
piaceri e specialmente quelli artistici. Ogni allargamento del dominio sopra le
cose è piacevole, ogni restrizione ed asservimento è doloroso. L'ambizione di
promovere il bene comune è sempre piacevole e non è vero quel che disse Bahnsen
(nella sua Charactérologie) che sia mossa dall'egoismo. La gioia giova molto al
cuore, ai vasomotori, allo stomaco, al fegato, a tutto il sistema nervoso e
ghiandolare. L'amor sessuale aumenta molto la circolazione del sangue, la
respirazione, il godimento del tatto, del senso muscolare. Ogni espansione di
vitalità e di forza, che non esaurisca, fa bene: rende l'occhio più vivo, il
cuore batte più celere, le narici si allargano, la respirazione si fa più
frequente e profonda, i muscoli si alzano, il sugo gastrico corre allo stomaco,
la saliva alla bocca, tutto il corpo aumenta la Cenestesia, non soltanto nei
piaceri corporei della tavola, dell'alcova, della ginnastica, ma anche
negl'intellettuali, come la contemplazione di un ca- polavoro dell'arte, di un
bel paesaggio alpestre, di un progetto industriale promettente, o l'ascol-
tazione di una musica che gradevolmente ci molce l'orecchio (1). Le teorie che
fanno derivare i sentimenti benevoli dalla esperienza, dalla utilità sono
superflue e false. L'amore infatti pervade tutto l'uni- verso e dà maggiore
piacere che la malizia ed il calcolo egoistico, anche ai più vili animali. (1)
Nei piaceri intellettuali l'aumento della circolazione, della innervazione è
minore in paragone con i piaceri del corpo. Le carezze eccitano piacevolmente i
vasomotori ed il gran simpatico, aumentano la vitalità, specialmente se sono
variate di modo e di posto. La emozione tenera (da non confondersi con
l'erotica) aumenta le secrezioni, la circolazione, la re- spirazione, e la vita
e dà un piacere calmo e durevole. La gioia se è forte può far piangere per la
pressione sanguigna degli occhi. Anche il pianto cagionato da dolore aumenta la
circolazione del sangue ed è un mezzo indiretto per cacciar via le imagini
tristi. La simpatia deriva da sinergìa di moti, da ammirazione per la bellezza,
la bravura e la bontà (1) per cui si entra nel modo di sentire dell'ammirato e
la Unità intima dell'ammiratore si mette all'uni- sono con quella di colui che
lo incanta. La collera e la gioia aumentano la innervazione dei muscoli,
dilatando i vasi, mentre la paura e la melanconia abbassano V innervazione e
restrin- gono i vasi. La paura fa impallidire perchè re- stringe i vasomotori,
raffredda il corpo, rilascia gli sfinteri, peggiora le malattie. Il terrore inibisce
ed arresta il cuore. La melanconia è l'atonia di spirito deprimente, è un
rinunciamento ad ogni convergenza, e se dura a lungo, sconcerta ogni funzione
vitale e si co- munica altrui, come gli altri sentimenti. Il disgusto deriva
dal palato e dall'odorato, che sono legati al pneumogastrico, promovendo moti
ri- (1) Ed è comune anche fra gli animali. Si sono visti vertebrati di varie
specie rifiutare il cibo e morire d'ina- zione per aver perduto l'amante, cani
desolati per la morte del loro padrone, e persino oche ed anitre zoppe
sostenute amorosamente nel camminare da amanti e da sorelle. flessi intestinali
e del canale digestivo e quindi nausea e vomito. Paura e disgusto hanno un
fondo comune, cioè la tendenza a fuggire e a respingere: sono movimenti di
avversione. La collera astenica è penosa, la stenica non lo è, perchè lotta
sperando di vincere e di farsi giustizia. Quando si intellettualizza, genera
l'in- vidia, e il risentimento, composti dallo istinto ag- gressivo e del
calcolo che inibisce ed arresta gl'impulsi distruttivi, per evitare le vendette
e le pene sociali o religiose. I sentimenti malvagi che hanno le varie specie
di delinquenti non vanno ascritti a necessità ere- ditata (benché si erediti il
carattere) ma assai più a cattivi esempi ed a seduzioni nuove. Esagerando le
ipotesi di Ferraz, Destine, Morel, Lubbock, corredandole di un gran numero di
osser- vazioni personali sui delinquenti e sui pazzi, so- vente male applicate,
Cesare Lombroso ha insegnato e fatto credere a moltissimi italiani viventi che
i selvaggi sieno fatalmente malvagi e che i nostri delinquenti sieno uomini che
ritornano allo stato dei loro antenati selvaggi. Però non è così; se vi sono e
vi furono popolazioni selvaggie feroci, ve ne sono e ve ne furono molte
pacifiche e buone. La guerra fra tribù e tribù, fra popolo e popolo va ascritta
più che a nativa malvagità, alla debolezza del pensiero ed alla incapacità di
estendere il proprio ideale sociale al di là di certi limiti, di fiumi, di
monti, di laghi, di mari o di razza o di abitudini di lavoro. Infatti (come
osserva l'eminente economista prof. Achille Loria), i delinquenti convicts,
deportati dalla Grande Brettagna, nell'Australia si trasformarono in una sola
generazione in gentiluomini e diedero impulso alla stupenda democrazia del «
Common Wealih of Australia » dove due città più popolose di Roma e di Napoli
(Sidney e Melbourne) ed altre parecchie accentrano istituti di beneficenza ed
hanno meno delinquenti della madre patria. Non è il corpo che fa l'anima: ma è
l'anima che fa il corpo. I sentimenti si comunicano facilmente: chi è triste
rende tristi i suoi confabulatori, chi è al- legro tiene allegra la brigata, un
buon libro fa buoni i lettori, unibro cattivo li corrompe: le carceri, il
domicilio coatto sono semenzai di delinquenti, ad onta di tutte le
conformazioni dei cranii e di ossa e di altri dettagli morfologici che il
Lombroso ha descritto con tanta diligenza. Queste conformazioni non sono la
causa, ma Veffetto degli animi pravi. La delinquenza, quando non sia passionale,
è un vile mestiere che ha rischi come alcuni mestieri onesti, e che si sceglie
a piacere o per suggestione, per imitazione, come gli altri, che forma le sue
abitudini e adatta i suoi organi e perciò finisce per modificare la fìsonomia e
per abbrutire anche l'aspetto. Ma in principio della loro- carriera molti
delinquenti sembrano, a guardarli,, simili agli onesti. Si dimentica che la
Natura fatta del delinquente è un'abitudine, un meccanismo fabbricato poco a
poco dalla Natura che si faceva e che il primo indizio fisico del disordine del
carattere non è il cranio, ne l'orecchio ad ansa, ma è il disordine del sistema
vasomotore, per cui la reazione ora è ec- cessiva, ora insufficiente e manca
l'equilibrio, la. facoltà di calcolar bene le conseguenze dei propri atti e di
moderarsi. Il valentissimo propagatore delle idee Lombrosiane, l'eminente
penalista prof. Enrico Ferri, le rese più dannose colla sua dottrina fatalista,
at- tribuendo le passioni perverse ed ogni delitto ad una malattia, di cui
l'uomo è irresponsabile ed insegnando che il criminale non va dispregiato più
che non si disprezzino i pazzi e gli appestati. La nuova scuola penale, quando
guarda l'albero genealogico di un delinquente dà la parte del leone ai parenti
malsani e quella del lepre ai parenti sani. Eppure il Maudsley (Crime et folie,
p. 255) dice che allorquando il cervello ha principiato a degenerare, l'uomo
può prevenire o con- tenere la pazzia o il delitto con lo sviluppare il
controllo della volontà e col proporsi un alto scopo. Non è la morfologia, ne
l'atavismo che fa i cri- minosi, ma l'educazione data al popolo dai cattivi
Governi. Nel Veneto la delinquenza è la minima d' Italia perchè l'Austria
amministrava onesta- mente, come la Repubblica Veneta. Invece nel Lazio dove l'
ipocrisia era obbligatoria prima del 1847, dovendo ogni cittadino comunicarsi a
Pasqua, e dove non vi era giustizia, tutto si con- cedeva per favore a chi
obbediva e serviva al clero; in Sicilia, dove la polizia dei Borboni stava agli
ordini dei Feudatari, e l'autorità sembrava disonesta e nemica del popolo (il
Colajanni assi- cura che facilmente ancor oggi si depone e si giura il falso in
giudizio); nel Napoletano, dove a questi mali si aggiungevano i cattivi esempi,
venuti dalle alte classi, la delinquenza è massima. Bisogna badare alle fonti
dalle quali provengono i germi di degenerazione delle idee e dei sentimenti. A
guastare le idee provvede fra noi una filosofìa balorda, a guastare i
sentimenti provvedono i teatrali dibattimenti nelle Corti di Assise e le
cronache giudiziarie dei periodici, la pornografìa, le carceri, il domicilio
coatto ecc. Le missioni cristiane in Africa ed in Oceania riuscirono a
convertire a buoni costumi milioni di uomini che il Lombroso riteneva
inconvertibili. Tutta la storia ci testimonia che, quando le classi diri- genti
erano morali, lo diventavano anche i popolani e viceversa. I sacerdoti ed i
feudatari malvagi hanno diffuso la diffidenza e la ferocia. L'eroismo e l'esal-
tazione, quanto il panico e la paura, e i sentimenti di odio e di vendetta,
passano dai caratteri forti ai deboli, come provarono il prof. Sigitele ed
altri. Chi non ha conosciuto l'ardore di sacrificio dei Mille? Chi non sa
quanto gli occhi dolci, ma al bisogno fulminei, di G. Garibaldi valessero ad
in- fiammare i giovani? Chi non ha respirato l'ideale della patria libera
quando era serva? Come avvenne la comunicazione dell'eroismo, allorché Medici
ed i suoi trecento, difendendo il Vascello, versarono il miglior sangue come un
sol uomo? Dunque i sentimenti, buoni o cattivi, si comunicano. Il sentimento
religioso, come lo ispirano i sa- cerdoti, colla paura dell'inferno, può
trovarsi negli animali domestici verso i loro padroni. Ardigò e Trezza lo
intesero così basso. Certe specie di scimmie fanno atti di ammirazione e di
adorazione al levarsi del sole e seppelliscono i loro morti. Il sentimento
religioso (come lo dice il nome) è quello che fa sentire la parentela che
abbiamo con tutte le cose, con tutti gli esseri, e la derivazione dalla conscia
Unità del Cosmo. Ma non si è sviluppato se non molto tardi nella storia. Vico e
Comte sbagliarono supponendo che la prima età fosse quella degli Dei. Era
piuttosto consacrata al culto dei defunti e delle forze naturali. I selvaggi
primitivi credevano che la Natura fosse un seguito di fatti causati dagli
spiriti incorporati nel sole, nelle stelle, nella luna, nei monti, nei numi,
nei mari, nelle piante, negli animali e persino nelle rupi. Tiele provò che
tutte le religioni più antiche cominciarono dall'adorazione delle forze
naturali e dal culto degli antenati, dei genii protettori, o dei genii malvagi
che mettevano paura. Lo spiritismo odierno ci mostra con quale fa- cilità
uomini anche istruiti, ma inetti a pensare, si danno a credere alla esistenza
di spiriti invisibili ed alla loro influenza. E infatti, in moltissime tribù
selvagge, divengono sacerdoti o maghi coloro che possono ipnotizzarsi ed
entrare in estasi, costringendo i de- moni a desistere dai loro perfidi
propositi, ed invocando l'aiuto dei buoni genii. Le tribù tu- ramene dell'Asia
centrale e settentrionale e quelle di varie parti dell'Africa credevano tutte
che, per- dendo la coscienza e lasciandosi ispirare dalle potenze occulte si
trovasse il rimedio ad ogni male. Del resto gli Dei dei popoli selvaggi, anche
se più evoluti, operano sempre come uomini, capaci d'ira e di vendetta.
L'origine dei miti sta nella combinazione d'idee che è propria dei selvaggi,
per cui si rassomigliano le leggende dei Greci, dei Celti, dei Lapponi, degli
Eschimesi, degli Iro- >ehesi, dei Cafri e dei Boscimani, come li ha
confrontati fra loro Andrea Lang. Il progresso mitologico consisteva nel
conside- rare come astratti, vecchi e privi di attività gli Dei di prima e come
realissimi quelli immaginati dopo. Così al Cielo e Terra dei Turanici, gli Ari
opposero Varuna o Ritam che fa l'ordine; ma poi Varuna tramontò e si fece
annanzi Indra il dio della luce. Allora la religione ascende di grado e diviene
più razionale ed intima. Si fanno sagrine! e scongiuri magici, nel mentre si
prega come persona a persona e già nei più antichi inni Vedici, Varuna è
invocato a perdonare i peccati. La lode della divinità si accende per la
speranza nella vittoria dei propri fini individuali o sociali: e per
conseguirla si viene accentuando la potenza e la generosità del Dio; gli si
fanno offerte, sagrine!, gli si erigono templi, si stabilisce un culto. Il
Cielo degli Indiani è anche il Dyaus Patir, il Padre celeste; il Tien dei
Cinesi è il padre degli Dei e della Natura simbolo del maggior Dio; in Egitto
il sole unificava gli dei locali primitivi, e così fra i Summeri e Accadi sull'
Eufrate e fra i primi Semiti. Il culto del sole prevalse fra i Malesi, i Baici,
primi immigranti nella China, e nei Sinto del Giappone, ed anche nel Messico e
nel Perù, quando passarono in America la magìa e l'astro- logia dell'Asia. Ra,
Dio del sole, ispira a Tot o Ermete i quarantadue libri sacri degli Egiziani,
che insegna- vano la eternità della vita e del pensiero. Il Dio accadico del
fuoco, Kebir, si fuse col Dio iranico del fuoco e col Bel, Dio del sole.
Nell'India andò perduto il carattere personale del Dyaus Patir degli Ari
primitivi e si pensò Brama come spirito assoluto, volontà impersonale che fa la
Maya o illusione del mondo. Invece nell'Iran (Sogdiana, Battriana) fu concepito
un Dualismo del Dio buono Ahura Mazda o Yaruna contro Arimane capo dei demoni.
L'idea di un regno di Dio in cui tutti sono solidali e il merito di alcuni si
estende a tutti i fedeli è di Zoroastro. Dalla piccola città di Ur, dove fio-
riva una delle scuole teologiche di Zoroastro uscì Abramo, capostipite degli
Ebrei che conservarono il dualismo iranico, di angeli e demoni. Il riformatore
dell'India si limitò a predicare l' eguaglianza, la grazia eguale per tutti,
anche per le donne, gli schiavi, i criminali, abbattendo le Caste. Secondo
Badda la convinzione di essere peccatori ed il pentimento rigenerano, e si
prova col lenire i dolori degli uomini e degli animali, liberandosi dalla Maya
o illusione del mondo. Il riformatore della Palestina Gesù fu il maggior genio
del sentimento e rese la religione un affrancamento dalla necessità, una viva
fiducia nell'Essere trascendente, una speranza di vita celestiale, che
contrasta coi bassi ideali di ric- chezza e di potenza dei sacerdoti del suo tempo
e di quelli del nostro. I suoi discepoli avrebbero dovuto essere focolari di
rinnovamento della coscienza morale, centri degli assetati di giustizia,
intenti a diffondere luce ed amore; quindi non potevano abbracciar mai la
universalità di un popolo. Il Cristianesimo non si limita, come il Buddismo, a
svincolare da ciò che è illusione, interesse, va- nità e superbia; ma contempla
il sole della vita nella sua unità ed onnipotenza. Consiste essenzialmente
nella comunicazione dei sentimenti di amore, di abnegazione, di fede, spe-
ranza, che aveva Gesù. E stupido quindi l'abbassare Gesù a livello di profeti
volgari. Per operare il bene, per muovere gli uomini all'altruismo, alla
solidarietà, si esige un centro, un faro, un modello, il maggior genio del
sentimento. Risuscitò l'Italia, da Arnaldo di Brescia a Dante (Vedi Gebhart,
«L'Italie mystique», 1890), dandole il sentimento profondo che i preti non
conoscevano. Risuscitò l' Europa, per mezzo della Riforma e della Rivoluzione
francese, che rovesciò quella che Voltaire chiamava l' Infame, dando al popolo
per lievito: Liberté, Egalité, Fraternité. E sempre sarà necessario, più dei
geni della scienza, delle arti belle, della politica, il genio del sentimento,
centro motore dell' umanità buona, perchè i sentimenti non s'insegnano, non
s'imparano da pochi, ma si comunicano a tutti. La Unità Numerante nella Volontà Se il
Sentimento è il Governo di ogni Collet- tivismo organico animale, la Volontà è
il suo ministro esecutore ed ha per ufficiali i nervi motori e per soldati i
muscoli. Nell'uomo, dal sostrato frontale parte l'ordine, e per il fascio
piramidale va alle circonvoluzioni motrici e per il centro ovale arriva alla
capsula interna che penetra nel corpo striato. I corpi striati (sul dinanzi del
cervello basso, nel corno maggiore), sono grossi come due uova 12 di tacchino e
rossi, formati di cellule grandi grigie poligone. Ogni corpo striato dirige i
movimenti del lato opposto. Al corpo striato seguono il peduncolo cerebrale ed
il bulbo, e nel midollo spinale fa agire i nervi motori ed i muscoli.
L'esercizio muscolare volontario è sempre preceduto dalla attività del cervello
e del cervelletto, posto in azione dalla Volontà: Questo fattore psichico è il
yero motore dei muscoli (1). I moti riflessi sono effetto della Volontà degli
antenati diventata meccanismo. I più invariabili dipendono dalla spina dorsale.
I riflessi cerebrali si adattano a complicate reazioni. I sensori motori
vengono dal bulbo, dai corpi striati e dagli strati ottici. Ferrier (The
functions of the Brain), vide che i centri inibitori impediscono la distra-
zione. Il moto inibito si disperde in gesti a metà, ed in disturbi viscerali.
Se un moto riflesso non si compie, è sempre segno che venne contrariato per
inibizione, voluta dai lobi frontali. Un ragazzo che impara a scrivere muove la
faccia, le gambe, finche poco a poco si riduce a muovere solamente gli occhi e
la mano. Sempre gli animali sostituiscono alla diffusione illimitata inutile,
una diffusione ristretta e limi- tata al movimento che serve al loro scopo, e
fin qui è Natura che si fa con attenzione. In seguito, La Volontà non può
essere Elettricità: come di- cemmo sopra, perchè va infinitamente più lenta; è
tutta psichica, e può così bene contrarre, come rilasciare i vari muscoli. Essa
spende la forza nervosa accumulata e chiama sangue arterioso a vivificare i
muscoli che lavorano. quanto più si ripete, tanto più si moltiplicano le
fibrille, i vasi capillari, e si consolida in moto riflesso, ossia in
meccanismo di Natura fatta. Abbiamo esposto la graduale formazione del
meccanismo nei Capitoli XI sul sistema nervoso, XII sul sistema muscolare, XIII
sulla Psiche generatrice, e altrove sotto diversi punti di vista, perchè la
Natura che si fa va sempre distinta dalla Natura fatta che è necessitata. Non
manca, anche ai più semplici animali, la libertà di volere nella Natura che si
fa. La Necessità regna in tutta la Natura fatta, che è la parte massima, mentre
la Natura che si fa è la parte minima, ma è libera. Gli atti volontari liberi
sono assai pochi al paragone degli atti che si fanno per abitudine e per moti
riflessi, anche nell'uomo educato. Un moto che si fa per abitudine esige ancora
l'imagine: mentre un moto riflesso, che è ereditato, non ha più bisogno della
imagine, e si compie macchinalmente. Ogni organismo esprime quello che gli
antenati hanno voluto per il proprio bene, e l'istinto è una combinazione di
processi appetitivi e di atti riflessi. Maudsley (Body and Will) dice che
l'energia volontaria registra le sue esperienze modificando la struttura
nervosa, acquistando nuova potenzialità, tanto nell' operare certi atti, quanto
nello inibire quelli che sarebbero abituali. Nella proporzione che si arresta
la tendenza a diffondere il movimento delle membra, la co- scienza si va
concentrando in un modo specialmente voluto. Tutte le specie animali si sono
svi- luppate coordinando e subordinando i moti secondo che erano utili e
piacevoli. E quanto più questi movimenti venivano ripetuti, tanto più diventavano
facili, finche si resero moti riflessi irresi- Questa genesi della Natura che
si fa e della Natura fatta è di grande luce nella scienza e nella vita pratica.
Ma nelle filosofie dialettiche dello Hegelismo e dell1 Ardigoismo che negano
l'indivi- duo e riducono la coscienza ad un'astrazione, ri- sultato del
processo di antitesi dei concetti per l'uno, e risultato delle forze incidenti
dell'ambiente per l'altro, è ignorata. Anzi YArdigò confonde insieme sentire,
volere e pensare negando sempre il soggetto che pensa e vuole. Nelle sue Opere,
Voi. I, p. 141 a 185 egli scrive che il soggetto è un concetto astratto. « La
coscienza non è altro, egli dice, che l' insieme delle rappresentazioni o
esterne (dalle quali si astrae il il concetto di materia) o interne (dalle
quali si astrae il concetto di spirito o di anima). Il riferimento delle
sensazioni al soggetto pensante ed agli oggetti esteriori, non ha luogo per
intui- zione immediata: ma è un puro effetto di esperienza, per la quale ne
facciamo poco a poco l'abitudine. Dunque non vi sono schemi a priori
dell'intelligenza: non vi sono elementi primitivi; ma sono tutti, anche il Me,
prodotti da abitudine empirica (pag. 150). La coscienza è un risultato delle
forze incidenti. Non è vero che il fenomeno non si possa pensare senza il
soggetto relativo. Il Soggetto è un concetto al quale si può arrivare, ma non
un dato, dal quale si debba partire. Il Soggetto dei fenomeni psicologici non è
altro che un astratto che si chiama Anima, è in- stabile, e segue le variazioni
logiche per le quali passa l' induzione, dopo lo esame dei fatti » (pagina
163). « Non vi è differenza radicale fra Sentìmento, Volontà e Pensiero: Gli
atti volontari altro non sono che sensazioni e sono riferiti all'anima per
errore (pag. 180). Le facoltà rappresentative, affet- tive e volitive, sono
solamente combinazioni variate dei medesimi elementi di sensazione, come
altret- tante parole formate col medesimo alfabeto (pagina 181). Le cognizioni,
gli affetti, i sentimenti, i voleri, sono tutte sensazioni o ricordanze di sen-
sazioni, e dipendono dall'organismo ». Così l' Italia non si faceva dal di
dentro al di fuori, da un eroe ai suoi compagni garibaldini e alle masse: no,
erano gli effetti inconsci dell'ambiente che spingevano Garibaldi a Calalafìmi
a rispondere a Bixio: « Non ci ritiriamo: qui si fa l' Italia o si muore ». E
dall'ambiente che i martiri e gli eroi antichi e moderni attinsero il coraggio
e l' entusiasmo: risultati delle forze incidenti, sentire, pensare, volere:
tutto è uguale per Ardigò, ò]xbu xà Travia. Ogni uomo ha i suoi doveri: e se li
segue è come una nave che va al porto, per forza propria, avendo buon capitano,
buona bussola, buona macchina, buone vele, e questo è l'uomo pitagorico
bruniano. Mentre, se non li segue, somiglia ad una nave che non sa andare in
porto se non per caso, e che, quando i venti sono contrari, ed i marosi
minacciano, si lascia travolgere dalle forze inci- denti, come un trastullo. E
questo è l' uomo Ardigotico. Ardigò ha negato la Coscienza, il Soggetto, e la
Natura che si fa. Ed in questo egli non ha fatto altro che seguire il
Positivismo anglo-fran cese e contraddire al suo pensiero fondamentale dello
Indistinto che sta sotto ad ogni distinto e che somiglia allo Inconscio di Schelling.
L'armonia fra la filosofia di Schelling e quella di Feuerbach e di Spencer non
è stata trovata à&WArdigò: né poteva trovarla. Il disaccordo è evidente
nella teoria della Volontà. Chi è che vuole quello che fac- ciamo noi? Se è
l'ambiente non siamo noi. Se noi andiamo contro l'ambiente (e lo fanno tutti
gli animali) siamo snaturati, delinquenti che vanno contro il loro papà
l'Indistinto. Così il Signor Ardigò non è più Ardigò: e una eco della gente che
lo circonda. Il prof. Giuseppe Sergi poi, nella sua « Psychologie physiologique
» 1888, fa derivare gli atti volontari dai moti riflessi/ e tratta della prima
differenza tra la volizione e l'atto riflesso, nel sospendere dopo
l'eccitamento il moto, per cer- care una via nuova e arrivare così all'atto
spontaneo, il quale, deriverebbe dall'attività automatica (sic) degli elementi
nervosi e muscolari. È inutile proseguire. Intelligenti pauca. Il confusionismo
è madornale. Gli atti riflessi non si sa- rebbero mai formati, se non fossero
stati voluti e ripetutamente voluti dagli antenati degli ani- mali che oggi ne
sono forniti. Se la Volontà uscisse dai moti inflessi, sarebbe perfettamente
inutile, essendo meccanismi che vanno per necessità. Grazie a queste false ed
assurde teorie, oggi nell'antica patria del diritto (che era tutto fondato
sulla libertà), si crede che l'uomo sia schiavo delle proprie passioni: e la
scuola Lombrosiana, attribuendo i delitti, le malattie mentali e anche il genio
alla epilessia larvata, è ^esagerata a tal punto che il Morselli scrisse nella
Cronaca d'arte di Milano che, con tali teorie, si può giungere a chiamare
l'uomo un animale epilettico. La nostra dottrina della Natura che si fa e della
Natura fatta fu, non solo adottata da valenti professori Italiani di filosofia
del diritto, ma approvata anche all'estero e specialmente dallo eminente
magistrato e pensatore francese Tarde, il quale la segnalò nella Reme
Philosophique come «profonde et habituelle distinction ». Essa concilia in modo
strettamente scientifico il sentimento della libertà, i bisogni della
giurisprudenza, della politica, della morale, con le esigenze del Determinismo;
ed è tutta fondata sui fatti. Altri due illustri filosofi francesi più del
Tarde espliciti amici della nostra Nuova scienza cioè B. Perez, «Le caractère
de l'Enfant à l'homme», 1892, e Fr. Paulhan, « Les caractères », 1894, opposero
egregiamente i padroni di se stessi, ossia gli uo- mini riflessivi, che sanno
sistematicamente inibire i movimenti superflui o dannosi, agi' incoerenti,
agl'impulsivi, ai suggestionabili, ai deboli, ai di- stratti, agli storditi, ai
frivoli, insomma a coloro che si lasciano imporre dalla società e trastullare
dalle forze incidenti (agli uomini ardigotici). Sono questi i mezzi caratteri o
i senza carattere, assai numerosi nelle grandi agglomerazioni umane. Però i
veri caratteri si possono ridurre a tre, cioè quelli in cui predomina V
intelligenza, che sono pochissimi, calcolatori, i quali nulla lasciano al caso;
i sentimentali che vivono sopratutto nella loro intimità, suscettibili,
meditativi; e i volitivi che vivono molto all'esterno, nell'azione, audaci ed
ottimisti (1). (1) Tutti sanno che gli antichi Greci distinguevano quattro
temperamenti e li dicevano base di quattro ca- ratteri: il sanguigno leggero,
versatile, corrisponde ai 1 veri caratteri sono unificati e stabili, durevoli,
cambiano poco e difficilmente (1). Le divisioni fon- damentali dei caratteri
sono date adunque nella distinzione delle tre facoltà psichiche: sentimento,
pensiero e volontà. Se fosse lecito trovare qualche analogia nel mondo fisico
si potrebbe osservare che gli uomini nei quali prevale il sentimento
corrispondono al Carbonio (elemento accentratoro); quelli nei quali è maggiore
la volontà all' Ossigeno, (elemento che si combina cogli altri più facilmente);
quelli senza carattere o di semicarattere all' Azoto (elemento in- differente
ed inerte); quelli finalmente che pen- sano più di tutti, non hanno
naturalmente corri- spondenza nella natura bruta; corrispondenze che forse
hanno poco valore. I grandi capitani, come Napoleone, i grandi uomini di Stato,
i maggiori industriali sanno mezzi caratteri, tipi misti; il melanconico che
Lotze chiamò sentimentale, esitante e profondo; il collerico che ha molta
imaginazione e passioni intense, corrisponde ai volitivi; e il flemmatico o
linfatico molle, di poca imaginazione, freddo, agisce lentamente, corrisponde
ai senza carattere. Cabanis vi aggiunse il nervoso, che è una varietà del
sentimentale, e il muscolare che è una varietà del volitivo. B. Perez
classifica, osservando i moti, in vivi, lenti, ardenti, e tipi misti. F.
Paulhan osservando la legge di associazione delle idee, ossia l'attitudine di
ogni ele- mento, desiderio, idea a suscitarne altri, per uno scopo comune.
Veggasi pure Janet, « Des caractères dans la sante et dans la maladie ». (1) Le
conversioni sincere come quella di S. Paolo, di Lutero, Agostino ecc.
lasciavano stare il fondo del carattere, mutandone solamente l' indirizzo e gli
scopi. I can- giamenti di carattere dovuti a malattie od a ferite della testa
non sono conversioni ma caratteri nuovi, dipendenti da organismo modificato. combinare
questi caratteri, in modo da trarne il maggior frutto per la guerra, la
politica e gli affari: e se mancano il carbonio o l'ossigeno, Velemento
indifferente mette in equilibrio instabile alcune società, alcune burocrazie,
alcuni organismi, che guidati da mano più sapiente prospererebbero. Il Volere
fa tutti i moti. La volontà è la finalità resa causale, giacche al sentimento
ed al giudizio fa seguire l'atto di difesa e di sviluppo. Maine de Biran vide
che il tipo su cui percepiamo le cause esterne è la nostra volontà, poiché
essere vuol dire sentire, volere, agire, ed infatti Schopenhauer concepì il
mondo come fatto da Volontà cieca. Ed il viennese professore Stricker, che
meglio degli altri pensatori lo interpreta, os- serva che la Volontà è la vera
causa (Ursache, Urquelle), che essa è il tipo della forza universale. Con
l'esperimento si provoca, a nostro piacere, un fenomeno, e si riconosce il modo
di agire delle energie cimentate: assimilando le forze della natura alla
volontà nostra. iSTon è tanto il succedersi co- stante dei fenomeni, che ci
assicura sulla vera causa, quanto il cooperarvi col nostro senso muscolare e
con la nostra Volontà. Siamo costretti a considerare ogni moto come causato e
trasferito da una Volontà, da una forza simile alla nostra Volontà. Huxley e
Dubois Reymond credevano che ci fosse un abisso fra la volontà e il moto, fra
la psicosi e la neurosi. Però l'abisso non vi è punto,se si pensa che
l'Intensivo continuo della coscienza volente è il centro attivo del moto
centrifugo. E la Volontà è misurante in tutto quello che si fa, anche in una
carezza ad un bimbo: se non misurasse, invece di fare una carezza darebbe uno
schiaffo e per farsi la barba si taglierebbe la pelle: ne cucire, ne scrivere,
ne disegnare, né lottare e tirar di scherma, ne eseguire qualsiasi lavoro si
potrebbe se la Volontà col senso muscolare non fosse misurante e non sapesse
continuamente proporzionare i movimenti. La volontà che misura senza numero
concettuale è sopratutto evidente nelle partite di boxe, dove la direzione e la
veemenza dei colpi sono calcolate ad ogni istante con colpo d'occhio si- curo
nei minimi atteggiamenti. Spettacolo interessante la ginnastica; e specialmente
una partita di boxe. Johnson campione della razza negra del Texas e Jeffries
campione della razza bianca dell'Ohio, nel luglio 1910 presso la Università di
Reno, città universitaria del Nevada, mostrarono tutte le risorse della Volontà
più esercitata a forza di pugni: e vinse il Negro, benché meno alto e meno
robusto. La Volontà non sta punto in proporzione della intelligenza. I Batraci
sono meno intelligenti dei Rettili, ma non meno risoluti. Fra i Mammiferi, che
superano per intelletto gli altri Vertebrati, la Volontà è sovente inferiore a
quella dei Rettili, e gli Uccelli spesso fra i tropici si lasciano affascinare.
Certi serpenti affascinano uccelli, scimmie, conigli, col solo guardarli
concentrando la loro Volontà. Mentre i piccoli animali che vor- rebbero
divorare stanno sugli alberi, il serpente che sta per terra, li aspetta, li
attrae: ed essi si sentono paralizzati, e mezzi morti di paura: fin- che vanno
nella bocca del tiranno, per un ipnotismo che li conquide a far loro rinunciare
alla propria volontà, alla distanza di alcuni metri, e mentre potrebbero ancora
scappare volando o sal- tando altrove (1). Torneremo sulla fascinazione nel
Voi. II: L'uomo secondo Pitagora, Cap. IX. Spesso un uomo d' ingegno ha volontà
mediocre \ ma viceversa grandi passioni, desideri violenti sor- gono non di
rado in uomini di cervello debole. Oltre ai mille modi di esercitare la Volontà
nel lavoro e nella lotta per la vita, vi è la scarica leggiera e piacevole del
Riso, che non ha alcuno scopo di utilità conoscitiva, ne economica, ne
estetica, ma si fa spontaneamente, come esplosione di libertà, quando ci
colpisce qualche contrasto improvviso di idee che si escludono, o qualche
notizia gradita che promette lo sviluppo del be- nessere nostro o dei nostri
cari o quando si fa un giuoco ginnastico divertente, o quando ci minaccia chi
non può misurarsi con noi. Si comincia col sorriso, che increspa le labbra e
mostra i dentini delle Delle donne; si accresce facendo brillare gli occhi e
mostrando (come disse il Fiorenzuola), l'anima nel suo splendore, si arriva a
scuotere piacevolmente il petto e il diaframma^ ad abbracciare i vicini ed a
saltare. Il giudizio muove il riso: ma è la volontà che scarica la forza
nervosa. Un giovanetto che studia Tlnglese, p. es., e pronuncia Shakespeare ora
come Schiacciaspie, ora come l' immortale Scappavia, desta l' ilarità
irresistibile; ridono anche le scimmie. (1) Per suicidarsi ci vuole, oltre ad
una forte volontà, un giudizio sentimentale sul minore dei mali inevitabili:
giudizio che in generale manca agli animali. Però gli scorpioni, se messi
vicino al fuoco, si suicidano, alzando la coda e cacciando il loro dardo
avvelenato nel mezzo della testa. Il riso è sempre giovevole: allarga il
torace, fa emettere il gas acido carbonico, ed aspirare os- sigeno, vivifica il
sangue, abbassa il diafragma, dilata i polmoni ed i vasomotori, rischiara le
idee, dà innervazione a tutto il corpo. È una esplosione di libertà, di
superiorità, di vittoria, ed è probabile che nella civiltà possa
generalizzarsi. Certo negli uomini poco civili è più raro, e negli ani- mali
inferiori ai quadrumeni manca. Schopenhauer scrisse che gli uomini volgari si
annoiano stando soli, perchè non hanno la potenza di ridere da sé. La umanità
nel ridere dimostra che è libera, e gode ogni qualvolta s'innalza sopra
l'ambiente, e si svincola da ogni ostacolo, da ogni ceppo, da ogni
meschinità.Cenni storici su Pitagora e la sua Scuola.. La prima estrinsecazione
del- l'Essere Divino (Spazio e Tempo) »
La seconda estrinsecazione del- l'Essere Primo (Atomi eterei e
ponderali) » 29 Id. III. - La solidarietà degli Atomi in generale » 47 Id. IV.
- La solidarietà geometrica cri- stallina » 58 Id. V. - L'ascesa alle chimiche
combinazioni » L'Unità assimilatrice cellu- lare » Come le Unità cellulari si
ac- centrano nelle Piante per godere l'amore »Origine psichica delle specie
animali » 101 Id. IX. - Come la Psiche fa la vita in- terna sana »Come la
Psiche fa le guarigioni Pag. 134 Id. XI. - Come la Psiche fa il Sistema Nervoso
» Come la Psiche fa il Sistema Muscolare »
La Psiche generatrice... » La Unità intima nel Senti- mento » La Unità
Numerante nella Volontà. » 181 ^ LBOL'20 SAN TOMASO D'AQUINO Della Pietra
filosofale e dell'Arte dell'Alchimia, con una Introduzione L. 3,- SAUNIER La
Leggenda dei Simboli filosofici, religiosi e massonici.... L. 6,- ERMETE
TRIMEGISTO Il Pimandro e altri Scritti Ermetici, tradotti dal greco per il D.r
Bonanni, con una Introduzione L. 3,- CIRO ALVI L'Arcobaleno L. 3,50 Frate Elia
» 2,— Vangelo (II) di Cagliostro, con una Introduzione di Pericle Maruzzi L. 3,
— Prossimamente: Gr. Uebini - Arte Umbra. L. Fumi - Eretici e ribelli
nell'Umbria. Dr. Keller - Le basi spirituali della Massoneria e la yita
pubblica. La filosofia di Pitagora che è generalmente conosciuta appena
in alcuni dei suoi punti fondamentali come la metempsicosi, l’armonia
delle sfere, la scienza dei numeri, l'astensione dai cibi carnei e dalle fave, e
in realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine, un ve?v e propìzio
sistema di speculazione e di morale, la cui conoscenza ci è tuttavia
possibile soltanto in piccola parte sì per la scarsità dei documenti scritti
originali, dovuta alla nota tradizione della segretezza che i più dei suoi
cultori osservarono scrupolosamente, sì per le amplificazioni, le
falsificazioni, e le invenzioni che partorirono le fantasie di tardi
seguaci di pseudo-eruditi e di mistificatori. E però indubbio che tale
filosofia e non dilettantismo di mistici fanatici, ma vera e ragionata speculazione
a cui si accompagna, parallela, ima conseguente e logica ragione di vita,
sì che, mentre da un lato potè attrarre, seducendole col fascino delle
verità da essa chiarite e coll’armonica bellezza dei suoi insegnamenti. le
anime di molti cui pungeva r assillante aculeo della conoscenza.,
incontrò daW altro ostacoli e derisioni da parie di aristocrazie
interessate o di volghi ignobili e sciocchi. Divulgata. se
non creata interamente ex novo, per opera di Pitagora, del quale, come di
Omero, alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa e coltivata prima che
altrove, sulle rive dell' Ionio nella Magna Grecia e in Sicilia., di dove
si diffuse, sebbene osteggiata., nella Grecia ed in Roma. Ricca.,
com'essa era., di principii che oggi si direbbero idealistici e
tra- sceridentali., ed accompagnandosi., come ho detto., a una sua
particolare armonica concezione della vita individuale e collettiva teorica insomma
e pratica nello stesso tempo., essa era ben atta ad informare di se
religione e scienza., politica e morale. consuetudini e leggi. Essa w
da molti connessa non pure con anteriori antichissime dottriìie della Grecia^
deW Egitto^ delV India e per fin della Cina, dalle quali sarebbe in tutto
o in parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di
somiglianza, ma altresì con la posteriore filosofia di Platone, in molte parti
ricalcata sulle sue orme. Conservata poi per lungo tempo immune da
elementi estranei, e tramandata, senza il sussidio della scrittura, nel
segreto delle scuole, essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filosofi,
quando, inalveatesi nel suo letto altre correditi di pensiero, alimenta le
speculazioni della teosofia neoplatonica e nieopitagorica di Plotino, di
Porfirio e di altri molti, e diede origine a molteplici scritture, quali più
quali meno profonde ed attendibili, intorno alla vita ed ai primi insegnamenti
dell’antico maestro. Da essa infine trassero ispirazione alcuni filosofi
della rinascenza, e qualche sua derivazione può dirsi non del tutto
spenta anche oggi. Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque massime
per noi italiani, lo studiare la storia di questa dottrina e il ricercarne e
ìiarrarne le vicende nei vari tempi e nei vari paesi: poiché sebbene
molti abbiano fatto studi e ricerche in proposito — basta ricordare fra
tanti, i lavori di Bitter, Zeller, Gomperz, Chaignet e Mullach, e, in
Italia, di Capellina, Centofanti, Gognetti, Martiis, Ferrari e Ferri -- e benché da tutti (1)
Heinrich Ritter, Oeschichte der Pythagor. Philosopkie, Hamburg, Zellbe,
Pythagoras und die Pythagorassage, in Vortràge und Abhandlungen geschichtlichen
Inhalts^ Leipzig, 1865 e Die Philosopkie der Oriechen ecc.., voi. P
Gomperz. Les penseurs de la Grece, trad. de la 2* ed. alleni, par
A. Raymond, Paris, Alcan, Chaignet, Pythagoi^e et la philosopkie pythagor.,
Paris, Mullach, De Pythagora eiusque dìseipulis et suc- cessoribus, in
Fragmenta philosoph.. graecor. v. II, Paris, Capellina, “Delle dottrine
dell'antica scuola pitagorica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R.
Aecad. di Scienxe di Torino -- Centofanti, Studi sopra Pitagora, in La
letteratura greca, Firenze, Le Monnier -- CoGNETTi De Martiis, L'Istituto
Pitagorico, in Atti della R. Accad. delle Scienxe di Torino, Socialismo
antico, Torino, Bocca -- Ferrari, La scuola e la filosofia pitagorica, in
Rivista ital. di Ulosofia, Ferri, Sguardo retrospettivo alle opinioni
degl'Italiani intorno alle origini del pitagorismo, in Atti della R.
Accademia dei Lincei, Rendiconti, -- questi e da altri studiosi non solo
si siano raccolte molte notizie ma si siano anche esaminate e discusse
quistioni importaìitissiìne pure troppe cose ancora rimangono da chiarire
e da risolvere della storia ch'io chiamerò esterna del Pitagorismo. E
fors'anche^ riprendendone i?i esame il contenuto, ossia tenendo l’occhio
alla sua storia interna, che è poi, per la filosofia, la sola importante,
qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata dall'antico saggio,
potrebbe dimostrarsi anche oggi validamente fondata e tale da poter resistere
agli assalti del nostro più acuto criticismo. Gli studi
raccolti in questo volume furono già da me in gran parte pubblicati in
Riviste; ma poiché ho dovuto, ìiel corso delle mie ricerche, modificare
alcune delle conclusioni alle quali ero giunto, e nuovi fatti ho potuto
chiarire, mi sono indotto, anche per aderire al desiderio e alle
sollecitazioni di be7ievoli amici, a ristamparli tutti insieme.
Spero che il tenue contributo chHo porto alla storia che or ora
dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno a dimostrare che intorìio a
queste importantissime dot- trine non si è detto ancora tutto e che
inolio ancora si può indagare e scoprire. Da diverse tradizioni
furono connessi i piiì antichi istituti religiosi e politici di molte
città dell'Italia meridionale con il Pitagorismo. Ne fa meraviglia che alle
dottrine di Pitagora si fa risalire anche le prime istituzioni e le
più antiche leggi di Roma. Numa, il sacro legislatore della città
capitolina, e ritenuto scolaro di Pitagora, e le stesse leggi di Le XII Tavole,
copiate dalle legislazioni della Magna Grecia e della Sicilia, che alla
loro volta traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, sono
altresì ricongiunte con questo. Sarebbe indubbiamente assai utile e
interessante poter determinare in che consistessero questi legami di
dipendenza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi
dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze e degli
istituti religiosi e della fondamentale legislazione -- Seneca, per
esempio, (Epist. ad Lucilium) sull'autorità di Posìdonio, dice, parlando
dei grandi legislatori dell'Italia. Hi non in foro, nec in consultorum
atrio, sed in Pythagorae ilio sanctoque secessu didicerunt jura, quae
fiorenti lune Siciliae et per Italiani Oraeciae ponerent -- romana;
ma purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo si sia fatto in proposito,
non è, per ora, possibile una determinazione neppure approssimativa. Ma
insieme con questa azione, da alcuni ritenuta soltanto leggendaria, su ciò che
costituì l'anima della vita civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un
ulteriore influsso, determinando attraverso le vicende della sua storia
vasta e complessa, una corrente di filosofia sua propria, continua o
interrotta, palese o recondita? Di vera e propria tradizione scritta
non ci restano tracce, se non frammentarie; di una tradizione orale
abbiamo invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di
non pochi seguaci che la dottrina pitagorica ha in Roma. Anzi noi
possiamo rilevare fin d'ora, anticipando in parte le conclusioni di
queste nostre ricerche, che questi innamorati cultori di una così riposta e
difficile sapienza non furono già uomini oscuri nè poeti o scrittori di
second’ordine, ma cittadini illustri, grandi poeti e celebri letterati,
pensatori insigni e grandi uomini politici. Cosicché la filosofia pitagorica,
non morta nella scrittura o negli insegnamenti orali, ma viva e operante nelle
menti di magistrati famosi, come APPIO CLAUDIO e il maggiore SCIPIONE,
nelle fantasie di autori eccellenti, come ENNIO e VIRGILIO, nei
cuori di cittadini nobilissimi, come FIGULO, VARRONE e i SESTII,
accompagna in certo modo passo per passo il progredire della potenza e della
grandezza di Roma; finché poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua
virtù fattiva prevalendo l'elemento speculativo, che, data la naiura
e l'indole dei romani, e il meno idoneo ad allettarli, e all'antica
razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un lato fantasticherie e
aberrazioni come quelle di un ApolIonio di Tiana, e dall'altro frammischiaudosi
elementi eterogenei di origine greca, orientale e forse anche cristiana,
essa si ritira di nuovo nel silenzio e nella segretezza di qualche
scuola, illumina appena la vita e lo spirito di qualche solitario amante
della verità e del sapere, e finì per disperdersi e dileguare nelle acque
torbide delle speculazioni di un Macrobio o di un Eulogio. Se io mi sono
indotto pertanto a raccogliere con la maggior diligenza possìbile i
ricordi, le testimonianze, le tracce, o. palesi o recondite, o tenui o larghe,
che di sé lascia il pensiero pitagorico
nella storia e nella letteratura dell'antica Roma, gli è che altri lavori e
studi esaurienti intorno al mio tema non mi è accaduto di trovare. Brevi
cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere di Zeller, Chaignet, Mullach,
nella “Storia di Roma” del Pais, e in storie generali e particolari
della letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lunghe e
pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse qua e là un po'
dappertutto. L'importanza e il valore delle mie ricerche non consistono
dunque nella novità dei risultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un
tema fin qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella
quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne ho fatto,
seguendo l'ordine cronologico; e qualche questione spero anche di avere
maggiormente chiarita, sebbene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso
costruire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni
definitive. Che molte delle antiche istituzioni di Roma sono derivate
dalla filosofia pitagorica e riconosciuto ed ammesso esplicitamente da CICERONE,
il quale nelle Tusculane scrive: “Pythagorae doctrina cum longe lateque
flueret, pernianavisse mihi videtur in hanc civitatem, idqtce cum coniectura
probabile est, tum quibusdam etiam vestigiis indicator.” A conforto dunque
della sua opinione CICERONE adduce due argomenti, uno congetturale e uno
di fatto. “Quis enim est qui putet cum fiorerei in Italia Graecia
potentissimis et maximis urbibus, ea quas Magna dieta est, in eisque
primum ipsius Pythagorae, deinde postea Pythagoreorum tantum nomen esset,
nostrorum hominum ad eorum doctissimas voces aures olausas fuisee f Quin
etiam arhitror propter Pythagoreorum admistrationem NUMAM quoque regem
pytagoreum a posterioribus existimatum. Nam cum Pythagorae dìsciplinam et
instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapientìam a maiorihus suis
accepisseut aetates autem et tempora ignorarent propter vetustatenii eum, qui
sapientia excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse.” E
questa è la congettura. L constatazione di fatto poi è, che nelle
istituzioni romane e in alcune antiche scritture vi sono molte non
indubbie tracce di pitagorismo. Quanto alle istituzioni, CICERONE trova
materia di raffronto nell'uso dei canti e della musica. “Vestigia autem
Pythagoreorum, quamquam multa colligi possunt, paucis tamen utemur. Nam
cum carminibus soliti illi esse dicantur et praecepta quaedam occultius
tradere et mentes suas a cogitationum intentione eantu fidibusque ad
tranquillitatem traducere, gravissimus auctor in Originibus dixit CAIO
morem apud maiores hunc epuìarum fuisse ut deinceps qui accubarent,
canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes. Ex quo perspicuum
est et cantus tum fuisse discriptos vocum sonls et carmina. Quamquam id
quidem etiam XII TABULAE declarant, condi iam tum solltum esse carmen, quod
ne licer et fieri ad alter ius iniuriam lege sanxerunt. Sec vero illud
non eruditorum temporum argumentum est, quod et deorum puloinaribus et
epulis magistratuum fides praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua
loquor, disciplinae.” E quanto alle antiche scritture CICERONE ricorda un
carme di APPIO CIECO, che a lui pare pitagoreo. “Mihi quidem etiam APII
CACCI carmen, quod valde PANAETIVS
laudat epistula quadam, quae est ad Q. TVBERONEM, Pythagoreum videtur.”
CICERONE conclude: “Multa etiam sunt in nostris institutis ducta ab
illis; quae praetereo, ne ea, quae repperisse ipsi putamur aliunde
didicisse vi-deamur.” È davvero un peccato che Cicerone, per sentimento d’orgoglio
nazionale — che non doveva peraltro essere soltanto suo — e forse anche
per ragioni, se non di stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e
di utilità pubblica, *tace* intorno a queste molte altre
derivazioni d'istituti romani dal pitagorismo, alle quali, come si è visto accenna
per ben due volte; tanto piii che CICERONE e per le cariche da lui
coperte, e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e
sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda cultura storica,
letteraria e FILOSOFICA, e bene in grado di fornirci in proposito
notizie, documenti e prove certo assai interessanti. Ci è forza dunque
accontentarci di questa sua affermazione categorica, per quanto generica,
e vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano validi e, in
secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò contro la sua tesi.
Che in verità il pitagorismo importato nella Magna Grecia “temporihiis
isdem” — come dice lo Cicerone — “quibus L. Brutus patriam liberavit” -- e
propagatosi in tutta l'Italia meridionale, dove si conserva, non dove rimanere
ignoto ai romani e dove esercitare su di loro, presto tardi, qualche
influsso notevole, è ovvio, e le presenti ricerche dimostrano appunto la
cosa alla luce dei fatti. Ma, la questione è ora di vedere se tale
influsso si possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei
-- [E detto che Pitagora venne in Italia “superbo regnante” --
suoi primi seguaci, come Cicerone crede, oppure, come crede LIVIO, se
esso si fa sentire soltanto, per opera di neo-pitagòrici, dopo la
conquista della Campania e della Magna Grecia -- e, d' altra parte, se questa azione sia
stata così larga e profonda da dover lasciare molte tracce di sé negli
istituti politici e religiosi di Roma, o se si sia esercitata solo sulle
prime manifestazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime speculazioni
filosofico-religiose. Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me
che dimostrino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima
dell'Arpinate, e precisamente PRIMA della conquista dell'Italia meridionale,
dove essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla sua
dottrina e alle sue leggi e debitrice di molto Roma. Il primo di questi fatti è
che durante la guerra sannitica e innalzata a Pitagora ai lati del comizio
in Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase poi sino
ai tempi di Siila. Ora la guerra contro i San-niti si combattè in tre periodi. Pais
crede che la cosa si debba ritenere avvenuta appunto in questi ultimini anni.
Ma in realtà non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire anche
ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un poco posteriore, è
che dopo la presa di Turis, di Eraclea -- La cosa ci è
attestata da Plinio, il quale però non cita la fonte da cui ha attinto la
notizia. Dice PLINIO infatti. “Invento et Pythagorae et Alcibiadi in eornibus
Comitii positas statuas, cum, bello Samniti Apollo Pythius iussisset
fortissimo Oraiae gentìs et alteri sapientissimo simulacra celebri loco
dicari.” Cfr. Plutarco, Numa. -- e di Taranto e con l'arrivo nella città
di Livio Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale, sono
dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno Zaleuco. Ora perche
mai sono stati concessi a Pitagora due onori così distinti e di carattere
pubblico, se non si sono riconosciute le sue benemerenze verso Roma?
Evidentemente, in quei tempi più antichi, l'orgoglio nazionale non ha
ancora oscurato, come più tardi, il senso della verità storica! Ciò
premesso, veniamo ad esaminare la possibilità degl'influssi pitagorici sulla
più antica civiltà capitolina, secondo le prove che ce ne dà CICERONE. I
carmina convivalia che, ormai disusati nell'età ciceroniana, sono invece
ancora in uso al tempo della seconda guerra punica e che
risalivano, come afferma CATONE, a molte generazioni prima di lui, sono
certamente anteriori alla legislazione decemvirale. Cicerone, infatti,
per dimostrare l'esistenza di canti accompagnati da strumenti
musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta nei tempi più
antichi di Roma, ricorda nel passo citato, insieme con la testimonianza di CATONE,
il fatto che le leggi di Le XII TABULAE comminavano gravi pene a chi
avesse usato quei canti “ad alterius inkiriam.” Senonchè Cicerone,
come appare da un altro passo dei suoi scritti -- Vedasi il framm. nei Fragni.
Hist. Graec. e Symm. ep. X, 25. -- Cfr. De rep. IV, fr, 12 –
“Nostrae XII tabulae quuni perpaueas res capite sanxissent, in his hane
quoque saneiendam pukiverunt, si quis occentavisset sive earmen
condidisset quod infamiam faeeret fìagitiumve alteri” -- e vedi auche Plinio, Nat. Hist. --
audò anche più oltre, ritenendoli già esistenti a tempo del re NUMA. Se
così è, non avrebbe dunque dovuto valere anche per essi l'obiezione che
l'Arpinate moveva, come si è veduto, alla leggenda che il re Numa e stato
scolaro di Pitagora? Neppure di questi antichissimi canti egli puo
logicamente ammettere la derivazione dall'analoga costumanza dei
Pitagorici, se Numa che Ji istituì visse, secondo la cronologia
ufficiale, a cui il nostro autore credeva, piti di cento anni innanzi la
venuta del filosofo di Samo. Cosicché o il raffronto istituito da
Cicerone e la analogia da lui messa in rilievo non ha alcun valore
storico — e così dovrebbe ritenersi senz'altro, se fosse
indiscutibilmente fondata la cronologia della più antica storia di Roma — ,
oppure, come è più probabile, in conformità dei risultati generali e
particolari a cui è giunta la critica storica nell'esame delle primitive
leggende romane — l'ipotesi della derivazione dei canti dal pitagorismo
ha un fondamento di vero, e in tal caso è da ritenere che fosse errata la
tradizione cronologica, in quanto fa risalire all’antico un'usanza che
dovette essere piu nuova. Quanto poi all'analogia considerata in se,
in che consisteva essa? Semplicemente -- (De orai. “Nikil est
autem tam eognatum mentibus nostris quam, numeri atque voces; qtiibus et excitamicr
et ineendimur et lenìmur et languescimus et ad hilaritatem et ad
tristitiam saepe deducimur; quorum Ula sumnia vis carminibus est
aptior et eantibus, non neglecta ut mihi videtur, a NUMA rege
doctissimo maioribusque ìiostri ut epularum sollemnium fides ac tibiae
Saliorumque versus Indicarli ; maxime autem a Graecìa vetere celebrate.” Di
questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e cioè nel Brutus e nelle
Tusculane. Si vedano anche TACITO, Ann. Ili, 5, Val. Massimo II, 1, 10,
Nonio ad assa voce ed ivi Yabbone, de vita pop. rom.^ fi. II, 20,
Kettner. nell'uso comune del canto e della musica in occasione di
feste religiose e di banchetti pubblici, non già nel contenuto dei canti
stessi, che gli uni. -- cioè i Pitagorici, adoperarono come mezzo terapeutico e
di insegnamento esoterico, e gli altri invece, cioè i Komani, per esaltare
la memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici erano soliti
tramandare sotto il vincolo della segretezza certi insegnamenti in forma di
canzoni e riposare per mezzo di canti accompagnati dalla lira le menti
affaticate dalla lunga meditazione, così gl’antichi Romani soleno, al
principio dei banchetti, cantare al suono delle tibie le lodi e le
virtù degli eroi, ed hanno anche l'usanza di far precedere tanto
alle mense in onore del divino, quanto ai banchetti dei magistrati, il suono
delle lire, il che fu pure caratteristico dei Pitagorici. Insomma, le piu
antiche manifestazioni dell'arte musicale in Roma si ha per l'influsso
diretto del Pitagorismo. A quel modo che si è dimostrata la
possibilità che sono derivate dal pitagorismo queste antichissime
manifestazioni dell'arte musicale, si puo anche riconoscere come
verisimile — contrariamente a ciò che ne pensa Cicerone — la notizia dei
rapporti fra Numa e Pitagora. La notizia che il re Numa e stato
scolaro di Pitagora è probabilmente vecchia. Anzi il Pais afferma
che essa si deve forse far risalire ad Aristosseno. Ma in tal caso e necessario
credere che Aristosseno conosce una cronologia della storia romana diversa
da quella che fu poi consacrata dalla storiografia ufficiale, secondo i
computi della quale l'esistenza di Nu- [Storia di Roma] ma e
anteriore a quella di Pitagora. Tanto è vero che quasi tutti i filosofi
presso i quali troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'Alicarnasso,
Diodoro Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio — notano e discutono
variamente questa inconciliabilità cronologica, concludendo tutti press'a poco
come fa Manilio nel De re publica di Cicerone, che dice la storia di
queste relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali e
quindi da ritenersi un errore inveterate. Ora che dal punto di vista
romano o di scrittori romanizzanti così dovesse concludersi, è troppo
naturale. Data la indiscutibile verità della tradizione e della relativa
cronologia, non puo esservi dubbio per loro sulla impossibilità per
parte di Numa di essere alunno di Pitagora. Ma tale impossibilità non
esiste per noi, che sappiamo come la storia delle origini di Roma sia di
formazione relativamente assai tarda, come i computi cronologici che a
quella si riferiscono siano il risultato di una lunga elaborazione
tradizionale, quasi interamente destituita d'ogni fondamento di verità, e
infine come molte figure della leggenda siano soltanto dei simboli
rappresentativi di un complesso di fatti di istituzioni appartenenti
talvolta a tempi successivi e diversi. Tolto dunque l'ostacolo cronologico che,
se e validissimo per i contemporanei di Cicerone, non sussiste più oggi
che la critica storica ha demolito l'antichissima cronologia di Roma, non
rimane altra obiezione che [De re publ.: «Inveteratus
ho77tinum errore. Cfr. DioN. Halic. II, 59 ; Diod. Sic. Vili, 14 {.Exc.
de vlrt. et vii. p. 549); Livio I, 18 e XL, 29; Plut. iVwma I, 3; YIII, 5
sgg.; Plinio, Nat. Hist. XIII, 27. quella sollevata da LIVIO, il
quale ritenne impossibile ogni rapporto fra Numa e Pitagora anche per
ragioni di distanza e DI LINGUA. Dice Livio infatti. “Auctorem doctrinae
Numae quia non exstat alius, falso Samium Pythagoram edunt, quem Servio
Tullio regnante Romae, centum amplius post annos, in ultima Italiae ora
circa METAPONTUM HERACLEAMQUE ET CROTONA iuvenum aemulantium studia coetus
habuisse constai. Ex quibus locis, etsi eiusdem aetatis fuisset quae fama
in Sabinos e aut quo LINGVAE commercio quemquam ad cupiditatem discendi
excivisset e quove praesidio unus per tot gentes dissonas sermone
moribusque pervenisset e suopte igitur ingenuo temperatum animum
virtutibus fuisse opinor magis instructumque non tam peregrinis artibus
quam disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum quo genere nullmn
quondam incorruptius fuit.” Ma nel campo della storia, come giustamente
osserva De Marchi, è forse detta l'ultima parola sui rapporti che legarono in
antico la civiltà della Magna Grecia con le più barbare popolazioni
italiche del centro? E d' altra parte la esistenza ammessa da Livio di una
“disciplina tetrica ac tristis” presso i sabini non è cosa molto più
problematica di quello che non sia probabile l'andata di qualche sabino o
romano nella Magna Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra
Numa e Pitagora dovd dunque, a parer nostro, accettarsi come rispondente a
verisimiglianza, e il regno di Numa, se questi è realmente esistito, o,
in ogni modo, -- “Passi'scelti da Livio ad illustrare le
istituzioni religiose, politiche e militari di Roma antica” (Milano, Vallardi il
formarsi di tutti quegli istituti di carattere religioso che la
tradizione riporta a Numa, dovd ritenersi posteriore almeno al tempo di
Pitagora, appunto perchè dalla tradizione e tenuto in stretto rapporto di
dipendenza dal pitagorismo. In tal modo non e più necessario, come fa il
Pais, di ritenere inventata d’Aristosseno l'altra notizia, che risale appunto
a questo filosofo che parla genericamente di Romani accorsi ad
ascoltar Pitagora, e piu facilmente si comprendeno alcuni dati della leggenda
di Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo re, e il
fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, ammetta la realtà dei
rapporti, senza neppure discuterla. Racconta ancora la tradizione che Numa
ha tanta venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare a
un proprio figlio il nome di “Mamerco”, in onore dell'omonimo figlio del filosofo.
Che significato può avere questo nuovo particolare? Alcuni hanno creduto
di scorgere in esso un tentativo da parte degl’Emili Mamertini di
far risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa. Se
così e, noi doviamo allora ammettere che quando il particolare e inserito
nella leggenda, la cronologia di questa non e ancora quella ufficiale. Altrimenti
il tentativo e puerile. Ma così non è, come e giustamente osservato da Mtille.
Probabilmente il (lì npoo'^X'9'Ov S'aùxcp -- cioè Pitagora
-- &<; cpvjoiv 'Apiaxógsvog,
xal Asuxavol xal MsooàTiiot xal Hsuxéxioi xal 'Ptojjtalot. Così dice
Porfirio nella sua Vita di Pitagora; e il medesimo affermano, senza
citare Aristosseno, Diogene Laerzio e Giamblico (Vita Pythag.). Quanto a
Pais, vedasi St. di Roma -- Plutarco, Numa -- Emilio -- Q. Ennius, Pietrob. -- particolare
non ha altro ufficio che di avvalorare con un indizio di piu la leggenda.
Un'altra notizia, a proposito della quale non è veramente fatta menzione
alcuna di Pitagora, è quella che si riferisce alla Musa Tacita, per
la quale Numa ha particolare venerazione. Allude forse essa alla pratica
del silenzio e della segretezza, di cui parla costantemente la tradizione
pitagorica? È possibile. E il miracolo della mensa carica di ricco
vasellame, che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di coloro
che dubitano delle sue facoltà soprannaturali, non ricorda le analoghe
facoltà magiche attribuite a Pitagora dalla tradizione? Veramente queste due
notizie, per il loro carattere favoloso, pouo indurci a credere
l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione storica
immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del saggio di Samo. Ma un
altro fatto, sulla cui verità storica non è possibile il dubbio, sembra
indurci a conclusione diversa. Voglio alludere al fatto della scoperta
dei famosi libri di Numa, avvenuta in occasione di uno scavo sul
Gianicolo. Ora data la realtà della scoperta e la inverosimiglianza di
una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tradizione, che questi libri
sono antichi. Siano poi essi stati opera del saggio Numa — la cui
esistenza, come s'è già detto, dove necessariamente porsi in
un'epoca posteriore — o di qualche
altro sapiente imbevuto di sapienza italica, essi starebbero sempre
a dimostrare che effettivamente il pitagorismo esercita una qualche azione
sull'antica civiltà di Roma. Plutarco, Numa -- DioN. Hauc. Dal complesso
di queste notizie e di questi fatti noi possiamo dunque inferire che non
solo la leggenda dei rapporti fra i due legislatori dove essere assai diffusa
ed antica, ma che altresì essa ha un certo fondamento di vero. Di guisa
che se Cicerone la disce “inveteratus hominum error” noi possiamo senz'altro
accettarne la vetustà. E, quanto
all'erroneità, essa e probabilmente soltanto un desiderio di uomini di
stato e di eruditi animati da un eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual
cosa Ovidio, che pure scrive dopo che diversi filosofi hanno mosso
alla leggenda le critiche accennate, puo ben accettarla senza discuterla
affatto come una cosa ovvia e risaputa e fare in certo modo dipendere le
istituzioni religiose attribuite a Numa, persino la sua riforma del calendario –
gennaio, febbraio --, dalla educazione pitagorica da lui ricevuta. Anche
alcune disposizioni legislative di Le XII TABVULAE sono messe in relazione col
Pitagorismo. Cosa ben naturale, se si pensi alla loro origine. Non sono esse
infatti ricalcate sulle orme delle legislazioni della Magna Grecia,
che, alla lor volta, com'è ben noto, si informano ai principii di quella
dottrina? Ora questa, che sarebbe, per dirla con CICERONE, semplice
coniectura, ha poi la sua riprova nel contenuto delle leggi stesse, quale
può desumersi dai frammenti che ce ne rimangono. Infatti il diritto
punitivo in esse sancito s'ispira al principio del taglione: « Si
[Metam., Fast., Pont.]. e. membrum rup{s)it^ ni cum eo
pacit^ TALLO està », dice il secondo frammento della XVIII TABVLA, e
questo principio, che, come attesta Demostene, ha largo svolgimento
nelle leggi di Zaleuco, e indubitatamente tolto dai pitagorici, i quali
lo ricollegavano alla dottrina dei numeri. Dice infatti Aristotile che la
giustizia e da loro consideata come ràvTi7i;£7cov'9'ó(;, perchè consisteva in
una proporzione — non inversa, ma diretta, come notò bene Zeller — fra l'offeso, l'offensore e il Giudice. Nel
che essi applicarono, secondo la critica aristotelica, i
criteri della giustizia commutativa ad un ordine in cui non può aver
luogo che la distributiva. Ora, dice Chiappelli -- in qual modo si determinasse
dal pitagorismo e quali applicazioni avesse questa teorica
del taglione non possiamo dire, né possiamo quiudi sapere quali
elementi di essa penetrassero in le XII TABVLAE e a quali trasformazioni
anda soggetta in Roma. Un punto tuttavia è possibile stabilire, sebbene
solo in modo negativo. Alla legge generale, in le XII TABVLAE segueno le
leggi speciali: la prima di esse riguardava la diversa
Timocr. « ò'^xoz yàp aòxó^t
vó|i.oo, èdtv tig òcp'S-aXiJLÒv è%xó4>ì|7, àvTsxxócIjat itapaaxsiv xòv
éauxoQ xal oò XP'^M-*''^^^ xt|i7j- oswg oòSs|Jtiac, àTceiÀTjaat xtg
Xéyexat èy^d-pòg è/.'^-pcp Iva Ixovxt òcpS-aX- jjiòv Sxt aòxoù èxxóc|^st
zoùzo'* xòv §va ». Le medesime parole si ritrovano in quello che 1'
autore della Grande Morale ci riferisce dei pitagorici, il ohe è una
riprova del rapporto storico fra questi e Zaleuco. -- Eth. Nic.-- xst
5s xtat xal xò àvxt7C£7iov'9'òc slvat ànXGòq dCxatov còaicep oi
nuO-ayópsiot Icpaaav. è^pL^o'^xo yàp àuXwc '^à SCxaiov xò
dcvxtTCSTtovO'òc dcXXcp ». Sopra alcuni frammenti di le XII TABVULAE
nelle loro relazioni con Eraclito e Pitagora, in Areh. Giuria 00 misura
della pena per l'ingiuria recata a un libero o ad uno schiavo. Ora i
Pitagorici non pare che avessero fatta questa distinzione, se l'autore
della Grande Morale combatte la dottrina pitagorica del taglione, come
quella che non si può applicare incondizionatamente al servo o al
libero, poiché di quanto quello cede a questo, di tanto, se gli abbia
fatto ingiuria, deve accrescersi la pena corrispondente. E in verità siffatta
distinzione e bensì impossibile nel sistema dei pitagorici, per i quali
il corpo e come il carcere dell'anima, che vaga in una perenne
trasmigrazione, e il più alto precetto etico e l'imitazione del divino
per via della virtù, l'osservanza della legge e il rispetto verso tutti
gl’uomini. Ma e invece possibilissima, anzi necessaria, nella legislazione di
Roma, dove così netto e il distacco fra cittadini liberi e schiavi.
Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse ispirato ai principii della
filosofia pitagorica il poemetto di APPIO CLAUDIO CIECO, che, censore e
console, e indubbiamente uno dei personaggi storici più importanti e, se
non il primo, certo uno dei primi rappresentanti di una larga cultura.
Orbene, che il giudizio di Cicerone non e errato parrebbero
dimostrare a sufficienza i pochi frammenti che di quella poesia ci
sono rimasti. E in verità la famosa sentenza “fabrum esse suae
quemque fortunae” non puo esprimere meglio il fondamento della dottrina morale
di Pitagora. L’altra, altis- [Si veda il fr. 3 della stessa
tav. Vili ; « Manu fustive si os fregit libero CCC, si servo GL poenani
subito.” Magn. Mar. « xò Si^ TotoaTov
o5x èaxt Tipòg &7iavxag* oò yàp laxi Stxaiov olxéx^ Tcpòg èXsud-spóv
xaOxóv »] sima, come dice Pascoli, se fosse certa la lezione e l’interpretazione
– “amicum cum vides obliscere miserias; inimicus sies; commentus nec
libens aeque idem tamen teneto” -- «tu dimentichi la tua miseria
quando vedi un amico; ora sia tuo nemico "quello che tu vedi:
ebbene, pensatamente, e non volentieri come con l'amico, tieni lo stesso
contegno, tuttavia” , è pure strettamente conforme alla dottrina
pitagorica, che insegna amore e fratellanza. Il terzo infine « sui
quemque oportet animi coìnpotem esse semper nequid fraudis stuprique
ferocia pariat” non e certo disforme dalle pratiche e dagl’esercizi spirituali
degli adepti al pitagorismo, che dovevano acquistare padronanza assoluta
non pure del proprio corpo, ma anche delle proprie attività
interiori, per dirigerle al bene. Non si apponeva dunque male
Cicerone. Senonchè anche intorno all'autenticità di questo antico poema, che e
una delle prime manifestazioni letterarie di Roma, si sono sollevati dei
dubbi. Il fatto che la notizia di esso e data da Panezio in una sua
lettera a Quinto Tuberone ha indotto per esempio Pais a pensare che si
tratti di una falsificazione posteriore, da collegarsi con le altre
falsità che andavano sotto il nome di Aristosseno intorno ai romani
scolari di Pitagora e su Pitagora cittadino di Roma. Ma come è ciò
possibile, se Aristosseno e Appio furono contemporanei? E se Appio visse,
come è certo, nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lucania
che ragione c'è per negare che Appio conosce quelle dottrine e da esse trarre
ispirazione per [Lyra romana, Livorno,St. di Roma] il suo
poemetto? E poi come dubitare con qualche fondamento dell'autenticità
dell'opera che un Panezio e un Cicerone, a distanza di tempo relativamente
breve, attribuirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo
Pais riconosce che l'efficacia della filosofìa tarentina si esercita sopra
gli uomini di stato romani dal tempo di Appio e di Pirro? L' ipotesi di
una falsificazione, della quale poi non si vedrebbe neppur chiaramente la
ragione, non ci sembra dunque per nulla fondata. Sì che noi
possiamo con chiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in conformità
dei dati tradizionali, esercita una qualche azione tanto sulla più antica
civiltà di Roma, quanto sui primi prodotti del pensiero e dell' arte -- Chi,
più d'ogni altro, contribuì a diffondere in Roma la conoscenza delle
dottrine di Pitagora e senza dubbio ENNIO, il padre della filosofia romana.
Nativo di Rudie, paese fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, Ennio
studiato a Taranto, che era il centro italico, in cui si conservavano più
pure le tradizioni pitagoriche. Versato nell'osco, nel latino, e nel
greco, Ennio diceva scherzando di avere tre cuori. Si trova a militare in
Sardegna fra gl’ausiliari che Taranto manda -- Gellio, N. A. -- ai Romani, e quivi da Catone e invitato a
recarsi a Roma. Come si spiega tale invito? Quali vincoli si stabilirono
fra questi due uomini, destinati a sì grandi cose, che si incontrarono
fra gli orrori di una guerra di conquista? Sono vincoli di simpatia e di
amicizia creati dalla comune grandezza d'animo e da comuni aspirazioni? Si sono
essi già conosciuti prima, quando Catone e in Taranto ospito del
pitagorico Nearco? Questo mi sembra più probabile. D'altra parte la
profonda scienza e il forte intelletto del rudino dovettero certo
colpire l'animo eletto e la mente aperta di Catone, che alle qualità
pratiche dell’uomo di stato une l’attitudine del filosofo. In virtù della sua
sapienza Ennio dove apparire al nobile cittadino di Roma come assai atto
a cantare le antiche gesta di Roma; ed è forse per questo che Catone,
ragionando con lui delle istorie primitive della patria e delle relazioni
che essa ebbe con la Magna Grecia, dove suggerirgli l'idea del poema, che
quegli poi realmente scrive, e per la composizione di esso ojffrirsi di
agevolargli la conoscenza dei documenti e dei materiali storici e
promettergli tutto il suo aiuto -- il quale, e per la condizione e per
l'ingegno dell'offerente, non poteva non apparire ad Ennio prezioso e
inestimabile. Ad ENNIO d'altro lato, piena l'anima dell'antica sapienza
della sua terra, di quella sapienza che nessuno in somnis
vidit priu' quam sam discere coepit -- Plutarco, Gaio maior, — Cicerone, Caio
maior -- Annalee, (Yalmagoi)] dovette balenare come in uno splendore radioso
l'idea di illustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al
tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza sconosciuta alla città che
forse il suo spirito veggente presagiva sarebbe stata nuova fucina di
cultura e di sapere e maestra di nuova civiltà alle più lontane
generazioni! Venuto in Roma, Ennio vi si dedica totalmente a diffondere
fra i romani colti l'amore del sapere. Ennio chiama intorno a sé, a
formare un circolo di studiosi, i piti influenti e noti cittadini e da
essi seppe farsi amare ed onorare per le cognizioni vaste e profonde, per
la nobiltà dell'animo e l'integrità del carattere, per la modestia della
vita e dei costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascoltarlo
accorsero fra gli altri SCIPIONE Africano, Scipione Nasica, Aulo Postumio
Albino, Marco e Quinto Fulvio Nobiliore, e con tali amicizie Ennio sa
vivere sempre sereno, mostrando così con l'efficacia dell'esempio, che le
verità da lui insegnate e praticate sono le più atte a dare la felicità e
la pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio Elio
Stilone sole dire che Ennio fa il ritratto di sé medesimo nei seguenti
versi degli Annali, che descrivono il vero amico – “Haece locutus vocat,
quocum bene saepe libenter mensam sermonesque suos rerumque suarum
comiter inpartit, magnam cum lassus diei partem trivisset de summis rebus
regundis -- E « decemvir sacrorum » (Livio). Consilio indù
foro lato sanctoque senatu; quo res audacter magnas parvasque
iocumque eloqueretur cuncta simul malaque et bona dictu evomeretj si
qui vellet, tutoque locaret; quocum multa volup et gaudia clamque
palamque, ingenium quoi nulla malum sententia suadet ut faceret
facinus levis aut malus ; doctus, fidelis, suavis homo, facundus, suo
contentus, beatus, scitus, secunda loquens in tempore, commodus,
verbum paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas quem facit et mores
veteresque novosque tenentem multorum veterum leges divomque
hominumque, prudenter qui dieta loquive tacereve posset.” In questo
ritratto tu vedi l'immagine del vero sapiente pitagorico, che sa trattare
le faccende pubbliche e raccor gliersi nella meditazione, che sa parlare
con piacevolezza e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non
commette mai il male, neppure per leggerezza, fedele nell'amicizia e
servizievole contento del suo, felice, che infine sa molte cose profonde
e recondite, ma le tiene ermeticamente chiuse nel fondo della sua anima, per
non darle in balìa di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri
atto ad intenderle. E anche possibile, come osserva acutamente
Pascal, che in questi versi Ennio vuole altresì rappresentare i suoi rapporti
col grande SCIPIONE, del quale si puo dire assai piu convenientemente quello
che Macrobio scrive d’'Emiliano, che cioè e “vir non minus [Gellio
– “L. Aelium Stilonem dicere solitum ferunt, Q. Ennium de semet ipso haec
scripsisse picturamque istam morum et ingenii ipsius Q. ENNI factam esse.”
I versi sono secondo il testo dato da Valmaggi (Mìjller, Baehrens).
Antologia latina, Milano] philosopMa quam virtute praecellens -- e l'ipotesi
tanto pili è accettabile se pensiamo che Scipione e forse il migliore dei
discepoli d’ENNIO, il quale lo ha in tanta considerazione da comporre
intorno a lui un poemetto — Scipione — e da fargli dire – “A Sole
exoriente supra Maeotis paludes nemo est qui factis me aequiperare
queat. Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est, mi soli
caeli maxima porta patet.” Cicerone stesso, appunto per la sua sapienza,
oltre che per la fama delle sue imprese, non lo scolge come
protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De Repuhlica [Di
Ennio e notissimo ai Romani il sogno col quale incominciavano gl’Annales
e di cui ci sono rimasti appena alcuni frammenti insieme con le testimonianze
di Lucrezio, Cicerone, Orazio, di Persio e altri -- In Somnium Seipionis^
I, 3. (2) Cicerone, Tusc., Seneca, e/),, 108 e altri. Seneca
poi, nell'ep. 86, dice, parlando appunto di Scipione – “animus eius
in eaelum ex quo erat rediisse persuadeo rtiihi.” Vedili in V. J. Vahlen
Enn. poes. rei., Lipsiae, ediz. MuELLEE, Q. Enni carm. rei., Petrop. e nei
Frag. poet. rovn. coli. Baehrens, Lipsiae, Vedi anche le osservazioni del
Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, e lo studio di Valmaggi pubblicato nel
Bollettino di filai, classica – Lucrezio -- Cicerone, Somn. Scip., -- Aead,
-- Orazio, Ep. -- Persio, -- Schol. in
Pers. Sehol. Cruq. in Orazio, Ep. Il, 1, 52; Frontone, ep.12, p. 74 Nab.;
Sergio, ad Aen. Questo sogno che leva grande rumore nel mondo romano e di
cui spesso si parla, ora con serietà filosofica, ora per ischerzo, tanto
che divenne quasi proverbiale -- dove essere abbastanza lungo. Al poeta
addormentato sarebbe apparso sul monte Parnasso il fantasma piangente di
Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno all'ordine dell'universo, alle
trasmigrazioni di ogni anima umana attraverso un proprio ciclo di vite e
alla sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma
intermedia fra l'anima e il corpo e a ricordargli le mutazioni della
propria anima, trasformatasi, dopo la morte del corpo, in un pavone e
rinata appunto in lui, il -- Pasdera, Il sogno di Scipione, Torino,
Loescher, -- Persio, Prol. “Nec fonte labra prolui eaballino Nee in
bicipiti sommasse Parnasso Memim., ut repente sic poeta prodirem », e Schol. ad
V. 21 « tangit Ennium qui dicit se vidisse sommando in Parnaso Homerum
sibi dicent em quod eius anima in suo esset eorpore. La ragione di questo
pianto non è detta. Era forse pianto di gioia per il momentaneo ritorno a
contatto con un essere terreno? -- Lucrezio, “rerum naturam
expandere dictis” -- Lucrezio, “an contra nascentibus insinuetur
anima” “ pecudes alias insinuet se ». Lucrezio, « Etsi praeterea tamen esse Acherusia
tempia Eìinius asternis exponit versibus eidem Quo ncque permaneant aniìnae
ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacro modis palleniia miris »
. Persio, Sat. « Cor iubet hoc Enni, postquam destertuit esse
Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo. Tertulliano, de an., “pavum se meminit
Homerus Ennio sommante » ; Hbid. «
perinde in pavo retunderetur Homerus, sieut in Pythagora Euphorbus » ;
cfr. eiusd. de resurrectione I, G. 1, e AcRON, in carm. I, 28, 10;
Persio, YI, 9, e schol. ; Lattanzio in Theb. Ili, 484. discendente del re
Messapo, il poeta rudino. Tale, press'a poco, il contenuto di questo
sogno, notevolissimo non solo per l'esposizione delle dottrine
filosofiche, ma altresì per l' accenno alle trasformazioni e
incarnazioni dell' anima di Omero, e per 1' affermata parentela
spirituale dei due poeti. Che il pavone poi, importato dall'
Oriente in Samo, la patria di Pitagora, ha nella filosofia mistica di
questo iniziato un'importanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche
— per la colorazione delle penne - simbolo del cielo stellato, al quale
salivano dopo ogni morte corporea le anime umane -- onde l'espressione
per me simbolica del fieri pavom usata da Ennio) -- opportunamente fu scelto
dal poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere l'anima di
Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora. Il fatto che il grande
poema storico degli Annales, il quale hada par te dei Romani un culto
analogo a quello che noi tributiamo alla Divina Commedia, incomincia con
tale sogno, ha grande importanza per la diffusione e conoscenza del pensiero
pitagorico in Roma. Poiché, appunto per lo studio che del poema si fa,
fin [Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII,
393. MuELLER, Q. Ennius Cfr. Hehn, Kulturpflanxen und Hausthiere. Dall'interpretazione
letterale data a tale espressione o ad altre consimili nacque forse
presso gli antichi — uno dei primi e Senofane, contemporaneo di Pitagora, nei
versi citati da Diogene Laerzio i quali peraltro hanno un' intonazione
scherzosa, se non satirica — l'opinione che Pitagora crede nella
metempsicosi anche animale. nelle scuole di grammatica e
di rettorica (e per le pubbliche letture di esso, ancora in uso
nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo, si dovette
necessariamente mantenere viva in Roma stessa e in Italia la conoscenza di
quella parte della dottrina di Pitagora, che nel sogno si ricorda e che
era poi una delle principali di detto sistema. Difatti sono assai
frequenti nella letteratura posteriore le allusioni alla teoria della
metempsicosi; la quale del resto e forse introdotta in Roma anche per
altro tramite, sia cioè per mezzo dei misteri, nei quali si
insegnano appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle
pitagoriche, sia per mezzo della filosofia platonica e quella del PORTICO,
che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore air apparire
del neo-pitagorismo, e derivata almeno in qualche parte fondamentale,
dalle dottrine pitagoriche stesse. Se nel poema di Ennio vi e altri
accenni alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli
scarsi e slegati frammenti che ce ne restano. Ma non è improbabile che, a
proposito di NUMA, e non solo notate incidentalmente, ma fors'anche
illustrate con una certa ampiezza le somiglianze fra la sua legge ed
istituzioni e quelle del filosofo di Samo. In tal caso da Ennio per
la prima volta e stata inserita in un'opera filosofica latina la notizia
desunta dalla tradizione orale anteriore, che il gran re Numa ha a maestro Pitagora -- SvETONio, de
gramm. Noctes Atticae, MuELLBB, Q.
Ennius. In altro scritto invece
noi sappiamo con certezza che Ennio tratta ancora delle dottrine
pitagoriche: e precisamente ìieìVUpicharmuSy un poemetto così intitolato
dal nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei più
valenti seguaci della scuola italica. Anche in questo lavoro, il nostro
scrittore finse un sogno. Nam videbar somniare med ego esse morluum” e che il filosofo
Epicarmo gli comunicasse, nelle regioni infernali, dottrine di filosofia
naturale sull’origine e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri,
è il verso nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo
il noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco – “terra corpus est, et
mentis ignis est.” Al qual proposito Yarrone, citando, un altro verso
dello stesso Ennio, scrive – “animalium semen ignis qui anima ac
mens: qui caldor e caelo quod Mnc innumerahiles et immortales ignes.
Itaque Epicharmus de mente umana dicit: istic est de sole sumptus
isque totus mentis est.: Yahlen, 0. e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt,
Quaest. epich. Yedasi anche lo
studio del Pascal, Le opere spurie di Epicarmo e l'Epieharmus di Ennio in
Biv. di fìlol. e di istrux. classica^ a.-- Cicerone, Aead. pr.^ II, 16,
51. -- Prisciano, YII, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gli scolii
all'Eneide, YI, -- De lingua latina^ Y, 39. Cfr. Mueller, op. cit., p. Ili
sg. -- Un'altra sentenza pitagorica è quella che ricorda Cicerone (“de
divin.”) a proposito dei sogni : « aliquot somnia vera inquit Ennius sed
omnia noenum necesse est.” Ma
oltre che alle opere filosofiche, le quali, hanno tarda efficacia, Ennio rivolge
l'attività dell' ingegno, trasfondendovi i tesori della sua sapienza,
all'insegnamento orale. Senza dire poi che l'esempio della sua vita
intemerata sprona all' esercizio costante della virtù tutti quelli fra i
nobili cittadini di Roma che accostandolo l'amarono. Ennio si studia di
volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e ad una concezione
individuale delle cose, alla quale non sono certo avvezzi i romani,
educati sotto una disciplina ferrea. Abituando le loro intelligenze alle
bellezze ed alle sottigliezze della filosofia, insegnando in privato
le dottrine di Pitagora, combattendo nel nome di Evemero le
superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti ignoranti,
predicando infine che l'uomo ha da trovare in se stesso, nelle profondità
dell'anima, il fondamento del proprio valore, della propria libertà e
della propria felicità, da impulso a una vera rivoluzione razionalistica
nello spirito romano. Sì che fra quei valorosi soldati e pratici
legislatori comincia ad essere tenuta in conto la filosofia, ad
esercitarsi la libera attività del pensiero anche in fatto di fede, e a
formarsi un'aristocrazia vera e legittima, fondata su ciò che l' uomo ha di più
sostanziale e di proprio, cioè su l'intelligenza e sullo
spirito. Non è improbabile che appunto per questo CATONE, il quale,
sopra tutto e innanzi tutto, vede l'interesse e il bene dello stato
romano, osteggiasse il movimento a cui ha dato egli stesso involontario
impulso e perseguitasse l'A- [ (1) GiussANi, Letterat.
romana^ Milano, Yallardi, Si veda anche su Ennio il saggio critico del
Lenchantin De Gubernatis (Torino, Bocca). - Bl -
fricano (1); tanto che questi, avendo suscitato contro di sé molte
ire violente e molte accuse politiche, si ritira sdegnosamente nella sua villa
di Literno, nella Campania. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, sono scoperti
i famosi libri di Numa, i quali, per un caso assai strano, venneno molto
opportunamente a confermare gli insegnamenti pitagorici di Ennio. La
notizia della scoperta risale, per quel che ci è noto, all'annalista
Cassio Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio narrava come un
impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei lavori in un suo podere sul
Gianicolo, ha scoperta e [Livio, -- Sull'esilio e sulla morte di
Scipione Africano Maggiore vedi C. Pascal, Fatti e leggende di Roma
antica -- Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, “Ueber
die Bueeher des Numa”, negli Atti dell' Accademia di Monaco -- Nat. Eist. XIII,
84 = Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter: “Cassius B. Emina vetustissimus
auctor annalium, quarto eorum, libro prodidit Cn. Terentium, scribam
agrum suum, in laniculo repastinantem offendisse arcani in qua NVMA qui
Romae regnavii situs fuisset. In eadem libros eìus repertos P. Cornelio L.
f. Gethego^ M. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno NVMAE colliguntur
anni DXXXV, et hos fuisse a charta maiore etiam num mir acuto quod tot infossi
duraverunt annis. Quapropter in re tanta ipsius Heminae verba ponam;
mirabantur alii quomodo ìlli libri durare potuissent^ ille ita rationem
reddebat : « Lapidem fuisse quadratum cireiter in medio arde vinctum,
candelis quoque versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse
propterea arbitrarier tineas non tetigisse: IN HIS LIBRIS SCRIPTA ERANT
PHILOSOPHIAE PYTHAGORICAE – EOSQUE COMBVSTOS A Q. PETILIO PRAETORE QVIA
PHILOSOPHIA SCRIPTA ESSENT.” -- scavata la tomba del re Numa, che
conteneva i libri di lui ; e, cosa di cui molti si meravigliarono,
cotesti libri di carta s'erano perfettamente conservati. Ma, come spiega Terenzio,
tale conservazione era dovuta al fatto che, essendo posti sopra una
pietra quadrata che si trova quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni
dall'umidità, ed essendo spalmati di cedro, le tignole non li avevano rosi. I
libri stessi poi contenevano scritti di filosofìa pitagorica, per la qual
ragione furono poco dopo bruciati dal pretore Quinto Petillio. Lo stesso
racconto fa pure l'annalista X. Calpurnio Pisone Censorio Frugi, secondo
il quale però detti libri erano VII di diritto pontificio e altrettanti
pitagorici. XIV ano pure, secondo 1' annalista C, Sempronio Tuditano
e contenenti i decreti di Numa. Secondo Valerio Anziate infine essi
sono invece XXIV, XII pontificali e XII di filosofia, e non si
sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in un'arca
adiacente. Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia questi
[Plinio, /. e. = H. R. rell. I, p. 122-123, P. : “Hoc
idem tradii O. Piso censorius primo commentari or um, sed libros VII
iuris pontifìcii totidemque Pythagoricos fuisse.” (2) Plinio l. e. = H. R.
rell. I, p, 142-143 P : “Tuditanus decimo tertio Numae decretorum fuisse”
Plinio /. e. : « Libros XII fuisse ipse Varro Humanarum
antiquitatum septimo. Antias secundo libros fuisse XII pontificales totidem
praecepta philosophiae continents. Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, ^
=z H. R. rell. I, p. 240-241 P. Si noti però che Peter crede (/. e. p.
CC.) che Livio cita per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio
Pisone] ed altri autori (1) sono concordi nell'affermare sia la scoperta dei
libri, durante il consolato di P. Cornelio Cetego e di M. Bebio Panfilo
sia la loro pronta distruzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non
è possibile dubitare che il fatto e avvenuto. Senonchè la critica
piu recente si è affrettata ad affermare che essi dovettero essere
un'abile falsificazione di qualche scrittore, fanatico dell’idee
pitagoriche, in quegli anni appunto diffuse in Roma dal grande Ennio, e
accettate da Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad
una grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi non
vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la tradizione pitagorica
che base dell' insegnamento di questa dottrina era la segretezza e il
mistero? E proprio un pitagorico divulga le dottrine della sua
scuola, in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma
così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già la tradizione
ammette la filiazione degli istituti e delle leggi religiose di Numa dal pitagorismo?
Ed è poi possibile che fra i senatori romani, i quali decretarono, su
parere del pretore, l'abbruciamento dei libri così miracolosamente
scoperti, non vi e alcuno in grado di comprendere una così grossolana
mistificazione? Poiché non c'è dubbio che i libri furono bruciati con la
convinzione che essi sono quelli del re sapiente e perchè contenneno,
[V. ancora le testimonianze di Yarrone, conservataci da Agostino (De
civ. dei), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto la sua narrazione
Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1, 12), di Festo (p. 173
M. = p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa, 22) e del de vir. ili. 3.
Livio osserva che questa convinzione deriva dall' opinione diffusa che
Numa e discepolo di Pitagora, opinione che [secondo la
testimonianza di Varrone la spiegazione degli stituiti religiosi di Numa
(“cur quidque in sacris fuerlt institutum”) fondati, come quelli di tutte
le religioni, su ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione
particolare della natura. Ora, dice assai giustamente Chaignet, questa interpretazione razionale ed
umana delle credenze e delle istituzioni religiose, togliendo ad esse un'
origine e un fondamento sovrannaturale, ha certo, divulgandosi, tolta
ogni consistenza a quella religione di stato che, come tutte le religioni
dogmatiche, si esauriva per i più nelle pratiche del culto (le «
religiones » di cui parla Livio) esigendo, come condizione della propria
esistenza, la fede cieca e l'ignoranza superstiziosa. E proprio a questo
pensarono il pretore urbano e il senato, che si affrettarono a far scomparire
sul rogo i pericolosi libri, nei quali e filosoficamente provata ed attestata
1' origine del diritto pontificale romano, cardine e fondamento primo
dello stato, dall'occultismo pitagorico. Se pure il motivo di tale
distruzione non fu quello stesso per il quale Cicerone non volle troppo
approfondire la ricerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo
e i piu antichi istituti di Roma. Stando al racconto di Plu-
[egli, certo per ragioni cronologiche, chiama un « mendacio » (XL,
29). (1) Pythag. et la philos. pytkag.^ Parigi, Didier, [È
interessantissimo a questo proposito il passo d’Agostino (De civit. dei), il quale
spiega per quali ragioni demoniache Numa compone i suoi libri e poi li
fece seppellire nella sua tomba, e il Senato li fa abbruciare. Né meno
interessante è il capitolo seguente in cui si parla delle arti « idromantiche »
e delle evocazioni di Numa.] arco,
infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso e per ordine suo
sepolti con lui. E ciò perchè, secondo la massima pitagorica, non era
bene affidare la conservazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita,
anziché alla sola memoria di quelli che ne sono degni. E, forse, per
questa medesima ragione i pitagorici romani non dovettero fare molta
opposizione alla proposta di distruggere i libri stessi, gelosi come sono
delle loro dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili
di scherno e di riso, se male interpretate o fraintese. Nel tempo in cui
Ennio si adopera così efficacemente per introdurre in Roma l' antica sapienza
della Magna Grecia, di qui si diffondevano per l' Italia e penetrano
nella grande metropoli anche i culti bacchici e le sette orfiche,
intimamente legate con le pitagoriche per gli stretti rapporti che vi sono
fra le due dottrine segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicano II senato-consulti
e si istituirono tribunali (quaestiones de Bacchanalibus sacrisque noeturnis
extra ordinem), che ne di- [Sklden, nell'intro-
duzione dell'opera De jure naturali et gentium iuxta diseìplìnam, volendo
sostenere ch.e ogni sapienza viene dall’Oriente tre volte
rinnovata, di cui gli orientali erano i depositari, afferma invece che
Numa Pompilio e in segreto un adoratore del vero divino, che i libri da
lui lasciati e scoperti solo parecchi secoli dopo la sua morte sono la
giustificazione della sua fede e la glorificazione del divino d’Oriente,
e che appunto per questo il Senato ne ordina la distruzione, perchè
racchiudevano la condanna della religione di stato. Ne pubblicò
per tutta l'Italia uno (scoperto in Calabria) che ordina, fra le altre cose:
Bacas vir ne- quis adiese velet eeivis romanus neve nominus latini »
. mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci riferisce il
violento discorso che il pretore Lucio Postumio Tempsano pronunciò
nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal- vagi culti forestieri : «
contra pravìs et externis religionidus captas mentes » (1). E ben vero che
queste associazioni misteriose — “clandestinae conmrationes” come dice
Livio — e questi culti sempre
perseguitati dall' ortodossia romana venneno in parte dall' Etruria e dalla
Campania, ma le ricerche giudiziarie ne fa scoprire diversi focolari
nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e specialmente a Taranto, uno
dei centri d'origine del Pitagorismo. Così delle tavolette d' oro,
scoperte recentemente in tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica
Thiirium ci conservano l'eco di versi orfici che sino ad ora non si
conoscevano per altro che per una citazione di Proclo, neo-pitagorico. «
lo “L. Postumius praetor, cui Tarentum provincia evenerat
reliquias Bacchanalium quaestionis cum omni exsecutus est cura” – “L.
Duronio praetori cui provincia Apulia evenera adiecta de Bacchanalibus quaestio
est : cuius residua quaedam velut semina ex prioribus malis iam
priore anno adparuerant ». Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et
Italiaè. Alcuni testi da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie
degli scavi^ e nel Journal of Hellenic Studies. Cfr. anche Comparetti
Laminette orfiche edite ed illustrate^ Firenze. Framm. 224 Abel: «ótctcóte S'Sv^pcDTtog
izpoXinx) ^àog "^sXCoio » quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX'
Ó7ióxa|j, ^^ux^ KpaXin-Q cpàog sono sfuggita al cerchio delle pene
e delle tristezze», grida in uno slancio di speranza l'anima che ha «
subita tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora «
implorando il suo soccorso », s'avanza verso la regina dei luoghi
sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre divinità dell'Ade; essa
si vanta di appartenere alla loro «razza felice», e domanda ad esse che
la mandino ora nelle « dimore degl'innocenti » e attende da esse la
parola di salvezza : « Tu sarai dea e non piìi mortale! » In questi
brani, dice Gomperz, bisogna vedere redazioni diverse d'un testo comune
piti antico. Parecchie altre tavole, che risalgono in parte alla stessa
epoca, trovate nelle stesse località. Altre sono state scoperte
nell'isola di Creta e datano dall'epoca romana posterior. Tutte prescrivono
all'anima la sua strada nel mondo sotterraneo. Ora è notevole il fatto
che un cap. del « Libro dei Morti » egiziano contiene una confessione
negativa dei peccati, che sembra 1' amplificazione di quello che le tre
tavole di Turio condensavano in poche parole. In queste, come in quello,
l'anima del defunto proclama con enfasi la sua « purezza » e solo su
questa purezza YieXloio*. Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino,
richiama 1' attenzione su queste ed altre coincidenze. Y. anche H. DiELS,
nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, -- Cioè alla serie delle rinascite
e delle esistenze terrestri. Gomperz, Les penseurs de la Qrèce^ Paris,
Alcan, Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à l'Orphisme, Bull. de
corr. héll.Y. qualche parallelo buddico in Rhys Davids, Suddhism, Cfr.
Maspéro, Bibl. Egyptol. e Brttgsoh, Steinin-schrift und Bibelwort. Y. anche
Maspero, Hist. ancienne -- fonda la sua speranza in una felice immortalità. Se
l' anima dell'orfico pretende di avere espiato « le azioni inique » e
quindi si sa liberata dalla sozzura che ne deriva, l'anima dell' Egiziano
enumera tutte le colpe che ha saputo evitare nel suo pellegrinaggio
terrestre. Pochi fatti, dice Gomperz, nella storia della religione e dei
costumi sono tali da meravigliarci piii del contenuto di quest'antica
confessione, in cui si vedono accanto alle colpe rituali, e ai precetti
di morale civile accolte da tutte le comunità incivilite, l'espressione
d'un sentimento morale non comune e che ci può persino sorprendere per la
sua squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non ho
allontanato il latte dalla bocca del lattante ! Non ho reso il povero più
povero! Non ho trattenuto, l'operaio ai suo lavoro più del tempo
stabilito nel contratto ! Non sono stato negligente! Non sono stato
fiacco! Non ho messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo padrone!
Non ho fatto versare lacrime a nessuno!» Ma la morale che scaturisce da
questa confessione non si è contentata di proibire il male; ha anche
prescritto degli atti di beneficenza positiva : « Dappertutto, grida il
morto, ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame, dissetato chi
aveva sete, vestito chi era nudo! Ho dato una barca al viaggiatore in
pericolo di arrivar tardi !» ET anima giusta, dopo aver subito
iiyiumerevoli prove, arriva finalmente nel coro del divino. « La mia impurità,
grida piena di gioia, mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso
l'ho gettato. Giungo in questa regione degli eletti gloriosi.... » « Yoi che mi
state dinanzi aggiunge rivolta agli dei già nominati, tendetemi le
braccia...., sono anch' io uno dei vostri ! » Nessuna meraviglia
quindi che i filosofi del tempo di ENNIO, quasi tutti venuti a Roma dal
mezzogiorno, fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine.
Di Stazio Cecilio, che fa parte del collegium poetarum
dell'Aventino e abita in Roma nella stessa casa con Ennio, ci
restano troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla del
contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però r intimità sua
col filosofo di Rudie dove esercitare un qualche influsso sulla
formazione del suo gusto e della sua arte. Con Ennio visse
pure in Roma, frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni, il nipote
Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi, si ritirò poi a Taranto. Che
egli dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre che
l'esplicita dichiarazione di Pompilio: “Pacvi diseipulus dieor ; porro is fuit
Enni^ Emiius Musar um^ Pompilius clueor^ -- i due frammenti
del suo Ghryses^ nel primo dei quali mostra la stessa libertà di spirito
e di parola, rispetto ai falsi sacerdoti, che anche notata Ennio:
.... nam istis^ qui linguam avium intellegunt, plusque ex alieno
iecorc sapiunt^ quam ex suo, magis audiendum quam ausoultandum eenseo (1)
; (1) pr. Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr.
Nonio 246, 9. -- Si confrontino i versi di Ennio : Sed superstitiosi
vates impudentesque arioli, Aut inertes aut insani aut quibus
egestas imperai, Qui sibi semitam non sapiunt^ alteri monstrant viam. Quibus
divitias pollicentur, ab eis draeumam ipsi petunt’, e gli e nel
secondo esprime intorno all'etere un concetto affatto, pitagorico, che
troveremo anche in Virgilio: v hoc vide circum supraque quod
complexu continet terram.... solisque exortu capessit
candorem, oecasu nigret, id quod nostri eaelum memorante Orai perhiheni
àethera: quidquid est hoe^ omnia animai format alit\ auget^
creai, sepelit recipitque in sese omnia omniumque idem est
pater, indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem
occidunt. mater est terra; ea parit corpus^ animam aether adiugat. Istic
est is lupiter' quem dìco quem Or acci vocant a'érem: qui ventus est et
nuhes; Ì7nber postea, atque ex imhre frigus : ventus post fit, aer
denuo, kaece propter luppiter sunt ista quae dico tibi, quia
mortalis aeque turhas beluasque omnes iuvat. Il passo, dice il
Pascal {Antol. latina^ Milano.) era libera traduzione del Crisippo
euripideo, del quale è rimasto il fr. 836 Nauck'; e trovò altro
traduttore in Lucrezio. Se il pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove
nostro padre e della Terra madre risale al suo maestro Anassagora e
peraltro indubbiamente abbastanza comune fra i mistici. Questi
versi ed alcuni altri, se sono per sé poca cosa, tuttavia, tenuto conto
della scarsità dei frammenti superstiti di questi primi filosofi di Roma,
mostrano una certa continuità di pensiero, che non può sfuggire
neppure ad un esame superficiale. Così, per lasciare in disparte i
altri : « Qui sui quaestus causa fìctas suscitant sententias »
e « Omnes dant consilium vànum atque ad voluptatem omnia ».
(1) Congiunse così questi versi (citati in diversi luoghi da Varrone,
Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo concetto dell'aria poi ricorda i
versi dell' Epickarmus di Ennio : (2) Y. per es. i fr. 46 e 52 del
Pascal (p. 30 e 35). versi di Accio, che ritornano sullo stesso
concetto, e che si possono anche spiegare con la dipendenza dai
tragici greci, nonché il suo concetto della virtu, come non pensare
alle dottrine pitagoriche — diretto o indiretto ne sia stato r influsso —
quando leggiamo sentenze come queste di Sesto Turpili, l’una che ci
afferma la felicità consistere nella limitazione dei desiderii. “Profecto ut
quisque minimo contentus fuit ita fortunatam vitam vixit maxime ut
philosopki aiunt isti^ quibus quidvis sat est -- e l'altra che così definisce
la difficoltà del sapere : Ita est: verum haut facile est venire
ilio uhi sita est sapientia. Spissum est iter: ajnsci haut possis nisi
cum magna miseria? E se i grammatici che ci hanno conservato i frammenti
di questo poeta (200 versi appena), avessero badato piu al pensiero che
alla forma e quindi ci avessero dato una raccolta di sentenze, piuttosto
che un catalogo di arcaismi [V. i fr. 60 e 61 del Pascal (p.
41) e le note. (2) Pascal (p. 42) : “nam si a me regnum Fortuna
atque opes Eripere quivit^ at virtutem non quìit » e « Scin ut
quem- eumque tribuit fortuna ordinem^ Numquam ulta humilitas ingenium
infirmai bonum ? (3) pr. Pbisciano III, 425 Keil. Il Pascal (p.
67) sl pkilosophi... isti annota : « i Cinici ? » Io credo piuttosto che
qui il filosofo, imitatore di Monandro, ha alluso ai Pitagorici, dei quaU
sappiamo quanto si siano burlati i comici ateniesi della commedia di
mezzo, di cui Gellio {N. a. IV, il) puo scrivere: mediae comoediae
proprium argumentum fuit Fythagoreorum exagitatio ». (4) pr. Nonio
392, 26 (Pascal, p. 67). Si notilo spissum iter., che forse può
intendersi in senso proprio, non traslato. e di idiotismi, potremmo
forse citare altri passi ugualmente notevoli e significativi. Così
veramente notevoli sono le sentenze di comici ignoti citate dal Pascal, che
certo non sarebbero fuor di luogo nei carmina aurea pitagorici e che
riprendono motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del
Pitagorismo quanto di altri sistemi posteriori. Sui quique mores fingunt
fortunam hominihus. Non est beatus esse se qui non putat. Is minimo egei
mortalis, qui minimum cupit. Quod vult habet qui velie quod satis est
potest. In nullum avarus bonus est in se pessimus. Ab alio expectes alteri quod
feceris. Beneficia in volgus eum largiri institueris perdenda sunt multa^
ut semel ponas bene. Quid ? tu non intellegis tantum te adimere
gratiae quantum morae adicis ? (S) (1) pag. 68
sg. (2) pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens
poeta; esso ricorda la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni
si tratterebbe di un altro verso, che Lachmann ricompone così : “suis
fingitur fortuna cuique moribus. V. anche pr. Nepote, Vita Att. Il, 6 ed
altri, di cui Ribbeck, Gom. Fragm.^ p. 147. (3) pr, Seneca, epist.
9, 21. Che la felicità e 1' infelicità, come dice questa sentenza, siano
proiezioni subbiettive dello spirito o non l'effetto di cause esterne, è
verità che i Pitagorici affermano ripetutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7
Meyer. Questa e la precedente pr. Seneca, epist. 108, 11. Cfr. la
prima sentenza di Turpilio su citata. (5) pr. Seneca, ejìist. 108,
9. (6) pr. Lattanzio, div. inst. I, 16, lO. Cfr. pr. Lampeid.
Alex. Sever. 51 : « quod tibi fieri non vis., alteri ne feceris » e nei
Garm. epigr. lat. 192, 3 Buecheler: «^ab alio speres, alteri quod
feceris». (7) pr. Seneca, de benef. I, 2 ; cfr. Ennio pr. Cic. de
off. 18, 62: « benefacta male locata malefacta arbitror » . pr.
Seneca, de benef. II, 5, 2. Così pare degni di nota sono i seguenti
frammenti: Felicitas est quam vocant sapientiam. Tutare amici
eausam, potis es, suscipe. Obicitur erimen eapitis^ purga fortiter.
In amici causa es, imm,o certe potior es. Iniuriarum remedium, est
oblivio. Ma queste sono quisquilie, che, se pur dimostrano una certa
diffusione del pensiero pitagorico in Roma, non possono tuttavia essere prese
per se come indizi di una vera e propria tradizione locale. Poiché per le
dipendenze della filosofia latina dalla ellenica è da credere che
anche gli accenni, spesso accidentali, a quelle dottrine filosofiche,
fossero presi di sana pianta dalle opere che i filosofi latini imitano o
traduceno. Il fatto tuttavia di trovarli frequenti anche in opere
prettamente romane dimostra che le dottrine stesse avevano un contenuto ideale
— morale specialmente — con- sono allo spirito e ai bisogni del popolo
romano, il quale, sopra ogni cosa, ha un profondo senso del giusto,
che poi attuò nel suo mirabile sistema di leggi. Infine, anche dalle
poesie satiriche di Caio Lucn.10 noi potremmo certo aver notizia del
Pitagorismo, quale egli potè osservarlo praticato e seguito in Roma al
tempo suo, se ci restassero, dei suoi trenta libri di satire, i libri
XXVIII e XXIX, nei quali pare che si occupasse principalmente di mettere
in parodia e in derisione, ed anche di sottoporre a critica seria, sì pel
conte- [QuiNTiL. YI, 3, 97. (2) Charis. V, p.
253 P. (3) Seneca, epist.^ 94, 28.] nuto che per la forma, i
filosofi, le loro opere e i loro sistemi. Ma disgraziatamente anche di
questo filosofo poco o nulla ci resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe
mente libera dai pregiudizi volgari. Ut pueri infantes credunt signa
omnia ahena vivere et esse homines^ sic ist soinnia fèda
vera putant credunt signis cor inesse in ahenis sono versi del 1. XV
delle Satire. E un altro bellissimo frammento, forse del libro IV, ci
dimostra quanto alto e nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtu.
Virtus, Albine, est pretium persolvere rerum quis in versatnm quis vivimus
rebus potesse, virtus est homini seire id quod quaeque valet res. Virtus
seire homini rectum utile quid sit honestum quae bona, quae mala item, quid
inutile, turpe, inhonestum ; virtus quaerendae fène^n rei seire
modumque ; virtus divitiis pretium persolvere posse ;
virtus' id dare^ quod re ipsa debètur honori ; hostem esse
atque inimicum hominum morumque malo rum, contra defensorem hominum
morumque bonorum, magnifècare hos, his bene velle his vivere amicum
; commoda praeterea patriai prima putare deinde parentum^ tertia
iam postremaque nostra. (1) (1) fr. 354 del Bàhrens =
Latta.nzto. I, 22, 13. (1) fr. 119 del Bàhr. = Latt. VI, 5, 2.
D’Agostino (ci è stato conservato, dell'opera Yarroniana De gente populi
romani un passo per noi importantissimo: « Genethliaci quidam scripserunt
esse in renascendis Jiominibus quam appellant TraXtyysveatav Graeci
; hanc scripserunt confici in annis numero CDXL ut idem corpus et eadem anima j
quae fuerint coniuncta in cor por e aliquando, eadem rursus redeant in
coniunetionem » . Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano nella
risurrezione dell'anima e della carne e ne fissavano persino il
compimento nello spazio di quattrocento e quaranta anni? Essi erano studiosi di
discipline magiche ed astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi di
caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma col decadere dei culti
ufficiali e l'in- [De civitaie dei, XXII, 28.] filtrarsi di
riti stranieri, massimamente dall'Egitto e dall'Asia, divennero a grado a grado
così potenti da trovarsi persino ad essere qualche volta arbitri delle
sorti dello stato. Poiché, come dice Pascal in un suo geniale e
interessante studio, svolgendo in particolare la dottrina della
resurrezione dei morti (filiazione diretta della metempsicosi pitagorica) la
fecero entrare in un sistema di loro particolari teorie, la congiunsero
con predizioni contenute nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero
anche di conoscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi
umani. Essi non partivano, come gli aruspici e gl'indovini, dal concetto
che gli dei manifestassero la volontà loro per mezzo di segni
particolari, ma dal concetto, razionalmente svolto, « che tutto fosse
armonico e regolato da leggi e da rapporti immutabili nell'universo e che
quindi, all'apparire di determinati fatti o fenomeni dovesse normalmente
seguire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque, aggiunge
Pascal, « un tentativo di giustificazione scientifica, tratta dal fondo della
dottrina pitagorica e platonica, della credenza popolare che la vita di
ciascun uomo fosse regolata dall' astro che lo aveva visto nascere. Strani
davvero questi filosofi che si sforzano di ribadire con argomenti
razionali e di ridurre a ragioni scientifiche le superstiziose credenze
del volgo! e che riescono tanto bene nel loro proposito da far sentire a
Favorino il bisogno di abbattere con una confutazione sistematica il loro
edifizio logico, ancora saldo sulle sue basi [La resurrezione della
carne nel mondo pagano, in Atene e Roma, e in Fatti e leggende di Roma
antica, Firenze, -- AULO Gellio, Noct. Att. XVI, 1, riporta quasi
testualmente il discorso di Favorino a più di due secoli di distanza! Io
in verità non posso acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo
mondano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno venisse ai
Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argomenti che Pascal porta a sostegno
della sua affermazione mi inducono piuttosto a credere il contrario e
cioè che l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica
greco-italico-romana e da, questa passasse poi al volgo per mezzo dei
responsi sibillini e dei poeti che l'accolsero e la diffusero per il popolo.
Di più, un'altra credenza notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei
Genetliaci: la credenza cioè che ultimo dio del ciclo mondano
dovesse essere il Sole od Apollo che avrebbe bruciato l'universo e
riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini rinnovati alla vita;
quell'Apollo che pure Orazio (Carm. I, 2) invoca perchè venisse a
redimere l'umanità dal peccato. Tandem venias precamur^ ISube
candentes umeros amictus Augur Apollo. Così Cicerone ci parla nel
De divin. II, 46, 97 di un' altra scuola di astrologi per la quale
1'estensione di tempo era molto maggiore, e cioè di 470000 anni !
(2) pr. Probo a Yirg. Ed. IV, 4 : « La Sibilla cumana ha pre- detto
che dopo quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi ». Orazio,
I, 2, v. 29 e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI, 748-751; Ovidio,
Melavi. I, 89 sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg. Servio nel commento al
v. 10 della IV ecl. di Virgilio riporta il seguente passo del quarto
libro de diis di P. Nigidio Figulo : “Quidam deos et eoì'um genera
temporibus et aetatibus fdistin- guunt)., inter quos et Orpheus; prim,um,
regnum, Saturni^ deinde lovis^ tum Neptuni^ inde Plutonis ; nonnuUi
etiam^ ut magi, aiunt Apollinis fore regnum,, in quo videndum est., ne
ardorem sive illa ecpyrosis adpellanda est., dieant » . Vedasi anche il
Lobeck, Aglaophamus^ pag. 791 sgg. La rigenerazione degli uomini e
la conflagrazione dell'universo per virtù di Apollo — conflagrazione
probabilmente simbolica e che tuttavia potè essere aspettata da alcuno
come reale ed effettiva — furono dunque due concetti paralleli ed uniti
anche nel dogma pagano, e più precisamente in quelle dottrine mistiche,
nelle quali sappiamo quanta parte e che profonda significazione avesse il
mito apollineo e solare, E come può tutto questo essere stato creazione
popolare? Veramente forse un po' troppo, e non solo in fatto di mitologia
e di credenze, si vuole attribuire al popolo, a questo essere
impersonale, così immaginoso e così balordo, così ricco di fantasia e così
credenzone! Non è assai più verosimile pensare a una genesi più elevata e
razionale, a una creazione veramente intellettuale e FILOSOFICA, che, passando
dai dotti agli indotti, dai sapienti agi' ignoranti, si materializza e
degenera dall'essenza primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto
parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove significazioni realistiche e
concrete? In ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane
deformazioni che il pensiero pitagorico dovette subire in Roma, uscendo
dal segreto sacrario delle scuole dei saggi e mescolandosi, in mezzo al
popolo, a credenze d'altra derivazione. Non è quindi meraviglia che
siffatte credenze, aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo,
fossero, come vedremo più innanzi; oggetto di riso nel teatro popolare, e
d'altra parte si spiega assai bene come i seguaci del Pitagorismo
dell'antica maniera, per sottrarre le loro [Y. il passo dei
Garm. Sih.JN^ 175 sgg., forso dell'Sl od 82 d. C, citato dal Pascal e che
questi crede composto da qualche terapeuta od esseno. dottrine al
ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti col popolo, sentissero il
bisogno di raccogliersi nuovamente in segreto, nel silenzio delle loro
case e delle loro scuole, per meditare, lontano dal profanum vulgus, V
antica sapienza loro tramandata attraverso tante generazioni. Chi
sopra ogni altro si curò di far rivivere la filosofìa di Pitagora, che, in un
certo senso, poteva dirsi ormai estinta come complesso di teorie e
d'insegnamenti pratici ben distinti da quelli di altre scuole, fu un
grande sapiente, del quale in verità ben poco sappiamo, contemporaneo
e amicissimo di CICERONE. Il quale appunto nel proemio del Timaeus
seu de Universo lasciò scritto parlando di P. Nigidio FIGULO: « Fuit vir
ille cum ceteris artihus, quae « quidem dignae libero essente ornatus
omnibus^ tum acer « investigator et diUgens earum rerum quae a natura
invo- « lutae videntur » . E poi continuava: « Deniqiie sic ludico
« post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta « est
quodam modo^ ìiunc extitisse qui illam renovaret » . Senatore, pretoro,
legato in Asia, e infine esiliato da C. Griulio Cesare, forse non
soltanto,mper aver seguita la causa di Pompeo. (2).
(1) Cicerone nel Timeo ir. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia di
questa sua legazione con le parole : « Nigidius, eum. me in Gilieiatn
profieiscentem Ephesi expectavisset, Romam, ex legatìone ipse decedens.” SvETONio
fr. 85 = Hieron. ad Euseb. ckron. olimp. 183,4 = 45 a. C. : « Nigidius
Figulus Pythagoricus et MAGVS in exsilio moritur ». Si noti che ancora una
volta vediamo qui congiunti, come nella tradizione che si riferisce a
Numa e come, del resto, sempre, il Pitagorismo e la magia. S. Agostino
(De civ. dei) parlando di Nigidio, lo chiama « mathematicus ».
Per il suo sapere fu giudicato secondo ai solo Yarrone, e benché
non ci restino che pochi e scuciti frammenti dei suoi scritti, pure
sappiamo che FIGULO scrive molto e con profondità di ricerche « che
arrivava fino all'astruseria », come dice il Giussani, cioè oltrepassava quel
limite al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non vedono che
nebbie e fantasmi, immaginazioni e utopie. Sam- MONico, come ci riferisce
Macrobio (II, 12) lo disse « maximus rerum naturaUum indagator », e lo stesso
Macrobio [Sat. YI, 8) lo dice « homo omnium bonàrum artlum di-
scipUnis egregius » , e così pure Cicerone, come s'è visto, lo giudica
acuto e diligente studioso dei più involuti fenomeni naturali, e precisamente
di quelle ricerche e di quegli studi, che furono la cura di pochi
solitari d' ogni tempo, quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai
più. AGOSTINO lo disse * matematico ' e Svetonio ' pitagorico e mago '.
Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto mago, dimostrano anche
altre testimonianze e dello stesso SvETONio e di Apuleio e di Dione
Cassio. Il primo racconta come cosa nota a tutti che il giorno in cui
Ottaviano nacque, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Catilina, ed
Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente, essendo arrivato un
po' in ritardo, Publio Mgidio, conosciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa
del parto, afferma che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la
terra. Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto [Cfr.
NiGiDii FiGULi operum reliquiae collegit A. Swoboda, 1889. (2)
Storia della Ietterai, romana^ Vallardi, 1902, p. 230. (3) SvETON.,
Aug. 94: “a quo natus est die, cuni de Catilinae coniuratione ageretur iti
Curia et Octavius ab uxDris puerperium serius adfuisset, nota ac vulgata
est res P. Nigidium comperta — si- che di essa fa, con
qualche leggera variante, Dionb Cassio (1. XLY, cap. T), alle
elucubrazioni astrologiche di Nigidio. Apuleio a sua volta riferisce di aver
letto in Varrone che un certo Fabio, avendo smarrito una forte
somma di denaro, anda da Nìgidio per consultarlo e questi, per mezzo di
fanciulli eccitati (instinctosj con sortilegi ed incantesimi (Carmine) ossia,
coma oggi si direbbe, ipnotizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire
dov'era stata sepolta la borsa con una parte delle monete, che le
altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche il filosofo
Catone; ciò che fu pienamente confermato dai fatti. E dove mai aveva
acquistate il nostro filosofo siffatte conoscenze magiche ed
astrologiche? Forse durante un viaggio in oriente? Non sappiamo, sebbene
d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella Grecia impara che la
terra si muove con la velocità della ruota di un vasaio (2).
– “morae causa, ut horam quoque partus acceperit, adflrmasse domù
num terrarum orbi natum.” (1) De magia 42, p. 53, 9 Krueg. « Mernini me
ajìud Varronem philosophum, virum accuratissime doctum atque eruditum,
eum alia eiusm,odi, tum, hoc etiam, legere... item,que Fabium,^ cum
quingenios denarium perdidisset ad Nigidium consultum, venisse; ab eo
pueros cannine instinctos indicavisse ubi locorum defossa esset crumena
cum, parte eorum, celeri ut forent distribuii^ unum etiam denarium^ ex eo
numero habere CATONEM philosophum^ quem se a pedissequo in stipem
Apollinis accepisse Caio confessus est ». Ciò si desume da una nota
del Commentum a Lucano dove è detto che Nigidio ha il soprannome di Figulo perchè
« regressus a Oraecia dixii se didicisse orbem ad celeritaiem rotae
figuli torqueri.” Del soprannome altri davano una ragione un po' diversa,
in rapporto con la famosa obiezione dei due gemelli così spesso fatta
agli astrologi e di cui fanno ricordo, fra gli altri, lo [Quanto
alle opere di Nigidio, del quale sappiamo ancora che usava una dieta
assai parca, possiamo dire che furono molte e di varia natura. Nigidio scrive
di filosofia, di astrologia e anche di filologia. Di lui si ricorda
un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto dei quali, per
esempio, trattava dei vari regni ed età degli dei, secondo Orfeo e i
Magi, e nel sesto e nel decimo accennava alla teoria etrusca delle
quattro specie di dei penati : quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli
degl'Inferi e quelli degli uomini, cioè, probabilmente, gli spiriti celesti,
acquatici, terrestri (gli elementari dell' occultismo) ed umani. Perchè di
quest'opera ci restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il
grammatico Sp:rvio in una nota slU.^ Eneide (X, 175): <i^ N'igidius
solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theologia^ Me in eommunihus
litteriSy nam uterque utrumque scripserunt » . La luce di Varrone dunque
oscura quella di Nìgidio, i cui libri intorno agli dei erano letti
soltanto, come dice lo Swoboda, dagli investigatori della
dottrina stoico Diogene presso Cicerone (De divinai. II, 43, 90),
Gellio, N. A. XIV, 1, 26, lo PsEUDO Quintiliano {Deelam. Vili, 12) e
S. Agostino 1. e. (1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigìdius :
nos ìpsi ieiunìa ientaeulis levibus solvimus. Egli sostenne, come
ci attesta Gellio N. J.., X, 4, CHE IL LINGUAGGIO E D’ORIGINE NATURALE E NON
CONVENZIONALE. Arnob. adv. nat. Ili, 40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem
(Ni- gidius) rursus in libro VI exponit et X, disciplinas etruseas
sequens, genera esse Penatium quattuor et esse lovis ex his alios^ alios
Neptuni.^ inferorutn tertios, mortalium hominum quartos., inexplicable
nescio quid dieens » . (4) P. NiGiDU FiGULi operum reliquiae coli,
emend. enarr. quaestiones nigidianas praemisit Ant, Swoboda, Vindob., 1889, p.
25, ] più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone, uomo
assai dotto. Di Nigidio sono ricordati anche tre scritti intorno alla
divinazione per mezzo delle viscere e intorno ai sogni, una Sphaera
graecanica e una Sphaera barbarica, un libro intorno agli animali ed
altri, interamente o quasi interamente perduti. Un'altra causa di
questa perdita è spiegata in parte da Gellio (N. a.) il quale ci fa
sapere precisamente che mentre le opere di Varrone erano lette e conosciute da
tutti « Nigidianae commentationes non proinde in vulgus exibant et
obscuritas subUlitasque earum tamquam parum utilis derelicta est » . Dunque gli
scritti di Nigidio hanno un carattere piuttosto riservato e
segreto, sono poco intellegibili ai piìi per la loro sottigliezza.
E che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è poi ab-
bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata? dai lettori o dagli
scrittori in genere o dai cultori di quelle stesse dottrine filosofiche ?
Se noi pensiamo alla diffusione delle conoscenze pitagoriche, sempre
maggiore dal tempo della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva e
all'infinito numero di profezie, di predizioni, di oracoli che sempre piìi
chiaramente annunziavano l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ;
se pen- siamo che fu questa appunto l'età nella quale, (1) Si veda, intorno a lui,
Kettner, Cornelius Labeo, Progr. Port, dell'anno 1877. (2)
Gellio, N. A. XVI, 6, 12. (3) Giov. LoR. Lido, de ostentìs e. 45 p.
95, 14 — 96, 3 Wachsm. (4) Serv. ad Georg. I, 43 e I, 2l8.
(5) Serv. ad Qeory. I, 19. [in Roma fece la sua
apparizione la strana figura di Apollonio di Tjana, il Pitagora redivivo,
che ebbe immagini e culto divino da parte degl'imperatori, non può esservi
alcun dubbio. Se Figulo e costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli
amici le conoscenze che aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze
nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ha molte noie) ; se lo
stesso dovettero fare, dopo di lui, i Sestii, che sono ugualmente perseguitati;
le vecchie dottrine di Pitagora andano tuttavia sempre più
diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà di parola e
d'azione ai loro seguaci, che poterono finalmente abbandonare in gran parte la
segretezza e il mistero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di cui
si servivano prima. LUCANO nella sua “Farsaglia” riferisce una
oscura predizione di Nigidio, che com'egli dice, si studia di conoscere il
divino e i segreti del cielo e in queste conoscenze astrologiche e superiore ai
sapienti dell'Egizia Menfi – “At Figulus, cui cura deos secret ac/ue
caeli nosse fuit quem non stellarum Aegyptia Memphis acquar et visu
numerisque moventibus astra aut hic errata ait, ulla sine lege per aevum
mundus et incerto discurrunt sidera motu : aut, si fata 7novent, orbi
generique paratur humano maturalues Nigidio predice dunque alla
terra e agli uomini un vicino flagello, proprio come, prima di lui,
avevano fatto e con lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi
veramente pensare, a proposito di siffatte predizioni, che si tratti
di semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi migliori?
Certo le condizioni dei cittadini romani e del mondo, su cui l'aquila di
Roma anda stendendo e allargando sempre più le sue ali insanguinate, erano
assai tristi. Ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise
talvolta per non dover pensare a qualche relazione, misteriosa senza
dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabilmente certa.
Comunque sic^, poiché, secondo le parole surriferite di Cicerone,
con Nigidio Figulo si inizia in Roma un vero e proprio risveglio delle
dottrine pitagoriche, vediamo ora in qual guisa egli tentasse questo
rinnovamento dell'antica disciplina italica. Noi possiamo desumerlo
da altre testimonianze, le quali non solamente accennano a una vera e
propria scuola, a un sodaliciumy a una factiOy ma vi accennano in
modo, che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio stesso
abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse tenuto da chi, forse
troppo tenero e non disinteressato amico del nuovo ordine di cose creato
in Roma dal trionfo di Cesare, accoglieva, senza approfondirle uè
vagliarle troppo, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fautori
dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli scolii
bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio queste notevolissime notizie. “Fuit autem
illis temporibus NIGIDIUS quidam vir doctrina et eruditione
studiorum praestantissimus, ad quem plurimi conveiiiebant. Haec ab
obtrectatoribus velati factio ininus probabili s iactiabatnr, qaamvis ipsi
Pythagorae sectatores existimari vellent.” l(1) V. tomo V,
part. 2, p. 317 delI'Orelli. -- A altrove si dice di un tale che €
ablit “in sodalicium sacrilegii Nigidiani.” In casa sua dunqae
Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai misteri della
filosofia pitagorica e forse anche vi si dedicano a pratiche mistiche, come ci
persuade la ciarlataneria di quel Vatinio, che, volendo farsi credere
pitagorico e dottissimo, fa evocazioni di morti e si abbandona a
nefandità d'ogni genere. E questi convegni finirono col suscitar dicerie,
maldicenze, sospetti, calunnie, e vi furono degli ohtrectatoreSy i quali
andavano sussurrando qua e là che quella era una setta riprovevole e
sacrilega; le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto minore
era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi, furono forse un
ottimo pretesto per legittimare l'allontanamento da Roma e l'esilio di un uomo
d'antica tempra repubblicana. Che poi il tentativo di NIGIDIO ha un
carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella rico- stituzione
del sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza sociale e nella
comunanza dei beni, il sogno della nuova felicità umana, è cosa più che
probabile, ma non certissima. E così il sapientissimo mago, il maestro
pitago- [PsEUD. CicER. in Sali.] – “Tu qui te
Pythagoriaum soles dieere et hominis doctissitni nomen tuis immanibus et
barbar is moribus praetendere cum inaudita ac nefaria saera susceperis eum
infernrum animas elicere, Gum puerorum extis Deos manes rnaetare soleas »
Cicesone, in Vatinium. Dal che si può vedere, sia detto incidentalmente,
che lo spiritismo non è un'invenzione moderna! V. quanto afferma a
proposito di lui e dei Sestii Pascal. Il rinnovamento umano negli scrittori di
Roma antica (Riv. d'I- talia, Fatti e leggende, Firenze, Le
Monnier). rico, il matematico P. Nigidio muore nell'esilio, nel
tempo stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di ottenerne il
richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma dove essere davvero tenuto per
uomo assai pericoloso il sacrilego Figulo, se, non ostante che i famigliari di
Cesare e quelli ch'egli ha più cari ne parlassero con ammirazione e
ne avessero alta stima, il divo lulio non si lascia troppo commuovere, a
favore del fiero repubblicano ! Gli è che in verità in quel momento di
trapasso dalla repubblica (o meglio dall'anarchia) all'assolutismo
l'interesse dello Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di
fronte agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori.
Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente conservataci, nella quale
Cicerone, dando notizia all' esiliato delle pratiche ch'egli fa
indirettamente presso Giulio Cesare e delle speranze che aveva di poter
presto riuscire a ottenergli il perdono, dice cose così interessanti e
adopera espressioni di così alta stima, che metterebbe conto
davvero che la riferissimo per intero. Basti accennare tut- tavia
che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni omnium doctissimo et
sanctissimo et maxima quondam gratta e suo amicissimo, e che accingendosi
a conso- [È la lettera 13* del quarto libro Ad familiars. In
essa dice bensì Cicerone : « Videor mihi prospicere primum ipsius animuìn, qui
plurimufn potest, propensum ad salutem tuam », ma questa era la semplice
illusione, creata in lui dall' amicizia che aveva per Figulo e dal desiderio
che sentiva del suo ritorno ; poiché in realtà il filosofo e lasciato
morire in esilio. E sì che — come aggiunge ancora Cicerone — «
familiares eius (cioè di Cesare), et ii quidein, qui UH iucundissimi
sunt, mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di piii « accedit
eodem vulgi voluntas vel potius consensus omnium » !] larlo crede
opportuno di premettere : « at ea quidem facultas vel tui vel alterius
consolandi in te summa est si umquam in ullo fuit.” Cosicché, “eam partem
quae ab exquisita quadam ratione et doctrina proficiscitur, non
attingam: tibi totani relinquam -- e concliiudendo termina col pregarlo “animo
ut maximo sis nec ea solum memineris, quae ab aliis magnis virls accepistij sed
illa etiam, quae ipse ingenio studiisque peperisti. Quae si colliges et
sperabis omnia optime et quae aecident, qualiacamque erunt, sapienter
feres. Sed haec tu melius vel optime omnium.” Ora se insieme con queste
eloquenti e perspicue parole si ricordano i versi citati della “Farsaglia”,
e se si pensa ancora al contenuto dei frammenti che di questo
sapiente ci sono rimasti e ai titoli delle opere ch'egli scrisse,
possiamo formarci un'idea approssimativa del genere di dottrina e di conoscenze
che ha e di cui si fa maestro: il misticismo pitagorico, la dottrina dei
numeri, la divinazione (quella che oggi si dice chiaroveggenza) in tutte
le sue forme, l'astrologia; il tutto espresso e significato in un modo
oscuro e involuto, forse per via di simboli, che fu poi una delle cause
maggiori, se non la maggiore di tutte, per la quale le opere di lui
furono poco lette e a poco a poco caddero nell'oblio. E dopo la
morte del maestro, che ne fu dei suoi seguaci? Probabilmente non si
dispersero e continuarono a riunirsi. Tanto piu che non manca certo fra
loro chi potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e
la sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo, ci fu
in Roma un'ALTRA setta, ch'io non dubito punto fosse continuazione di
quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi insegnamenti: voglio alludere
alla “Sextiorum nova et romani rohoris seda » la quale però « Inter
initia sua, quum magno impetu coepisset, extincta est » Decisamente i
tempi non erano favorevoli alla filosofìa, anzi a certa filosofia! E in
verità non potevano essere molti quelli che, in Roma, desiderassero di
attendere sul serio alle speculazioni filosofiche: le ricchezze e la
potenza della nuova Roma imperiale offrivano troppi svaghi, troppi
divertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia di dedicarsi a
meditazioni gravi ed ingrate! Cosicché gli sforzi di quei pochi, i quali
avrebbero pur voluto richiamare i concittadini alla serietà d'una vita meno
fatua e più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco
duraturi. Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca?
Le notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma sufficienti
tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corruzione, come uomini
desiderosi piu delle gioie del pensiero che di quelle dei sensi, amanti
più della verità e della scienza che delle ricchezze e degli onori; come
uomini infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù, quanto
maggiori intorno si addensano le tenebre del vizio. Del primo di essi, di
nome Quinto, parla specialmente, e sempre con parole di profonda e
sentita ammirazione, il più grande dei moralisti romani, SENECA, in
quelle sue mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica
sapienza e così degne d'essere studiate e meditate più che non
siano! In una di queste, la novantottesima, volendo Seneca provare al suo
alunno Lucilio che spesso molti disprezzarono quei beni che i più
desiderano come fonti di felicità, cita gli esempi di Fabrizio e di
Tuberone, e poi aggiunge che il [ Seneca, Quaest. nat. cap.
ultimo.] padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere un
giorno governare la cosa pubblica, rifiuta persino la carioa di senatore,
offertagli da Giulio Cesare. Poiché egli non annette alcuna importanza ai
pubblici onori, ritenendoli, come sono, troppo incerti e transitory. Una
rinunzia di questo genere non e certamente cosa che tutti sapessero e
volessero fare in quei tempi di sfrenate ambizioni ; e tanto meno poi per
ragioni filosofiche! Ma tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona
altro ornamento che non fosse il laticlavio : ornamento meno
visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero, che fosse
conquista della sua intelligenza e della sua virtù, che nessuno potesse
riprendergli e che egli potesse liberamente trasmettere senza pericolo di
manomissioni o di latrocinii, l'ornamento insomma della sapienza; per la
quale e acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio,
progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desiderio, fu sul punto,
un giorno, di suicidarsi. Come degli onori, ei non fu avido neppure dolle ricchezze;
anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene, ripete quanto fa il
filosofo Democrito, il quale, avendo previsto da certi segni astrologici
una carestia d'olio, prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza
delle olive faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a
buon [€ Honores repulit pater Sextius, qui, ita natus ut
rempuhlicam deberet capessere, latum clavum, divo lulio dante, non recepii;
intelligehat enim, quod dari posset, et eripi posse.” Plutarco, « Del modo di
conoscere i propri progressi nella virtù », § 5: « KaGànep cpaol Ségxtóv
xs xòv 'Pa)|iaIov àcpetxóxa xàg èv x-^ TióXst xtjjiàg xal ipxàg 5ià
cpiXoaocpiav èv òè xqi cptXoaocpsIv aB TiàXiv 5uo7ia'9-oQvxa xal
xp(tà\),e>foy xtp Xóyt}) x^^®'^"^? "^^ np{bzo)t, dXtyow
Ssyjaat xaxa3aX«tv éaoxòv ix xivog Sti^poug ». mercato tutto l'olio del
paese, e poi, sopravvenuta realmente la carestia, restituì ai primi
proprietarii la merce acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli
sarebbe stato facile arricchirsi quando lo avesse coluto. Ma che uomo era
Sestio! Che scrittore vigoroso e ardito, e come diverso da tanti filosofi
che scrivendo siedono in cattedra, discutono, cavillano, e non danno
all'anima alcun vigore perchè non ne hanno! A leggere Sestio — son parole
di Seneca - si sente ch'è pieno di vita e di vigore, uno spirito libero e
superiore, uno che ha virtù d'ispirarti sempre una gran fiducia in te
stesso ! In qualunque stato d'animo, quando si legge il suo libro, si
sfiderebbe la fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro
qualsiasi ostacolo! Poiché Quinto Sestio ha questo grande merito, che,
pur mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non ti
fa disperare di raggiungerla. Quinto Sestio la mette bensì molto in alto,
ma in luogo accessibile a chi la voglia conquistare, sì che ammirandola tu
speri. Quale più alta lode [Plinio, Naturalts Historia: “Ferun
Demoeritum, qui primus intellexit ostenditque curri terris caeli
societatem, spernentibus hanc curam eius opulentissimis civium, praevista
ohi cavitate ex futuro Vergiliarum or tu.... magna tum vìlitate propter
spem olivae, coemisse in toto tractu ornne oleum, mirantibus qui
paupertatem, et quietem doctrinarum ei sciebant in primis cordi esse.
Atque ut apparuit causa, et ingens divitia- rum cursus, restituisse
mercem anxiae et avidae dominorum, poe- nitentiae, contentwm ita probasse
opes sibi in facili, quum vellet, fore. Hoc postea Sextius e romanis
sapientiae adsectatoribus Atkenis fecit eadem ratione.” (2)
Seneca, Epistola – “Lectus est deinde liber Quinti Sextii patris; magni,
si quid miài credis, viri, et, licet neget. Stoici. Quantus in ilio, Dii
boni, vigor est, quantum anim,i! Hoc non in omnibus philosophis invenies.
Quorumdam, scripta clarum] per un uomo, di questa entusiastica esaltazione
fatta da Seneca ? E i suoi insegnamenti poi quanto erano
sentiti e pro- fondi, altrettanto erano semplici ed eificaci. Vuoi tu
persuadere un uomo della bruttezza dell'ira? egli ammaestrava: portalo,
mentr'è adirato, innanzia uno specchio e fa che vi si veda riflesso ; poi
fagli intendere che s'ei vedesse a quel modo anche l'orridezza dell'anima
sua sconvolta ed agitata ne sarebbe atterrito. Della onestà e della
virtù egli ebbe così alto e giusto concetto che sostenne l'uomo
habent tantum nomen, cetera exsanguia sunt. Instìtuu7it, dìspu-
tant, cavillantur : non faciunt animum, quia non habent. Quuni legeris
Sextium, dices: Vivit, viget, liber est, supra hominem est, dimittit tne
plenum ingentis fiduciae. In quacumque positione mentis sim; quum hune
lego, fatebor tibi, libet omnes casus pro- vocare, libet exelamare : Quid
eessas, Fortuna? congredere! para- tum vides. Illius animum induo, qui quaerit
ubi se experiaiuT, ubi virtutem suam ostendat, Spumantemque
davi pecora inter inertia votis Optai aprum, aut fulvum descendere monte
leonem. Libet aliquid habere, quod vincam, cuius patientia
exereear. Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et ostendet
Ubi beatae vitae ìuagnitudinem, et desperationem eius non faciet.
Seies illam, esse in excelsOy sed volenti penetrabilem. Hoc idetn
virtus tibi ipsa praestabit, ut illam admireris, et tamen speres.” Seneca,
De ira^ lib. II, oap. 36 : « Quibusdam, ut ait Sextius iratis profuit
aspexisse speculum; perturbavit illos tanta mutatio sui: velut in rem
praesentem adducti non agnoverunt se, et quantulum ex vera deformitate
imago illa speculo repercussa reddebat ? animus si ostendi^ et si in ulta
materia perlueere pos- set., intuentes nos confunderet, aier
maculosusqite, aestuans., et distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta
deformitas eius est per ossa carnesque, et tot impedimenta., effiuentis :
quid si nudus o- stenderetur ? et e. onesto non per altro essere
inferiore al sommo Giove, che per avere una virtù meno stabile e duratura
; ma per tutto il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto
felice quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi la felicità
umana e la divina differenza se non di durata. Ond'è che egji potè
veramente additare ai volonterosi il bel cammino della virtù ed esclamare
: « Di qui si monta alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^
for- tezza » — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di
popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa, persuadendo che
gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi la mano. . . . (1).
(1) Seneca, Epistola LXXIII: “Solebat Sextìus dicere^ «
lovem plus non posse ^ quam honum virum,^. Plura lupiter habet^ guae
' praestet hominibus; sed inter duos honos non est melior, qui lo-
cupletior : non magis^ quam inter duosj quibus par saientia re- gendi
gubernaeulum est^ meliorem dixeris, cui maius speciosiusque navigium est.
lupiter quo antecedit virum bonum! Diutius bonus est. Sapiens nihilo se
minoris aestimat.^ quod virtutes eius spatio breviore clauduntur.
Queniadmodum ex duobus sapientibus^ qui senior decessiti non est beatior
<?o, euius intra pauciores annos terminata virtus est : sìe Deus non
vincit sapiente ut felicitate^ etiam, si vincit aetate. Non est virtus
maior^ quae longior. lupi- ter omnia habei; sea nempe aliis tradidit
habenda. Ad ipsum hie unus usus pertinet.^ quod utendi omnibus causa est:
sapiens tam aequo omnia apud alias videi contemnitque^ quam lupiter., et
hoc se magis suspicit., quod lupiter uti illlis non poteste sapiens
non vult. Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et
clamanti : * Hac itur ad astra ! hae, secundum frugalitatem:, hac,
secu7idum fortitudineyn ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ;
admittunt, et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem ad deos ire?
Deus ad homines venit\ immo., quod propius est., in hom.'ines venit.
Nulla sine Beo mens bona est. Semina in corpo- ribus kumanis divina
dispersa sunt; quae si bonus cultor excipit.” Questa sicura fede, questa virile
forza di pensiero suscitatrice di virtù, era la nota caratteristica di
Sestio, di quest'uomo profondo, che filosofa scrivendo con gravità romana,
e che paragona l'uomo sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo
animo, a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e pronto
alla battaglia. Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per
esempio quel Lucio Grassizio di cui parla Svetonio, simìlia origini
prodeunt; et paria his, ex quibus erta sunt^ sur- gunt: si malus^ non
aliter quam humus sterilis ac palustris^ ne- cat, ac deinde creai
purganienta prò frugihus » . (1) Seneca, Epistola – “Sextium ecce
quam maxiìne lego^ virum acrem^ graecis verbis^ romanis moribus
philosophantem. Movit me imago ab ilio posila : ire quadrato agmine
exercitum^ ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum.
Idem^ inquit^ sapiens facere debet; omnes virtutes suas undique
expan- dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, illic parata
praesidia sint^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Qitod
in exercitibus his^ quos imperatores magni ordinant, fieri videmus^
ut imperium ducis simul omnes copiae sentiant^ sic dispositae, ut signum
ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat ; hoc aliquanto magis
necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim saepe hostem timuere sine
causa ; tutissimumque illi iter, quod suspeetissimum fuit. Nihil siultitia
pacatum habet ; tam superne UH meius est, quam infra ; utrumque trepidai
latus ; sequuntur pericula^ et occurrunt\ ad omnia pavet ; imparata est^
et ipsis terretur auxìliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum
munitus est et intentus: non si paupertas^ non si luctus, non si
ignomi- nia^ non si dolor impetu?n faciat^ pedem referet. Interritus
et contra illa ibii^ et inter illa. Nos multa alligante multa
debilitante diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est : non enim
inquinati sumus, sed infecti ». (2) Nel De illustr. grammat.,
§ 18, rammenta di lui che « ad Q. Sextii philosophi sectam transiisse
dicitur ^ . Alcuni codici però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii.] questa
sua efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli col vigore della
sua persuasione e con la nobiltà della sua vita, sdegnosa d'ogni viltà e
d'ogni bassezza, potè far sorgere quella « romani rohoris seda » , di cui
abbiamo fatto già cenno e che, se fu subito soffocata, ebbe tuttavia
dei seguaci e prosecutori isolati, come lozione di Alessandria, che
fu maestro anche di Seneca, Cornelio Gelso, [Dì lui parla
Lattanzio, Divin. institui. lib. VI, § 24. Vedi anche Gellio, èi. A., I,
8. Nella interessante epistola, Seneca, parlando di se al suo Lucilio, gii dice
come oltre all'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche, dai
funghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri, aveva
anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e ciò per gli
insegnamenti di Soxione che dimostrava la inutilità e i danni di questo cibo,
valendosi, oltre che degli argomenti di Pitagora e di QUINTO SESTIO, anche di
ragioni proprie. Riporto quasi per intero il passo di Seneca, che suona così :
« Quonìam coepi Ubi ex- ponere quantum maior impetu ad philosophiam
iuvenis aeeesse- rhn, quam senex pergam^ ?ion pudebit fatevi^ quem mihi
amorem Pytkagorae iniecerit Sotion. Docebat^ quare ille animalibus
ab- siinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat^
sed uirique magnifica. Rie etc... At Pythagoras Haee quum ex-
posuisset Sotton et implesset argumentis suis: Non credis^ inquit,
aììimas in alia corpora atque alia describi., et migrationem esse quam
dicimus mortem? Non credis in his pecudibus ferisve aut aqua m,ersis
illum quondam hominis animum morari? Non cre- dis nihil perire in hoc
mundo, sed anulare regionem? nec tantum caelestia per eertos circuitus
verti, sed ammalia quoque per vices ire., et animos per orbem agi ?
Magtii ista crediderunt viri. Ita- que iudicium quidetn tuum sustine:
ceterum omnia tibi integra serva. Si vera sunt ista., abstinuisse
animalibus innoeentia est., si falsa frugalUas est. Quod istic
credulitatis tuae àamnum est ? Alimenta tibi leonum et vulturum. eripio.
His instinstus abstinere animalibus coepi., et anno peracio non tantum
facilis erat m,ihi consuetudo., sed dulcis... » [Quintiliano,
Lib. X, 1, 124: « Scripsit non parum multa Cornelius Celsus., Sextios
secutus., non sine cultu ae nitore.”] Papirio
Fabiano, Moderato di Cadice, ed altri. I Sestii dei quali abbiamo
notizia furono due. Il primo quello di cui si è parlato finora, che
sarebbe vissuto al tempo di Ottaviano e anche di Cesare, se, come dice
Seneca^ rifiutò il laticlavio « divo lulio dante », e avrebbe pure,
secondo il surriferito passo di Plinio dimorato, non sappiamo quando né
per quanto tempo, in Atene. L’altro QUINTO SESTIO, suo figlio, anch'esso di
prenome Quinto, che prosegue l'insegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene
a torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome di
Sesto pitagorico, della cui vita infine non sappiamo assolutamente
nulla. Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi,
ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi? [Seneca,
Epist. C; cf. Seneca il retore al lib> II delle Controversie^ prefaz.
Questo filosofo pitagorico visse al tempo di Nerone, e famoso per i suoi
insegnamenti intorno alla scienza simbolica dei numeri, e maestro di Lucio
Etrusco (v. Plutarco, Quaest. Gonviv. Vili, 7) e scrive un'opera
voluminosa intorno alla dottrina pitagorica (V. Porfirio, Vita di Pitag. p. 33
ed. Nauck; Stefano Bizantino e Suida, sotto la voce Fàdeipa). Cfr. pure
Porfirio, Vita di Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Ruflnum III.
(3) Epist. XCVIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico.,
che fiorì ai tempi d'Ottaviano, parla Eusebio [Chron., all' olimpiade
195. 1 = 1 d. C). (4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10. (5) Vedile nella
collezione del Mìjllach, Fragmenta philosophorum graecorum, Parigi,
Firmin-Didot, voi. I (1875) p. 522 e voi. II (1881) pp. 116-117, e leggi,
a proposito della paternità di esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso
Mullach v. II, pp. XXXI sg.), anche l'esauriente discussione che fa lo
Zeller, Die Philosophie der Qriechen^ voi. IV, III ediz. (Leipzg] Essi ebbero intanto una propria dottrina
psicologica, se, come riferisce Claudiano Mamerte spiegarono che l'a-nima
è una certa forza incorporea, ilìocale e inafferrabile, che, essendo capace
senza spazio, assorbe e contiene il corpo. Ma questo evidentemente è
troppo poco per determinare a che scuola essi appartennero. E ben
vero che Seneca, come abbiamo già veduto riferisce (nella Epistola LXIY)
che « volere o no » (licei neget), il padre Sestio era un filosofo del
PORTICO; ma quel « volere o no » ci fa comprendere che in realtà Sestio non si
professa un filosofo del PORTICO. E infatti qualche altra testimonianza
lo dice pitagorico, e tale lo proverebbero non solo le sue conoscenze
astrologiche, dimostrate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì
alcune abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di
ogni giorno l'esame di coscienza e quella di astenersi dai cibi
carnei, l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei seguaci del
Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima è da notare che Sestio non
la giustificava, come Pitagora, [De statu anirnae, II, 8 : «
... Eomanos etiam eosdemque philosophos testes citamus^ apud quos Sextius
pater^ Sextius fìlius propenso in exercitium sapientiae studio apprime
philosophati sufzt, atque hane super omni anima attulere sententiatft .
Incor- poralis, inquilini^ omnis est anima et lUocalis atque
indeprehensa vis quaedam \ quae sine spatio capax corpus haurit et
continet-» . Y. pag. preced., nota 3. . Seneca, De ira^
lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciebat hoc Sextius ut consuniTnato die^ quum
se ad noeturnam qutetem. re- cepisset^ interrogaret animum suum : Quod
hodie malum tuum sanasti ? cui vitio obstitisti ? qua parte ntelior es? »
. A questo proposito, oltre alla Up. CVIII di Seneca
riportata nella nota seguente, si suol citare il passo, conservatoci da
Origene, « (contra Celsum », lib. YIII, p. 397 ed. di Cambridge), che
suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene è più
conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico, non già
del nostro Sestio. — escori la dottrina della metempsicosi,
ma con argomenti che ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè
meno astrusi. “Gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri
«alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci si abitua alla
crudeltà provando piacere nel divorar della carne; si deve dunque ridurre
al minimo ciò che può alimentar la lussuria e conclude dicendo che
la varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per i
nostri corpi. Ci sembra quindi lecito di poter affermare che i Sestii non
furono ne filosofi del PORTICO ne pitagorici, ma ebbero un proprio
sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di elementi
pitagorici ; e che questo loro sistema non e ne inorganico, né dubitoso
(come quello degli accademici dell'ultima maniera) né materialista -- come i
filosofi del Giardino --, sibbene avvivato da una profonda fede,
illuminato da una chiara luce spirituale e fondato su convinzioni ben
salde e su opinioni precise e indubitabili; un sistema d'ideo
insomma, che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'oziosa
occupazione dell' intelletto, ma una vera e propria forza organizzatrice
e ordinatrice della vita, e per ciò appunto destinato a raccogliere pochi
seguaci e a vivere per tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni,
di corruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la grande
Roma nel trapasso dalla repubblica al principato. [Seneca,
Epist. CVIII : « hie {Sextius) homini satis alimentorum eitra sanguinem esse
eredebat. et criiclelitatis eonsuetudi- nem fieri^ ubi in voluptatem
esset addueta laceratio. Adiciebat contrahendam materiam esse luxuriae^
eolligebat bonae valetudini contraria esse alimenta varia et nostris
aliena eorporibus ». Poiché si è visto come, dopo NIGIDIO, i
Sestii cercano di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non sarà
certo inutile indagare quali tracce esso lascia di sé nella filosofia
romana, siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o semplici
notizie incidentali. Così infatti potremo non solo farci un'idea del
giudizio che ne fecero gli scrittori di quel tempo, ma ci si
offrirà anche il modo di esporne e chiarirne qualcuno dei punti più importanti
o di metterne in luce gli aspetti più notevoli. Certo, in
un'età nella quale le più svariate credenze religiose e i più diversi
sistemi di filosofìa affluendo in Roma da ogni parte del mondo, e
specialmente dalla Grecia e dall'Asia, vennero a pocoJiniformandosi per
vicendevole influsso, non è facile sceverare e seguire uno per uno
i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che, come la filosofia
pitagorica, essendo molto antichi e avendo avuto larga diffusione e gran
numero di seguaci, trasmisero parte dei loro principii alle speculazioni
filosofiche posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci permette
almeno di raccogliere tutti quei passi di scrittori latini dell'ultimo
periodo repubblicano nei quali si fa esplicita menzione di Pitagora, e di
esaminare altresì quei luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a
dottrine e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per
concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di Samo.
Incominceremo pertanto dal poema di LUCREZIO, che e, come tutti
sanno, il più mirabile tentativo di elaborazione poetica in lingua latina di un
sistema filosofico precisamente del sistema epicureo. Altri felici
tentativi di esporre in versi dottrine di filosofi sono bensì stati fatti da APPIO
Claudio, da ENNIO, da qualche altro, ma per brevi trattazioni. Sì che
Lucrezio — pur conscio della grandezza del cantore degli Annales — puo ben
affermare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare di
esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e dell’Italia romana, non ancora
assueta alle sottigliezze, alla profondità, alla precisione del
linguaggio filosofico, la speculazione. Il “Della Natura” infatti non
solo espone con ordine sistematico la complessa dottrina de la filosofia
dell’Orto intorno air essere delle cose in generale, all' infinità
dell'universo, ai moti e alle forme atomiche, alla natura, composizione e
mortalità dell' anima, alle cause delle sensazioni e delle funzioni
fisiologiche, alle origini del mondo e della vita vegetale e animale,
alle cause dei fenomeni meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè
abbiano piti sicuro fondamento i principii della dottrina epicurea,
le opposte e diverse dottrine di altre scuole filosofiche, e combatte le
argomentazioni contrarie e le obiezioni possibili degli avversari.
Di questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora su fondamenti
nuovi, e polemica in quanto combatte e distrugge principii vecchi o
diversi, è ben naturale che noi dobbiamo tener presente soprattutto la
parte polemica, per vedere se e quanto in essa il filosofo – come
rappresentante dell’Orto -- h tenuto conto delle dottrine di Pitagora.
Ora, su due punti essenzialmente LUCREZIO discute e lotta ad oltranza
contro indirizzi di pensiero diversi dal suo. Sulla teoria atomica e
sulla teoria dell' anima. E a proposito della prima combatte e confuta
esplicitamente, nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del
filosofo di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né qui ne
in altra parte dei poema. Ma ciò non toglie che un attento esame del “De
rerum natura” stesso non ci permetta di scoprire dove e quando, pur senza
dirlo, LUCREZIO pensi a combattere i principii della filosofia
pitagorica, È ben nota, in verità, la disistima che la filosofia
dell’ORTO ha per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci
escludere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì, per un
sistema che studia e rappresenta sotto l'aspetto numerico il mondo, e nel
quale le ricerche matematico-musicali avevano tanta parte. In realtà però
possiamo escludere a priori soltanto questo: che i filosofi dell’orto tenesse
presenti in qualche modo le dottrine della scuola italica nella parte
fisica del suo sistema. E infatti lo studio del “De rerum natura” di Lucrezio
conferma senz' altro questa induzione; tanto nella parte teorica che in
quella polemica dei primi due canti, che contengono 1' esposizione e
lo svolgimento dei principii intorno al mondo e alla materia, e la
teoria atomica, manca aJffatto qualsiasi accenno, anche indiretto e lontano,
alle dottrine pitagoriche. Ma queste, oltre al mondo fisico,
governato dal numero e dall' armonia, abbracciavano anche il metafisico
(anima e il dividno), e quanto all'anima, pur considerando anche di
questa l' aspetto numerico e musicale, sviluppavano soprattutto il concetto
della sua eternità. Non mai nata, perchè esistente ab aeterno^ essa vive,
perenne e immortale, attraverso un ciclo indefinito di vite terrene
(metempsicosi). Sotto questo aspetto pertanto la filosofia di Pitagora
dove pure essere tenuta in qualche considerazione dall’Orto, se scopo
fondamentale della sua speculazione fu di combattere i due grandi timori onde
nasce r intelicità umana, cioè il timore della morte e quello del
divino, e se, per vincere il primo, difese con tutte le armi della logica
il principio della materialità e della mortalità dell'anima. Non
risalivano forse in gran parte alla filosofia pitagorica la dottrina
platonica e le speculazioni del PORTICO intorno alla origine divina e
all'immortalità dell' anima? E la filosofia pitagorica non si uniforma forse,
spiegandole e chiarendole, alle più inveterate superstizioni, alle più profonde
convinzioni, alle più diffuse credenze religiose degli uomini?
Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo della costruzione teorica dei
suo sistema, sarebbe stato sufficipnte che, accettata da Democrito la teoria
atomica e fattane 1' appli cazione al mondo fisico, l’estendesse, come
fece realmente, al mondo psichico (per lui i' anima constava infatti d'
un aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza della
mortalità dell' anima o, più precisamente, del necessario dissolversi dei suoi
atomi alla morte del corpo. Ma, giova ripeterlo, egli volle anche
soprattutto combat- tere il timore della morte, il quale nasce, secondo
lui, dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e
dalle favole dei poeti e dei vati — che, morto il corpo, l'anima
sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale cre- denza una ve n' era —
largamente diffusa dalla religione, dai misteri, da oscure predizioni
sibilline, da filosofi e da poeti — secondo la quale 1' anima non solo
continuava ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi
corpi e ritessere più d' una volta la trama della vita ter- rena :
insomma l'antichissima credenza nella metempsicosi. E per di più questa
credenza, anche nei termini strettamente epicurei, poteva in un certo
senso apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità del tempo e
nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli atomi materiali, era ben
lecito ammettere come possibile il ricostituirsi dell' identico
conglomerato atomico che ricreasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima
anima. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende che l’Orto dovessero
esaminarla anche al lume della logica interna del loro sistema, per
dedarne le loro conseguenze in rapporto alle due questioni dell'eternità
dell'anima e del timore della morte. Tanto ciò è vero, che Lucrezio
svolge appunto in modo ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale
discussione polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità
dell'anima e la vanità del temere la morte. Ma prima di esaminare ed
analizzare questa parte del poema che si riallaccia così strettamente con
la dottrina pitagorica, è necessario premettere che già al principio del primo
libro, in quel mirabile e tormentato proemio dove il poeta espone le ragioni,
l' ordine e la materia della sua trattazione, è fatto cenno delle varie
credenze e opinioni intorno all' anima e dell' importanza capitale
che la soluzione del problema psicologico ha, nel sistema epicureo, in
ordine alla necessità di sradicare dall' animo umano il timore della
morte. E questo cenno, sia in se stesso, sia per il ricordo
che ad esso si collega del famoso sogno di ENNIO, ha pure
importanza per il nostro tema. Per rassicurare infatti MEMMIO — al
quale Lucrezio dedica “De rerum natura” — che potrebbe dubitare, accettando la
dottrina epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lucrezio
dimostra che anzi la religione fu causa che gli uomini commettessero
delitti nefandi, come il sacrificio d’Ifigenia in Aulide. E poi soggiunge
che, vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner sempre
quell' altro timore, che è alimentato dalle spaventose favole dei poeti sulla
vita d' oltretomba, da sogni e da apparizioni, e trova la sua ragion d'
essere nell' igno- ranza umana intorno alla vera natura dell' anima. Di
qui pertanto la necessità di studiare — insieme con la natura delle cose
celesti, degli dei e della materia — anche il problema dell' essenza dell'
anima e della natura dei sogni e delle visioni. E precisamente nei questi
versi si accenna in par- ticolare alle varie dottrine intorno all'origine
dell'anima e intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo:
Ignoratur enim quae sii natura animai, nata sit^ an cantra
nascentihus insinuetur^ et simul intereat nobiscum morte dir
empia, an tenehras Orci visat vastasque lacunas^ an pecudes alias
divinitus insinuet se, Ennius ut noster ceeinit, qui priìnus amoeno
detulit ex Helicone perenni fronde coronam, per gentis Italas kominuìu
quae darà clueret\ 120 etsi praeterea tamen esse Acherusia
tempia Ennius aeternis exponit versibus edens^ quo ncque
permanentanimae ncque corpora nostra^ sed quaedam simulacra modis
pallentia miris; unde sibi exortam semper fiorentis Homeri
125 commemorai speciem lacrimas effundere salsas coepisse et rerum
naturam expandere diciis. Quanto all' origine dell' anima, l’Orto sostene
che essa era nativa (nata)-^ ma altri invece la credeva entrata già
fatta nel corpo al momento della nascita (an contra [Mi pare
qui perfettamente accettabile la lezione già proposta dal Gobel
(permanent è coug. pres. da pcrmanare)^ che è la più ragionevole
correzione del permaneant dato dai codici. Ne so vedere in qual modo tale
correzione urti, come dice Giussani, con- tro il senso di
permanare. In questi versi, come in quelli che citerò più innanzi,
mi attengo alla lezione e alla grafìa data dal Giussani (De rerum
na- tura, Torino, Loescher, nascentibus
insinuetur). Quanto alla sorte che 1' aspettava al morire del corpo le
opinioni invece erano tre: l'epicu- rea, che r anima si dissolvesse col
dissolversi degli atomi corporei [simili intereat nobiscum morte
dirempta) ; la popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averne
[te- nebras Orci visat vastasque ìacunos) ; la pitagorica, che
passasse per virtù divina nel corpo di altri animali (pecudes alias divinitus
insinuet se ). Le due ultime però non erano in contraddizione fra loro ;
tanto è vero ap- punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali,
pur esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì 1' esistenza
dell'Ade e dei templi Acherontei^ ai quali però discen- deva non già
l'anima (questa passava — subito? — in altri corpi), ma un' ombra, come a
dire un doppio, del- l'anima stessa, di mirabile pallore: come quella
precisamente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno — doppio dell'
anima del divino Omero — che, piangendo a- mare lagrime, gli svelò
l'essere delle cose. E dunque evidente, per questo accenno alla
dottrina psicologica epicurea in contrapposizione con quella di
altri filosofi ed anche di Pitagora, che nel terzo libro di
Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo — e lo è infatti esaurientemente
— la teoria pitagorica della metempsicosi. Ma non v' è forse cenno d' un'
altra concezione che fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio
dire della concezione dell' anima- armonia? La cosa,
del resto, è tanto più evidente se si pensi clie Lucrezio compose verosimilmente
questa parte del proemio del primo libro, quando già aveva composto il
terxo. Si veda in proposito la paziente e lucida analisi del Giussani
voi. II, pag. 4-5). È un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di
ac- cingersi a determinare la natura materiale - atomica dell' anima
nelle sue due distinzioni dì animus od anima., confuta una dottrina • —
certo ancor diffusa ai suoi gior- ni — che negava 1' esistenza dell'
anima, o meglio le ne- gava una consistenza sua propria, non pure
extracorporea, ma nel corpo stesso, concependola soltanto come una
spe- cie di armonia delle funzioni organiche : 98 sensum
aniìni certa non esse in parte lo^atuìn^ vermn habitum quendam
vitalem corporis esse^ 100 karmoniam Orai quam dieunt^ quod faciat
nus vivere eum sensu^ nulla curn in parte siet ìuens : ut bona
saepe valetudo eum dicitur esse corporis, et non est tamen haec pars ulta
valentis, sic animi sensum non certa parte reponunt. Ora chi,
prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dot- trina, che anche ai tempi
di Platone e di Aristotile era tanto diffusa da far sentire all' uno e
air altro (1) la ne- cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e
spe- cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato e
svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però tale concetto non
potesse avere pei Pitagorici il senso datogli (1) Platone,
Fedone e. XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, Del- Vanima^ I, 4. Dopo
Aristotile la svolsero ancora, accettandola e difendendola, Aristosseno
talentino (Cicerone, Tuseulane., I, l9)" e DiCEARCo di Messina
(Cicerone, ibidem^ I, 20). La si fa risalire veramente a Parmenide
e a Zenone d' Elea (Diog. Laerzio): ma che debba riconoscersi anche
come propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel
suo Philolaos., (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico
chi la espone è Simmia, discepolo d,l Filolao, ed Echecrate
pitagoreo la riconosce per propria dottrina {Fedone., e. XXXVIII).
qui da Lucrezio e neppure quello datogli da Simmia nel dialogo di
Platone, è appena necessario di dire, se esso si accordava — nel sistema
di quella scuola — con l'altro della metempsicosi, ossia con il concetto
della preesistenza e immortalità dell' anima stessa. L' ironia lucreziana
dun- que dei versi 131-135: ... recide harmoniai
fìomen^ ad organicos alto delatum Heliconi — sive aliunde ipsi porro
traxere et in illam trastulerunt^ proprio quae tum res nomine egehat -
quid quid id est habeant. . — come le argomentazioni di Socrate nel
Fedone — era- no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro
quella interpretazione e limitazione materialistica di essa, per cui r
anima era ridotta a semplice funzione del corpo. Ed è ben naturale che —
così limitata e interpretata — la combattessero, insieme con gl'idealisti
platonici, anche i materialisti epicurei : poiché per gli uni
rappresentava la negazione della essenza individuale e quindi della
immor- talità dello spirito, e per gli altri, significava l'
inesisten- za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso-
riale) onde essi concepivano costituita (insieme con le altre tre
sostanze elementari aria, freddo e caldo) 1' anima u- mana (1). Si comprende
quindi che Lucrezio, prima di [Pell’Orto, 1' anima è bensì
nativa e mortale, ma è però, fin che vive il corpo, sostanziata di
materia atomica ed è parte dell' essere umano — ne più ne meno di quel
che ne siano parte le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Luce. Ili, 94-97) —
e localizzata nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è
adibita alla re- cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle
funzioni intel- lettuali : sì che ammettendo la teoria dell'anima-armonia
veniva a cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle
imaccingersi alla esposizione della teoria psicologica, confu- tasse
questa dottrina, che non solo negava all' anima una sua localizzazione
nel corpo, ma veniva in ultima analisi a negarne 1' esistenza (1). Dimostrata
la materialità dell'animo, Lucrezio passa a dar le prove — ventotto in tutto —
della sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat- tono
il concetto della immortalità sotto l'aspetto non già del persistere
dell' anima dopo la morte, ma del suo pree- sistere alla nascita del
corpo e della possibile pluralità delle sue esistenze terrene (vv.
668-710, 711-738, 739-766, 774-781). Qui siamo evidentemente
nel campo della metempsicosi, e occorrerà quindi esaminare quest' altro
centinaio di versi. Veramente non soltanto i Pitagorici — con la
dottrina della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi-
stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli Stoici; e inoltre,
come ho già osservato più volte, tale dottrina non fu che la elaborazione
filosofica d' una cre- denza largamente diffusa nelle leggende popolari,
nella poesia, neir arte, e rafi'orzata se non derivata, dagli in-
magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche
queste vere immagini materiali) che V anima riceve dal di fuori, ma
non produce essa stessa. (1) Cicerone infatti, parlando di
Aristosseno e di Dicearco, dice appunto che essi con la loro teoria
venivano a dimostrare « nihil esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum
inane^ frustraque ammalia et animantes appellari, neque in homine inesse
animum vel animam nec in bestia.” {Ttcsc.^ I, 21), e più
esplicitamente più sotto (31 1: « Dicearehus quidem et Aristoxenus. ...
nullum omnino animum esse dixerunt ». segnamenti religiosi che s'
impartivano nei Misteri. Sì che gli argomenti di Lucrezio — possiamo
affermarlo con si- curezza — non sono esclusivamente contro i
Pitagorici. Ma poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e
fra il popolo tale credenza, e se pure la derivò, c?ome vo- gliono,
dall' Egitto, fu veramente il primo che le diede veste filosofica, e su
di essa fondò 41 suo sistema dottrinario, dal quale mossero, dopo di lui, e
Platone e gli altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del
poeta epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia ed
a scalzare uno dei capisaldi della filosofia pitagorica. Gli argomenti
che Lucrezio adduce contro 1' opinione della preesistenza dell'anima sono
quattro, svolti in quattro successivi e continui gruppi di versi, e
rincalzati poi — dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua
trat- tazione — nella meravigliosa invettiva contro il timore della
morte. a) Il primo argomento è desunto dalla mancanza in noi
di ogni ricordo dell' esistenza anteriore alla nascita (1): se la nostra
anima è esistita un'altra volta e quindi è entrata nel corpo al momento
della nascita (2), perche non siamo assolutamente in grado di
ricordarci del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri-
[C è bisogno di rammentare che appunto ctalla realtà di tale
ricordanza — rappresentata non già dalla reminiscenza di parti- colari di
una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e in- controvertibile
esistenza delle ideo innato nella mente di ciascun uomo — Platone
deduceva la necessità d'un'anteriore esistenza dell' anima e quindi della
sua immortalità ? (Yedunsi nel Fedone ì capitoli l8-22ì. 2)
E, come si vede, io svolgiiuento di quel che ha accennato nel proemio al
primo canto. membranza delle nostre azioni passate ? Dunque l'anima
ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà di ricordare le proprie
vicende ? Se così è, questo non differisce molto dalla morte ; bisogna
quindi concludere che r anima di prima è morta e che quella che
abbiamo in questa vita è stata creata proprio in questa vita (1).
Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della memoria del
passato, la conclusione che sembrerebbe le- gittima : « dunque 1' anima
non è preesistita » ; ma dice soltanto che — dato pure che potesse essere
material- mente esistita — il fatto di non serbar coscienza del
passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità (personalità
infatti non è altro che persistere di una me- desima coscienza), cioè che
è morta da quella che era, per diventare un'altra. Praeterea
si immortalis natura animai constai et in corpus nascentibus
insinuatur, 670 cur super ante actam aetatem meminisse
nequimus nec vestigia gestarum rerum ulla tenem^us ? nani si
tanto operest animi mutata potestas, omnis ut actarum exciderit retinentia
rerum, non, ut opinor, id a lete iam longiter errai; 675 quajjropter
fateare necessest quae fuii ante interasse, et quae nune est nunc
esse creaiam. Insomma in questi versi non si nega la possibilità
che siano preesistiti, e quindi che esistano in eterno i com-
ponenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi-
fl) Su questo argomeDto della mancanza di ogni ricordo, come
vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice cenno
(al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti) accennan- do alla
possibilità della rinascita dell'anima e del corpo. stere in eterno della
coscienza, che, per Epicuro, deriva dai moti atomici dei quattro
componenti dell'anima. D'altra parte, continua il poeta, se 1'
energia vitale del- l'anima entra in noi quando, formato il corpo,
usciamo alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa — che
si vede che è cresciuta col corpo e con le membra immedesimandosi nel
sangue, — ma dovrebbe, non fusa col corpo, vivere a sé come in una
prigione. Ora, poiché avviene proprio il contrario — e cioè 1' anima é
diffusa per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre-
sce e si sviluppa col corpo stesso — segno é che non é entrata in esso
perfetta, e che, partecipando delle vicende del corpo, nasce (e quindi
anche muore) con esso. E am- messo pure che, • perfetta e in sé raccolta
all'atto di en- trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogni sua
parte appena entrata, questo equivarrebbe a uno scomporsi e
dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a un morire per
rinascere tosto altra da quella di prima. b) Un altro argomento
pare a Lucrezio di poter trarre dal fatto del formarsi dei vermi onde
pullula il cadavere in putrefazione. Se l'anima che li avviva non è
costitui- ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari
dell'ani- ma primitiva, (il che dimostra che l'anima stessa,
potendo frazionarsi, é peritura e mortale) bisognerebbe ammette- re
— ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi si incarnino anime
preesistenti; nel qual caso, lasciando pure a parte la stranezza che
mille subentrino là di dove una è partita, o esse stesse si formano il
proprio corpo dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi
en- trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè,
piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontaneamente a
rinchiudersi in un carcere corporeo, dove neces- sariamente dovranno
soffrire; nella seconda varrebbe il ragionamento fatto precedentemente
che un' anima non può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo
già formato senza snaturarsi. 720 quod si forte animus
extrinsecus insinuari vermibus et privas in corpora posse
venire eredis, nec reputas cur milia multa animarum conveniant unde
una recesserit, hoc tamen est ut quaerendum, videatur et in discrimen
agendum, utrum tandem animae venentur semina quaeque
vermiculorum ipsaeque sibi fabricentur ubi sint, an quasi
corporibus perfectis insinuentur . at neque cur faciant ipsae quareve
laborent dicere suppeditat, neque enim, sine corpore cum sunt,
730 sollicitae volitant morbis alguque fameque: corpus enim
magis his vitiis adfine laborat, et mala multa animus contage fungitur
eius. sed tamen his esto quamvis facere utile corpus cui subeant:
at qua possint via nulla videtur. 735 haut igitur faciunt animae
sibi corpora et artus, nec tamen est uiqui perfectis
insinuentur corporibus: neque enim poterunt suptiliter esse
conexae, neque consensus contagia fient. c) In terzo luogo, se
veramente ci fosse la metem- psicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue
peregrinazioni, un'anima di leone, per esempio, capitare in un cervo
o quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa, per modo che ne
nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e colombe feroci ? Invece i
caratteri psichici delle singole specie si ereditano e sono costanti in
esse al pari dei caratteri fisici. Se l'anima immortale mutasse solo i
corpi, questa costanza non vi sarebbe o, almeno, soffrirebbe molte
eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che, mutando corpo, muta carattere,
allora vuol dire che essa non rimane la stessa, che cambia natura,
insomma che muore per rinascere un'altra: Dejiiqiie cur acris
violentia triste leonum 740 seminium sequitur, volpes dolus, et fuga
cervi» a patribus datur et patribus pavor incitai artus^ et
iam cetera de genere hoc, cur omnia membris ex ineunte aevo, generascunt
ingenìoque, si non, certa suo quia serrane seminioque vis aniìiti
pariter crescit cum corpore toto ? quod si immortalis foret et
mutare soler et corpora, permixtis anirnantes moribus essent,
eff'ugeret canis Hyrcano de semine saepe cornigeri incursum cervi,
tremeretque per auras 750 aeris accipiter fugiens veniente columba,
desiperentque homines, saperent fera saecla ferarum. illud enini
falsa fertur ratione, quod aiunt immortalem animam mutato corpore flecti
: quod m^utatur enim dissolvitur, interit ergo. Se poi si
volesse invece sostenere la metempsicosi solo entro i limiti di ciascuna
specie, e dire che un' anima umana non s'incarna successivamente in altro
che in uomi- ni (1), allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può,
di [Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni
deli' anima la scuola pitagorica: limitandolo cioè entro i confini della
specie umana, die se quasi tutte le testimonianze attribui- scono ai
seguaci di Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lu- crezio accenna
nei versi or ora citati, tali testimonianze si può dimostrare che o sono
esagerate per amor di polemica o di satira, sono errate per confusione
della metempsicosi pitagorica con quella egiziana od orientale in genere,
o, in qualche caso, possono spiegarsi dando un signifiv,ato simbolico al
passaggio dell'ani- ma nel corpo di un animale. In tale categoria
rientra, per me, la testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato
degli Annali, fasaggia che era, diventare sciocca, dal momento che non s'
è mai visto un fanciullo assennato né un piccolo pu- ledro esperto come
un robusto cavallo ? Forse che la men- te in un corpo tenero, si fa
tenera anch' essa ? Allora dunque non è immortale se, trasmutando corpo,
perde in tal modo la vita e il sentimento di prima: Sin
animas hominum dicent in corpora sem,per ire humana, tamen quaerain cur e
sapienti 760 stulta qiieat fieri, nec prudens sit puer ullus,
762 nec tam doctus equae pullus quam fortis el^ui vis ?
scilicet, iìi tenero tenerascere eorpore ìnentem confugient, quod
si iavi fìt, fateare necesscst 765 mortalem esse animam, quoniam mutata
per artus tcmto opere amittit vitam sensumque priorem.
d) Infine — e siamo così alla chiusa, di sapore umoristico, di
questa serie di argomentazioni contro la preesistenza e la metempsicosi —
non è cosa oltremodo ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e
ad ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in numero
innumerevole, immortali aspettino membra mor- tali, e lottino e gareggino
a chi prima e di preferenza riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le
anime il patto che chi prima arriva a volo entri per prima e cosi
non ci sia fra loro nessuna lotta violenta: Denique conubia
ad Veneris partusque ferarum llb esse animas praesto deridieulum esse
videtur, expeetare immortalis niortalia membra innumero
numero, ceriareque praeproperanter cendo esporre dall' anima
di Omero la dottrina di Pitagora, lo fa anche dire d'essere divenuta un
pavone (« pavone » qui significa « cielo »). Perciò credo prettamente
pitagorica, e non stoica, la dottrina della metempsicosi che svolge
Virgilio nel sesto dell'Eneide. inter se quae prima potissimaque insinuetur
; si non forte ita sunt animarum foedera pacta, 780 ut, quae prima
volans advenerit, insinuetur prima, neque inter se contendant
virihus hilum. Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle
credenze e dottrine pitagoriche : ma poiché subito dopo, in quella parte
di questo stesso terzo canto in cui si dimo- stra la vanità del timore
della morte, è formulata l' ipo- tesi della resurrezione delia medesima
anima nel mede- simo corpo, e tale ipotesi -è stata da qualcuno
identificata con l’analoga dottrina pitagorico-stoica della
palingenesi, dobbiamo esaminare anche questo passo.
Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della mortalità
dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima conseguenza che la morte
non ci riguarda per nulla. Come non abbiamo sentito niente di ciò che è
acca- duto prima della nostra nascita (perchè l' anima nostra non
esisteva), così non sentiremo nulla dopo morti, per- chè una volta
avvenuto il distacco fra corpo ed anima (e la conseguente dissoluzione di
questa) noi, che esistia- mo solo per l'intima unione di entrambi, non
esisteremo e quindi non sentiremo più. E giunto a questo punto
conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi, come infatti, sembra, si
fermò in una prima redazione del poema, nella quale seguivano a questa
dimostrazione i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piti tardi,
tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui è formulata la suddetta ipotesi,
che dobbiamo appunto esaminare. Accetto senz' altro le conclusioni di Giussani,
sì per l' interpretazione, sì per la composizione di tutto que- sto
interessante brano. Rimando perciò il lettore all'opera già ci- tata,
voi. Ili, pp. 106-107. Poiché in essa è detto anzitutto che se
pura, dopo avvenuta la separazione, l'aDima avesse facoltà di
sentire, anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi, che
siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in un'esistenza unica
(vv. 841-844). La quale ipotesi peraltro (che 1' anima senta
staccata dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha
detto precedentemente, che non era assolutamente ammis- sibile (1),
perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste, consistendo la morte, per
lui, nel rompersi del legame tra corpo ed anima e nell'immediato dissiparsi
degli ato- mi di questa, appena rimasta priva del suo coibente.
Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più poteva
apparire ad alcuno non del tutto in contrasto — come la precedente — con
la dottrina epicurea ; l'ipotesi cioè di un possibile ricrearsi materialmente
identico del nostro essere, anima e corpo. Anche in -questo caso
però la morte non ci riguarderebbe affatto per l' interruzione
della coscienza personale fra le due esistenze. E tale ipo- tesi appunto
il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in questo modo : [Giussani
crede di poter sostenere che l'ipotesi, per quanto strana, non è però in
contraddizione assoluta — in astratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue
ragioni non sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia
formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina d'
Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi- stenza del
sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal corpo, se per
lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori del corpo che la
tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata l'inverosimile ipotesi
? Forse unicamente come ipotesi di transizio- ne alla successiva; se pure
non si tratta qui di un'argomentazione per absurdum. 845
iVec, si materiem nostram collegerit aetas post ohitum rursumque
redegerit ut sita nunc est, atque iterum nobis fuerint data lumina
vitac, pertineat quiequam tamen ad nos id quoque factum, interrupta
semel cum, sit repetentia nostri; 850 et nune nil ad nos de nobis
attinet, ante qui fuimus, neque iain de illis nos adficit
angor, nam cum respicias immensi temporis omne praeteritum
spatium,, tum. motus m,ateriai multimodis quam sint, facile hoc adcredere
possis, 855 semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta
haee eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse : nee m,emori
tamen id quimus reprehendere mente : inter enim iectast vitai pausa,
vageque deerrarunt passim m,otus ab sensibus omnes. Ora a
prima . vista questa ipotesi potrebbe apparire identica a quella già
formulata nei versi 668-676, dove si fa pur cenno della interruzione
della coscienza. Tanto che si è voluto da alcuno vedere in questi versi
un'allu- sione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano che
nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la medesima anima rivivessero
insieme (1) e ciò dipendentemente dalla dottrina della palingenesi
universale che era propria dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità
qui non si tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si
parla del rinascere della medesima anima in nuovi corpi, e nella dottrina
dei Genetliaci si parla del ricongiungersi dell'identica anima e
dell'identico corpo (nell' un caso e neir altro però 1' anima non ha mai
perduto la sua perso- nalità), qui invece si considera il caso di una
duplice (1) Il primo a pensar questo è stato l'editore
inglese di Lucre- zio, il Munro, il quale cita il passo di S. Agostino
{De civ. Dei XXII, 28) che ho già riportato al principio del Gap.
III. creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi, cioè si
considera la possibilità della rinascita d' un iden- tico aggregato
atomico corporeo-psichico nel rispetto della teoria epicurea. Che poi ciò
fosse legittimo e logico è un'altra quistione (1); ma sta di fatto che
Lucrezio for- mula r ipotesi secondo la logica del sistema di
Epicuro. 7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo
ve- duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi- nioni
intorno all'anima: 1*) che essa non esiste a so, ma risulta dall' armonia
delle funzioni organiche (teoria di Aristosseno e Dicearco); 2*) che essa
nasce e si distrug- ge col corpo, ma ha una propria ubicazione
nell'organi- smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi
(moto, caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu-
rea); 3*) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade, donde può
uscire per apparire agli uomini (credenza popolare); 4^) che essa, non
solo sopravvive al corpo, ma è preesistita ad esso e può incarnarsi più
volte. E abbia- mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale
abbia- mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in modi
diversi: a) l'anima immortale passa attraverso mol- teplici esistenze,
cambiando specie animale (teoria egiziana); h) l'anima immortale passa
attraverso molteplici esistenze, ma entro i limiti della propria specie e
conservando la propria identità personale (teoria
pitagorica-platonica-stoica); e) l'anima può bensì rinascere, magari
nell'identico corpo. [L'ha posta con molta sottigliezza
Giussani. Ma si veda anche quello che osserva in prop9SÌto Pascal nel suo saggio
“Morte e resurrezione in Lucrezio” Riv. di Filologia classica, ristam-
pato nel volume Oraecia capta, pag. 67 e seguenti. senza però conservare
la propria identità personale (ipo- tesi (1) epicurea-lucreziana).
La teoria b poi alla sua volta fu diversamente svilup- pata, poiché
vi era chi sosteneva che l' anima potesse bensì reincarnarsi, ma in corpi
sempre nuovi; chi invece che si reincarnasse nel medesimo corpo, e ciò in
atti- nenza a una dottrina più generale, anzi universale, se- condo
la quale non pur l' anima e il corpo umano anda- vano soggetti a
periodici ritorni alla vita, ma tutto l'uni- verso si distruggeva e si
ricreava perfettamente identico (pitagorici, stoici e genetliaci).
Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza nell'Ade o
Averne come luogo di espiazione, poiché, se anche l'anima riviveva,
scendeva all' Ade un suo doppio (eidolon, simulacrum) che poteva anche
riuscirne (e ve- rosimilmente si distruggeva nell'atto che l'anima
tornava a nuova vita terrena) (Ennio). Quanto alla teoria
pitagorica in particolare, abbiamo veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza,
in due luoghi: 1**) nel proemio del primo libro (vv. 112-126) ; 2")
nella confutazione dell'ipotesi della preesistenza dell'anima nel
terzo libro; e che non debbono ritenersi affatto come riferi- menti a
Pitagora né il cenno alla dottrina dell' anima- armonia (e. Ili, vv. 98-135)
né l'ipotesi della rinascita, come è formulata nei vv. 845-859 dello
stesso libro. (1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di
Epicuro ; che, in so- stanza, Lucrezio la formula come tale, per potere
opporre l' argo- mento per lui capitale della interruzione della coscienza
anche a coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina,
avessero potuto pensare ad una eventuale rinascita dell' anima col
medesi- mo corpo. Veri e propri trattati d' indole pitagorica
sappiamo con certezza che compose VARRONE, di Rieti. Eruditissimo in ogni campo
della filosofia, e, appunto per questo, incaricato da Giulio Cesare di
mettere insieme ed ordinare in Roma una grande biblioteca, specialmente di
opere latine. Ciò che gli diede agio di allargare e approfondire ancor
più le sue conoscenze enciclopediche, delle quali si valse
per comporre innumerevoli opere, trattando dei più svariati
argomenti, occupandosi d' ogni genere di ricerche, raccogliendo con cura
particolare tutte le tradizioni sacre e profane della patria, e dettando
pure a quel che ci ha lasciato scritto Quintiliano, un' opera filosofica
in versi {praecepta sapientiae versibus tradidit). Della sua
prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere letterarie,
storiche, filosofiche, scientifiche — si ricordano di lui non meno di 74
opere in CCCCCCXX libri — non ci restano purtroppo che scarsi avanzi (poco più
di IX libri) e numerose citazioni che da Varrone attinsero largamente
notizie d' ogni sorta. Sì che siamo quasi all'oscuro sul contenuto della
maggior parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena
appena il titolo. Così dei suoi famosi “Logistorici” che sono in LXXVI libri, e
contenevano discussioni di argomento filosofico con miscela di notizie
storiche, conosciamo i titoli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o
meno largamente di filosofia pitagorica. Tali sono: “Atticus sive de numeris”,
“Tubero sive de origine humana,” “Gallus de admirandis,” “De saeculis” ed altro
de philosophia; ma quale ne fosse precisamente il contenuto non sappiamo. Così,
d' altra parte, ci è rimasta notizia d' un' opera in IX libri “de
principiis numerorum”, la quale, messa accanto sìi Attico già citato e
alla testimonianza [intorno a Varrone si veda l'opera di
Boissier, Etude sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri
Antiquitatum rerum divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti lo
studio dall' Agahd nei JahrhUcher f. class. Philologie^ 24*©^ Supplement-
band I Heft, Leipzig, 1di Gellio (Notti Attiche), che riferisce come
Varrone tratta in maniera oltremodo compiuta del numero settenario – “Varrò
de numero septenario scripsit admodum conquisite” -- prova che il grande
reatino dovette conoscere profondamente la teoria pitagorica e
specialmente la dottrina fondamentale dei numeri. È veramente un peccato che di
tali opere non resti quasi nulla, giacché da esse, avremmo forse
potuto trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina,
che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica di Pitagora.
Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto, vale a dimostrarci che larghe
e geniali applicazioni potè avere per opera del Maestro e dei suoi
seguaci la teoria stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili
scoperte nel campo delle scienze sperimentali. Poiché le
investigazioni matematiche dei Pitagorici non furono soltanto rivolte alla
ricerca delle proprietà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell'
aritmetica e della geometria, trovarono le più nuove e piìi larghe
applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni naturali. Una
delle prime e forse la più importante scoperta di Pitagora fu dovuta a
una di quelle felici intuizioni che, in ogni tempo, sono state il
privilegio del genio; intendo parlare della determinazione matematica
degli accordi, che poi dalla musica, applicata a particolari fatti della
natura, [Kathgeber (“Grossgriechenland und Pythagoras” (Gotha)
scrive. “Dem M. Terentius VARRO AUSS REATO, der aufgeklàrt iiber
Pyihagoras war, bot sein Werk hobdomades Gelegenheit zur Erwàhnung dar.” portò
a molte curiose osservazioni come quelle che riguardano le due diverse specie
di parto (a termine e settimino), e, applicata all' astronomia, portò
alla teorica dell' armonia delle sfere e alla concezione dell'
universo come di un tutto perfettamente armonico (kósmos). h)
Fu un caso che fece volgere la mente speculativa di Pitagora alla ricerca
della teoria matematica degli accordi musicali, la cui determinazione, prima di
lui, era affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Passando
un giorno per istrada accanìo a due fabbri che martellavano
alternatamente un ferro sopra l' incudine, Varrone e colpito dai suoni
cadenzati e armonici dei martelli : quelli acuti dell' uno rispondevano così
giustamente a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente
nel suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo. Varrone
ha così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno al quale già da
qualche tempo lavora col pensiero, e non si lascia sfuggire 1' occasione
per chiarirlo. Avvicinatosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro
e nota i suoni che sono prodotti dai colpi di ciascuno. Credendo
che la loro diversità di tono dipende dalla diversa forza degli operai,
fa che essi si scambino i martelli e si accorge che invece essa dipende da
questi. Allora volge tutta la sua attenzione a determinare con
esattezza i due pesi e la loro differenza, poi fa fare altri martelli più
o meno pesanti di quei due. Ma dai loro colpi nasceno suoni diversi da
quei primi e per di più non intonati. In tal modo, capì che
l'accordo dei suoni nasce da un determinato rapporto matematico dei pesi,
che cerca subito di calcolare. Trovati che ha tutti i numeri che corrispondeno
ai pesi dai quali nasceno suoni intonati, passa dai martelli alle corde
musicali. Prende alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale
grossezza e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi proporzionati
a quelli di cui fa il computo e determinato il rapporto coi martelli. Fattele
risuonare per mezzo della percussione, non solo trova che le corde
tese da pesi uguali vibrano all'unisono al vibrare di una sola di
esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente dalle corde i cui
pesi stavano in rapporto di III:IV 3:4 ( 5tà xeaaàptóv o èrul xpiTov o
supe?^ tertium), di 2 : 3 II:III (5tà
Tcévxe) e di 2:4 II:IV (5tà Traawv). Per averne poi un'altra
riprova, ripetè r esperienza con alcuni flauti. In questo modo: ne
fa preparare quattro di calibro uguale, ma di lunghezza diversa, il I,
poniamo, lungo VI pollici, il II, VIII il III, IX e il IV, XII. Poi
facendoli sonare a due a due trova che il primo e il secondo
armonizzavano in accordo diatessdron (6 : 8 =: 3 : 4) – VI:VII::III:IV;
il primo e il terzo in accordo diapènte (6 : 9 = 2 : 3) – VI:IX::II:III e
il primo e il quarto in accordo diapason ( 6 : 12 ^=i 2:4) –
VI:XII::II:IV. In tal modo Varrone riusce molto genialmente alla
determinazione matematica degl’accordi, ciò che permise in seguito di
estendere e perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo conduce
alla scoperta non è molto dissimile da quello per il quale il Galilei,
dall'osservazione dei movimenti d'una lampada in chiesa, fu tratto a
investigare e scoprire le leggi della oscillazione del pendolo o da
quello in virtù del quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò
a scoprire le leggi della gravitazione universale. Tanto è
[Vedasi la narrazione, desunta da scritti varroniani, in Ma-
cROBio, Gomm. ad Somnium Scipionis, II, 1, 9 e Censorino, de die natali
10,7. vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre
partito dalle cose e dai fatti più semplici ! -- E una volta
messosi su questa via, che mirabile serie di investigazioni non seppe
escogitare quella profonda mente speculativa, che, dall'osservazione dì
due fabbri all'incudine arriva non pure alle leggi dell'armonia
musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto l’universo! Poiché
applicando i suoi calcoli al corso e alle distanze degli astri e dei
pianeti vaganti fra il cielo e la terra — dai quali, secondo lui, era
regolato il corso della vita e degli eventi umani — trova che essi
avevano un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e
suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accordo, da formare una
dolcissima armonia, non però percepibile da orecchio umano, per la sua forza
che supera la facoltà del nostro udito. Calcolate infatti le
distanze dalla terra a ciascun pianeta in stadi italici di 625 – CCCCCCXXV piedi,
trovò che dalla terra alla luna ci sono circa 126000 stadi ; e questo
rappresenta per lui r intervallo di un tono. Dalla Luna a Mercurio (Stilbon)
calcola una distanza uguale alla metà, ossia un semitone. Di qui a
Venere, altrettanto; da Venere fino al Sole, tre volte tanto, come a dire
un tono e mezzo. Il sole quindi distava, secondo Varrone, dalla terra tre
toni e mezzo, formando così con essa un accordo diapente e dalla luna
due toni e mezzo, formando un accordo diatessdron. Dal sole poi a Marte
(Pyrois) stima esserci eguale distanza che dalla terra alla luna, ossia un tono.
Di qui a Giove (Phaeton), la metà, ossia un semitone. Da Giove a Saturno,
altrettanto, cioè ancora un semitone. Di qui finalmente al cielo delle
stelle fisse, press' a poco un mezzo tono. E però da questo cielo al sole
pone un [FIRMAMENTO Orbita
di Orbita Saturno Giove Marte e- 3 Q. ooII» HK> •Wi■O-SOLE Venehe
Mercurio Luna ©■ •0 Wi
TJSKBà, d> >
3 Q. •« O o tt)
•0 u cs i) >
»3 o 8 ti •0 u e ^ 7. —] intervallo
diatessdron (di due toni e mezzo), e dallo stesso cielo alla Terra un
intervallo in accordo diapason (di sei toni) [Per queste osservazioni e scoperte è ben
naturale che Pitagora dove convincersi che nell' universo tutto è
regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di fortuito, di
tumultuario, ma tutto procede da leggi divine e da una determinata e
determinabile proporzione. Sicché dalla musica e dall' astronomia passando, per
esempio, ' alla tisiologia, trova nel decórso del puerperio ancora
una riprova della regolarità matematica dei fenomeni naturali. Orbene, la
curiosa applicazione che Pitagora fa della dottrina dei numeri al più complesso
e meraviglioso dei processi fisiologici, cioè alla generazione, e appunto
spiegata in una delle opere varroniane ricordate (“Tubero seu de origine humana”). Queir
acuto e profondo osservatore infatti avendo studiato accuratamente il decorso
delle due diverse specie di parto, l'uno di sette – settimino) e Y altro
di dieci mesi lunari (a termine) che avvengono rispettivamente 210
e 274 giorni dopo la concezione, e avendo determinato i. numeri
corrispondenti ai giorni nei quali, per ognuno dei due parti, si compiono
i mutamenti più importanti — del seme in sangue, del sangue in carne,
della carne in forma umana — trova che il parto settimino è in rapporto
col numero VI e quello a termine col numero VII; non solo, ma che i
nùmeri suddetti, tanto nell' uno quanto nell'altro, si trovano nello stesso
rapporto degli accordi musicali. Ed ecco in qual modo. [Censorino,
de die natali, cap. 13. (2) Maorobio, Oomm. in Somnium Soip. Il, U,
7 e 4, 14. Nel parto di VII mesi, per i primi sei giorni dopo la
fecondazione, l’umore che è contenuto nell' utero è di aspetto
lattiginoso. Nei successivi VIII giorni è di aspetto sanguigno. Il
rapporto fra VI e VIII è, come abbiamo veduto più volte, quello
precisamente che forma accordo diatessd- ron (6:8 = 3:4). –
VI:VIII::III:IV -- Nel terzo stadio si hanno IX giorni, in cui comincia
la trasformazione dell' umore sanguigno in carne : e il IX col VI forma
il secondo accordo diapènte (6:9 = 2: 3) – VI:IX::II:III ; finalmente nei
XII giorni seguenti si ottiene il corpo già formato : e il rapporto di XII con VI
forma il terzo accordo diapason (6 : 12 .^r: 1 : 2). VI:XII::I:II. Questi
quattro numeri 6, 8, 9, 12 – VI VII IX XII sommati insieme formano 35 XXXV
giorni, i quali moltiplicati per 6 VI danno appunto il nu- mero totale
dei giorni, di durata della gestazione, ossia 210. CCX -- Nel parto a
termine invece, con analogo ragionamento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9
1/3, 10 1/2, 14, -- VII IX XII X XII XIV che sommati insieme danno 40 XL e
una frazione; 40 XL moltiplicato per 7 VI dà 280 CCLXXX, da cui detraendo
6 VI si ha 274 CCLXXIV. Vale a dire che nel parto di dieci X mesi iL
mutamento del seme in umore latteo avviene in sette VII giorni
anziché in sei VI, e la formazione del corpo è già avvenuta dopo 40
XC giorni interi, che moltiplicati per 7 VII danno 280 CCLXXX, cioè
quaranta XL settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo I giorno
dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei XV giorni, onde ne
restano 274 CCLXXIV Tanto il 210 CCX che il 274 CCLXXIV sono veramente due
numeri pari, laddove Pitagora dava speciale importanza al numero dispari,
tanto da ritenere — in virtii delle sue molteplici osservazioni — che
tutto è regolato da esso (1) : ciò non pertanto, osserva Censorino
(1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5 ; Solino, I, 39 ; Servio, ad Bmol.
Vili, 75. che riporta tutto questo passo Varroniano, egli non
era qui in contraddizione con se stesso, perchè i due dispari 209 CCIX e 273 CCLXXIII sono bensì compiuti, ma
non si compie ne il 210 CCX né il 274 CCLXXIV giorno in cui il parto
avviene; in conformità precisamente di quanto ha fatto la natura sia riguardo
alla durata dell' anno (365 CCCLXV giorni più una frazione) che a quella
del mese (29 XXIX giorni più una frazione.
Non è il caso di entrare qui in merito al valore intrinseco e alla
veracità di siffatte osservazioni. Poiché anche se errori vi sono, bisogna
naturalmente tener conto da un lato della diversità dei mezzi d'indagine
e di esperimento da oggi al tempo di Varrone, e pensare dall' altro
che molte delle applicazioni della teoria dei numeri non dovettero neppure
essere l' opera diretta di Pitagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi
seguaci. In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si è ve-
duto sin qui che le speculazióni stesse non rimanevano campate nell'aria
e nelle nebulosità della metafisica, ma trovavano la loro base e la loro
ragion d' essere nell' os- servazione scientifica dei fatti naturali; sì
che fu indub- biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello
di aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione dei
tempi, non fu merito piccolo. f) Se la teoria dei numeri trovava
così mirabili ri- scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben
naturale che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica degli
uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi- steri e alle profonde
verità del Pitagorismo. Ond' é, per esempio, che un'altra testimonianza
varroniana ci ricorda (l) Censorino, de die natali 9 e 11.
Si confronti con questo il passo di Gellio, Notti attiche, III, 10,
7. la particolare considerazione in cui erano tenuti i così
detti numeri cubici, ai punto che persino nello scrivere i Pitagorici ne
tenevano conto scrupolosamente badan- do di comporre in una sola volta
216 righe o versi (216i=r 6 X 6 X 6) e non mai piìi di tre volte tanto! Ora
questo è uno di quei particolari che, presi a se, prestano facilmente il
fianco al riso e alla satira; ma in verità se noi non possiamo spiegarci
la cosa in modo ra- gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non
conosciamo tutto il complesso della dottrina e della vita pitagorica
; poiché è ben possibile che pratiche di questo genere rientrassero nell'
ambito del sistema per puro amor dell' ordi- ne e doll'euritmia, al solo
scopo di far sottostare a una certa regola anche gli atti minimi e più
insignificanti della vita ; se pure non si tratta, qui e in altri casi,
di esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi
insegnamenti del Maestro. Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte
quisquilie, è ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla
— quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di Pitagora,
e come egli medesimo se ne dilettasse al punto, che ogni sera prima di
addormentarsi e ogni mattina al suo svegliarsi cantava, accompagnandosi
con la cetra, per meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini. Oltre
a queste notizie, che io, valendomi delle indagini già fatte da altri
(3), ho cercato di esporre si- [ViTRirvio, De arehiteetura V pr. p.
104, 1. (2) Censorino, de die natali 12, 4. (3) Si veda
nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pytha- goreae doctrinae
adumbratione (Giyphiswadensiae) l'appendice a pagina 76 « Varronis
Pythagoreae doctrinae frag-menta continens ».]
stematicamente raggruppandole intorno alla dottrina dei numeri,
altre se ne trovavano nelle opere di Varrone, intorno alla vita di
Pitagora, intorno alla sua scuola e ai suoi seguaci e intorno ai
principii del suo sistema. Così Varrone pone 1' esistenza di
Pitagora al tempo di Tarquinio Prisco e quindi implicitamente non accetta
la tradizione che Numa e suo scolaro a Crotone. Anch'egli attribuiva a
Pitagora il merito di essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante
del sapere, e ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire : già a
questo 1' uso di pratiche magiche per indovinare il futuro ; come pure
accennava altrove alla sua andata a Turio (Sibari) nella Calabria. E
Agostino ci ha conservato un altro passo nel quale Varrone, da vero
romano, esprime la sua ammirazione perchè 1' ultima cosa che Pitagora
insegna ai suoi discepoli, quando già fossero perfetti, sapienti e
felici, era quella del governare la cosa pubblica. Appartiene al libro
quinto dell' opera intorno alla lingua latina un brano in cui Varrone afferma
che Pitagora insegnava « due essere i principii d' ogni cosa, come finito
e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e notte. E quindi parimenti
due i modi di essere : stato e moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo;
il dove si muove, spazio; il quando si muove, tempo ; ciò che « vi è
nel movimento, azione; e avvenire appunto perciò « che quasi tutte le
cose siano quadripartite ed eterne, poiché ne paò mai esservi stato tempo
se non prece- [S. Agostino, de civitate dei XYIII, 25.
(2) Ibidem, XYIII, 37 e YIII, 4; Tertulliano, dean. 28; Apol. 46.
(3) S. ìlggstino, de ordine II, 20, 54. « duto da moto, — se
tempo è appunto l' intervallo fra « un moto e l' altro — ; né moto senza
spazio e senza « corpo, perchè l'uno (il corpo) è ciò che si muove
e <^ r altro (lo spazio) il dove; né può mancare l'azione dove «
e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio « e corpo, tempo
e azione ». Altrove ci ricorda Varrone un altro pensiero fondamentale di
Pitagora, assunto poi pili tardi da Aristotile, quello cioè che
l'esistenza degli animali e però anche dell'uomo non ha mai avuto
principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti. E parimenti faceva
risalire a lui quella teoria dei quattro elementi (terra, acqua, aria ed
etere o fuoco) che comu- nemente si suole invece attribuire ad Empedocle
di Gir- genti, vissuto un secolo dopo. Non manca neppure nelle
opere varroniane qualche accenno alla teoria pita- [Varrone,
de Lingua Latina, -- Pythagoras Samius
ait omnium rerum initia esse hina ut finitum et infinitum^ honum et
malum^ vitam et mortem., diem et noctem. Quare item duo, status et m,otus
: quod stat aut agitatur, corpus ; uhi agitatur locus; dum. agitatur,
tempus; quod est in agitatu, aetio; quare fit^ ut ideo fere omnia sint
quadripartita et ea aeterna, quod nc- que unquam tempus quin fuerit
motus, eius enim intervallum tempus; ncque motus ubi non locus et corpus,
quod alter um est quod moveiur, alterum uhi; ncque uhi agitatur, non
actio ihi; igitur initiorutn quadrigae : locus et corpus, tempus et actio
». Varrone, de re rustica, Sive enim aliquod fuit prin-
cipium generandi animalium, ut putavii Thales Milesius et Zeno Gittieus ;
sive cantra principium horum exstitit nullum, ut credidii Pythagoras Samius et
Aristoteles Stagirites\ necesse est humanae vitae a summa memoria gradatine
descendisse » . Cfr. CenSORINO, de die natali, IV, 3. ViTRUVio, de
architectitra, V, 1 ; Servio, ad Aeneid. VI, 724; ad Geòrgie IV, 2l9;
Ovidio, Metamorfosi, XV, 237 e seg. E cfr. Diogene Laerzio, VIII,
25. gorica deir eternità dell' anima e alla sua dottrina
della metempsicosi, a conferma della quale ricorda persino le sue vite
anteriori, essendo stato prima un certo Etalide, poi Euforbo, poi il
pescatore Pirro e finalmente Ermotimo. Altrove ancora Varrone accenna
alle pratiche di evocazioni dei morti, che del resto erano largamente usate
neir antichità, come dimostra, fra le altre, la rappresentazione di una
scena di necromanzia dipinta in un monumento cretese, scoperto da poco,
che risale ai tempo pre-omerico della così detta civiltà micenea o
minoica. È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non manca di
parlare del famoso divieto pitagorico di mangiar fave, connesso con la credenza
nella metempsicosi e con la concezione che Pitagora ebbe della vita
post-mortale Symmaghus, Ep. I, 4.
(2) Vabro, Sat. Menipp.^ ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello, p.
121, 26); Tertulliano, de mi. 27 e 34; ad nat. I, 19; Ago- stino, de cìv.
dei 18, 45; Scholia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13. (3) Tertulliano,
de an. 28, 31 e 34; Sant'A&ostino, Trinit. XII, 24. (4)
Sant'Agostino, de civ. dei VII, 35 « Quod genus divinatiònis idem Varrò e
Persis dicit allatum, quo et ipsum Numam, et postea Pythagoram
philosophum usum fuisse commemorai ; ubi adhihito sanguine etìam inferos
perhibet sciseitari et nekyoman- teian graeee dicit vocari » . Quanto
alle rappresentazioni di scene di necromanzia si veda, per esempio,
Drerup, Omero (Bergamo I9l0) a p. 176 e relativa tavola a colori; e si
ricordi la famosa Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea.
(5) Tertulliano, Apol. 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist.
XVIII, 118, XXXV, 160. Tali a un di presso le notizie di contenuto
pitagorico, che si possono far risalire a Varrone. Data l'esiguità delle
opere superstiti e la varietà degli autori da cui sono raccolte, esse sono
slegate e frammentarie, ma tali però da farci ancora una volta
rimpiangere la perdita quasi totale dell' enciclopedia varroniana, con la
quale si è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie
utili e importanti per la storia del Pitagorismo nell'antichità classica.
Ma poiché dei materiale già sistematicamente raccolto da Varrone,
come delle sue speculazioni e delle sue ricerche storico-filosofiche debbono
essersi serviti non poco i filosofi contemporanei o che vissero poco dopo
di lui, così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo rimane nelle
opere di altri filosofi di questo tempo, potremo ricostruire e svolgere qualche
altro punto della dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della
conoscenza che ne ebbero i contemporanei di Giulio Cesare e d’Ottaviano.
Fra gli amici dVarrone è degno di essere ricordato queir APPIO CLAUDIO
FULCRO, del quale sappiamo che e augure, pretore, console, censore,
governatore della Cilicia e legato in rapporti di amicizia anche con Cicerone,
di cui ci restano diverse lettere a lui indirizzate. Convinto
che la scienza augurale avesse il suo fondamento non già nel desiderio o nel
bisogno di giovare anche con 1' ausilio potentissimo della religione agii
interessi dello stato romano — come la pensa l' altro grande augure GAIO
CLAUDIO MARCELLO — ma che realmente e un dono concesso dal divino agli
uomini, perchè questi sono in grado di meglio intendere la loro volontà e
di regolare, uniformandosi a questa, la propria condotta, era solito far
sortilegi, oroscopi, evocazioni di morti. Ne più né meno di quello che,
secondo la tradizione fa Numa, il
filosofo Ferecide di Siro, il suo discepolo Pitagora, e Platone. Questa
convinzione , suffragata dalle dette pratiche della divinazione
artificiale cui era dedito, dove appunto indurre Appio a scrivere
quei suo “Liber auguralis,” forse di carattere polemico, che dedica all'
amico Cicerone, lì quale fra l’interpretazione utilitaria e razionalistica di
quelli che la pensa come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pensano
come Appio Claudio, ha un'opinione intermedia, in questo senso : che cioè
una vera e propria scienza e arte augurale e già esistita in antico, ma
che di essa però non e più depositario, al tempo suo, il collegio
degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per l’abbandono e la
negligenza in cui s' era lasciata, era, (1) CicEBONE, de
divìnatione, L. II, 13, 32 : « sed est in conlegio vestro inter Marcellum
et Appiutn, optimos augures, ynagna dissensio fnam eorum ego in libros incidi,
quom alteri plaeeat auspieia ista ad utilitatem esse reipublicae
composita, alteri disciplina vestra quasi divinare mdeatur posse » .
(2) CiCEE., Tusculane, 1. I, 16, 37 : < inde ea, quae meus
amicus Appius nekyomanteia faciebat ». Cfr. de divinat. I, 10, 30 ;
58, 132. (3) Si cedano in S. Agostino, Città di Dio, l. VII,
i capitoli 34 e 35. (4) CioEE., Tuscul, I, 16, 38 j 17,
39. (5) CicER., Ad familiares, 3, 4, 1 ; 9, 3, 11, 4 ; Varrone,
R. R. 3, 2f 2.] secondo lui, svanita. Dichiarazione questa, che
per essere fatta da un augure di tanta autorità, non è certo di
lieve momento. Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi
nella ricerca di quel che e proprio questa ra antica, come la
chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ha nella vita degl’Elioni e
degli antichi Italici. Ma questa trattazione mi porterebbe troppo lontano
dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto ricerche abbastanza
ampie, se non proprio in tutto soddisfacenti ed esaurienti, sono già state
fatte in proposito. Basti dire pertanto che la mantica o arte divinatoria
si esercita in forme e modi diversi — con l’osservazione del volo
degli uccelli in un punto determinato del cielo detto “templum” -- onde
trasse origine la parola “contemplazione”), con 1' esame dei visceri (cuore,
polmone, fegato) di animali sacrificati a questo scopo (“hostiae
consultatoriae”) con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con la
considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, fulmine, ecc.), cogli
oracoli, coi pubblici e privati carmi profetici - ; e che era pure
praticata da Pitagora, il quale vi annette anzi un particolarissimo
valore, tanto da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il
che (1) CicER., de legìbus 1. II, 13, 33 ; « Sed dubium non
est, quin haec disciplina et ars auguruni evanuerit jam et
vetustate et neglegentia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui
negai unquam in nostro conlegio fuisse, neque UH ;cioè Appio) qui
esse etiam nunc putat ». Cfr. de divinai. 11^ 33, 70. (2) Si
vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del Bochsenschììtz, Sogni e
cabala nelV antichità, Berlinoe del Cak- TANi-LovATELLi, Sogni e
ipnotismo nelV antichità, Roma 1889. (3i CiCEBONE, de divinatione,
L. I, 3, 5 « .... huic rei (cioè alla divinazione) magnani auctoritatem
Pythagoras,.. tribuit, qui no
naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche prova di
virtù profetica ; e, secondo la tradizione, egli ne diede infatti non
poche. Altro amicissimo di Varrone e, come è noto, Cicerone. Negli
scritti che in gran numero ci restano di CICERONE frequentissimi sono gli
accenni a Pitagora, alla sua scuola e alla sua filosofia ; non però tali
da farci pensare a una elaborazione personale e originale, o all'
approfondimento di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come e
di un eclettismo che sta fra l’Accademia e il Portico, iniziato ai misteri
religiosi, augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore
della filosofia, della quale si fece divulgatore, creando quasi ex novo per
essi, dopo il mirabile tentativo poetico di Lucrezio, la lingua
filosofica, autore anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso
di arte, tratta dei più svariati argomenti sì metasifici che
morali, Cicerone ha senza dubbio una conoscenza abbastanza larga dell'antica
filosofia italica, l'unica forse che ha già avuto in Roma insigni
divulgatori e seguaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori
come Nigidio. È anche indubitato che molto gli giovarono per
tale conoscenza — oltre che 1' assiduo studio dei filosofi l’amicizia di
Varrone e dello stesso Nigidio Figulo, e la lettura dei loro scritti. Ma
non per etiam ipse augur vellet esse ». Cfr. I, 39, 87 ed
anche 45, 102 : « Neq^ue solum deorum voces Pythagoreì observitaverunt,
sed etiam hominum, quae vocant omina » . questo possiamo dire che
i'Arpinate fa particolari studi intorno a quel sistema di dottrine, che,
se collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni per-
sonali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute, si prestavano
assai meno delle posteriori e piìi note filo- sofie ad essere facilmente
comprese dai profani e divulgate artisticamente. 3. — In ogni
modo, volendo raccogliere dalle sue opere le notizie che si riferiscono a
Pitagora e alla sua scuola, dovrei prendere le mosse da quel passo delle
Tuscolane in cui Cicerone parla delle dottrine pitagoriche, della loro
diffusione in Italia e delle tracce che esse lasciarono nelle istituzioni
e nella LEGGE dì Roma. Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che e discepolo
di Ferecide, specialmente per la sua dottrina suir eternità dell' anima,
in quanto egli insegna l’esistenza di un' anima universale, compenetrante tutta
la natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la derivazione da essa
di ogni anima umana. E per ciò che riguarda la natura di questa, Cicerone
stesso accetta la distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone
— (1) De divinatione, I, 50, 112 ; Tusculane I, 16, 38: «
Pherecides Syrius primuìn dixit anìmos esse hominum sempiternos. ..
Rane opìnionem discipulus Pytkagoras ìnaxime confirmavit ».
(2) De natura deorum, I, 11, 27 : « Pytkagoras censuìt ani- mum
esse per naturatn rerum omnem intentum et eonmeantem, ex quo nostri animi
earperentur ». De seneetute 21, 78 : « Au- dieham, Pythagoram
Pythagoreosque numquam dubitasse, quin ex universa mente divina
delibatos animos haberemus ».] dell' anima in due parti, l’una ragionevole, in
cui questi filosofi poneno la tranquillità, cioè una placida immutabile
costanza, e l’altra irragionevole, onde traevano origine i moti torbidi
sì dell' ira come del desiderio. Per la quale credenza l’uno e l'altro ammisero
la possibilità di accrescere le forze conoscitive dello spirito,
specialmente nel sonno, quando a questo l' uomo si fosse disposto
opportunamente con particolare dieta e con una meditazione preparatoria;
e credettero nella divinazione, al punto che Pitagora pretende di essere
egli stesso profeta. Cicerone seppe anche dei viaggi di quest' ultimo
nelle terre più lontane (3), del suo colloquio con Leonte, il capo dei
Fliasii, in cui per la prima volta si chiamò filosofo (4), della
successiva venuta in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio
d'un (1 ) Tusculane, IV, 5, lO : « Veterem illarti equidem
Pytkagorae pri/num, dein Platonis diseriptionem sequar, qui anlìnum
in duas partes dividunty alter ani rationis participem f aduni y
alte- rani expertem ; in participe rationis ponunt tranquillitatemy
id est placidam quietarnque constantiam, in illa altera 'ruotus
turbi- dos cum irae, twìn cupiditatis, conirarios ìnimicosque rat ioni
». Cfr. libro I, 17, 39. (2) De divinatione, II, 58, 119: «
Pythagoras et Plato,., quo in somnis certiora videamus, praeparatos
quodam eultu atque victu proficisci ad dormiendum jubent ; faba quidem
Pythagorei utiqus abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur
». Sulle meditazioni serotino, ma di altro genere, vedasi De senectule
11, 38 : Pythagorii quid quoque die dixissent, audissent, egissent,
eommemorabant vesperì » ; e sulla astinenza dalle fave si con- fronti de
divinatione I, 30, 62 e II, 58, 119. (3) TuseuL, IV, 19, 44; 25,
55; de fìnibus V, 19, 50; 29, 87. (4) TuseuL, V, 3, 8 e segg. Cfr.
sopra e vedi Diogene Laerzio, Proemio, 12, che desume la notizia da un
libro di Eraclide pontioo. bue alle Muse per aver trovata la soluzione
d'un teorema, della sua dimora a Crotone e a Taormina in Sicilia,
della sua operosa vecchiezza, e infine della sua dimora e della morte a
Metaponto. Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto prin- cipio
autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello che ho
accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone ricorda la teoria dei
numeri (7), 1' armonia del mondo e il culto della musica (8), l'astinenza
dai sacrifìcii cruenti e il rispetto per gli animali, naturale e logica
conseguenza del concetto pitagorico della vita, il divieto del suicidio e
infine la bella concezione dell' amicizia, vera comunanza di spiriti e di
vita, che diede fra gli altri il mirabile e notissimo esempio di Damone e
Finzia; oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri
pitagorici. (1) De nat. deorum, III, 36, 88. La cosa per
altro non par cre- dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle
sacrificare una vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di
sangue un altare. E non ha torto. (2) De re publica II, 15,
28; ad Atticum IX, 19, 3. (3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita
Pythag . 122. (4) De senectute 7, 23. (5) De finibus V,
2, 4. (6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di
questo principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalizio
pitago- rico di Crotone » . (7) Tuscul., I, 10, 20 ; Acad.
pr. II, 37, 118 e Somnium Sei- pionis, 12 e 18. (8) De nat.
deor., Ili, 11, 28 ; Tuscul., Y, 39, 113. (,9) ibid.. Ili, 36, 88: de re
pubi., Ili, 11, 19. (10) De senect., 20, 73 ; prò Scauro, 4,
5. (11) De officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscul., Y,
23, 66. a2) Tuscul. Y, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus,
II, 24-79; Cfr. Porfirio, V. P. 59.] e cioè Filolao di
Crotone e il suo discepolo Archita di Taranto, Echecrate di Locri, Timeo
ed Acrione contemporanei di Platone. Di quest'ultimo poi egli dice
esplicitamente che, dopo la morte di Socrate, prima si reca in Egitto e
poi in Italia e in Sicilia per conoscere da vicino le verità scoperte
da Pitagora, e che stette molto con Archita e Timeo e potè
procurarsi i commentarli di Filolao (che esponeno per iscritto per la
prima volta le dottrine del maestro, fino allora trasmesse solo oralmente
e sotto il vincolo della segretezza) ; e poiché allora appunto era più
che mai celebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora, pratica con
Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, prediligendo egli Socrate
sopra ogni altro e volendo rappresentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse
insieme la piacevolezza e la sottigliezza socratica con 1' oscurità
del simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il
maestro in modo che, anche quando discuteva di morale e di politica, si
studia di mescolarvi i numeri, la geometria e r armonia, alla guisa di
Pitagora. Dal quale poi (1) De finibus, V, 29, 87.
(2) De re pubi., I, 10, 16 : < In Platonis libris multis locis
ita loquitur Socrates, ut etiam cum de moribus, de virtutibus denique de
republica disputet, numeros tamen et geometriam et harmoniam studeat
Pythagorae more eoniungere. Tum Scipio : Sunt ista, ut dtcis, sed audisse
te credo, Tubero^ Platonem, So- crate mortuo, primum in Aegyptum discendi
causa, post in Ita- liam et in Siciliani contendisse, ut Pythagorae
inventa perdisceret, eumque et cwrn Arehyta Tarentino et cum Timaeo Locro
multum, fuisse et Philolai commentarios esse nanctum, quunique eo
tem- pore in his locis Pythagorae nomen vigerci, illum se et
hominibus Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cum Socratem
uniee dilexisset eique omnia tribuere voluisset , leporem
Socraticum tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità
dell'anima, aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale. Un
complesso dunque di notizie, o meglio di accenni, superficiali e
sconnessi, che rappresentano press'a poco il grado di conoscenza che del
Pitagorismo hanno gli uomini colti dell'età di Cicerone. Ma vi è un'
opera di questo secondo scrittore, anzi un frammento della sua opera
"più importante, sul quale dobbiamo fermare un poco più
particolarmente la nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi
pitagorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione così famoso e di tanta importanza per la
storia della mistica, sia considerato in se stesso sia per i commenti che
ha; poiché intorno ad esso si affaticarono molti ingegni, da Macrobio e
da Eulogio, che ne fecero amplissima analisi, all'inglese Wynn Westcott,
che su Milìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et
cum illa flurimarum artium gravitate contexuit » . (1)
TuscuL, I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno- sceret, in
Italiam venisse et didleisse Pythagorea omnia primumque de animorum
aeternitate non solum sensisse idem quod Pytha- goram sed rationem etiam
attutisse » . Cfr. De amicitia, IV, 13 : « Neque enim adsentior iis, qui
nuper haec disserere coeperunt, cum corporibus simul animos interire
atque omnia m>orte deieri. Plus apud me antiquorum auctoritas valet,
vel nostrorum m>ajo- Tum.... vel eoriim, qui in hac terra fuerunt
magnamque Orae- ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat,
institutis et praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraeulo
sapien- tissimus est iudieatus, qui non tum hoc, tum illud, ut in
plerisque, sed idem semper, animos hominuvi esse divinos, iisque, cum
ex corpore excessissent, reditum in eoelum patere optimoque et iu~
stissimo cuique expeditissimum. Quod idem Scipioni videbatur » (2)
AuRELii Maceobii Ambrosii Theodosii V. ci. et inlustris Gom- Quentarius
ex Cicerone in Somnium Scipionis libri duo. - - Favonii EuLoan oratoris
almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipionis, scripta Superio y. e. cos.
Provinciae Bizacenae. non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione
dicendolo senz' altro, (non so però con quale fondamento che non sia una
semplice presunzione ipotetica) un fram- mento dei Misteri (1).
Mi preme tuttavia di mettere subito in chiaro che, affermando
pitagorico il contenuto di questo sogno, non voglio con ciò asserire né
che Cicerone e un seguace di quella filosofia, né che desumesse
direttamente le idee informative del sogno stesso da scritti pitagorici :
poiché so bene che studi fatti recentemente da valentissimi critici come
Gylden, Corssen, Pascal, hanno messo in chiaro che fonti ciceroniane per
la materia di esso furono o poterono essere Platone, Posidonio ed
Eratostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso tutti quasi
i concetti suesposti, che Cicerone stesso attribuiva a Pitagora e ai suoi
seguaci ; il che dimostra ancora una volta, se pur ve ne fosse bisogno,
che i filo- sofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno
all'altro molte delle idee e degli insegnamenti della scuola croto-
niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'esposizione di principi
filosofici già era venuta, agli albori della filosofia romana, a un
grande scrittore e poeta, pitagorico per giunta: voglio dire ENNIO.
(1) Somnium Seipionis. The vision of Scipio considered as a
fragment of the Mysteries, London, 1899. (2) Vestigia Platonis in
Gieeronis Somnio Scipioìiis, 1848. (3) De Posidonio Rhodio M. T.
Gieeronis in l. I Tuscul. disp. et in Somnio Seipionis auctore. Bonnae,
1878. (4) Di una fonte greca del « Somnium Seipionis » di
Cicerone, nei rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e
belle Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in « Oraecia Capta »,
Firenze, Le Monnier. Sicché possiamo ben dire pitagorica l' ispirazione
di questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto più che abbiamo
sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone, che opinione Pitagora e
i suoi avessero intorno al sonno e alle forze conoscitive dello spirito
nel riposo e nella quiete del corpo. Questo sogno, poi,
secondo le osservazioni di Macrobio, partecipa contemporaneamente di
tutte e tre le forme principali o profetiche dei fenomeni del sonno,
oracolo, visione e sogno: oracolo (oraculum =^ xpr^pta-ctafió?), in
quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio Emilio Paolo e il
padre adottivo Scipione Africano Maggiore, uomini venerandi, che avevano anche
coperto cariche sacerdotali, e gli predissero quello che egli avrebbe
fatto come generale e come magistrato e la sua morte; visione (visio =
Spajjta), in quanto durante il sonno parve all' Emiliano di essere
trasportato in cielo e più precisamente nella via lattea, dove avrebbe
poi dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità concessa dal
divino ai buoni reggitori degli Stati — e di lassù contemplare r universo e i
pianeti e la terra stessa divisa nelle sue cinque zone ; sogno
propriamente detto {som- nium 3= ovetpo?), perchè la profonda verità
delle cose a lui dette dalla grande anima di Scipione non puo
essere svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica. Tanto è
vero che il commento interpretativo di Macrobio è di gran lunga più
esteso che tutti i sei libri della Repubblica, e non meno lunga è la
dissertazione di Eulogio, che verte specialmente intorno alle qualità
mistiche dei numeri e alla musica delle stelle. (1) Macbobio, 1. I,
e. 3. Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini che -si
resero benemeriti della patria e mostrare quale premio, dopo la morte,
fosse dato alle loro virtù, quello cioè di ritornare alla loro patria
celeste, immaginò che uno degli interlocutori dei dialoghi intorno alla
Repubblica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narra agli altri
interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo tribuno in Africa, e
ospite del re Massinissa, grande amico di Scipione il Maggiore.
Uscita dal corpo durante il sonno, l’anima dell' Emiliano si trova
trasportata, a un tratto, nella via lattea, dove, giusta le credenze dei
Pitagorici, avevano loro sede le anime degl’eroi, tanto prima di scendere
in terra a vestirsi d' umana carne, come dopo aver fatto il loro
pellegrinaggio quaggiù. Ascoltata dall'Africano la predizione delle
sue imprese e della sua morte, che sarebbe avvenuta quando la sua
(1) Somnium 5, 13 : « Omnibus qui patriani conservaverint,
adiuverinty auxerint, certuni esse in caelo defìnitum locum, ubi
beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores
hinc profeeti huc revertuntur ». Al qual proposito osserva il Cors-
SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti a
proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui è detto che
le anime dei Proci guidate da Hermes « andavano alle porte del Sole e al
popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato degli asfodeli, dove abitano le
anime, ombre dei trapassati » scrisse Porfirio (àe antro ISiympharum, e. 28)
che il popolo dei sogni non sono altro che, secondo Pitagora, le anime
che dicono raccogliersi nel cerchio della via lattea. Poiché il prato
degli asfodeli i Pitago- rici appunto lo immaginarono in quel cerchio.
Anche Plutarco (de faeie in orbe lun., p. 943 G.) scrisse che le anime
dei buoni si indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla
del cielo che chiamavano prati dell' Ade. età avesse percorso « uno
spazio di otto volte sette giri e rivoluzioni del sole e questi due
numeri (ognuno dei quali, per ragioni proprie a ciascuno di essi, era
ritenuto perfetto) avessero compiuto col naturale succedersi degli
anni la somma a lui predestinata », e saputo — quasi a conforto del suo
triste destino — che egli pure sarebbe salito lassù, dove si trovava
anche suo padre Paolo, « dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli
altri che crediamo estinti ?» « E come ! gli risponde Scipione,
anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami corporei come da
un carcere siamo veramente vivi; la vostra, che si chiama vita, è morte
». E riveduta, con intensa commozione, 1'anima del padre, chiede ad
essa: « Perchè dunque, se questa è la vera vita, debbo indugiarmi e
vivere ancora sulla terra ? » « Perchè, gli viene risposto, se quel Dio a
cui appartiene tutto l'uni- verso non ti ha prima liberato dal carcere
corporeo, non ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli
uomini sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa il
centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo, originario di quei
fuochi eterni che chiamate costellazioni e stelle e che, di forma sferica
e circolare, animati da menti divine, fanno i loro giri e descrivono le
orbite loro con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gl’uomini pii
dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e non disertare,
contro la volontà di chi ve l'ha data, dalla vita d' uomini, perchè non
sembri che voi vogliate [Somnium 4, 12. Della pienezza o
perfezione dei due nume- ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli Y e
VI, adducendone partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le
teorie e le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio.\
sottrarvi al compito umano assegnatovi da Dio » . Perciò il padre lo esorta ad essere
giusto ed a coltivare la pietà, perchè così vivendo si aprirà la via per
ritornare al cielo fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora
separate dalla materia corporea, abitano la via lattea. Dalla quale poi
l' Emiliano contempla estatico lo spettacolo dell' universo stellato e il
roteare dei nove cerchi o meglio globi, di cui il pili esterno, che abbraccia
gli altri, è quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso divino
supremo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gli altri, cioè i cieli
di Saturno, di Giove, di Marte, del Sole, di Venere, di Mercurio, della
Luna, nel mezzo dei quali sta, immobile, la Terra. E mentre osserva i
cieli roteanti, ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella
cioè che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro percuotere neir
aria, onde si producono suoni acuti e gravi, che insieme formano i sette accordi
della lira: proprio secondo la dottrina pitagorica. L' ammirazione per la
grandezza e la novità delle cose che vede e ode non fa però che
Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano [Somnium,
7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del De seneetute (20, 73) dove è detto
esplicitamente che questo concetto è di Pi- tagora : « vetat Pythagoras
iniussu imperatoris, id est dei, de praesidio et statione vitae decedere
». (2) Somnium, 8, 16. (3) Tutta questa concezione
della terra immobile nel centro di un ambiente sferico, intorno al quale
s'aggirano col firmamento i sette cieli planetarii, è prettamente
pitagorica ; e tale fu pure, se- condo il Martini, la scoperta della
direzione del corso dei pianeti e della eclittica. Vedasi il Gìjnther,
Oeschichte der antiken Natur- wissenschaft in Miiller's Handbuch V,
1. (4) Somnium 10, 18-19. Cfr. Quintiliano, Insite, oratoria, I,
10, 12.] gliene mostra parte a parte i
circoli, le zone, le acque e conclude che essa è campo ben ristretto per
la gloria degli uomini : onde la vanità della gloria stessa, la
quale non può neppur durare lo spazio di uno solo dei grandi anni
mondani. « Se tu dunque, conchiude la grande anima, vorrai mirare in alto
e tenere volto lo sguardo a questa dimora eterna, non curarti dei
discorsi del volgo né porre la speranza delle tue azioni nei premi
degli uomini: bisogna che la virtù per sé stessa con le sue
blandizie ti tragga alla vera gloria » Esaltato dallo spettacolo delle
cose viste e dalle promesse, dalle predizioni, dai consigli uditi, Emiliano
promette di adoperarsi con tutta r anima per il bene della patria e 1'avo
lo conferma nel suo proposito dichiarandogli l’immortalità dell' anima. «
Ricordati che non tu, ma il tuo corpo è mortale ; e che tu non sei quello
che codesta forma corporea fa apparire. Ciascuno é ciò che é l'anima
sua, non quella parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che tu sei
divino; se divina è quella forza che anima, che sente, che ricorda, che
prevede, che regge e modera e muove questo corpo, a cui è preposta, così
come il sommo divino regge, modera, muove il mondo ; e come lo stesso divino
eterno muove il mondo per qualche rispetto mortale, così il fragile corpo
è mosso dall' animo sempiterno » Della
durata di circa 12000 anni' comuni, secondo le dottrine dei Genetliaci,
dei quali ho accennato nel capitolo terzo. (2) Somnium, 17,
25. (3) Somnium, 18, 26 : «^ Tu vero enìtere et sic haheto, non
esse te mortalem sed corpus hoc; nee enini tu is es, quem forma
ista declarat : sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura,
quae digito demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem
est deus, qui viget, qui sentit, qui meminit, qui providet, qui tam
« Tu esercita questo nelle più nobili cure: e nobilissime sono le cure
spese per il bene della patria (1); onde l'animo che in esse si adopera e
si esercita volerà piti velocemente in questa sede e dimora sua. Anzi
tanto più presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo
saprà uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, staccarsene il
più possibile. Perchè gli animi di quelli che si abbandonano ai piaceri
del corpo e si rendouo quasi schiavi di essi e, sotto l'impulso dei
desideri obbedienti ai piaceri, violano i diritti divini e umani, usciti
dal corpo vanno svolazzando intorno alla terra e non ritornano a
questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agitazione molti secoli »
(2). E con 1' enunciazione di questi concetti pitagorico-platonici il
magnifico sogno finisce. regit et tnoderatur et movet id
corpus, cui praepositus est quam kune mundum ille princeps deus ; et ut
mundum ex quadam parte mortaleni ipse deus aeternus, sic fragile corpus
animus senipiternus movet ». [Anche questo, è bene
ricordarlo, era un concetto pitagorico; tanto è vero che Pitagora,
serbava come insegnamento ultimo ai suoi discepoli quello relativo all'
esercizio dei pubblici poteri. V. S. Agostino, de ordine II, 24,
54. (2) Somnium, 21, 29 : « Hanc tu exerce optimis in rebus : sunt
autem optimae curae de salute patriae, quibus agitatus et exer- citatus
animus velocius in hanc sedem et domum suam pervolabit. Idque ocius
faeiet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore, eminebit foras et ea,
quae extra erunt, contemplans quam maxime se a corpore abstrahet. Namque
eorum animi, qui se corporis voluptatibus dediderunt earumque se quasi
ministros praebuerunt impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium
deorum et homi- num iura vìolaverunt, eorporibus elapsi circum terram
ipsam volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati saeculis
rever- tuntur ». Nel tempo del quale ci stiamo occupando non
è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i suoi riflessi
soltanto negli scritti di prosa e di poesia del genere di quelli che
abbiamo già visti, destinati a un pubblico eletto e relativamente
limitato ; che anzi l' insegnamento fondamentale della dottrina di Pitagora,
cioè la metempsicosi, e il precetto dietetico dell'astinenza dalle
fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel dominio pubblico, da essere
oggetto di satira e di riso nel teatro popolare. Fra quelle specie di
farse infatti che sono i mimi è ricordata una Nekyomanthia (Evocazione di
morti) di Decimo Laberio, che fu contemporaneo di Cicerone e del quale
Tertulliano ricorda una satirica interpretazione della metempsicosi : «
Insomma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio secondo 1'
opinione di Pitagora, che 1' uomo si fa dal mulo e la serpe dalla donna,
e in tavore di questa opinione volgesse, con parola efficace, tutti gli
argomenti possibili, non incontrerebbe 1' approvazione di tutti e non
indurrebbe forse anche a credere che ci si debba perciò astenere dalle carni
animali? Chi potrebbe esser sicuro di non comperare eventualmente del
manzo di qualche suo antenato ? » Laberio dunque avrà tirato
scherzosamente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro
sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile pensare che
gliene abbia data occasione una situazione comica in cui fossero in
contrasto 1' ostinata cocciutaggine d' un uomo e la velenosa malizia d' una
donna. Il commento e le deduzioni ironiche circa l'astensione dalle
carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è forse la prima testimonianza,
in ordine di tempo, che ci rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica;
voglio dire i noti versi di un'elegia di Senofane, contemporaneo di
Pitagora: E dicon eh' egli un giorno, vedendo un cagnuol
maltrattato, Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò : €
Cessa, ne bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico r anima, che
ravvisai, quando 1' ho udita guair » Tertulliano, Apologia, 48: « Age jam, si
qui philosophus adfirmet, ut ait Laherius de sententia Pythagorae,
hominem fieri ex m,ulOy colubram, ex muliere, et in eam, opinionem, omnia
argu- m,enta eloquii virtute distorserit, nonne consensum movebit et
fìdem, infiget etiam ah animalibus abstinendi propterea ? persuasum,
quis habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? »
(2) I versi ci furono conservati da Diogene Laeezio (Vili, 36)
Anche in questi versi infatti, come nel commento di Tertulliano,
attribuendosi a Pitagora la metempsicosi anche animale (per una falsa
estensione però, come ho già detto), se ne mette scherzosamente in mostra
il lato ridicolo. Di un altro mimo dello stesso autore, intitolato
Cancer, è rimasto uno spunto di verso, in c«i si accenna a un «
dogma pitagorico », che molto probabilmente possiamo ritenere che fosse
la stessa metempsicosi. Finalmente Cicerone e Seneca ci hanno conservato
il ricordo di un terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato
Faba, del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso
dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e 1' astensione
dalle fave. Né è davvero il caso di me- e prendendoli da
lui, li ha citati anche Suida (sotto la voce Xeno- phanes). Si veda a
proposito di essi e delle altre antiche testimo- nianze pitagoriche che
risalgono ad Eraclito, Empedocle, Ione, ecc. ciò che ha scritto lo Zeller
nei Siizungsber. d. preuss. Akad. 1889, n. 45, pag. 985. Si è
recentemente messo in dubbio che questi versi si riferiscano a Pitagora ;
ma tali dubbi sembrano al GoMPERz (Penseurs de la Orèce, p. 135 nota)
infondati. Ed ha per- fettamente ragione. (1) Prisoiano. vi,
2, pag. 679 P. e Anon. Bern. negli Anal. Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33
e 109, 3 : « nec pythagoream dogmam docius ». (2) Cicerone,
ad AH. XVI, 13 : « videsne consulatum illum no- strum, quem Curio antea
apotheosin vocabat, si hic factus erit, fabam mimum futurum ? » e Seneca
Apocoloc. 9 : o olim magna res erat deum fieri, iam fabam mimum fecistis
». Debbo tuttavia notare che da qualcuno si è proposto di leggere
8-aù[jia in luogo del primo fabam, e famam in luogo del secondo. V. in
proposito la Eiv. di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76.
(3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano,
Monteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere ] ravigliarsene,
solo che si consideri con che argomenti piccini e con che sciocche
ragioni si cercava di persuadere della necessità di tale astensione. Del resto
anche ORAZOP si prende amabilmente gioco di questi due stessi punti della
dottrina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava con vivo
senso di nostalgia le parche cenette di campagna fatte di fave e di erbaggi
conditi col lardo, è evidente che egli — da buon epicureo — si infischiava
del precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un po' in
giro, facendo addirittura la fava « consaguinea di Pitagora ».
E la prima parte della famosa ode d' Archita non pare, per dirla
col Pascoli, « un attacco ai sistemi filosofici in azione la
parentela che esiste — secondo Pitagora — tra la fava e l’uomo, ed il
passaggio dell' anima in una fava ». Ora queste, più che opinioni del
severo filosofo, sono certo stramberie di begli spiriti, che gliele
attribuirono per burlarsi meglio di lui e delle suo idee, come fa ORAZIO,
per esempio. Si veda, per esempio, il. capitolo 43 della vita di
Poefirionk. (2) Orazio. Sat. II, 6, 63-64: quando faba
Pythagorae cognata siwiulque XJneta satis 'pingui ponentur oluscula lardo
? Un' altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli
inter- preti d' Orazio nel v. 21 della XII Epist. del libro I {veruni
seu pisces seu porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo
trucidare non solo ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle {quasi che
anche in queste, come nella fava, si trovassero anime dei morti) verrebbe
a prendersi un po' in giro 1' amico Iccio — che s' occupa di filosofia —
e con lui la dottrina pitagorica della metempsicosi, alla quale verrebbe
data una ben larga estensione. Qualcuno peraltro (per es. Ritter) nega
ogni allusione. che ammettono la sopravvivenza dello spirito,
sistemi quasi personificati in Archytas, per opera del quale il
Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » Dice infatti il poeta :
« Te, o Archita, che misuravi il mare e la terra e l' innumerabile arena,
tiene ora fermo presso il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia,
e nulla ti giova aver esplorato 1' aria, dove altri che l'uomo
abita, e aver corso per la volta del cielo con Tanimo destinato a
morire. È morto anche il padre di Pelope, che pur banchettava con gli
dei, e Titone, che fu tolto alla terra e sollevato neir aria, e Minosse,
che fu ammesso agli ar- cani di Giove, e il regno dei morti tiene anche
il figlio di Panto (Euforbo), che scese alF Orco un' altra volta
(dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora), sebbene, con lo scudo che
fece staccare (dalla parete del tempio di Giunone argiva in Micene) data
testimonianza del tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla
nera morte (così affermava lui) niente più che i nervi e la pelle
(2); e tu (che eri un grande pitagoreo), splendido mallevadore della
verace scienza del tutto lo sai bene.- Ma tutti ne attende un' uguale
notte senza fine e tutti dobbiamo calcare una volta sola (e non più, come
tu credi) la via che conduce sotterra. Le furie offrono alcuno gra-
[Pascoli, Lyra romana, Livorno, Giusti. Per altri modi d'
intendere quest' ode, che è la 28* del lib. I, si veda il commento dell'
Ussani, Le liriche di Orazio, Torino, Loescher, 1900, voi. I, pag.
119-L22, e in particolare 1' opuscolo dello stesso autore Uode d' Archita.
Roma, 1893. (2) habentque Tartara Panthoiden iterum
Orco Demissurn, quamvis clipeo Trojana refixo Tempora
testatus nihil ultra Nervos atque cutem morti concesserat atrae.
dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro di morte
ai naviganti ; si susseguono senza posa i funerali sì dei vecchi che dei
giovani, l'implacabile Proserpina non ebbe mai rispetto ad alcun capo
». E. evidente che qui Orazio, affermando recisamente che
tutti, senza distinzione, subiremo un egual destino mor- tale, e
contrapponendo in particolare la sua affermazione al ricordo « di
Pitagora redivivo » , come lo chiama altra volta (1), fa doli' ironia
bella e buona alle spese del « fi- gliuolo di Panto ». E VIRGILIO
-- in qual conto tenne le dottrine pitagoriche? Esercitarono esse
qualche influsso sul suo pensiero e lasciarono traccio visibili neir opera sua,
dal momento che sappiamo — per quello che ce ne dice egli stesso e per
quello che ci hanno tramandato i suoi biografi e commentatori — che
egli ebbe grande inclinazione agli studi filosofici e che desiderio di
tutta la sua vita fu quello di potervisi dedicare di proposito? Nel
tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono di far rivivere in Roma la
filosofia pitagorica, è possibile pensare che uno spirito come quello di VIRGILIO,
colto, curioso e naturalmente portato alle speculazioni filosofiche, non
ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non v' è argomento di dubbio,
ma credo di poter dire anche [In uno degli Epodi (XV, 21)
Orazio accenna ancora alle varie vite di Pitagora nel verso « nee te
Pythagorae fallant arcana renati », dove è da notare anclie 1' allusione
al carat- tere segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire
no- mina una volta (II, 4, 3) Pitagora con Socrate e con Platone e
nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52). a;
ì^i1^ Dicerone, come ho già mo strato nelle precedenti credette di
ravvisare nelle pratiche e nei prin- [Pitagorismo Torigine di molte delle
più antiche L romane, e con Cicerone lo avranno creduto na- ;e
anche altri. Orbene Virgilio, che con 1' opera giore mirò a rappresentare
in un meraviglioso r insieme le origini e lo svolgersi della
potenza e che perciò fece lunghi studi intorno alle ) e alle
antichità romane, dovette proprio in modo re rivolgere la sua attenzione
alla filosofia pita- a quale per di più aveva già ispirato anche il
Ennio^ la cui opera degli Annali fu uno dei mo- i quali fu condotta 1' Eneide.
Questo mi par che i affermare con certezza, anche indipendentemente
3same analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che procediamo a questo
esame — ancorché molto rio — non solo sarà confermata a posteriori
la induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu- )he di lui
fece il Fontano, quanda lo disse esplici- te « poeta augurale e profondo
conoscitore della la di Pitagora » (2). ne tutti sanno, agli
studi filosofici Virgilio attese alla prima giovinezza e fu avviato in
essi da un ;ro epicureo, dal gran Sirene, com'egli lo chiama.
r amore dei « docta dieta » di lui egli avrebbe [Servio,
ad Aen. VI, 752: « Qui bene consideret inveniet omnem romanam historiarti
ab Aeneae adventu usque ad sua tempora summatim celebrasse Virgilium,
quod ideo latet quia eonfusus est ordo, etc. ». (2) « Poeta
auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus » , come è detto in una
nota al Commento di Macrobìo al Somnium Seipionis, nella edizione di
Lione del 1670, pag. 66. 9. anche rinunziato in gran parte
alle « dolci Muse ^ ! Yano proposito ! che queste tennero sotto la loro
amabile tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filosofo.
Filosofia e in Virgilio solo in potenza : i germi latenti nel suo
pensiero — che pur si delinea abbastanza chiaramente a chi ne mediti l' opera
poetica — sarebbero certo cresciuti in fioritura d' arte, se fosse
vissuto più a lungo, sì che, condotta a perfezione 1' “Eneide”, egli ha
potuto finalmente appagare il desiderio — lungamente maturato e più volte
espresso — di poter attendere alla FILOSOFIA : così noi avremmo forse,
accanto al poerna di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del
materialismo epicureo, un poema virgiliano informato ai principi dell'
idealismo pitagorico-stoico. L' avviamento epicureo eh' egli ebbe
da Sirone, e l'animirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio la-
sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto formale, neir opera sua
giovanile, nei poemetti bucolici e nelle Georgiche ; ma in queste stesse
poesie già si manifesta abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico
affatto op- posto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà
e larghezza di movenze, è foggiata quella specie di teoria
sull'origine del mondo che Sileno espone nella sesta ecloga ; ma dobbiamo ben
guardarci dal darle un' importanza maggiore di quella che essa ha
realmente, col trasferirla da Sileno a Virgilio e col dedurne
perciò che questi fosse epicureo ; poiché nel campo dell' arte e
della poesia sono possibili ben altre finzioni, e 1' artista fa parlare i
personaggi che sono figli della sua fantasia secondo criteri e leggi lor
proprie. Non solo, ma alla stessa stregua allora altri potrebbe ritenere
specchio delle idee e concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu
scritta poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra-
gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona propria, in
secondo luogo perchè il concetto che l' informa tornerà insistente e
sempre più preciso negli scritti posteriori. Ma in verità il pensiero di
Virgilio non doveva in quegli anni essere ancora definitivamente
orientato e formato. La quarta ecloga fu composta quando il
poeta aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a. C,
allorché stava per entrare in carica Asinio Pollione, console designato
per 1' anno successivo. Sulla inter- pretazione di questo carene, così
stranamente suggestivo, s' è tanto discusso, che non si sente davvero il
bisogno d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai
commentatori cristiani si credette di poter vedere in quest' ecloga, scritta in
tempi così vicini all' apparizione del Cristo, qualche accenno alla
imminente venuta del Messia; anzi il fanciullo di cui si celebra la
nascita fu addirittura identificato col Nazareno, e non con Ottaviano,
come Virgilio affirma. Non e' è da meravigliarsene, che r intuizione
artistica — nei grandi — giunge tal- volta a tali profondità e 1'
espressione poetica acquista tal forza di significazione e un tale
carattere "di univer- salità, che essa par quasi attingere
inesauribilmente, dalle [Generalraente si ritiene composta al
principio del 40, anziché alla fine del 41; ma essendo la pace di
Brindisi stata conchiusa sul finire del 41, ed essendo avvenuta pure in
quello scorcio di anno la nascita del figlio di Pollione, Asinio Gallo
(che, secondo Servio, nacque appunto Pollione eonsule designato), mi pare
che non possa esservi ragione di incertezza ; tanto più che in tal
modo meglio s' intende il futuro inibii che accompagna il te eonsule
del y. 11. disposizioni dell'animo e dagli atteggiamenti del
pensiero di chi legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi
proprio Virgilio ha consapevolmente ‘profettizato’ ex post fato la nacita
d’Ottaviano per conoscenza che avesse delle predi- zioni messianiche,
questa è un' altra quistione, risoluta dai critici in senso non del tutto
negative. Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo — che
si ritiene generalmente e, se non Ottaviano, Asinio Gallo, figlio di
Pollione, a cui è dedicata l' ecloga — Virgilio afferma ormai venuta 1'
ultima età (quella di Apollo) predetta dall' oracolo in versi della Sibilla di
Cuma, e sul punto di iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del CONSOLATO
di Pollione, una nuova serie di generazioni umane, un nuovo anno mondano,
col quale sarebbe tornata sulla terra la vergine Astrea (la giustizia) e
sarebbero tornati i beati tempi del regno di Saturno (ossia l’età dell'
oro) e « dall' alto cielo sarebbe fatta scendere (1) Mancini
p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron) scrive: (p. 48/ : « Non si
può appunto escludere assolu- « tamente (sebbene io non lo creda
necessario) che Virgilio avesse « in qualche modo conoscenza delle
profezie messianiche certo « pervenuta a Roma, e che ne traesse qualcosa
per tratteggiare « il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma
gli ef- « fotti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio
si acquistò con questa ecloga dedocata a Asinio Gallo, per ha quale fu
sollevato alla dignità dei profeti, si veda il CoMPAEETTi, Virgilio
nel Medio Evo (Firenze.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione di questa eclog a Asinio Gallo era già
molto in voga presso i filosofi. Si vedano anche i lavori di C. Pascal, “Il
culto d’Apollo in Roma nel secolo d’Ottaviano e La questione dellEcloga
IV di Virgilio (Torino), ristampati nel volume Commentationes
vergilianae (Palermo, R. Sandron,). una nuova progenie d'
uomini » (v. 7 : jaw, nova pro- genies caelo demittitur alto). Sì che il
fanciullo, Asinio Gallo, figlio del console Pollione, allora nascente,
avrebbe visto scomparire del tutto la « gens ferrea » e crescere insieme
con lui la « gens aurea » e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe
veduto sulla terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con
loro: nella giovinezza avrebbe veduto ancora — residui delle colpe delle
età trascorse (e in pari tempo condizione necessaria al ripetersi delle
vicende umane) — nuove spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove
guerre, come la trojana, finche poi nella maturità avrebbe goduto a
pieno la felice pace della nuova età, della quale già si allietavano e
cielo e terra e mare. Come si vede da questo accenno, siamo lontani
le mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa concezione d' una
palingenesi che Virgilio tratta con sì profondo entusiasmo poetico? Pura
finzione del suo spirito? No, senza dubbio. Una predizione dei carmi
sibillini prometteva certo con l’ età d' Apollo — 1' ultimo dei grandi
periodi della vita universale — il rinnovamento del mondo e il ritorno
dell'età dell'oro; non solo, ma teorie filosofiche allora correnti e che ho già
avuto occasione di ricordare, ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico
dell' universo e il ripetersi perfettamente identico dei medesimi eventi e il
ritorno alla vita degli stessi corpi e delle stesse anime (teoria
pitagorico-stoica e dei genetliaci). Pensa dunque Virgilio, nel fingere
che proprio col cominciare dell'anno colla nascita del figlio del console si
iniziasse l'ultima età mondana designata dai carmi sibillini, a queste
teorie ? A me pare che non se ne possa dubitare. Solo ci si potrà
chiedere se queir < altro Tifi » , quell' « altra nave Argo che
tra- sporterà ancora gli eroici compagni », « le altre guerre »
che si rinnoveranno e « il grande Achille », che ancora « sarà
mandato a Troja», indichino l'identico ripetersi di tali eventi, il
ritorno al medesimo punto della vita universale, oppure indichino soltanto
una generica legge dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur
così vi- cino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo quei
nomi simboleggiare genericamente il ritorno di eventi simili, ma non
proprio gli stessi. "Certo però che, assegnando Virgilio alla seconda età
dell' oro già imminente quei medesimi, identici caratteri che la
tradizione dotta e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto
in- dotti ad ammettere 1' ipotesi che il poeta abbia raffigurato e
rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua arte divina, l'
avverarsi della teoria pitagorico-stoica della palingenesi. E ancora :
parlando della <^ nova progenies », la quale « eaelo demittitur alto »
, a che cosa ebbe pre- cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla
sua immaginazione come un flusso di anime emananti dal- l'anima
universale all' inizio del nuovo anno o periodo mondano posto sotto 1'
egida di Apollo ? (1). L' anima del fanciullo — nel pensiero del
poeta — non v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie
spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum suboles, magnum
lovis mcrementum » (v. 49), non par- rebbe che si dovesse intendere
altrimenti che la sua anima è emanata pura e semplice direttamente da
Giove, e Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio
dell'Olimpo pagano, quel principio divino che è l' anima] Mi pare, non ostante il diverso parere di
qualche commen- tatore (p, es. di Pestalozza), che si debba precisamente
dare all' espressione il suo senso proprio e letterale.
dell'universo, secondo la teoria che "Virgilio doveva an- cora
riprendere piìi tardi, nel secondo delle Georgiche, e che doveva svolgere
più compiutamente là dove, dall'ani- ma di Auchise, fa esporre ad Enea,
giù negli Elisii, la famosa « storia dell' anima ». Vero è
che, come ho già rilevato, bisogna andar molto cauti nella
interpretazione di siffatti motivi poetici e nel- r inferire da essi il
pensiero filosofico animatore operante neir artista; che questi può,
indipendentemente dai pro- cessi logici normali, assurgere per pura
intuizione alla visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso
nostro il poeta, prendendo bensì lo spunto da un fatto reale
com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno ad essa
reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi nuovi di pura
elaborazione fantastica; ed espressioni poe- tiche di tale natura sono
per sé indeterminate e male si prestano ad essere analizzate e misurate
con le rigide seste della logica. Non potevamo però non tenerne
conto, almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica,
che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc- cessivi momenti
dell' attività poetica del nostro autore. Da ispirazioni così diverse e
lontane come quelle della sesta e quarta ecloga appar probabile dunque
che prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora definiti-
vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non lo aveva
neppure orientato definitivamente quando compose le Georgiche ; poiché in
queste si osservano ancora da un lato somiglianze di pensiero e di
forma con il poema lucreziano, e dall'altro si incontrano immagini e
concetti stoico-pitagorici. Mi basti ricordare, per questi ultimi, i
bellissimi versi del quarto libro nei quali VIRGILIO accenna, senza ancora
accettarla come propria, ma con evidente simpatia, la concezione
panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e degli stoici)
secondo la quale 1' anima di tutti gli esseri viventi non è che una parte,
più o meno grande, dello spirito divino che, suscitando in mille forme la
vita, per- vade e penetra tutto 1' universo, e a cui tutto ritorna.
His quidam signis atque kaec exempla secuti 220 esse apibus partem
divinae mentis et haustus aetherios dixere : deum namque ire per
omnia, terrasque traefusque maris eaelumque profundum. Hine
peeudes, armenta, viros, genus omne ferarum^ quemque sibì tenues
naseentem arcessere vitas ; seilieet hue reddi deinde ae resoluta
referri omnia, nec morti esse locum, sed viva volare \
sideris in numerum atque alto succedere eaelo. Il filosofo,
esponendo il pensiero come di altri (quidam... dixere)^ fa ancora le sue
riserve; ma il poeta evidente- mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte
ci dice la profon- dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il
fatto che uno di questi versi mirabili non è nuovo, ma Virgilio lo
ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga, lega idealmente questa col passo
delle Georgiche. L' animo di Virgilio ha dunque ondeggiato certo
a lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali ave- vano
combattuto la dottrina di Sirone e 1' arte di Lucrezio; ma il suo
temperamento prima e poi le convinzioni che via via si vennero elaborando
in lui col maturare degli anni e degli studi dovettero riportarvelo
fatalmente ; sic- ché quando, iniziati gli studi per 1' Eneide,
immergendosi tutto nelle ricerche intorno alle origini e alle
antichità romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la leggenda
collegava colla sacra figura del re Numa, che aveva ispirato anche l'
arte di Ennio e che aveva in que- gli anni cultori come Nigidio e come i
Sestii, egli do- vette sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e
assimi- larle ancora più profondamente, tanto che ad esse volle poi
dare anche più precisa e più degna espressione là pro- prio dove il poema
attinge la più alta romanità e acquista nel medesimo tempo carattere di
universalità. Al principio del libro VI dell'”Eneide”, che si
ritene generalmente dagli antichi contenesse la più profonda dottrina
virgiliana, Servio credette di dover premettere queste parole: « Tutto Virgilio
è pieno di scienza, nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui
la parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del canto
XI dell' Odissea). Alcune cose sono dette semplicemente (cioè senza allegoria),
molte sono prese dalla storia, molte provengono dall'alta sapienza dei
filosofi. Talché parecchi hanno scritto interi trattati su ciascuna di tali
cose che trovansi in questo libro». Di questi trattati peraltro a noi non ne è
giunto alcuno, nemmeno quello, certo assai interessante dal punto di
vista del nostro tema, che scrive Macrobio, 1' erudito grammatico; poiché
dei suoi Saturnali, che pure ci restano in buona parte, è andata perduta
proprio quella parte in cui si conteneva l' esame del valore
filosofico dell' opera virgiliana (1). E un peccato, perchè Macrobio,
(1) Il compito di tale esame se 1' era assunto, nei dialoghi
dei Saturnaii, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito,
come ci fa sapere Macrobio stesso l'I. I, e. V). Anzi, per la
superiorità della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1'
esposizione di Eustazio e la prima di tutte, come appare da ciò che è
detto come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gii elementi
pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del quale, per esempio,
ricordando nel commento al Somnium Scipionis il terque quaterque beati,
riconosce neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri.
Non è certo il caso di andar cercando, come qualche antico ha
fatto, in ogni espressione, in ogni parola di questo mirabile libro, al
quale doveva ispirarsi Alighieri, i sensi più reconditi, le piti astruse
allegorie, e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel
comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che è come la chiave di volta
di questo canto e che indubbiamente è di quelli che Servio ha detto
provenire dall'alta sapienza dei filosofi, noi fermeremo la nostra attenzione.
ENEA, con la scorta della Sibilla di Cu ma è sceso all'Inferno. Passata la
palude Stigia sulla barca di Caronte, attraversato 1' anti-inferno o
limbo (dove sono le anime dei neo-nati, dei condannati a morte
ingiustamente, dei suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti per
causa d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il
Tartaro nel e. XXIV dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mutilo
; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo degli scrittori, e si deve far
risalire al tempo in cui questi tendevano ad accentuare il carattere
profetico di Virgilio. [Por Maorobio, Virgilio non solo è dotto in
ogni genere di sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al
Somnntm lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e diseiplinarum
om- nium perìHssimus (I, 15, 12) ; così nei Saturnali (I, 16, 12) :
omnium diseiplinarum peritus. (2j Per esempio Elio Donato, il quale
attribuiv a Virgilio un sapere straordinario e cercò nei suoi versi
dottrine risposte e scopi filosofici ai quali certamente non aveva pensato
mai. (dove subiscouo. le pene più orribili le anime di tutti
co- loro che in qualche modo hanno violato le leggi umane e divine)
è giunto nell' ampio Elisio, liete pianure che sono il felicissimo regno
dei beati locos laetos et amoena mrecta 630
fortunatorum nemorum sedesque heatas. Quivi, in una luce
perpetuamente serena e fiammante, le anime dei beati (eroi morti per la
patria, sacerdoti, poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della umanità)
trascor- rono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in
bo- schetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro
abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo, al quale Enea chiede
notizie d' Anchise e che gli si offre per guida. Il padre d'ENEA sta in
quel momento ad osservare con attenzione le anime che si trovavano
chiuse nel fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare
alla vita terrena, passando in rassegna fra esse quelle che dovevano
rincarnarsi nei suoi discendenti, per conoscerne il destino, le vicende, il
carattere, le opere future. At pater Anchises penitus eonvalle
virenti 680 inclusas animas superumque ad lumen ituras
lustrabat studio recolens omnemque suorum forte recensebai numeruni
carosque nepotes fataque fortunasque virum 7noresque manusque.
Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon- tro, dopo il
quale Enea vede da un lato della valle un bosco appartato e cespugli
pieni di suoni e il fiume Lete (il fiume dell' oblio) che lambisce quelle
placide sedi e intorno a questo una infinita moltitudine di anime
svo- lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sussurro, simile
al ronzio che fanno pei prati, nei sereni meriggi estivi, le api, quando
si posano su ogni sorta di fiori e si addensano intorno ai candidi gigli.
L' eroe, stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia
quello, e che uomini quelli che si affollano così numerosi sulle sue rive. E il
padre subito gli risponde : « Le anime alle quali è dovuto per destino un
altro corpo, bevono alle onde del fiume Lete le acque che
sigilleranno in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e
della vita trascorsa »: animae, quibus altera fato
corpora debentur, Lethaei ad fluminis unda'm 715 seeuros latices et longa
oblivia potant. Queste anime appunto egli si accinge a
mostrargli, enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di-
scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da Silvio a Marcello
il giovane) perchè s' allieti con lui di essere finalmente giunto alle
spiaggie d' Italia. Ed Enea subito gli chiede : « padre, si deve dunque
credere che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri-
tornino una seconda volta nell' impaccio del corpo ? qual mai assurdo
desiderio della vita terrena hanno le infe- lici ? » : pater,
anne aliquas ad caelum hinc ire puiandum est 720 sublimis animas
iterumque ad tarda reverti corpora ? quae lueis miseris iam dira cupido
? [Nella concezione orfica pare che le anime destinate alla
pa- lingenesi fossero chiamate api ; donde la ragione della similitudine
(Sabbadini). Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh io ho chia-
mata la storia dell'anima : « Anzitutto un' interiore forza
spirituale anima il cielo, la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle,
e un' intelli- genza infusa per tutte le sue parti agita e
compenetra la gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli
ani- mali che vivono sulla terra, che volano per 1' aria^ che si
muovono negli abissi del mare : essi, particelle dell'a- nima universale
disseminate nello spazio, hanno vigore etereo e origine celeste ; ma, più
o meno, li inceppa la lue corporea e le membra terrene e periture li
ottun- dono. Oud' è che essi vanno soggetti a timori e desideri, a
gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco car- cere, le anime
disconoscono il cielo onde derivano. Tanto che, anche quando nel dì del
trapasso le abbandona la vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni
male né le lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle
quali anzi; avendole profondamente intaccate, devono necessariamente crescere
nel loro intimo per lungo tempo in modi meravigliosi. Perciò sono
sottoposte a pene e pagano con supplizi il fio delle passate colpe :
delle cui infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo-
ste all' azione dei venti, altre immerse in un profondo abisso d' acqua
(negli abissi oceanici ?), altre bruciando nel fuoco. Tutti subiamo da
morti la nostra espiazione, dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e
pochi soltanto restiamo nelle sue liete pianure, finche un lungo volgere
d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le traccio d'ogni sozzura
contratta nel corpo e lascia puro il senso etereo e il fuoco della
semplice aura. Tutte queste invece, quando son volti mille anni, sono
chiamate da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè,
immemori del passato, rivedano la volta del cielo e comincino
a sentire di nuo^vo la volontà di rincarnarsi nei corpi v. «
Principio caelum ac terras camposque liquentis 725 lucentemque globum
lunae Titanìaque astra spiritus intus alit totamque infusa per
artus mens agitai molem et magno se corpore miscet.
inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum et quae
marmoreo feri monstra sub aequore pontus. 730 igneus est oUis vigor et
caelestis origo seminibus, quantum non noxia corpora tardant
terrenique liebetant artus moribundaque membra. hinc metuunt
cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras dispiciunt clausae
tenebris et carcere caeco. quin et supremo cum lumino vita reliquit,
non tamen omne malum miseris nec funditus omnes corporeae
excedunt pestes, penitusque necesse est multa diu concreta modis
inolescere miris. ergo exercentur poenis veterumque
malorum supplicia expendunt. aliae panduntur inanes suspensae
ad ventos, aliis sub gurgite vasto infectum elicitur scelus aut
exuritur igni ; quisque suos patimur manis ; exinde per
amplum mittimur Elysium ; et pauci laeta arva tenemus, donec
longa dies, perfecto temporis orbo, concretam exemit labem purumque
relinquit aetherìum sensum atque aurai simpliois ignem.
has omnis, iibi mille rotam volvere per annos, Lethaeum ad
fluvium deus evocai agmine magno, scilicet immemores supera ut convexa
revisant rursus et incipiant in corpora velie reverti ».
Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti vaghi e
imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di una teoria, nella quale
è riaffermato anzitutto il concetto di uno spirito immanente nell'
universo, di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli
esseri animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ; cioè
il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel quarto delle G-eorgiche,
e perfettamente identico a quello che Cicerone, come s' è visto,
attribuiva a Ferecide, mae- stro di Pitagora. Di piti la forza
spirituale, di origine divina ed eterea, che è nell' uomo e negli
animali, e concepita in perfetta antitesi con la materia del loro
corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe- dimento, e che è
la causa degli errori, delle passioni, delle colpe, dei traviamenti.
Sicché la vita è un male (vv. 730-734). Anche questo concetto di un
dualismo o antagonismo fra spirito e materia non ò nuovo ed ap-
partenne già anch' esso all' antica filosofia pitagorica, come s' è pure
veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti, per i malvagi e per i
buoni, tutti, dopo la morte, deb- bono purificarsi delle infezioni
corporee. La purificazione infatti avviene per mezzo di pene e di
tormenti, non però eterni, che debbono subirsi per il tempo
necessario all' espiazione perfetta. Ne sono mezzi i tre
elementi dell' aria, dell' acqua e del fuoco (quelli stessi che si
adoperavano appunto nelle cerimonie simboliche dei misteri). Dopo 1'
espiazione pu- rificatrice tutte le anime passano nell' Elisio, luogo
di beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che furono
in terra i migliori, rimangono a godere una serena felicità, anche questa
non eterna, ma che dura fintantoché non sia compiuto il tempo prescritto
— tempo assai lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e
scom- paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri-
Ci i De Natura Deorum 1, li, 27 e De Senectute 21, 78. (2)
Cicerone, Somnium Seipìonis, ?, 15 e altrove. cordo delle belle opere
umane (1) — per riprendere poi la primitiva natura eterea e spirituale e
di nuovo dis- solversi in seno all' anima universale. Le altre invece,
e sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in una delle
convalli confinanti con 1' Elisio, vengono chiamate da Dio a bere nelle
acpue purificatrici del fiume Lete r oblio della vita trascorsa e si
incarnano in nuovi corpi. Non s' intende peraltro, poiché Anchise non lo
dice, se queste ultime anime, destinate a nuova vita, quando ritorneranno
poi ancora, dopo la seconda morte e conse- guente espiazione negli
elementi, all' Elisio, vi resteranno tutte in attesa di convertirsi in
puro etere e spirito, o se parte di esse dovrà ritornare nuovamente sulla
terra. Nel primo caso il numero delle esistenze terrene sarebbe
limitato ad un massimo di due — una con prevalenza del male e una del
bene — , nel secondo sarebbe inde- finito. Ma in un modo o nell' altro la
teoria della resurrezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal
mo- mento in cui r anima si stacca dallo spirito universale fino al
momento in cui si ricongiunge ad esso, è perfet- tamente conchiuso ; il
concetto panteistico e il processo di involuzione ed evoluzione dello
spirito, appena accen- nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti
compiu- tamente. Né si può dubitare che anche 1' ultima parte che
si riferisce alle pene e ai premi d'oltretomba e che espone la dottrina della
metempsicosi (vv. 748- 751), sia, come le prime, foggiata secondo i
principi del- l' Orficismo e del Pitagorismo. Appunto per tale
attaccarne nto, esse continuano nell' Elisio le occupazioni a cui
attendevano sulla terra. Sarebbe certo oltremodo interessante
svolgere questi principii fino alle ultime conseguenze logiche, e
chiederci, per esempio, se in tale concezione il processo di emanazione
delle anime dallo spirito universale avve- nisse una volta tanto, o ad
intervalli, o ininterrottamente. Si vedrebbe allora che, non potendo
avvenire ne una volta tanto (perchè in tal caso, col ritornare continuo
delle anime individuali in seno all' anima universa, ne sarebbe seguita
in un determinato momento la scom- parsa della vita dalla terra), né
ininterrottamente (parche in tal caso, essendo sempre infinitamente
maggiore il numero dei cattivi che non quello dei buoni, a un certo
punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il male), ma dovendo
considerarsi come avverantesi ad in- tervalli, r idea di tale processo d'
emanazione si ricolle- gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni
mon- dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema- nano
non solo quelle degli uomini, ma anche quelle dei bruti, ci si potrebbe
chiedere che cosa dovesse avvenire di queste, alla morte dei loro corpi.
E si vedrebbe come, dal modo in cui dovette esser risolto questo problema
da qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi —- quasi
(1) Ognuno di questi anni o periodi della vita universale era
diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto il
particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse,
filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema-
nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni stessi
era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se- coli ; e in
ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre identico di
emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e si ripetevano gli
stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto più su (§ 4) parlando
della quarta ecloga. 10. unanimemente attribuita a
Pitagora — d' una metempsi- cosi anche animale (1). Ma
prescindendo da queste considerazioni, che ci por- terebbero al di là di
quello che Virgilio ci ha voluto o potuto dire, come si concilia questa
storia dell' anima con tutta la rappresentazione precedente dell'
anti-inferno e del Tartaro ? È evidente che una contraddizione fon-
damentale esiste : che 1' esistenza delle anime nel prein- feruo e le
punizioni evidentemente eterne che subiscono quelle dei malvagi nel
Tartaro non si possono accordare con le pene temporanee per mezzo dei tre
elementi. Sic- ché noi siamo indotti a pensare che nella
rappresentazione virgiliana dell' oltre tomba si debba forse vedere un
ten- tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione ultima del
poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio — di fondere insieme
quella che era rappresentazione po- polare e il concetto o
rappresentazione filosofica del poeta. E poiché, considerata in sé
stessa, questa storia sug- gestiva e profonda ha un senso compiuto e
perfetto, e d' altra parte sappiamo che Virgilio compose 1' Eneide
a pezzi staccati, che poi collegava insieme, non vorrebbe la voglia
di credere che essa sia stata scritta a parte, fors' anche
indipendentemente e in tempo anteriore a quello della composizione del
poema, e poi opportuna- mente inserita in questo, allorché il poeta —
artista, fi- [Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le
incarnazioni del- l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo
umano, ma anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei,
secondo che le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto che
nel- r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò
rappresentato uno stato di vita intermedio fra due vite umane.
losofo, cittadino nello stesso tempo — concepì l'idea di valersi,
per esaltare la grandezza della Patria e per la rappresentazione dei
grandi spiriti di Roma, della dot- trina della metempsicosi, antichissima
e largamente dif- fusa e conforme alle credenze religiose dei suoi
concit- tadini e già consacrata dall' arte di Ennio ? Anzi non mi
parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse proprio vedere in
essa un brano di quel poema della Natura al quale Virgilio già pensava
quando finì il se- condo canto delle Georgiche (vv, 475-494), e forse
ad- dirittura il principio del poema stesso o 1' idea madre eh'
esso avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo prese e imitò da
Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve- duto, si iniziavano appunto con 1'
esposizione della dot- trina della metempsicosi (1). In tale, ipotesi
dunque la teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto una
finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto per ottenere una
grande e suggestiva efficacia di rappre- sentazione, ma esprimerebbe la
genuina e schietta con- cezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel
contra^^to (1) Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa
Macrobio nel l. VI dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno
alcuno di rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad
Enea e quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne
parlasse in quella parte dei Saturnali che è andata perduta e nella quale
appunto si conteneva 1' esame del valore filosofico dell'opera virgiliana
fatto da Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una effettiva
somiglianza di contenuto fra i due squarci poetici, come sono indubbie
alcune analogie di pensiero fra i due poeti. E gli arcaismi che si
trovano in Virgilio {ollis, aurai) potrebbero essere un altro indizio d'
imitazione enniana. — Anche il Pascal (Gom- mentat. vergilianae, p. 143
sgg.) ha dimostrato che Virgilio ha derivato la sua esposizione
dottrinale dal proemio degli Annales. a cui abbiamo accennato fra
l' idealismo pitagorico-stoico e il materialismo epicureo, sarebbe
insomma il suo testa- mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che
la- sciava in eredità alle più lontane generazioni l' alta e
sublime espressione artistica d'una teoria che, sorta agii albori del
pensiero nelle più remote età dell' uomo, tra- smessa di generazione in
generazione da una civiltà al- l' altra, dall' Oriente all' Occidente,
custodita con cura gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la
verità più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta,
come già nei miti immortali di Platone, alla luce della poesia e dell'
arte. Ho già parlato nel cap. I della tradizione, se-
condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco- laro di Pitagora. Raccogliendo
là tutte le testimonianze di questa tradizione, ho anche accennato a
quella che ne fa Ovidio nelle Metamorfosi. Essa ha una importanza
specialissima e merita di essere studiata sepa- ratamente dalle altre
anche per questo, che della tradi- zione stessa il poeta si vale per fare
un'esposizione, se non profonda, tuttavia molto estesa — la più estesa e
la pili organica che ci rimanga nella letteratura romana —
della tìlosofia pitagorica, specialmente in attinenza a due punti
fondamentali di essa: l'astensione dai cibi carnei e la
metempsicosi. Dice dunque Ovidio (vv. 1S\ che, scomparso
Romolo, si cercò subito chi potesse addossarsi un peso tanto grave
com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e che una fama non
menzognera designò all'impero Numa, già famoso per la sua giustizia, per
la sua pietà, e, so- pratutto, per la sua sapienza: che, non solo
conosceva a perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma,
abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti ed essendo avido
di scrutare i più ardui problemi della natura, aveva abbandonato la
nativa Curi e si era recato a Crotone : Quaeritur interea qui
tantae pondera niolis Sustineat, tantoque queat succedere regi.
Destinai imperio elarum praenuntia veri Fama Numam. Non ille satis cognosse
Sabinae 5 Oentis habet ritus : animo maiora capaci Goncipit,
et quae sit rerum naiura requirit. Iluius amor curae, patria Guribusque
relictis, Fecit, ut Herculei penetraret ad hospitis urbem.
Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi 60-478,
l'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che or ora esamineremo —
e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo di che ritornò in paCria e prese le
redini del governo di Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti
sacrificali e le arti della pace: Talibus atque aliis
instructo pectore dictis tn patriam remeasse ferunt., ultroque
petitum Acoepisse Numam> populi Latiaris kabenas: Goniuge
qui felix nym^pha ducibusque Gamenis Sacrificos docuit ritus, gentemque
feroci Adsuetam bello pacis traduxit ad artes. Come si vede —
e l'ho già rilevato, — Ovidio non solo accetta senza discuterla, come
cosa ovvia e risaputa^ la tradizione che faceva di Numa un discepolo di
Pita- gora, ma vien pure in certo modo a mettere in connes- sione
di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a Numa e l' educazione
pitagorica da lui ricevuta ; per quanto con l'accennata collaborazione
della ninfa Egeria e delle Camene la leggenda abbia certamente voluto
rap- presentare la parte che ebbe l'elemento indigeno nella
creazione degl'istituti religiosi romani del piìi antico pe- riodo regio
(1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei dubbi e delle critiche
messe innanzi da qualche erudito, preferì seguire senz'altro la
tradizione leggendaria, che pur Cicerone aveva chiamata inveteratus
hominum ei-ror; e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva
mi- rabilmente il modo di esporre quella dottrina della me-
tempsicosi ch'era la piìi naturale conclusione d'un poe- ma come le Metamorfosi,
quanto perchè, molto probabil- mente, la tradizione era più che mai viva
nella coscienza dei contemporanei, per i quali il poeta scriveva, massime
dopo la recente rinascita del Pitagorismo in Roma. [Lo
stesso Ovidio, in altro luogo {Fast.) accenna alla possibilità che la
riforma del calendario sia stata ispirata a Numa dal filosofo di
Samo : « Primus Pompilius menses sen- sit abesse duos Sive hoc a
Samio doctus, qui posse renasci Nos putat, Egeria sive monente sua
». (2) Un ultimo accenno alla medesima tradizione si legge
nella terza elegia dei terzo libro delle Pontiche, dove il poeta,
immagi- nando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa
maestro, lo rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti
da quello che fecero altri discepoli verso i loro maestri : Eumolpo
verso Orfeo, Achille verso Chiroue, Numa verso Pitagora., ecc. : In
Crotone teneva dunque scuola Pitagora; il quale, nativo dell'isola di
Samo, aveva abbandonato spon- taneamente la patria, mal sopportando la
tirannide onde era governata, e s'eia dato a profondi studi di
filosofia. Per virtù di questi « egli potè elevarsi con la mente,
per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio celeste, fino
agli dei e scrutare con gli occhi dell'intel- letto ciò che la natura ha
negato alla vista degli uomini»: 60 Vir fuit hic, ortu Satnius ;
sed fugcrat una Et Samon et dominos^ odioque tyrannidis eocul
Sponte erat. Isque^ licet caeli regione remotos^ Mente deos adiit et quae
natura nogabat Visihus humanis^ oculis ea pectoris hausit.
Ecco subito, in questi magnifici versi, messo in evi- denza
Pitagora, e determinata con molta precisione e con grande efiìcacia
rappresentativa la natura del suo misti- cismo, fondato sopra l'esercizio
assiduo dell'intelletto e la profonda intensità del meditare, per
giungere alla vi- sione e alla comprensione delle più alte verità.
Cumque animo et vigili perspexerat oinnia cura In medium
discenda dahat, coetusque silentum Dictaque mirantum magni primordia
mundi Et rerum causas et, quid natura, docebat : Quid deus, unde
nives^ quae fulminis esset origo, luppiter an venti discussa nube
tonarent^ Quid quateret terras, qua sidera lege fnearent, Ed
quodcumque latet. At non Chionides Eumolpus in Orphea talis
; In Phryga nee satyrum talis Olympus erat ; Praemia nec
Chiron ab Achilli talia eepit, Pythagor aeque ferunt noti nocuisse
Numam. Nomina neu referam longutn collecta per aevum,
Discipulo perii solus ab ipse meo. E in questi altri versi ecco
parimenti accennata con grande chiarezza la vastità e larghezza
degl'insegnamenti, che il filosofo impartiva all'attonita e silenziosa
schiera dei discepoli e che abbracciavano « le origini primordiali dell'universo,
Je cause della materia e l'essenza della na- tura e della divinità,
l'origine delle nevi e del fulmine, del tuono e del terremoto e le leggi
onde è regolato il corso degli astri: insomma, tutti i problemi più
reconditi della filosofia naturale e della scienza » Egli 'per primo,
aggiunge ancora il poeta, vietò di ci- barsi di carne, sconsigliando
bensì tale astensione con molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata
approva- zione : Primusque anitnalia mensis Arguii
imponi : primus quuni talibus ora Docta quidem solvit, sed non et eredita,
verbis. Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima per-
sona, l'uso delle carni (vv. 75-95) e descrivere l'età dell'oro, quando gli
uomini non conoscevano ancora tale uso; e poi, ispirato dalLi divinità,
eccolo ac- cingersi, con più alto afilato poetico, a trattare
questioni più ardue e a svelare più riposti misteri : Et
quoniam deus ora movet, sequar ora moventem Rite deum, Delphosque meos
ipsumque recludarn 145 Aethera et augustae reserabo or acuta
mentis. Magna, nee ingeniis evestigata priorum, Quaeque diu
latuere, canam. luvat ire per alta il) I vv. 67-71, cke
riassumono la supposta fisica pitagorica, sono manifestamente ispirati da
Lucrezio, dice il Lafaye, Les mé- tamorphoses d' Ovide et leurs modèles
grecs, Paris, Alcan, 1904, p. 197; masi accordano pure benissimo coi
principii dello stoicismo. Astra \ iuoat terris et inerti sede
relieta Nube vehi, validique umeris insistere Atlantis^ 150
Palantesque homines passim ac rationis egentes Despectare procul^
trepidosque obitur/ique timentes Sic exhortari, seriemque evoltere
fati. « E poiché sento di parlarvi per ispirazione divina,
seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il rito, e vi
svelerò i miei arcani e lo stesso etere e vi schiuderò gli oracoli fin
qui nascosti nel profondo della mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai
scrutate dalle menti dei padri, e che per lungo tempo restarono
occulte. Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abban-
donata la terra e questa inerte dimora, lasciarmi traspor- tare da una
nube e poggiare sulle spalle del vigoroso Atlante e guardare da lontano
gli uomini sparsi qua e là e ancora irragionevoli, e ad essi, che
aspettano con trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere
la visione del loro destino con queste parole... » Siamo alla
rivelazione della metempsicosi, la cui cono- scenza appunto deve
distruggere negli uomini il timore della morte : genus
attonitu7n gelidae formidine ìnortis ! Quid Styga, quid tenebras et
nonnina vana timetis, Materieni vatum^ falsique perieula mundi? (1)
Corpora, sive rogus fiamma, seu tabe vetustas Abstulerit^ mala
posse pati non ulla putetis, ^ Morte careni animae; semperque
priore relieta Sede novis domibus vivunt habitantque reeeptae.
(1) Cade ovvio a questo punto il raffronto coi famosi versi delie
Georgiche (II, 490-492) : Felix, qui potuit rerum eognoscere
caussas, Atque metus omnis et inexorabile fatum Subiecit pedibus
strepitumque Acherontis avari,
« schiatta attonita per lo spavento della fredda morte ! Che
temete lo Stige, la tenebra e i suoi nomi vani, fan- tasie di poeti e
pericoli d'un mondo inesistente? Non crediate che i corpi, o li abbia
distrutti il rogo con la sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano
soffrire mali di sorta, E quanto alle anime, esse non muoiono ; e
sempre, abbandonata una sede, vivono e abitano in di- more che nuovamente
le accolgono ». E in prova di ciò Pitagora ricord d'es- sere
vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel corpo d' Euforbo. Poi
segue, piìi specificatamente chiarita ed espressa, la dottrina della
metempsicosi animale, vol- garmente attribuita a Pitagora :
Omnia mutantur, nìhil interit : errai et illìne Hue venit^
hine illuc, et quoslibet occupai artus Spiritus: eque feris humana in
corpora transita Inque feras noster, nec tempore deperii ullo, Utque novis facilis signatur cera
figuris, Nec manet ut fuerat^ nec formas servai easdem,
Sed iarnen ipsa eadeni est; animam sic semper eandem Esse^ sed in
varias doceo migrare fèguras. « Tutto si trasmuta, niente muore. Lo
spirito va er- rando e si muove di là a qui, di qui a là, e
s'incarna nel corpo che si presceglie; e dalle fiere passa nei cor-
pi umani e viceversa, né mai vien meno. E come la molle che
si sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi i filosofi dunque giun- gevano
alla medesima conseguenza pratica (inanità del timore della morte)
partendo da premesse assolutamente opposte : 1' uno, cioè Pitagora,
dimostrando che il morire è soltanto trasformazione, o passaggio dell'
anima d'una in altra forma di vita corporea; l'al- tro, cioè Epicuro,
dimostrando che il morire è annientamento to- tale e definitivo della
personalità per il disgregamento degli atomi onde l'anima si compone.
cera si foggia in nuove figure, sì che, pur non restando
quale era prima e non conservando le stesse forme, tut- tavia è sempre la
stessa, così vi dico che l'anima ò sem- pre la medesima, senonchò passa
sotto varii aspetti » (1). Da ciò un nuovo argomento per astenersi
dall'usar carne. A questo punto la trattazione di Pitagora si allarga,
e il filosofo passa a dimostrare 1' evoluzione perpetua e il
divenire incessante di tutto il creato : Et quoniam magno feror
aequore plenaque ventis Vela dedi : nihil est tato, quod perstet, in
orbe. Cuncta fluuni, omnisque vagans formatur imago. « E
poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto mare, sappiate che non vi
è nulla di immobile in tutto l'universo. Tutto fluisce, e si foggia incessantemente
ogni mutevole aspetto ». E questa nuova proposizione illustra
con una lunga serie di esempi, tratti dai fenomeni celesti, dall'
avvicen- darsi delle stagioni, dalla vita dell'uomo e dalle
vicissi- tudini degli elementi (vv. 179-251). Ma la natura
non ci offre solo lo spettacolo di muta- menti regolari, determinati da
leggi immutabili ed uni- versali ; si compiono anche intorno a noi, nei
corpi inor- ganici e negli organici trasformazioni impreviste, che
i saggi osservano con curiosità, ma di cui essi ignorano le cause :
questi fenomeni straordinari — spesso elencati e descritti nel periodo
alessandrino, in opere intitolate (1) Questa, prima parte
deiresposizione ovidiana è molto proba- bilmente modellata sul « Sogno »
degli Annali di Ennio di cui si è già visto. Paradoxa
— Ovidio li fa esporre da Pitagora, non sen- za qualche anacronismo, nei
vv. 252-417 (i vv. 307-336 riguardano le proprietà di certi corsi
d'acqua^ mirabiiia fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv.
418- 452), che descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società
umane, sino al glorioso principaio d'Augusto, predetto già da un oracolo
fin dal tempo della caduta di Troia : Nune quoqiie Dardaniam fama
est eonsurgere Rotnam^ Appenninigenae quae proxiyna Thybridis undis
Mole sub ingenti rerum fundamina pomi. Haec igitur forviam crescendo
mutata et olim 435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates
Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor, Dixerat Aeneae^
cum res Troia?ia labaret^ Prìamides Helenus /lenti dubioque salutis :
(1) « Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae 440 Mentis
habes^ non tota cadet te sospite Troia. fiamma libi ferrumque
dabunt iter: ibis, et una Pergama rapta feres, donec Troiaeque
tibique Externum patria contingat am,ieius arvum, Urbem etiam cerno
Phrygios debere nepotes, 445 Quanta nec est nec erit nec visa
prioribus annis. Hanc aia proceres per saecula longa
potentem^ Sed doininam rerum de sanguine natus Tuli Efficiet. Quo
cum tellus erit u>sa, fruentur Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus
illi ». Raec Helenum eecinisse penatigero Aeneae Mente mem,or
refero, cognataque moenia laetor Crescer e, et utiliter Phry gibus
vieisse Pelasgos. Così Pitagora è fatto profeta della divina e
fatale po- tenza d'Augusto, come con analogo procedimento, nel
(1) La sola predizione che troviamo accennata, a proposito
di Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX &q\V Iliade (vv.
302, 306-308), e fu riprodotta da Virgilio {Aen., IH, 97-98).
poema virgiliano la dottrina pitagorica della metempsicosi è
assunta quale mezzo artistico per la predizione della futura grandezza di
Rom3. Nei pochi versi che seguono (453-478) Pitagora finalmente
ritorna al punto di partenza e conchiude : « Poi- ché tutto cambia,
poiché al termine della vita la nostra anima passa in nuovi corpi, anche
animali, non uccidia- mo le bestie; chi può sapere se, uccidendole non
faccia- mo scorrere il sangue di nostri congiunti ? » . Analizzato
così il contenuto della esposizione ovidiana, vien fatto naturalmente di
chiedersi quale sia stato r atteggiamento del poeta di fronte al
Pitagorismo. Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa domanda
noi possiamo rispondere negativamente senz' om- bra di esitazione : la
vita e l'operosità poetica di Ovidio, anche nel periodo posteriore alla
composizione delle Me- tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con
gl'inse- gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare
pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a quelle dottrine ; d'
altra parte Ovidio non ebbe certo tem- pra di filosofo né eccessivo amore
per le ricerche e spe- culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o
almeno una certa insistenza del suo pensiero su quella filosofia ci
sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua maggiore le ha
fatto così larga parte, con una esposizio- ne quasi sistematica, ma altre
volte ancora accenna ad essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni
versi delle Tristezze (1). (1) ìrist,, III, .3,
59-64: Atque utinam pereant anhnae cum eorpore hostrae^
Effugiatque avido» pars mihi nulla rogos. E quasi certamente poi questa
predilezione del poeta si deve ritenere l'effetto della rinascita del
Pitagorismo, che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima
metà del secolo (onde abbiamo già visto quan te e quali traccie se ne
riscontrino nella letteratura dell' età di Ci- cerone e di Yarrone), e
che al tempo stesso del poeta fece sorgere la scuola dei Sestii : sì che Ovidio
potè averne notizia sia dalle opere degli scrittori che
appartenevano alla generazione precedente alla sua, sia dalla viva
voce e dagli scritti di qualcuno dei nuovi seguaci. Gli studiosi
infatti che, proponendosi la questio- ne delle fonti di quest'ampia
trattazione ovidiana del Pitagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter
quindi determinare il valore storico della trattazione stessa,
hanno riconosciuto in sostanza che tali fonti debbono essere state
le opere varroniane (le Antiquitates rerum divi- narum e sopratutto il
dialogo Gallus^ de admirandis) Nam si morte carens vacua
volai altus in aura Spiritus, et Samii sunt rata dieta senis,
Inter Sarmaiicas Romana vagabitur umbras^ Ferque feros manes
kospita semper erit. Il poeta si augura che abbiano ragione coloro
che « 1' anima col corpo morta fanno » e che nessuna parte del suo essere
sfugga alle fiamme del rogo, poiché diversamente, egli dice, « se lo
spi- rito, immortale, vola alto nelle vuote regioni dell' aria e sono
veri gì' insegnamenti del vecchio di Samo, 1' ombra di un Romano
sarà costretta a vagare fra le ombre dei Sarmati e sarà sempre
un'e- stranea tra feroci anime di morti ». Il passo è importante,
perchè mostra che, di fronte al pensiero della morte, il poeta era in
so- stanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli che
affer- mavano la immortalità dell'anima. oppure gli scritti di
Nigidio, o dei Sestii, od anche dei loro discepoli Papirio Fabiano e
Sozione (1). Sicché, qualunque si accetti delle ipotesi messe
innanzi, sta di fatto che le fonti a cui Ovidio ha attinto non sono
moìto anteriori a lui. D'altra parte, anche tenendo conto del fatto
che Ovidio, più poeta che filosofo, non intese certo di trattar
l'argo- mento con rigore di metodo scientifico e filosofico, atte-
nendosi scrupolosamente a questo o a quell'autore ; ma che avrà usato di
una certa libertà e indipendenza, e che (pur valendosi, se si vuole di
uno o più modelli, oltre che dei ricordi e delle cognizioni sue personali)
avrà se- guito soprattutto il suo sentimento artistico, giovandosi
della materia dogmatica nella forma genuina soltanto nei limiti atti a
recare efficacia estetica all' opera sua e non poco forse aggiungendo,
sopprimendo o modificando di sua propria intenzione; si è riusciti
tuttavia a mo- strare, per esempio, che certe intrusioni nel sistema
pi- tagorico di principii appartenenti ad altri sistemi — come a
quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono affatto imputabili ad
Ovidio, ma dovevano già essere avvenute negli scrittori dai quali egli
attinse (2). La sua esposi- (1) Si vedano in proposito le
opere seguenti : Hottingee, De Pythagora omdiano \ìn Opuseula
philologica, Leipzig 1817, pag. 100-107); A. ScHMEKKL, De omdiana
Pythagoreae doctrinae adum- hratione, Gryphiswad, 1885 e Die Philosophie
der mìttleren Stoa, Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove sono
modificate in parte le conclusioni dell'opera precedente); G. Lafaye, op.
cit., cap. X. (2) Per Eraclito si veda C Pascal, La dottrina
pitagorica e la eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova, 1909
ripubblicato nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920, p.
207; e per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta ^
Firen- ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-15]. zione del sistema di
Pitagora acquista pertanto il valore di documento storico, in quanto che,
supplendo in parte alla deficienza delle nostre cognizioni m proposito,
dovuta alla perdita delle opere di Yarrone, di Nigidio, dei
Sestii,^ ci mostra molto approssimativamente in che consistesse il
neo-pitagorismo romano. L'esame che abbiamo così compiuto della filosofia latina
dalle origini fino a tutto il secolo della sua maggior fioritura ci ha
dimostrato non solo che il Pitaorismo e nelle varie età di Roma abbastanza
largamente conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica sono alcune
delle pili eloquenti pagine che quei tempi ci hanno tramandate, come il sogno
di Ennio, il sogno di Scipione e il Canto VI dell' Eneide : sicché
dobbiamo concludere che nelle idee che quel sistema svolse era implicita
una grande e mirabile virtìi di esaltazione poetica ed artistica.
Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee esercitarono notevole
influsso nel sorgere delle più antiche istituzioni romane, e che contro
di esse mossero guerra invano l'arte titanica di Lucrezio, la satira
maliziosa di Orazio, la forza politica di Cesare e di Augusto (nella
lotta contro il sodalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii),
dobbiamo tenere per certo che in esse fosse insita una grande forza
di resistenza e quella specie di malìa fascinatrice che suscita le pili alte
energie morali. Se le idee tanto piii valgono quanto maggiore è il sentimento
che le accompagna e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella
vita degli individui e dei popoli, le concezioni pitagoriche,
venute da sì lontane scaturigini e assurte a così varie, molteplici, alte
manifestazioni d'arte, di pensiero, di moralità nel periodo della civiltà
romana, ebbero certo valore altissimo. Che se poi, uscendo
fuori dai limiti del nostro tema, pensiamo, alla forza di resistenza che
esse mostrarono, al loro persistere attraverso i secoli e attraverso
tante vicis- situdini del pensiero, ai loro successivo e alterno
rina- scere con sempre rinnovato vigore nei momenti di più intensa
attività spirituale — nella Magna Grecia con Pitagora, in Atene con Platone, in
Alessandria coi teosofi neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio,
in Costantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ultimo rinascimento
con Giordano Bruno — e se riflettiamo che oggi ancora esse vivono nell'
Oriente asiatico, ope- ranti con la forza della fede in milioni di
coscienze, e che accennano per diversi segni, in questa nuova
prima- vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occidentale, noi
possiamo con sicurezza affermare che esse non furono apparizione fugace
ed effimera d'un pensiero individuale, ma parole di quel linguaggio
eterno che sgorga perenne dalle più profonde radici dell'anima
umana. (1) Si veda, per esempio, tanto per citare un
magnifico libro di scienza, V opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita
(Genova, Formiggini, 1912) e la recensione che io ne feci nel Giornale
del Mattino di Bologna. p: U P H O R B o s.
Rivista Ligure di Scienze , Lettere ed Arti^ a. XXXIX, fase. 2
(marzo-aprile 1912) Genova. La figura di Eùphorbos nell' Iliade. Pitagora
rincaraazione di Eùphorbos. — 3. Altre incarnazioni di Pitagora.
1. — Y'è forse alcuno per il quale, meglio che per Eùphorbos
figlio di Panto, possa ripetersi il famoso ver- so dell'antico
commediografo, che il Leopardi tradusse « muor giovane colui ch'ai cielo
è caro » ? Poiché ve- ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli
anni sotto le mura della sua Troja per mano del divino Me- nelao,
dopo aver ferito, primo fra i Trojani, il fortissimo Patroclo, Eùphorbos
ebbe la ventura non solo di una spiritual vita immortale ne la
immortalità dell'Iliade, ma di lasciare altresì il suo nome, come ora
vedremo, legato per sempre al ricordo di un grande pensiero e di
una più grande vita : al pensiero e alla vi+a di Pitagora.
Fusa nel vivo indistruttibile metallo della poesia d' 0- mero, la
figura dei giovinetto eroe appare, nel racconto dell' antica gesta, nel
momento più acuto dell' azione guer- resca. Quando, per l' ostinato
disdegno di Achille , più grave è per i Greci il pericolo nella memoranda
giornata del combattimento presso alle navi, Patroclo, indossate le
armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni alla battaglia, verso
l'ora del tramonto si trova coi suoi di fronte ad Ettore, che Apollo
protegge : in tre assalti egli ha uccisi « tre volte nove » nemici, ma al
quarto assalto un colpo del dio gli ha tolto l'elmo, infranta la lancia,
fatto cadere lo scudo, slacciata la corazza: II. XVI, 805
Smarrito il cor, fiaccate le valide membra, fermossi e titubò. Di dietro
allor con la punta de l'asta infra le spalle, al dosso, Io colse da
presso un trojano, il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali
con la lancia e sul cocchio e al muover degli agili piedi, 810 ed
anche allor, venuto appena sul carro, sbalzati venti nemici avea, di
guerra già prode campione. Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su
Patroclo auriga ; ne lo scrollò ; poi corse indietro e tornò ne la mischia,
tratta fuor da le carni la lancia di frassino; incontro 815
Patroclo, ancor che ignudo, ei già non attese a l'assalto (1). Patroclo
allor, stordito dall'urto di Febo e da l'asta, anco a 1' amiche schiere
traeva, fuggendo la morte. Ma com' Ettore vide dal ferro piagato ritrarsi
Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia, 820 presso gli
venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse sotto a r addome : fuori
n' uscì da l'opposto la punta. Quei con fragor giù cadde, e grave fu il
lutto de' Danai. (1) I versi 814-815 trovo segnati come
spurii nella quinta edi- zione del DiNDORF, curata dallo Hentze"
(Lipsia, 1890), sulla quale è stata condotta la presente traduzione. Ma
non mi pare ohe sia proprio necessario inquadrare fra parentesi i due
versi, così ome- rici pur nell'apparente disordine dei particolari
accennati : prima la pronta ritirata del giovinetto trojano, poi il
trarre dalle carni di Patroclo 1' asta ; l' idea preponderante per il
poeta (cantore in- nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato 1'
ardito colpo del giovine, è quella del suo rapido sottrarsi alla vendetta
di Pa- troclo ; fermata questa, il poeta si riprende p3r aggiungere
an- cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strappare dalla
fe- rita la lancia) e per rincalzare l'idea della fuga di fronte a
Patroclo, Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma il
caduto ne rintuzza 1' orgoglio, affermando che la vitto- ria non è stata
merito suo, sì degli dei: che lo hanno ucciso la Moira e il figlio di
Latona « e, degli uomini, Eùphorbos »; e predettagli la fine imminente
per mano d'Achille, muore e rimane supino in mezzo al campo di
battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte, che cerca di portare in
salvo il cocchio d'Achille. A guardia del cadavere di Patroclo si
fa innanzi l'A- tride Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo
davanti al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer-
mo d'uccidere chiuncfue osi accostarsi. Ed ecco ancora Eùphorbos, il cui
intervento dà luogo ad uno dei piìi begli episodi della battaglia :
II. XVII, 9 Pronto di Panto il figlio, esperto nel' asta (1),
s'avvide ch'era atterrato Patroclo, e fattosi subito innanzi
che, pur ferito e spoglio della difesa delle armi, era sempre un
troppo temibile nemico, anche per un più esperto guerriero che non fosse
Eùphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo rappresen- tare questa fuga
come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il figlio di Panto, come
dimostrerà fra poco nell' impari duello con Mene- lao. Sicché non mi pare
corrispondente né allo spirito né alle pa- role del testo omerico la
traduzione che dà il Monti di questo passo: Anzi dal corpo
ricovrando il ferro Si fuggi pauroso, e nella turba Si
confuse il fellon, che di Patroclo Benché piagato e già dell'armi
ignudo Non sostenne la vista. {IL XVI, 1146-1150) (1)
L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso : infatti già il poeta ha detto
che Eùphorbos primeggiava fra i coetanei « con la lancia » (XVI, 809), e
che « con l'asta acuta » ha ferito Patroclo (XVI, 806 e XVII, lo), come
con l'asta dà un colpo J' ultimo !) nello scudo di Menelao (XVIi,
43-45). disse al figlio d'Atreo, al prode guerrier Menelao : «
Menelao, divino germoglio, signor di gran genti, vanne, abbandona il
morto, qui lascia le spoglie cruento (1). Prima di me nessuno, fra'
Teucri o gì' illustri alleati, 15 giunse con 1' asta Patroclo, in
mezzo al furor de la mischia: lascia eh' io m' abbia dunque quest'inclito
onor fra' Trojani, che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro
». Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo : « Bello
davver, gran Giove, con tanta insolenza vantarsi ! 20 Certo mai fu
sì grande '1 furor di pantera o leone di cignal feroce, a cui nel
fiorissimo petto gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande
possanza, qual de' figli di Pauto, esperti ne l'asta, è la boria !
Ne ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già valse 25 di giovinezza
il fiore, allor che sprezzante affrontommi e disse me fra' Danai il più
dispregevol guerriero ! Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi
portato, ad allietar ritorna la cara consorte e i parenti ! Così la
tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu ardisci, 30 rintuzzerò. Ma io
ancor ti consiglio a ritrarti dov'è folta la turba. Chi è saggio
prevede l'evento ». Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose
: « Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta pel fratel
eh' uccidesti - e ancor tu me '1 dici vantando - 35 e nel segreto
talamo tu n'hai vedovata la sposa, e i genitor nel lutto e in muto
cordoglio gittasti ! Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una
tregua, se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja, fra
le man lo gittassi a Panto e a la diva Frontide! 40 Ma non più a
lungo, ornai, s' indugi a far prova con l'armi s' io m' abbia saldo il
core o pieno di vile paura ». Detto così, die un colpo nel tondo perfetto
suo scudo, ma non lo franse il ferro ; bensì gli si torse la punta
nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con 1' asta (1) Le
armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo, giacevano in
terra poco lungi dal cadavere. l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove
padre, e, mentre quei s' arretra, il coglie a la fossa del
collo; dentro spinge con forza calcando la mano pesante, e
dall'opposto n' esce pel tenero collo la punta. Cadde, die un tonfo e V
armi su lui con fragor risonare ; 50 s' insanguinar le chiome, che
simili aveva a le Grazie, (1) i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro
e d' argento. Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre in
solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi, bello, pien di
rigoglio, e poi, come l' agita il soffio 55 di tutti i venti, un
velo di candidi fior lo ricopre, (2; ma piombando improvviso un vento con
turbine grande dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo
abbatte; tale di Panto il figlio, esperto ne l' asta, Eiiforbo
l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi, 60 Come — allor eh'
un robusto leone cresciuto fra' monti * da pascolante gregge rapì la
giovenca più bella, Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e
non bionde^ co- me ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse
ricordando Pin- daro Nem>. 5 fine. Le Grazie furono sempre
rappresentate con lun- ghi ricci spioventi sì nelle arti plastiche e
figurative, sì nella let- teratura dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo,
194 sg. e Stesicoro, fr. XIII neìV Antol. della melica greca di A.
Taccone). — Si veda in proposito quello -che scherzosamente Luciano, noi
Sogno, fa dire a Micillo : questi, fra le altre cose dice al suo
gallo-Pitagora: « e « mi sembra che Omero per questo abbia detto le tue
chiome si- « mili alle Grazie, perchè « avvinte eran d'oro e d' argento
»: in- « trecciate infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano,
evi- « dentemente, molto piiì pregevoli e desiderabili » (XIII).
(2) Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti » la sta-
gione di primavera, quando — fra il marzo e 1' aprile — le piante s'
incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della loro fioritura
annuale ; anzi parmi che accenni qui proprio alla prima fioritura* del
bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine schian- ta, cosi come
l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinet- to forte ed
ardimentoso, fa cadere il serto di fiVite speranze che già s' intesseva
intorno al suo capo. ] cui la cervice infranse tenendola forte co'
denti, poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue —
intorno a lui, da lunge, si nnuovon con grande frastuono 65 cani, villan,
pastori, ma farglisi presso ad alcuno non regge il cor, che tutti li fa
scolorir la paura; così Jiessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì
ardita, eh' osi affrontar da presso la forza del gran Menelao,
E questi agevolmente porterebbe via le splendide armi di Eùphorbos,
se non glielo impedisse Febo Apollo, il quale, presentatosi ad Ettore
sotto 1' aspetto di Mente, lo consiglia a desistere dall' inutile
inseguimento dei cavalli d'Achille e ad accorrere invece là dove or
Menelao frattanto, il figlio pugnace d'Atreo, 89 corso a difender
Patroclo, uccise il miglior de' Trojani, il Pantoìde Euforbo e spento n'
ha il valido ardire. Ettore infatti, pronto, si fa largo tra le
schiere, vede r uno che toglie le magnifiche armi, 1' altro disteso
in terra e il sangue che sgorga dalla ferita, irrompe fulmi- neo
con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo subito, non osando da solo
tenergli testa, lascia a malincuore il corpo di Patroclo e si ritira
verso i suoi, per chiamare qualcuno in soccorso. Così egli non ha potuto
neppure portar via con sé sul suo cocchio la preziosa armatura;
della quale tuttavia dovette certo impadronirsi più tardi, quando i
Trojani sconfitti furono costretti a rinchiudersi entro le mura. E non
sarà stato quello il meno glorioso trofeo di guerra che avrà riportato
con se a Micene. Ma Eùphorbos, morto di così bella morte e
glo- rificato già dalla divina arte d' Omero, non rinacque per
avventura, dopo quattro secoli, a nuova vita e ad opere non meno belle e
gloriose? Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno traman- dato
che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola italica, l'assertore
più famoso della dottrina della metempsi- cosi, « nel tempio di Hera
Argiva, veduto uno scudo di « bronzo, disse che quello portava e gli era
stat^ tolto « da Menelao quando era Eùphorbos. E degli Argivi, «
staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome « d'Eùphorbos ».
Così afferma uno scoliaste d'Omero (//. XVII, 28) e così altri, fra gli
antichi scrittori, ricor- dano accennano la cosa. Chi non rammenta
infatti, tanto per citare i piìi noti, quella famosa ode d'Archita,
dove Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia, che « il
regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso « all'Orco un'altra
volta, sebbene, con lo scudo, che fece « staccare, data testimonianza dei
tempi della guerra troja- « na, non avesse concesso alla nera morte
niente più che « i nervi e la pelle? » (1) Il buon Orazio, tra
scettico ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella me-
tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2) Anche Ovidio,
che nell' ultimo canto delle Metamorfosi fa esporre da Pitagora stesso le
sue dottrine, lasciò espli- cito ricordo della tradizione, facendo dire
al filosofo : Ben io — sì lo rammento — nei dì della guerra di
Troja ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel petto
(1) Orazio, Garm. I, 28 vv. 9-13 : habentque
Tartara Panthoiden iterum Orco Demissum, quamvis clipeo Trojana
refixo Tempora testatus, nihil ultra Nervos atque cutem morti
concesserat atrae. (2J Id. Epod. VI, 21: « nec te Pythagorae
fallant arcana renati » ] la grave lancia infissa, per man
.del più giovine Atride, Riconobbi lo scudo, che già la sinistra
mia tenne, or non è molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno ».
(1) E ancora due secoli dopo il filosofo neo-platonico Por-
firio^ raccogliendo in una breve biografia molte notizie intorno a
Pitagora, lasciò scritto che questi « ricordava « a molti di quelli che
si recavano da lui la precedente « vita che 1' anima loro aveva vissuto
già un tempo pri- « ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé
stesso « rivelò con prove indubitabili d'essere stato Euphorbos «
figlio di Panto. E dei versi omerici cantava, accompa- « gnandosi
mirabilmente con la lira, quelli di preferenza: 50 s' insaguinàr le
chiome, che simili aveva a le Grazie, i caj)elli ricciuti, eh' avvinti
eran d'oro e d'argento. Come talora iTn florido arbusto d'ulivo si
nutre in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi, bello,
pien di rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio 55 di tutti i
venti, un velo di candidi fior lo ricopre, ma piombando improvviso
un vento con turbine grand® dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo
abbatte ; tale di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo r
Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi. < Poiché quel che
si racconta dello scudo di questo « Euphorbos frigio, che si trovava in
Micene, nel bottino (1) Ovidio, Metamorph. XV, vv.
160-164: Ipse ego — nam memini — Trojani tempore belli
Panthoìdes Euphorbus eram, cui pectore quondam Haesit in adverso gravis
basta minoris Atridae. Cognovi clipeum, laevae gestamina nostrae,
Nuper Abanteis tempio lunonis in Argis, « trojano dedicato a Giunone
Argiva, lo passo sotto si- « lenzio come cosa ben nota » (1).
La tradizione dunque era assai diffusa Tra gli antichi. Ora quale
ne sarà stata 1' origine? Un'invenzione pura e semplice ? Potrebbe anche
essere; nel qual caso dovrem- mo evidentemente pensare a qualche
discepolo o seguace del Maestro, il quale, per confermarne meglio la
dottrina della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la
storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne autore lo
stesso Pitagora. l' invenzione sarebbe nata da quel che abbiamo udito or
ora narrare da Porfirio, che il filosofo, appassionato lettore d' Omero,
recitava e can- tava spesso i delicati e soavi versi della morte d'
Eùphor- bos ? Anche questo è possibile. Ma a me pare molto più
semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan- tasticando in
ipotesi — credere senz'altro alla concorde testimonianza degli antichi.
Vi è forse nella cosa alcun- ché che trascenda i limiti della credibilità
e della vero- simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla
metempsi- cosi, e non era anzi questo il pernio della sua
psicologia e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe-
culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi seguaci ? Dunque e
ben possibile che egli, il quale aveva virtù taumaturgiche (tanto che
nella sua vita il meravi- glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^
egli, che tante profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi
viaggi in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche
magiche ai vita, profondando lo spirito in quelle sue me-
(1) PoRPHTRii, Vita Pythagorae^ 26, 27. Così presso Luciano nei
Dialoghi dei morti (20), quando Eaoo presenta Pitagora a Menippo, questi
si rivolge subito a lui con le parole: «Salve, o Eùphorbos ».
ditazioni — così intense, che erano quasi astrazioni dal corpo ed
estasi vere e proprie — , credesse di leggere nel suo passato la storia
della propria anima e ne desse notizia ~ se non proprio alle turbe — agi'
iniziati della sua scuola, . agi' intimi, ai più perfetti, da qualcuno
dei quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma per me r
attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven- tivo di qualche
zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite anteriori non ha nulla di
inammissibile e di men che credibile : lo zelo dei seguaci avrà forse
potuto aggiunge- re qualcosa, inventare qualche nuovo particolare o
ma- gari immaginare qualche nuova esistenza, ma l' origine prima di
siffatti racconti si può proprio far risalire allo stesso Maestro. Il
quale dunque potè realmente dire e naturalmente anche credere — poiché
non é ammissibile la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui vita
fu tutta un apostolato di verità e di bene — di essere stato
Eùphorbos. Ma in tal modo — si potrebbe osservare — se noi
accettiamo per vero quello che 1' antichità concorde ci ha tramandato,
che cioè Pitagora credette e diede a credere di essere stato il
giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di conseguenza che egli avrebbe
anche creduto nella realtà storica d' Eùphorbos, non già iato dalla
feconda fantasia d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per
que- sto ? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo — per
non dire di quelli dei secoli posteriori - - non credette nella realtà
della guerra trojana, e dubitò della esistenza di Agamennone, di Achille,
di Menelao, di Ulisse, di Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi
dell' Iliade e dell' Odissea? Né la critica storica demolitrice, né la
qui- stione omerica erano nate ancora, e Federico Augusto Wolf
doveva tardare ancora ventiquattro secoli a nascere e a lanciare pel
mondo la stupefacente teutonica mostruo- sità dei suoi Prolegomeni ad
Omero ! Di Pitagora gli ''antichi conobbero anche altre incarnazioni,
anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Por- firio, un poco più innanzi
: « Affermava di essere già vis- « suto precedentemente, dicendo d'
essere stato prima Eù- « phorbos, poi Etàlide, in terzo luogo Ermótimo,
poi Pirro « e allora Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è «
immortale e riesce, in chi sia purificato, a ricordarsi « dell'antica sua
vita » (2). Ma Diogene Laerzio ci ha conservato in proposito una
testimonianza — che risali- rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di Platone,
Speu- sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella di
Porfirio non solo perchè fa di Eùphorbos la seconda in- carnazione,
essendo stata la prima quella di Etalide, ma anche perchè riferisce ad
Ermótimo (terza incarnazione), anziché a Pitagora, 1' episodio dello
scudo, che sarebbe (1) Veramente si é incominciato già da
qualche tempo ~ anche in Germania — ad essere un po' meno radicali in
fatto di nega- zioni. E a quel modo che il Beloch, per esempio, ammise
come possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle diverse
parti del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una volta
si mosse sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il Drerup
{Ornerò^ Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere in
Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, forse anche in Priamo e in altre
figure dell' epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli rimangono
però gravi dubbi sulla realtà storica della spedizione contro Troja (p.
231 e seg.). (2) l. e, 45. Della cosa discussero anche gli
scrittori cristiani, come Tertulliano (de anima 28, 31, 34), Lattanzio
{Epit. Instit. dio. 36), Sant'Agostino {Irinit. XII, 24).
inoltre stato appeso nel tempio di Apollo a Branchidas, e non a
Micene. Ma ecco senz' altro le parole di Laerzio : « Dice Eraclide
Pontico che egli (Pitagora) afPermava di « se d' esser già stato Etalide
e ritenuto figlio di Her- « raes (1). E che Hermes gli disse di scegliere
quel che « volesse, tranne F immortalità : onde egli chiese il dono
« di conservare da vìvo e da morto il ricordo di tutti « gli eventi. Che
pertanto in vita si ricordava di tutto, « e dopo che fu morto conservò
egualmente la memoria. « Che in seguito rinacque Euphorbos e fu ferito da
Me- te nelao ; ed Euphorbos diceva d' essere stato un tempo «
Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e ricor- « dava le
trasformazioni dell'anima com'erano avvenute, « e attraverso quali piante
ed animali fosse passata, e « che cosa l'anima avesse sofferto nell'Ade,
e qual sorte « attenda le altre anime. E che quando Euphorbos morì
« la sua anima passò in Ermòtimo, che alla sua volta, « volendo dare una
prova dell'esser suo, andò a Bran- « chidas ed entrato nlel tempio d'
Apollo mostrò lo scudo « che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito,
re- « stando solo la parte esterna d'avorio (2). E che quan-
ti) Dobbiamo forse in questa ipotetica discendenza da Hermes, il
dio dei misteri, vedere significata la iniziazione di Pitagora alle
dottrine ermetiche? Mi par probabile; se pure non dobbiamo vedere in ciò,
come noli' altra comune tradizione che faceva di Pitagora un « figlio
d'Apollo », delle espressioni del linguaggio mistico fraintese.
(2) Pausania, nella descrizione che ci ha lasciata dell' Heraion di
Micene, dice ben chiaro che nel pronao del tempio, a destra, dov' era la
statua della dea, vi era « anche appeso in voto uno scudo, quello che
Menelao già tolse ad Euphorbos in Ilio ». (De- scriptio Graeciae II, 17,
3). Ora, poiché sappiamo che Pausania descrive nell' opera sua proprio
quel che ha visto coi suoi occhi
« do Erraótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo ; « e
di nuovo si ricordava tutto : come fosse stato prima « Etalide, poi
Eùpborbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E « che quando Pirro morì, rinacque
Pitagora e si ricorda- « va di tutto quel che s' è detto » (1). Non solo,
ma a sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco — vis-
suti fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb- bero lasciato
scritto che Pitagora rivisse ancora altre tre volte, come Pirandro, come
Calliclea e finalmente come una bella etera chiamata Alce (2).
E così r anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte- e avendo
sperimentato, chiusa nel carcere corporeo, le più varie condizioni d'
esistenza, sarà essa — dopo aver compiuto il ciclo assegnatole dal suo
proprio destino -— tornata a dissolversi nel gran mare dell' anima
univer- sale ? (3) o non avrà continuato ancora a vestirsi d'uma-
na carne, indefinitamente, secondo la favola di Luciano? (tanto
che una sua indicazione guidò lo Schhemann alla scoperta delle famose
tombe dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto quell'antichissimo
logoro avanzo, o una copia in bronzo fattane fare di poi, o addirittura
un qualunque scudo che i sacerdoti del tempio vi abbiano appeso in tempi
tardivi a ricordo e testimonianza dell'antica notissima tradizione?
Pausania in ogni modo visse nella 2^ metà del secondo secolo dopo
Cristo. (1) Diogene Laerzio, Vili, 4-5. (2) Gellio,
Noctes Attieae, IV, 11 : «... . Pythagoram vero « ipsum, sicut celebre
est, Euphorbum primum fuisse, dictitasse; ita « haec remotiora sunt bis,
quae Glearchus et Dicaearchus memo- « riae tradiderunt, fuisse eum postea
Pyrandrum, deinde Callicleam, « deinde feminam pulchra facie meretricem,
cui nomen fuerat « Alce ». (3) Se, come è probabile, Platone
ha desunto dal Pitagorismo i principii a cui informa la teoria delle pene
d' oltretomba nel De republica (X, 615) — secondo la quale chi aveva
commesso ingiu- « Lungo
sarebbe a dire — così parla il suo gallo fìlo- « sofo (Pitagora redivivo
anche questo!) — in qual forma « r anima mia venisse via da Apollo
volando, ed entrasse « in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal
guisa... « Mentre eh' io era Eùphorbos combattei a Troja, e quivi «
ucciso da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare « in Pitagora ; ma
fra 1' un tempo e V altro non ebbi « casa, aspettando che Mnesarco (1) mi
apparecchiasse « r abitazione.... — Ma quando ti spogliasti di
Pitagora « (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di
« Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo « Aspasia qual
uomo o qual nuova donna diventasti? — « Grate, cinico. — figliuolo di
Giove, qual differenza! « Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi
un po- « verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc-
« chio, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte. « Ma sopra
tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le stizia verso un
altro doveva subire dieci volte quella medesima ingiustizia e occorreva
quindi lo spazio di dieci vite per scontare le colpe della prima —
bisognerebbe veramente ammettere (s' in tende bene, dal punto di vista di
Pitagora e della sua dottrina) almeno altre due vite. — - Per il luogo
platonico e le relazioni che esso può avere avuto con il dogma cristiano
della resurrezione si veda ciò che ha scritto il Pascal nella Rassegna
Contemporanea del dicembre 1911 (ripubblicato in Credenze d'oltretomba^
II, pa- gina 199). (1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui
Luciano sorvola sul- le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove
{Vera Historia^ II, 21) egli dice: « In quel tempo appunto ci venne
(nella città di « Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che
allora aveva « finita la settima mutazione, vissuto le sette vite,
compiuti i sette « periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato
destro. Fu de- « ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva
se chia- « marlo Pitagora od Euforbo ». « altre amatissima)
servendo ad altri molti, a re, a pove- « relli, a ricchi uomini; e
finalmente vivo in tua compa- « gnia, facendomi beffe cotidianamente di
te, che ti que- « reli della tua povertà, e piangi e ammiri i ricchi
perchè « non sai i mali che comportano... » (1). E con
l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu- dere questa singolare
istoria d' Eùphorbos figlio di Panto, il quale fu veramente molto caro ai
celesti. (1) Luciano, Il Sogno o il Gallo (secondo la
traduzione di Ga- sparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo
dialogo. Il no- stro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su
Eùphor- bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque
indice delle opere di Luciano. IL SODALIZIO PITAGORICO DI
CROTONE. Edito dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna.
Tradotto e pubblicato in The Theosophieal Review (Londra) voi.
XXXVII, n. 219-20 (nov.-dic. 1905). Oggetto del
presente studio. -- 2. Origiiae o formazione del So- dalizio pitagorico.
— 3. Carattere e scopi di esso. — 4. Sua du- rata. — 5. Suo ordinamento.
— 6, Natura degl'insegnamenti che vi si impartivano. — 7.
Conclusione. L — Una tradizione che fu diffusa e concorde
nel- r antichità anche prima dell' apparizione del neo-pitagori-
smo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato nelle regioni d'
Oriente — in Fenicia, nella Babilonia, in Caldea, nella Persia, nell'
India e in particolare nell' E- gitto — e ^ver presa quivi conoscenza
delle dottrine se- grete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio
nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse (604-520 a. C.) e
nell'India Gotamo Buddho (560-480) (1) venne a Crotone, una delle più
fiorenti fra le città della Magna Grecia, dove, acquistato subito largo
seguito di ammiratori, istituì un celebre Sodalizio. Di questo ap-
punto intendo ora di esporre le origini, la durata e la costituzione,
valendomi delle notizie abbastanza numerose e particolareggiate, perchè
possiamo farcene un' idea esatta. (1) Cfr. le osservazioni
contenute nel cap. I dello studio di G. De Lorenzo suU' Bidia e il
Buddhismo antico (Bari, Laterza, 1904, 22 ediz. 1919). che ce ne
hanflo lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio (1), Porfirio (2),
GiambJico (3), Clemente Alessandrino (4), nonché, incidentalmente, gli
scrittori classici maggiori, delle quali poi si servirono, in misura piii
o meno larga, con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni
del- la filosofia greca in generale e del movimento pitagorico in
particolare, come il Krische (5), lo Chaignet, il Cen- tofanti, lo
Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuré (6) ed altri. 2. —
Quanto SiìVorigme dell' Istituto, la tradizione con- corde narra che
verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.) o poco dopo (7) Pitagora, giunto a
Crotone, forse accom- pagnato da numerosi discepoli che ve lo seguirono
da Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali da
conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in gran numero
ad ascoltare la sua parola ispirata (9), che (1) Vitae et
placìta clarorum philosophorum 1. YIII e. I. (2) De vita
Pythagorae. (3) De pythagorica vita. (4) Stromat.
libri, passim. (5) De soeietatis a Pythagora in urbe Orotoniatarum
conditae scopo politico commentano^ Gotting, 1831. (6) Les
Qrands Initiès, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed. ital. (Bari, Laterza, 1905).
Per gli altri autori v. note a p. 186 e 192. (7) Variano dal 529 al
540 le date proposte relativamente all' anno della sua partenza da Samo;
la prima data è ammessa dall' Ueberweg, Qrundr. I, 16, 1' altra è in
Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p. I, pag. 755. Il Lenormant {La Grande
Orèee) sta pel 532. Quanto all' arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che
nel 540 Pitagora vi si trovasse già. (8) GlAMBL. 29.
(9) V. Porfirio /. e. 20, che riferisce la notizia da Nicomaco e
Cfr. GlAMBL. l. e. 30. predicava verità non mai udite prima d'allora in
quella regione e da quegli uomini. Accolto con molta deferenza
tanto dal popolo quanto dalla parte aristocratica, che al- lora aveva
nelle mani il governo, per V entusiasmo su- scitato dalla sua
predicazione, fu eretto dai suoi ammira- tori un ampio edificio in marmo
bianco — homakoeion od uditorio comune (1) — nel quale egli potesse
inse- gnare comodamente le sue dottrine ed essi ridursi a vi- vere
sotto la sua guida. La tradizione, quale la troviamo presso Giamblìco e
presso Porfirio, aggiunge altri parti- colari: Pitagora, entrato nel
ginnasio, avrebbe parlato ai giovani che vi si trovavano suscitandone l'
ammirazione (2), del che venuti a conoscenza i magistrati e i
senatori avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo anch' essi
; ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi ottenne tale
approvazione da essere invitato a rendere pubblico il suo insegnamento^
al quale infatti molti accorsero pron- tamente, mossi dalla fama, subito
dilBFusa per tutto il paese, della grande austerità d' aspetto, della
dolce soavità d'eloquio, della profonda novità di ragionamenti del
fo- restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo che egli potè
esercitare nella città una vera dittatura morale; poi (1) Si
noti che Clemente (Strom. I, lo) lo identifica con quella che al suo
tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa cristiana. (2) V. in
Giamblìco op. cit. 37-57 un largo sunto di questo di- scorso, che ci dà
un' idea di quello che fosse l' insegnamento esso- terico di Pitagora. La
diversità notata a questo proposito dallo Zeller fra il racconto di
Giainblico e quello di Porfirio non mi pare sufficiente per trarne, com'
egli fa, l' induzione che il discorso ri- ferito dal primo non può essere
stato preso da Dicearco, citato dal secondo ; ad ogni modo è fuori di
dubbio che Dicearco stesso lo co- nosceva, se potè dire che conteneva «
molte belle cose ». si allargò, diffondendosi nei paesi vicini della
Magna Gre- cia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a
Ca- tania, ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle tribù
italiche dei Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed anche da Roma (1)
vennero a lui discepoli di ambo' i sessi ; e piìi celebri legislatori di
quelle regioni, Zaleuco, Caronda, Numa ed altri, l' avrebbero avuto per
maestro (2), sì che per merito suo si sarebbero ristabiliti
dovunque r ordine, la libertà, i costumi e le leggi (3). In questo
modo, dice il Lenormaiit (4), « egli potò giungere a rea- lizzare
l'ideale d'una Magna Grecia composta in unione nazionale^ sotto l'
egemonia di Crotone, non ostante la diffeirenza di razze degli Elleni
italioti » ; il che peraltro ò inesatto, poiché, come vedremo,
l'intendimento di Pi- tagora nella sua azione e nella sua predicazione
non fu politico nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, ag-
giunge un altro scrittore (5), non fu estranea all'acco- glienza avuta
dal filosofo ed al successo da lui riportato, una persona con la quale
egli doveva essersi trovato in rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre
medico ero- tonese Democede. Ma senza dubbio, più che a conoscenze
personali, l'approvazione ottenuta da Pitagora in Crotone e l'entusiasmo
da lui suscitato in tutta la Magna Grecia (1) DiOG. VITI,
15; PoEF. 22 ecc. (2) V. Seneca, 90, 6 che cita Posidonio ; Diog.
Vili, 16; Forf. 21 ; GiAMBL. 33, 104, 130, 172; Eliano, Var. Hist. Ili,
17 ; Diod. XII, 20. (3) V. DioG. Vili, 3; Porf. 21 sg , 54;
Giambl. 33, 50, 132, 214; Cic. Tusc. V, 4, 10; Diod, ìragm. p. 554;
Giustino XX, 4; Dione Crisost. or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos.
I, 11, p. 776. (4) Op. ciL, V. I, p. 75, (5) Cognetti
De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889Ì p. 465. furono piuttosto
l'effetto da un lato delle virtù intrinse- che delle sue dottrine e del
suo insegnamento, e dall' al- tro della disposizione e attitudine di
quelle genti a in- tenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed
ogni moto idealistico trovò sempre fra loro un generale e pron- to
assenso e un gran numero di seguaci, sia nei tempi più antichi, sia
durante il medio evo e nell' età moder- na (1). In queste attitudini dei
popoli del mezzogiorno sta la ragione del rapido diffondersi delle
dottrine pita- goriche, che furono accettate quasi universalmente :
tanto che molti (2), i migliori per intelligenza e per elevatezza
morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del Maestro, si
accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare più addentro nella conoscenza
del suo sistema filosofico, di cui intravvidero ed intuirono la vastità e
la compren- sione, si ridussero a poco a poco a vivere con lui,
atti- rati nella sua orbita d'azione e di pensiero da quella
spontanea simpatia che hanno sempre esercitato sugli al- tri tutti i
grandi apostoli dell' umanità. Così fu formato il Sodalizio, del
quale fu poi aperto (1) Così p. es. l'idea religiosa di cui
si fece poi paladino e ca- valiere S. Francesco, partì appunto dalla
Calabria, con l'abate Gioac- chino da Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E.^
lib. li, eie II). Del resto il Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell'
Italia Me- ridionale, (di dove penetrò in Roma con Ennio) e vi sorse a
nuovo splendore nei sec. XYI e XVII con la Scuola di Bernardino Telesio,
dalla quale uscirono, fra gli altri, il Campanella e il Bru- no— Cfr.
David Levi, Giordano Bruno^ Torino, 1888 pp. 124 sgg. (2) Porfirio
op. cit.^ 20 sgg., racconta che più di duemila cit- tadini con le mogli e
i figli si raccolsero nell' Homakoeion e vis- sero mettendo in comune i
loro beni e reggendosi con statuti dati loro dal filosofo, che veneravano
come un Dio. l'accesso a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e
alla sua filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo or-
dinamento che aveva forse visto attuato nelle scuole del- l' Oriente e
dell' Egitto, nelle quali come s' è accennato, egli aveva probabilmente
preso conoscenza dei Misteri. L'istituto divenne ad un tempo un collegio
d'educazione, un'accademia scientifica e una piccola città modello,
sot- to la direzione d' un grande iniziato ; e per mezzo della
teoria accompagnata dalla pratica, delle sciq^ze unite alle arti, vi si
giungeva lentamente a quella scienza delle scienze, a queir armonia magica
dell' anima e dell' intel- letto con l'universo, che i Pitagorici
consideravano come l'arcano della filosofia e della religione. La scuola
pita- gorica ha perciò un'importanza assai grande, perchè fu il
piti notevole tentativo d' iniziazione laica : sintesi an- ticipata dell'
ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il frutto della scienza
sull'albero della vita, e conobbe quin- di quell'attuazione interna e
viva della verità che sola può dare la fede profonda; attuazione
efiìmera, ma d'im- portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell'
esempio (2). 3. — Secondo che fu data maggiore importanza
all'uno all'altro degli elementi costitutivi della dottrina pita-
gorica alle forme e agli effetti esteriori di essa, diverso
(1) Sulle donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile uno
studio, che darebbe certo gran luce su molti fatti. Ad esse era impartito
un insegnamento particolare ed avevano iniziazioni pa- rallele, adattate
ai doveri del loro sesso. Giamblioo, op. eit. 267, dà i nomi di 17, tutte
chiarissime— -Cìt. ihid. 30, 54, 132; Dioo. Vili, 41 sg. ; PoRF. i9 sg.
ecc. —V. anche Schure, op. cit. pa- gine 379 sgg. (2) ScHURÈ
op. cit. p. 314. e il criterio che gli studiosi portarono nel giudicare
per quali intendimenti il filosofo avesse voluto creare questo
Sodalizio. Alcuni non ne videro che l'intento politico; così,
se- condo il Krische, « la società ebbe meramente lo scopo di
restaurare, consolidare e. accrescere il potere decaduto degli ottimati
e, subordinati a questo, due altri scopi, uno morale e l'altro di
coltura: di rendere cioè i suoi mem- bri buoni ed onesti, affinchè, se
fossero chiamati al reg- gimento della cosa pubblica, non abusassero del
loro po- tere con l'opprimere la plebe, e questa comprendendo che
si provvedeva al suo benessere, stesse contenta al suo stato ; e di far
studiare la filosofia a coloro che si accingessero al governo dello
Stato, perchè non si può aspettare un governo buono e sapiente se non da
chi sia colto ed erudito » (1). Ora quanto sia incompiuta ed im-
perfetta questa opinione del Krische apparirà dal seguito del nostro
studio. Gli intenti del riformatore non furono politici soltanto, ma
anche morali, filosofici e religiosi ; né il suo insegnamento voleva
mirare solo a Crotone, o alla Magna Grecia, sibbene ^Wuomo in generale ;
il con- tenuto politico che esso poteva avere era quindi appena una
parte, e neppure la principale, di un larghissimo sistema scientifico e
filosofico, che abbracciava tutto lo scibile. Altrimenti, nota
giustamente lo Zeller, non si spieghe- (1) l. e. p 101 —
Cfr. il giudizio del Meinees, Hist. d. scienc. etc. V. II, p. ]85 e
quello molto strano del Mommsen, St. di Roma antica^ Roma-Torino 1903, v.
I, p. 124 sg. : « Siffatte tendenze « oligarchiche informavano la lega
solidaria degli « Amici » (?), « fregiata del nome di Pitagora ; essa
ingiungeva di venerare la « classe dominatrice come divina, di trattare
come bestie quei « della classe servile ecc. » ! rebbe l' indirizzo
fisico e matematico della scienza pitago- rica, e il fatto che le
testimonianze piti antiche intorno a Pitagora ci mostrano in lui più che
l'uomo di Stato, il teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore
morale (1). In realtà egli mirava ad elevare nello spirito e nei costu-
mi i suoi discepoli, sia impartendo loro una cultura e una scienza univ
ersale, sia facendo ad essi praticare la più rigorosa disciplina
dell'animo e delle passioni. Con questo egli otteneva anche lo scopo,
eminentemente civile e umanitario, di migliorare via via sempre più
facilmente e largamente i cittadini e gli uomini tutti, poiché ogni
discepolo portava poi necessariamente fuori della scuola, nella sua vita
domestica € pubblica, la moralità e la dot- trina in quella acquistata,
diffondendola con la parola e con l'esempio tra i famigliari, i parenti,
gli amici. E in conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a poco
un mutamento anche nel governo della città, per il fatto che i
primi ad approfittare e a .far tesoro delle nuove dottrine essendo stati
probabilmente gli ottimati, questi direttamente, se ne facevano parte, o
indirettamente, se erano privati cittadini, dovettero portare nel
governo un nuovo indirizzo razionale e una più rigorosa moralità.
L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e l'aristocrazia, come osserva
ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma l'effetto dell'indirizzo generale
della scuola che chiamava a sé i migliori ; e se la tradizione ci
rappresenta il Sodalizio co- me un' associazione politica, ciò è vero a
patto che non vogliamo anche affermare che il suo indirizzo
religioso, etico e scientifico sia stato una conseguenza della
posi- ci) V. Eraclito pr. Dioc. Vili, 6; Erodoto IV, 95 —
Zeller, D. PhiL d, Oriech. P p. 328. zione che i pitagorici presero
nel campo politico ; perchè invece fu proprio il contrario.
Assai diversamente giudicò la natura della società pi- tagorica il
Grote (1), che la disse di carattere religioso ed esclusivo, e ad un
tempo attivo e spadroneggiante, poiché i suoi membri attivi avevano
appunto 1' ufficio di influire nel governo e sul governo, mentre i
contempla- tivi attendevano agli studi; proprio come nella
organizza- zione dei Gesuiti coi quali, dice, i Pitagorici presentano
una notevole somiglianza. Secondo lui insomma i seguaci del filosofo non
furono che « un privato e scelto nucleo d'uomini, di fratelli^ che
abbracciarono le fantasie reli- giose del Maestro, il suo canone etico, i
suoi germi (? !) d' una idea scientifica e manifestarono la loro
adesione con particolari osservanze e riti ». In tutto questo vi è
appena qualche ombra di vero; 1' esagerazione ha tolto la mano
all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio in Pitagora, esso
costituiva anzi il pernio di tutto l' in- segnamento esoterico, e il punto
di partenza della mera- vigliosa dottrina dei numeri che lo
simboleggiava; ma non si trattò punto di fantasie più o meno strane e
irrazio- nali ch'egli volesse dare ad ii\ tendere ai suoi seguaci,
sì bene di quella stessa dottrina religiosa che in Egitto, in
Oriente e in Grecia si insegnava nei Misteri e nelle scuole filosofiche,
unica nella sua sostanza — benché diversa nelle forme e nei simboli
esteriori — perché dovunque derivata dalla stessa tradizione, e, per
quanto mistica, fondata tuttavia saldamente sopra una verace e
controlla- bile esperienza. Il paragonare poi il sodalizio stesso
alla (] ) Hist. of. Oreeee^ T. IV, p. 544; cfr. Ritter,
Oeseh. d, Phi- los, I, p. 365 sgg. 192
setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha po- tuto fare
simile raffronto ben poca penetrazione nello spi- rito che informava
quell' antichissimo istituto ; è un giu- dicarlo dalle sole apparenze
esteriori, un disconoscerne gì' intenti non settarii, ma plrofondamente
umani, uno svi- sare infine l'opera di uno dei pili grandi pensatori e
apo- stoli che r umanità abbia avuto. Più vicino al vero è il
giudizio del Lenormant, in quan- to egli seppe vedere sotto le fo'^m^
della religione l' in- tendimento morale di Pitagora (1); ma ancora più
giusto e compiuto, perchè rispondente a tutti i dati di fatto la-
sciatici dalla tradizione, è quello che del Sodalizio diede uno storico
italiano, il Centofanti, col definirlo una So- « ci età modello, la
quale, se intendeva a migliorare le « condizioni della civiltà comune e
aspirava ad occupare « una parte nobilissima e meritata nel governo della
cosa « pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo «
morale e religioso e promoveva ogni buona arte a per- « fezionamento del
vivere secondo un' idea tanto larga « quanto è la virtualità delV umana
natura » (2). Con lui si accordarono press' a poco lo Chaignet (3) e lo
Zel- ler (4), per il quale la scuola si distingueva da tutte le
associazioni analoghe « per il suo indirizzo morale » pog- giato su
motivi religiosi or guidato da sani metodi d'edu- cazione e di istruzione
scientifica. Il Duncker quindi scris- se con molta verità che Pitagora fu
« non solo il Maestro « d' una nuova sapienza, ma altresì il predicatore
di una (1) Op. Git. l, p. 83. (2) Studi sopra
Pitagora, nel voi. La Letteratura greca (Fi- renze, Le Monnier), Opere^
p. 401 sg. (3) Pythagore et la philos. pythag. I, p. 98.
(4) Die Philos. der Orieehen V" p. 328. « nuova vita, il fondatore di un culto
nuovo e il bandi- « tore d' una nuova fede » (1). Soltanto tale novità ,
va intesa come relativa ai luoghi e ai tempi ; poiché, come ho
detto sopra, il fondo esoterico della dottrina aveva ori- gini assai
remote. Se tale era dunque l' intento della Società pita-
gorica, se al di sopra di ogni altra considerazione il grande di Samo
pose quella di riformare interiormente gli uomini e con ciò di modificare
anche — necessariamente — le condizioni esterne della vita individuale e
sociale, se egli mirò a costituire una religione fondata sul sentimento
in- teriore e non sulle pratiche esterne del culto, alle quali ben
raramente ed in pochi corrisponde un'adeguata cono- scenza e persuasione,
e che perciò acquistano un valore di mera superstizione e di vuoto
formalismo dogmatico, era troppo naturale che la nuova istituzione
dovesse su- scitare i timori degli elementi conservatori della
società crotouese ed italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari-
stocratici ignoranti che ne erano stati esclusi per deficien- za
intellettuale e morale, e dei sacerdoti che vedevano allontanarsi dalla
religione tradizionale e quindi sfuggire al loro dominio tanta parte — la
parte migliore — della gioventìi. E le calunnie che tutti costoro seppero
sparge- re, dovevano purtroppo trovare, come sempre, facile cre-
dulità nel volgo e pronto aiuto in tutti coloro che dalle nuove idee
vedevano lesi o minacciati i loro interessi per- sonali; tanto pili che —
come accade in ogni nuovo mo- vimento d'idee che tocchi e trasformi
l'assetto politi- co e sociale, — delle incertezze, degli errori, delle
de- (5) Qeseh. d, Alter. VI, p. 636. 13.
bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti e
fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre partito,
mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove dottrine. Ma di questo
noTi è fatto ricordo da nessun au- tore. È fatto invoce espresso ricordo
di un tal Cilene, aristocratico, che per la sua crassa ignoranza e per la
sua inettitudine non potè essere ammesso a far parte del So-
dalizio interno, e che « pien d' ira e di corruccio » co- minciò a
brigare fra i malcontenti, a spargere voci calun- niose, a mettere in
cattiva luce le cerimonie e 1' azione segreta della Società, continuando
la lotta con quell'a- sprezza e quella tenacia che gli veniva
dall'orgoglio gra- vemente offeso e dalla certezza di essere spalleggiato
da molti. Egli in questo modo, favorito com' era anche dalla sua
elevata condizione sociale e dalle idee democratiche, allora penetrate
nella Magna Gi'ecia da cui seppe abil- mente trarre vantaggio, potò
creare nel Consiglio Sovrano dei Mille una forte opposizione, che,
allargandosi e diffon- dendosi fra il popolo, facilmente ingannato dalle
apparen- ze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che
mistero, dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro il
filosofo ed i suoi seguaci. Così che, se il moto fu effettivamente moto
di popolo contro il reggi- mento arivStocratico, l'ispirazione tuttavia
venne dalla parte meno buona dell' aristocrazia e dal sacerdozio
ufficiale (1). Un decreto di proscrizione bandì senz' altro Pitagora,
die, dopo aver cercato invano ospitalità a Caulonia ed a Locri, fu
accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do- po ; ed una fiera
persecuzione fu iniziata contro i pitago- V. in proposito ciò che dice con
molta verità il Centofanti, op. cit. p. 4l6 sgg. rici, parte
uccisi e parte cacciati anch' essi in bando e profughi nelle terre
vicine. La durata del Sodalizio fu dunque assai breve, di non
pili che quarant' anni ; tuttavia 1' efficacia dell' insegna- mento
pitagorico durò per lungo tempo attraverso i se- coli (1) e la sua fiamma
non si spense mai, conservata religiosamente e religiosamente trasmessa
di generazione in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il
sa- cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle dottrine esoteri-
che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in pic- cola parte
poterono conoscerle. Nel sodalizio si distinguevano due classi di
adepti; quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (disce-
poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici uditori
(acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro volta in varie
classi, forse in corrispondenza coi diversi gradi, (pitagorici,
pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e discepoli diretti del
Maestro, era fatto l'insegnamento eso- terico segreto; gli altri potevano
assistere solo alle le- ziorìi esoteriche, di contenuto esr^enzialmente
morale (3), e (1) AmsTOTiLE ci fa sapere (Polii. V, lO) che
\q sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel
suo secolo; certo per la congiunzione loro coi posteriori istituti
pitagorici. V. Cen- TOFANTi, op. ni. p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis,
op. cit. p. 466. (2.) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e
noli' Italia me- dioevalo e moderna in tutti i periodi di risorgimento
filosofico. La repubblica utopistica di Platone come quella del
Campanella ripro- ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu
realmente praticato neir istituto Crotonese. !3; V. Clem.
Stromat. V. 575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ; PoRF. 37 ; GiAMBL. 72,
80 sg., 87 sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Yil- LOisoN, Anecd. II, 216. -
Secondo uno scrittore dal quale attinse 19t)
non erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come dice la
tradizione, lo sentivano, talvolta, parlare da die- tro un velario che lo
nascondeva ai loro occhi. Prima di ottenere l'ammissione non solo
ai gradi d'i- niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire
prove ed esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non ogni
legno era adatto per farne un Mercurio »; anzitut- to, come ci narra Aulo
Gelilo (1), un esame fisionomico che attestasse della buona disposizione
morale e delle attitudini intellettuali del candidato (2); se questo
esame era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla
moralità e vita anteriore erano soddisfacenti, egli era ammesso
senz'altro e gli era prescritto un determinato periodo di silenzio
(echemythia), che variava, secondo gli individui, dai due ai cinque anni,
durante i quali non gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da
altri, senza mai chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In
questo come nel lungo meditare e nella piìi rigorosa e severa disciplina
delle passioni e dei desideri praticata per mezzo di prove assai
difficili, prese dall'iniziazione egiziana, consisteva il noviziato
(parashevé). a cui erano Fozio (Cod. 349), gh adepti erano
distinti in Sebastici, politici, matematici, Pitagorici, Pitagorei e
pitagoristi ;. e lo stesso scrittore aggiunge che i discepoli diretti di
Pitagora erano chiamati pitago- rici, i discepoli di questi pitagorei e i
discepoh essoterici o novizi pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455
sg., 756 sg., 823 sg., 966; b 104) deduce che i membri della piccola
scuola pitagorica erano chiamati pitagorici e quelli della grande
pitagorei ; ed a ra- gione, purché non si identifichino questi ultimi con
i pitagoristi o discepoli essoterici, ma bensì si considerino come gh
iniziati di pri- mo grado. (1) Noci. Att. I, 9.
(2) OmaiNE fa Pitagora inventore della « fisionomica ». sottoposti
gli acustici. Costoro appena avevano imparato, col lungo tirocinio, le
due cose piti difficili, cioè l'ascol- tare e il tacer e, erano ammessi
fra i matematici (1) e allora soltanto potevano parlare e domandare, ed
anche scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo liberamen- te
la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad accrescere la
potenza delle loro facoltà psichiche, la loro sapienza si faceva a grado
a grado più elevata e più va- sta, sino a giungere all'intelligenza deìV
Essere assoluto, immanente neil' universo e nell' uomo : chi arrivava
a questa che era la più alta cima della speculazione filo- sofica,
e che segnava la fine di tutto l' insegnamento eso- terico, otteneva il
titolo corrispondente a questa inizia- zione epoptica, cioè il titolo di
perfetto (teleìos) e di ve nerahile (sehastikós) ; oppure chiamavasi per
eccellenza nomo. L' obbligo essenziale che si imponeva agli
adepti era quello del silenzio (2) e della segretezza verso gli
altri, senza eccezione per parenti o per amici. Tanto che per- sino
i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche cosa agli
estranei, erano espulsi come indegni di appar- tenere alla Società e
considerati come morti dagli altri confratelli, che innalzavano ad essi
nell' interno dell' isti- (Ij Così chiamati dalle discipline
che professavano, cioè la geo- tnetria^ la gnomonica, la medicina^ la
musica ed altre d' ordine superiore, per mezzo delle quali si elevavano
alle più sublimi ed eccelse vette della scienza umana e divina. - Sulla
medicina v. E- LiANO, Var. Hist. IX, 22. (2) V. Tauro pr.
Gellio, L e; Diog. Vili, 10; Apul. Fior. II, 15; Clem. Strom. V, 580 A;
Ippol. Refut. I, 2, p. 8, 14; Giamel. 71 sg., 94; cfr. 21 sg.; Filop. De
an. D 5 b; Luciano, Vii. auct. 3; Plut, De curios. p.
309. tuto un cenoiafio (1). È rimasta famosa e proverbiale
quindi la fermezza con la quale i Pitagorici sapevano cu- stodire il
segreto su tutto ciò che riguardava la scuola (2). Allo stesso modo era
considerato come morto chi, pur avendo dato buone speranze di sé e della
sua elevatezza spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto
che aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò bene
notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lun- ghezza del tempo di
prova che precedeva il passaggio da un grado a un altro aveva appunto lo
scopo di rendere impossibili o di limitare al minimo gl'inganni e le
de- lusioni. L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la
ricevuta iniziazione non obbliga^^a per nulla alla vita cenobitica.
Molti anzi, o per la loro condizione sociale o perchè non sapessero
rinunziare interamente al mondo o per altre (1) A questo
proposito sappiamo da Clemente (^S^row. V, 574 D), che riferisce una
tradizione ben nota, come Ipparco, a causa ap- punto dell' avere fatto
conoscere la dottrina segreta del Maestro con un suo famoso scritto in
tre libri, del quale ci parlano anche Diogene Laerzio (VITI, lo) e
Giamblico (199), fu cacciato dalla Scuola. Cfr. Oeigune, Cantra Celsurn
III, p. 142 e II, p. 67 Can- tab,; GiAMBL. 17; Th. Canterus, Var. Leet.
I, 2. (2) V. Plut. Numa^ 22; Aristocle p. Edseb. pr. ev. XI, 3,
1; PSEUDO Liside pr. GiAMBL. 75 sg. e Diog. VIII 42; Giambl. 226
sg., 246 sg. (ViLLOisoN, Aneed. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo
pr. Menagio in DioG. VIII, 50. Cfr. Platon., jS'p. II, 314,
l'afferma- zione di Neante su Empedocle e Filolao, e il racconto dello
stesso scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl. 189 sg.) secondo il quale
Myl- lia e Timycha sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima
si tagliò la lingua, piuttosto che rivelare a Dionigi il vecchio la
ra- gione dell'astinenza dallo fave. Così Timeo (pr. Diog. Vili, 54)
af- ferma che Empedocle e Platone furono esclusi dall' insegnamento
pitagorico, perchè accusati di « logoklopia ». ragioni, continuavano
la loro vita ordinaria, che natural- mente informavano ai principii
morali e alle conoscenze acquisite, diffondendo così con la pratica e con
la parola il bene a cui l'insegnamento appunto mirava. Erano questi
i membri attivi^ di cui ci parlano alcune testimo- nianze; gli altri
invece, gli speculativi^ vivevano sempre nell'Istituto, dove, in perfetto
accordo con tutte le altre pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le
quali miravano so- pratutto a far scomparire ogni forma di egoismo e
di orgoglio individuale, era praticata un'assoluta comunione di
beni. E non è poi così strano da doversene negare la verità (1), che
uomini dati a speculazioni filosofiche e re- ligiose e a pratiche morali,
e che vivevano insieme' per uno scopo unico, mettessero in comune i loro
beni, per il vantaggio dell'insegnamento e per la diffusione delle
loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^ non legati più
dai vincoli del mondo, da questa comu- nione di beni ? E quanto agli
esterni, non è naturale pensare che, per la virtù della fratellanza e
dell'amore acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse
spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me- (1)
Secondo lo Zeller lo testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr. Diog. X, Il
e di TiMKO di Taurom. ibid.^ Vili, 10) che fu anche, secondo Fozio (Lex.
y. v. Koinà) introdurre da Pitagora la comu- nità dei beni fra gli
abitanti della Magna Grecia sono troppo re- centi. Ma cfr. anche gli
Schol. in Fiat. Phaedr. p. 312 Bekk., e le testimonianze che troviamo in
Dioo. VILI, IO; Gell. I, 9; Ippol. Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giamrl.
30, 72, 168, 257 ecc. — Il Krische {l. e. p. 27) crede che fonte di
questa tradizione sia stata una falsa (?) interpretazione della nota
massima « le cose degli amici sono comuni »; il che mi pare ben poco
fondato, se si pensi che non è neppur corto che questa massima
appartenesse in modo particolare ai pitagorici (Aristot. FAh. Nic. IX, 8,
1168 b 0). desimo a disposizione dei suoi confratelli ? (1). Ed
infatti noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari segni di
riconoscimento (2) ~ come il pentagono (3) e lo gno- mone (4), incisi
sulle loro tessere, e la forma caratteri- stica del saluto (5) — dei
quali dovevano servirsi sia per conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda
nei loro bisogni sia per essere accolti, fuori di Crotone, dagli adepti
di altre scuole consimili, numerose così nella Magna Grecia come
nella Grecia e nell'Oriente (6). La vita che si conduceva nell'
istituto da quei disce- poli che vi rimanevano in permanenza ci e
sufficiente- mente nota per le narrazioni dei neo-pitagorici e per
le notizie sparse qua e là nelle opere dei più antichi autori.
Tutto era ordinato con norme precise che nessuno tra- sgrediva mai (7);
il che si intende facilmente, se si pen- si che ognuna di esse aveva la
sua giustificazione razionale e che, salvo alcune rigorosamente prescritte,
erano (1) V. DioD. Siculo Exeerpt. Val. Wess. p. 554; Diog.
Vili, 21. (2) GiAMBL. 238. ^3) V. gU Sckol, alle Nuvole
di Aristofane 611, I, 249 Dind. (4) Krische l. e. p. 44.
(5) Luciano, De Salut.^ e. 5. (6) Per questo, e forse per
altre analogie (come quella delle a- dunanze notturne di cui ci parla
Diog. VIII, 15) si è paragonato da alcuno l' Istituto pitagorico con
altre società segrete dei nostri tempi. V. su questo proposito un cenno
fuggevole nel Dici, de biogr. génér.^ Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41,
col. 243-244: « Les souvenirs de collège formaient sans doute pour les pythagoriciens
ce lien sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais quelle société
de Roseeroix ou de Francs-ma^ons ». (7) PoBF. 20, 22 sg. che cita
Nicomaco e Diogene (autore d' un libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96
sg., 165, 256. date più in forma di redola o di consiglio, che di
vero e proprio comando (1). Di buon mattino, dopo Ja levata
del sole, i cenobiti si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli e
silen- ziosi, fra templi e boschetti, senza parlare ad alcuno pri-
ma di avere ben disposto il loro animo con la medita- zione ed il
raccoglimento. Poi si adunavano nei templi in luoghi simili, ad imparare
e ad insegnare — poi- ché ciascuno era e maestro e discepolo (2) — e
pratica- vano continuamente particolari esercizi per acquistare la
padronanza delle passioni e il dominio dei sensi, svilup- pando in modo
speciale la volontà e la memoria e le fa- coltà superiori e più riposte
dello spirito. Non si trat- tava peraltro né di mortificazione della
carne e rinun- zia forzata ed obbligatoria ai piaceri normali delia
vita, ne di altre simili aberrazioni fratesche e conventuali: Pi-
tagora voleva soltanto che ognuno si mettesse in grado di assoggettare il
corpo allo spirito, per modo che que- sto fosse libero nelle sue
operazioni e nel suo svolgi- mento interiore : ma il corpo doveva essere
mantenuto sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru-
mento perfetto quant' er : possibile : onde gli esercizi gin- nastici d'
ogni genere fatti ali' aria aperta, e le prescri- zioni minuziose intorno
all' igiene e specialmente ai cibi e alle bevande. In generale i pasti
erano assai parchi, Il rispetto alia libertà individuale era una
delle caratteristi- che, e forse la più bella del metodo pedagogico
pitagoreo. V. su tale metodo F. Cramek, Pythag. quomodo educaverit atque
insti- siuerit (1833). Anche questa era una sapiente e
razionale disposizione, abi- tuando i discepoli alla virtù
attiva. ridotti al puro necessario, eJiminaudo tutto ciò che potes-
se offuscare la serena funzione dello spirito ed aggravare inutiluiente
lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe cotte e crude, poca carne e
solo di determinate qualità ed animali, raramente il pesce e pochissimo
vino la sera durantB il secondo pasto (1), il quale doveva essere
ter- minato prima del tramonto, ed era preceduto da passeg- giate,
non pili solitarie, ma a gruppi di due o tre,
e dal bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti
intorno alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a
discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il più anzia- no prescriveva,
di poesia e di prosa, e ad ascoltare della buona musica che disponeva gli
animi alla gioia e ad una dolce armonia interiore. Poiché « la musica,
onde tutte le parti del corpo sono composte a costante unità di
vigore, è anche un metodo' d'igiene intellettuale e mo- rale, e però
compieva i suoi effetti nell'anima perfetta- I
(1) La tradizione più diffusa ci parla di assoIui;a astinenza dalle
carni, dal vino e dalle fave. Pitagora forse era un puro vegetaria- no,
come ci attestano Eunosso pr, Porf. 7 ed Onesicreto (sec. IV a. C.) pr.
Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer- mare che tale dieta
fosse assolutamente obbhgatoria per tutti : al- trimenti non potremmo
spiegarci come mai alcune testimonianze parlino di certe qualità di carne
rigorosamente proibite. Probabil- mente P astinenza dalle carni e dal
vino ( quella delle fave pare fosse prescritta nel modo più formale e
categorico) fu un semplice uso, derivante dal. bisogno o dal desiderio di
manteaer sempre sve- glio lo spirito e di rendere meno tirannico — pur
conservandolo sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina
della trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto
; poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da
quel- lo normalmente attribuitole, secondo la comune credenza della
sua derivazione dall' Egitto. mente disciplinata di ciascun
pitagorico » (1). Non man- cavano iiifìno, durante la giornata, alcune
semplici ceri- monie religiose, piii precisamente simboliche, che
servi- vano a mantenere sempre vivo e presente in ognuno il culto
ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e a cui doveva tornare —
secondo la dottrina mistica del Maestro — il principio animico e sostanziale
di ciascun individuo umano. Altre testimonianze ci parlano di
astensione dalla cac- cia, dell'uso di vesti bianche !2) e di capelli
lunghi (3). Quanto slìV obblUjo del celibato di cui parla lo
Zeller, non solo non ò dato da alcuna testimonianza (4), ma è contrario
anzi a quelle molte che ci parlano di Teano, moglie di Pitagora, dalla
quale questi avrebbe avuto piìi figli (5) ed alle altre ove sono
determinate le norme ri- (1) Cento FANTI, op. cit. p.
390. i2) GiAMBL. 100, 149 che desunse forse la notizia da
Nicomaco cfr. RoHDE, Rh, Mas. XXVI, 3 5 sg., 47). Aristosseno, da cui
è forse presa — mediatamente — la notizia contenuta nel § lOO, non
parlava che dei Pitagorici del suo teuipo. V. Apul. De Magia e 56;
Filostb. Apollo??.. I, 32, 2; Elian(., V. (Iht. XTI. 32. (3)
FlLOSTR. l. C. (4) Egli cita veramente Clem. Strom. IH, 435 C. e
Diog. Vili, 19 ; ma nel primo di questi luoghi è detto solo . che da
alcuni si affermava i^he i Pitagorci « si tenevano lontani dall'amore
carna- le »; ciò che non significa punto che l'amore stesso fosse
loro proibito : anche qui probabilmente si trattava di una semplice
pra- tica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo
ci- tato è detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che
si abbandonasse a pratiche sessuali » . (5) Ermesianatte pr.
Ateneo XllI, 599 a; Diog. Vili, 42; Porf. 19 ; GiAMBL. 132, 146, 265;
Clem. Paedag. Il, e. 0, p. 204; Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniug.
praec. 31, p. 142 ; Stob. Eel. I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii.
Monac. 268-270 (Stob. Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Semi.
12. guardo al tempo più opportuno per dedicarsi all'amore (1); e
contrario poi — ciò che è piìi importante — allo spirito della dottrina
del filosofo, per il quale la famiglia era sa- cra, e i doveri ad essa
inerenti erano indicati con molta precisione ed accuratezza, massime
nell'insegnamento fatto alle donne. Anche il celibato insomma non dovette
essere che una pratica dei piìi ferventi discepoli, i quali, dediti
interamente alle speculazioni filosofiche ed agli studi, cre- dettero
forse di trovare nei vincoli di famiglia un osta- colo alla libertà dei
loro studi e delle loro meditazioni. 6. — Queste, in breve le
notizie che ci restano della storia esterna dell' Istituto e del suo
ordinamento interno. Per quello che riguarda in particolare
l'insegnamento, ab- biamo dunque veduto che esso era duplice e che
per essere ammessi a quello chiuso o segreto era necessario aver
dimostrato, con lunghi anni di prova, di esserne de- gni e di avere tutte
le attitudini necessarie a riceverlo. Chi non dava tali garanzie poteva
usufruire soltanto del- l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni
sim- bolismo e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente
morale. Abbiamo anche accennato che i discepoli esote- rici erano
iniziati gradatamente a forme sempre piìi ele- vate di conoscenze —
teoriche e pratiche — , nascoste sotto il velo di particolari formule
simboliche, facili da ricordare e schematiche, le quali avevano il
vantaggio che, conosciute dai profani, non rivelavano per nulla il
loro senso riposto e metaforico (2). Con ciò si voleva evi-
I (1) DioG. vili, 9. (2) L' Arte Mnemonica
di Eaimondo Lullo, uno dei precursori del Beuno e maestro di Gioacchino
da. Fiore, di Cortare il pericolo che conoscenze d'ordine superiore
fossero date in balia a menti inette a comprenderle, le quali,
appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni, limitazioni e
imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza inadeguata e così nascesse
il discredito e il ridicolo sulle dottrine fondamentali e su tutto
l'insegnamento. Il cri- terio usato neir impartirle era dunque che « non
si do- vesse dir tutto a tutti » e tale criterio — aristocratico
nel senso più ampio e più bello della parola — del pro- porzionare le
conoscenze alla capacità individuale, non può certo reputarsi illogico o
segno di vana superbia e di orgoglio intellettuale : anzitutto ò accaduto
in ogni tempo che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via
perduto, col troppo diffondersi, gran parte della loro per- fezione
primitiva ed abbiano finito o con V andare sog- gette ad ogni sorta di
travestimenti e di inquinamenti od anche col perdere affatto il loro
contenuto sostanziale, pur conservando le manifestazioni esterne e i
segni for- mali di esso ; in secondo luogo non essendo mai chiesto
all'individuo più di quello che le sue facoltà naturali e le sue
conoscenze effettive potessero comportare, e lo svol- gimento delle
facoltà stesse procedendo secondo quella progressione che la natura pone
nell' esplicarle e secondo i gradi della superiorità loro nell' ordinata
ed armonica conformazione della persona umana, non veniva ad esse-
re turbato in nessun momento quell' equilibrio, nel quale sì
conteniperano in armonia perfetta le varie attitudini di ciascuno, e ne
nasceva per l' individuo stesso una pace indisturbata e una fiducia in se
medesimo, che non dava NELio Agrippa, del Paracelso ecc.,
ebbe lo stesso carattere di una. simbolica universale, intelligibile ai
soli iniziaci. mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta
la vita era quindi sottoposta alla legge d'un' educazione si-
stematica e c(mtiuua, e delle attitudini individuali face- vano uno
studio diligente, coscienzioso ed incessante quelli che erano piti in
alto nell' ascesa verso la perfezione. Nei rapporti degli adepti
fra loro e con gli altri uomi- ni era legge suprema l' amore, e questo
infatti regnava sovrano tra quelle anime, avide soltanto di ben© e
desi- derose di attuare quant' ò possibile in questa vita quel-
l'ideale di giustizia che è, attraverso i secoli, la perenne aspirazione
di tutti i buoni. Nella scuola e nell' insegna- mento invece era il
principio autoritario che prevaleva ; principio razionale e giusto quando
corrisponda a una vera gradazione di merito e di valore individuale, e
per nulla insopportabile, quando l'insegnamento sia animato
vivificato dall' amore reciproco fra discepoli e maestri, e quelli
abbiano in questi fiducia e stima illimitata. Chi si avvia per la stiada
del sapere e vuole arrivare all'ac- quisto di un qualsiasi sistema di
conoscenze ha sempre nozione imperfetta e inadeguata delle verità che
impara, finche non sia giunto a comprenderne per intero l'ordine
necessario ; e le verità stesse, imparate che siano, non sono mai
sufficienti a costituire il sapere, se non vi si unisca l'esperienza
positiva della loro realtà. Ma poiché non tutte le nozioni, come si è già
detto, potevano es- sere intese da tutti pienamente e ciò non di meno
era necessaria la loro conoscenza, anteriore a quella delle lo- ro
ragioni intrinseche ed ideali, non era possibile l'inse- gnamento di esse
senza il principio d'autorità. E d'altro lato, non potendo questa medesima
autorità essere tolle- rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non
si fosse accompagnata anche la persuasione, nata dal riconoscimento
sperimentale di altre verità prima soltanto apprese, era giustissimo il
priocipio di coordinare l'insegnamento teorico ed il pratico. Oud' è che
gli adepti accettavano volentieri e senza discutere le dottrine che gli
iniziati superiori insegnavano in forma di precetti brevi, sempli-
ci, facili, simbolici, sìa perchè erano rafforzate dall'auto- rità suprema
del Maestro da cui derivavano, sia perchè gradatamente era anche
insegnato a ciascuno il metodo per verificarle praticamente da se
medesimo. Uipse dixit era pertanto, come dice benissimo il Centofanti
(1), « la parola dell'autorità razionale verso la classe non ancora
condizionata alla visione delle verità più alte e non par- tecipante al
sacramento della Società », mentre poi il vedere in ?>7/r> Pitagora
«valeva appunto la meritata ini- ziazione all'arcano della Società e
della scienza ». Resterebbe ora da dire in che cosa consisteva
l'insegnamento impartito con un metodo così rigoroso e prudente, quale
era la nuova parola che Pitagora portò fra quelle popolazioni, così piena
di fascino da persuadere tante nobili intelligenze ed ammaliare tanti
cuori, e a quale spirito era informato un. sistema educativo, che
non solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto po- tere da
trasformarne la natura morale e tutta la costitu- zione psichica. Ma poiché
questa esposizione della dottri- na pitagorica è già stata fatta da molti
(2), basti qui il dire che eèsa, riprendendo ed ampliando il pensiero
reli- (1) Op. cit. p 405. (2) Puoi vederla
esposta assai bone nei citati lavori del Cento- fanti e dello ScHURÈ ;
per quanto a quost' ultimo manchi in parte il necessario corredo di prove
e di testimonianze. gioso che la tradizioDe leggendaria personificò
in Orfeo, coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e
compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimen- tale e accompagnata
da un ordinamento razionale di tutta la vita, mirava a perfezionare gli
individui, non solo con l'approfondirne e l'estenderne le conoscenze
teoriche, ma anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado
la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ot- tenuto con
lunghe e pazienti pratiche (1) — delle facoltà latenti del riposto ego
divino, principio sostanziale di ogni attività dell* uomo. Erano pratiche
magiche che si usavano del resto in tutte le scuole mistiche e che non
eccedevano, se non apparentemente e solo per i profani, i limiti della
natura; e chi abbia una cono- scenza anche superficiale di questi studi
sa bene che la magia non era altro che un'arte, che si acquistava con
cognizioni ed esercizi particolari e s.egreti. Per le testimonianze sull'
uso di queste pra- tiche V. Plut. Numa 8, Apul. De Magia 3l ; Porf. 23
sgg., 34 sg.; GiAMBL. 36, 60 sgg., 142, dove sì parla di « antichi
scrittori degni di fede ». Cfr. anche Ippol. Refut., Euseb. pr. ev.
X, 3, 4 ; Aristot. p. Eliano II, 26 e lY, 17 ecc. Inizii leggendarii e
storici. Quinto Ennio e i suoi tempi. Sette e scuole pitagoriciie in Roma. Pitagora
e le sue dottrine nei filosofi latini. Lucrezio e il poema « Della Natura ». Frammenti
della dottrina di Pitagora desunti dalle opere di Varrone. Appio Claudio Pulcro.
Cicerone e il Somnium Scipionis. Mimi. Orazio.Virgilio. Pitagora e le sue
dottrine nella poesia di Ovidio. Eitphorhos. Il Sodalizio pitagorico di
Crotone rigs pytagoreum pythagoreum Turis Turio fatto fatta persino e
persino permaneant permanont stituiti istituti Queste righe sono
rimaste inter nel testo, mentre andavano in i pie di pagina ist
isti per fra intellegibili intelligibili
»ultima Geory. Georg. ferun ferunt
prae vista praevisa aequo aeque
ilUis illis maior maiore Mullach Mullach ultima
Leipzg Leipzig (Centra Centra a
poco a poco a poco senza altro senz'altro B Gianola,
Alberto 21^ La fort-una de Pitagora G5 presso i Romani
dalle origini fino al tempo di Augusto Enrico Caporali.
Keywords: l’implicatura di Pitagora – pitagorismo – neo-pitagorismo – epigrafe
sulla lapide di Caporali a Todi – Caporali – il mito di pitagora – la mistica
di pitagora – scuola di mistica pitagorica – reincarnazione – concetto di
metempsicosi – filosofia italica – pitagorismo nella Roma antica – Pitagora e
Platone – Pitagora ed Aristotele -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caporali” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Cappelletti – entellechia –
izzing and hazzing -- all’origine della filosofia antropologica – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
Grice: “I like Cappelletti – and so does he! He is into what he calls, in
Latin, to show off, ‘philosophia anthropologica,’ which is MY thing – I mean,
one can explore the philosophy of ‘life’ (bios) per se, and Aristotle on the
‘entelechia’ of a vegetable, but vegetable implicatures are boring (to us); the
idea of ‘psychology’ features large, and also ‘vita.’ When Cicero dealt with
Aristotle’s philosophy of life (zoe, bios, psyche) he found himself in trouble:
vita, anima – And then came Ficino and Pico! Cappelletti knows it all, and it
shows!” -- Vincenzo Cappelletti (Roma ),
filosofo. Dopo gli studi liceali
classici, si laurea prima in medicina poi in filosofia. Nel 1967, consegue la
libera docenza in storia della scienza che, dal 1968 al 1971, insegna, per
incarico, all'Perugia, quindi, dal 1972, all'Roma La Sapienza dove, nel 1980, consegue
l'ordinariato; ha successivamente insegnato la stessa disciplina all'Università
Roma Tre fino al 2002, quando è andato in quiescenza. Nel 1956, inizia a collaborare con l'Istituto
dell'Enciclopedia Italiana di Roma, fino a diventarne, nel 1969, vicedirettore
generale, quindi, l'anno successivo, direttore generale, carica che manterrà
fino al 1992. Questo periodo, vedrà una progressiva affermazione sia in campo
nazionale che internazionale dell'Istituto, con un forte incremento nella
produzione delle opere nonché l'apertura di nuovi ed innovativi progetti
editoriali. Dal 1992 al 2002, è
vicepresidente e direttore scientifico dell'Enciclopedia Italiana, carica
rivestita negli anni trenta da Giovanni Gentile, poi da Gaetano De Sanctis,
quindi da Aldo Ferrabino di cui Cappelletti sarà appunto collaboratore negli
anni 50'. Già condirettore della rivista di storia della scienza Physis (dal
1991) e degli Archives Internationales d'Histoire des Sciences, dirige, dal
1956, Il Veltro. Rivista della civiltà italiana (da lui fondata assieme a Aldo
Ferrabino), nonché presiede la casa editrice Studium. È anche socio storico dei
"Martedì Letterari". Dal 1970
al, è presidente della Domus Galilaeana di Pisa e, dal 1989 al 1997,
dell'Académie Internationale d'Histoire des Sciences. Dal 1999, è presidente
della Società Italiana di Storia della Scienza (presidente onorario dal ) e,
dal 1997 al, dell'Istituto Accademico di Roma. Inoltre, dal 2001 al 2005, è
commissario straordinario dell'Istituto Italiano di Studi Germanici, quindi
presidente dal 2006 al, promuovendone il passaggio da istituzione culturale a
ente di ricerca. Presiede inoltre, dal 1988, la Società Europea di Cultura, fra
gli anni 80' e 90' il Centro Italiano di Sessuologia (CIS), la Fondazione
Nazionale "C. Collodi" dal 1989, il Consorzio BAICR-Sistema Cultura
(Biblioteche e Archivi Istituti Culturali di Roma) dal 1991, la Fondazione FUCI
dal 1996 al. Dottore honoris causa
dell'El Salvador e di Moron-Buenos Aires, è stato socio straniero
dell’Accademia delle Scienze di Bucarest. Nel 1991, riceve il Premio
internazionale Montaigne per le scienze umane. Medaglia d'oro al merito
accademico, è insignito, nel 2003, della medaglia Koiré dell'Académie
Internationale d'Histoire des Sciences e, per due volte, della medaglia d'oro
al merito della cultura italiana, sia per gli sviluppi dell'Enciclopedia
Italiana che per la promozione degli studi di storia della scienza. La sua attività scientifica ha riguardato
inizialmente la storia e l'epistemologia delle scienze biologiche nella
Germania dell'Ottocento, quindi le teorie psicoanalitiche, in particolare la
psicoanalisi freudiana e la psicologia analitica, nei loro rapporti con le
altre discipline socio-umanistiche, fra cui l'antropologia, la politica e la
filosofia. Ha anche curato collectanee su aspetti del pensiero nonché le opere
di alcuni scienziati del Settecento e dell'Ottocento, fra cui Giovanni Battista
Morgagni, Emil Du Bois-Reymond, Rudolf Virchow, Hermann von Helmholtz. Quindi,
dopo aver ulteriormente approfondito gli aspetti storiografici e metodologici
delle scienze esatte e naturali, i suoi interessi di ricerca si sono rivolti
verso la filosofia e la sociologia delle scienze, analizzando, sia dal punto di
vista storiografico che epistemologico, i rapporti storico-dialettici fra
scienza e società, con particolare riguardo alle scienze umane. Pubblicazioni principali Emil Du
Bois-ReymondI sette enigmi del mondo, Firenze, Tip. L'impronta, 1957. Atomi e
vita, Bologna, Edizioni Cappelli, 1958. Entelechìa. Saggi sulle dottrine
biologiche del secolo XIX, Firenze, G.C. Sansoni, 1965. Opere di Hermann von
Helmholtz, Torino, POMBA, 1967 (2ª ed., 1995). Rudolf VirchowVecchio e nuovo
vitalismo, Roma-bari, Editori Laterza, 1969. L'interpretazione dei fenomeni
della vita, Bologna, Società editrice il Mulino, 1972. Emil Du Bois-ReymondI
confini della conoscenza della natura, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore,
1973. Freud. Struttura della metapsicologia, Roma-Bari, Editori Laterza, 1973.
Epistemologia, metodologia clinica e storia della scienza medica (), 5 voll.
(IV e V curati da V. Cappelletti e Dario Antiseri, 1982), Roma, Arti grafiche
E. Cossidente, 1977-82. La scienza tra storia e società, Roma, Edizioni
Studium, 1978. Saggi di storia del pensiero scientifico dedicati a Valerio
Tonini, Roma, Casa Editrice Jouvence, 1983. Antropologia dei valori e critica
del marxismo, Roma, PWPA-Edizioni dell'Accademia, 1984. Alle origini della
"philosophia anthropologica", Napoli, Guida editori, 1985. De
sedibus, et causis. Morgagni nel centenario (curato assieme a Federico Di
Trocchio), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1986. L'Enciclopedia
Italiana per l'Europa: le nuove opere Treccani, Roma, Quaderni de Il Veltro,
1992. Le scienze umane nella cultura e nella società odierne, Edizioni Studium,
1993. Etnia e Stato, localismo e universalismo, Roma, Edizioni Studium, 1995.
Introduzione a Freud, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997 (2ª ed., 2000; 3ª ed.
ampliata, ). Filosofia come scienza rigorosa. Edmund Husserl a
centocinquant'anni dalla nascita (con Renato Cristin), Soveria Mannelli (CZ),
Rubbettino Editore,. L'Università e la sua riforma (curato assieme a Giuseppe
Bertagna), Roma, Edizioni Studium,. Natura e pensiero. Percorsi
storico-filosofici, Roma, Aracne Editrice,. Onorificenze Medaglia d'oro ai
benemeriti della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia
d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte — Roma, 28 novembre 1992
Note Notizie bio-bibliografiche
sull'autore si trovano in V. Cappelletti, Natura e pensiero. Percorsi
storico-filosofici, Aracne Editrice, Roma,, Introduzione di G. Cimino (9-48),
Appendice (247-252). Cfr. V.
Cappelletti, "Attualità della storiografia scientifica", in: La storiografia della scienza: metodi e
prospettive, Quaderni di storia e critica della scienza, N. 5, Domus Galilaeana
(Pisa), CLUEB, Bologna, 1975,
315-329. La maggior parte delle
notizie biografiche qui riportate, sono tratte dalla biografia dell'autore
scritta da G. Cimino per l'Enciclopedia Italiana (cfr. sezioni "" e
""). Istituto Italiano di
Studi germaniciHome page Società europea
di CulturaHome page Guido Cimino,
CAPPELLETTI, Enciclopedia Italiana, V Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1991, vincenzo-cappelletti. Altri progetti
Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Vincenzo
Cappelletti Vincenzo Cappelletti, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. italiana di Vincenzo Cappelletti, su
Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Registrazioni di Vincenzo Cappelletti, su
RadioRadicale, Radio Radicale. Vincenzo
Cappelletti: La nascita della Psicoanalisi. Aforismi, storia del termine
inconscio, documento video, Rai Scuola.Filosofia Filosofo del XX secoloStorici
della scienza italiani 1930 2 agosto 21
maggio Roma Roma. Il termine entelechia
(entelechìa, dal greco ἐντελέχεια) è stato coniato da Aristotele per designare
la sua particolare concezione filosofica di una realtà che ha iscritta in se
stessa la meta finale verso cui tende ad evolversi. La crescita di
una pianta, con cui essa tende a realizzare la propria entelechia. È infatti
composto dai vocaboli en + telos, che in greco significano «dentro» e «scopo»,
a significare una sorta di «finalità interiore». Aristotele parla di
entelechia in contrapposizione alla teoria platonica delle idee, per sostenere
come ogni ente si sviluppi a partire da una causa finale interna ad esso, e non
da ragioni ideali esterne come affermava invece Platone che le situava nel
cielo iperuranio. Entelechia è quindi la tensione di un organismo a realizzare
se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto.[1] È
noto infatti come, secondo Aristotele, il divenire si possa considerare
pienamente spiegato quando se ne individuino le sue quattro cause: Causa
Materiale, Causa Formale, Causa Efficiente e Causa Finale. Per designare il
compimento del fine Aristotele usò appunto il termine entelechia che indica lo
stato di perfezione, di qualcosa che ha raggiunto il suo fine. I
neoplatonici si avvicinarono in parte alla concezione aristotelica secondo cui
la forma di un corpo doveva essere anche immanente ad esso e non solo platonicamente
trascendente, tuttavia trovarono riduttiva l'identificazione dell'anima con
l'entelechia, essendo l'anima per costoro qualcosa di anteriore al corpo e
comunque autonomo rispetto ad esso. Una sintesi tra la concezione aristotelica
e quella neoplatonica si trova in Campanella, per il quale la natura è un
complesso di realtà viventi, ognuna animata e tendente al proprio fine, ma
d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso una meta comune da
una stessa universale Anima del mondo. Anche Leibniz conciliò
l'entelechia aristotelica con la visione neoplatonica, facendone una proprietà
essenziale della monade, cioè di ogni "centro di energia", capace di
svilupparsi autonomamente verso la propria meta o destino: ogni monade non riceve
alcun impulso dall'esterno, ma tutte insieme formano un complesso unitario,
retto al suo interno da un'armonia prestabilita da Dio, Monade suprema. Esse
sono infatti coordinate al pari di tanti orologi, funzionanti per conto proprio
ma sincronizzati tra di loro. Goethe in seguito designò come entelechia
l'archetipo della pianta, cioè il modello ideale di ogni tipo vegetale che si
estrinseca in maniera tangibile nelle sue fasi di sviluppo esteriore,
adattandosi di volta in volta alle differenti condizioni ambientali in cui si
imbatte. Nel Novecento il termine entelechia è stato riproposto dal filosofo e
biologo Hans Driesch per designare la forza vitale da lui ritenuta immanente
agli embrioni e responsabile del loro sviluppo, in opposizione alle teorie meccaniciste
che li consideravano alla stregua di «macchine». Aristotele ne parlava infatti
come di qualcosa che ha la «vita in potenza» (De Anima). ^ Così Plotino in
Enneadi, IV, 7, 8. ^ Goethe, La metamorfosi delle piante (1790). ^ Sul concetto
di entelechia in Goethe, cfr. il saggio di Giorgio Dolfini, L'entelechia di
Faust, Olschki, 1983. ^ Dizionario di filosofia Treccani. Voci correlate
Aristotele Monade Collegamenti esterni (EN) Entelechia, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Entelechia, in Catholic Encyclopedia,
Robert Appleton Company.Filosofia Portale Filosofia: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di filosofia Categorie: AristoteleConcetti filosofici
greciNeoplatonismoStoria della scienza. entelechia
Termine usato da Aristotele in contrapposto a «potenza» (δύναμις), per
designare la realtà che ha raggiunto il pieno grado del suo sviluppo. Il
termine fu ripreso da Leibniz per indicare la monade, in quanto ha in sé il
perfetto fine organico del suo sviluppo. Nel campo delle scienze
biologiche il termine è stato usato per definire il principio dirigente dello
sviluppo di ogni organismo. In questa accezione il termine e. fu ripreso da H.
Driesch, che nella sua dottrina neovitalistica ammise l’esistenza di un
principio organico individuale avente in sé l’idea della realtà perfetta, cioè
dell’organismo completamente sviluppato. Energeia and Entelecheia. Entelecheia
9 possible to transfer this meaning to the opposite extreme, so something
can be “completely ruined” or destroyed: “even death is by a transference
of meaning called an end, because both are extremes, and the end for the
sake of which something is is an extreme” (Met.). Thus,
telos is not determined by its being opposed to something. It is not
logically or ontologically dependent on its opposite. Rather, the opposite is
borrows its meaning from the telos. It is not defined as the end-point of a
sequence. Rather, the sequence is derived from it by positing an opposite.
Aristotle argues for the primacy of an ongoing condition of
telos over telos as endpoint in his discussion of happiness in a
complete life (Eth. Nich.). The primacy of the completion-related use of
“telos” (fine, end) over its sequence-related usage is reinforced by
Aristotle’s use of telos to mean source (archē). The
completion-related use is evident in the phrase, “hoi en telei,” which refers
to a governor or magistrate. Telos thus suggests “origin (archē)”, a
source of action, events, or being that directs or structures what arises
from it. Aristotle argues for the identification
of telos with archē in Met. To be a
telos is primarily to be that for the sake of which, which is different from
(though not exclusive of) being an end-point of change (Met.). When we
speak of teleology, we may not necessarily mean Aristotle’s concept of
telos. We seem to mean the Scholastic idea of teleology, that is, an
assimilation of the Aristotelian idea to the historical concept of divine providence
(il fatum). It thus takes on the usage, for us, of a kind of goal set for a
creature in advance, external to it, and toward which it is confined to strive.
By contrast, at minimum, telos in Aristotle means
the inherent completeness or wholeness of a thing, a completeness
that may coincide with, and be the thing itself. “ Telos ,”
for Aristotle, does not primarily mean “ended,” or “
finished .” It means “complete,” “fully there ,”whole,”
“entire ;” and here it means “having its complete sense.” Its finality
is akin to what makes us say “at last ,” as in “at last we
find water.” Echein. The word echein means “to have” or
“to hold on” to something. The “grip” of having, as it were, is “being in
charge of, keeping,” or even “holding in guard, keeping safe,” and in a related
sense, “holding fast, supporting, sustaining, or staying.” The infinitive can
mean “to be able.” When a location is specified, it can mean “to dwell”
there. The relationship of telos to being is the reason the
word echei , “have,” is im portant to entelecheia.
Aristotle uses echein to say: “Those things are said to be complete
[ teleia ] for which a good telos initiates activity
from within [ huparchei ], since it is by having the telos that
they are complete ” (Met.). A thing is complete (teleia) by having or
holding onto telos . “Having,” then, stands in for the term “initiate
from within” (huparchei ), a word often translated as “belong to” or “be
present.” Echein, then, is another way to express the inherence of
the telos . The most revelatory sense of echein for our
current context, perhaps, is that in ordinary Greek the verb can
substitute for “be”: in response to a greeting, kalōs echei
means “it is well.” 29 Now3: Energeia and Entelecheia Energeia and
Entelecheia in the Proof of Change 10 “having,” “holding on,” and
“sustaining” are ongoing conditions or activities. Using echein as
a synonym for being, then suggests that being is not static or passive, but a
continual accomplishment. Based on these considerations, it seems clear
that the standard practice, which translates both energeia
and entelecheia with the word “actuality,” should be
abandoned. Energeia should be rendered “being-at-work” or
“activity,” but could also be translated “being insofar as it works.”
Entelecheia can only be rendered by a range of nearly-equivalent
renderings. “en-“ literally makes the word mean ‘being in the
telos,’ ‘telos’ is not conceived horizontally as “at the end of a
sequence” or “finished off,” but vertically, as fulfillment, completion, or
accomplishment, while echein means ongoing activity, but also is a
word for being. In general, entelecheia should be rendered
by “being-complete,” with the word “being” a translation of “having”
(echein), and understood as an ongoing accomplishment. Less versatile translations
are “staying-fulfilled,” “holding o nto completion,” “holding itself in
completion,” “holding its completion in itself,” “in active completion,” and
other such formulae. Energeia and
Entelecheia in the Proof of Change Now that we have examined the
words energeia and entelecheia themselves in general,
we need to see how they are used in Aristotle’s account of change, and to
resolve an apparent self -contradiction in the use of being-complete
(entelecheia) to define incomplete motion. I shall argue
that energeia applies to individuals,
while entelecheia applies to composites, a broader class of things
that includes individuals. In the proof for the existence of
change, energeia and entelecheia are used differently:
being- built (oikodomeitai) is the being-at-work (energeia) of what is
built (oikodomēton ), while building (oikodomēsis) is change (kinēsis) and the
being-in-completion (entelecheia) of what is built as built: being-complete
(entelecheia) change building being-at-work ( energeia ) of agent
being-at-work ( energeia ) of what is worked-on builder / agent (
oikodomikon ) buildable / patient ( oikodomēton ) requires buildable requires
builder Energeia as being-built ( oikodomeitai ) means theVincenzo
Cappelletti. Keywords: alle origini della filosofia antropologica, entelechia –
vita – filosofia della vita – Grice, “Philosophy of Life” – Aristotle on
entelechia – storia della scienza – storia dela psicologia filosofica --. Il
concetto di entelechia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cappelletti” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Capra – del corpo animato – delo
l’isola di delo, apollo delio – il chiaro – principio di perspicuita [sic] -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo italiano. Grice: “Plato,
who never fought, thought the soul was in the brain; Aristotle, who taught
Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of the
body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed at
them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores the
conceptual intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the most
general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that he
philosophised with his companion while they did peripatetics along the valley
of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to
self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary
Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s,
and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of
Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to
SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio –
un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o
club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina.
Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero
per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica
del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste e
descrisse i risultati dei suoi studi in un volume dal titolo De morbi pandemici
causis, symptomatibus et curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un
volume sulle proprietà mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi
filosofichi. Un saggio filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e
considera i principi di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele,
contro Platone, la sede corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla
testa!Altro saggio tratta dell'immortalità dell'animo alla luce della
psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed
Epicuro. Di Marcello Capra non si conoscono esattamente il luogo e la data
precisa della morte. Uomini illustri
della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità
dell ' animo umano è considerata come incerta. Ma ciò sia detro di passaggio;
che noi non vogliamo, ne dobbiam difendere l'Immortalità dell? animo Umano con
tanto pericolo. E a chi domandi, l'immortalità dell'animo è vita futura?
rispondiamo, esser futura la sanzione. ftante la lor confufione coll'anima
universale diffusa in tutta la mole corporea · Onde opponendo quegli Antichi
l'immortalità dell'animo alla mortalità del corpo, mostravano, che questa
immortalità intendeano, come una permanenza eterna. La sola immortalità,
dunque, alla quale si possa pensare, e alla quale effettivamente si è sempre
pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io
trascendentale; non quella, in cui si è fantasticamente irretita la mitica. L'uomo
adunque, come egli è creato in mezzo fra l ' Angelo, e la bestia, cosi alcuna
cosa comunica con gli Angeli, cioè l'immortalità dello spirito, e in alcune
cose comunica con le beftie, cioè la. mortalità della carne insino, che la
carne... Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae et Mentis ad
Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum, quando de Sede
Animæ rationalis disputamus, per Sedem strictè nos non intelligere firum, qui
exigit distinctionem seu divisionem partium in loco, folisque competit
corporibus, sed, ut Scholastici nuncupant... Dialogus
de instrumento philosophiae. Publication: Messanae: ex typographia Fausti
Bufalini, Marcelli Caprae,... de Immortalitate rationalis animae juxta
principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum. —
Panormi, apud J. F.... De Immortalitate rationalis animae juxta principia
Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum il Capra,
nicosioto, il quale nel 1589 inandava fuori due Quesili, l'uno De sede animae
et mentis ad Ari stotelis praecepta, adversus Galenum, l'altro De Immortalitate
A nimae rationalis, justa principia Aristotelis, adversus Epicurum, Lucretium,
et Pythagoricos; Caprae Marcelli, nicosiensis, De sede animae et mentis ad
Aristoteles praecepta, adversus Galenum, Quaesitum. Panormi in 4. De
immortalitate animae rationalis, iuxta principia Ari stotelis, adversus
Epicurum, Lucretium, et Pythagoricos, Quae situm. Ibi in 4. Qualche relazione
con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal Capra in quel
torno di tempo, come: De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta,
adversum Galenum. Quaesitum (Panor.); — De immortalitate. Capra, filosofo siciliano
originario di Nicosia, può essere considerato un altro esponente non secondario
della quaestio che interessa la sede dell’anima (o animo) razionale. Studia a
Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da cui aveva mutuato
l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia generale e
psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di Capra,
si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO. Nel “De sede animae et mentis ad
Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don Diego
Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, Capra dà ampio saggio delle
sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese della psicologia
aristotelica. Per Capra la quaestio de sede animae si presenta immediatamente
duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima come principio di
fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e corruzione (quaesitum de
sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un principio immateriale, immortale
ed eterno (quaesitum de sede mentis). Disputaturus (ut ad peripateticum
pertinet) de animae sede. quoniam una aeterna, ut in nostro quaesito
demonstravimus: altera mortalis. Quibus non eodem modo sedes convenit.
Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de sede animae quae interitui
est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius partis quae venit deforis,
et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto all’impostazione, il
saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e responsiones secondo
l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è rappresentato dalla tesi
galenica dell’estensione e dislocazione reale dei principi psichici nel corpo.
Capra distingue anzitutto tra “principato” (principatum) ed “estensione”
(extensio) dell’anima. Il principato riguarda l’organo che per primo si attiva,
si modifica o cessa di funzionare in determinate condizioni. L’estensione,
invece, ha a che fare con la reale presenza dell’anima nelle strutture
materiali. In quest’ultimo senso si hanno due alternative: o l’anima si trova
ad essere suddivisa in più parti del corpo, oppure si trova tutta insieme in
una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono però respinte, anche con
argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In generale l’estensione
dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato aristotelico che vuole
l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima deve essere considerata il
corpo nella sua interezza -- principatum consideramus; cum obtinet in aliqua
corporis particula. At si consideramus extensionem, ea est ubique. Obiectio Et
quoniam ad huc quispiam instare posset per ea quae retuli in praecedenti
quaesito. Nam per ligamenta conspicimus privari membra sensu et motu. Quod non
contingeret si anima per totum corpus esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando
videtur asserere animam esse in spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex
eis colligimus principatum, et insuper colligimus spiritum esse id principium,
per quod anima iungitur corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam
non esse extensam, quia reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam
mortalem esse temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et
Platonis vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum
cordis. Nam si id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur
vegetalis. Nec essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non
conveniat sedes ut corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim
in toto corpore: et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus
totum corpus esse animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui
essa si manifesta, invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta
realmente forse solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa
via, distingue quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La
prima compete all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si
serve. La seconda rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come
espressioni di un'unica attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi
dimostrerebbero in tal senso che qualsiasi organo, separato dalla sua
connessione con il cuore, diviene torpido o mal funzionante. Et authoritatibus,
et rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad
reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu
et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in
ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis
parte. Ma essi, secondo Capra, evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza
a ricostituire spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa
con le operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza
da un principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il
corpo ed ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle
altre forme materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che
tuttavia non è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa
possiede un principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che
l’anima è una in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale
da interessare allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme
inferiori, ma in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali
forme si osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci
del cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima
sia forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa
in relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal
cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più
sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo
delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le
specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima
dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine
dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est
tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus.
Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen
totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a quo
pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate.
Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit
formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item
considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec
omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam,
et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et
divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus
spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem,
et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem
ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus
partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione
corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e
quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità,
mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa
in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede
dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al
corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere.
Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per
rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, Capra fa
affidamento alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes
quae origo, et principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec
operari valet. Sed huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes
affirmant. Immo Hyppocrates ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove
infatti ha origine il calore naturale – egli argomenta – ha origine anche
l’anima quae educitur primo de potentia materiae. Ma, calore e vita hanno
origine dal cuore e si diffondono attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto
il corpo: a quanti dicono che gli spiriti siano sede dell’anima si deve
rispondere che è necessario considerare il calore come sede. Infatti gli
spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un certo tipo di spirito,
giacché nello spirito si conserva il calore, la cui origine non è né il fegato
né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine precipua. E se anche alcuni
anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti alla pulsazione, si sono
sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa esperienza. Infatti, il
cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più sottili del sangue, debbono
avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che viene attratta. Perciò si
deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che possa adattarsi a ciascun
singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo vivente è il cuore. Ad id
quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos calore considerare debemus.
Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor naturalis quidam spiritus est. Cum
in spiritu servatur calor. Non epar non cerebrum est origo. origo itaque
praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli pulsui. Id tribuerunt. Falluntur,
et falsitate experientia nituntur. Nam caloris origo cor est, et ibi spiritus
extenuissimis partibus sanguinis gigni debent: non autem ex attracto aere.
Propterea ea est censenda animae sedes. Quae singulis viventibus convenire
valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo dunque il cuore quale sede
dell’anima, prosegue Capra, si riuscirà facilmente a giustificare i fenomeni di
accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei nervi. A questo punto, però,
l’autore è costretto a fare i conti con la tradizione prettamente medica che si
richiamava a Galeno ed agli esperimenti relativi alla separazione dei principi
fisiologici nel corpo, ad iniziare dal movimento dimostrato dal cervello relativamente
alla sistole ed alla diastole, affermato dai medici ed accettato con grande
riluttanza da Capra. Et cum cor primo movetur vere potest esse principium motus
aliorum: nam et si moveatur per sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur
motu, et anima per motum maxime diiudicatur. Non enim censendum est ut falso
putant nonnulli Anatomici medici, quod cerebrum quoque movetur per sistolem et
diastolem: quoniam si id conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per
cerebrum distributes. Nel ritenere che il cervello sia importante tanto quanto
il cuore medici falluntur, scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche
motivazioni aristoteliche, esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il
cervello è di per se stesso insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non
basta. Poiché, come già visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle
arterie hanno secondo Capra il solo scopo di dimostrare che, separati
dall’attività di infusione di calore e vita propria del cuore, tutti gli altri
organi vengono privati delle proprie funzioni, non può far altro che dichiarare
false la maggior parte delle dimostrazioni anatomiche ottenute mediante
legamento: Gli anatomisti inoltre legano un cane, e danno ordine di tagliare
velocissimamente il torace. Quindi legano quattro vasi del cuore e lo
asportano, dopo di che sciolgono il cane, che grida e corre. Questo genere di
scappatoie non hanno alcun valore: ed in primo luogo perché le esperienze che
costoro riferiscono sono decisamente incerte, e forse in gran parte false. Talvolta,
infatti, gli uomini vivono anche dopo che sia stata asportata loro una parte di
cervello, e si sono visti spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre,
una volta formato il cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che
il cervello sia formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae,
cosa questa, invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici
quidam canem ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor
vasa cordis. Et cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit.
Evasiones hae nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et
fortasse magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid
cerebri detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt
animalia. Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum
productum, sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum
habet. Dunque, in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta
il cuore, da cui hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i
temperamenti; attraverso di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce
(copulatur) con le funzioni vitali dell’organismo attivando in successione
tutte le altre: secondo Capra, infatti, gli esperimenti di legamento indicano
che ciascun organo, interrotta la via che lo collega agli spiriti prodotti dal
cuore, cessa pian piano la propria attività peculiar. Questa strenua difesa del
cardiocentrismo aristotelico in pieno Cinquecento può sembrare arretrata
rispetto al clima costituitosi sul finire del secolo intorno all’intepretazione
anatomica del Quod animi mores, e soprattutto del De placitis, ma si ricollega
di fatto anche a sviluppi successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui
il primato del cuore non necessariamente implica una svalutazione delle
funzioni del cervello. Ed, in effetti, l’importanza del cervello come sede del
pensiero verrà in parte recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De
sede mentis. Se la concezione galenica relativa alla localizzazione delle
funzioni psichiche si è rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima
è infatti indivisibile --, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la
totalità delle funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può
tuttavia negare che gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba
essere considerato sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale.
Anche in questo caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è,
in quanto tale, immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso,
prove a favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo Capra e
possono essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il
pensiero richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il
ribollire o fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo
analogo nel cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur
restando inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a
motivo della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo) negli
accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non
raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni
dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla
corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la
soluzione fornita da Capra è quella di postulare una duplice unione tra anima e
corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa
il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la
natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un
organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le
operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma
avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei
Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte,
come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede
dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie
premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la
mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici
coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene
nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che
all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che,
in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per
operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo
in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>,
ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire: conclusione. Alla mente non spetta una sede.
Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non
dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione.
Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione
della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono
portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra
dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta
verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama
unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima.
Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto
operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli
spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro
strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in
particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è
la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed
intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è
membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché
ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che
Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine
ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem
considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque
interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere
deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis
fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti
censent. Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera
per operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc
dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus
convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei sedem
convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per naturam iungitur
animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum erunt
istae conclusiones verae, Videlicet. Conclusio. Menti non convenit sedes. Haec
vera est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non
dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis.
Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro
perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est ministra intellectus. Cor est
sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis intellectus nobiscum quae
nuncupatur coppulatio per naturam. Cor est praecipua animae sedes. Sedes inquam
virtutis. Conclusio. Cererbum est sede. Operantis animae, et operationum.
Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum facultatum,
eiusque commune instrumentum. Conclusio. Tota humana species est sedes mentis.
Proprie tamen homo sapiens. Conclusio. Imaginativa est sedes mentis. Conclusio.
Cor essentialiter, et intrinsece est praestantius membrum quam cererbum.
Conclusio. Cerebrum accidentaliter, et extrinsece est divinissimum membrum.
Conclusio. Sed cum aeternum aeterno coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem
mentis. Quoniam in eo solo conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per
infinita saecula saeculorum. Amen. Nella serie di conclusioni che chiudono
l’opuscolo, alcuni storiografi ottocenteschi hanno voluto scorgere una
dichiarazione di averroismo. Sembra tuttavia difficile distinguere la presunta influenza
averroistica da una sincera e piena dichiarazione di fede. Con il “De sede
animae et mentis” Capra si assiste al tentativo di riportare il problema della
localizzazione psichica ad un unico centro funzionale, il cuore, di contro al
poli-centrismo galenico. Ma l’operazione – di per sé condotta in osservanza del
più rigido aristotelismo – sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione
con il corpo (“duplex coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà
il dual-ismo galenico tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra
della rete mirabile, quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della
differenza che intercorre tra operazioni puramente mentali o psicichee ed
operazioni lato sensu “fisiologiche”. Il suo contributo è interessante, semmai,
dal punto di vista dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti
galenici circa la legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove
empiriche che adduce a sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è
soprattutto l’idea che il principio psichico, inteso quale principio basilare
della “vita”, debba avere un centro a tenere banco nella discussione,
discussione che pure non può fare a meno di costanti appelli agli Anatomici, e
quindi alla tradizione medica del proprio tempo. È comunque sullo stesso piano
– l’intepretazione di esperimenti che nel loro orizzonte osservativo si
coordinano tutti intorno alla lettura del De placitis Hippocratis et Platonis,
e quindi del Quod animi mores – che si muove anche la critica antigalenica
mossa da Bernardino Telesio nel Quod animal universum. Con Aristotele
vengono a inaugurarsi nella storia del se gno alcuni fatti nuovi, destinati ad
avere una notevole du revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e
profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti
del lessico delle scienze e delle pratiche professio nali che avevano fatto
riferimento ai segni e al sapere con getturale in genere. Il vasto alone
semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva
caratteriz zato per tutto il V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia,
pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra fia, nella stessa
letteratura filosofica, viene piegato alle esi genze di una definizione
categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e separa i
campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza, non ha che un successo
parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che
Aristotele riesce a rendere rigoro se e rigide le distinzioni, proposte in due
passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa
del la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argomento
scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond, l'uso dei vari termini del
lessico semiotico gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie
gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con traddice, tuttavia,
il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia
stata profonda e abbia inaugurato una solida tradizione, che continua nella
trattati stica successiva, fin nella retorica romana. Del resto le esigenze di
distinzione teorica non si limiteranno a intervenire con un'operazione
normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni profonde
coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del
tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in
quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del
passato, del presente e del futuro e un elemento essenziale, sebbene secondo
modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende,
concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale
aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella “Retorica,”
Aristotele individua in primo luogo due categorie di destinatari dei discorsi:
colui che osserva (“theoros”) e colui che decide (“krits”). Il primo agisce
nella dimensione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al discorso
epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agire nelle altre due
dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice
(dikasts) decide sul passato. Il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul
futuro. Come osserva giustamente Lanza, la classificazione è totalmente
estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di
congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni
del tempo che fin dall'epoca d’Omero appaiono associate agli am biti di
manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. Altro fatto importante inaugurato
dalla riflessione aristotelica è quello che riguarda la disarticolazione, e la
conseguente trattazione separata, della teoria del linguaggio e della teoria
del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto
rilevante proprio perché in alcune teorie semiologiche è assolutamente dato per
scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "segni". Anzi,
secondo un certo strutturalismo, questi termini del linguaggio sono i segni per
eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arrivati ali'eccesso di
pensare che essi potessero fornire il modello anche per gl’altri tipi di
segno. In Aristotele, invece, gl’elementi su cui si costruisce una teoria del
linguaggio ricevono il nome di “simbolo”, mentre gl’altri elementi di una
teoria del segno vengono denominati semeia o tekmiria. La teoria del segno
propriamente detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un interesse
sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema
delle modalità di acquisizione della conoscenza. Il “simbolo” linguistico è
connesso principalmente al problema dei rapporti che si instaurano tra una espressione
linguistica, una astrazione concettuali ed uno stato del mondo. È nel “De interpretatione”
che Aristotele espone la sua teo ria del *simbolo* linguistico, articolandola
secondo uno schema a tre termini. Un suono della voce e un "simbolo"
di una affezione dell'anima, la quale, a loro volta, e l’immagine di una cosa esterna.
Ordunque, i suoni della voce, “tà en tii phoniz,” sono simboli (symbola) delle
affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le
lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso
modo, poi, che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni
sono i medesimi; tuttavia, suono e lettera risulta segno (semeion), anzi
tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e
costituiscono l’immagine (homoi 6mata) di una cosa (pragma), già identici per
tutti. (Arist., De int.) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare
il termine “semeion” come apparente sinonimo di “simbolo” non significa
affatto che le due espressioni sono intercambiabili. In questo passo Aristotele
usa il termine “semeion” in un'accezione debole (disimplicata), che ci conferma
appunto la tendenza a un “uso sfumato” di una espressione del lessico
semiotico, quando non e in questione la costruzione del sistema di demarcazioni
teoriche. Qui Aristotele usa “semeion” per dire che l'esistenza di un suono (o
di una lettera) può essere considerata come un indizio dell’esistenza parallela
di una affezione dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando
il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo. Affezione
dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil). Penstero (nomat8) -- rapporto o
rappresentazione convenzionale o arbitrario – versus motivato o iconico
rapporto o rappresentazione ( sn ti
phntl (prSgmsta) suono della voce – cosa estrena. Come si può osservare,
diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade. Tra un
suono (“Ouch!”) e uno stato d'animo c'è un rapporto o rappresentazione finalmente
immotivato e convenzionale o arbitrario. Uno stato d'animo (dolore) e identico,
secondo Aristotele, per tutti gl’uomini. Ma essi vengono espressi in maniera
diversa a seconda delle varie lingue e culture (“Ouch” e volgare a Buckingham),
esattamente come avviene per le forme scritte. Invece tra gli stati d'animo e la
cosa esterna c'è un rapporto o rappresentazione causale percettiva di
motivazione iconica, che appare addirittura iconico. Il primo e l’immagine del
secondo. Bisogna precisare che e scorretto identificare in maniera diretta la
tesi dell’arbietrarieta o convenzionalità degli elementi del linguaggio,
cui adere Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà del segno linguistico
sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto
arbitrario tra due entità strettamente interne al linguaggio: il significante –
segnante -- e il significato – segnato -- sono le due facce del segno, in
quanto unità linguistica. In Aristotele, troviamo invece un rapporto convenzionale
tra *elementi* del linguaggio (il nome, il verbo, il 1ogos) ed elementi che
propriamente non appartengono al linguaggio, in quanto sono entità *psichiche*
(l’immagine acustica o percettiva di Saussure). Si deve inoltre rilevare che
la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di
prevalente interesse logico, quali il “De interpretatione”, ma continua anche
nei testi di interesse estetico. In questi ultimi, dove prevale la funzione
poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte
attenuato (Belardi). Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presenta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressione tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte diverse. Cesare sostiene che Aristotele attribuisce all’espressione
(“ton en ho phono”) lo stesso valore che Saussure dà al termine
"significante" quando spiega la natura del segno linguistico.
Belardi, invece, sostenne che tà en tii phonii si rifere non ai significanti,
ma all’espressione linguistica intesa nella loro forma compiuta di 6no ma
(nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione
– Fido is shaggy) e apophasis (negazione – Fido is not shaggy). Le ragioni di
questa scelta si basano sul fatto che questi elementi, facenti parte del
programma di analisi di Aristotele, vengono definiti "simboli" delle
affezioni dell'anima nell’Analytica Priora (16 a, 25; 24 b, 2). Ora è indubbio
che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa
che sottolinea molto chiaramente la veste fonica e il carattere di
"significante". Tuttavia si deve anche sottolineare che l'ottica con
cui Aristotele, almeno nell’ “Organon”, guarda ai fatti di linguaggio sembra
diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare
le possibilità e la garanzia dell’'uso del linguaggio nell’analisi della
realtà. Tale garanzia sembra esserci quando si dia una reciprocabilità tra i
due ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che, per Aristotele, la
simbolicità del linguaggio nei confronti del reale è sempre di secondo grado,
in quanto il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa,
sul vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi
logici perseguiti nel De interpretatione) sia intercambiabile con ciò che si
trova al vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di “simbolon”,
che Aristotele riprende da una tradizione risalente fino a Democrito (D-K).
Le ragioni che permettono la specializzazione del termine “simbolo” per indicare
una espressione linguistica convenzionale sono connesse alla sua etimoogia. “Simbolo”
indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un oggetto -- a esempio un
astragalo, una medaglia, una moneta -- in maniera intenzionale, affinché
possano servire, in un momento successivo, come segno di riconoscimento, o
come prova di una certa cosa (Belardi, Eco). Il fatto che le due metà riescano
a combaciare perfettamente viene a indicare la presenza di un rapporto
precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di
paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta
dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui
ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a
perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte presuppone –
o implica, come per consequenza logica -- l'altra, o stabilisce con l'altra una
stretta corrispondenza, “simbolo” viene ad acquisire il significato di
"ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel
contesto della teoria linguistica aristotelica la parola sjmbolon
all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a
indagare su una possibile specificità del rinvio istituito dal simbolo. In
effetti, nel ca so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è
una implicazione) non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare
a un secondo, senza che necessaria mente il secondo rimandi al primo. Nel caso
del simbolo, invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili. Non è un
caso che symbolon sia attestato per indicare "ricevuta", talvolta
redatta in duplice copia. Le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore.
Questo aspetto etimologico è presente nell’uso che in particolare Aristotele fa
dell'espressione sjmbolon nel De interpretatione. Un nome (‘Shaggy’) e un
simbolo di uno stato d'animo (percezione di una cosa come ‘shaggy’) in tanto
che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro
e una perfetta intercambiabilità, che garantisce la correttezza del nome
stesso (‘shaggy’ =df. hairy-coated, Belardi In quanto sjmbolon, il nome non è
più deoma ("rivela zione"), come lo era per Platone. In Aristotele
il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phone semantika
katà suntheke) (De int.). Questo marca il passaggio da una linguistica che
conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che
non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per
Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano"
qualcosa di non percepibile (l'essenza del l'oggetto o la dunamis), per
Aristotele esse sono simboli che stabiliscono finalmente di modo convenzionale
o arbitrario una pura relazione di equivalenza tr tra i due correlati, senza
alcuna preoccupazio ne che l'un termine "riveli" l'altro. Del resto,
l'opposizione convenzionalel/naturale permette di distinguere anche tra il
linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali -- questi ultimi essendo, per
altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione, se non di suono, ma
di "voce" (phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De
anima” si dice che un suono e definito una "voce" quando e emesso dalla
bocca (con lingua) di un essere animato (II, 420 b, 5); ed e dotato di
significato (smantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli animali,
per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta via le due
precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalla voce emesse dagl’uomini
sono due fattori. Non e una voce convenzionale (e di conseguenza non puo essere
né simbolo né nome), ma e involuntario, meramente causato "per na
tura" (De int., 16 a, 26-30). E la voce e agrammata, cioè
"inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Pot., 1456
b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra
Morpurgo-Tagliabue è al centro stesso del carattere di semanticità del
linguaggio umano. Una voce o suono semplice (adiafretos, "invisibile")
puo articolarsi per il primo grado in una unità più grande dotata di
significato. Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili (‘miao’
‘read chimp lit.’) , ma non combinabile (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono
illustrare riassuntivamente i caratteri del lin guaggio umano in
contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema:
linguaggio umano - per convenzione - elemento indivisibile combinabile e
elemento divisibile - lettera - elemento dotato di significato - simbolo – nome
– nome aggettivo (shaggy) – suono e voce degli animali - per natura – causato
fisicamente – involuntario – istinto – risponsa allo stimolo --- elemento
indivisibile non combinabile - non lettera - elemento che rivelano (d- loflsl)
qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi
(''rivelano", De int., 16 a, 28), -- “manifestare” in Witters -- fatto
che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione
o finalmente l’aribitrario, come nel caso del linguaggio o il suono o la voce di
un animale non umano, torna di nuovo in primo piano il carattere semiotico
d'una espressione. Il suono o la voce di un animale – un ‘pirot’ – e un sintoma
che rivela la loro causa fisica. We must know the character, age, sect, nation,
and other peculiarities of the writer. Every human being has a character- a
cer possessed their minds that they became mere automata in his hands, and
pour out words and thoughts as they are poured in, like so many water-pipes of
a cistern, betrays profound ignorance of the subject. Some such crude fancy was
entertained in former times, and is probably not extinct. It doubtless
originates in a vague notion, that the more entirely human agency is excluded
from the doctrine of inspiration, the higher honour was bestowed on the divine spirit.
And the etymology of the word “inspiration” has also its effect. It originally
and properly signifies, a breathing in, and suggests the dark and mysterious
conception of an effect produced on the thinking substance of a man , not
unlike the inflation of a bladder. But inspiration has nothing in common with
its etymology. Inspiration simply expresses the idea of super-natural
assistance and guidance in the communication to mankind of a truth previousl unknown.
He who is honoured “magnam cui mentem animumque, Delius inspirat vates” with it, is enabled to speak, act, and write,
as a divine messengers, in perfect conformity with the will of Giove who sent him;
so that nothing proceeds from him, but what is holy and true. Yet he is no
puppet, acted on by a physical and compelling force from without. He is a
living, personal agent – like Madame Arcati --, in full possession of all the
faculties with which he has been endowed by his creator: with perception,
memory, consciousness,will. And the energy of the Holy Ghost wrought no greater
violence on his mind in the exercise of these powers, than is wrought by his
ordinary operation on the hearts of believers in the Roman cult. It is not our
business to give the philosophy of this “ pre-established harmony” between
agencies so different, nor to speculate on the mode in which they were combined
for the production of a single result. As interpreters, we state the fact – not
explain it. And the fact certainly is, that no men are more distinguished from
each other by strong mental idiosyncrasies, nor any who give more decided evidence,
that their own spirits performed an important office in composition. In the author
of the book of Proverbs, we see before us the grave, sententious, dignified
monarch, whose profound knowledge of human nature, and sparkling gems of wisdom,
made his name celebrated throughout the East. Amos is always the strong, bold ,but
somewhat unpolished herdsman of Tekoah. The rough and vehement Ezekiel, standing
with dishevelled hair and rolling eye, in the midst of his fantastic but
expressive symbols, never suffers us to mistake him for Isaiah, the sublime, imaginative,
tasteful courtier of Hezekiah. The same with the plaintive, tender Jeremiah -
the contemplative John the argumentative, glowing PAUL. It is an old, but, with
proper explanation, perfectly true remark, originally made by Jerome, that revelation
consists in thought, not in words or external dress – “nec putemus in verbis
scripturam evangelii esse, sed in sensu.” We insult the Holy Ghost by supposing him unable
to accommodate himself to the mode of thinking and phraseology of those whom he
honoured with his influence — that when he " When we read the Epistle
to the Romans therefore, we must remember that we are conversing with a
finished gentleman of the old school; a scholar brought up at the feet of
Gamaliel, a powerful but rapid reasoner, delighting in ellipses, digressions, repetitions,
bold figures, and pregnant expressions, suggesting more than meets the ear -
fond of illustrating his subject by Old Testament ideas, even when he intends
making no use of them in argument; and above all, that we are conversing with
him, who, more than any other apostle, is deeply penetrated with the glorious
catholicity and abounding grace of the gospel! In reading James, we must think
of the stern, high-souled moralist, in whom the ethical element of Christianity
seems to have taken the deepest root; who,while with adoring faith he beheld
“the Lamb slain from the foundation of the world ,” never lost froin his view
the awful form of that “ eternal law,” which spoke in thunder from Sinai, and
yet speaks in milder tones, though with made the prophet he was forced to
unmake the man the same commanding authority, to every child of Adam. John, in his
writings ,seems to be still clinging to his master's bosom. Love to the person
of his Redeemer is evidently his engrossing sentiment. No one can doubt, apart
from every argument contained in other parts of Scripture, that John believed him
to be divine. His glory as the uncreated Logos — that glory which he had with the
Father before the world was, a few scattered rays of which had been seen
through the veil of his humiliation, is the great thought with which his soul holds
constant communion, raised above every other object — likethe eagle calmly
reposing in mid heaven, and gazing at the sun! He who gives no attention to
these things, and does not take pains to catch the distinctive peculiarities of
the sacred writers, commits the same kind of blunder with that of the man who reads
Milton's Paradise Lost, and Addison's Essays in the Spectator, yet sees no
difference between them except in the length of the lines. It is important also
to note the different kinds of composition they employed. Some were poets,
and must be interpreted according to the laws of poetry. Their bold tropes must
not be turned into sober matter-of-fact realities; as is done by the
Millenarians who read Isaiah nearly as they would Blackstone's Commentaries, or
the British Constitution. Ezekiel is not Luke, nor is Matthew the publican,
David, singing one of the sweet odes of Zion to the music of his harp.
Historians are to be treated as historians, not as poets or rhetoricians. The
accounts of miracles given in our four gospels must therefore be taken to the
letter. No books in the world bear more decided evidence that their authors intended
to give simple and perspicuous narratives of events as they actually occurred.
The principle must not be tolerated for a moment, of explaining them away, by
doing violence to the plain meaning of language, and to all the laws which are applied
to other historical compositions. Yet it has been sanctioned by great names, especially
in Germany. Grave divines are found, who insist that there is not one miracle
in the gospels. The events which SEEM miraculous are entirely natural, but
exaggerated and embellished by the warm fancies of the people among whom they occurred.
Only strip, they say, the Evangelists of this semi-poetic drapery, and the
business of exposition will go on delightfully. Moses fares, if possible, still
worse. They turn him into an allegorist or reciter of mythological fables. The
first ten chapters of “Genesis” contain about as large a body of real truth, as
can pass with out inconvenience through the eye of a needle being made up of old
stories and scraps a — of song, which mean nothing, or anything, that a
lively fancy may suggest. i authors are conceited sciolists, who, pranking Let
not the Christian student take great pains to refute this wretched infidelity,
which does not openly avow itself infidel, merely because its advocates earn
their bread by a profession of Christianity; the most of them being either professors
of Christian theology or pastors of Christian churches. In dignandum deisto; nondisputandum
est. Such interpretations do not deserve the name. They are feats of jugglery
and legerdemain; and their In expounding Scripture, let there be a
constant appeal to the tribunal of common sense. Language is not the invention of
metaphysicians, or convocations of the wise and learned. It is the common
blessing of mankind, framed for their mutual advantage in their intercourse
with each other. Its laws therefore are popular, not philosophical- being founded
on the general laws of thought which govern the whole mass of mind in the community.
Now, however men may differ from each other, themselves as the
high-priests of philosophy, prove by their irreverence for things sacred, that
they have not reached the portico of her temple. The true philosopher always trembles
when he stands, or even suspects that he stands, in the presence of God! He can
not trifle with such a book as the Bible! H e cannot sport with a volume, the
falsehood of which, if proved, turns him over to the beasts, and deprives him
of his last stake as a candidate for the glories of immortality. Marcello
Capra. Keywords: del corpo animato, animo, spirito, l’immortalita dell’animo,
l’immortalita dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello
spirito, Method in philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism,
manifestation displayed, revealed, semiotics aristotele in behaviour –
body/soul – corpore animo – hylemorphismo, forma e materia, una forma, una
materia, due materie, una forma, realisabilita multiple, semiotica di
aristotele, il comportamento che rivela l’animo, il comportamento che e simbolo
dell’animo, differenza tra Platone ed Aristotele, il concetto chiave
naturalista di ‘rivelazione’, manifest, delouse. life, soul – Aristotle on soul and life –
zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Capua – filosofia romana –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoli Irpino).
Filosofo italiano. Grice: “I like Capua – from the middle of nowhere – Lago
Laceno – he founds an “Accademia degl’Investiganti” in Capri! To philosophise!”
Vestigia lustrat, i.e. even in dreams the hound follows the trace of the hare!”
-- Impegnato nella ricerca e nella sperimentazione, in antitesi ai vecchi
capiscuola come Aristotele, Ippocrate, Galeno ed altri, fu a capo di
un'accademia dal nome gli "Investiganti". Pubblicò il
"Parere", sostenendo le idee di chi opponeva la ricerca medica e
scientifica al sapere della tradizione. Nacque a Villa Capua, in Via Carpine,
da Cesare e Giovanna Bruno. Nonostante la famiglia fosse facoltosa, non gli
venne assegnato un precettore che lo seguisse negli studi oltre le basi grammaticali.
Ad ogni modo, si dedica con passione, sin da giovanissimo, all'approfondimento
del latino, del greco e della retorica. Persi entrambi i genitori e dovette
cominciare a provvedere da sé alla sua educazione. Trasferitosi a Napoli per
seguire la sorella, frequenta la scuola dei padri della Compagnia di Gesù.
Impara le Istituzioni di Giustiniano, leggendo al tempo stesso anche le
osservazioni di Giacomo Cuiacio, testi che segnarono profondamente la sua
formazione, come è evidente in vari passaggi del suo "Parere" e nelle
sue "Lezioni intorno alla natura delle mofete". Si laurea e fa ritorno a Bagnoli, con l’intenzione di
approfondire le sue conoscenze naturali ed anatomiche, effettuando osservazioni
dirette su animali vivi sezionati e con il supporto di testi reperiti a Napoli.
Proprio in quegli anni prese forma il suo pensiero critico circa l'inadeguatezza
del metodo della filosofia. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori
notizie biografiche. Amenta, autore di una sua biografia, ci riferisce anche di
una certa attività letteraria, collocabile in questo periodo, di cui, tuttavia,
non ci è giunta testimonianza. I suoi testi furono rubati mentre era in viaggio
verso Napoli. Si trasferì definitivamente in Napoli. Probabilmente il suo
trasferimento fu favorito dalla presenza a Napoli di Cornelio, suo amico, il
quale vantava una lunga preparazione alla scuola galileiana e indirizza Di
Capua alla ricerca scientifica nella linea segnata da Galilei e da Cartesio,
protagonisti della rivoluzione che la filosofia sperimentale portava
all'interno di una cultura legata al passato e in cui vigeva la legge
dell'"ipse dixit". Sulla scia di questo fervore intellettuale, fonda
insieme a Cornelio, e Borelli Gl’Investiganti, gruppo di gioco filosofica di neta
ispirazione anti0aristotelica. La sua casa fu spesso luogo, ad ogni modo,
di incontri tra gli intellettuali napoletani che facevano capo
agl’Investiganti. Ottenne il riconoscimento dal Principe Francesco Carafa, di
essere iscritto all'Arcadia di Roma, con il nome di Alessi Cillenio. Tale
riconoscimento scaturisce dalla fama e dall'operosità scientifica che ottenne
non solo a Napoli, ma in tutta Italia. A causa del suo ruolo di spicco
all'interno dell'Accademia e della pubblicazione della sua opera più celebre,
il "Parere", e coinvolto nel processo agl’ateisti che fu da molti
visto come un processo indetto dal tribunale dell'Inquisizione per contrastare
il diffondersi delle nuove idee in ambito scientifico e filosofico. Il processo
era ancora aperto quando morì. Fu un professionista scrupoloso e un illustre
innovatore scientifico nello scenario culturale napoletano della seconda metà
del Seicento. Egli dimostrò notevole interesse per le dispute galileiane e i
processi contro lo scienziato pisano, che in quegli anni erano al centro delle
cronache del mondo politico, religioso e scientifico. In quel periodo Di Capua
era anche interessato al pensiero di Bruno, Campanella e Porta, ma soprattutto
era affascinato dalle novità scientifiche a cui lo introdusse il suo amico Cornelio,
riguardanti i libri e le pubblicazioni dei principali scienziati e filosofi
italiani ed europei come Francesco Bacone, Cartesio, William Harvey, Thomas
Hobbes, Pierre Gassendi, Daniel Samert, Hooke, Willis, Boyle. Tra Cornelio
e Di Capua sorse una solida amicizia basata su ideali comuni: entrambi non
condividevano né l'autoritarismo aristotelico né le vecchie teorie di Ippocrate
e di Galeno. Dello stesso pensiero era Borelli, medico fisico e matematico,
ammiratore, anche lui, del metodo di Galileo. Infatti lo sperimentalismo
galileiano, basilare nell'attività dell'Accademia del Cimento, influenzò e si
congiunse con l'attivismo speculativo degli Investiganti napoletani.
L'ambiente culturale napoletano era dunque vivo e attivo e le librerie di via
San Biagio dei Librai divennero centri di raduno intellettuale, in cui si
discuteva sulle novità di fisica, astronomia, filosofia e medicina. Di Capua,
ancora prima della fondazione dell'Accademia degli Investiganti, aveva già
incominciato a contribuire al risorgere della cultura napoletana, partecipando
attivamente alle riunioni e ai circoli culturali sorti a Napoli nella seconda
metà del Seicento, tra cui quello fondato da Camillo Colonna. In un’ottica del
tutto contrastante alla Controriforma della Chiesa cattolica che da circa
cinquanta anni aveva preso piede, Napoli diventa il centro della vita
letteraria e delle attività scientifico filosofiche, spostando l'attenzione da Firenze
a Napoli: si passa dal Cimento e dai Lincei agli Investiganti, dalle Accademie
fiorentine e romane a quella napoletana. Si forma quindi in questa
“nuova” Napoli, sotto lo stimolo, l'esempio e l'amicizia di Cornelio e Borelli,
i quali, durante i loro viaggi, erano stati illuminati dall’ “Accademie des
Sciences” di Parigi e la “Royal Society” di Londra. È in questo contesto
culturale che ‘Il Parere” richiama l’attenzione di Redi. Lui e Redi erano
entrambi scienziati, intellettuali, accaniti osservatori della natura; tutti e
due seguivano il metodo sperimentale secondo lo spirito galileiano. Redi
scrisse a Di Capua una lettera dopo aver letto le sue "Lezioni sulla
natura delle mofete", in cui gli manifesta tutta la sua stima e ammirazione.
Redi fu il primo ad effettuare ricerche sul cancro e sulla
parassitologia. L’ammirazione che provava nei confronti del Di Capua era
la dimostrazione che quest’ultimo era inserito nell'élite culturale italiana
del tempo, anche al di fuori del circuito napoletano, fino al punto che la
Regina Maria Cristina di Svezia si interessò vivamente a lui e alle sue idee,
comunicandogli il desiderio di conoscere con maggiore chiarezza ed
approfondimenti il suo parere sullo stato dell’incertezza della medicina. Scrisse
allora i “Tre Ragionamenti sull'Incertezza dei Medicamenti”. Nelle sue
pubblicazioni non fa menzione di Vico, suo devoto alunno, probabilmente in
quanto al momento della sua morte il Vico aveva soltanto 25 anni. Quindi non
aveva avuto modo di intuire le capacità intellettuali di Vico, il suo genio
raziocinante di storico e di filosofo. Certamente Vico fu influenzato dalle
idee e dalle teorie di Di Capua, che affiorano in alcune orazioni giovanili
vichiane (il concetto della divinità presente in tutta la natura). Vico, di
natura solitaria, fu molto sensibile alle novità scientifiche e filosofiche del
tempo, partecipa al movimento culturale napoletano e frequenta la casa Di
Capua, che considerava il suo ideale maestro. Capua, Cornelio, Andrea, e Borelli
fondano a Napoli “Gli’Investiganti”insieme ad altre illustri personalità del
mondo scientifico filosofico napoletano. Gl’Investiganti sorgeno in uno
scenario di fervore intellettuale nuovo, dall'esigenza, quindi, di allontanarsi
dalla filosofia aristotelica e dalle teorie di Ippocrate e di Galeno, per
abbracciare le nuove teorie rivoluzionarie. Il motto degl’Investiganti e una
citazione di Lucrezio: "vestigia lustrat" seguito dall'immagine di un
cane che segue le tracce e fiuta le impronte, rappresentando a pieno lo sforzo
degl’nvestiganti nella ricerca delle cause alla base dei fenomeni naturali.
L'Accademia fu chiusa per la peste nel 1656. Venne riaperta dal marchese Andrea
Conclubet, spinta da una nuova energia vitale: superare l'arretratezza
culturale del paese per mettersi al passo con gli altri Stati europei. Gli
investiganti si riunivano ogni 20 giorni e non si limitavano alla discussione
dei vari argomenti, ma anche alla sperimentazione proprio come gli accademici
della Royal Society di Londra e del Cimento. Alla riapertura dell'Accademia,
quindi, le prime lezioni furono tenute dal Di Capua su argomenti di natura
scientifica. Altre lezioni ebbero come argomento l'anima, la fisiologia e
l'embriologia. Si eseguirono anche esperimenti di fisica, meccanica e
idromeccanica in situ, cioè nei luoghi dove certi fenomeni si verificavano (per
esempio nella grotta del cane di Pozzuoli, nota per i fenomeni mefitici). Le
nuove teorie degli Investiganti determinarono una reazione nel mondo del
conservatorismo gesuitico, che sfociò nella fondazione di un'Accademia
antagonista: l'"Accademia dei Discordanti", guidata dai famosi medici
Carlo Pignatari e Tozzi. Quest'ultimo fu primo medico del Regno di Napoli,
professore alla Sapienza e in seguito alla morte di Malpighi gli venne affidata
la carica di archiatra pontificio. Da allora i contrasti tra le due Accademie
si moltiplicarono a tal punto che il viceré Pedro Antonio de Aragón dispose di
chiudere entrambe le Accademie. In seguito riapre una sua scuola, dando prova
della sua convinzione sulla fondatezza delle sue teorie e sul desiderio di
trasmettere queste verità agli alunni. Questo periodo rappresenta un momento di
massima notorietà del pensiero culturale a capo di Di Capua, tanto che, il
viceré spagnolo Ferdinando Gioacchino Faiardo indisse un congresso, in cui
diversi medici dovettero esprimere il proprio parere per ciò che concerne lo
stato delle teorie medico scientifiche oggetto di disputa. Fu così che, in occasione
del convegno, Dcompose il suo "Parere Divisato in otto
ragionamenti..", che ottenne notevoli riconoscimenti oscurando il
conservatorismo cattolico dei suoi detrattori. Nonostante il Seicento, secolo
del barocco, avesse come personaggio di spicco a Napoli Giambattista Marino, ritenuto
dai suoi contemporanei un genio poetico di grandezza insuperabile, si dichiara
nettamente anti-marinista, in quanto la sua mentalità era di natura critica,
analitica e scientifica. Si forma nel pieno delle dispute letterarie tra
marinisti e tradizionalisti di stampo petrarchista. In quell'epoca predomina il
trecentismo linguistico, perorato da Bembo e codificato dalla Crusca, che
Salviati detta e di cui nel solo Seicento esistevano ben 3 edizioni. La
notorietà, l'autorità, il peso culturale di questo nuovo dogma della lingua
italiana ebbe una notevole presa su Capua grazie anche alla sua
predilezione per la poesia di Petrarca. Poiché i petrarchisti sono considerati
“antiquari” dai marinisti, lui stesso venne etichettato come un antiquario, in
quanto purista linguistico e seguace della tradizione dei dettami della Crusca.
Di fatto, tuttavia, egli sosteneva principi rivoluzionari di scienza, seppur mediati
da un linguaggio ormai arcaico. Tuttavia a Napoli, nella seconda metà del
Seicento, si afferma intorno a lui un movimento puristico, a tendenza
arcaicizzante che esercitò il suo influsso anche su Vico. Questo sottolinea il
suo aspetto conservatore, riferito esclusivamente al linguaggio da lui usato,
tipico del purismo letterario petrarchesco. In contrasto con questo
atteggiamento letterario antiquario, fu senza dubbio un rivoluzionario in
ambito scientifico nello scenario culturale napoletano. La sua produzione
filosofica è, dunque, caratterizzata nel complesso da una forte contraddizione
tra il nuovo del suo pensiero scientifico ed il vecchio o antico della lingua
da lui scelta. La sua oè costituita da duemila sonetti, due tragedie ("Il
martirio di Santa Tecla" e "Il martirio di Santa Caterina"), alcune
commedie, una favola a sfondo idilliaco e altri scritti filosofici vari. Di questa produzione non abbiamo
testimonianza a causa del furto subito da lui in viaggio verso Napoli. I
sonetti, tanto nella forma quanto nel contenuto, sono di imitazione
petrarchesca. La stesura di questi ultimi, inoltre, è collocabile al periodo
dell'adolescenza e, pur non potendolo affermare con certezza, è lecito intuire
che la sua cosiddetta produzione non abbia potuto assurgere ad alte cime,
considerata anche la sua indole disposta più allo studio dei fenomeni e al
razionalismo che all'aspetto psicologico o ai fattori emotivi. Le opere
drammatiche sono, al contrario, ispirate al modello di Porta. Il Parere divisato
in otto ragionamenti è indubbiamente la sua opera più importante, pubblicata a
Napoli, ristampata con le Lezioni intorno alle mofete. In questo testo parte
dalla pretesa di dimostrare quanto vana, quanto priva di ogni salda dottrina
fosse la filosofia di Aristotele, rivendicando un rinnovamento culturale, un
bisogno di liberarsi dagli eccessi del potere politico ed ideologico di alcune
posizioni. Proprio a causa di questo spirito di rivolta rintracciabile nel
testo fu intentato un processo contro lui da parte dei Gesuiti, capitanati da Benedictis,
che si svolse a Napoli. Nel Parere, tuttavia, più che negare il pensiero di
Aristotele nel campo della conoscenza, intende contestare l'atteggiamento di
coloro che ne avevano adottato in maniera eccessivamente pedissequa il metodo.
La posizione da lui presa è tutta in favore della rivalutazione delle scienze e
di un approccio nei confronti di queste che non sia statico, bensì critico
anche nei confronti della tradizione. La medicina in particolare è una scienza
che non può fondarsi, a suo parere, su nozioni incontestabili, ma deve
piuttosto essere costantemente messa in discussione, pur mantenendosi nei limiti
dell'esperienza e della debole ragione. Nell'opera, comprensiva di otto
ragionamenti, viene anche delineata la figura ideale del "buon filosofo",
il quale deve essere allo stesso tempo anche amante della filosofia e buon conoscitore
della geometria. Agli otto ragionamenti aggiunse un'appendice al
"Parere": "L’incertezza". In entrambe le opere Di Capua
finisce con il constatare lo stato dubbioso tanto della conoscenza e come
proprio il loro caratteristico elemento di imprevedibilità, anche in quanto
soggette agli elementi umani, rendano impossibile una conoscenza del tutto obiettiva.
Le Lezioni sulla natura delle mofete riprendeno i concetti già esposti nel
"Parere" sull'aria, concepita come anima dell'universo. Anche nella
descrizione e nello studio delle mofete, fenomeni naturali caratterizzati
dall'uscita di anidride carbonica, vapore acqueo e altri gas da terreni di
origine vulcanica, rivela le sue attitudini alla razionalità, alla
dimostrazione obiettiva di ogni evento fisico, sostenendo come la conoscenza di
un fenomeno debba essere fondata sul metodo sperimentale. Altra opera
pubblicata a Napoli e una biografia del condottiero Andrea Cantelmo, il quale
milita nell'esercito di Ferdinando II D'Austria e a cui veniva attribuita
l'invenzione delle mine volanti e di un tipo di pistola a ripetizione con 25
colpi. La biografia diventa il pretesto per l'autore per far affiorare la sua
concezione sull'individuo, sull'uomo, sui giochi della fortuna, sulla
dialettica tra gli avvenimenti storici riguardanti l'uomo come personalità
unica ed individuale e l'intreccio dello svolgimento degli eventi. Generoso De
Rogatis, Cenni biografici degli uomini illustri di Bagnoli Irpina. Carmine
Jannaco Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia (F. Vallardi, Milano,
Piccin nuova libraria, Padova);. Mario
Puppo, Discussioni linguistiche del Seicento, POMBA, Torino). “Parere del
signor Lionardo di Capoa divisato in otto ragionamenti, ne' quali partitamente
narrandosi l'origine, e'l progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della
medesima si fa manifesta” (Antonio Bulifon, Napoli); Niccolò Amenta, Vita di
Lionardo Di Capua, Venezia). Niccolò Amenta, Vita di Lionardo di Capoa detto fra
gli Arcadi Alcesto Cilleneo” (Venezia). Nicola Badaloni, Introduzione a
Giambattista Vico, Laterza, Roma; Bari); Cotugno, La sorte di Giambattista Vico
e le polemiche scientifiche e letter. dalla fine del XVII alla metà del XVIII
secolo, Tip. del R. Ospizio V. E., Giovinazzo. Salvo Mastellone, Pensiero
politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, D'Anna
editore, Messina-Firenze); Walter Maturi, Fausto Nicolini, La giovinezza di Gian
Battista Vico; saggio biografico, Napoli); Camillo Minieri Riccio, Cenno
storico delle Accademie fiorite nella città di Napoli, Bologna); Luciano Osbat,
L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti, Edizioni di storia e
letteratura, Roma); Amedeo Quondam, "Minima dandreiana: prima ricognizione
sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino"
in Rivista storica italiana, Napoli); Gabriele Reppucci, Saggio monografico su Capua,
scienziato-medico-filosofo bagnolese (Circolo Sociale "Leonardo di
Capua", Bagnoli Irpino). Dizionario Biografico degli italiani. Vico,
Autobiografia, a cura di B. Croce Bari (Edizioni Pauline, Milano).Capua's “parere”
is just that: an opinion -- in response to a specific request by the Viceroy
and the Consiglio Collaterale put to a
group of prominent Neapolitans for counsel on a legal regulatory policy. Capua's
attack on Aristotelian discursive modes seems simple, ordinary
Aristotle-bashing. Capua maintains a theoretical investment in the anima. This
is not a recuperation, or a conscious continuation, of Aristotle on Capua's
part. Capua wishes to protect philosophy from a mechanical application of a logical
technique, and also from a premature, reductionist applications of the beast or
the machine metaphor. Aristotle offers a biological concept of the soul as the
first actuality of life, the principle of life. Capua. Il suo parere, divisato in otto
ragionamenti, ne’ quali partitamente narrando l’origine, e'l progretto della
filosofia, chiaramente l'incertezza della medesima si sta manifefta. Napoli, Bulison
Columa de Superiori. 1” All'illustrissimo, ed eccellentissimo signore LCTEA IL
SIGNOR D. FRANCESCO CARRAFA, principe di Belvedere, marchese d'Anzi, &c. On
avendo io cosa, eccellentissimo signor mio, che m'abbia in più pregio di quel
che so la padronanza vostra, cerco per quanto posso di farla palese a ciascuno,
sicome altri fa il possedimento delle cose più care, e preziose, ch'egli
s’abbia, o per sua industria, o per fortuna acquistate. Ho pensato dunque, che
a ciò fare io non potrei avere migliore opportunità di questa che mi porge il
presente saggio filosofico, che per mia gran vençura essendomi capitato alle
mani, ho preso a far istampa re, s'io il mettesli fuori sotto il nome vostro,
La scrittura veramente a giudicio di voi medesimo, e d'ogn altr'huomo
intendente è tale, che agevolmente posso da lei promettertii il fine, che m'ho
proposto; im perciocchè ben tosto n'andrà ella per le mani delle persone di
miglior giudicio nelle buone letiere, sì per per ta cognizione, che s'ha
dell'autore di lei, doa vunque ha di quelli, che se ne dilectano, sì perch'
ella il vale, per l'eloquenza, e doctrina, di che si ve de ripiena: oltre
all'autorità, e fama, che le si accrescerà dall'istesso nome vostro ch'ella
porta seco. Poichè possiam dire, che poche sono quelle parti d'Europa, ove non
s'abbia conrezza di voi, e delle vostre egregie qualità, o per la fama, o per
la presenza di voi; ma che quasi tuttele havete cerche colle lunghe, e
laudevoli peregrinazioni, le quali in quella guisa, che da voi sono state
fatte, sidebbono riporre fra quegli studj, con che vi siete sempre ingegnato, e
v'è venuto fatto d'aprirvi la strada all’intera cognizione delle umane cose, e
d'accrescere con le doti dell'animo, e dell'ingegno lo splendore ch'avete
ereditato da'vostri maggiori. Oltre a ciò non doveva questa scrittura venirne
fuori sotto altro nome che'l vostro: mentre, e la stima, che voi fate
dell'autore di essa, e l'affezione, che gli portate, sicome fare ancora a
ogn'altro huomo letterato e l'antica dimestichezza, ch'egli ha con esso voi il
richiedeano. Ricevete dunque il presente dono, ch'io viso di questo saggio, o
per più vero dire, della picciola parte, ch'io ho in quello, per l'opera da me
polta in farlo stampare, con l'usata vostra umanità in segno dell'osservanza ch'io
viporto. E pre go Iddio, ch'avanzi in bene ogni vostro desiderio; e alla buona vostra
mercè umilmente mi raccomando. Di V. E, Umilissimo Servidore. Giacomo Raillar
D. Carlo Buragna; a'Lettori. E Gli sono già alcuni mesi pasati, che d'ordine
del Signor Vicerè fu tenuto consiglio da alcuni filosofi di metter qualche
compenso agl’abusi ed errori, che tutta via si commettono nella filosofia. E dopo
qualche ragionamenti intorno a cotal bisogna avuti, divisarono eglino, che per
potere con piis loro acconcio esaminar le ragioni, e i pareri proposti, e da
proporsi, ciascuno doveſſe mettere in iscritto il suo. Perchè convenne a CAPUA che
e uno de’chiamati a questa adunanza scrivere il parer suo intorno a cotal
materia; e parendo a lui, che ciò non si potesse fare acconciamente, senza considerare
innanzi tratto, e riandar con diligenza la natura della cosa, che s'aveva a
trattare, cioè della filosofia. Sì il fa egli con tanta dottrina, eloquenza ed
erudizione, che, ejfendo il suo scritto venuto al le mani d'alcuni huomini
letterati, e altri amici di lui, par ve loro dettato più tosto per l'universalità
di coloro, che fi dilettano delle bettere piie esquisite, che per haversi egli
awe rimanere fra i termini d'una picciola, e privata compagnia. Comechè
l'autore di quello non s'avesse nello scrivere proposto altro fine, che di soddisfare
al carico da quella impostogli. Stimarono dunque coſtoro, che fosse una tale scrittura
dameia ter in luce per mezzo delle stampe: e tanto fecero, che alla per fine
persuaſero CAPUA a farne loro copia, e a contentarſi, che si stampase almen
queſta delle molte, e diverſe opere fue, ch' egli tieneappreffo di fe. E in ciò
non pure ebbero eglino riguardo al piacere, che ſarannoper prender i doe tine i
curioſi della lettura di queſto scritto, ma all'utile an che ne può riſultare a
ogni forte di perſone, e spezialmente agl’avveduti, e giudiciofi ragguardatori
delle cofe. Poichè, vedendo eglino la varietà delle opinioni, e delle Seite, e
le diverſe, eSpelle volte contrarie guise del filosofare, che fra i filosofi di
tempo in tempo fonvenute sì, anche ſenza entrar coʻfilosofanti in più sottili speculazioni,
potranno age volmente accorgerſi, con quanta ragione altri Àfaccia a cre Bere D
1 grand 4 derë, o voglia dare a vedere, che una profeffione perfefef ſa cosè
dubbiosa e incerta ha in se dottrina, o principi, ſu i quali altri pola porre
alcuno ſtabile fondamento;e quan to fa pericoloſa coſa il vederſi nelle mani di
coloro, che così fi danno ad intendere, espezialmente dove ne va la filosofia.
Oltre a questo, chi non vede di quanto frutto può rium scire queſto scritto a’
filosofi, che danno opera alla filosofia? mentre dalla fola lettura di lui
potranno efi per avventura apparar più di ciò, che alla cognizione della natura
di lei s'appartiene, che non farebbono col rivolgere tutt'ora i volumi de'più
riputati, e solenni maestri di quella: e accorger fi a un'ora qual via
nell'impreſa del filosofare ſi vuol tener da colui, che laſciate andarele
giunterie, e le ciance, intende Secondochè la condizined'untal mestiere
comporta, faronore a fe, e giovamento agli infermialla ſua cura commeſſi. Ne
meno faranno efli, e ciaſcun'altro, che attende a’migliori ljudj, per vedere
apertamente quanti, e nella filosofia, e nell'altre Scienze ci sono ſtati, e
fono di quelli, che fi vanno ſtillando il cervello pur dietro a quello, che o
norciès o pure non ſi ritro va; e, come dile il noſtro Alighieri, Trattando
l'ombre, come cosa falda. Maſenza, che Io mi diſtenda più oltre in voler
dimoſtrares chente, e quale, e quanto profittevole, e dotta fi fia queſta
ſcrittura, a ſufficienza il lettore ſol potrà egli vedere di ſe: e come anche
non eſſendo ella fata dettata a fine d'averſe a divolgare, non per queſto
rimane, ch'ella non corriſponda al la fama dell'ciutore di efsa, e all'opinione,
che portanodi lui gli huomini più intendenti, e giudiciof. Sta ſano. EMINENTISSIMO
SIGNORE AI Ntonio Bulifon espone a V. Em. come deſidera darë alle ſtampe un saggio
da Capua intitolato “Il mio parere intorno alle cose della filosofia”, per ciò
ſupplica V. Em.commetterne la reviſione a chi me glio parerà all’Enı.V.ut Deus,
& c. N Congregatione habita coram Eminentiſſimo Domino Cardinali Caracciolo
Archiepiſcopo Neapolitano ſub die 3. O &tobris 1679. fuit dictum, quod
R.P.Franciſcus Verciulli Soc. Ieſu revideat, & in ſcriptis referat eidem
Congregationis. MENATTVS VIC. GEN. Iofeph Imp. Soc. Iefu Theol.Eminentiſs.
EMINENTISSIMO SIGNORE. O letto per comandamento di V. Emin. il libro del Si
gnor Lionardo di Capoa: intitolato Parere intor noalla medicina, ne vi ho
ritrovato coſa alcuna contraria alla dottrina della Fede, overo a' buoni
coſtumi. Per queſto lo giudico degno di ſtapa, per pubblica utilità, e per
ammaeſtramento degl' ingegni curioſi di recondita, e fruttuosa filosofia. HE
Dell'Em. V. Antico, umilifs. Servo Franceſco Verciulli della Comp.di Giesi. N
Eminentiſs. Dom. Cardinali Caracciolo Archiepiſcopo Neapolitano fuit dictum,
quod ſtante relatione (upra ſcripti Reviſoris, imprimatur MEN ATTVS VI C. GEN.
1 Iofeph Imp. Soc. Ieſu Theol. Eminentifs. 1 ECCELLENTISSIMO SIGNORE A Ntonio
Bulifon eſponea V. E. come deſidera dare alle ſtampe uno ſcritto intitolato
Parere del sig. Lionardo diCapoa, intorno alle coſe della medicina, perciò
ſupplica V.E.commetterne la reviſione a chi meglio parerà a V.E. ut Deus, &
c. Magnificus Michael Biancardi videat, &inferiptis referai. CARRILLO REG.
CALA REG. SORIA REG. Proviſum per Suam Excell. Neap. dic 4. Aprilis 1680.
Maſtellonus. ECCELLENTISSIMO SIGNORE PA Er obedire a'comandidi V. E. ho letto
il libro intitola to Parere del sig. Lionardo di Capoa,intorno alle cose della
inedicina, e perchè in eſſo non ho ritrovato coſa contraddicciite alle Regie
giuriſdizioni, giudico poterli dare alle ſtampe,fe cosi reſterà V.E. ſervita.
In Nap. 16. Maggio 1680 DiV.E. Devotifs. Servidore ! Michele Biancardi Viſa
ſupraſcripta relatione, iinprimatur, & in publicatione fervetur Regia
Pragmatica CARRILLO REG. CALA REG. SORIA REG. Maſtellonus RA: 8CMA 220 GLI non hàveramente impreſa, o Signo
ri, che più ragguardevole comparir faccia la maeſtà d'un prudente, e valoroso principe,
quanto l'adoperar sì col ſenno, e colla mano, che i popoli alla ſua cura
commeſſi non vengano da ſtraniero ferro aſſaliti, o ſenza vendetta miſeramente
oltraggiati. Ma non è opera per mio avviſo men laudevole, e generoſa il render
loro poi ſicuri da gl'inganni de’dimeſtici nimici;i quali al lora più
gravemente nuocer ſogliono,quando ſotto il vela mo della benivolenza,edella
carità aftutiffimamente ſi cuo prono; e ch’infingendoſi tutti umani, e
compaſſionevoli al l'altrui fciagure, tendon poi loro sì inſidioſilacciuoli,
che rade volte,o non mai ſenza mortale offeſa ſchifar ſi poſſo no. E nel vero,
che monterebbe eglimai l'uſcir talvo, e ſicuro da' manifeſti riſchi della
guerra ad huom, che poi nella tranquillità della pace,in tanto più
acerbi,quanto più naſcoſi pericoli inavvedutamente cader doveſſe? Anzi queſti
di tanta maggior compalfione degno ſarebbe, quáto più gravi, e più dure, e
lagrimevoli da giudicar ſono le А ſven Ragionameñto Primo ſventure di quella
nave, che ſcampata da più alti mari, giunta poi in bocca del porto
miſerabilmente virompe. Perchè non mai a baſtanza potrà commendarſi il pietoſo,
e faggio avvedimento - del noſtro Eccellentiſſimo Signor Vicerè; il quale
auendo con maraviglioſa, e incredibile felicità il primo ottimamente compiuto;
e reſi vani gl'in tendimenti, e gli sforzi di quelle armate, che ſuperbe, e
crudeli infeſtando i mari, e le terre, ad ogn'or di ſangue, e di fuoco ne
minacciavano; e ſgombrate ſimigliantemen te le fchiere de gli sbanditi, e de
gliſcherani, che le ſtrade tutte, ei contadi ſcorrendo il noftro Regno
malmenavano; ora con ogni ſtudio, e diligenza và riparando, che non ſia mo aman
ſalva nell'avere,e nella perſona miſerabilmente oltraggiati per lomal'uſo della
filosofia. La quale per ciocchè a ciaſcun forſe abbiſogna, ſicome ove ſia
infra’li miti mantenuta della ſperienza, e della noſtra comeche debil ragione,
eſſer puote per avventura di qualche giova mcnto al comune: così allo incontro
s'egli mai avvien, che fi torca à ſiniſtro cammino, affai più delle malattie mede
fime dannofa fi ſperimenta, e nocevole al genere umano. Nè prima alla notizia
di lui gl’infelici avvenimenti d'alcu ni infermi fon pervenuti, per li quali le
Chimiche medici ne forte s’accagionavano, ch'eglitantoſto ne impone, che per
noi con minuta diligenza li cerchi ogni modo più op portuno da potervi dar
riparo: e inſieme di preſcrivere a Medici, ove faccia meſtiere, certe, ſicure,
e falde regole nel loro operare. Ma io quantunque voltemeco penſando riguardo
quan te, e quali ſian le malagevolezze d’un tale affare, tante fra me mcdeſimo
confuſo oltre modo, e fofpeſo rimango;per ciocchè, o che ficome in tutt'altre
biſogne di gran conſide razione interviene, o che natura di tal'arte nol
patiſca, du ro molto, e malagevol ſembra il dar legge alle coſe a quel la
appartenenti. Perchè amerci più toſto ſenz'altro fare, tacendo di non darmene
briga, ſe non fapelli, ch’in sì fat ta maniera contravvcrrei a ' comandamenti
di colui, icui senni,non che le richicke debbo di preſente, ſenza replica
alcuna, e con ſomma venerazione ſeguire; da' quali ſol moſſo, ed anche dal
giovamento, ch'alla mia patria ne po trebbe forſe avvenire, volentieri, e di
grado mi vilaſcierò entrare. Ed acciocchè ogni diliberazione, o partito,
ch'intorno a ciò ſia da prendere, a vano, ed inutil fine affatto non rie ſca,
tutte le forze del mio deboliflimo intendimento im piegherovvi; diviſando in
prima le malagevolezze, in cui di leggier s'avvengono non che Principi, o
Maeſtrati; ma Filosofi ancora, comechè faggi, e intendentiſſimi in dare ſtabili,
e certe leggi alla Medicina; eſſendo fommamente una tal'arte di ſua natura
incerta, e dubbitoſa, ed incoſtan te. Indi poi pian piano, e con diſcreto
avviſo più adden tro facendoci,ilmodo proporremo, col quale quanto law natura
della coſa comporti, un buon Medico, ed un mi glior Chimico far ſi poſſa. Ne
altro provvediméto intorno a ciò al preſente mi ſovviene, che valevole, ed a
propoſito ſia per riparare alle perpetue, e quaſi fatali calamità della filosofia.
E per cominciare dalle memorie più antiche, laſciando da parte ftare quanto
poco duraſſe in India, in Babilonia, edin Afiria quel lor diviſo di dover
allogure gl'infermi nelle più uſate contrade e della Terra, perche fuffer cura
ti da’ viandanti; nell'Egitto là, dove l'arti tutte, e i più no bili ſtudj
nacquero in prima, e fiorirono, ſolamente a’Rè, ed a' Sacerdoti, ed a pochi
Baroni d'alto affare ilmedicar gl'infermi era conceduto; onde da Manetone fra'
Medici d'altiffimo fapere annoverati furono Antotide ſecondo Rè della prima
dinaſtia de'Tiniti, il quale laſciò ſcritti alquan ti libri di notomia: e
Tofortro Rè della terza dinaſtia, la qual’era de'Menfitani. Ma poi tratto
tratto cotal meſtiere con tutti s'accomunò, eziandio colla minuta plebe; e tan
to il numero de' Medici s'accrebbe, che ben per ciaſcun male era il particolar
Medico ſtabilito, che ad altro malo re non dovea por mano, come ne dà
teftimonianza Erodo. to della Greca Iſtoria padre, con queſte parole:; dè
intpoxaj A κατα: 1 2 I Strab. lib. 3.8. 16.
κατι δέ σφι δέδασε μιής νούσου έκασG- ιησος, και ου πλεόνων» παντού δ '
ιητών επί σλέα.οι μενεγαρ οφθαλμών Ιητοί κατεσέασι, οι δε κεφαλής, οι δε
όδόντων, οι δε τών και νηδήν, οι δε των αφανέων νούσων, cioc fala Medicina appo
loro divifaeflendo per ogni malore, e nongià per più il ſuo Medico:
Ondetuttoilpaeſe vien da Medicin gombro,perocchè altri curano gli occhi, altri
il capo, altri i denti, altri le parti del ventre, e altri i mali interni, e na
Scofi. Rimaſa poi in man ſolamente delle private perſones non ſi può creder di
leggieri, quanto cadendo dal ſuo pri mo ſplendore l'Egiziaca medicina cangiolli
per l'infingar dia, ed ignoranza de' novelli Medici, iquali eran di così poco
talento, che come dice ilteſtè mentovato Erodoto, i primi della Corte del gran
Rè della Perſia, allorche a co ſtui gli ſi era dislogato ilpiè, non pur no’l
ſepper guarire, ma coʻloro argomenti a peſſimo ſtato il riduſlero. Perchè
ſicome ſenza fallo è da credere, fù a’Medici, come narra Diodoro, nell'Egitto
per legge vietato il traviar da’coman damenti degli antichi Maeſtri, a' quali
ſe alcun contrave gnendo interveniva, che piggiorato ne foſſe lo infermo, n'era
perciò acerbamente punito,xq'v Teis ex tās iegãs 616nou νόμοις
αναγινοσκουμένοις ακολουθήσαντες αδυνατήσωσι σώσαι τον κά. μνοντα,αθώοι παντός
εγκλήματG- απολυόνται.εαν δε παρά το γεραμ μένα ποιήσωσι, θανάτου κρίσιν
υπομένεσιν. Εnel vero fu non po ca fortuna di Galieno (per tacere al preſente
d'Ippocrate, e d'altri) il non eſſer egli nato à que'tempi,ed in quc'paeſi;
perocchè non così agevolmente n'avrebbe ſchivata la pe na, ſe quaſi ad onta
della reverenda autorità di tal legge oso pur dire quette parole: ου
γαρΙπποκράτης μόνον, αλακαν τοϊς άλλους παλαιούς, ουχ απλώς οίς αν είσαι τίς
αυτών πυρεύω βασανίζω δε και αυτός τη τεπείρα, και ταλόγω. ciοε, πότερον αληθές
εςιν, ή fèuda ö yayçá Daci, Io ciò offervo non ſolamente negli ſcritti
d'Ippocrate, ma in tutt'aliri libri de gli antichi; che non così di leggieri
foglio commendare ciò che ciaſcun di loro ne aveſſe laſciato ſcritto;maprima il
vò ben’io ejjaminando colla Sperienza, e colla ragione,ſe vero, o falfo fifia;ſe
pure egli, che valente maeſtro di loica era, per iſchermirfi non aveſſe tali
chioſe fatte in su gli ſcritti de gli antichi, e tanto i lor ſentimenti
ſtravolti, ed avviluppati, finche paruti fof ſer conformi a ciò che più gli era
a grado. Coſtuina, che più di ogni altra han poi ſeguita, e ſeguono tuttavia i
Me dici, che gli vanno appreffo, i quali in tal guiſa i ſuoi detti sformano, ed
anche que’d'Ippocrate, che ſovente fan ve duta di dir tutt'altro di ciò che da
prima ſi propoſero. E forſe gli Egizziaci medeſimi con iſchernire la lor legge
anch'eſſi vezzatamente cotal arte operavano ſecondo il proverbio: fatta la
legge, penſata lamalizia. E a tanto giunſe per avventura la lor traſcutata
arditezza, che ſo vente vegnendo toſto alle purgagioni, e per lo più con in
felice avveniméto per ripararvi traſandata la prima legge una nuova ne
publicarono, ſecondochè ne narri ARISTOTELE con quette parole: Εν Αιγύπτω μετα
την πταήμερον κινείν έξεσι τοις Ιατζούς, έαν δε πρότερον επί τω αυτε"
κινδύνω, eler lecito a' Medici muovere ſolamente dopo il quarto giorno, che
fe'l voglion far. prima, lo ſi facciano a lor pericolo.La qual mellonaggines
non ritrovò gran fatto, ch'io mi creda, ricevitori, ſe mai avviſarono quanto di
leggier poſſano avvenir que’mali, a? quali fa meſtieri d'eſtremi medicamenti
anche nel primie ro giorno, e toſto che ſi fan manifeſti. Ma o quanto da nul la
ſtato ſarebbe quel Medico, che procurato aveſſe l'altrui ſalute a coſto della
propria vita, Eda tali ſconvenevolezze avendo per avventura riguar doi Greci, i
quali come nell'arti, c nelle ſcienze, così nel la prudenza civile ogni altra
nazione ſi laſciarono ſenza contraſto addietro: non mai dar vollono determinate
leggi alla Medicina, ed a que', che la eſercitavano; amando me glio, che
ne'liniſtri avvenimenti de gli infermiper colpa ' de’Medici n'aveſſercoſtoro in
condegna pena la ſola infa mia portata: και πιο σιμον γαρ ιητικής μούνης έν
τήσι πόλεσιν ουδέν 60315042 Tinio a'došíns, la quale a coloro, cui preme
l'animo cu ra di vero onore, più ch'ogni altro fupplicio grave riuſcir fuole, e
nojofa. La qual coſtuma ſi vede manifeſta da File, mone, ovc dice: Μόνω. 2
Ippocrate, Μόνω διατάω τούτο και συνηγόρω Εξεσιν αποκτείναν μεν, αποθνήσκαν δε
μη. Cioè a dire, al Medico ſolamente, ed al giudice fi permet te uccidere a man
ſalva le genti. Piacque ciò anche all'al to ingegno del divino PLATONE,
laſciando egli così nella ſua Republica ordinato: Aniuna pena fia,che
foggiaccia il Medicó, s'alcun infermo da lui curato contro ſua voglia fia che
ne muojaιατρών δε περιπτάντων αν ο θεραπευόμενων υπ'αυτών τε arvoſi xabago's
tsw na odvopov. Dal cui divilo non punto ſi di lungo LUCIANO, ove dice: L'arte
della Medicina quanto di maggior pregio è degna, e più dell'altre alla vita
giovevole, tanto i ſuoimaeſtri debbono più godere di libertà'; e convene
volcoſa è, che goda di qualcheprivilegio, nè fia giamai liga ta, o foggiogata
da potenza veruna una dottrina confecrata agl'Iddij,e diporto degli uominipiù
ſcienziati,nè vegna alla dura ſervitù delle leggiſottomeffa, e al timore, e
alle pene acTribunali. π δε της ιατζικής όσω σεμνότερόν έσι και τώ βίω Χρησι
μώτερον τοσέτω και ελευθεριώτερον είναι προσήκει τοϊς χρωμένοις, και πνα
πονομείων έχειν την τέχνην δίκαιον τηεξεσία της χρήσεως, αναγκάζεσθαι δε μηδεν,
μήδε ποσάττεσθαι, πράγμα ιερον και θεών παίδευμα και ανθρώ πων.σοφών
επιτήδευμα.μήδ ' υπο δελείαν γενέσθαι νόμου μήδ' υπο φόβος και auweiar
dixæsnetw. E cõciofoſſecoſa, che frà Greci gli Atenieli ſolamente vietaſſero
alle donne, e a'ſervi lo ſtudio del la medicina; non è però gran fatto da
lodare, per non dir che molto da biaſimar ſia un cotale ſtatuto; perciocchè,co
me più avanti diraſli, lo intendimento di valoroſe donne contro al loro avviſo
s'è moſtro più fiate valevole a viril mente imprendere i più alti ſtudj; ed a '
ſervi ancora conce dette la natura più volte animo, e ingegno alla libertà fi
loſofica acconcio: perchè a ragione non guariappreſſo fù rivocato: rapportando
Igino: Obſtetricibus neceffitatis, honeſtatis gratia ufus medicina tandem ab
Atheniensibus con ceffus fuit. E molto meno dovrem noi credere, che rima neſſe
in piè la beſſagine di Seleuco, che tal potremoſenza fallo quella ſua legge
chiamare, colla quale non altrimen te, che ſe veleno ſtato foſſe proibì il ber
vino ſotto capi tal pena a tutti gli ammalati Locreſi, ſalvo ſe prima non ne
aveffero da loro Medici la licenza ottenuta. Ens Aoxgüv των Επιζεφυρίων νοσών
έπεν οίνον α'κρατον μη προσάξαν7G- ταθεραπεύ αντG,εί και περιεσώθη θάνατG- ή
ζημία ήν άντώ, οπ μη προσαχθέν από o'Se triev. LA ROMANA REPUBLICA, che non pur
nel governo militare, ma nel politico ancora avanza di gran lunga le greche
tutte, e le barbare nazioni, giudica convenevol com fa il non commetter senza
freno alla balia de Medici la cu sa della vita de gl’uomini; e perciò prese per
partito, che AQUILIO, tribuno della plebe, non so se GALLO, o altro e' ſi
fofíe,con un plebiscito, il qual fu poi annoverato infra le leggi di Roma, qualche
pena a'loro fallimenti iinponesse, per la qual’accorti divenuti foſſero, e
cauti nell'operare. Non per tanto dimeno è da credere che legge tale, o plebiscito,
che si fosse, non mai ſi metteſſe in uso, ch'altrimen te avrebbe avuto il torto
PLINIO di sclamare in sì fatta gui. fa contra’Medici. Nulla præterea lex punit
inscitiam capitalem, nullum exemplum vindiétæ: indi soggiugnere: difcunt
periculis nostris, experimenta per murtes agunt: ed in fin conchiudere:
Medicoque tantum hominem occidiſe summa impunitas est. Ma vi ha di vantaggio secondo
il me delimo Autore tranfit convitium, et intemperantia culpa tur, ultroque qui
periere argauntur. E perciò immagino, ch'in compilando i Digesti per
commandamento di Giusti niano a bello ſtudio traſandaffero que celebri
Legiſtila sentenza troppo dura nelvero, e crudele di Paolo sopra la legge
Cornelia de Sicariis. S Si ex eo medicamine, quod ad salutem homini, vel ad
remedium datum erat homo perierit, is qui dederit ahoneftior fuerit, in inſulam
deportatur, humi lior autem capite punitur. La quale a giudicio di quella
grand'animadella civil ragione Giacomo Cujacio, alla già detta legge Cornelia
non può propiamente ridurſi; peroc chè dice egli il medico sanandi, non nocendi
animo dedit. Ed avvegnacchè i medeſimi Legiſti nelle Hituta, e ne’Di gefti vi
rigiſtraffero non ſolamente il già detto capo di LA LEGGE AQUILIA, ma ancora le
ſeguenti parole d'V Ipiano, Sicuti Medico imputari eventus mortalitatis non
debet, itad quod * Elannt. lib 2.9. cap.z. lib.recept. lent. 6 Cuias. in Ang
Corn de Sioar. tores quodper imperitiam commifitimputari ei debet, ebo pretextu
fragilitatis humanadeliétum decipientis in periculo homines innoxium eſſe non
debet. Nientedimeno o di rado, o non mai certamente fur meſſi in uſo cotali
ſtatuti, avvegnachè non ſolamente Plinio, ma molti, e molti anche dopo lui le
que. rele medeſime replicando con più vive doglianze l'acca gionaſſero;
infra’quali il dottiſſimo Agnolo POLIZIANO in una ſua piſtola al Leoniceno così
ſcrive, indolui rurſus ge neris humani vicem, quod in fegraſari tamdiu impune
tri ſtem hanc inſcitiam patiatur, atque ab ijs interdum vitæ fpem pretio emat,
unde mors certifima proficifcatur,e'l Vives co sì grida: Errata illius (del
Medico ei favellando) impung funt:immomercede compenſantur, e Battista da
Mantova: His etfi tenebraspalpant eſt facta poteſtas Excruciandi ægros,
homineſqueimpune necandi. E un satirico italiano scherzando col titolo del dottor
dice a queſto propoſito medeſimo del medico: Mapoichè un tal ci può donar la
morte Senza punizione, e ſenzapena Forzaè, che sì gentil titol riporte E'l
noſtro Accademico in quel ſuo vaghiſſimo dialogo, hoc tamen ipfo -ſecuri, dice
parimente deMedici, quod nulla fit lex,quæ puniat infcitiam capitalem: immo
vero cum mercede gratia referatur, ed altrove: Carnifici medicus par eſt: nam
cædit vterque Impune: &merces cædis utrique datur. E un'altro Autore: Si
quæcamque ſuaplectuntur crimina lege Quas Medici maneant modo veſira piacula
pænas? Quiplerumque ipſo facitis medicamine morbum, Etdiro ante diem ægrotos
demittitis orco.? Scilicet hoc vobis indulſit opinio rerum Vna potens. Clades
inferre impune per Orbem Mercedemque alieno obitu, laudemque parare. Ed avvegnachè
Maſlimino condennaſſe nella perſona tutti ſuoi Medici, perche non gli aveſſero
o ſaldate affatto le piaghe, o alleggiato il dolore, nondimeno l'eſfemplo d'un
tal tiranno non può dar vigore a leggeniuna; e fu queſta non men, che
tutt'altre ſue crudeltà biaſimata da gli ſcrit tori del ſuo ſecolo, ſicome
anche Alessandro meritevolme te riportò titolo di crudele, per haver fatto
ingiuſtamente ammazzar Glaucia medico, per ſoſpetto, ch'egli aveache colui poco
faggiamente aveſſe curato il ſuo cariſlino Éfc ſtione. Comeallo incontro
grandemente vien commenda ta la clemenza, e umanità di Dario Iſtaſpe Redella
Perſia, il quale i medici già alla morte dannati, perchèlui aveſſer malamente
cnrato, volentier permiſe, che liberaci foſſero da Democide illuſtre Medico da
Cotrone. Ma non però creda alcuno, aver I medici per traſcutaggine de’reggi
menti una tal libertà guadagnata; anzi egli è ſomma nc ceſſità del comune, e
quaſi arte di buon governo; perocchè ſarebbeli quaſi affatto ſpenta, e com’Io
avviſo annullata fin la memoria del meſtier della filosofia, ſe contro aʼme
dicanti con rigor di giuſtizia ſi procedefle. Ed in vero qnal huomo mai, ſe non
ſe ſommainente ſciocco, e ſcimunito, o temerario aſſai avrebbe vanamente
logorato il tempo, e le fatiche dietro ad un'arte (ſe pur arte poſſiamo chiamar
la Medicina, non avendo quella niuna certa, e filla regola nelle ſue operazioni
) quanto a ſe ſpiacevolc,e malagevo liſſima a conſeguire, e ne gli avvenimenti
dubitoſa aſſai? E dicola ſpiacevole, perocchè qualmaggior noja, e ſpiaci mento,
che quel di colui, che continuo ha da bazzicar co? malati, e veder ſempre,
& udire l'altrui miſerie ſenza aver talora opportuno argomento da riſanarli?
Ed è anche malagevole ad imprendere, e incerta ſempre negli avve. nimenti:
imperocchè nella cura delle malattie non meil dell'avvedutezza del Medico il
caſo ancora, e la fortuna vi fan la lor parte '; perchè ſurſe quel volgar
detto: Fa meſtieri il Medico ejjer forto benigna coſtellazion nato. Ed o quanto
aſſai ſoyente avviene, che contro ad ogni avviſo umano, ficome ſcriſſe Celso,
etiam Spes fruſtratur: & moritur aliquis, de quo Medicus fecurus primòfuit.
Ed: Ippocrato medeſimo avvegnacchè altiſſimoMedico, & avvedutiſſimo B giu 7
Plutarcom: 11 / a? !. 10 giudicato,
purconfeffa se da tal meſtiere ancor più di bia limo, che di lode
aver’acquiſtato. r fywye doréw pasiove uspelo Morgíny topov xexangãoBan Thin
Tégun.E quinci è, che duracoſa, o malagevoliſſima, o impoſſibile ſempre mai è'l
ravviſare ſe le cattive uſcite de' mali da dapocaggine de' Medici più toſto
avvengano, o da natura delmale, o da altra interna cagione, in cuiſenno alcuno,
ne umano provvedimento giammai non vaglia. Incertiſſimi ſempremai, ed oſcuri
gli uſcimenti delle malattie ſi ſono,maſſimamente delle acute, ſecondo il
ſentimento d'Ippocrate; perchèdiceva anche Celſo: Neque ignorare oportet in
acutis morbis fallacesma gis effe notas falutis,& mortis. Senza che
ſoglionſi ne'cor pi degli animali ingenerare, e talvolta anche di preſente,
iveleni per ſubitana, o precipitazione, o coagulazione; e può anche huomo, che
non altri, ma Apollo, ed Esculapio medeſimogiudicherebber faniſſimo,aver dentro
enfiature, o altri nafcofi malori, che quando egli men ſi crede ſian, valevoli
ad irreparabil morte condurlo; e ciò anche nel tempo ſteſſo, che li
s'appreſtano i medicamenti; perchè a torto poi i rimedjmedeſimi, e non il
malore accagionatine vengono. Ed oltre a ciò poſſono alcuni medicamenti, che
buoni, e giovevoli alla ſalute degli huomini ſi giudicano, tal curbamento
dentro cagionare, che l'ammalato le new muoja avanti, che noi col noſtro corto
intendimento pof fiamo ne pur badarvi: 8 Quæque medendi caufa repertow ſunt (comene
fà teſtimonianza Celso ) nonnunquam in pejus aliquod convertuntur, neque id
evitare humana imbe. cillitas in tanta varietate corporum poteft. Perchè non
ſarà egli colpa de'Medici l'avertalvolta piggiorato co’ſuoi me dicaméti lo
infermo; ne in ciò le leggi potranno giámai coſa del mondo determinare. Ma su
concedaſi, pure, che per legge ſia a' Medici l'uſo del medicar preſcritto: come
mai potrebber coloro eſſer caſtigati ſe la travalicaſſero? o co me mai potrebbe
porſi in chiaro il delitto, acciocchè poi ſecondo il diritto delle leggi vi ſi
procedefle? E chi baſte volmente non sa quanto i Medici tutti ſian contrarj di
ſet te, s lib.z.cap.6. IT ) te, e
diſcordanti ſempre ne’loro ſentimenti? Perche oda paleſe nimiſtà, o dacoperta
invidia, il che è peggio, ſempre ſtuzzicati, o tratti dall'amore e dalla
benivoglienza de’lo ro parziali, traſandata la verità delle coſe rappreſentano
al Giudice tutt'altro, che di giuſtizia dovrebbero,e dannoli a divedere, come
ſuol dirlila Luna nel pozzo, ſecondo il lor diſiderio; ſenza che il timor della
pena, in cui potrebbe di leggieri incorrer il Medico, ſempre ſoſpeſo, e
inviluppa to il terrebbe in prender partito anche quando faceſſe me ſtiere
dipiù efficacemente operare; ed egli timido, econ fuſo per non porre a riſchio
la ſua perſona nelle piu gravi malattie ſcioperato, e colle mani penzoloni ſe
ne ſtarebbe; o pure per non partirſi dal comun ſentimento del vulgo, comechè
falſo, e almal contrario, talvolta vani, e perico lofi rimedi uſerebbe. Coſa,
chepiù ch'altrui a'Medici de Principi, come avvisò il Cardano, avvenir ſuole; i
quali per tema non pur dell'infamia, ma di mal maggiore ſi ten gono di adoperar
grandi, e non uſati medicamenti. Ne ſam rà quì fuor di propoſito l'apportare
un'eſemplo del meſtier della guerra,da quel della Medicina non guari in verità
per l'incertezza de'ſucceſſi lontano. Compativano anzi che nò I ROMANI Maestrati
gli erroride' Capitani de’loro eſer citi;e ben ſi vede a quale altezza ne
montafſe perciò L’IMPERIO DI ROMA, come all'incontro sa ciaſcuno a qual miſe
rabil fine ſi conduceſſero i Cartagineſi per operar ſempre mai ilcontrario. E
più vicin deʼnoſtri tempi ben lo mani feſtarono i Viniziani con loro
gravoſiſsimo danno, e quaſi con la caduta univerſale del lor comune, quando
ingiuſta mente per la ſua tracotanza decapitarono il Carmagnuo la; perchè poi
ſmagato il Liviano, e ſecondando il fenti mento de’malcauti provveditori,ne
perdette la giornata di Vicenza, e miſerabilmente con tutto l'eſercito ne reſtò
tagliato, e ſconfitto. E forſe la morte data al Vitelli fu an che una delle
principali cagioni, onde i Fiorentini traditi dal Baglione,la libertà poi
miſeramente ne perderono. E ben potrebbe qui alcuno non ſenza qualche ragione
andare ſpiando,che la legge Aquilia, cometutt'altre leggi B 2 de' 12 1 ! DE’ ROMANI da noi teſtè rapportate, nõ
già per li valétiMea dici oMetodici, o Empirici, o Razionali ſtare foſſer
fatte, ma ſolamente pe’ſoli popoleſchi Empirici,e volgari; eſſen do comunal ufo
appo coloro di non ſolamente con nome di Medico i volgari Empiricichiamare, ma
quegli ancora, che di caſtrare i fanciullieran uſi;come agevolmente ſi può
ne'Digeſti, e nel Codice così di Teodofio, come diGiuſti niano comprendere. E
certamente in coſtoro ſolamente da credere, ch'aveſſe luogo l'ignoranza
dell'arte; per cagion della quale furono IN ROMA contro a' Medici ordinate le
leggi. Ma sì fatta razza di medicanti ben ne do vrebbe eſſere acerbamente
punita: intramettendoſi teme rariamente in meſtier di tanta conſiderazione,
quanto è il mcdicare; e ordinando alla cieca rimedi di riſchio sù la vi ta de
gli ammalati. Perchè ſtimo ben fatto aſſai, ch'in mol te parti dell'Europa,
venga loro ſotto graviſſime pene if medicare interdetto; avvegnacchè poi cotali
divieti poco, o nulla fian melli in uſo. E ben d'eſſo loro a gran ragione dice
Anneo de Roberti ciocchè degli Strolaghi diſſe in pri ma TACITO: Genus hominum potentibus
infidum, Sperantibus fallax: quod in civitate noſtra vetabitur femper; &
retine bitur: Se non ſe troppo fcarſo èil paragon del Roberti; che i cattivelli
degli Strolaghi altro no fanno,che con lor cian cie tenere a bada le brigate
de' curioſi con paſcer loro di vaniſſime ſperanze; e gli Empirici volgari
co'lor vani ſegre ti, e con lor ciarle, o rattengono gli ammalati, che non
prédano rimedj da'buoni Medici,ondepoi ſe ne muojano: o pure con lor
nocevolifumi medicamenti eglino medeſimi gli uccidono. E giuſtamente per
avventura furon prima digradati, c poi nella perſona condenvati que' viliſimi
paltonieri nel reame di Francia, ch’in vece diguarireil Rè Carlo VI, preſſo a
morte coʻlor medicamenti, e quaſi a perduta ſpe ranza ilcondufſero. Ma egli fu
per mio avviſo poco ſag. gio, cavveduto quel valoroſo Re arriſchiando in mano
di giuntatori, e pancaccieri la propia vita; e ben come da pri ma li
s’offerſero di voler riparare a'ſuoi malori, così do 1 veali toſto e ſenza
niuna pruova fare, o aſpettar di lor pro meſſe:del temerario, e folle ardimento
punire. Se pure non fu malavoglienza, edaſtio de’maligni Medici di que’tem
pi,che fe si malcapitare que'cattivelli, Ma come potevan giammaicon ſalde, e
durevoli leggi ſtabilir la Medicina, oi Popoli, o i Maeſtrati, i quali po co, o
nulla per la più parte di quella s'intendevano; le a tanto non poteronmaii più
ſaggi, e avveduti Medici per venire, li quali per lungo ſtudio, ed eſercizio
molto adden tro in quella ſentivano? Inventore per quel che fi creda, o almeno
antichiſſiino ſcrittore fu della medicina Eſculapio, e come ne da teſtimonianza
Ippocrate, o chiunque altro fi foſſe l'autor della piſtola a Democrito, molte
re gole all'eſercizio del medicare egli preſcriffe: ma ben to fto non buone
conoſcendole parecchj ſaviſſimamente diſ fenne; quròs, dice e' parlando
d’Eſculapio, è moois deepcóunge καθάπες ημίν αι των ξυγκαφέων βίβλοι Perchè può
dirſi col toſcano lirico, che Solchi onde, in rena fondi, e ſcriva in vento
colui, che dietro lo ſtabilimento di sì fatte regole s'affati ca, e a
cuic.iglia di chiarirfene cercherò per quanto io pof ſa di inoſtrargliene con
ordinato diviſamento le cagioni. La medicina tanto, e tanto oggimai creſciuta,
e avanza ta, che ben di maggioranza co’più illuſtri, e più nobili ſtu dj
gareggiar ſi vede, e colla ſua giuridizione fin détro i più rimoſſi,ed
vltimiconfinidella natura s'innoltra: pure fra gli anguſti limiti di pochiſſime
piante ſi vide in prima riſtret ta, come avviſa per tacer d'altri l'antico
chioſatore d'Ome ro vidpxxia inteixen év GOTÁVOLS ñ; e'l nostro Seneca:
Medicina quondam paucarum fuit fcientia herbarum; anzi in quel dolce, e
ſovr'ogn'altro avventuroſo tempo Quando era cibo il latte Del pargoletto Mondo,
e culla il boſco. col ſolo digiuno gli huomini ſi medicavano, 9 E pur viuean
que'primi huomini allora, Elefebbriſcacciar, quando l'aiuto Non 9 Ercol.Bentiv.Satir,
3. Non davan l'erbe, ne'lfapere ancora,
o perchèpoco loro abbiſognaſſe la medicina, come avviſa altresì Seneca: Firmis
adhuc, folidiſquecorporibus, & facili cibo,nec per artem, voluptatemq;
corrupto: o perchèficome à tutt'altre coſe di quaggiù è dato, eziandio alle più
grandi, da deboliſſimi principj dovea la medicina trarre l'origine;
que’medicamenti uſando gli huomini allora, che loro, o dal caſo, o da bruti
animali, o dalla propia induſtria venian manifeſti. 10 Perchè ragionevolmente
credeſi, che Age nore, e Chirone tenuti per alcuni ipiù antichi di tutti i
Medici,coll'uſo delle ſole piāte medicaſſero. Túcsospeli Aynuo είδη,Μάγνητες δέ
Χείρωνα τοϊς πρώτους ματςεύσαι λεγομένοις απαρχας κα μίζουσι.ρίζαι γάρ εισι και
βόταναι δι' ών ιώντι τες κάμνον ζεις.Ε di Chi rone ritrovatore del Panace
Chironio: πρώτην μεν χείρων G- επαλθέα ρίζαν ελέσθαι κενταύρου χρονίδαο
φερώνυμον, ήν ποτε χώρων πολίω εν νιφόεντι κικών εφράσσατο δείρη narra 11
Euſtazio, ch'eſſendo egli nella mano ferito, oco me vuole PLINIO, nel piede
ritrovaſſe la medicina dell'erbe, χείρωνα γάρ φασι σώθενζ ποπτην χώρακαι την
δια βοτανών επινοήσασθαι ixreixn\v: e per tacer di Mercurio,ilquale inſegnò
come can ta Omero l'uſo ad Vliſſe dell'erba Moli Ως α'eg φωνήσας πάρε φάρμακον
Α'ργαφόντης Εκ γαίης έρύσαςκαι μιν φύσιν αυτού έδειξεν e ſi pare, che
medicaſſero altresì non con altro, che colle fole piante Ercole, onde traſſe il
nome il Panace Erculeo; e Ilide e Oſiride, e APOLLO, e Arabo, e Cadmo, e BACCO
per opera del quale come dice Plutarco, si ritrova primieramente, e monta in
pregio il vino, medicamen to poderoſo, e ſoave, e venne anchepaleſata al mondo
la gran virtù dell'edera, la quale maraviglioſamente riparar ſuole i danni, che
provenir poſſono dal vino ſtrabocche γolmète ufato, ο ΔιόνυσG- και μόνον τώ τον
οίνον ευρώνιχυρόα τον φάρ μακον και η διεν,ίατρος ένομίσθη μέτσι, αλα και το
τον κιτζόν ανπταπό μενον μάλισα τη δυνάμει πεος τον οίνον ας πμην προαγαγών και
τεφανά. σθαι διδάξαι τα βακχένοντας, ως ήταν υπότα οϊνα ανιόντο, τα κιλά κα
ποσβεννύνθG- την μέθην τη ψυχρότητ: δηλοί δε και των ονοματώ, ένια την Σ 10
Trif.appo Plur. u lib.i'lliad . Is 2 την πιο ταύ πολυπραγμοσύνην. Le fole erbe
dovettero pari méte adoperarc Eſculapio inventore del Panace Aſclepio, col
quale egli,comecāta Nicádro guarì lola figlio d'Ificle: a's" χει και
πίνακες φλεγυήϊον όρρατε πρώτο παιήων μέλανG- ποταμε " παρg χάλG- αμερσεν
αμφιτζυωνιάδαο θέρων, ΙφλίκλεG- έργG έντε συν ηρακλή κακήν έπυράκτεν ύδρην e
che come avviſa il ſuo chioſatore ſolea nclle cure de gli altri fuoi inferimi
anche adoperare. δ Ασκληπιον τέτω λέγεται Ιατεύσαι όσις ήν της κορωνίδα της
θυγατςός τ8 φλεγύο παιήων só coxnýma. ed Amitaone, e Melampo, il quale come ſi
legge in Dioſcoride dell'elleboro ſerviſſi nel curar le fi gliuole di Preto Rè
de gli Argivi. Mercun Qutisaitór @ toe's Afolty Osya tegas Hayelous év ained,
cioè coll'ellebero xa Jogou weó tos ĉ beeg Tolcay, e Podalirio, e Macaone non
d'altro, che d'erbe fi valfer pe' feriti dell'oſte greca, e prima della guerra
Trojana Medea, come narra Diodoro coller be guarì le ferite di Giaſone, di
Laerte, d’Atalanta, e di Tefpiade. Ιάσονα και Λαέρτην, έπ δε Αταλάντης, και
τους Θεσπιάδας προσα γορευομένους· τούτοις μεν ουν φασίν υπο της Μηδείας εν
ολίγαις ημέραις Tori písars Borzívass DeexWeu Iñvou. E Trifone appo Plutarco in
nalza, e loda ſommamente gli antichi nneisy xexenuefuésmo' Qurwv ixrçıxß.
Quindi provati più volte, e riprovati poi i lor medicamenti, dieder la prima
bozza all'arte del medicare, como cantù Manilio: Per varios caſus artem
experientia fecit Exemplo monftrante viam. Macome pochi, e ſemplici erano in
prima i medicamenti, poche, e ſemplici altresì eſſer dovettero allora le regole
della medicina: quindi per gli errori, ne'quali puotè age volmente incorrere la
ſperiêza,abbiſognò,che cotali rego le,comechè pochiſſime,pure talvolta mutafler
faccia,cam biandoſi tuttavia, è migliorandofi i primi medicamenti. Così
cominciò la medicina ſu'l bel principio a far manifeſta la ſua incoſtanza. Ma
non guari così ella in man delle ſemplici perſone riſtette, che tratto tratto
non vi poneſſer mano anche i filoſofanti; i quali è da credere, che da prima da
ſola curioſità, e diſiderio d'inveſtigar la cagione de'me? dicamenti tratti vi
cifoſſero; ma pian piano vie piu avan zandoviſi,ericoncentrandoviſi,giunſero
poi a tale,che bia ſimando, comeincoſtante, e pericoloſa l'antica ſemplicità
del medicare, le prime fondamenta gittarono della razio nal medicina; comeche
Euſtazio ne faccia Podalirio il primiero inventore, ed egli ſembri per quelche
ne narri Eriſimaco appo Platone, ch’un tanto onore al ſuo padre Eſculapio ſi
debba attribuire: onuéte? Quiséger G Astana's (ως φασιν διδε οι ποιητα, και εγω
πείθομαι )συνέςησε την ημετέραν τέχνην. ή τεν ιατζική (ώσπερ λέγω ) πάσα δια το
θεε τε του κυβερνάται.Ε pri ma aveaegli detto:έπισήμη των τε' σώματG-ερωτικών
προς πλησμο νην και κένωσιν, και ο διαγιγνώσκων εν τα' τους τον καλόν τε και
αίρον έρω το, 8'τός εςιν ο ιατρικώτιτς- και ο μεταβάλειν ποιών ώστε αντί το '
ετέρα έρωτG- τον έτερον κτησάσθαι: και οίς μη ένεστιν έρως δει
δ'εγγενέσθαι,έπισα μενG- εμποιήσαι, και εν όντα εξελεϊν, αγαθός αν είη
δημιουργός: δεί γαρ δη τα έχθισα όντα εν τωσώματι, φίλα οΐόντ είναι ποιείν, και
έραν αλήλων, έξι δε έχθισα, τα εναντιώτατα ψυχρoνθερμώ,πικρον γλυκεί, ξηρονυγρό
πάνω τα τοιαύα τούτοις έπιςηθείς έρωτα εμποιήσω και ομόνοιαν. Ma non per tanto
non ceſſarono,mavie più moltiplicarono le ſue muitazioni e le ſue incertezze: e
come varj erano, e diſcordanti quei, chela cſercitayano, così varia ella ne
divenne, equaſi in inille parti diviſa. Ma pur ſi manteneva intanto con
iſtrettiſſimo legam alla filoſofia la razionalıncdicina congiunta; intanto che
da'più ſaggi, e prudenti ſtimatori delle coſe, come Celso avviſa, parte di
quella veniva concordevolmente giudic.ee ta: eral parve che ſe ne ſteſs’ella
fino all'età di Erodico, detto da alcunimalamente Prodico. Or coſtui come rio
traceiar ſi puote da quel che ne narr. Platone nel Ginnasio dell’ACCADEMIA, di
cui egli era Maestro, cpriino ministro, cagionevole divenuto della perſona, per
lo biſogno, che gliene faceva, a coltivarla medicina con tutto l'aniino, e
conogni ſtudio maggiore ſi volſe; e quella alla Ginnastica congiugnendo, e prescrivendole
alquante regole da lui per via della ragione, e della sperienza daprima
ritrovate, li parve,ch'an zi d'ogni altro qualche forma d’arte a darle incominciaſſe.
E allora venne ella pian piano a perderdella FILOSOFIA l'an tica uſata
dimeſtichezza: comechè Celſo, ed altri portino opinione eſſer ciò per opera
d'Ippocrate primieramente avvenuto. E da Erodico ſembra eglipoi, ch'il reſtì da
noi mentovato Ippocrate ſuo ícolare, ed Eurifonte, e altri il coſtume di
trattar ſeparatamente dalla FILOSOFIA le coſe alla medicina appartenenti
apprelo aveſſero. Ed avvegnachè ad alcuniciò ſembraſſe ben fatto affaire digran
giovamen to alla medicina; non però di menomolto manifeſto egli ſi potrà
comprendere per colui, ch'alla verità delle core voglia ben profondamente
guardare, cſſergliene anziche no graviſſimo nocimento ſeguito. Imperciocchè
quindi i filoſofanri niuna curanon dandoſi di por mano alla media cina, e
quinci i Medici delle biſogne di quella groſamen te diviſando, per poco di
razional non le rimare, altro che'l nome. E giunſe a tale sì biaſımevol
coſtume, ch’in di fenderlo tuttavia i lor poſteri pertinacemente s'affaticava
no: e oſtinati in su la credenzi coglievan pruova da farlo a credere alle genti.
E Galieno pure osò dir d'Ippocrate, aver lui certamente gran ſenno fatto in non
inframetterſi giammai di volere ſicome ſi fè poi da Platone, inveſtigar la
natura, e la generazione delle qualità di que'loro quat tro primi corpi,
ondegiudicano ciaſcuna coſa, ela malli... turta del mondo cſſer compoſta, e
ordinata; dicendo, un cotalbriga a'filoſofanti ſpezialmente, e non già a'Medici
appartenerſi; i quali ogniloro uficio han baſtantemente, compiuto,toſto che a
ſapere aggiungono la ſanità de'corpi dal temperamento, o dalla meſcolanza del
caldo, e del freddo, e dell'umido, e del ſecco ingenerarſi,ſenza più ol tre
curioſamente ſpiarne. Ma qual di queſta giammai po trebbe alla medicina coſa
più offendevole, c più dannoſa immaginarſi? Così per lungo uſo ne' Medici, che
razionali appellar ſi facevano l'amor della fapienza tratto tratto mancando,
più fiere aflaise più crudeli le conteſe della malandata mc dicina
rappiccaronſi; perciocchè ove in prima i ſentimenti gli uni de gli altri per
vaghezza ſolaméte della verità con C trila traſtar ſolevano, allora affondati
tutti nelle fazioni, e oſti nati ne gli appoſtamenti, non rifinarono di piatire,
e riot tare, e carminarſi l'un l'altro, e proverbiare; intanto che ne meno i
primi maeſtri, e ritrovatori dell'arte ne fur ſalvi, Apollo giudicato Iddio
della medicina, era allora poco a capital dalla fciocca gétese volgare torma de
Medici tenu to, rimproverandoli apertamente eſſer luiciarlone, e mil lantatore;
e ſovra tutto d'ingratitudine anche il cacciarono; perciocchè avendo egli
dall'altrui urmanità, e corteſia law medicina apprefa,tutto ſuperbo poise
gonfio ſe n'andavas come s'egli, e no altri dapprima per propria induftria
ritra vata l'aveffe. Anzi perchè egli in maggior pregio,e gloria formontar ne
doveſſe incominciò lo ſcaltcrito,e fagace pá cacciere,avédone appreſa l'arte da
Glauco, ch'era un volpā vecchio, a cicciar carore,e far l'indovinello,aprēdo la
ſtra da alle frodi, e aſtuzie da trccellar le genti. Proverbiò altri Eſculapio
anch'egli Dio della medicina,perchè egli bergol foſſe, è di poca fermezza in
mcdicando;e non poche be ſtemmic ancora li furono ſcagliate per la ſua
ingordilimizu avarizia: imperciocchè egli in priina d'ogni altro, ficome
narrano, 12 l'arte ragguardevole, e ſacrosāta della medicina in profan’uſo
rivolgendo, tratto da vil guadagnos2 prezzo medicando a un'infermo Principe
vendèinfinito teſoro al quante poche erbe, e radici, perchè giuſtamente
eglimeri tóne poi cffer fulmimato,ed arſo da Giove;e laſcionne a'pe fteri un
così ſeoncio, e così abbominevole eſemplo. E ol tre a ciò dicono,ch'egli in far
l'indovino, el malioſo, ci tutt'altre giunterie, e frafche il ſuo padre Apollo
digran lunga avanzaſſe, perchè poi funne ſovraſtante a gli augurj, e all'arte divinatoria
per ciaſcun creduto. E côtro di lui di vantaggio aggiungono aver lui con mille
modi, e artifici fconvenevoli dato a divedere altrui, ficome fè ſuo pa dre, che
anche i cadaveri ſapeſſe egli in bella vita riporre; e che in sì fatta gaiſa il
titolo di divino fecleratamento d'accattar fi proccuraffe. Ma per recarvi le
molte parole in una, e'conchiudono alla perfine, ch'Apollo poco,onul la
Pindaro, Del Sig.Lionardodi Capoa: 19 la di medicina s'intendeſſe: e molto meno
ne ſapeſſe il ſuo figliuolo Eſculapio; perciocchè sfidandoſi colui di poter
nell'arte propia il figliuot compiutamente ammaeſtrares, fotto la diſciplina di
Chirone fegliele lungamente impren dere. 13 E coſtui dopo cotanto ludio, e
tempo, che logo rovvi, tanto ne venne in ſuſo, che per guarire un menomo dolor
di denti fu a riſchio di perdervi il ſuo buon nome; e le ftanco alla perfine
con una preſta diliberazione per torli d'addoſſo una cotal ſeccaggine a viva
forza no'l cavava, fuora al malato chi sà che gliene farebbe ſeguito? E'l ſuo
gran Maestro Chirone non che altri, ma ſe medeſimo cu far non valſe, allor che
a caſo da Ercole ferito preſe per partito di far larga rinuncia della vita, e
dell'immortalità 2 Prometeo, e così uſcir valoroſamente fuor d'ogni impac cio.
13 E ben da ciò fi può apertamente comprendere, re vere foſſero quelle tanto
maraviglioſo, e tanto impareg giabili pruove, che di lor falfamente la
menzoniera anti chità và millantando. Così per avventura gli aftioſi con
tradittori di que'primi maeſtri favellano: c Io ancora a vo lerne dire al
preſente ciò, che me ne paia, non mi ſembra gran fatto da porre in dubbio eſfer
que’ primi ritrovatori della medicina appo' Greci poco in quella cercamente pro
firtati; ſe nc'ſecoli appreſſo ancora, quando colletà in cia lcuno ſtudio,
carte avanzavaſi ilmondo, meno ſaviamente coloro diviſandone, moſtraron'altresì
d'aſſai poco ſaperne. E quantunque eglino in tanto buon nome, e pregio per
tutto ne montaſſero; non però di meno non dobbiamo noi dalla noſtra credenza
rimanerci; giudicando nelle prime bozze dell'arti al ſemplice, e creſcente
mondo eſſer ſem brati maraviglioſi, e divini ritrovati le prime opere della
medicina. E fu ciò più che a tutt'altri inventori, agevol molto a’Medici;
perciocchè ogni lor grave fallimento, ed errore in medicando, eſſendo, come
diſle colui, naſcoſto in fieme coʻgli ucciſi da loro forterra; e allo incontro
appa rendo folaméte di quà le loro comechè menomiſſime pruo ve ne'vivi da loro
riſanati, ſenza troppa invidia poteronfi C 2 age 13 Apollodoro. agevolmente
acquiſtar loda, e pregio immortale. Senzaa chè nelle più ribalde, e cattive
perſone certamente ciò avviene; le quali ſicome aſute, e malizioſe ſi van
procac ciando per tutto favorevoli, e parteggianti; e dalla vera
fapienzalontane non laſciano qualunque froda, 0 giunte ria, onde preſſo la
minuta bruzzaglia delpopolo diventi no ragguardevoli. Perchè è certamente da
giudicare eſſere ftati coſtoro, di cui cotanto buccinavaſi, aſtutiſſimi giunta
tori, e ramanzieri. Nè Io ho in animo di recarvene qui molti eſempli,chea gran
dovizia potrei ritrarre dalle anti che, e dalle moderne memorie; ſolamente non
laſcerò di rapportarc,effer'antica fama,che Acrone di GIRGENTI avesse una volta
damortifera peſtilenza liberata la Città d'Atene colle grandi luminarie, e
fuochi, cheper entro vi fè accendere. Ma ſe ciò da fuoco avvenir poſſa, non che
da altro,da gli occhi noſtri propjcertamente ce ne habbiamo potuto
ricredere.Narrali il medeſimo aver fatto a’ſuoi tépi İppocrate. E Toſſare
ancora dopo morte acquiſtonne e Itatue, e ſacrifici, ed altri onori divini;
perciocchè, come narra LUCIANO, in tempo che Atene era più che mai dalla
fogadella peſtilenza malmenatas e tutto che dipopolata, e ſgombra, diceſi eſſer
apparſo colui ad Architele moglie d'un cotal huomo dell'Areopago,e averle
ſicuramente det to, che ſe gli Atenicli fpargeſſero le ſtrade tutte divino, di
preſente farebbcſi attutata la peltilenza; e ciò facendo co loro, dilubito,
conforme colui loro promeſſo aveva,ne fur del tutto rimofti, δπι της ελάδα κατά
τον λοιμον την μέγαν έδοξεν και Αρχιτέλος γυνή Αρεοπαγίτε ανδρος επιφάνια τώ
λοιμώ έχόμενοι, ή τας σενωπες δίνω παλά ράνωσι τέτε συχνάκις γενόμενον (8 ' γαρ
ημίλη σαν Αθηναίοι οι ακούσαντες ) έπαυσε μηκέτι λοιμώξειν αυτούς. Or qui io
amereil'uſato ſuo avvedimento in LUCIANO, il quale ſcioccamente ſe'l crede, e
va fantaſticando, ciò eſſer potu to avvenire da vapori del vino, i quali
trameſtati all'aria Paveſſero purgata, e dilibera da gli aliti peſtilenzioſi,
che l'infcrtavano.Madominc ſe coteſte peſtilenze non manca rono, fe no ſe dopo
lungo ſterminio,c mortalità delle genti, allorchc ſtanco rimafeli il male; perchè
dovrem noi dire eller BIBLIOTICA NA effer ciò avvenuto per opera de’vani, e
poco giovevoli ar gomenti, e non più toſto per isfogamento, c periſtracce del
malore? Cosi certamento è da giudicare, che gliaſtuti, e molto ſcalteriti
giuntatori conofcendo il male effer già nel calo, e nel menomamento,per
procacciarſi loda, e pre gio immmortale vezzatamente v'aveſſero poſto
conſiglio; acciocchè poi l'opera delſalvamento foſſe più coſto a loro, che alla
natura del male attribuita. Artificio,che tutto dì ſi ſperimenta ne'Medici
ancora de’noſtri tempi. Ma in qual to ad Eſculapio ben può egli rimanerſene có
quella gloria, che per eſſer egliſtato il primo Maeſtro del mondo in civar
déti,glivien ragionevolméteattribuita dal romano Orato re, quádo che
diceÆfculapius: primus dentis evulfionem in venit:concioffiecoſachè le cure per
lui fatte sì rare,e si ma raviglioſe elle ci vengano in tante, e si diverſe
guiſe nar rate, ch'elle come avvisò ſaggiamente Seſto Empirico ſon per ciò da
dire del tutto favoloſe, wwóJeon gas éautois yolañ λαμβάνοντες οι ιπεικοί ή
ορχηγών ημών και επιςήμης Ασκληπιον κεκε » egυνώ.θα λέγεσιν εκ νεκέμνοι τω
ψύσματι, ενώ και ποικίλως αυτό μεG anárixa. Narra Steficoro effer Eſculapio
alla ſua maggior gloria formontato per aver riſuſcitati co'fuoj inedicamenti
alquanti di coloro ch'in Tebe crano trapaſſati; ma Polian to dice ellerli
Eſculapio refo ragguardevole per eſsere ſta ti di ſua mano riſanati alquanti
per iſdegno di Giunone impazzati. E Parraſio racconta eſser fui ſopra tutto
ſtato commendato peraver da morte ricolto Tindaro. E Maſta filo vuole, chcil
ſuo maggior pregio foſſe ſtato ľaver ri congiunto, e riſuſcitato Ippolito
ſquarciato in cento brini da fpaurati corſieri.Ma Filarco rapporta tutto il ſuo
buon nome, e onore dalla viſta ritornata a figliaoli di Fineo aver avuto
dirivo. E Teleffarco finalmentcrafferma efser lui ag giunto infra '
Dij,perciocchè tentato aveva di riſuſcitar da morte Driσne. ΣτησίχορG» μεν εν
Εριφύλη ειπων, όπ πινας των επι Θήβαις πεσόντων και ανισά. ΠολύανθG-δε ο
Κυρηναίς, εν τω πρί των Ασκληπιαδών γενέσεως. ότι τάς Προύσε θυγατέρας κατα
χόλον Ηράς εμ μανάς γενομένας ιάσατο.Παρράσιο- δε, δια το νεκρόν Τυνδάρεω ανα ·
τηςαι.Σλάφυλφ δε εν τω περί Αρκάδων, όπ Ιππόλνιου έτράπευσε φέ EMANUEL BLI UBIO
EMANUE BOMA govca 22 Ragionamento Primo 1 γονία εκ Τροιζήνα- και καλα τις
παραδεδομένας κατ' αυ78 ° έν τοϊς τραγωδε μένος φήμες. ΦύλαρχG- δε, εν τη
εννάτη για το της Φινέως υους των φλωθένας απκαςήσαι χαριζόμενον αυτών τη μηρή
Κλεοπάτρα τη Ερεχθέως. Τελέσαρχος δε και εν τω Αργολικώ, και ότι Ωρίωνα
επεβαλέτο avasãows, Ma quali artificj e' non tcntò per eſser tenuto di ligente,
e ſcorto nel medicare ancora che ſchifi, e abbomi nevoli fuſſero? Egli volle (liçome
narra Cclio Rodigino, c venne in ciò Eſculapio da Ippocrate imitato sallaggiar
fin le feccie degl'inferni, coinc ſe ciò necellario ancor foſse a rintraciar le
cagioni delle malattie, perchè poi da Ariſtos fane nel Pluto proverbioſamente
oxaloDeéy @ ne fu chiama to, e Noipiù acconciamente potremmo à lui dire col no
ftro Azzio Sincero. Efe idem poteris Merdicus, &Medicus; Ma ſopra tutto
giovaron lommámente ad E/culapio gl’in dovinelli, le malie,gli oracoli, i
ſacrificj, gli agurj, e altre,e altre molte ſorti di ſuperſtizioni, e d'altre
fraſche,e giunte rie, ch'egliuſava; ficcando carote alla ſciocca gentane, c
tenendo in sù la gruccia con ſuoi cicalamenti gl'infermi. Cola la quale ſi
coſtumava allora da chiunque voleva con qualche lode eſſercitar la medicina. E
per tacer di Medea, c d'altri molti, Melampo con sì fatti artificj, e
fanfaluche, oltre alla fama grande, che gliene ſeguì, di povero conta dino,
ch'egli era, inſieme con ſuo fratello divennero ric chiſſimi Principi, e
ſovrani Signori delle due parti delRe gnodiPreto, e mariti delle figliuole di
lui da sè riſanaten, le quali chiamavanſi per quel che ne dica Apollodoro, Li
ſippe, e lfianaſſa; ma ſecondo Eliano Elea, e Celene; e che o per lo troppo uſo
del vino, o per opera della Reina di Cipri impazzare andavan paſcendo
brancoloni, e muge ghiando coinc vacche per le valli della Morea, e d'altri
paeſi intieme con lor ſorella Ifinoc, la qual prima di eſser medicata ſe ne
morì: delle quali narra VIRGILIO nella Bucolica. “Pretides impleruntfalfis
mugitibus agros; At non tamturpes pecudum tamen ulla fecuta eft Concubitus;
quamvis collo timuiffe: aratrum, Et fæpè in levi quæfiffet cornuafronte.” E che
per opera di Melampo poi poſeſi conſiglio al lor fu rore,e furono ricoverate a
ſanità coll'elleboro nero, come vuol Dioscoride; avvegnachè Galien giudichi, e
con più falda ragione,eſsere ſtatolelleboro bianco,che ciò opera to aveſse. Il
qualmedicamento apparò in prima Melampo dalle pecore,come vuol Teofraſto, o più
toſto dalle capre, ch'e'guardava,come scrive PLINIO; le qualicon paſcer l'el
leboro ſi purgavano. Comechè alcuni portinoopinione eſser da Melampo
l'impazzate donzelle guarite non già coll’elleboro, ma con latte di capre
paſciute in prima di quello; e altripur vogliano eſser non già quel Melampo
caprajo, che loro il ſenno ricoverato aveſse; ma un'altro Melampo detto
l'indovino: E Polianto ciò ad Eſculapio attribuiſce, ſicome narra Seſto
Empirico, ed Eudoilo appo Stefano antichiſſimo Geografo: Ma che che ſia di ciò,
non è da dubitare, che Melampo dopo lunghe cerimo nie, e facrifici,e
ſuperſtizioni volle, che imprima le impaz zate Donzelle fi lavaſſero in quella
famoſa fonte d'Arca dia chiamata Clitorio; perciocchè in memoria di ciò vi ſi
leggevano in un marmo que' belliſſimiverfi rapportati da Iſogono antichiſſimo
Scrittore dell'acque. Αγρότα συν ποίμνεις το μεσημβρινόν ήν σε βαρύνη Δύψος αν
εσχατιας κλείτορG- ερχόμενον, Της μέν από κρήνης αρύσαι πόμα, και παρα νύμφαις
Υδριάσι σήσον παν το σόν αιπόλιον. Αλα συ μήτ' επί λετρα Gάλης κρόα μη σε και
αύρη Πημένη θερμής εντός εάνια μέθης. Φεύγε δ' εμην πηγήν μισάμπελον ενθου
μελάμπες ΛεσαμενΘ- λύασης ποιτίδας αργαλίης Távla xabaqueor fxoļev daóx gupov
súr’ ár át' deyes συρεα τρηχείης ήλυθεν αρχαδίης.. Perchè poi ſurfe conteſa
infra gli Scrittori di giudicar di verſamente quella cura: e altri dicono
eſſere ftato il ſacri ficio ſolamente, e'l bagno: altri l'elleboro; ma
certamenre per quel che per noiavviſar fi poffa, egli ſi pare, ch'amena due i
medicamenti vi fuffer da Melampo adoperati; perchè Pittagora così dice appreffo
Ovidio:. Clitorio quicumquefitim de fontelevarit; Vina fugit:
gaudetquemerisabſtemius undis, Seavis eft in aqua calido contraria vine: Sive,
quod indigena memorant, Amithaone natus, Prætidas attonitas poftquam per carmen,
&herbas Eripuit furijs;purgamina mentis in illas Mifit aquas; odiumquemeri
permanfitin undis. Al qual coſtuine avendo per avventura riguardo l'Omero
Ferrareſe volleche Aſtolfo faceſſe lavar più volte in mare il ſuo forſennato
Orlando pria che gli da se bere il licores avuto in Ciclo per guarirlo: 1.0 fà
lavare Aſtolfo ſette volte, E ſette volte ſott'acqua l'attuffa Si che dal viſo,
e da le membra folte Lava la brutta ruggine, e la muffa. Ma non ſi contentava
già disì fatti artificj ſoli Melampo, ma a render più ragguardevoli,e famoſe le
ſue cure ſi van tava anche come ſcorgerſi puote in Sinelio 14 di ſapere in
terpetrare i ſogni, e ſi valca oltre a ciò degli augurj, e da va ad intendere a
tutti che gli aveſſe Apollo inſegnata l'ar te dell'indovinare, e che avendoſi
egli allevate in caſa al quáte bilce, quelle poi dormendoſi egli nel più alto
filézio della notte gli haveſſero leccare l'orecchie, ond'egli ſubita mére p
paura deſtatoſi havelle inteſo preſlo all'alba chiara mente i linguaggi tutti
degli uccelli, os, parlando di Melāpo dice Apollodoro, επί των χωρίων διατελών,ε'σης
πτό τε οικήσεως αυτού δρυός,έν και φωλεος όφεων υπήρχεν αποκλεινανίων των
θεραπόντων τους όφας,τα μη ερπετα ξύλα συμφορήσαςέκαυσε τους και τ όφεων
νερατους έθρε. ψενοι δε γενόμμoι τέλιου σειράντες αυτώ κοιμωμδύω τώμων εξ
εκατέρω: ma's exca's Txis gaca sesi exclougor. o de avasara moi gerópfu were
δεης των υπερπτπρίων ορνέων τις φωνας συνία. και παρ' εκείνων μανθεί vwv, niuna
arte dunque gianmaiebbe, per quanto lo mi creda, tanto commercio colle menzogne,
e colle frodi, e colle ſuperſtizioni, quanto il meſtier della medicina. La qual
cola così manifeſta ſi pare a chiunque ſia di quella mezzanamente inteſo, che
non abbiſogna al preſente, ch'io 14 lib.3. di vantaggio mi v'affacichi. Non
però di meno non laſce? rò d'accennare le ſtrane, e ridevoli cerimonie,
ch'adopera vano gli antichi in raccorre le piáte, acciocchè poi più ma
raviglioſi, eragguardevoli dalla ſcimunita gente giudicati foſſero i lor
medicamenti. Non poteaſi la Peonia coglier di giorno; perciocchè dubitavano non
v'aveſſero a perder di preſente la viſta,ſe da qualche ghiandaja vi foſsero in
colti. Colui, che cavar voleva la Mandragola, conveniva, che ben ſi guardaſse
dal verto contrario: e prima dicavar la formavale con un coltello incorno tre
cerchi: e in divel lendola poi tener ſi voleva la faccia volta verſo Occiden te:
e mentre divellcvaſi faceva di meitieri, ch’un'altro le andaſse intorno
faltando, e ſghignazzando, e dicendo non foquali parole ſconce, e laſcive, come
racconta Teofraſto con quette parole. Περιγράφειν δε και τον μανδραγόρgν εις
τάς ξίφα: τέμνειν δε πεός εσπέραν βλέπονται τον δε έτερον κύκλω περιορ -
χεΐσθαι, και λέγειν ώς πλείσα πτρια φροδισίων τέτο δεόμοιον έoικε των περί τξ
κυμίνε λεγομλύω κατι την βλασφημίαν όταν σπείρεσ. Le Quali poida PLINIO nel ſuo
volgar cavate non fur così intiera mente rapportate. Cavent, dice egli,
effofuri contrariun ventum, & tribus circulis ante gladio
circumfcribunt:poftea fodiunt ad Occaſum ſpectantes. Mach afsai maggiori
cerimonie cavavaſi preſso gli anti chi la Baara, la qual vogliono aicuni, che
altro certamente non foſse, che la Mandragola medeſima. Eglino in prima le
gittavan ſopra del ſangue metruo, o dell'urina delles donne, quindi cavandole
intorno alla barba la terra liga vanla cautamente dietro un cane; il qual poi
chiamato dal padrone in correndo la ſtrappava di terra, e di preſente ne
moriya. Cosìda Giuſeppe Ebreo vien narrato a dágay γος δε και κατά την άρκτου
περιεχέσης την πόλιν βαάρας ονομάζεται τόπος φία σε ρίζαν ομωνύμως λεγομένην
αυτώ αύτη φλογί μεν την χροιαν έoικε, περί δε τοις εσπέρας σέλας απασρέπτεσα
τους δε επιεσε και βε λομένοις λαβείν αυτήν εκ έσιν ευχείρώτος αλ' υποφεύγει
και επόπρον ί' Edi quell'altro delmedeſimo Ariſtotile, che il tralaſciar da
parte i ſenfi per laſciarne cie camente alla ragione guidare, d'aſſai debolezza
d'ingegno ar gomento ſia? O forſe non fu egli del medelimo ſentimento anche
Galieno? ecco le ſue parole: coloro tutti da giudicar fono, anzi forſennati,
che ſavj, i qaali potendo le coſe pie namente comprendere, ed apparar da'
ſenſi, voglion pures che da apprender fieno dalle ſoledimoſtrazioni. Ealtrove
il medeſimo autore: è dottrina da tiranno, e piena di confu fioni, e di contefe
quella di coloro, che ſolamente agli altrui detti s'appoggiano. E di grazia leggan
pure una volta il me deſimo fentiinento nel loro Avicenna; e ſe non altro, va
dano, e sì l'apparino dal Principe de' Teologi, Giovanni Scoto, ove dice, che
tutti coloro, che'a' ſenſinon voglio no dar fede, degni giuſtamente ſieno delle
fiamme. E ſappiano di vantaggio, che chiunque abbia qualche ſcintilluz za di
ragione, diqualunquc Serta egli ſi ſia, debba pure con quel gran lume della
Galienica, e dell'Ippocritica medicina Niccolò Leoniceno dire: non debemus
profecto de Situere ita nosmet ipfos, ut aliorumfemper veſtigia fequentes,
nihil ita per nosmet ipfos decernamus. Hoc enim verè effet alienis oculis
videre, alienis auribus audire, alienis naribus odorare, aliena ſapere
intelligentia: ac nibil nos aliud quam lapides effe ftatuere, fi omnia
alienisaffertionibus committe remus, nihilque à nobis ipfis diſcutiendum
putaremus. E queſta pertinacia medeſima un'altro parzial di Galieno oltremodo
tacciādo,prende a narrare un piacevoliſ fimo avvenimento; cioè, che un pubblico
lettore uſato lun, go tempo, ed invecchiato in ſu'libri d’ARISTOTELE, abbatté.
doſi per avventura un giorno in una notomia, e veggendo manifeſtamente la vena
cava dalle innumerabili fila, ora dici, chę ſon nel fegato la ſua originç
trarre, tutto ingom, bro, e pien di maraviglia, Come chi mai avf4 incredibil
vide, confeſsò, che nel vero per quel, che gliene moſtraffero i fenfi la vena
cava diramar dovelle dal fegato; ma non per ciò egli credédo a' fenfi
contraddir doveffe al ſuo maeſtro Ariſtotile, il quale tutte le vene nell'huomo
aver principio dal cuore, coitantemente afferma; perocchè,diceva egli, più
agevole allai eſſere, i noſtri ſenſi talvolta ingannarſi, che il grande, e
fourano ARISTOTELE in errore alcuno giammai eſſere caduto. E più avanti cbbe di
male la ſua oſtinazio ne,chę vegnendo per alcun diinoftro in brigata d'huomi ni
letterari,eſſere intorno al cuore alquanta lugna, la qua le a ficvol lumicino
di candela liquefacevali, con tutto ciò per difender oſtinatamente il ſuo ARISTOTELE,
negante law medeſima coſa, osù pur dire, che quel dalui veduto non era miga
graſcio. Maaſai per certo piacevole egli ſi è ciò, che a tal pro poſito anche
narra il chiariſlimo Redi, che un ' profondo 1 1??30, Santoro. mac ro in iſcriteura peripatetica, perchè non
veniſſe egli coſtretto a confeſſar per vere le ſtelle, ed altre nuove core dal
gran Galilei in Cielo ravviſato, ricusò l'ajuto dell'oc chiale; e ch’un altro
più teſtereccio non volle mai degnar di vedere aprir da lui una di quelle
picciole rane, che per le polveroſe ſtrade in tempo diſtato ſpicciano, per non
eller altresì coſtretto a confeſſare, ch'elleno non s'ingene rino nello ſtante
dell'incorporamento della gocciola con 1.2 polvere. Maove Io ferbero di narrare
i piati, e le conteſe, che nella medicina del nobiliſſimo medico PROSPERO
MARZIANO IN ROMA s'accrebbero? il quale di non volgare dot trina, e di faggio
avvedimento fornito, quanto avea dita lento, ed'induſtria, tutto glorioſamente
in iſpicgare la doc trina d'Ippocrate impiegando, diè manifeſtamente a vede re,
che allai ſovente Galieno,o non aveſſe compreſo,o non avelle comprender voluto
il vero ſentimento di quelgran vecchio. E ciò anche Pier Castelli narrando
dice, che Ga lieno così parimente foſseſi adoperato in iſpicgar del divi no
Platone i dottilimi ſentimenti: Galenus, vel non intel. kexit, vel intelligere
noluit Hippocratem, & Platonem, ut ſua extarent. Quindida'rimproveri, e
da’mordimenti dilui difende il laviffimo vecchio, ſpezialmente intorno alle c.2
gioni delle febbri, coſtantemente affermando, non ſola mente Ippocrate non
avere a ' febbricitanti giammai pre ſcritto il lalaro, ſe non ſe ove caſo di
grande infiammagio ne d'entro richieſto l'avelse: il che già prima di lui
pienamente CARDANO avviſato avea; anzi per ſentimé to d'Ippocrate vudl, che la
febbre una di quelle cagioni ſia, che il ſegrare affatto abborriſcono. E queſte,
ed altre buone dottrine il valent:huomo di MARZIANO faggiamente manifcftando,
ravvivò con eſle la caduta, c quali eftinta ferta del ſuo caro Ippocrate. Ma
non ſolo come fin ora abbia dimenticato una dona na, la qual comechè tale, pur
merita d'eſsere in iſchiera de' più nobili letterati annoverata. Io dico la
Signoras D. Oliva Sabuco: Coſtei gl'ingegnifemminili, egli uſi Tutti Sprezzo
fin da l'etade acerba: A’ lavori d'Aracne, a l'ago, a' fufi Inchinar non degnò
la manſuperba: Ed eſsendo ella di valore, c d'ingegno più che maſchile
abbondevolmente fornita, animoſamente fi iniſe col cere vello, e con l'animo ad
inveſtigar le coſe naturali; e più ol tre avanzandoſi, ed in biſogne di maggior
utile, e prò la mente rivolgendo, acciocchè le Spagne, e'l mondo tutto qualche
concio ne traeſsero, ad un nuovo, ed ingegnoſif fimo diviſo dimedicina diè
maraviglioſamente principio. Ella così all’Auguſtiſſimo Monarca Filippo II d'e
terna,e glorioſa memoria in una lettera ſcrivédo,iſuoi pre gi manifeſta.
Reſulta muy clara y evidenteměte, como reſul ta la luz del Sol, eſtar errada la
medicina antigua que ſe lee yeſtudia en ſus fundamentos principales, por no
aver enten dido ni alcançado los Filofofos antiguos y Medicos, ſu natu raleza
propria, dondeſe funday tiene ſu origen la Medicina. Delo qual no ſolamente
losſabios y Chriſtianos Medicospue den ſer juezes, pero aun tambien los de alto
juyzio de otras facultades, y qualquier hombre abil yde buen juyzio. E quin di
poco appreffo: y el que no la entendiere ni cumprehendie re, dexela para los
orros y para los venideros, o crea a law eſperiencia, y no a ella, pues mi
pericion es juſta, queſeprue ve efta miſecta un año,pueshan provadola medicina
de Hippocrates y Galeno dos mil años, y enella han hallado tan poco effecto y
fines tan inciertos, comoſe vee claro cada dia, y so vido enelgran
catarrotavardete, viruelas, y en peftes paf Sadas, y otras muchas enfermedades
donde no tiene effetto alguno, pues de mil no viven tres todo el curso de la
vida basta la muerte natural: y todos los demas mueren muerte violenta de
enfermedad, fin aprovechar nada su medicina antigua. E nel dialogo della vera
medicina: No me podreys negar, señor Doctor, que la medicina escrita que ufays
eſta incierta, varia y falta y que ju fin, y efeto fale incierto, falfu y
dudoſo, como vemos claramente ellasde m34s artes iener füis 1 1 fines y
efetosciertos, y verdaderos fin variacion, ni engažo, comola Aritmetica,
Geometria, Musica, Astrologia, y las de mas, que a quel fin, y bien que
prometen, lo cumplen, y fale cierto ſiempre y verdadero. Todo lo qualbien vers
que falta en la medicina,pues eſta tanengañoſa, incierta; yva ria:luego claro
eſta que eſta arte tiene algunafalta en las raga zes, y fundamentos,pues no
echa el fruto, conforme a lo quc promete, que muchas vezes esperamos lindas
māçanas echa eſcaramujos agallas y niſpolas:lo qual al buen juyzio pondra en
duda, y dira por ventura, Eſte aunquepaſtor trae, razon, que los antiguos
tambien fucron ombres como eſte. E più ſotto ſeguendoil medeſimo ſentimento
ſoggiunge: No nze podeys negar,Señor Doctor, la incoſtancia, y quantas ve zes
fuemudada la medicina, y que eſtuvo vedadamucho tič po en Roma, y que muchos
ſabios mo le han dado credito, ni ſe han querido curar con medico por las
cauſas que tengo dichas, que ſon degran eficacia. Ylos Sarracenos, y los del Reyno
de la China, no admiten inedicos, j' ay mas gente que en Eſpaña. Y eſosmiſmos
autores antiguos, graves le ponen gran dificultad, diziendo, que la vida
esbreve, y el arte es largo, el juyzio difficultoſo, la eſperiencia engañoſa,
& c. I dixo Hippocrates: que perfecta yacabada certinidad de la medicina no
ſe alcanca, y no me podeys negar, Señor Do Etor que fueron hombres, cimo
noſotros: y que ſus dichos, no forçaron a la naturaleza del hombre, a que ella
fueffe lo quc ellos dezian, que ella ſe quedo en lo queera, y ſu dicho no la
mudo, y pudieron errar como hombres,pues tantas vezes fue frrada y mudada, como
lo podeys veren Plinio, donde dize que ninguna de las artes fuemasincuſtante,y
mudable, que la medicina: y que cada dia ſe mude. Più oltre crapaffala signora
D. Oliva, i cui fourani pre gi nou è mio diviſo al preſente raccorre, ed
annoverare, che troppo a lungo ne verrei. E baſterammi accennar ſo lamente
molte coſe averſi alcuni de'più rinomati autori in veſtite, inillantando
falſamente, ſe eſſere ſtati i primi a mani feſtarle, come intorno all'ordimento,
che tien la natura in compartire alle parti de'corpi animati il nutriinento,
che H cla 58 ellämolto avanti ravvitate appieno, e glorioſamente già paleſate
ne'luoi libri l'avea. Surſe dopo coſtei nella noſtra Italia un novello Siſtema
di razional medicina, e fu gentil trovato diquel celebre filoſofante, e maeſtro
in divinità CAMPANELLA. Non miſe egli già le mani all' opere della medicina: ma
pure ſpiar volle di quella i più ripoſti arcani; e comeage vol fu al ſuo
pellegrino intendimento lo ſceverar la ſua fi loſofia dalla volgare, che nelle
ſcuole comunemente inſe gnavafi, così potè ancheordinar con belle dottrine
un'al tro trovato dirazional medicina, e quindi ancor ne ſegui rono molti, e
varj rimeſcolamenti, e conteſe nell'arte. Ma i ſegni, e le coſtoro mete, o
quanto trapaſsò gene roſo a’giorni noſtri il grand'Ermete della balla Germania,
Elmonte, che con più alti apparecchi, e colla mente di più nobili arredi
fornitas tentò Ia grand'im preſa, onde vie più s'accrebboro i contraſti, e le
miſchie. Coſtui a ſingolar acutezza d'ingegno, cãdidezza accoppia do di non
volgari coſtumi, rivolto curioſamente alla Spa girica, intorno allo
ſcioglimento de’naturali corpi tutto dieſſi, e ne a fatica,ne a ſpeſe giammai
perdonando, tant'ol. tre avanzoſi, che laſciandoli dietro l'orme glorioſe dal
Pa racelſo ſegnate s nórimai ſi riſtette', fino a tanto, che ull maraviglioſo,
e non più udito liſtema di razional medicina egli giunſe felicemente a formare.
E a qucſta medeſima guiſa veduto abbiamo a ' di noſtri per lo ſentiero
dell'immortalità, e della gloria avviarſi a gran paſſi co'l ſuo novello ſiſtema
di razional medicina il celebre Tomaſſo Vilfis; ne di leggieripuò crederſi, qua
to egli con ogni ſtudio maggiore proccuraffe d'ammannar tutto ciò, ch'avvisò
dovergli farluogo a sì nobil lavoro: e con qnale sforzo, con qnai ſudori, con
quali vigilie egli s'adoperaſe per condurlo allo intero ſuo compimento. Ma non
vi durarono minor fatica", ne minore induſtria adope rarono per
fomigliante impreſa, e’l Silvio, celebre per lo innumerabile drappellode Fuoi
ſeguacije'l Gliffonio,e l'El vezio, e'l Meſfonieri; e'l Travaginis, ed altri
illuſtri l'ette rati rati dell'età noftra, a molti de'quali, che che ſtata ne
forte la cagione, non è venuto fatto di poter mettere fuorii loro concetti.
Taccio al preſente di que'valent' huomini, che tuttavia ſudano all'opera, e
colla ſcorta de’moderni trova ti della notomia, e della moderna filoſofia
naturale, ſpera no, quando che ſia divenire a capo de’lor generoſi diſegna
menti dietro a yarj ſiſtemi di razional medicina. E taccio altresì di coloro,
che ſottilmente van tutto di diviſando (i ſtemi di ſperimentale, e di metodica
medicina, ma dall'an tica gran fatto varia, ediſcordante, Ma o quantoperciò più
le têzoni de Medicine ſiano acceſe con porre ſottoſo pra, ed avviluppar la
medicina tutta, non fa meſtierial preſente narrare, ſe tutto dì co’propj occhj
apertamente il veggiamo. Perchè ſe a'dì noftri l'eloquentiſſimo PLINIO vi vo
fosse, griderebbe dicerto più che mai con quelle ſue adirate parole: mutatur
ars quotidie toties intarpollis, & in geniorum flatu impellimur, non già di
que’della Grecia ora Icioperata, e incodardita ſotto'l giogo della barbarie; ma
di que'celebratiſſimi dell'Inghilterra, e d'altre Provincie, da lui ne’tempi
ſuoi barbare giudicate, Malo ormai giunto mi veggioal più copioſo ſtormo de
medici,in tante ſchiere, e tazioni partita, e quaſi ſtraccia ta veggendo la
medicina, che ormai per ingegno umanono fi può più avanti partire. F ſon
coſtoro que'cutti,che nondi Greco, o DI LATINO, o di Barbaro, o d'altro ſtrano
ſcrittone, modernoso anticoch’e'ſiaſi,ſeguirvogliono la peſta,ed a gli altrui
ſentimenti ſempre ligarſi; ma liberi affatto, e ſciolti gir con iſpedito voloi
valtiſſimi Regni della natura fcorré do; quindi cozzando contro i più duri, cd
oftinati malori con quell'armi, ch'a coſto delle propie fatiche s'acquiſta rono,nonpreſe,
o tolte da gli arſenali altrui, ed alla cic ca adoperate, fanno con glorioſe
impreſe render eterni, e illuſtri i lor nomi. Così nulla altrui credendo, ſalvo
ſelor non venga da propj ſenſi, o da certiſſima ſperienza appro vato,
tutcoyogliono ſpiare, a tutto penetrare, e tutto ſot tilmente con occhio
curioſo eſaminare;ne per iſmaltire hā no altre ragioni, che quelle ſolamente,ch'all'avvedutezza
H 2 del 80 Ragionamento Primo delloro intendimento confannoſi. Ed eſſendo a
tutte ſet te contrari, e a niun de'ſertegiantiaffatto nimici, giurano che in
queſta guiſa,più che altri oftinataméte fi faccia, l'or me d'Ippocrate, e di
Galieno vengano ſopratutto a ſegui tare. E perciocchèlo giudico, che aſſai
monti al noſtro intendimento il vedere, ſe una tal libertà, debba loro eſa fere
permeſfa: priegovi o Signori, poichè a baſtanza par mi d'aver ragionato, nella
vegnenteaſsemblea ad udir loro ragioni. RA EBBO per ſoddisfare all'obbligazion
del la mia promeſsa diviſarvi oggi,o Signori, le ragioni di quei filoſofanti,
che alla li bertà de'loro ingegni alcun freno di fer vitù generoſamente
ſdegnando, voglion gir liberi a lor talento fpaziando pe' vaſti, e ſiniſurati
campi della Natura. Ma conciosſiecofachè el le fien molte, e molte, e tutte di
gran lieva,io non ſo qual prima mi debba dire, quafdopo; ſenzachè a me non fu
conceſſa in ſorte larga vena diben parfare, perchè con purgato ſtile
ſpianandole (e quale alla lor dignità per av ventura ſi converrebbe) la for
ſaldezza, e valore veniffer per voi più chiaramente compreſi. Ma forſe hanno
elle an cora ciòdi vantaggio, che rôzzamente accennatc poffano, e pregio, e
commendazione non ordinaria da voi merite volmente ricevere. E per venirne
omaia capo, parmi che alcuno autor di quelle a queſta guiſa d'eſſo loro
parlamen, tando potrebbe imprenderne il filo. Egli non alzò certamente natura
con ſingolar vantaggio fovra tutt'altri animali all'huomo inverlo il Ciclo la
fronte; di sì 68 Ragionamento Secondo di sì generoſi, e ſublimi, e liberi
ſpiriti abbondantemente fregiandolo, perchè egli poi qual paluſtre mergo, raden
do lempre maiil ſuolo, non avelle ardimento di battere generoſamente in alto le
penne, per potere da ſe medeſi mo ſpiare, e inveſtigare quelle si varie, e sì
ſtrane apparen ze, onde bello ſi rende, ed ammirabile l’Vniverlo; ma acciocchè
largamente per tutto ſpaziandoli, il tutto e'cer chi, il tutto e'ravviſi,il
tutto e' pienamente comprenda, non già nelle copie incerte, e ragionevolmente
d'error ſo ſpette, manel primo, c vero loro originale. Così quell' Aquila de Greci
filosofanti glorioſamente adoperando, con felice., e ſpeditiffimo volo
Proceſſit longè flammantia mænia mundi, Atque omneimmenfum peragravit mente,animoque.
E pure ad onta d'una sì provveduta madre, v'hà chi a dáni, ed a rovina diſe, e
de gli altri Segnò le mete, e'n troppo brevi chioſtri L'ardir riſtrinfe de
l'ingegno umano, facendo sì, che i troppo creduli, e ſciocchi poſteri ad altro
non badaffero, ch'a leggere, c rileggere, e tutto dì di chio ſe, e di coinenti
gli arzigogolise le fanfaiuche d'un mondo tutto fantaſtico caricare. Quicfto
non volle già,che faceſſe in modo alcuno il giovinetto Lidia, quel gran maeſtro
della greca filoſofia Antiltene: quando di nuovo libro, di nuoyo ſtile,
ditavolette nuove a doverſi fornir gl’impoſe ', fe filoſofar con ello lui
voleſſe; e ciò, perchè egli compré deſfe, che le coſe,che per lui, da regiſtrar
foſfero, eſfer quelle non doveano, che già da altrui ſcritte in prima, diviſate
ſi erano.. Eciò anche molto innanzi ad Antiſtene inſegnò quell'antichiſſimo
Savio, che primadi tutt'altri, Filoſofia chiamò con nome degno, quando a '
luoiſcolari diceva, non doverſi da loro nella, popolare ſtradaconfuſamente co'l
volgo ignorante cammi nare. Equeſta libertà nelle ſcienze ciaſcun'altro de più
ce lebri, e rinominaci filoſofi comunemente ancor richieſe: c da più illufri
medici, e per valor d'ingegno, e per opera di mano eccel'éti faclia Grecia
futta oltre modo abbracciata. La cui altezza d'animo ſaggiamente imitar volle
il famoſiſſimo medico, e filoſofo Claudio Galieno, ficome in più luoghi ne da
pienamente teſtimoniāza nelle ſue ope re, o quand'egli oltremodo uccella, e
berteggia i tenacif ſimi ſeguaci d'Eraſiſtrato,i quali a' detti di lui, come
agli oracoli d'Iddio riverenti s'acchetano,faldiſſime, ed infalli bili verità,
ſempre mai giudicandole, o quando coſtante mente afferma eſſer egli d'ingegno
rintuzzato affatto, ed abbattuto lo farſene ſcioccamente a’derti, ed alle
ſenten ze, cd a'giudicj altrui, non volendo coſa alcuna bilancia re, ne punto a
lor paſſare innanzi: o quando altrove iſtan cemente priega, e ſcongiura i
parteggianti tutti a por giù la ſcabbia, e'l furore, e la ſtolta follia delle
ſette: 0 quin do adiratamente grida effer dura, e malagevole impreſa a ridur
coloro alla ſtradadella verità, i quali già ſotto il ſera vilgingo di qualche
ſchiera ſottomeſſi fi fieno. Quindi la ra gion recandone ſaggiamente ſoggiugne,
che le falſe opinio niingombrando gli animidegli buomini, non folamente fordi,
ma ciechi ancora renderglifogliano, intanto che ſcorger affat to non posſano
ciò, che altri di neceſſità rimira. O quando altrove proteſta, eſſer egli un
male da non potere in verű modo guarire,la folle, e ſciocchiffima caponeria di
cotali parreggianti; e di qualunque ſcabbia più dura affai, e ma ſagevole a
trarre: e che cotali uccellacci non che fappian, giammai nulla di buono, anzi
ne men d'appararlo ſi ſtudj no: o quando ſtizzoſamente ſclama, amarpiù toſto,
coloro, cfer della patria, che della propriafetta traditori, e rubelli. Et o
piaceſſe pure al Cielo, che coralidetti non ſi vedeſ fero a giornate
dall’oſtinatiffima pertinacia di coſtoro av verativolendo: più toſto
manifeſtamente uccidere i miſeri infermi, che ſpiccarſi punto
daʼnocevoliſentimenti de’loro amati Maeſtri. Ma perchè dobbiam mai ſempre noi
con follc oſtinazio ne laſciarci trarre afreverendiſlimo parer degli antichi?
for ſe non ſono ſtate lor molte coſe a grado, ch'a noi ſpiace voli ora ſono, ed
affatto nojofes Cosi la gente prima,chegià viſe Nel mundo ancoraſemplice, ed
infante Stimò dolce bevanda, e dolce cibo L'acqua, e le ghiande, ed orl'acqua,
ele ghiande Sono cibo, e bevanda d'animali, Or che s'è poſto in ufoilgrano, e
l'uva, O forſe alcuna coſa, ch'al lor cortiſlino intendimento vera parve, ora
falliſiima manifeftaméte p opera degli ingegnoſi moderninon ſi è ſcorta? Così
ſon veriſſiine prove de’mo derni notomiſti il ritrovato dell'aggiramento dei
ſangue, delle vene lattec, edel códotto del Virſungo,e del ſaccolat to, e
de'vali acquoſi, e degli uſi delle glādole, e d'altre par ti, e altri infinici
nuovitrovati,che crollano, c ſcovolgono,e da’fondamenti abbattono, cd atterrano
ogni razional ſi Atema d'antica medicina. O forſe farà egli colpa degli in
nocenti moderni l'effer' eglino nați dopo gli antichi auto rir ma ſe ciò è
fallo, e colpa, certamente commiſerla in prima coloro, i quali da' ſentimenti
de' loro più antichi maeſtri tralignando, e nuove ſchiere di filoſofia, c di
me, dicina anmutinando, ofarono in prima novelli ſcolari ri bellarc a'loro
antichi maeſtri, e darne nocevole cſemplo di si follo, e temerario ardiinento.
Imperciocchè ognianți co a'tempi ſuoi fu moderno; perchè figgiamente il Princi
pe CLAUDIO Ceſare apppreſſo TACITO ha a dire: quæ nunc vetuftifſima creduntur
nova fuere: inveterafcet feculum no firum, & quod hodie exemplis tuemur,
inter exempla erit, (1 ) cd a queita medeſima cagione avendo riguardo un mo
derno Poeta contro que', che per eller egli moderno biafi mavano il Paracelſo,
in ſomigliante guiſa conchiude, Qui nova damnatis, veteres damnetis oportet;
Aut iſta nihil eft in novitate novi Saran dunque acerbamente da vituperar
Platone, Antiſte nc, Eſchine, ed altrifamoſiſſimiingegni, i quali poſto in non
cale le vecchic ſcuole, che allora nella Grecia fioriva. no, a quella di
Socrate, che nuova era, per imprender fi loſofia coraggioſamente ſe'n girono?
anzi ne furon perciò foin (1 ) Etienne Paſquier. 05 sómamente da cómnendare. E nuove altresi
furono le ſcuole di Platone:e pure ARISTOTELE, e Senocrate,e Speuſippo,ed al
tri molti cotăto tépo v’uſarono; 11e alcuno ebbe perciò giá mai ardiméto alcuno
di biaſimargli. E dalla novella ſcuola nel ginnasio del lizio d'ARISTOTELE in
tanta gloria mótò Teofraſto per l'uſarvicon tinuo, che uguale, e forſe al
inaeſtro ſuperior ne divenne; perchè dal padredegli ſtoici filoſofanti Zenone,
funne poi grandemente lodato. E nuova anche fu la scuola di Zenga ne, e nuova
quella d'Ariſtippo, e quella di Fedone, equel. la di Euclide da Mogara. Così
anche fur nuove le ſcuole d'Eubolide, d'Epicuro, di Menedemo, d’Arcuila, e d'al
tri molti maeſtri di filoſofia, e pure per huoinini illuftri,ed egregj, alle
vecchie, e famoſe ſcuole degli antichi filoſofan ti furono antipoſte,
riportandone ſempre mai buon nome, e fama non ordinaria dicandidi, e veritieri
ſcrittori di que tempi. E perchè nó ſarà lecito anche a noi tralaſciando le
vecchie ſcuole ad una novella indirizzarci, e maſſimamen te in quelle coſe, ove
già i manifeftiffimi errori degli anti chi maeſtri abbiam compreſi? E forſe
ſarebbe a tanta altezza pervenuta la nobiliffima arte della pittura, ſe gli
antichi maeſtri paghi ſolamente della rozžillima imitazione del vecchio
Filocle, nö ſi foſſero ſtudiati di vantaggio con la loro induſtria di limarla:
e col tirar ſolamente le linee dell'ombre de'corpi aveſſero così alla groffa
ſchizzate ſempre le lor confuſe, e diſtinate figu re? O forſe fu egli troppo
ardimentoſa tracotanza dell'in gegnoſo Cleofante, odi Parrafio, o di Polignoto,
o di Zeuſi, o d'Aglaufone, o del vaghiſfimo Apelle il dar loro più vivi i
colori,e più regolati i diſegni,e più ſquiſite le om bre, onde poi vive, e
perfettiſlime riſaltando,n'aveffero,e gli augelli, e i deſtrieri, ei cani, ei
maeſtri medeſimidell arte glorioſamente ad ingannare? così anche i noſtri avan
zandoſi di mano in mano l'un l'altro a'tempi d’ALIGHIERI, Credette Cimabue ne
la pittura Tener lo campo, ed or ha Giotto il grido; Si cbe la fama di colui
ofcurawi I Quin 86 Ragionamento Secondo Quindi fu il famolo dipintor di Madonna
Laura Mae Itro Simone cotanto commendato dal Divino PETRARCA, ed altri
famoſiſſimi dipintori. Ma ſopratutti ſi tolſero il van to, ed al preſente
s'ammirano comemiracoli dell'arte l'o pere maraviglioſe di SANZIO, e di Tiziano,
e di quel grande Michel più che mortale Angel divino. Necertamente potrebbe la
Grecia gir ſuperba, e altiera della ſonora tromba del grand'Omero,del grave
coturno di Sofocle della ſublime lira di Pindaro, e de' ſouviſlimi verſi
d'Anacreonte, di Teocrito, e di tant'altri illuſtri, c nobili Poeti; o ROMA de'
ſuoi Lucrezj, de’ Virgilj, de’ Catulli, de' Properzj, de' Tibulli, degli Orazj.
Ne la Spagna ammirerebbe l'altiſſiino canto del Camoes, e le colte rime del
Garzilaflo. Ne goderebbe la Francia l'ornato ſtile del dottiſſimo Ronzardo, e
del Bert: ſſo. Ne il noſtro più,che tutt'altri, dolce,vago,e bello Idioma,
vātar potrebbe il divi no cato dell'incóparabile Torquato Taſſo,di Giovani
della Caſa, o la maraviglioſa evidenza dell'ARIOSTO, e dell'ALIGHIERI, o la
dolciſſima muſa del PETRARCA, del Bébo,dell’Ala māni, del TRISSINO, del Molza, del
Guidiccione, del TASSO Pa dre, del Guarini, di Galeazzo di Tarſia, edi altri,ed
altri nobili ſpiriti, che di valor colla ſuperba grecia gioſtrano,o pur la
vincono, ſe coſtoro tuttida'veſtigj de'rozzi antichi non aveſſero oſato
d'allontanarſi; il perchè faggiamente ebbe a dire Iſocrate:yeggiamo noi
l'arti,e tute'altre coſe eſſer van taggiate, e creſciute non già per coloro,
che le comunali, e uſitate ritennero, ma per coloro, che d'ammendarle, e torne
via glierrori, e migliorarle preſero ardimento: ta's επιδόσεις δρώμεν
γινομένας, και των τεχνών, και των άλλων απάντων, και δια της εμμένονάς τοϊς
καθεξώσιν, αλα δια τηςεπανορθένας, και τολμώνας «ί τι κινείν των μη καλώς
εχόντων. Ε fe cio fi vedea giornates anche in quelle arti avvenire, nelle quali
pare, che omai poco, o nulla fi poffa più oltre andare, e pure non vi ha altra
ſtrada d'avanzarli a maggior perfezione, che del mai ſempre nuove coſe
inveſtigare: perchè non ſi dourà an che ciò alla filoſofia, ed alla medicina
permettere? malli mamente, che il campo di eſſe è queſto si vafto, e grandif
ſimo teatro dell'univerſo, nel quale ad ore, ed a moinenti apparir tutto
dinuove, e nuove coſe fi veggiono, da te nervi i più ſublimi, e pellegrini
ingegni mai ſempre img piegati. Multa dies, variufque labor mutabilis ævi
Rettulit in melius; ſenzachè certiſlima coſa è, che'l mondo più ſempre mai col
tempo invecchiando,dinuovi, ed utili ritrovati per la noſtra ſperienza di mano
in mano i ſecoli arricchiſce. Così noi veramente ſiam da dirci vecchi, e gli
antichi, i quali nel vecchio mondo ſiam nati, e non que’tali, che nelmo do
infante, e giovane,men di noi ſperimentando conobbe ro. Anzi coloro, che per
innanzi naſceranno, più di noi ſaran vecchj, ed antichi, e conſeguentemente
d'eſſer più di noi dotti, e ſperimentati, e diquant'altri per l'addietro mai
furono, auran cagione. Ed a propoſito di ciò ſovven gonmi quelle belliſſime
parole del gran Baccone da Verolánio: de antiquitate autě(dice egliopinio,quam
homines de ipfa fovent,negligens omnino eft, ex vix verbo ipfi congrua: Níundi
enımſenium, & grandavitas pro antiquitate vere habendafunt;quæ temporibus
noftris tribui debent,non junio ri ætati mundi, qualis apud antiquos fuit. Illa
enim ætas re Spectu noftri antiqua, &major; reſpectu mundi ipfius,nova,
minor fuit.Atque revera quemadmodum majorem rerum humanarum notitiam, á
maturius judicium, ab homine fene expectamus, quam à juvene-propter
experientiam, & rerü, quas vidit, & audivit, & cogitavit,
varietatem, copia eodem modo, do à noftra etate (fi vires ſuas nuffet, &
expe riri, &intendere vellet)majora multo, quam à prifcis tem puribus
expectari par eft; utpote ætate mundi grundiore, infinitis experimentis, &
obſervationibus aucta, & cumulata. E in verità, chi ha mai tante, e si
diverſe maraviglie in Cielo, e in terra, e nell'acqua, e negli augelli, e
ne’peſci, e ne' bruci animali, e nelle piante ſcovrir potuto, dove turto di
attenti, ed intricati gli ingegni tutti de' più ſottili I 2 filoſofanti viſi
aminirano, ſe non ſe la noſtra età, cioè a dire il mondo vecchin, il quale ne
va nuove maraviglie di giornata in giornata rappreſentado; intanto, che ora
d'ogni tempo quafi n'è lecito a dire. quod optanti divum promittere nomo
Auderet, folvenda dies en attulit ultro. Oltre a ciò gli antichi ſavj, ſicome i
confini delle loro co trade appena s'argomentarono di paſſare, così altii ani
mali,altre piante,ed altri minerali fuori di quelle non iſpiar mai, ne
conobbero, e ſe ne rimaſero alla ſemplice relazio ne de'marinari, c d'altre
perſone idiote, e volgari, dalle quali ingannati,ne ſcriſſero poi tante
incredibili bugie. E chi potrebbe mai tener le rila in leggendo ciò, che Erodo
to favoleggiò dell'incenſo, dicendo, che gli Arabiil colga no profumando in
prima l'arbore con iſtorace: iinperocchè fra irami di quello s'appiattano folti
(tuoli di ſerpentelli coll'ali di variati colori: τον μέν γε λιβανωτον
συλλέγεστ, την σύeακα θυμιών της. E non guari apprefio,τα γαρ δένδρεα Gύτα του
λιβανωτοφόρ, όφιες υπόθεροι και μικροί τα μεγάθεα, ποικίλοι τα είδεα, Qurárrs01,
Trnýber mondo, me ei sér d por exasov. E del Laudano, affer: mò eſſer quello
odorifero, e dilettevole a fiutare, e pur na ſcere in luoghi puzzolenti, e
ſpiacevoli; e che ritrovaſi ſu le barbe de'becchi a guiſa di muffi, che naſce
da' legni pu tridi: έν γαρ δυσοδμοταίω γινόμενον,ευωδέ αλόν εσ • των γας αιγών
των τζάγων εν τοίπ πώγωσε ευρίσκεται έγινόμενον, οιται γλοιός από και o'rins.
Ma Rufo da Efeſo dice, alle barbe delle capre ap piccarſi il L.audano allor che
le frodi del Ciſto van ghiot tamente paſcendo Αλο δε πε κατι γαίαν έρέμβων
λήθανον εύροις Αιγών αμφί γένια • το γας καθύμιον αιξε Κισσε ανθήενθG-
επέδμεναι άκρα πίτηλα Τον δ' από λαχνήεν7G- ανεπλήσθησαν αλοιφής Λίγες υπαί
λασίασε γενίασε πλευρά τε πάνω. E forſe il medeſimo volle dire Erodoto. E
ſimilniente fi pare, che credeſſe Dioſcoride colà, ove ſcriſle parlando del
Ciſto: Imperocchè pafcédo le ſue frõde i becchi, e le capre lor fu la barba, e
ſu'l vello dell’anche s'appiaitriccia quella tenace graffezza, onde poi
pettinandola la raccolgono i Paſtori, e colata non altrimenti, che ſi faccia
del miele, e ne forman paſtelli, e la ripongono. Sonyi alcri, che tirando, e
sbattendo certe corde ſopra queſti arboſcelli raſchiano poi la graſſezza, chevi
s’appicca, c fannone paſtelli, e a quefta guifa la riferbano:τα φύλα γας αυτού
νεμόμεναι αι αίγες και οι τεάγοι ή λιπαρίαν αναλαμβάνει το πώγωνα γνωρίμως •
και τους μερούς πτοσπλαήoμένην δια το τυγχάνειν ιξώδη• ην αφαιρώντες ύλίζει,
και απο τίθενζι αναπλάοσοντες μαγίδας · ένιοι δε και χοινία επισύρεσι τοις θάμνοις,
και το πζοσπλασθεν αυτοίς λίπG- αποξύσαν τις αναπλάσει: Il medeſimo dir vollc
Plinio, ma in traslatido le parole di Dioſcoride poco bene peravventura
intendendo la parola Jauvois, e l'altra unigovor ſcriſſe: Sunt qui herbam in
Cypro, ex qua id fiat,ledam appellent: etenim illi ledanum vocant: hu jus
pingueinfidere:itaque attractis funiculis herbam eam con volvi, atqueita offas
fieri.Vidiede ancora inciera credenza Galieno, quando dice gevers auto del
laudano, favellan do ) κατά τα γένεια των τάγων έν πτ χωeίοις επιγίγνεώι: e
Paulo da Egina λάδανον από τον κίσε τού λάδανος λεγόμενον γίνεθαινεμόμεναι γαρ
αυ τον αι αίγες, εν τοίς πώγωσι, και τοϊς μηρούς αυτών και λιπαρώτε ρον, και
οπώδες πόας αφαιρούνι. Éd Eichio λάδανον το με απο των πωγώνων των αιγών, και
τάγων Ma à chi cgli non ſembrerà incredibile ciò ches del Malabatro narrano
Diofcoride, e PLINIO, pur troppo groſſi nell'informarſi, e nelcreder leggieri.
Eftima il pri mo naſcer quello nelle lacune a guila di lente paluſtre; e'l
ſecondo no’l fa punto diverſo dalle foglie del Nar do Indiano; e pur
ſappiamoeſſer foglia di ben grande, co ſpazioſo albore, non già paludoſo, ma
ſalvatico, emon tano. Io non farò menzione delle tante, e tante inyeriſi. mili
bugie, ch'cglino medefimi, e Teofraſto della cotanto celebrata (piganardi
inventarono. Ne mi fermcrò a ſpia nare i fallimenti di Dioſcoride colà ove
diffe, che le radici del gégiovo fié così picciole,come quelle del Cipero; è co
me ciò,che buccinavaſi appo gli antichi dell’ambra gialla moſtri anch'e' di
credere, cioè,che il liquor d'amendue i pioppi preſſo le rive del Po in
diſtillando da tali alberi fi rapprenda in ambra, ſeguendo in ciò la volgar
fama de'ma fonieri Poeti, i quali fan che l'ambra ſia il doloroſo umore, che
per gli occhj fuor verſarono le pie, e addolorate ſorel le, che dell'acerbo
caſo del lor Fetonte dogliendoſi furono in quegli alberi ſtranamente converſe,
onde poi Fluunt lacryme: ſtellataque fole rigefcunt De Ramis electra novis: qua
lucidus amnis Excipit, du nurubus mitiit geſianda larinis. Ma non men piacevoli
a udir ſono i falli del ſovraca cennato Erodoto dietro al raccoglimento della
caſſia, e del cinnamomo. Credette egli con altri antichi, e la lor creden za
gli Arabi, c molti de'noſtri follemente ſeguirono, que Ite effer due piante fra
eſſe lordifferenti; e vuol egli, che la callia naſca in una palude non guari
profonda,per entro, e d'intorno alla quale ſoggiornano alcune fierucole alate
fimili a' vipiſtrelli, che mandan fuori orribili ſtrida, e ſono di gran forza,
e vigore; ma gli Arabi per iſchermirli da' yelenoſi lor morſi, in cogliendola
ſi cuoprono il volto, e'l corpo tutto,da gli occhi in fuora,di cuoja,e d'altre
pelligec colefue parole: επταν καζδήσωνοι Βύρσησι δέρμασι άλoισι πάν το σώμα,
και το πόσωπον, πλην αυτών των οφθαλμών έρχονται επί την καασίην • η δε έν
λίμνη φύεται ου βαθέη, σιρι δε αυτήν, και εν αυτή αυ. λίζεται κού θηeία ερωτι,
της νυκτίρια ποστίκελα μάλιστα και και τί. SUYE δεινον και ες αλκήν άλκιμα • τα
δη απαμυνομένες από των ópfamutów. E quale aggiraméto di ſtrano cervello ſi
pare ciò, che leggeli rapportato da Teofraſto, che i rami della caſſia P cſfer
nervoſi non poffano ſcortecciarſi, ma tagliinſi in pic cioli pezzetti, i quali
ſicuciono dentro a’pclli di bovi pur mo ſcorticati, perchè i vermicelli, che
nel corromperſi del legno s'ingenerano,roſicchiádone la midolla, inutile laſcia
no la corteccia intera, mercè l'amarezza, e l'acrimonia del fuo odore, την δε
κασταν φασι τας μέν ραβδες παχυτέρας έχαν, ινώδης δε σφόδρα, και ουκ είναι
τριφλοίσα, χρήσιμον δε ταύτην τον φλοι δν· αν ουν τέμνωσε πως ραδες και
κατακόπαν ως διδακτυλα το μήκG-, ή μικρά μάζω ταύταδ' άς νεόδωρον βρείνον
καταρραΠεαν · ατ ' εκ ταύτης, και των ξύλον σκυμένων, σκουλήκια γίνεσθαι, από
μια ξύλον κατεσθίει • τα φλοιού δε ουχ απεπειι, δια την πικρότητας και
δριμύτητα 7ης οσμής, 1e O 1 1 quali parole cosìtraslatò PLINIO con l'uláta
eleganza:Con fecant furculos longitudinebinum cubitorum, mox præſuunt
recentibus coriis quadrupedum ob id interemptarum,ut ijs pu trefcentibus
vermiculi lignum erodunt, & excavent corticem tutum amaritudine. Ma che
direm noi delle lunghe dice rie del Cinnamomo appo Erodoto più incredibili
delle ciance del verace Turpino preſſo del Bojardo, e del l'Arioſto. Il
Cinnamomo, dice Erodoto che non ci fia manifeſto ove, e'n qual modo naſca, ſe
non che pro babilmente ſi crede ingenerarſi in que'paeli, ove Bacco fu
nutricato, e le feſtuchedi eſſo eſſer quindi da certi grandi uccellacci
traſportate in alcune ſcoſceſc, einacceſſibili mo. tagne per fabbricarvi
inidi,contro a’quali han gli Arabi ritrovato un ſottil modo: cglino tagliano in
pezzi, e con quidono le membra di boyi, d'aſini, e d'altri giumenti, e quelli
appreſan quanto è poſſibile a’nidi, e quindi ſi dipar tono; gli uccelli intanto
calan giù, e preſo della carne la ripongon entro a’lor nidi, i quali non
valevoli a ſoſtener tanto peſo caggiono a terra, e gli Arabi allora ne fan race
colta:όκα με γας γίνει αι, και ήτις μιν γή ή τσέφεσα έστ, έκ έχεσι - πών, πλην
όπλόγω άκόπ χρεώμενοι, εν πίστ δε χωeίοισι φασί πνες αυ η φύεσθαι εν τοϊσι ο
Διόνυσος εξάφη • όρνιθας δε λέγεσαι μεγάλες φορέ eaν ταύται το κάρφεα, τα ήμεϊς,
απο Φοινίκων μαθόνης, κινναμωμον καλέομεν · φορέειν δε τους όρνιθας ές νεοσιας
πεπλασμίνας πηλό πέος αποκρήμνοισι ούρεσι, ένθα πόσβασην ανθρώπω ουδεμίην άνοι:
πεος ών δή ταύα τους Αραβίους σοφίζεσθαι τάδε · βοών π και όνων των απαγινο.
μένων, και των άλλων υποζυγίων τα μέλια διαμόνας ως μέγια και κομί ζειν ες Gύτα
τα χωρία και σφεα θένας άγχου των νεο Αστέων απαλάασε. « θαι έκας αυτέων• τας
δε όρνιθαςκατο πετυμένος και αυτών τα μέλεια των υποζυγίων αναφορέαν επι τας
νεοσπαστας δε ου δυναμίνας ίσχειν,καταρρής γνυσθαι γαρεπί γήν, τους δε επόντους
συλλέγαν ούτω με πκινναμωμον. Ma fe quefto fembra fogno d'infermi, ben fola di
Ro manzi ſarà, ſenza fallo, quel convenente d’Ariſtotile in torno al medeſimo
fatto,dove e' narra, ch’un uccello detto in Arabia Cinnamomo (comechè appreſlo PLINIO
chiami fi Cinnamologo) vada cogliendo i fuſcelli della canella, e fe · ue
fabbrichi il nido ſu le cimede gli alberi, onde pofcia gl’arabi con faette di
piombo lo ſcroſtano, e caduto giù in terra l'adunano φαστ δε ο κινναμωμον
όρνεον είναι οι εκ των το. πων εκείνων, ¢ το καλούμενον κινναμωμον φέρων πεθέν
τούτο το ορειον, και την νεολίαν εξ αυτού ποιείσθαινεολεύα δεφ' υψηλού δένδρετε
εν τοις θαλ. λοϊς των δένδρων, αλλά τους εγχωρίες μόλιόδον προς τοις οισοίς
πέοσαρ των τας, τοξεύοντας καζβάλειν τε ού7ω συνάγειν, έκ του φουτου το
κινναμωμον: elmedefimo vien confermato da Antigono, ov ” codices λέγαν δέ τινας
τε το κιννάμωμον όρνεον είναι, και αρώμα & φί. ραν, και τους νεοφίας εκ
τούτου ποιείσθαινεοτεύειν δ' εφ ' υψήλων δένδρων τ' α Gάτων, 7ους δε εγχωρίες
μόλιόδον τοϊς δίπϊς προτιθών ας τοξεύαν, και κα - αρρηγνύειν τας νεολίας. E non
molto diffimile e cio, che ne vien creduto da molti altri antichi appo
Teofraſto: néger aus δέ πς και μύθος υπέρ αυτού · φύεσθαι μεν γάρ φασιν εν
φάραγξιν, εν ταύζις δ ' όφης αναι πολλές δήγμα θανάσιμον έχοντας: πεος ούς
φραξάμενοι τας χώρας,και τες πόδας, καταβαίνεσι, και συλλέγεσιν,είθ' ό'ταν
εξενέγκωσιδιε λόντες βίαμέρη διακληράν τει πεος τον ήλιον Ma ſe mai mi foffe in
animod'annoverare gli errori tut ti, ne'quali caddero gli antichi per eſſer
eglino maldelle ftraniere faccende informati:Io direi come Plinio follemé. te
dica, che'l Cinnamomo naſca nell'Etiopia, ed indi aſſai più vaneggiãdo
ſoggiúga,che gli Eriopi il coprano da que de'proſſimani paeli;e che giungendo
poiegli al colmo del le vanezze, apertamëte contraddicendoſi, non ſi vergogni
d'affermare, ch'eglino ſe'l portino per alti mari con lun ghe, e pericoloſe
navigazioni, ove non giova governo de nocchieri, ne vela, o remi,inafol l'umano
ardire, e la for tuna gli regga. Direi come in alcuni antichi Greci comentarj
leggaſi, che'l Cinnamomo col ſolo toccaméto,l'acque bogliéti rin freſchi, e
meſſo ne'bagni, i ferventi loro vapori in un bel freſco tramuti;e che tutti gli
animali di putredine nati,am 2nazzi:ότι ζέοντος φασή του εν λέβητα ύδατος είπες
θίγοι μόνον η κιννα. μωμον ευθυς καταψύχειν το ύδως και και λετάω έπεισενεχθέν
διαπύρω μετα ποιεϊν τον εν τώ αίρι φλεγμον εις ψυχρότειν, και αφανισικήν των εκ
φθο ράς πνος ζωογονουμένων την φύσινέχαν.Direi di vantaggio, co medel pepe
favoleggiado Dioſcoride ne narri, naſcer quel lo in India da un coral
arbuſcello, che produce un frutto lungo, ſicome baccello, il qual chiam ali
pepelungo: den tro del quale dice ritrovarſi alcune granella non guari dau
quelle del migliodiſſomiglianti; e che queſto ſia il perfer to pepe;imperocchè
aprédoſi col tépo n'eſcon fuora i raci moli carichi di granella, ficome gli
veggiamo; e queſti anzi d'effer venutia maturezza colti, fāno il pepe biaco,
e'l nero poi dice egli conciosſiecofachè ſia maturo, eſſer odorifero,e
dilettevole al guſto più che'l bianco; il quale perciocchè a debita maturezza
non è pervenuto, non è cotanto perfetto. Πέπερ, δέρδρον 15ηρείται φύομεναι εν
ενδία βραχύ καρπον δε ανίησι, κα. &ρχας με πξομήκηκα θάπερ λοβούς όπες επί
μακρόν πέπερι: έχον τα ένο (λεις ) κέγχρω παραπλήσιον και το μέλι έσεσθαι και
τέλειον πέ. περι. όπερκαλα τους οικείας καιρούς αναπλoύμνον βότρυς ανίησε
κόκκινο φέροντας οί'ες ίσ μου και τους δε, και ομφακώδες και οι τινες εισι το
λευκόν πε. περι, epoco appreffo:το δε μέλαν ήδιον και δριμύτερον του λευλου,
φύσιμώτερον· και μάλλον δια 10' ναι ώριμον αρωματίζον• εύχρησότερόν τη εις τας
αρτύσπις· το δε λευκών και ομφακίζον ασθενέτρον των πτοειρημέ. ng IWY, Ma
troppo lūga materia da ſtancarne nell'impreſo arin farebbe il volere ad uno ad
uno tutt'altri lor fallimenti annoverare. Perdoniam pure a gli antichi ogni lor
negli genza, ſenulla ſeppero, over nulla curarono del muſchio, dell'ambra
grigia,del zibetto, della noce moſcada,de'ga rofani e d'altri, ed altri
aromati. Non fia lor colpa, ma del la fola fortuna, il non aver eſſi avuto
contezza niuna della Mecciocana, della Contrerba, del Saſſafras, del Cafè, del
Legno Guajacosdel Balſamo del Perù, dell'Erba Te,dellas Salſa, della China, e
d'altri quaſi innumerabili ſtranieri ſemplici, che al preſente ſon così
manifeſti, e conti, che van per le bocche, e per le mani d'ogn’uno. Mache più:
laſciam pur, che gli antichi ordiſcan degli animali le più incredibili fole,
che peravventura cader potrebbono in penſamento umano: 0 pure avendole da
altrui udito, co me ſe da propj occhj ſtate foſſer vedute, sì le abbinn per
vere, e le rapportino. Laſciam, che creda Anafſagora appo ARISTOTELE, che i
Corvi uſin per bocca colle lor semmine, e dea cagione dicantare a colui:.
CorueSalutator, quare fellator baberis. E trapaſſiam fotto ſilenzio ciò che
infinſero agli antichi della Catapleba, di cui Plinio, e Solino fan parole, e
Sor gona appellafi appo Ateneo, la qual vogliono,che talma lìa dal ſolo ſguardo
diffonda, che immantinente l'animal rimirato, ſtupido,ed inſenſato divega,e
poco ftante fi muo ja; il che vagamente deſcriſſe in quc'verli il Petrarca. Ne
l'eſtremo occidente V na fera è ſoave, e queta tanto, Che nulla più. Mapianto E
doglia, e morte dentro a gli occhi porta Neprendiam briga d'annoverar ciò che
favoleggiarono Megaſtene, Daimaco, Nearco, Ariſtea, Onoficrito, Te fia, ed
altri appo Erodoto, Strabone, Diodoro, PLINIO, e GELLIO degl’uomini, che in
Oriente preſſo il Gange naſcono ſenza bocca, e ſol Gi paſcon d'odore: degli huo
mini, che in India appo i Nomadi vivono ſenza naſo: de gli altri, ch’appo i
Troglodici ſon ſenza capo, e collo, ed han gli occhj ſu la ſpalla:d'altri, che
han faccia di cane, e latrano, e di tant'altri di fimil figura, a quei, che la
ma ga Alcina in guardia al ſuo palaggio teneva. Non fu veduta mai piùſtrana
torma, Più moſtruoſi volti, e peggio fatti. Alcun dal collo in giù d'huomini
ban forma, Col viſo altri diſcimie, altri di gatti. Stampa no alcun co’piè
caprigni l'orma: E traſandiam Platone, che verace credette quella bugiar da
fama de'Poeti, che i Cigoi preſſo l'eſtreno for giorno mandin fuori più bello,
e più ſoave il canto; e non ci fer miamo a ſtacciar la cagione, che di tal
fatto ne arreca táto ſottile, che da per ſe la ſcavezza, cioè, che eſſi cantano
pe'l gran contento, che prendono del preſto ritorno, cli’al lo ro Apollo a far
hanno. E con queſto di Platone,laſciamo impunito anche il fallo d'ARISTOTELE,
qualor prende licenza di dir, che nell'Africa molti ne furveduti da’marinari,
che buſamente, e doloroſamente cantavano; eſſendo in verità il lor căto
un'imporcuno gridare,comedioche ſalvati che,anzi che no.Ne prendiam niuna cura
diripigliar Teo fraſto ſeguito da Celſo, da Solino, e da altri, perchè po co, o
nulla ſagace ſcriveſſe del Cainelconte', ch'egli il 'a ria ſi viva:così
d'affermarlo niuno ſcrupolo non avendone, come ſe ſtati foſſero un di quei
Poeti, che coll ulata lor licenza cantarono, ſicome OVIDIO, Id quoquequod
ventis Animal nutritur, & aura El'Alciato Semper hiat,ſemper tenuem qua
vefcitur auram Reciprocat Cameleon. O di caffar quegli, che vollero,eſſere it
Camelconto della grandezzadelCoccodrillo, ſe pure non fu queſto, crrore di
Plinio;imperocchè tutto ciò che narra delCameleonte, dice d'averlo tolto di
peſo a Democrito, che un libro in tiero ne fcrife, ρve dicendo και το μέγεθος
ομοιον είναι τώ κροκο dergoe, ' non badò punto, che nel Ionico linguaggio, nel
qual Democrito favellava,la parola xpowodeina, val quel la Lucertola, che appo
gli Atenieſi, e gli altri Greci dice fi sæūgos, ficome fanno gli ſtudioſi di
tal linguaggio. Elaſciamo ſtare ciò, che gli antichi, a'quali ſi parve, che
deffer credenza VARRONE, PLINIO, Solino, COLUMELLA, Marziano CAPELLA, e SERVIO
follemente vaneggiaro che alcune cavalle ſu'l Tago ſieno ingravidate dal vento,
e moran fuori polledrivelociſſimi al corſo. Co per vero dir non men fantaſtica
del Pegaſeo di Bellero fonte, o dell'Ippogrifo d'Aſtolfo, e ben degna, che ne
freggino i lor Poemicoloro, cui a par de'pittori è cócedu to di poter tutro
ardicainente attentare. E sì cantar puo. tè Omero de'Cavalli del fuo Achille,
Εάνθαν και Βαλίον,τωάμα ποιηση πελέσθην, Tες έτεκε Ζεφύρω άνεμω άρπια Ποδάργη.
E ſimilmente VIRGILIO Ore omnes verſa in Zephyrūſtant rupibus altis Exceptante;
leves auras, á fæpefine ullis Conjugiis, ventogravide, mirabile dicru ! E SILIO
Italico delo lociſfimo Peloro no, fa K 2 Nullus erat pater ad Zephyri nova
flamina campis Vectonum eductum genitrix effuderai Harpe E dell'Aquilino il
noſtro ammirabil Torquato, Queſti ſu'lTago nacque, ove talora L'avida madre del
guerrero armento Quando l'almaſtagion, che n'innamora, Nel cor le inftiga il
naturaltalento, Volta l'aperta bocca incontra l'ora, Raccoglie i ſemidel
fecondo vento, E de'tepidi fiati(o maraviglia! ) Cupidamente ella concepe, e
figlia. E finalmente perdoniamo agli antichi ciò che ſognarono de'Pigmei, della
Fenice, del Centauro, dell'Aquila, del I.eone, del Coccodrillo, della
Salamandra, della Pirau ſta, della Remola, del Cavallo marino, del Baſiliſco,del
l'Elefante, de'Satiri, degli Ipogrifi, de'Ciclopi, delle Si rene; e tant'altri
errori, ne' quali non pur degli animali, ma de’minerali altresì in trattando
incorſero, i quali di bé groffi volumi, non che di brevi dicerie ſarebber lunga
ma teria, ſol che a noi ſi conceda picciola,e ben dovuta rin chieſta, il poter
da’lor falli ritrarci, uſcir da’lor rei inſe gnamenti, non coſto iinboccarne
loro ſtrane ſentenze, e per ſeguir la verità tutti lor falſi rapporti porre in
no cale; a noi, cui tutto il mondo, è già quaſi omai ſcorto, e mercè la
diligenzza delle lunghe pellegrinazioni, non pur ſap piamo i luoghi, i
portamenti, i coſtumi degli abitatori: ma di che animali qualche ſi ſia paeſe
venga fornito, quali piante germogli, quai minerali produca. E non v'ha ge te
nel vero sì barbara, e feroce, la quale, o per avventu ra, o da neceſſità
coſtretta non abbia a pro del comune qualche commendevol rimedio ritrovato, il
quale ad al tre più umane, e ben coſtumare nazioninon è occorſo. E ben ciò a
pruova ſappiamo; imperocchè ne per lunghe vi gilie, ne per iſparti ſudori
di'ſavj greci, o daʼnoſtri fi po tè ritrovar mai rimedio tanto valevole a domar
la ferocia delle febbri, quanto è quella maravigliofa corteccia,inſe gnatane
da' barbari abitatori del Perù e Eto quanto se quanto egli ora ammirerebbe per
Dio queſta fortunata, e prodigioſa fecondità, e con qual leggiadria, ed altezza
di ſtile egli anche per celebrarla ſarebbe, IL SUBLIME POETA FILOSOFANTE
LUCREZIO, ſe dique' pochiſſimi trovati del ſuo ſecolo così maraviglioſamente
preſe a cantare: quædam nunc artes expoliuntur: Nunc etiam augeſcunt: nunc
addita navigiis funt Multa: modoorganici melicos peperere fonores. Denique
natura hac rerum ratioque reperta eft Nuper, & hanc primus cumprimis ipſe
repertus Nunc ego fum in patrias, qui poſſim vertere voces. Deh ſi paragonino p
Dio le ſtorie della natura di quc fto noſtro ſecolo non ancor finito, con tutte
l'antiche, e veggaſi ſe più fecondo di maraviglioſi trovati fia queſto poco di
tempo, che itati non ſiano per addietro tanti, tanti altri ſecoli paſſati. Si
paragonino pur le perſone, ci medici, e i filoſofinti antichi, emodernifi
bilancino. Ma che dico Io deMedici, e filoſofanti moderni? baſta ſolo un ſol
filoſofo, l'ingegnoſiſſimo GALILEI, per tacer di Renato, del Gaſſendo,
dell’Obbes, del lungio, e di tant’al tri, ad oſcurare, cſommerger affatto la
gloria di tutta quanta l'antichità. Orche direbbe Plinio il giovine in rimirar
tanti belliſſi mi, e nuovi trovati dell'età noſtra? ſe de’tempi ſuoi, che pur
ne furono affatto ſterili, ed infecondi, così ebbe a di re: Sum ex illis fateor,
qui mirer antiquos; non tamen, ut quidam temporum noftrorum ingenia deſpicio.
Neque enim quafilaxa, & effeta natura elt, ut nihil jam laudabile riat. Ma
ſu concedaſı pure ciò, che a niun modo conce der mai certamente ſi dee, cioè a
dire, che alla antichità ſolamente abbiamo a ſtarcene; come mai potrà egli
ſenza guida di boſſolo il corſo della ſua nave reggere il nocchie. ro?come
ravviſar l'aſtronomo le nuove ftelle ſenza il nuo vo occhialone? come abbatter
le ſchiere nimiche, o rintuz zarne gli affalti il Capitano ſenza gli archibugj,
e l'arti glierie, e ſenz'altri moderni ritrovati da guerra? Che farà il
filoſofo, e'l medico ſenza il microſcopio? Quanto ri pa marrà a ſuper della
Terra al Geografo, ſenza le novelle; tavole dell'America? in quaiviluppi,
cgarbugli, e con fuſioni troverrebberſi mai gli Stronomisi quali a far prova
aveſſero del Siſtema di Tolomeo infino a’di noſtri, quafi comunemente per tutti
ricevuto? Non s'addofferebbero le ſghignazzate, e le riſa anche del popolo
minuto, e de più ſemplicifanciulli, s'eglino mai a negare ardiſſero lo
innumerabili ſtelle della via lattea? o faceſſer veduta di non iſcorger in
faccia al Sole le macchie? oi compagni di Saturno,ch'alcuniorecchj, altri
anella, ed altri manichi chiamano, o le nuove ſtelle Medicee, o lo ſcambiar
della faccia di Venere, o'l dimorar più in là delle lunari regio nile Comece, o
le montuoſità della Luna; o l'aggirarſi di Venere, di Mercurio, di Giove, e di
Marte intorno al So le? E con qual fronte ofercbbero i filoſofi ora difender
l'incorruttibilità de'corpi celeſtiali, la faldezza de' Cieli, la sfera del
fuoco, e tanti, e tant'altri ſogni d'ozioſi cer velli? E come ardirebbero i
medici ſenza i novelli trovati della notomia morta, e della notomia vitale ad
impren der eure ſenza manifeſtiſſimo riſchio de'mileri ammalati? Ed o quanto,e
quanto mal conſigliati ſarebber quegli in fermi, chenelle lormani li
porrebbono; edo quanto in názi tratto ſarebbe il migliore ad arriſchiar la vita
più to ſto in man d'avveduto, e ſaggio Empirico, il cui meſtiere, comechè
manchevole, tuttavia a pericolo d'errare aſſai men ſoggiacer ſi vede, che la
falſa razional medicina daw Galieno in guiſa tale abborrira, e biaſimata, che
ezian dio contro le regole dialettiche egligiudica eſfer coſa iin poſſibile
poterfi mai da’ falli principjdi quella altre con cluſioni, cheſempre falſe,
cavarc. Ma laſciando ciò al preſente, che troppo larga materia da diſcorrer
ſarebbe, dico, che un talmio diviſo di dover ſi ſemprcmai al miglior di
ciaſcuno, o antico, o moderno autorch'egli diafi, appigliare, ne a ' ſentimenti
d'alcuno tenacemente ligarli, ſenzachèè egli ragionevole aſſai, e conveniéte,
fù di vataggio da tutti gli ſcrittori di maggior lieva abbracciato, e da' più
ſavj filoſofancije da ſacriTeo. 1 logi comunemente leguito, e fommamente da
ciaſcun commendato. Odafi di grazia fra’primi quel Principe de Lirici, e
de'Satirici POETI LATINI, checol ſuaviſſimo ſuo me. tro i rigidiprecetti
dell'Epicurea, c della Stoica filoſofia addolcendo, così ne canta Quod verü,atque
decens,curo, di rogo &omnis in hoc să. Condo, &compono,quod mox
deprumere poffim. Ac ne forte roges quo me duce, quo lare tuter: Nullius
addictus jurare in verba magiftri, Quo me cunque rapit tempeſtas, deferor hofpes;
Nunc agilis fio, & verfor civilibusundis; Virtutis vere cuſtos, rigiduſque
ſatelles: Nunc in Ariſtippi furtim præcepta relabor's Et mihi res, non me rebus
ſubmittcre conur. Equel, ch'altrove eglimedeſimamente va diviſando...,
Quodfitam Gracisnovitas inviſa fuiſſet Quameſt nobis, quid nunc effet vetus?
aut quid habcret. Quod legeretztereretque viciſim publicusuſus? Odafi QUINTILIANO:
neque id ftatim legenti perſuaſum fit, omnia, quæmagni autoresdixerunt, utique
efleperfecta; e recando « gli di ciò la ragione, ſoggiunge: nam, & labun
tur aliquando, & oneri cedunt, & indulgent ingeniorum, fuorum voluptati:
nec intendunt animum: Odali il Romano Oratore: non tam autores in diſputando,
quam rationis momenta quærenda funt,quin etiam abeft iis qui dicere van lunt,
plerumque eorum autoritas, quife docere profitentur: definunt enim fuum
judicium adhibere, atque id habent ra tum quod ab eo, quem probant judicatum
vident. Indi tra paſſando a condennare il vituperevole coſtume de' Pittagorici,
a'quali per certa, ed infallibil ragione l'autorità fo Jamente del Reverendo
lor maeſtro baſtava: conchiude: tantum opinio præjudicata poterat, ut etiam
fine ratione va leret authoritas. Odali oltre a' già rapportati autori più
fiace il medeſimo avviſo dalla ſaggia mente di Platone, ac comandatone
ſpecialmente nel Critone, ove diffe: 10 ſon di sì fatta natura, che a
niun'altro mai mi ſon condot to a preſtar fede, ſalvo, che a quella ragione,
che più vol te da go Ragionamento Primo te da me diligentemente ſtacciata, e
diflaminarā alla fine ho ritrovato eſſer l'ottima: as iywa õ jóvov vũ, anc ' wy
de Tolos 1G-, οΐG τωνεμών μηδενί άλω πάθεσθαι, ή τώ λόγω, δς αν μοι λογιζα Hér
w Gea Tigos Paívntou, Odaſi il famoſo Ariſtotile, ilquale, avendo a trattar
certa quiſtione, ove le faceva uopo per la verità d'impugnar le determinazioni
de'ſuoi amici,veg gendoſi quaſi allo ſtrettojo, pur ſaggiamente diliberando,
cbbe a dire,più umana coſa eſſere il preporre la verità agli amici αμφοίν γαρ
όνπιν φίλων, όστον πτοπμαν την αλήθειαν, e pri ma auea egli detro a pro della
verità, far meſtiere, maffi mamente al filoſofo, diſtrugger le ſue proprie
credenze; ma odaſi quella maraviglioſa, e divina ſentenza ch'egli medeſimodal
Fedone del ſuo maeſtro apprefe, e pur da tut ti coloro, che Ariſtotelici, o
Ippocratici, o Galieniſti in torto chiamar ſi fanno, vien comunemente
traſandata,an zi affitto ſpregiata: Amico Socrate, Amico Platone, ma più amnica
la verità; la qual diviſando, esfigurando queſti Iciocconi indegniſſimi del
nome di vero filoſofante, foven temente dir ſogliono: eſſi amar meglio di
ſcioccheggiar con ARISTOTELE, Ippocrate, e Galieno che con altri laggia mente
diſcorrere. E ben di quella più amico ſoventemo ftroſli il medeſimo lor ARISTOTELE,
ſe migliaja di yolte ripre ſe,e biaſimòTalete, PITTAGORA DI CROTONE, PARMENIDE
DI VELIA, Anafſiman dro, Anaſlimene, Meliſſo, Democrito, Anaffagora, cd altri
molti, che prima di luieran lodevolmente feduti fra filoſofica famiglia; e ne
meno per riverenza talor ſi ritena ne, chea'medeſimi ſuoi maeſtri Socrate, e
Platone il fi inigliante non faceſſe, i quali manifeſtamente alle volte bialima,
e riprende; e forſe ſe ſua malavoglienza, ed ill vidia non foſſe, potrebbeſi
ancor credere, che egli per ſo lo zelo della verità così loro villaneggiaſſe, e
carminaſſe, chiamandogli talora, e ſcempiati, ed ebbri, e farnetici, e
ſciocconi, e ſtolti, e ſcimuniti, e non farebbe per avven tura gran ſenno, che
ſon pur coloro gran maeſtri in filoſo fia, e danon così gravemente mordere. Ma
queſta cotai ſentenza ebbero in bocca poi tutti i ſuoi più celebri diſcepoli, e
ſeguaci, Licome ſcorger.age. 2 vol volmente e'ſi puote, in Teofraſto, in Ermia,
in Iſtracone, iu Ariſtoſſeno, in Ipparco, ed in altri molti, i quali ſi vide ro
mai ſempre antiporre la verità, ſe mai lor ſi parve d'a verla rinvenuta,
almedeſimolor maeſtro, e duce ARISTOTELE, non che ad altri filoſofanti; e'l
ripigliano liberamente e ſenza ritegno,qualora in qualche fàllo il tolgono; e
queſta medeſima ſentenza, dipoi han comunemente avvuta fiffa inmente tuttii
moderni riformatori della filoſofia, a’quali tanto, e sì fattamente piacque ad
ogn'orapreporre la veri tà ad ARISTOTELE, che allora con ſignoria da tiranno in
tutte le ſcuole del mondo regnava, ed a guiſa di celeſtial nume per ciaſcun
riverivali, checon eroica fortezza, e con in vincibile, e veramente filoſofica
coſtanza, nulla curanda che perciò ne foſſero eglino mai ſempre, e proverbiati,
e deriſi,il ripreſero ſoventemente, e lo dimentirono di non, pochi ſuoi falli.
Ma odaſi omaiquell'altra non men famoſa ſentenza, la ) quale à Socrate ſuo
maeſtro è da Platone attribuita rávws γαρ και 1ειο σκεπτέον ός τις αυτο είπεν,
αλα πότερον αληθές λέγεται η ου, Non già chi abbia detta la coſa, ma s’eidica,
o non dica il vero,doverſi conſiderare. Ne in ciò punto è da tralaſciare il
celebre latino Stoico; il quale al ſuo LUCILIO in una piſtola, così favella:
Epicurus, inquis, dixit: quid tibi cum alieno? quod verum eſt, meum eft: indi
egli foggiugne con quelle veramente memorabili parole: Perfeverabo Epicurum
tibi ingerere, utifti qui in e verba jurant, nec quid dicatur æftimant, fed à
quo fciant, quæ optima ſunt eſſe communia. Ne meno è da notare as noſtro
propoſito ciò che altrove parimenteegli dice contro i miſerevoli parteggianti:
qui alium fequitur, nihil inve nit, immonequequerit; e ciò, che altrove ancora:
Non ergo fequor priores? faciofed; permitto mihi, bu invenire ali quid, mutare,
nec fervio illis fed, aſſentior, e ciò, che un' altra fiata egli così proteſta:
Qui ante nos ifta noverunt,non domini noftri, fed duces funt. Ne è da paſſar
ſotto filézio quel belliſſimo detto di Por frio το αληθεύειν και μόνον
δύναταιτους ανθρώσες ποιάν Θεό Παραλεσίες, L. cavato nel ſuo volgare dal beato
Girolaino con queſte vo ci. Poft Deum,veritatem colendam, quæ fola bomines Deo
proximos facit. E ſe tanto può far la verità, dove più riporrem noi l'a nimo, a
qual'altro fine indirizzerem noi i noſtri ſtudj,dure rem noſtre fatiche,
ſpargerem noftri ſudori, vegghierem le gelide, e ſerene notti, ſe non perla
verità? Eccovi, ecco vi o Signori il vero ſentiero dell'immortalità, e della
glo ria. Ecco quel ſentiero, che ſegnarono i barbari daprima, indi i Greci, ed
ultimamente i moderni noſtri filoſófanti, che in tanto pregio,e tanta fama
glorioſamente falirono; e perchè crederem noi, che l'antica età aveſſe, e
Talete, e Anaffimenc, e Senofane, e Anafſimandro, e PITTAGORA DI CROTONE, ed EMPEDOCLE
DI GIRGENTI, e Leucippo, e Democrito, ed Eraclito, ed Anaſlagora, e Socrate, e
Platone, ed ARISTOTELE, ed Epicuro, e Zenone, e tanti, e tant'altri filoſofi
d'immortal fa ma degni: e ſi pregin parimente, e lidian yanto i noſtri ſex coli
d'aver recati almondo il Cardinal Cusano, e' Copernico, el Patrici, e'l TELESIO,
el Ramo, e'l Donio, e Ticone, e'l Cheplero, e'l BRUNI, e'l Gilberti, e'l
Montagna, e'l Merſenni, e'l Baſſoni, e'l GALILEI, e lo Sti gliola, e'lCAMPANELLA,
e'l Verulamio, e Renato, e'l Gassendi, e'l lungio, e'lConte Digbi, e'l
Oggelandio, e'l Boile, e’l Borrelli, e'l Maignano, e'l Robervallio, e'l Mal
pighi, e'l Redi, e lo Stenone, e'l Ricci,e l'Vliva, e'l Por zio, e ' Bellini,
e'l Marchetti, e'l Montanari, e queſti,che ſommamente fregian la noſtra patria
Tomaſſo Cornelio Gio: Battiſta Capucci, e D. Carlo Buragna, dicui ben to ſto
s'ammireranno gl'ingegnoſi filoſofici trovamenti, ed al tri incomparabili eroi,
che con gloriofiffima gara lundcl l'altro fe'n vanno per le vaſtiſſime regioni
della natura, fu perbi,e alti voli lpiegando: fe non perchè tutti coltoro va
ghilimioltremodo di ſpiar la ſola verità,non vollero giá mai ſtarſene a niuno,
ne a' derti di niuno traportar cieca mente ſi laſciarono. E viuran ſeipremai
pe'l contrario ſenza fama, e ſenza lode appo i faggi, e prudenti ſtimato ri
delle coſc tutticoloro, che toglier non vogliono una sì 1 commendevole, e
neceflaria libertà; anzi ſovente in tai fal. limenti dalla lor cieca
oſtinazione ſon tratti, che ne ſenza riſa rimembrare, ne ſenza nota d'obbrobrio,
e di vitupero nominar unque ſi poſſono. E io comechè ſopra ciò diviſar
lungamente potrei, e di sì fatti errori quaſi infinito numero
rapportarvene,purnon dimeno rimarrommene per modeſtia; c fie baſtante il ri
duryi amemoria, ſol ciò, che d'un ' oſtinato, e duriſſimo Peripatetico LIZIO narra
il Sagredi appreſſo quell'altiſſimo filo ſofante,ch'oggi l'Italia tutta onora
più che altri già non fe la ſua Grecia. Mi troyai, dic'egliga caſa un Medico
molto „ ſtimato in Vinegia, dove alcuni p loro ſtudio,e altri per » curioſità
convenivano talvolta a vederqualche taglio di „ notomia per mano d'uno, non men
dotto, che diligen te, e pratico notomiſta; ed accadde quel giorno, chę ſi
andava ritrovando l'origine, e naſcimento de'ner » vi, ſopra di che è famoſa
controverſia infra' medici „ Galienifti, e Peripatetici LIZIO; c moſtrando il
notomiſta, co » me partendoſi dal cervello, e paſſando per la nuca il gra »
diſſimo ceppo de' nervi, s'andava poi diftendendo per es la ſpinalc,
diramandoſi per tutto il corpo: eche ſolo un fil ſottiliflimo, come di refe
n'arrivava alcuore: voltofi 5 ad un gentil'huomo, ch'egli conoſceva per
filoſofo Perripatetico LIZIO, e per la preſenza del quale egli avea cons
iftraordinaria diligenza ſcoverto, e moſtrato il tutto,gli „ addomandò, s'egli
reſtava ben pago, e ſicuro, l'origine de'nervi venir dalcervello, e non dal
cuore: al quale il „, filoſofo dopo eſſere ſtato alquanto ſopra diſc, riſpoſe:
voi m'avete fatto veder queſta coſa talmente aperta, e ſenſata, the quando il
teſto d'ARISTOTELE non foſſe in chiaro, ch'apertamente dice i nervi naſcere dal
cuore, biſognerebbe per forza confeſſarla per vera. Ragione. volmente adunque
potè cantando eſclamar colui. Sæpe graves, magnoſque viros, famaqueverendos,
Errare, & labi contingit, plurima fecum Ingenia in tenebras cunfuerunt
nominis alti Autores, uticonnivent, deducere eajdım, 1. Tantum exemplavalent,
adeo eſt imitabilis error. Fin quìha potuto trarmi con convenevol diſdegno dive
dere in tanti errori i miſerelli parteggianti vitupcrofamen ce cadere. Ma
vegnamo a moſtrar ora, ſicome già propo nevam di fare,quanto i Sacri Teologi la
libertà, che noi commendiamo, eglino altresì, ed approvino, e lodino. E chi
baſtantemente mai rapportarpotrebbe,con quan co fervore s'attraverſi a coloro
che la libertà degli Scritto ri intendonodi riſtrignere, quel ſottiliſſimo fra
gli Scolaſti ci Teologi Durando? Egli con chiare, ed efficaci ragioni
manifeftaméte il ci va dimoſtrado con dire che ſe mai noi dovremo agli altrui
detti acchetare (il che non ſi deca niú modo concedere ) chi così temerario, e
così folle farà,the più toſto a’Pagani, e perfidi gentili fede preftar vorrà,
che a’ facri, e piiſcrittori, e Padri di Chieſa Santa da divin lu me
illuftratis e pure Agoſtino proteſta di non voler'egli già, ch'a'ſuoi detti dar
s'abbia ferma credenza: ma che ciaſcuno in prima ben bene gli diſamini, &
abburatti, e ſe veri non gli pajano ſenz'altro alcun riguardo gli rifiuti to
Ito, e rigetti;indi le parole medeſime di AGOSTINO recate avendo così
fieramento ſcagliandoſi contro alcuni barbaf fori, che vogliono impor meta alla
libertà degli altrui in gegni, e ridurli al durofervaggio di qualche fi fia
ſcrittore, e che altro, eſclama egli, è ciò per Dio, ſe non che un vo lere quel
tale ſcrittore antipurre a'Dottori di Santa Chieſa? fe non che un chiudere il
varco a color,che vanno in traccia della verità?Se non che un far argine a quei,
che s'inviano pe'lſentiero della ſapienza: ſe non cheun'ammorzar violen temente,
non che oſcurare il chiariſſimolume della ragione. Così quel gran Dottor della
Chieſa, non men d'ammira bil ſantità, che di profonda ſcienza dotato, ſcrivendo
al Gran GIROLAMO, lume maggiore della Criſtiana Religio ne, dopo avergli detto,
ch'egli dava intera, e ferma credenza a'libri ſolamente della ſacra Scrittura,
ed agli autori di quella, degli altri in sì fatta guiſa egli favella: Alios
autem omnes ita lego, ut quantalibet San &titate do Etrinaqueprecellant,
non ideo verum putem, quia ipfi itas Jenſe is fenferint,fed quia mibi, vel per
illos authenticos autores,vel probabili ratione, quod à vero non devient
perſuadcre po tuerunt. Ma prima di S. AGOSTINO quel criſtiano Tullio, Lattanzio
Firiniano, avendo iſentimenti medeſimi con eloquenza; ed efficacia non
ordinaria manifeſtati,ſiegue a dir poi, ch' ogni ſapienza da ſe caccian via
coloro,che ſenza diſcreto giudicio,i trovati degliantichiapprovano, e a guiſa
di pe corelle dietro a quelli ſi laſciano ciecamente trarre; per ciocchè:
ficome egli ſoggiugne: Hoc eos fallit, quod maa jorum nomine pofito non putant
fieripulje, utaut ipſi plus fa piant, quia minores vocantur, aut illi
deſipuerint, quia majores nominantur: cd alla fine così gridando ei conchiu de:
Quid ergo impedit, quin ab ipfis fumamus exemplum, at quomodo illi, quifalſa
inveneruntpofteris tradiderunt, fic nos, qui verum invenimus poſteris meliora
tradamus. Or dunque, fe tanta libertà ſi tolgono i Sacri Teologi, che talor
dove ragion ripugna contraſtano ferventemente a'lo ro maeſtri, ed a’Dottori medelimidi
Chieſa Santa, ere tāta libertà richiedeſi a'filoſofanti a poter ſaggiamente in
veſtigar la natura delle coſe; quanta crederem noi ch’ab. biſognardebbaaʼmedici.
Anzi coſtoro di tutt'altri certa mente maggior la debbon godere ſenza alcun
paragone; imperocchè ſei filoſofi volendo pur ſtrettamente appiccar ſi ad alcuno,
altro per avventura non fanno, che con in gannar ſe medeſimitrarli alcun'altro
dietro ſenza nocimé to alcuno, che all'altrui vita ſeguir ne poſſa: i Medici
per lo contrario, con laſciarſi a'lormaeſtri ingannare, non di naſconder
ſolamente altrui le verità naturali,non di ficcar carote al baſſo vulgo
ſolamente ſi ſtudiano, ma oltre a ciò da'vani,e ſtoltiloro aggiramenti,offeles
c per lo più mor talijanzi ſterminje rovinc cagionarſitutto di crudeliſſima
mente veggiamo. E pure i mediciduri, e oſtinati dietro al lor Galieno le
veſtigie di lui, nõ già la verità,vā ricercă do; e come ſaggiamente notò
l'avveduciſſimo Signor di Montagna: On ne demande pas fiGalien a rien diet qui
vail le:mais s'il a diet ainſin,ou autrement. Esì gli antichi am,. 1
maeſtramenti, anzi gli antichierrori ſempremai ſeguir vom gliono; e mi ricorda
a tal propoſito, che ritrovandomi in brigata di curioſi, e dotti amici a caſa
il noſtro Severino quivi da un diligente notomiſta Daueſe ne fur moſtre le vene
acquoſe in un cane da lui aperto; ma immantinente levolli ſuſo un teſtereccio
Galieniſta (il qualeſimili trova ti prendendo a gabbo poc'anzi avea detto effer
eglino ar zigogoli di moderni ingegni per far contraſto al for ſaggio Galieno )
e contro al buon notomiſta in ceffo rabbuffato, c adattandoſi gli occhiali al
naſo ſtizzoſamente ſcaglioſli con un preſto argumenter contra: ne era inai egli
per rifi pare, ſe oltre alle riſa de'circo tantichetamente, e in vo ce piena di
carità, e di modeſtia, non gli aveſſe il prudente Notomiſta replicato, ſe non
valere ſtar su le difeſe, mu eſſer pienamente pagodi ciò, che gliocchi, e le
man pro pie le facevan chiaramente vedere. O ſtrana, o incredi bil pertinacia
de parteggianiMedici, voler eſſere anzi cic chi, e ſordi, e tradir ſe medeſimi,
ei malati, che ponen do giù la dura, e pertinace loro oſtinazione ricrederſi
de' manifeſti errori de’loro macſori: anzi porre in oblio l'uma nità,
e'lnatural conoſcimento, e lume, per gire così loro inconſideratamente appreſſo,
Come le pecurelleeſcon del chiuso Ad una, a due, a tre: e l'altrefanno
Timidetteatt errandol'occhio, e'l muſo; E ciò che fa la prima, e l'altre fanno,
Addo andoſi a lei s’ella s'arreſta, Semplici, e quete, e lo perchè non ſanno Ma
chczben ſo lo, che per la più parte ciò fanno coſto ro, non peraltro, ſe non ſe
ſolamente per torſi da doſo la troppo nel vero gravoſa, e malagevolc briga
d'inveſtigar con iſtenti, e ſudori la naſcoſa, ed a’lor m.cítri non cono ſciuta
verità; e perciò fan veduta d'eſſer ſaggia elczione di ragionevole genio,
quella, che certamentealtro non è, che dapocaggined'intelletto groſſo, e tondo;
e sì la loro ignoranza, e la loro pecoraggine cercan di ricoprire, onde poi
d'aſtio, c d'invidia fremēdo, per dar quanto (torpo per loro ſi poſſa alla
gloria de moderni ſcrittori, quella degli antichi mai sëpre d'innalzar fi
argomentano; del quale ma ligno, e biafimevole artificio, forte lagnádoſi
Marziale col ſuo Regolo così canta: Eifequid hoc dicam vivis, quod fama negatur
Et ſua quod rarus tempora leltor amet. Hifuntinvidia nimirum Regule mores
Præferat antiquos ſemper,utilla nuvis. Nono Signori, che non ſon già queſti i
veri ſentieri,per cuine’tempiantichi s'avvivono, ed Ippocrate, e Diocle, e Plistonico,
e Praſlagora, ed Erofilo, e Filotimo, e Cri fippo, ed Eraſiſtrato, ed
Aſclepiade, per tacer d'altri, es d'altri famoſi razionali medici antichi. Così
anche a'tem pi noſtri ſi ſon vedutimontar feliceméte al titolo de'ſaggi, e'l
Valentino, c'l Paracelſo, e'l Quercetano,e l'Elmonte, e'l Villis, e'l Silvio, e
tant'altri avvedutiffimi medici moderni. Non è giàtale crederemio Galienifti,
non è già tale il ſentiero del voſtro Galieno; (gannatevi pure una volta, e ſe
non altrui, credetelo a lui medeſimo, che oltre a quel, che n’abbiam di ſopra
rapportato, egli più ch'altrove af faichiaramente quivi l'afferma, ove diſe
medeſimo narra, che egliavea per coſtumedi chiamar ſervi tutti coloro, i
qualidaIppocrate, e da Praffagora, o da chiunque altro fi foſſe predevano il
nome, e che da tutti egli uſava di mai fempre fcegliere il migliore: ήρετο πνα
των εμών φίλων από ποί και έην αιρέσεως • ακούσας δ'όπ δούλες ονομάζω τους
εαυτός αναγο ρεύσανας ιπποκρατείας, και πραξαγορίες, η όλως από πνος άνδρας, εκ
λίγοιμι δε τα παρ' εκάσες καλά, δεύτερον ήρετο, ίνα μάλιση των πα hasūv in
aivoso: ma che? un'altra fiata lo ſteſſo voftro Galie no non dice, che a
manifestiſſimo riſchio d'incorrer in nons pochi erroricoluis'eſpone, che
fermamente ſecondar ſem premai vuole i ſentimenti, che il maeſtro della ſua
fettan come falde, ed infallibili verità gli diviſa? conciosſiecofa chèſecconc
una certiMima ragione di ini medeſimo colle ſue propie parole ) Χαλεπόν γαρ
ανθρωπιν όν % μη διαμαρτάνειν εν πολ. λοίς: τα μεν όλως αγνοήσαν τα, τα δε
κακώς κρίναντα, τα δε αμελί segov ypay ar to,cioè: egli è malagevol molto, o
pure impoſſibile cheunoseſſendo buomo,in tante, e si diverſe coſe ialor non
s'aggiri, alcune affatto non ſappiendo,enon conoſcendo,e d'al tre malgiudicando,
e d' altre alla fine con poca cura, ed avo vedutezza favellando. Fin quì
Galieno, il cui faggio av viſo non ſolocome mai pofla per Galieniſta alcun
traſan darſi, o manifeſtamente diſpregiarli; e pure egliè tale, che più, che a
tutt'altri, dovrebbe eſſer a cuore a'Galieniſti, i quali lodovrebbon
prontamente ſeguire, ſe non mai per altro, almeno per darne a divedere, ch'elli
veramente há bo in quel pregio, ed in quella ſtima, che tutto dì millan tano,
il lormaeſtro, il lor principe Galieno; altrimente vero dirà Paganino
Gaudenzio, il quale queſto graviſſimo fallo loro rimproverando, prorompe in
queſte parole, Ga Lenum voce tenus extollunt, re ipſa autem deferunt, atque
contemnunt. Tanto dice o Signoriilſaggio, e ben conſigliato rino vatore della
vera filoſofia, e medicina, e con ragioni, e con teſtimonianze forſe di maggior
lieva più oltre proce derebbe, s'egli non avviſaffe, che il rimanente ben pote
te voi, come ſavj,per voi medeſimi pienamente compren dere; onde con quelle
divine parole, le quali già lo inge gnoſiſlimo TELESIO ſotto l'effigie della
Verità giuſtamente (culſe Móva pod pina, cioè a dire Sola coſtei a me amica; e
con quelle parole, che replicar così ſovente il Paracelſo folea: Alterius non
fis, qui ſuuseffe poteft, ê ſe ne rimane Ma io aggiugnerò di vantaggio, coſa,
che per avven tura a primafaccia ella creduta nó mifie, e pur ella è vera, e
pur ella è certa: ne loolerei dirla, ſe non ilperaſli farve la toccar con mani,
cioè, che poco men, che tutti i più celebri, e più ſtimati parteggianti di
Galieno da chiarore di verità talvolta illuminatihan fatto come propj i medeſi
miſentimenti, e quaſi tutti tanto nel filoſofare, quanto al fatto del medicare
foglion ſovente dall'orme di Galieno, e d'Ippocrate medeſimo partirſi, alcuni
liberamente ciò có deſfando, altri poidiſimulando la coſa, e'l contrario tutto
con fatti adoperando, di ciò,che ſempremai con parole proteſtar ſogliono. E
percominciar dalle Spagne, acciocchè per noi in si lungo narramento con qualche
ordine ſi proceda, Tomaſo Rodrigo Viega,infra gli altri Spagnuoli nobiliſſimo
inter petre di Galieno, ſcuſandoſi una volta di aver contra a’sé. timenti del
ſuo maeſtro diviſato, di cui allora appunto egli ſtava il libro delle
differenze delle febbri comentando,co si ebbe a dire: Eſſer egli da credere,
che noi non pur fiam nati ad interpetrare gli altrui detti, ma altresì a diſami
nargli ben bene, più pregiandola forza della ragione, che l'autorità de'maeſtri;
ed ove ſiam da neceſſità coſtretti, li beramente da lor ci dipartiamo, perchè
dalla verità non venghiamo a dilungarne; e quindi a poco paſſando a di ſaminar
le ſue dottrine, il toglie in non pochi falli,de'qua li ſuoi avviſi ſommamente
egli pregiandoſi, alla fine con chiude: quæ animadverſiones liberum animum
oftendunt,com uni veritati vacantem. Nequi rapporterò lo altre ſue parole
intorno al mede fimno ſentimento, che troppo lungo ne verrebbe il mio di.
ſcorſo; ma non laſcerò lo già di dire, come forte per lui ſi ripigli, l'haver
Galieno la reſpirazione al cervello aterie buita,ſognandoviſi per ſoſtener sì
folle opinione, unamé brana non mai per niun Notomiſta ravviſata. Ne men ta
cerò, come chioſando egli quel luogo, ove Galien con feſla apertamenteeſſerſi
eglimededelimo ingannato in giudicandod'un ſuo propio male, contro luiprorompa
in queſte parole: Galenus qui in propriis malis cæcutivit, quid in alienis
faceret? Ma chi potrebbe mai il famofiffiino Galieniſta Frances ſco Vallelio
séza taccia di traſcuraggine intorno a ciò tra laſciare? cgli avvedutiffimo
ne'luoilentimenti, non pure il ſuo maeſtro Galieno, e'l ſuo divino Ippocrate
nelle co ſe di maggior confiderazione arditamente abbandona, fi come nelpurgare,
e nel cavar ſangue, quantunque quafi con argani, e con lieve, co tutte ſue
forze a ſentimentiluoi di traſcinargli ſi affatichi; ma in un particolar luo
libbri M cino alcuni detti del ſuo Galieno rapportar volle, coranto fra ſe
contrarj, e diſcordi, ch’in niun modo, ſecondo lui, difender mai, o riconciar
baſtantemente fi poſſono; la qual coſa prima di luiaveaſiancor tolta a fare
quell'altro dotto compilator di Galieno Andrea Laguna. Così anco ra dal giogo
degli antichi due Greci maeſtri ſi ſon talvolta ſcolli,, e ſtrappati, e per
altre ſtrade liberamente avviati il Lemoſio, il Mercato, il Mena, il Segarra,
il Peramati, il Pereira, e'l Mattamoros. Ma ciò far ſi vide più di tutt'al tri
Spagnuoli, e con maggior nerbo, l'avvedutiſſimo Pier Garlia nobiliſſimo
profeſſor di medicina nell'Accademic Compluteſe; la qualcoſa così egli
faggiamente proteſtā do, dice, che altri non prenda maraviglia, ſe di quelle co
ſe, ch'e' rapporta, alcune n’abbia colte altrui variamen te diſaminandole, e ſe
inolte ſien nuove, e nonmaidaglian tichi pria dette, ne pubblicate in alcun
modo: quàm(ſog giugnendo ) in rebus ad examen revocandis non authorita tes,sed
rationum momenta conſtet preponderare, indeque, vetus verbum: Amicus Plato, fed
magis amica veritas, oy tum babuiſe. E per far motto intorno a sì fatta maniera,
ancor de Medici di Valenza, i quali sì con Ippocrate, e con Galicno ſtar
ſogliono ſtrettamente confederati, che anzi a ſommo fallo li recherebbon, che
no, il dilungarſi in un ſol minuto punto dalle loro dottrine. Pure il Pereda
fuo chioſatore forte fi briga diſcuſar Michel Paſcali cele bre ſcrittor di
pratica Valenziano, perchè queſto poco ti? lor ſiaſi curato delparere di quegli
antichi maeſtri, così dicendo; cum bic vir doctus ſcripſerit tempore quo multæ
falf & barbarorum ſententiæ vigebant, veritates Galeni,quas modo multorum
auctorum lectione habemuserantocculte. Ma che forſe il Pereda in quelle ſteſſe
ſue chioſc, ove a fuo potcre egli crede di rimettere il Paſcali nella diritta
ſtra da, non ne torce ancor'egli, e non una, o due, ma più, e più fiate? certo,
che sì; imperocchè in trattando delle febbri ardenti, così ne ragiona: Cum vero
in hac febre non apparent figna fanguinis, non eft neceſſaria ſanguinis miſſio,
fed purgatio bilis, neque inomni putrida febri ſecandaeſt ve 14, ut 1 na, ut
multi recentiores medici cum Galeno X1. Meth. vo. lunt. Or ecco, come da
Galieno ribellando il ſuo giura to campione, e lotto le bandiere del barbaro, e
miſcredé te Avicenna fuggendoſi,arditamente gli fà teſta, e cerca, di mandare a
terra una dellebaſtie più celebridella Galie nica medicina, fondata in ſu
quella univerſal ſentenza,che veruna eccezione non patiſce, cotanto replicata
da Ga lieno, e celebrata da’ſeguaci di lui: xala,soy eli cw, ws dignton, φλέβα
τέμνειν ου μόνον εν τοίς συνόχοις πυρετούς, αλα και τοις άλλοις απαστ τοϊς επί
σήψ « χυμούς, όταν γε ήτοι τα τ ηλικίας, ή τα τ δυνά pescos pead montées: Egli
è coſa falutevoliſſima, ficome io hogià detto, ilcavarſangue, non folo nelle
finoche, ma eziandio in tutt'altre febbri, che daputridi umori fon cagionate,
fol, che l'età, o be forzeno'l vietino. E comechè li forzi egli di ceſſare la
fellonia, con dir, che Galieno non faccia men zion del falaſſo altrimenti nella
terzana ſemplice, ed altri moltiſſimi eſempli vada ei rapportando: queſto però
è un volere ſaldar la piaga con pannicelli caldi, direbbe lo’nfa rinato della
Crusca, ed un'aggiugner colpa a colpa, fallo 2 fallo, in modotale, Che non
l'avria Demoſtene difeſo; imperocchè vien'egliin sì fatta guiſa ad accufare il
maeſtro di contradizione, o di poca fermezza almeno, il che affai monta in
faccende di così gran rilievo.Ne men moſtra,che molto fedel ſia di Galieno il
Pereda, colà ove dice: Mul ti fequuti Galenum lib.VI.derat. vict. in morb.
acut. in by dropeanafarca ex fuppreſiunemenfium, d hemorrhoidibus, autalia
plethoricaaffectione orto,quando incipit fecant ve nam, quod difficillimum
nobis videtur,immo falfum, quia in hydrope jecur maxime refrigeratū eſt, do
funguinis misfio ex accidéti refrigerat.E finalmétericordevole d'eſſer
filoſofo, d'esſer medico, d'eſſer libero, a viſo aperto dice altra volta il
Pereda, favellando d'un luogo d'Ippocrate malamente, ſecondo lui da Galieno
ſpiegato; quem locūzignofcant mihi ejus manes, Galenusnon recte explicuit.
Stefano Roderigo da Caſtello, Portogheſe,celebre lettor nella famoſilli M 2 ma
ſcuola di Piſa, nei libro de Meteoris microcoſmi, ove ſommaméte proneggia
d'effer medico, e filoſofante libe ro, dapoi ch'egli ha commendaro Ariſtotile,
che ne ha laſciaci credi del ſuo libero filoſofare, forte ſgridando co loro,
che voglion ſempremai gir carpone collo inge gno, e farti ſervi d'altrui, così
favella: fed quotus quiſ que eft, qui hanclibertatem velit? Proh dolor, ingewa
phi lofophia ſervos parit: ed altrove: ego vero quid antiquiores fenferint parü
ſollicitus, &nulli ſedia addictus.E poco ap preſſo:Neotericorú inventa, fi
qua mihi arrident, amplector, quæ difplicēt relinquo.Chiama egli più d'una
fiata Galieno negligente, duro, oſtinato, caparbio, protcryo, e catti vo
filoſofante; e cotanto allontanoſſi dalla dottrina di Ga lieno il Roderico nel
menzionato volume, che vennnea formare un novello ſiſtema di razional medicina.
Il celebre fra'GalieniſtiSpagnuoli Andrea Santacroce, quante volte, e quante
all'opinion di Galieno, e d'altri an tichi, o non bada, o non cura, o talora lc
fpregia? Noil dic'egli una volta: mihi fufpe &ta eft Galeni doctrina; ed al
tra volta motteggia il medeſimo, perch'e'malaméte ſpiega un teſto d'Ippocrate
có dire:frigida explicativ; ed altra fia ta ripigliádo có viſo d'armi
Galieno,nó dice, ch'egli a tor to ofa cacciare Ippocrate, come colui, che non
intera mente aveſſe aflegnate le cagioni della debolezza delles forze nelle
malactie: eccone le ſue parole: Hippocrates elio modo, & forfan clariori
caufas debilitatis nobis propo fuit, quamvis Galenus illumfine ullo fundamento
repreben dere aggrediatur. Ma quale oggidiaperto campo, e libe ro nello Spagne
tutte a' medici lia dato da potere agiata mente perciafcuna fetta ſcorrerc,
affai fie manifesto a chi pon mente alle parole framezzate nell'opera del
medico della Regal caſa Gaſpar Bravo, valoroſo, e forte cam pione della
doctrina diGalieno: e fono le ſeguenti: liens Non eft conformatum à natura, ut
fit receptaculum bumoris melancholici redeuntis è jecore, quod Galenus, &
reliqui dugmarici antiqui illi ſubſcribentesfinem pracipuum quare fuerit lien à
natura conformatum ignorarunt; quod Galenus in ina in infantis anatomes non
potuit circulationem fanguinis, cu motum percipere. E in priina, di Galieno
medeſimo avea già detto:fiabſolute velit interdicerefanguinis miſionem in
pueris, non ftandum ejus doctrine. Senzachè volen tier coſtui ad alcuni novelli
trovati dà piena credenza, fi come all'aggirarli del ſangue, ed alle vene
latree, e ad al tri molci diviſi moderni; perchè ragionando d'Arveo, così
manifeſtanente dice: quod Haruei doctrina, ſi vera,non ob ftat, quod nova, ab
illo noviter dicta, quia in naturali busnon tam quis dixit, quam quid dixit
examinandun. O faggia veramente, e prudentiſſima ſentenza, e degna d'un vero
filoſofo, degna d'un vero medico, degna d'uns vero, ed avveduto diſcepolo
d'Ippocrate, e di Galieno ! E che direm noi o Signori dell'Accademie tutte
delle Spagne, da quella di Valenza in fuori, la qual ſola, eco ſtantemente di
non dipartirſi giammai in coſa niuna dal ſuo Ippocrate, e Galieno ſi da vanto?
Coſtoro certamen te han ſeguito ſempre, cſeguon tuttavia per ſolo titolo i
medeſimi Greci maeſtri; ma in verità quanto poi da loro nell'adoperare
dilunghinſi, non ſi può egli bastantemente narrare. Eben'avviſollo una volta il
teſte mentovato Ga lieniſta Andrea Santacroce, il qual dopo aver due luoghi
delluo Galieno recati, ove coluidice, che ne’troppo fred di, o nc'troppo caldi
tépi non ſi debba a niun partito cavar ſangue, avvegnachè grave, e di riſchio
ſia la malattia,e l'infermo freſco, e giovine, c ben’atante della perſonas
foggiugne inanifeſtamente poi: certe qui hæc legit,quomo dotempore Eſtivo,
&in ifta tam calida Matriti regione,pre cipue hoc anno, tam audacter mittit
fanguinem? quid mira quod multi interierint, ut dicitGalenus? fed quid mirum fi
tantum aberrent multi, ut mittantſanguinem folius refri, gerationis gratia?
Malaſciādoci omai addietro le Spagne,valichiamo pu., rca ragionar della Frácia,
nella quale avvegnachè la oſti natiſfiina ſcuola di Parigi aveſſe col
Quercetano tutt'altri Chimiciperſeguitati, e banditi, non fù ella poi così fal
dase coſtante, che non abbandonate talvolta, ed aper tamen 94 Ragionamento
Secondo tamente non rintuzzaſſe la ſcuola d'Ippocrate, e di Galie no;
imperciocchè da’ſentimenti di coſtoro, quanto al fat to delle purgagioni, e del
ſegnare, e d'alcune altre core di lieva alla medicina appartenenti, tanto, e si
fattamen te fi dipartono, e s'allontanano, che più non farebbero p avventura i
medeſimi liberi, o vaghi mcdicanti; il che pienamente ſi può per ciaſcun
comprenderedall'opere de più famoſi medici di coral nazione. Ne permio avviſo è
da logorar punto di tempo in far parole del famoſiſſimo Rondelezj; eſlendo
purtroppo manifeſta la libertà, con cui egli imprende a vagliare, ed a riprovar
l'antiche opinioni, e produrre in mezzo, e ſtabilir le novelle, dal propio inge
gnioritrovate. No meno è gran fatto da prender cura di porre in chiaro quanto
il dottiflimo Valerioia îi moftraſſe ſempremai fido amatore, e difenſor della
verità,le cuilo di di celebrare, ed innalzar fino alle ſtelle non è mai ſtan ca
la ſua eloquentiffima penna; oltremodo commendan do altresì Galieno, perciocchè
ancor'egli per amor della verità avelle più fiate fronteggiato il venerando
macſtro Ippocrate; eſſendo egliciò ben conoſciuto a chiunque l'o pere
diluiabbia rivolte. E oltre a ciò quanto il medeſi mo Valeriola ſenza alcun
ritegno ove gli ſia in concio ad Ippocrate, ARISTOTELE, e Galieno faccia
contraſto; palesí do ſenza riſpetto, quanto ſoventemente,l'un detto diGiz lieno
l'altro annulli, ſpezialmente colà, ove ſi briga di vo lere ſpianar la facoltà
dell'orzo, o dove ragiona filoſofan, do dell'amaro ſapore, e tutt'altri
fallimenti di lui, qualo ra gli vengan conoſciuti, non laſcia con generoſa
libertà di ſvelargli, e ripigliargli. Ma non potrei tacer'io dell'elegantiſſimo
Fernelio, il quale, comeche foſſe motteggiato dall'Italico Galieno Aleflandro
Maſſaria con quelle pungenti parole: fummus cum ratione hic vir ſuo libro
titulum inferipfit, Ferneliime dicina; namque fi totam illius inftitutionem,
omniaque dig mata diligenter animadvertas,ea majoriex parte juntite ejus
propria, epeculiaria, ut prope fint nullius alierius:pur decegli, non ſolo gran
lume della riſtorata cloqueaza Ro mila, 1 mana, ma ſovrano pregio dell'arte
della medicina eſtimar fi; perchè credendolo proverbiare il Maſſaria, il vennes
anzi a commendare, che nò; imperciocchè, fe ad altro, ch’a ricercar nuove coſe,
e per alcun'altro non mai prima tocche ebbe il Fernelio l'animo tutto, e'l
penſier rivolto, per certo, che egli fi fe in tal guiſa conoſcere per degno
imitatore, anzi einolo d'Ippocrate, e di Galieno. Ma forſe il Maſſaria non
riguardò punto a quelle parole, le qualiil Fernelio,antiveggendo,che delle ſue
novità ſareb be per alcun da eſſer tacciato,nelprincipio del ſuo vaghiſ ſimo
volume laſciò ſcritte; la dove egli con sì efficaci, e convincenti ragioni,
econ sì maraviglioſa facondia, la fua cauſa difende, che più non farebber per
avventura, o'l fottiliſſimo Demoſtene, o l'eloquentiſimo Tullio; le qua li per
eſſere ſoverchiamente lunghe qui io non rapporto; ma non gia tacerò lo
quell'ultime ſue parole, colle quali maravigliando egli de famoſi trovati
dell'età fua, così al tamente favella:nihilvere docto illifeculo debet hæc invi
dere. Dicendi ratio, fummaqueeloquentia nunc paffim flo refcit, philofophiæ
genus omne excolitur:m:ufici, geometra, fabri, pictores, architecti,fculptores,aliiquc
artifices innu merificmentis aciem extulerunt, ut artes quique ſuas pre claris,
magnificiſque operibus exornarint, quevetuſtioribus illis uno omnium ore
celebratis nihilcedant. Neque inven tis folum ornamenta, e incrementa adjunxit
temporum ex curfio, fed &artes novasprotulit,ad quas priorum nunquã,
velingenium, vel induſtria penetraverat. Quindi ſieguo egli a raccontar delle
bombarde, delle ſtampe, delle bof fole da navigare, e d'altri maraviglioſi
ritrovati de'tempi addietro; e intorno al navigare ſi vanta ſommamente d'a
vervi anch'egli fatta la ſua parte. Mao quanto più il benz parlante Fernelio
com menderebbe la noſtra età, fe vedeſſe a' dì noftri di nuove, e più
maraviglioſe pro ve la fperienza accreſciuta, e ſempremai ritrovarſi da gli
ingegnoſi moderni, o le carrette a vela, o le trombe parlanti, o le lanterne
magiche, o i teleſcopj, oimicro ſcopi, o le tante, e tante, e sì
maraviglioſeforti d'oriuo J ligo li, o i varj, e varj, e non mai poſti più in
opera ſpecchi co cavi,che repentemente liquefanno anchei metalli più du. ri: o
le Pitture, che apparir fíno a’riguardáti, Protei di mil le forme le colorite
telc: o con qual arte da guerra infra brieve ſpazio di tempo in terra ſi
gettino le Cittadelle, ultimo rifugio de’vinti, & ultimo ſtento
de’vincitori: e co me dall'acceſe bombarde li mandi ſoccorſo alle caden ti
fortezze, traendo argomento di ſalute da’medelimi ſtrumenti d'offcfe: 0 come a
diſpetto quaſi della natura ſi poſla forc'acqua francamente navigare. E come
egli au rebbe aggrottate per iſtupor le ciglia in avviſando altreer ranti, ed
altre fille non mai più vedute Itelle, ed altri, ed aleri movimenti, oltre a
quegli già per l'addietro conoſciu ti nel Ciclo dagli antichi. E che aurebbe
egli detto dell' Elatere dell'Aria, de' Barometri, delle Termometre, e degli
ſtrumenti del vuoto, in cui non rimane ne men pic cio iſlimoacomo d'aria? Eche
de’nuovi, e maraviglioſi uſi della calamita? e che del trasfonderli del ſangue
e di cotant'altre prlove, che commendevol tanto rendono, e amipirabile l'età
noftra. Certainente con maggior mara viglia egli ſclimato aurebbe, e con onta
pur degli inutili e pecoroni parreggianti: fi omnem laborem pofteri collocaf-,
fent, ut eas folum artes, diſciplinas exædificarent, qua rum fundamenta priores
jecerant, nunquam tam multa di fciplinarum copia creviſet. Si qua in veterum
mentem non venerant, juniores non aperuiſſent, neque illorum induftriam fuis
vigiliis excitafent: nova ingeniorum lumina minime lucefcerent. Ma e'l Fernclio,
e tutt'altri autori Franceſchi prima di lui, quanto al filoſofar liberamente
poſſon ceder tutti la maggioranza a Lorenzo Giuberti nobilillimo lettore
nell’Academia di Mompelieri; il quale dopo ellerli oltre modo lagnato de
gravioltraggj, che per opera d'Ariſtote le han villanamente molti degli antichi
ſavi patiti, haven do colui si fittamente i lor ſentimenti inviluppati, e {tra
yolri, che s'eglino pur ci ritornaſſero, non più, comopro pi lor parti ravviſur
certamente gli potrebbero: indico 4 1 1 4 silog. sì loggiugne. Hinc res eò
miferia tandem reducta fuit, ut quum maximophilofophurum damno aliorum
commentaria periiſſent,in iis nullo refragante poſteritas tenaciffime inhee
Jerit, ea tantum vera eſe ſibi perſuadens, quæ fine contro verſia
proponerentur. Quindi egli con animo libero, e fin loſofico, dinon dover ſenza
minuta conſiderazione laſciar fi trarre a gli altrui pareri,manifeſtamente
proteſta: avve. gnachè ſian quelli pure diGalieno medeſimo, dicuiegli così dice.
Hec dum animadverto,non poffum non illius quo que dicta exactiusperpendere, de
pleriſque dubitare: ut diligentiore facta inquifitione veritastandem (abfit
invidia dicto ) eluceſcat. La qual faggia libertà, dice egli, da cia ſcun
doverſi ſommamente ſeguire,tra per l'utilità, che ol tremodo ſe ne ritragge, e
per l'autorità de'letterati più prodi, ed in iſcienze più valoroſi, che ſempre
glorioſamé te l'han ſeguita; de'quali egli fa un brieve, ma ſcelto ca
talogo,arrollandovi anche in fine l'avvedutiſſimo Gugliel mo Rondelezj, e
ſommamente commendandolo. Ma non ſolamente Lorenzo Giuberti nel ſoftener la fin
loſofica libertà moſtrar volle la ſua maraviglioſa coſtan ża, anzi non pago di
ſe medeſimo d'imprimere, e propag ginar sì nobili ſentiméti anchenegli animi
de' ſuoi ſcolari ſommamente ſtudiosſi. Perchè un diloro ebbe già quell'e
legantiſſima orazione, che oggidi ancora vien da'curioſi con maraviglia
guardata; e nella quale dopo aver colui có forti, e valevoli prove ſaggiamente
la ſua ragion difeſa, la gran forza ſpiegando della verità, dice, quella ſola
la greca filoſofia a cotant'altezza aver potuta condurre,e por l'ultima mano
alla latina eloquenza: e da quella ſola ani cora eſſer la Criſtiana Religione
introdotta, e ſeminata in Europa: e cô la verità medeſima aver fatto capo a
Socrate ache Platone; e côtro Platone poi eſſerſi armato ARISTOTELE; e
nell'Italia gran tratto dagli Aſiatici aver ſeparato CICERONE. E fu opera anche
della verità il replicare appreffoi Criſtiani Paolo a Pietro, e opporſi
Agoſtino a Cipriano; e altri molti eſſerſi per ſola vaghezza di quella l'un
l'altro perſeguitati. Quindi rivolgendo il ſuo ragionamento a’ri N gidi, e
ſuperſtizioli barbafforidi quella ſcuola rancida, che più le viete anticaglie
degli ſtolidi maeſtri, chela nuova, e pur mo nata verità ſcioccamente pregiano
così ſoggiugne. Et paganorum quorundam (cioè a dire d'Ippocrate, e di Galieno )
memoriam ſuperſtitiosè coletis? eorum nomina tam aniliterperhorrefcetis, ut à
falfifſimis quorundam decretisnon poffe quemquamfine nefario ſcelere deficere
judicetis? Ma non comporta il tempo, che più avanti lo ne rapporti, comeche per
tutto quel libbricino vaghiſſime, ed ingegnofiffime coſe ſparſe vi lieno: ed a
cui caglia di leggerlo forſe non rincreſcerà. Di tanta, e sì valevol forza fur
le perſuaſioni, e l'au corità de'due valentiffimi maeſtri, cioè del Rondelezine
del Giuberti, che traendoſi dietro già tutta la ſtudioſa gioventù di Mompelieri,
da indi in poi in quella famofiffi ma Accademia fempre la libertà del ben
filoſofare è cam. peggiata. Ne con più ardente, e con più vigoroſo ſtile altra
ſcuola di Francia armolli mai a far teſta a quella di Parigi a pro della
Chimica, e del Quercetano, quanto la famofiflima ſcuola di Mompelieri: da cui
ſon ſempre uſci ti, ed eſcon tuttavia valorofi germogli. Che più? egli è táto
non chebiaſimevole,ma impoſſibi le a fofferire la fervitù delle Sette agli
ſtudioſi ingegni Franceſchi, che non che altri, macoloro, i quali la liber tà
in altrui ſommamente riprendono, come il Silvio, l'Ol Jerio, il Doreto, eiduo
Riolani, lor fa meſtieri, ch'a ' giurati maeſtri, o di naſcoſto ſi ſottraggano,
o manifeſta mente ribellino. Anzi (chi il crederebbe !) anche colui, ch’a
difeſa di Galieno contro il Vefalio sì fieramente ar moſſi, voi m’intendete o
Signori, io dico il rabbioſo An drea di Lorenzo, udite come pur ebbe a dire:
Ego enim hactenus is fui,qui nullius jurare in verba magiſtri aſſuevi, multa
prioribus ſeculisincognita, & diligenti noftra ubfer vatione animadverſa in
apertam lucem profero. Mala Lamagna, quantunque foſſe ſtata il Teatro,ovej con
Paracelſo da prima, e poſcia con gli ſcolari di lui ten zonaſſero i più
oſtinati difenſori degli antichi maeſtri: es quan Del Sig.Lionardodi Capoa. 99
quantunque ſurti vi foſſero, ed in quel meſcolamentoal ſchermo del lor
Galieno.v'aveſſer fatta puntaglia il Fuſio, il Platero, il Cratone, ed altri
acerbiffimi,e valorofi Gas lieniſti: nonpertanto ſono ſtati i Tedeſchi, de
France fchi medeſini nel filoſofar ſemprese nel medicare aſſai più
liberi,licome ne dan piena teſtimonianza Giorgio Agrico la, come colui, che in
trattando delle coſe minerali tante, e tante fiare va ripigliando gli antichi
maeſtri, e Taddeo Duni, il quale, tutto cheGalienifta, pur contro.il mede fimo
ſuo maeſtro Galieno, un libro partitamente compo ſe, ove nel procmio così
apertamente dice: Galenusquis dem amicus eft, & fcriptor antiquus, &
illuftris., vene randus: veritas tamen, & antiquior, & illuftrior, dve.
neranda magis.. E che direm noi di Geremia Triverio,di Felice Plateri, di
Corrado Geſncro, di Martin Rollando, e d'altri aſſai, ma più di tutt'altri di
Mattia Vnſeri.il qua le al ſuo Galieno apertamente ribellandoſi infra l'altre
una volta dice con efficaciſſime ragioni aver lui dimoſtro,andar Galieno
follemente errato nel filoſofare delle cagioni del. l'Epilellia: e che de' ſuoi
falli eredierano rinaſi gli oſti nati ſuoi ſeguaci, negli animi de'qualila
falla dottrina del lormaeſtro così tenacemente ſi trovava radicata, ut (per
dirla colle ſue propie parole ) Scirrum quamvis durum cia tius digeras, quain
inveteratam hanc opinionem àpuero con ceptam, ipfis è mente eripias. Ma quel
che maggiormente recar dee eglimaraviglia fiè, che imedeſiminimici,e per
fecutori del Paracelſo, eziandio i più fieri, ed acerbi anch'eglino talvolta
dalla loro annodata congiura mani feſtamente fi partono, come Felice Plateri,
Tomaſo Era fto, Giovan Cratone, Gaſparre Ofmanno, nimico il più im placabile,
che mai Chimici aveſſero ilqual tutt'altri medi ci, anche di ſua ſchiera,
intinto biaſimò, e ſquarciò, che afpriſfimamente da due diſcepoli di Galieno
anche funne ripreſo: l'un de'quali, che fù Daniello Orſtio, così pro verbiando
il motteggia: ad Hoffmanni modum, qui inftar anys rixoſe heroes medicos paſſim
fcurrilitertraducit; e l'al tro, che è Riollano il figlio, ſdegnato oltremodo,
di lui N 2 ſcri Tôo ferive: Hoffmannusnimis liberè, & licentiosè caftigat
omnes Medicos, utfolusſibiſapere videatur. Mainfra gli altri partiſſene ancora
Rinieri Solenandri filoſofo, e medico digran pregio, il quale coll' armi, dal
medeſimo Galieno un tempo adoperate, coraggioſaméte diféde la ſua ragione; e
dopo d'aver acculato Galieno de' falli p lui comeſſi nel libro de’séplici
medicaméti,così con tro di lui, e degli altri antichi maeſtri ſaggiamente ragio
na. Si in his medicina partibus, in quibus plus externi ſon Jus, experientia
valet, quam judicium, & ratio, tantū deliquerunt majores noftri, quid
credere debemusfactum ef feincæteris omnibus, quæ fola ratio, & ingenii ac
umen af Sequi, eperſuadere poteft? E che direbbe ora il Solenan dri, ſe vedeſſe
di già fatto palele al mondo, quanto G2 lieno, e altri Antichi,della verità
andaſſero lungamente er rati, in filoſofando dietro le parti tutte della
medicina? Ma non v'ha infra tutti i Tedeſchi Galieniſti, che de’detti del lor
maeſtro Galieno sì poco conto faccia, quanto, ſecon do, ch'io mi creda, quel
tanto celebrato ſeguace di lui Daniel Sennerto;del quale perciocchè e' fa
moſtra in ogni luogo d'eſſer libero, no fà meſtieri al preséte ch'io sétéza
alcuna ne rechi. Tanto ſolamente apporterovvene ciò, che egli in difeſa di ſe
ad Antonio Guntero ragiona. Semper novum (dice egli) Suſpectum fuit, antiquum
vero lauda tum; fed an jure ſemper, dubito; nam, quod nobis antiqui, olim novum
fuit: ideoque non tempore, fed rationibus opi niones affirmandæ funt, eæque
veriſimehabende, quæ cum natura, qua antiquiſſima eft', confentiunt. E poco avă
ti: multa adhuc in natura reſtant explicanda; & plurimas in ea ita obſcura
ſunt, ut magni etiam viripleraque vix de finire aufi fint. Ma non hà egliper
mio avviſo animo me no nobile, e generoſo del Sennerti, il famoſo Galienilta
Ollandeſe Giovan Antonio Lindeni intorno al giudicar li beramente, e fecondo
ragione,la verità delle coſe, ſenza eſfer di vaſallaggio alcuno. Coſtui infra
gli altri ſuoi li beri, e memorabili conſigli, una fiata ragionando di Ga lieno,
e avviſando in quante beſtemmie, cd empiezze foſſe coluinelle ſue dottrine
ſtrabocchevolmente caduto così eſclama: Quid eft abnegare Deum, fi hoc non eft?
fi enim iſta non poteſt, ne quidem Deus eſt? alla fine contro i parteggianti di
lui ſtizzoſamente prorompe: &hic eſt illes homo,cui non aſſurrexiſe
grandenefas eft? cuique contra dixiſſe mortale peccatum eft? E altra volta così
del ſuo mae ftro Galieno ragionando: Galenus (diſſe ) magnus eſt, & fuit,
&erit; non tantus tamen, quem patiar libertati med fibulam imponere in iis,
qua meliori ratione, atqueexperiêm tia certiore habeo comprobata. Ne men del
Lindeni maa gnanimo, e libero fu quell'altro Galieniſta parimente Ol landeſe
Zaccaria Silvio; intanto che non laſciandoſi tra ſcinare,ma ſolamente condurre
a reverendi ſentimenti del maeſtro, ritroſo, e reſtio, ſovente a quelli
ricalcitra;e tra viando dagli antichi ſentieri, per nuove, e non uſate vie
s'argomenta talvolta, comechè poco felicemente, d'ag giugnere alla verità.
Priorum veſtigia (dice egli) omnia premere, & eaděſemper inculcare ridiculū
eft.E no guari ap preſſo: Pigri eft ingenii contentum effeiis, quæfunt ab aliis
inventa, fiquidem mentis acrimoni: nihilnon humanarum rerum ſubjicitur.
Perciocchè ficome egli medeſimo ra giona, non è la medicina, o la filoſofia
così ſtretta, così anguſta, e di sì poca ſpazioſità, che di preſente dagli an
tichi primi macſtri ſi foſſe potuta ingoinbrar tutta, ſenza laſciarne ſpanna
altrui; ne così manifeſta, e ſviluppata, iz ciaſcuno è la verità delle coſe
chei primicri inveſtigatori di quella aveſſero avuto ventura di prenderla
liberamen te ſenza gli argomenti di cotante ſperienze; e giugnendo primieri
alla gloria vincerla ſolamente della mano; veri tas, fù ſentenza di lui, in
multo altiorem demerfa puteum eft, quam utpaucis inde extrahi poſſit feculis.
Énel mede fimo ſentimento fu certamente ciaſcun'altro medico, fi loſofante di
Ollanda; c Io ne potreiquì rapportare infini te teſtimonianze, ſe non che io
temo per avventura di ſo verchiamente ſtuccarvi colla mia lunghezza. Ma non
poſſo perciò tralaſciare a dire dell'ingegnoſo filoſofante, e medico
de'ſuoitempi Giacomo Bacchio; il qual veggens е doſi da' ſentimenti, e dalla
ragione perſuaſo,anzicoſtret to, e vinto a confeſſar l'aggiramento del ſangue,
niente curando,ch'una tal dottrina non l'aveſſc egli apparata da' volumi degli
antichi maeſtri, sì volentieri la ricevette, e intanto l'abbracciò, che
conchiuſe alla fine doverſi quella in diſpetto degli oſtinati Galieniſti tutti
ſeguire,ſe ben l'or dine tutto dell'antica medicina aveffe foſſopra a ſconvol
gerſi, e andarne a fondo; perciocchè ſecondo un sì nuovo diviſo in aſſai coſe
fi riformerebbe la medicina, e in mi glior filo certamente ſi metterebbe. Sic
contingit, oſſer vò egli, concefo, ftatutoque ſanguinis circulatorio motu,in
numera veteris doctrina fiatuta inverti; unde totus docendi ordo turbatus
præpoſtere, & fine certa methodo, & doétrina omnino confuſe inſtituitur,
addiſcitur; quam pofitioni bus cashenatim cohærentibus, &certo ordine
inſtructis ſia biliri decer. Ma che direm poi del medicar della Lamagna, il
quale, da queldella Francia poco certamente s'allontana? ſe non fe i Tedeſchi
aſſai più de Franceſchidi ſegnar ſi ritengo no; e intanto l'abborriſcono, e ne
ſon ritrofi, che deter minatamente giudicano, i Salaſli mai ſempre eſer danne
voli, e ſconcj, e ſe non altro alla per fine menomandone gli ſpiriti,
raccorciarne miſerabilmente la vita. No lo mi prenderò quì punto briga in
provarvi quanto i Tedeſchi ſien filoſofi, emedicidabbene, e amatori della
verità, no appiccandoſi oſtinati, e provani a Setta niuna; ed egli ſiè ben
manifeſto a ciaſcuno, non più fortemente altronde che dalla Lamagna eſſere
ſtato dimentito, e ricreduto più fiate de'ſuoi errori Galieno. Ma non men
libera dell'altre nazioni fu la gran Bretta gna in non yolermai tenacemente
appiccarſi a' ſentiinenti d'Ippocrate, e di Galieno, o d'altri antichi medici,
ſenza in prima lungamente abburattargli, e porgli allo ſquitti no delle
ſperienze, e delle ragioni. E ciò agevolmente potrà comprendere chiunque
prenderaſli briga tanto qua to di rivoltarci tarlati, e polveroſi volumi
dell'antico Ric cardo, o di Giubetto, o di quelGiovanni, che ſopra tutti
manifeſtò i ſuoi laudevoli, e generoſiſentimenti in quel li bro mandato fuora
da lui, ſotto nome di Roſa Anglicana; e da cotant'altri antichi Inghileſi, a'
quali, comeduchi,e maeſtri del filoſofare, e dell'opere di medicina, piacque
anzi gli Arabi dottori, che i Greci maeſtri nelle loro ſcuo le ſeguitare. E più
allor crebbe, e avanzoſſi nell'Inghil terra la libertà del medicare, quando
pofta giù la ruggine di que'rozzi ſecoli, più preſſo a'tempi noſtri,per opera
de gļItaliani maeſtri, rinacquero quivi le lungamente ſepolte greche, elatine
lettere; perciocchè allorcertamente con maggior ſenno, e avvedimento ſi puotè
per valenti lette rati gareggiar vicendevolmente per la verità; e crebbe tă to
poi nella famoſa penna del Primeroſio, dell'Igmoro, e d'altri valenti
Galieniſti Inghilefi la libertà delloſcrivere nella medicina, che ſoverchio
ſarebbe il raccontarlo. Pu re non mi terrò di ſommamente commendar quelle famo
ſe ſcuole,onde ſi moſſe da prima l'incontraſtabile difeſa a pro dellaggiramento
del ſangue, la qual sì forte, e valo. roſamente Fiaccò le corna del ſoverchio
orgoglio al gonfio, e folle Pariſano, che vergognato, e ontoſool tremodo
divenutone, non osò il cattivello per innanzi far ne più motto. Ma chi mai
pareggiar potrebbe il valore del grãde Ar veo? ilqual ſgombrate da ſe tutte
paffioni di Sette, e di nimiſtà, intanto avvantaggioſſi colla ſua laudevole
liber tà ne'ſentimentipiù veri delle coſe, che nelle ſue glorioſe. opere così
par, che ſaggiamente ragioni: Io miſon forte fovente meco medeſimo maravigliato
di coloro, anzi tal volta hogli preſo a gabbo, i quali follemente s'avviſano
aver l'operc d'ARISTOTELE, o di Galieno, o d'altro più cele bre maeſtro cotanta
perfezione, e compimento, che nulla certamente lor poffa aggiugnerſi più di
vantaggio. Non è la natura delle coſe cotanto aprima faccia manifeſta che
compiutamente per huom’poſſa prenderſi, ſenza ben cutca in prima diſtintamente
ſpiarla. Ella ha i fuoi ſegreti na ſcondigli, a'quali non può certamente
aggiugnerſi, ſenza la 104 Ragionamento Secondo la guida di lei medeſima: e ciò,
che in alcune coſe confu ſamente, e inviluppatamente n'accenna, altrove poi
reſa. ne fedeliſſima interpetre, più diſtintamente, e manifeſta mente n’eſpone.
Perchè ſenza dubbio mal potrà giugnes re a diterminar coſa del mondo intorno
all'uſo, o alme ftier delle parti del corpo umano, chiunque in prima non
n'abbia ben preſo argomento da ciaſcun ' altro bruto ani male, e'l ſito
diligentemente, e la fabbrica, eicongiunti vaſi, e altri accidenti di quelli, e
delle lor parti conoſciu to, e l'uſo loro per pruova ſaputo. Et putabimus,
dirolla pure colle ſue propie parole, nihil prorſus commodi ab his
auxiliisfcientiarum nobis accedere; verum omnem plane fa pientiam à primis
ftatimfeculis abforptam fuiſe? Ignavia profeéto hæc noftre, haud naturæ culpa
eſt. Ma che non di ce egli, e quali ſaldiſſiine ragioni non apporta in concio
a' ſuoi liberi ſentimenti, o nella famoſiſfima lettera dirizza ta al Collegio
di Londra, o nel proemio del libro della generazion deglianimali? Pudeat, udite,
come all'alta impreſa del liberamente filoſofare ne ſtuzzichi, e ne ſpro ni il
magnanimo amator della verità: pudeat itaque in hoc nature campo tam ſpacioſo,
tam.admirabili, promifique majora femper perſolvente,aliorum fcriptis credere;
incerta indè problemata videre; &ſpinofas, captioſaſque diſputa tiunculas
nectere. Natura ipſa adeunda eft; & ſemita quă nobis monſtrat infiftendum.
Ma dalle nazioni ſtraniere, paſſiamo omai a narrar del. la noſtra vaghiſſima
Italia, pregio delle più belle lettere, e ricovero ditutte ſcienze; la qual
certamente, intorno alla medicina, oltre a gli Abbanije i Niccoli, c i Gentili,
e i Dini, ei Tomalli, e i Taddei, e i Ferrari, e gli Vghi, e i Girardi, e i
Platearj, e i Turiſani,e i Salvatichije i Giacomi da Forli, e i Mattei da Grado,
e gli Arduini, e i Montagnani, gli Arcolani, c i Zerbi, ei Savanaroli, e cento,
c millal tri avvedutiſſimi ſeguaci dell'Arabeſchedottrine: hebbe anche
Aleſſandro de Benedetti, e Matteo Curzio, e Gio van Manardi, e Giovan Battiſta
Montani, e Antonio Mu fa Brafavolo, c Nicolò I.coniccni, per tacer d'altri
molti, a’quali più di ciaſcun'altro per avventura piacque le doe trine
d'Ippocrate, e di Galieno fominamente ſeguire. E pur veggiam talvolta effer
coſtoro manifeitamente, trali gnati dalle reverede dottrine de’lor carimaeſtri,
e in mol te, emolte coſe, che a grado lor non furono, avvegna chè di non poca
conſiderazione,loro apertamente contra-. ſtare. Ne reco Io già al preſente per
teſtimonio del mio ragionaméto Gabriel Fallopio, ne il Trincavelli, ne il Mer
curiale,ne Ercole di Saſſonia,ne Girolamo Capodivaccas ne Orazio degli
Eugenj,ne Ceſare Magati,ne altri, e altri avvedutiſlimi medici, e filoſofi
commendati ne’loro tempi, c pregiati allai. Solamente ricorderò le glorie del
famo fiflimo Giovanni Argenterio, e cotant'altri loro valoroſi ſeguaci, e
imitatori; i quali traſandate le leggi, e le ſtret tiifime mere degli antichi
maeſtri, ſcorſero liberamente perlo gran campo della medicina, ſenza appiccarſi
molto tenacemente, ad Ippocrate, o a Galicno,comechè Ippo cratici, e Galieniſti
eglino li foſſero. Ma cometutt'altri, e in dottrina, cin chiarezza di fama
avanza di gran lun ga queltanto valoroſo, ed eccellente ſcrittore Girolamo
Cardano, così a niuno certamente egli cedede Galieniſti medici Italiani nella
gloria del liberainente filoſofare.Egli a niun pregio tenendo maeſtro alcuno, ſolamente
s'affa. tica, e ſi ſtudia per la verità, e non ha quaſi facciuola nel le ſue
opere, ove egli non ſi vegga oftinatamente conten dere col ſuo Galieno,
prendendo cagione tratto tratto d ' accoccargliela, e manifeſtamente
biaſimarlo, intorno alla maniera del ſuo filoſofare, e del ſuo ſcrivere, e del
porre in opera il ſuo furbeſco meſtiere; infra le quali non mi par da dover
tralaſciare quel che in un de'ſuoi libri, di lui narra, dicendo eſſere ſtato
colui prima Cerulico: e che in ciò pure non molto tempo, e ſtudio logorato
v’aveffe,ac ciocchè al colino di tal meſtiere ne foſſe dovuto formota re. E
delinedeſimoGalieno altra volta forte biaſimando ſi, dice ſoiainente eſſere
ſtata cagion di cotanti ſuoi errori, e fallil'effer egli riſtato in sù gli
arzigogoli dello ſpecula re, ſcnza diſcender giammai all'operare, e ſenza far
prìo O va delle ſue mal credute dottrine: Caufa errorum in medi cina eft, quod
quicontemplantur, non medentur, ut Galenus, Paulus, & c Princeps, & hodie
omnes medicine profeſores; ideo (avvertimento ben degno da dover far faldiffima
im preſſione ne’noſtri medici) loco regularum, &dogmatum fcribuntfomnia.
Mayperchèa far parole del Cardano ci ſiam condotti, e'nó mipare di dover
tacere, quáto nella ſchicttezza,e bo tà dell'animo, e nell'amor della verità
egli lungamenteve Galieno medeſimo,non che altri ſi laſciaſſe addietro; per
ciocchè biaſimando oltremodo la malvagità, e la caſtro naggine de' teſtereccj,
émalandati parteggianti de' ſuci tempi,infra l'altre, cosi una volta
ſtizzoſamente gli pun ge, egli beffeggia. Demiror, dice egli, credulitatem, de
mentiam, & impietatem medicorum noftræ ætatis, quorum aliqui eo deveniunt,
ut cbliti omnis humanitatis, maline perdere homines, utferviant pertinaciæ,
quam revocari, a eosſervare. E oltre a ciò vaegli conſiderādo intanto giu gner
l'oſtinazione, e l'affetto degli accieciti parteggianti, che riguardando alle
dottrine de’loro cari maeſtri, non che a capital niuno la verità teneſſero,
anzi l'anime loro medeſimc non curando, foventi fiate il diritto delle divi ne
leggi, e delle naturali traſandano: cdeo ſectis, grida egli pictoſamente
piagnendo, addicti ſunt, at nec immor talitatis aninorum,nec præceptorum
philofophiæ reſpectus ul lus eos teneat. Machirccherammi amcinoria tutti
gl'infelici, e com paſionevoli avvenimenti, i quali dalla mellonaggine,dalla
pertinacia, dall'ambizione,dall'avarizia, e dalla malvagi tà de'cattivi
parteggianti tratto tratto ſeguir ſogliono, che egli lungamente va diviſando:
Eglino ſempre oſtinati ncl le loro fanciullaggini, non che foſſer giammai da
tanto, che guarir ſapefiero alcuna malattia diconſiderazione;an zi fovenci
volte si, e tanto operano colle loro trappole, che ne tolgono la voita aʼmedici
più valoroſi. E ſon pur così ribaldi, e ſcellerati, che sfregiando colle loro
opere il digniffimo nome di Criſtiano, e laſciata affatto la pietà, cla ! e la
carità unico patrimonio de'ſeguaci di Criſto, tuttiaya: ri, e ambizioſi,ſi
veggono,ſolamenteiricchi, ei nobili am. malati viſitare, e i poveri, e
miſerabili, dalla fortuna ab. bandonati,dopoaverglilungaméte ſpolpati, o
affatto non curare, o ſe pur vi vanno frettoloſi, e ſuperbi, come vili
giumenti, o come altri bruti animali crudelmente trattar gli. Del quale
graviſſimo misfatto certamente la cagioa ne ſi è il lor Maeſtro Galieno, da cui
eglino tutto apparā doprendono ancora ad eſſer oltremodo ambizioſi, e avari.
Hujus tanti mali, ſono le parole propie del Cardano, au tor fuitnofter Galenus,
qui nil ubique jactat, niſi proceres, atque Imperatores; quum tam juveniseffet,
ut ambitione, inani nomine potius, quamartis peritia eis innotuerit. Nc oltre a
ciò tace il Cardano l'aſture frodi di que'Vol poni maeſtri, i quali a perpetuar
la lor tirannia,agl’ingan ni, alle millanterie, alle beffe, all'aſtuzie, aile
giglioffe rie gl’innocenti ſcolari tratto tratto avvezzavano. E di tanti
misfatti, e ſcelleratezze'non laſcia d'accagionarne ſopratutto le perſone
nobili, e d'alto affare, i quali per ciocche delle coſe del mondo, e della
natura poco, o nulla ſi conoſcono, non laſciano a ciò porre acconcio compen ſo,
ficome certamente dovrebbono; anzi intanto giugne la lor biaſimevole
dappocaggine, chc in luogo di ricercar ne'medici profonda dottrina, buoni
coſtumi, intendimen to di linguaggi, avvedimento grande, ſcienze alla medi cina
appartenenti, pierà de gl'inferini, antivedimento del Je future cole, ſperienza
delle cure malagevoli, conoſci mento delle matematiche, ripoſo di mente, amor
di glo ria, che naſca dal ben operare, diſpregio d'altre coſe ſol lazzevoli, e
ardente diſiderio d'apparare; vi richiedeva no orrevoli veſtimenta, aſpetto
grazioſo, viſo piacevole, adulazion di parole, abbondanza d'ammalati illuſtri,
e grandi,magnificenza di ricchezze, e cento, e mille altre ſo miglianti vanità.
E ben gli parve, che meritevolment, coſtoro ne portaffer poi la debita
penitenza, omorendo ne loro i più cari parenti, o ſtandone eglino medelimi ſem
premai ſparuti, c triſtınzuoli, e cagionevoli aſſai dell i perſona: diuturno
cruciatu protractorum per longumtempus morborum: per rapportarvi omai alcune
altre delle ſue pa role medesime,che mi ſovvengono: preterea fiderationum,
debilitatum,quæ poft fanationem illis relinquuntur; avs vegnachè affatto non ſi
vedeſſe Gir del pari la pena colpeccato, mal capitandone non pur
eſli,magl’innocentiloro figliuo li, e amici. Ma troppo piacevol coſa è a
ſentire ciò, che finalmente egli contro i medici de'ſuoi tempi narra, i quali
baldanzoſi, e tronfi liberamente ſcorrendo a lor talento per tutto, e
abborrando, e malmenando la medicina, co (trignevano alla fine i cattivelli
infermi, che male a lor uopo nelle lormanicapitavano, a pagare a ingordiſino
prezzo i rimedj, e talora anche la morte; facendo eglino ancora forſe la lor
mano negli ſtrabbocchevoli guadagni degli ſpeziali.. Ma, che direm noi di
Giulio Ceſare della Scala digniſ fimo medico de'ſuoitempi. Egli comechè
fieriſlimo ne mico foſſe del Cardano, e s'argomentaſſe a ſpada tratta
dirimbeccarlo quaſi in ogni parola; intanto, che ne pur la loro oſtinatiſſima
nimiſtà Ha diſciolto colei, ch'il tutto ſolve. Atque ut etiam nunc poſt cineres,
dice coll' uſata elegan za il noſtro Severino.ſtridēt in ævum ab ipfis exaratæ
chara te; non però di meno, ove ſol ſi tratta della libertà della filoſofia, e
di non laſciarſi dictro gli antichi ciecamente traſcorrere, allorcertamente
poſto giù lo ſdegno, e’lli vidore ſon tutti di convegna a ritrarſi di
parteggiare, e far capo oſtinatamente alle ſette. Errata majorum, diſſe
generoſamente una volta Giulio Ceſare della Scala, diſi mulanda non funt, ne eo
ipfo pofteritati imponamus.E benſi valſe egli del ſuo avviſo, quádo
cruccioſamente diile d'Ip pocrate al Cardano: Tueris, atque profiteris nefandum
illud Hippocratis deliramentum, à quo non abfunt Galeni trepidationes, animam
nihil aliud eſſe, quam cæleſte calidum: avvegnachè ſenza ragione alcuna aveſſe
egli rimprovera to una volta a Galieno una sìfitta libertà, e ſtizzoſamé 1 te
bia. te biaſimatolo d'aver egli ſovente contraſtato IL REVERENDO ARISTOTELE; come
ſe graviſſimo fallo, c ſcelleratczza ciò ſi foſſe: Galenus avidiſſimus,dice
egli, carpendi longe de meliorem; in quella guiſa appunto, che quel nobile Ga
lieniſta Giulio Aleſſandrinovoleva, che ſolamente all'Ar genterio foſle vietato
il por mano all'opere degli Antichi per ammendarne gli errori; della qual coſa,
non ſenza gran ragione per avventura forte fi biaſimail Solenandri, così
rimproverandogli: Verum fateris,antiquiores fcripto res erraſſe, concedifque
aliis omnibus, qui funt ingenio, em judicio aliquo prediti, ut poffint ea
reprehendere, quæ ma lè funtdieta, &meliora tradere: foli Argenteriohanc li
centiam adimis. Ma prima delCardano, e di Giulio Ceſare della Scala, per
ripigliare ilfil del noſtro ragionamento, grandiſſimali bertà ufar ſi vide, e
nelfiloſofare, e nello ſcrivere un'ala tro valent'huomo nelle inatematiche, e
nella filoſofia, e nella medicina aſlai bene fcorto, ed cſercitato; perchè
meritonne d'eſſer'altamente pregiato, e onorato da quel generoſo favoreggiatore,
e intendente delle buone lette re Lione il Decimo, Sommo Pontefice. E fu
coſtuiGio vanni da Bagnuolo, il qual non mica pago nelle ſcuole d' averdato
ſaggio del ſuomagnanimo, e nobile ſpirito, no curante l'altrui autorità in non
poche concluſioni: e aven do fuor dell'uſo comune mandata avanti la Chimica:
coſa a que’tempirariſima, maſlimamente in Italia: volle in cc minciando un capo
diquel libro, ch'egli fa dell'ecliſſe del la Luna, più manifcftamente
proteſarlo, portando ſenti menti veramente da filoſofo ragguardevole, e di gran
lie va. Quoniam noſtri antiqui progenitores, dice egli,fcien tiarum inventores,
rationibus, experimentis, comperie runt ſcientias; veriphilofophantes ipfos
imitando conari de berent no perfiftere inventis,fed nova nature ſecreta
venari. Maquel famofiffimo medico, e filoſofo, e pocta de Verona Girolamo FRACASTORO,
avvegnachè da' ſervili fen timenti delle ſcuole ingombro troppo commendaſſe il
fuo maeſtro Galieno, e molto a capitale il teneſſe; non però dimeno, reſo
talvolta avveduto dalla verità, non ſi tiene, ove gli venga in concio,
d'aſpramente riinbeccarlo, e qua. to al fatto de’giorni critici rinfacciargli
ch'egli pur troppo ſcioccamente ponendo in non cale gl'inſegnamenti de’alo
ſofi, a'vani preſtigj degli ſtrolaghi ſia ricorſo. E oltre a ciò nelmedicare,e
nel filoſofare da'diviſamentidi lui ſi di lunga; come agevolmente ſi può veder
ne'ſuoi libri della fimpatia, e antipatia delle coſe, e della contagione, eins
altri luoghi; ma ſopratutti nel ſuo divin poema della Sifi lide, per cui huom
certamente crede, lui all'altezza del gran Marone eſſer’aggiunto, e che
tutt'altri poeti felice mente G laſci addietro. Nel qual poemacontro l'opinion
del ſuo Galieno va egli cantando, l'aria ſola di tutte coſe eller principio,
così manifeſtamente raffermando: Aër quippe pater rerum eft,
&originisauctor. E prima egli così del naſcimento delle coſe avea diviſato:
Principio quæque in terris, quæque æthere in alto: Atque mari in magno natura
educit in auras, Cuncta quidem nec forte una, nec legibus iiſdem Proveniunt, sed
enim, quorumprimordia constant Epaucis,crebro ac paſſim pars magna creantur:
Rarius aſt alia apparent, non niſi certis Temporibufve, locifve, quibus
violentior ortus, Et longefita principia: ac nonnulla prius, quam Erumpant
tenebris, &opaco carcere noctis, Milletrahuntannos,fpatiofaque ſecula
poſcunt Tanta vicoëuntgenitaliaſemina in unum. Quindi con l'uſata ſua eloquenza
della cagion de'mali di viſando, cosiegli canta Ergo &morborum quoniam non
omnibus una Nafcendi eft ratio, facilispars maxima viſu eft, Et faciles ortus
babet, &primordia praſto. Rarius emergunt alii, poft tempore longo
Difficiles cauſas, & inextricabile fatum, Et feropotuere altas ſuperare
tenebras. Ne men del Fracaſtoro al ſottiliſſimo Andrea Cefalpi. ni piacque
ſommamente levarſi ſuſo contro il ſuo maeſtro Galieno, e iſeguaci di lui,
prendendola oſtinatamente a favor d'ARISTOTELE, e de'Peripateticiin LIZIO ciò,
che da coloro dipartonſ i Galieniſti; ſenzachè egli è pur troppo mani feſto a
ciaſcuno eſſere ſtato primiero il Cefalpinia ſcoprir glorioſamente al mondo
l'aggiramento del ſangue:tutto, che parer poſla ciò, che moltoprima di lui
aveſſe fatto Pla tone con quelle parole: Μέγιστν δε όταν α'μαι καθαρά
συγκερασθείσα, το τών ινών γένος, εκ της εαυτών διαφορή τάξεως. αι διεσπάρησαν
εις αίμα, να συμμέ Πρως λειότητος ίχοι και πάχους, και μήτε δια θερμότη ως
υγρών εκ μανού του σώματG- εκρέσι, μήτ' αυ πυκνοτέρον δυσκίνητον ον, μόλις
axaspécouto iv Cais Preti,che ſuonano in noſtra lingua: E maf. fimamente quando
(la bile )col puro ſanguemeſcolata,difor dina quella ſpezie di fibre,le quali
ſono ſparſe per lo ſangue, acciò ſia in eſlo una mezzanitate tra'l groſo, e'lſottile:per
chè mediante ilcalore non iſcorra per lo corpo,ficome ogni li quida cofa fcurre
perun corporaro, neſia troppo groſo, e difficile a ſcorrere, sì, che appena
poipoteſſe andare, eritor nare per le vene. Ma non poco certamente e' ſiparc,
che Santorio Santori, famoſo, e raggaardevol medico de'ſuoi tempi profittafleſi
in liberamente ſcrivere, non avendo ri guardo a ſetta niuna, per aver eglicol
Sarpi, e col Gali Jei un tempo ufato; i cui ſentiméti vollc cgli in molti luo
ghide'ſuoi ſcritti, come ſuoi propj diviſamenti manifeſta re, e ſpezialmente in
quel libro cotanto per ciaſcun com mendato, della Staticamedicina, comcchè il
più delle vol te male egli apprendendo le commendevoli dottrine di
que’valent'huomini, e alle ſue volgari ſconciamente me ſcolandole, fe ne
faceſſero le ſcherne gli accorti lettori. Maciò da parte al preſente laſciando,
non ſi può egli di leggier narrare, quanto da lui carminati, e proverbiati du
ramente foſſero i parteggianti tutti medici, e filoſofi; e quantunque volte gli
vien fatto loro l'accocca, rapportão do in ſuo pro varie, E MOLTE AUTORITA
D’ARISTOTELE, e di Ga lieno; di cui ſeguendo la traccia arditamente ofa afferma
re,alquanti Aforiſmi d'Ippocrate ritrovarſi talora dalla verità non poco
lontani: e molti, e molti errori ne'moder ni, e negli antichi ſcrittori
dimedicinaegli ravviſa: e non pochi anche ne ritrova in Galieno. Così
eglibiaſimando, e maladicendo oltremodo la follia, ſicome e'dice, di pa recchj
ſcuole dell'Europa, dice, che in quelle ſcioccamé te maggior credenza preſtar
ſogliaſi a L’ORREVOLE AUTORITA D’ARISTOTELE, d'Ippocrate, o di Galieno, che a'
ſentimenti noſtri medefimi; E PUR DICE EGLI ARISTOTELE MEDESIMO, Galieno di
comun conſentimento più volte affermare, ef ſer anzi alla ſperienza, e a'
ſentimenti, che all'altrui auto rità da dar fede. E poichè in concio al ſuo
ragionamento più luoghi di Galieno egli rapporta, così alla per fine con
chiude: Quare quum Galenus,neque meus fueritaffinis, confanguineus, aut majorum
meorum avunculus, quod ſciã, neque in Sanctorum catalogo fit collocatus,
quiafflatusdi vinitate fuerit loquutus, non video cur omnes non poffint
honorificè, fi fenfibusudverſetur, eum relinquere. Neè da tralaſciare al
preſente di narrare ancora del fa moſiſſimo Andrea Mattioli, il qual comeche
parzialiſſimo del ſuo Galieno, purc in più luoghi, della verità reſo ay veduto,
dice manifeſtamente, eſſerſi colui in leggendo Dioſcoride aggirato,e ſovente
non averne parola inteſo; e una volta infra l'altre non puotè ritenerſi di non
iſtizzo ſamente gridare: videtur Galenus non folum plurimum à Diofcoridis
fententia,ac hiſtoria aberraſſe, fedetiam à ra tione ipfa, acveritatelongè fane
abeffe. E oltre a ciò dice eſſere ſtato Galieno di poco ſenno,ein molti
luoghima nifeſtamente contradirli; ed eſſer egli ſtato nato a’ Poeti, c troppo
di leggieri alle loro vanillime fa vole aver preſtato fede, non altrimente, che
ſe ſtate foſſe ro incontraſtabili verità da raffermar con tutti i ſacramen ti
del mondo. Ma il dottiſſimo Proſpero Alpini in tutti que'ſuoi libri della
metodica medicina, avvegnachè ancor egli di parte Galieniſta pur altro
certamente non fa, ſe non ſe difendere i metodicida’mordimenti del ſuo Galieno,
e d'altri R.2 zionali medici; e ſpezialmente ove Galieno così ſconcia mente
carica di bialimi, e di maladicenze ATTALO famoſif troppo affezio fimo Timo medico
metodico, dicendo, che per opera di lui for fe ftato ucciſo Teagene filoſofo
cinico. Ma quanto poco capital faceſſe di Galieno, e d'altri razionali medici
il narrato Attalo, ſi può agevolmente comprendere dall'acerba riſpoſta da lui
data a Galieno;la qual coſtuipoſcia,come ſua sóma lode foſse, volle nell'opere
ſue laſciare ſciocca mente regiſtrate. E forſe fuella più ancor pugnereccia, e
di piggior talento, che egli ne racconta. Eche direm noi del valoroſo Girolamo
dall'Acquape dente digniſſimomaeſtro del grand’Arveo? Quante fiate ) egli,
comechè Galieniſta, pur da’ſentimentidiGalieno ra gionevolmente ſi diparte?
Quante,e quante fiate grave mente il proverbia, e riprende di ſciocchezza,
ed'igno ranza? Pure infra cotanti biaſimi, e rimprocci, ch'Io per brevità
tralaſcio, recheronne al preſente uno, che val per cutti, lagnandoſi egli forte
del tempo, ch'avendone tolte tutte le bell'opere degli antichi filoſofánti, ne
abbia ſola mente laſciate quelle d'ARISTOTELE, e diGalieno, como ſchiuma de
libri, e viliſfimo fondaccio di tutte le buone dottrine; eſſendo coloro in
molte, e molte coſe ſempre mai fallati; e ſpezialmente taccia Galieno diquella
folle ſua opinione intorno alla formazion della viſta. E intanto è vero ciò,
che noi raccontiamo, eſſerſi i va lenti Galieniſti pur talvolta per vaghezza
della verità al lor maeſtro Galieno ribellati, che maraviglia è a narrar come
Aleſſandro Maſſaria, cotanto oſtinato, e leal parteg. giante di Galieno,
pur’una fiata ponendolo in non cale, aveſſe oſato cavar ſangue nella
diſſenteria, comechè cer caſſe poi a ſua poſta didarne a vedere con
fievoliſſime ra gioni, eſſer ciò anche ſecondo il ſentimento del ſuo G2 lieno;
e'l celebre Settala ancor' cglicotanto fedel ſegua ce del medeſimo, pure
l'aveſſe fronteggiato, e ripigliato, 12, ove egli ragiona delle cagioni del
color glauco degli occhj; ed ove dice, che l'acque de'pozzi non fiano,me
appajano fredde l'eſtate più, che in altri tempi; percioc. che ſi toccano colle
mani calde; e che l'inverno al contra rio ne pajano calde, perocchè ſi toccano
colle mani food P dc.. 1 1 1 de. Ma quel,
ch'è più da conſiderare ſi è,ch'egli in un'in? tero libro riprova l'antico, e
praticato uſo di medicar le ferite, appigliandoſi ad un nuovo modo da
Ippocrate, e da Galieno non mai conoſciuto, non che adoperato. Ma troppa gran
briga fermamente lo mi prenderei, ſe recar qui ora voleſsi ciò, che ad uno ad
uno tutti gli ec cellenti, e famofi ſcrittori Italiani lungamente ne diviſino.
Chiudaſi adunque sì nobil corona colle parole del ſotti liffimo Pier Caſtelli,
il quale una fiata infra l'altre contro cotali pecoroni da greggia maggiormente
ſdegnato, così proruppe: An omnia novit folus Galenus? an nihilreliquit
pofteris inveſtigandum? Quo merito infudit illi uni Deus (quod alteri nulli)
totam, perfectam, &integram medici nafcientiam,nihil nobis reliquens? e
dopò molte graviſſime parole, che egli apporta a queſto propoſito, così alla
fine conclude: Patet boc, quia poft Galenum tanta medicinefa Eta eſt additio,
ut triplo auctam dicere poflimus. E si nobil costume di liberamente filoſofare
in medi cina,ben da molte, e molte fcritture publicate in iftampa, apertamente
ſi ſcorge, ch’abbian ſeguito a gara l'Accade mie, ond'è sì abbondevole, ctanto
fi pregia tutto il bel paeſe, Ch’Appennin parte, e'l mar circonda, e l'Alpe. Ma
io tralaſciando a bello fludio tutt'altre parti, ragio nerò ſolamente della
nobili: lima noftra Città, delle Sirene, e delle Muſe amenillima ſtanza, che
non pur nella gloria delle lettere, ma in ogni altra a niuna delle più celebri,
cd illuſtridell'Vniverſo riman certamente feconda. E laſciā do di favellar del
Belli, del Bozzayotra, del Tucca, e d' altri, e d'altri lettori diminor grido
oſtinatiſſimi ſeguaci, e parziali d'Avicenna: come potrò mai lo pienamente nar
rare co quanta maraviglia udiſfer già legger le noſtre ſcuo le il teſte da noi
mentovato Argenterio; al cui ſottile in gegno, ed avveduto giudicio,non miga,
come altri per av vétura coftumano,baltādo il copiare, e l'appropiarſi l'al
trui viete dottrine; ma volendo egli diſaminare, e far pro va delle coſe della
medicina ne’libri già ſcritte, il diſcreto, e avveduto, e giuſto
Giudiceſtudiavaſi d’aſſomigliare; il qual non a tutti pienamente dà
fede,maaltri approva, al tri traſanda, altri manifeſtamente rifiuta, ficome
appunto ragion chiede; ficome avviſa quel ſuo difenditore. Su mus omnes in arte
noſtra tanquam in fenatu conſtituti, in quo non ut pedariiftatim pedibus in
aliorum fententiam ire debe mus, fed ut prudentes Senatores viderequid
conveniat; at que ita ingenue proferrede rebus, quod rationi confonum ar
bitramur. E ben per ciaſcuno il finiſſimo, ed eccellente giudicio
dell'Argenterio intorno al noſtro propoſito potrà agevolmente da queſte parole
di lui ravviſarſi. Non tam Servili, dice eglifimus, animo, ut omnia
veterumplacita, oraculorum inftar indiſcriminatim veneremur, vel tam ab jecto,
ut pofteris omnem, meliora excogitandi occafionem prareptam, ac præciſam effe
arbitremur; quafi vero non idő nuncſit, quod olim Cælum, eadem terra, idēgenerandimo
dus: eadem denique, & facilior etiam, quam aliis fueritdin cendi,
inveniendique ratio. Ma certamente non men dell’Argenterio ſdegnarono con
filoſofica libertà altri Na poletani lettori aſſai, di lcgarſı-a' ſentimenti
d'Ippocrate, o di Galieno: avvegnachè per ceſſar forſe l'invidia della
ribaldaglia del volgo, con parole alcuni di eſſi il diſfimu laſſero, facendo
ſempremai veduta di abbracciar, e di ri tener tenacemente tutto ciò, che
inſegnato viene per Ip pocrate, c per Galieno. Infra'quali Filippo Ingrafiagavi
do oltremodo, e curioſo di conoſcer la vera fabbrica del corpo umano, ebbe
ventura d'abbatterſi il primonelle veſi chette ſeminali,non più per addietro da
alcun degli antichi medici ravviſate; ed infra l'altre coſe ebbe ardimento, nc
d'Ippocrate, ne di Galieno punto curando, di purgare cziandio nelvigor delle
malattie. Così anche gencrofa mente ſi ſottrailero alle ſchiere de parteggianti
Bernardi no Longo, Paolo Monaco, e Giovanni Antonio Piſani: un diſcepolo
de'quali (1) in una apologia in difeſa diſe, e de'ſuoi maeſtri compoſta,volle,
che per ciaſcun ſi leggeſſe: femper licuit omnibus literarum profefforibus non
folum con P 2 (1 ) Ferdinando Caſſani, t tra 116 Ragionamento Seconda tra
recentiores medicos, & Philofophos, ſed etiam contra Gao lenum ipfum,
&Platonem, alioſque illuſtresfcriptores dice re, fi quando ratio dictaverit.
Seguiron poi con la mede fima libertà ſempre Girolamo Polverini, Quinzio Buon
giovanni, e Latino Tancredi, huomo, come dice Sertorio Quattromani, di molte
lettere, e di molto giudicio, e gran difenſore della dottrina del Telefio.
S'allontanò altresìda gli antichi talora ſalvo Sclani, e Mario Zuccari, il qual
co sì forte, e vigoroſamente riprende Galieno nel giudicio che colui diè
intorno alla malattia d'Erofonte: ed altrove sì ardicamente, che nulla più, e
come ſuol dirſi, a ſpada tratta prende a difender il coſtume de’Napoletani,
intor no al cibar gl'infermi, contro i più valoroſi Campioni, ch' aveſſer mai
le dottrine d'Ippocrate, e di Galieno ritenute. Ed a' di noſtri abbiamo pur
veduto Giovan Battiſta Ma fulli, Antonio Santorelli, e Girolamo Fortunato, il
qual tutto ciò, che nell'opere d'Ippocrate, e di Galien fi riſer ba, sì
fattamente per le maniavci, che non v'era forſe parola, di cui improviſo
domandarone non gli veniſſe to ito a memoria; e nondimeno tanto, e sì fovente
ove gli pareva, cheragione il richiedeſſe, coſtumava egli a rim beccar
l'antiche, e comuni opinioni, che per tanto a' Ga lieniſti tutti n'era in uggia,
e crepacuiore: e ſofina, e cavil Joſo ſempre chiamavanlo. Ma ben comprendelí
l'animo fuo libero, dal libro, ch'e' compoſe de’principi delle coſc naturali,
ed in quello ancora de ſenſi,il quale egli ſotto nomc d'un ſuo ſcolare mandò
fuora. E dietro alle ſue ver ftigie poi non guari lontano andar mirammo Onofrio
del Riccio, huomo veramente per vivezza d'ingegno, e per dabbenagginc d'animo,
tenuto fommamente caro dalla Città tutta. Ma perchè addietro laſcio ora Io
Paolo Emilio Ferrilli della nuova, e della vecchia medicina parimente inteſo, e
di ciaſcuna di effe egualmente libero profefforc?il qual da' fuoi lunghi viaggi,
e pellegrinazioni tante, e sì fatte forti di nobili, e cari medicamenti alla
patria riportò, che ben volentieri a pro di ciaſcuno le botteghe tutte degli
ſpeziali 1 1 * corteſeméte arricchiune. E dove lo trapaſſo ſotto ſilenzio
ingratamente aſcoſo il piùſovrano pregio, che aveſſer mai le noſtre ſcuole, il
dottiſſimo Marco Aurelio Severino, il qual non ſolo, ſe miglior Chimico, o
medico, e ſe più va lorofo in fiſica, o in cirugia, e ' li foſſe. Egli
animoſamen te ſeguédo l'orme del famoſo Giulio Azzolini ſuo maeſtro: anzi oltre
affai più gittandoſi, in favellando, ed in iſcrivé docon filoſofica libertà
ripigliò Galieno, e gli altri anti chi, e nelle noſtre ſcuole tante fiare, e
tante fè conmae ftra mano chiaramente vedere paleſi, e manifcfti agli oc chj di
tutti i ſolennillimi falli, che iGreci, egli Arabi, ei Latini lor ſeguaci nel
notomizare i corpi aveano in prima commeſli. A bello ſtudio poi non fò lo
aleuna menzione quì di Baſtian Bartoli, non avendo huom, che non ſappia, che
tra'vantaggi fuoi maggiori ei ripoſe il goder mai ſem pre, e valerſi d'una sóma
libertà nel filofofare, colla quale egli conſumò l'impreſa d'un novello filtema
di medicina. Ma che tanto infra i lettori Napoletani andarmipiù rav. volgendo,
ſe tutti i maeſtri delle noſtre ſcuole da Diego Raguſi in fuora, che ſaldi,
& interi i ſensimenti d'Ippo crate mai ſempre ſeguir volte, il qual pure,
così in queſto, come in altro non ſi vide ſecondar nella ſteſſa maniera poi
Popinion di Galieno, in ciaſcun tempo conformaronſi se pre con l'uſo del noſtro
comun medicare il quale quanto dalla dottrina se da' ſentimenti d'Ippocrate,
cdiGalieno s'allontani, avvegnachè il contrario comunemente fi giu dichi,
agevolmente può da ciaſcun ravviſarſi. Ed Io,per chè di più non mipermette il
tempo, daronne al preſente qualche breviſſimo ſaggio. E percominciar con
qualche ordinato diviſamento, manifeſta coſa è, che gli argome ti maggiori,
de'quali fornir ſi vuole la medicina, s'ella mai di giugner intende al ſuo
laudevot fine d'approdare il genere umano, per comun ſentimento di tutti più
ſaggiIp pocratici, e Galieniſti,a tre capi quali tutti, principalmen te fi
riſtringano, nella Dieta, nella Cirugia, e in quel,ch' appreffo iGreci chiamaf;
Φαρμακευσης. Intorno alla Dieta quanto da' due Greci Mae ſtri 118 Ragionamento
Secondo 1 ſtri i Napoletani medici fian diſcordanti, dicalo ir mia vece quel
famoſo Galieniſta Melaneſe Lodovico Set tala, (1 ) fuerunt, dice egli,quiprimis
tribusfaltem diebus, aut inedia, aut tenuiffimo vietu laborantes exficcabant,
pro grelu autem temporis cibos tum in forma, tum in quantita te adaugebant,quos
Galenus in lib. method. med. pluribus in locis exagitabat. Hanc cibandi
rationem fervare intelli go Hiſpanos medicos, Neapolitanos. Narra egli minuta
mente il modo daʼnoſtri Napoletani tenuto nel cibare gľ infermi; indi
poichiaramente dimoſtra eſſer ciò affatto con trario agli inſegnamenti
d'Ippocrate, e di Galieno; la qual coſa aſſai già prima del Settala avea un
de'famoſi maeſtri del paſſato ſecolo, Paolo Tucca avviſato,così nel la ſua
pratica del medicar Napoletano dicendo,fciendum, quod longediftat modus
dietandi Hippocratis, Galeni, & Avicenna, ab eo quem
obſervamusdiebusnoftris. Illi enim principes voluerunt in febrium principio
craſſiusfore reficien dum: in ftatu vero, aut nihil offerendum, aut tenuiſine
dietandum. Nos vero quaſi oppoſitum obfervantes in ftatu reſumptive, in
principio autem alternative cibamus. Ma da Paolo Tucca in poi non può di
leggier crederſi quanto vie più da Ippocrate, e Galicno in cibar gl'infermi
ſianli i noftri medici dilungati, e ciò fu cagione di quella famo fiffima
difeſa, che ancora va per le mani de’letterati, fatta a pro di Giacomo
Bonaventura medico di Clemente VIII. contro Mario Zuccaro, già in queſto noſtro
ſtudio lettore per Maſſenzo Piccini da Lecce. Ma non che nella quantità, e nel
tempo co'due Greci maeſtri i Napoletanimedicimanifeftamente conſentano, anzi
nel modo ancora, e nella qualità de'cibi ſopratutto da color fi partono, di
tutt'altrevivande nutrendo gli in fermi, che diquelle, che da’lor venerandi
maeſtri ne fuz rono in prima ne’loro libri diviſate.E dove di grazia ſono ora
l'acque melate, e l'orzate, e altri ſomiglianti beverag gj, cotanto da'Greci
commendati, certamente in lor luogo i brodi di polli, e le peſte carnidelle
galline nella noſtra Cit 1 (1) In comment. in problemat. Ariftot. ye Città ſi
coſtumano.L'orzata, dice una volta Ippocrate (1) di ragion mi pare, ch’alle
vivāde di fermēto ſia da antiporre, e lodo coloro, i quali l'antipongono.
Iltocáva refü šv douée oefãs ποκεκείσθαι των σιτηρών γευμάτων εν τετέοισι τοϊσι
νοσήμασι και εποι vÉo To's asforgivavtas. Ed altra volta dice, eſſer l'orzata
oltremodo valevole ad umettare, e perciò a' febbricitanti recar grandiſſimo
giovamento;a’quali ſecondo i fentimen ti di lui medeſimo, l'umettativo cibo è
sépremai convene vole ed allo incótro le carni tutte nocevoli.E l'altro Greco
maeſtro Galieno (2) oltremodo berteggia, c proverbia Pe trona,aſpraméte
rimproverādogli, che agliammalati ſuoi có lor no poco nociimento concedeſſe le
carni. Perchè ma nifeſtamente ſi comprende, i Napoletani medici irrorno al
nutricar gl'infermi, anzigli ammaeſtramenti di Petronas, che que' d'Ippocrate
(3) o di Galieno (4) feguire. Così è da dir, che le brodadelle galline non ſian
da dare agl'in fermi di febbre, conciosſiecoſachè quelle al parer d'Ippocrate,
e di Galienio abbian certamento vigor di ritenere, e di ſtrignere, dove
l'orzata, ſecondo i ſentimenti di coloro, è mollificativa, e mezzanamente
umoroſa,ne punto riſtri gnente, perchèqueſta, c non quelle a ' febbricitanti ra
gionevolmente dar ſi vuole. Ma che direi noi del vino, che da’Napoletanimedici,
non altrimente, che ſe toſſico foffe,a ' febbricitanti ſi victa? e di Galieno
fir pur dato ad un'ammalato di febbre acuta, e come egli ne narra, di cal do, e
ſecco temperamento; anziegli manifeſtamentene conſiglia, e ne conforta, che
inzuppandovi il pane ſi dia, mangiare a'febbricitanti, anche talvolta nel
comincia mento delribrezzo. Ne è già mio intendimento al preſente di dar
giudicio fopra si futre quiſtioni, o ſopra tutt'altre, ch'io qui rap porti; ma
ben ſolamente dico, ſembrarmi agevol molen, e piano il coſtumedel cibar
Napoletano; e che null'altro, che dappoc.iggine, e vaghezza di riſparmiar
fatica l'abbia in pri (1) lppocr. nel lib.i.della dieta (2) nel com. 1. fop. il
2.11b.della diesa ne'male Atw8. (3 ) nel s. della dieta. (4) nel 1.lib. della
facoltà de'med.Jemplo in prima a'neghittoti Cittadiniportato, traſandandoſi co
sì pian piano, ed abbandonandoſi quel d'Ippocrate, e di Galieno, che malagevole
affai, ed intralciato a’beſci uc celloni medici delbarbaro ſecolo ſembrava.
Iinpercioc chè, licome il primo de'Greci maeſtri dice, (1 ) e l'altro il
conferma (2 ) eragione il richiede, dee il ſaggio,ed avve duto medico in prima
ben avviſare quanto egli per durare il mal Gia,ed in ciò gli argomēti tutti del
ſuo ſottiliſſimo in tendimento adoperare. Il che quanto ſia malagevole a
certamente comprendere, ſenza reſtarne talvolta da' ſuoi avviſi ingannato,
ciaſcun da per se baſtantemente, ſenza ch'io divantaggio gliele inſegni potrà
ravviſare. E ciò ri chieſero ne'medicique’due maeſtri, acciocchè nelle brevi
malattie debba ſempre con iſtrettiſſimo cibo nutricarſi l'a malato, e nelle men
brevi non così coſto da prima gli fi menomi a ſpiluzzico, onde poi nel maggior
avanzo del male ne venga debole, e ſpoſato, e ſenza poterſi con ar gomenti
ajutare; ma pian piano riſtrignendogliele, poffin poi il medico nel colmo della
malattia maggiormen te ſcarſeggiando, poco, o nulla concedergliene. Intorno poi
alla Cirugia cgli è duro molto a credere, quanto da ſentimenti d'Ippocrite, e
di Galieno, il medicar di Na poli ſia lontano. E laſciando da parte ſtare come
quì ſu bitamente, e ſenza conſiderazion niuna in ciaſcuna febbre fi coſtumi
cavar ſangue,contro il proponimento d'Ippocra te, anzidi tutt'altri medici del
ſuo tempo, o più antichi, i quali, ficome narra il Cardano:in febribusnon
folebant mit tere fanguinem,etiam ardentifimis; ora cavaſi a giorna te il
ſanguenella noſtra Città, non ſolamente a’vecchi, e deboli, ma eziandio
a'bambini di latte, e talora anche a' ſoſpettidileggeriſſimi mali; quando tutto
il contrario di ce Ippocrate: Τα δ' οξέα πάθεα, φλεβοτομήσεις, ήν εαυρον φαί
γηται το νούσημα, και οι έχοντες ακμάζωπ τη ηλικία, και ρωμη πανή aúrtorw. Ma
negli acuti malori cavarſangue fi dee ove fire grande il male, e l'infermo
giovane fia,e ben gagliardı, e vi goroſo. Il che richiede anco in molti, e
molti luoghi Ga (1 ) ippocrate nit lib. 1.degli Aforij.nell' A or.7.8.9.10. (2
) Gal.nel Com. * lieno DelSig.Lionardo di Capoa. IZI lieno (1) in un fra
glialtri dicendo: si péya zo voonud reordea κoίημεν ειναι και η παρον ήδη
θεoρoίημεν, ή αρχόμενον επισκεψάμενοι την ρώμην της δυνάμεως έξελούντος του
λόγε μόνατα παιδια.. Dunque ſe noi temiamo non avvegna qualche gran malattia,
oſe pre Jente quella già,o pure in ſu'l cominciar fia,avědo ben prima le
forzedell'infermoconſiderate,aprirem poſcia la vena:So lamente da queſto
divifamento i fanciulli riſerbădone. E po ſcia egli medeſimo l'età preſcrive.,
ove da prima i fanciul li ſegnare fi poſſano, dicendo (2 ), che non ſi debba no
aprir le vene a' fanciulli, intin, che giungano all anno quattordiceſimo. E
altrove (3 ) anche dice, che ſe le forze di colui, che ammalerà di febbre per
putrefa zion d'umore,nel lor vigor dureranno, toito come coinin cierà ella a
farſi vedere gli ſi converrà cavar ſangue: ſolo, che non abbia crudità nello
ſtomaco, e l'età 'l conſentiſca, e le forze ſien robuſte; perciocchè altrimenti
aon gli fi dee in modo alcuno aprir la vena. E quindi poco appreſſo ma
nifeſtamente ſoggiugno: che ſe l'infermo farà bambino, o non giunto ancora
all'anno quattordiceſimo,non gli fica coſa delmondo ſangue. Ne ſon da
tralaſciare quel l'altre parole del medeſimo Galieno; le quali molto al no ſtro
propoſito ſi confanno:ove ſpiegando tutto ciò, ch’al falaffo richiedefi cosi
dice: (4 ) δεύτερG- σκοπός της φλεβότα μίας εςιν, ει ακμάζει καλά την ηλικίαν
οκάμνων» ούτε γαρ παίς, ούτε γέ έων, φέρει την φλεβοτομίαν, ουδ ' αν μέγα
νόσημα νοσώσιν. La fecd da cofaze che ſi richiedenel dover trar ſangue
fiè,cheguardar fi deeſelámalato ſia giovane perciocchène i făciutli,ne i vec
chiSoſtēgono ilfalaſſo,avvegnachèpur gravefase di riſchio la malattia, che loro
dea noja: E tralaſciando di rapportare al triluoghi, ove ſempre il medeſimo,
e'grida, e ripete, di rem ſolamente de'tempi, ch'egli giudica al ſalaiſo oppor
tuni: mentre che in Napoli, ſenza alcun riguardo alle troppo freddo, o troppo
calde ſtagioni avere, cavaſi co munemente in ogni tempo ſangue da Galieniſti,
a' troppo.crcduli, e mal conſigliati infermi; i quali iinınaginano,an Q zi fer (1
) Gal.della maniera del curare col falafo. (2 ) aelmed.luogo (3 ) nel mes. (4)
nel.com.ſop.illib d'ippocr.della Dieta. vi per. 122 RagionamentoSecondo zi
fermamente credono venir medicati ſecondo le regole di Galieno, e d'Ippocrate.
E pure i noſtri medici nulla ba dano a’rigoroſi divieti di coloro, e
maſſimamente di Gaa lieno (1) il qual vuole, che oltremodo ſi debba dal medi.
co aver riguardo al temperamento dell'aria,ch'ella non ſia eſtremaméte calda, e
ſecca, ſicome è infra'l tépo del naſci méto del cance dell'Arturo;e ravviſa
egli, che tutti colo rosa'quali i medici nulla alle ſtagioni badado, traſfer
fuora del ſangue, irreparabilmente morirono. Così vuol Ga lieno ancora che
nelrigor del verno,ſia molto da temere il falaſſo, e dice effer manifeſta coſa,
che da ciò molti, e gra vi pericoli ſeguir ne poffano. E perciocchè egli ſtima
va eſſer ciò coſa di grandiſſima conſiderazione, dopo tan to, e tanto
manifeſtarlaci, di nuovo con queſte parole la ci perfuade:(2 ) πτoσθήσω δε
ένεκα του μηδεν λείπειν, τον από του περιέχον ημάς αέρG- σκοπών, όταν η θερμος
ικανώς και ξηρος, ως διαφορεΐσθαι ταχέως υπο του που το σώμα τηνικαύζ γαρ
αφισάμεθα της φλεβοτομίας 4 και μέγα το νόσημα, και ακμάζων ο άνθρωπG- άη - Ma
acciochè nulla vi manchi, aggiugnerò quell'altra coſa, alla quale è di meſtieri
averminutoriguardo,cioèa dire l'a ria, che ne circonda: e guardare s’ella fia
sformatamente calda, e fecca, intanto, che molto ne venga a ſvaporare, ed
sfalare il corpo; imperciocchè allora di ſegnar ci rimarremo: comechè
graviſſima ſia la malattia, e l'huom per tofa, e robuſto. Ma no meno i
Napoletani medici nel trar fangue avvifan punto ſe la compleſſion del corpo ſia
fie vole, o vizzi, graffa, o ſcialba, nelle qualiſecondo il lor Galieno,
avvegnachè grave infermità il richicgga,o nien te certamente, o molto poco
fangue è da trarre; ma nien te in verità poi ne ſecchereccidella ſtate. Ma egli
è omailuogo da tralaſciar per iſtrettezza di té po altre condizioniper
Ippocrate, e per Galieno, al ſalaſ ſo richieſte, alle quali o poco, o nulla mai
i Napoletani medici riguardar fogliono.Finalmente trapaſſando al ter zo
ftruméto della medicina chiamato da Greci Maguáxeu ois dimoſtrerem brevemente,
come ne precedenti abbiam (1 ) nel 1.lib.dell'arte curat. A Glaucone. (2 ) nel
com. 4. fop. il lib. della Dieta. altro vigo manifeſtato, quanto i Napoletani
medici in adoperarlo ſom gliano da Ippocrate, cda Galieno allontanarſi. Eglino
in priina molti, e molti medicamenti coſtumano, che da Ippocrate, e da Galieno
ne inen per nome conoſciuti già mai furono; ficome ſenza dubbio veruno son la
Callia, i Tamarindi, il Riobarbaro, la Siena, la Scialappa,ilMec ciocano la
Gottagomma, la China, la Salſa,ed altri aſſai, che per eſſer ben conoſciuti, e
per non recarvi noja al pre fence tralaſcio. Le compoſizioni poi deʼmedicamenti
nelle noſtre bot teghe introdotte, ſono il più,o dagli Arabi tratte, o da gli
Ermetici filoſofanti; ina quel, ch'è di maggior conſdera zione nell'uſo de
medicamenti puganti ſi è, che i noſtri medici Napoletani,laſciati da parte, ed
abbandonati af fatto i due Greci maeſtri,van per diverſe tracce cammina do,
ſenza ritegno, o ſcrupolo niuno di purgar audaciſfima mente in ognitempo, in
ogni diſpoſizione di ſtagione, in ogni età dell'infermo, e in ogni ſtato di
malattia:e purga do eziandio i corpi ſani, con far credere alla ſemplice, e
credula gente, che cosìvoglia Ippocrate, e che così co mandi Galieno;
imperocchè ingeneranſi continuamen re in noi vizioſi eſcrementi, da dover con
gli argomenti delle purgagion continuo anche vuotare. La qual nuova coſtuma,
quanto da Ippocrate, quanto da Galieno ſia ri provata ben ſi comprende da ciò,
che Ippocrate una vol ta dice: φυλάσσεσθαι δε χρή μάλιστα τας μεσολας των ωρέων
τας μεγίτας και μήτε φάμακον διδόναι εκόντος.Βifogna minutamire ri guardare
alle grandi mutazioni de'tēpijacciocchè in quello no s'appreftino di
leggieremedicamenti agl'infermi. E'l medeſi moIppocrate nó guari appreſſo, cosi
parimétedice: jiti κινδυνόλαι ηλίκ τζοπαί αμφότεροι, και μάλλον θεριναί • και
ισημερινα νομιζόμεναι είναι αμφόπραικαι μάλλον δε αι μετοπωριναί • δά δε και
των άτρων στις επιταλας φυλάσσεσθαι, και μάλιστα τα κυνός· έπειά αρκλέρη, και
επί πληϊάδων δύσει • τε γαρ νοστύμα μάλιστα εν ταύτησα τησαν ημίρηση κρίνεται
και τα μου απο φθίνει, τα δε λήγα, τα δε άλα πάνω jebésalom és ÉTELOV GÒ Qu,
weg,étépnu xatásamov • Pericolofifuno amē, Q.2 due iSolſtizi; eſpezialmente
quel della ſtate; pericoloſo ale tresì l'uno, e l'altro equinozio; ma quel
maggiormente dell' Autunno. E biſogna ancora aver riguardo al naſcimento delle
ſtelle,mafimamentedella Canicola; quindi altramon. sar dell'Artaro, e delle
Pleiadi; imperciocchè le malattie in queſtigiorni più, che in altriſi
giudicano: altre morte recan do, ed altreſvanendo, o d'uno in altroftato
facendo paſſag gio. E Galieno in altro luogovuole, che anche a ' tempi troppo
caldi, o troppo freddipormente ſi debb.2; che lè'l temperamento della ſtagione,
o del luogo ſarà qual'eſſer dee’del tutto ce ne terremo; ma ſe talnon è,
purgheremo sì bene, ma molto meno di quel che faremmo, qualora ne l'un, ne
l'altro il ci vietaffe. E del tempo della ſtate egli dice (1) confermando il
detto d'Ippocrate, che ne'gior ni caniculari, cd avanti di quelli, malagevole,
e danno ſo ſie l'uſo de'medicamenti purganti. E parimente in un' altro luogo (2
) egli dice, che coloro, i quali, o per crudi tà, o per altra qualunque cagione
accolgono abbondanzas di non cotto umore, oche più dell'uſato averanno gonfio,
il ventre, e'l corpo tutto ingroſſato, non ſofferiſcono pur gagioni. Egli vuole
altresì Galieno, che que'febbricicá ti, i quali abbondano d'umori crudi, che
moleſtan loro lo ſtomaco, non ſi debban ne ſegnare ne purgare: A niun di
coſtoro, ſono le ſue propie parole, e' fi fuole trar ſangue giammai, chenon
gliene provengagraviſſimo danno,e come chè a lor faccia meſtieri la vacuazione,
nonpoſſono nientedi meno eglino tollerare, ne le purgagioni, ne i Sala, fe
fenza queſto ſincopizzanti pur fono: (3) éx' Sevd's twv Toroutwv cipecto της
αφαίρεσης άνευ μεγίσης έωθε γίγνεσθε βλάβης· και τσι δέονται γε κενώσεως • αλ '
έτη φλεβοτομίαν, έτε κάθαρσιν φίρεσιν εύγε, και καρλς Tobrwv étaipuns
ougróMorlar. Ed un'altra fiata egli medefimo dice, la ſoſtanza de' fanciulli
infra l'altre tutte agevoliſſi mainente digerirſi, e diſliparſi; eſſendo ella
ſopra tutte maggiorméte abbõdevole d'umore,comechè meno fredda ella fia: ma
però men di purgagione aver biſogno, perchè da ſe medeſima ella vuotar li ſuole.
Ed altrove ancora ma 1 (1) nel 14.lib. del metod. (2 )nelmetod,allib.9.(3) nel
met, al lib.12. 1 nifeſtamente inſegna,che'l vuotare i ſoperchj umori, che nel
corpo continuo ne s'ingenerano, non è di giovamento alcuno alla gente; anzi le
alcuno per temna, che l'abbon danza degli cſcrementinon gli noccia, voleſſeſi
avvezza. re a purgarſi una, o due volte il meſe, oltre al manifeſto nocimento,
che gliene fiegue, prenderanne il corpo una dannevole, e peſſima uſanza. Ma
ſopratutto, quanto al purgar gli umori nelle malattie, i quali abbian dicocimi
to biſogno, da’ſentimenti d'Ippocrate, e di Galieno ina nifeſtamente ſi partono
i noſtri medici; quantunque a tut ta lor poſſa con belle parole di dare a
divedere altrui il contrario ſempre s'argomentino. Ne lo prenderom mi troppa
briga di dimoſtrar ciò con lunghe, e ben’ordi nate ragioni;ma baſtcrammi
ſolamente le parole d'Ippo crate, edi Galicno rapportare, acciocchè da quelle
per ciaſcun comprender baſtevolmente ſi poffa, quanto nella crudità degli
umori, onde cagionaſı il male,da coſtoro sé pre i medicamenti purgativi vietar
fi fogliano, ſalvo,che radiſſime volte, e nel principio di quellemalattie, che
có enfiamento cominciano. Ilmaeſtro di Galieno, e de' Ga lienifti, per quel
ch'eglino tutto dì dicano,fipare, che ne ſuoi Aforiſmi, ne’qualibrievemente,
quanto mai di buo no, o ſcritto, o oſſervato negli anni tutti della ſua vita
egli mai aveſſe riſtringa, una cotal co? a con una general pro
poſizionenediffiniſce; colla quale quanto altrove ne dice tutto conformaſi,
anzi quindicome conſeguenza ſi cava; la qual coſa è sì chiara, e manifefta, che
di vantaggio più manifeſtar non ſi può; perchè a confeſſarla per verail me
deſimo Vittorio Trincavelli,non che altri funne coſtretto, oftinatiſſimo
diféditore della cótraria fentéza.Egli aduque (1) così dice; ab hoc aphoriſmo
cæteri omnes, qui huc fpe ctant, tanquam corollaria deducti ſunt: ed oltre a
ciò ſog giugne: ita ut nullam aliam exceptionem admittat, niß eam quam ipfe
expreffit: quum morbusturget. Ed è l'Afo riſmo, il qual da Galieno,oracolo fù
chiamato una volta, cosi (2) Le materie cotte purgare, e muover fi debbono;
mas, non (1 ) del confer.la fan.nellib. 4. (2) nell'afor. 22. dellib. 1. -non
già le crude; nemica nel cominciamento; ſe nonſe allor, che turgidefono,malepiù
volte turgide non ſono: Témava Pago μακεύειν, και κινέαν, μη ωμα, μηδε εν αρκήσιν,
ήν μη οργά • τα δε πλά sve oux ogy: Intorno alla qual voce opgør mi par doverſi
cô. fiderare, che in queſto luogo appreiſo Ippocrate altro non dinoti, che
diſiderar ferventisſimamente, e con impazien za; ed avvegnachè non men
dell'animate, che delle inani mate coſe dir ſi ſoglia, tuttavia più
acconciamente agli animali ella conviene, ſecondo il ſentimento di Galieno,il
qual forſe da ARISTOTELE (1 ) appreſo l'avea. E diceſi di quegli animali,che
tratti da iinpetuoſa foga di libidine ſtā no in ſucchio, e come diſſe Virgilio
In furias, ignemque ruunt: quindi preſeli la metafora degli umori nel corpo uma
no, i quali avidi di fcappar fuora,ſtrabocchevolmente, e con impeto, diparte in
parte ſi muovono, non laſciando aver punto di ſoſta al povero ammalato. Ma noi,
avve. gnachè diſcorrimento, o foga più ſaggiamente da dir ſia, o enfiamento, o
pure con nuova voce alla noſtra lingua Turgenza, o Turgidezza: dal gonfiare, o
ſia enfiare,e dal turgere diciamo ad imitazione dique'valent’huomini, che nel
latino linguaggio‘l'opere d'Ippocrate, e di Galieno traportando,preſero la voce
turgere: onde poi novellame re ne diramaron quell'altra Turgentia, ad orecchio
latino de'buonitempinon mai più per quel,che mi paja per l'ad dietro udita:
gonfie, e turgide parimente chiamiamo, quelle materic, che a si fatto movimento
ſoggiacciono;ed in verità gli umori, che’n tal guiſa ſi muovono, ſi formen tano,
ſi rarefanno, egonfiano. Ma alla coſa ritornádo: queſto Aforiſmo appunto cófer
mafi per quell'altro (2 ) Nel cominciamento delle acute ma lattie di rado
lepurgative medicine da uſar ſono: e ciò con diſcreta avvedutezza ſide'fare: iv
Toirov ožico maderav énezaéxus εν αρκήσι τησι φαρμακείοσι χρέεσθαι, και τούτο
πξοεξευκρινήσαν τις sterkev. Per la qualcoſa avendo egli in priina avviſato,
che folamente quegli ammalati da purgar fieno, ne' quali liu mate (1 ) nel
lib.o dell'iſtoria degli animali: (2 ) nel 1.degl' Aforiſmi.materia, onde il
mal s'ingenera, ben cotta, e digerita ſia, fe pur quella non turge, è che rade
volte ciò avviene; e ritrovandoli nel cominciamento di tutte le malattie mai
ſempre cruda,e non digerita la materia: fiegue di neceſſità, che rade volte in
ſu'l cominciar delle malattie, fieno gl’in fermi da purgare. Ed è pur piacciuto
ad Ippocrate, ſcar ſo altrove di parole, enegli aforiſmi ſenza fallo ſcarſiſsi
mo, e riſtretto, oltre ad ogni ſuo coſtume quivi la mede fima coſa
avvedutamente ridire,acciocchè per tutti i me dici l'importanza di sì grave
precetto avviſar ſi debba, ed apprender quanto quello lor faccia di meſtieri, e
di riſchio fia a travalicare. Etali Aforiſmi con avvedutezza non or dinaria
chioſando poi Galieno,oltremodo ciò ne impone, e ne accomanda: e sempre, che
egli di tal biſogna impren de a dire, toſto a quelli ne rimanda,comea faviſſīme
nor me, che il tutto intorno a tal materia perfettamente con tengano. Ed avendo
in un'altro Aforiſmo Ippocrate parimente detto; ne'mali oltremodo acutifon da
purgare il medeſimo giornogli ammalati, ſe vi è gonfiamento; concioſiecofachè
allora l'indugiare è dannoſo affai(1) Papuaxetes, év toñosning οξέσιν, ήν οργα,
αυθημερον• χρονίζαν γαρ εν τοϊσι τοιούτοισιν, κακον Galieno però vuole, ed
eſpreſſamente n'impone, che an che in queſto caſo dell'enfiamento, il che molto
di rado 'avvenir fuole, vi s’abbia in prima ben bene a riguardarc, e penſare,
cioè con tal riguardo,e ritegno adoperare, che nulla più: ne meno ove fia
enfiamento purgando, ſe il cor po valcvol non fià a ſoſtenere il purgamento;
perchè aj tal propofito Galieno dife (1 ) ώς τ' ευλόγως ολιγάκις εν τοις οξίσιν
νοσήμασι κατ' αρχάς γενήσεξι ημϊν χρώα φαρμάκων, τω μήτε πολάκις οργάν εν αρχή
τους λυπούνας,μήτε, ά και του υπάρχει και του κοσουνίG- αν επιληδεία προς την
κάθαρσιν όντG-, αλα μηδέ καιρών ημίν παρέχοντG- επιτήδειον παρασκευάσαι. Per la
qual cofa nelle acute malattie ragionevolmente operando, di rado, nel prin
cipio impiegheremo noi purgative medicine; concioffiecoſachè gli afflittivi
umori, nel principio le più volte, ſtuzzicati non fieno, (1 ) nel lib.di
que'che convien purgare.fieno, e potrebbe intervenire altresì, che ove eglino
fienosi fattamente ſtuzzicati, allor non foſelo infering a fojtener la
purgagione adatto. E più addietro, de' medelimi umo. ri favellando avendetto:
τους ούν τοιούτος εκκενούν πξοσήκες, τε τέσι τους εν κινήσει, και φορά, και
ρύσι • τους δε καθ' έν πμόριονεσηεγμέ νς,ούτ' άλω πνι βοηθήματα χρή κινείν,
ούτε φαρμακεύειν, πζίν εφθή. ναι: τηνικαύτα γας και την φύσιν έξομεν βοηθούσαν.
Αdunque con venevol coſa è, che cotali umuri ſtando in continuo moto, e
diſcorrimento, e fluffo, fi vuotino; ma que', che in qual che luogo del corpo
giä ſi ſon fermati, ne con argomento alcu no, ne con purgativa medicina
damuoverfono, anzi che fieno ben digeriti; imperocchè allora anche la natura
dello infermoalla purgagione fauorevole auremo. Ma il principio delmale, ficome
ne inſegna Galieno, prendeſitalora per lo primo aſfalimento, o quando da prima
comincia a chiocciar l'ammalato; altre volte anche inſino a’tre primi giorni; e
aſſai ſovente per tutto quello ſpazio di tempo,nel quale niuno affatto, o
troppo debi le, e oſcuro ſegnal di cocimento ſi pare. E'l gravamento, o
accreſcimento del male liè, quando manifeſtamente il cociinento, o pur ſegnia
ciù contrarj ſi ſcorgono; e dura finattanto, che alla dovuta perfezione il
cocimento ridu caſi; per la qual cofa allora maggiormente le moleſtie, e le
noje degli ammalatiad accreſcer ſi vengono. Ma il gó fiamento avviene, o toſto,
che alcuno ad ammalar comin cia, o non molto indiappreſſo, cioè nel primo, o
nel ſeco do giorno, ſicomc par, che in più d'un luogo avviſi Ga licno. Ma
ritornando al tempo delle purgagioni: ſo ben’In, non eſſer paruto ſaggio a
Galieno il diviſo di colui, che volle,non doverſi porger giammai le purgagioni,
anzi de' primi tre giorni: ma ſi ben dopo il quarto, a coloro, che patiſcono
ſcorrimento di ventre; il qual parere egli ri provando, conchiude così dicendo:
Egli adunque è di meſtiere, che non già dopo il terzo giorno fi pergano imedica
menti, ma ficomediceapertamente l'aforiſmo(1) Negli acu. 11 111.1 (7)
L’Aforij.24.ditlib.i. ' DelSig.Lionardo di Capoa. 129 - ti malori di rado,e
nelprincipio dobbiam delle purgagioni va lerci. E perciò ci biſogna diffinir la
coſa giuſta la mente de gii aforiſmi, ed inveſtigar ove abbiamo a purgare in
fulprin cipio, ed ove abbiamo ad attendere il cocimento del males. Imperocchè
fe alcun determinerà ſolamente nel principio, o non iſtabilirà alcuna delle
parti, rimarràſenza fallo ingan κato. πτοσήκεν ουν ούχ ως πανώ μεία τας ταϊς,
αλ' ώσπερ ο αφορισ μός εςι τοϊος • έν τοϊς οξέσι πτέθεσιν ολιγάκις, και εν
αρχίσει τησι φαρμα κίησι χρέεσθε, και χρή καλα τους αφορισμους διορίζεσθαί τε
και σκέλεσθε, πότε κατ' αρχάς έξι χρησέον τη φαρμακείη, και πότετην πέψιν
αναμείναν. τιτε νοσήματος. έαν δε πς ήτοι κατ' αρχάς είπoι απλώς, και μη
διορισάμε. ν ©·, εκάτερον σφάλετε: Adunque per Imanifefto fentimento
d'Ippocrate, c di Galieno, di rado nel cominciamento delle acute malattie da
inuover ſono gli umori, e nell'avā zo non mai, ma ſolamente,facendo di
meſtiere, nello ſce mo del male. E ben ſaggiamente troppo, ſecondo che ad huom
paja, in tal biſogno ſpeſe più lunghe parole l'av vedutiſſimo Ippocrate più, e
più volte i medeſimi ſen timenti divilaudonc; imperocchè egli avviſava graviſ
ſimno danno dal muover gli umori crudi dover certamente ſeguire. Perchè altrove
favellando egli di que', che pur gano nel principio dell'infiammagioni: il che
Galieno nel comento vuol, ciic s'intenda anche, di que' tutt'altri mali,
chedagli umori procedono:dice, che per coſtoro nulla dal luogo offeſo
certamente ſi vuota, non mai cedé do alla forza del medicamento, ciò che ancora
è crudo ma per lo medicamento debilitanſi, e ſciolgonſi più coſto quelle coſe,
che ſane eſſendo, al inal contraſtano, per chè infievolitone il corpo,
agevolmente farà dal mal ſo verchiato, ed abbattuto: ne potràricoverarſi più
mai per argomento alcuno » ο κόστ δε τα φλεγμαίνον εν αρχή νόσωνευ θέως
επιχορέασι λύειν φαρμακη και του με ξυνεταμένου, και φλεγ μαίνοντG- έδεν
αφαιρέσον • γαρ ενδιδοί ώμον εον το παθG-, τα δε αντί. χον% τω νεσήματα και
υγιεινα ξυντήκασιν ασθενές- δε του σώματG- κνο μένα το νούσημα επικρα ]έι ·
οκόταν δε ονούσημα επικρατήση του σώ μας το τοιόνδε ανιάτως έχα. Ma ſe ciò per
buona ventura dell' ammalato pur non R gliene liegue, non per tanto certiſſimi
danni, ed irrepara bili avvenir gliene debbono; e ſe non altro, certamente
gliene andrà alla lunga il male, e ſconvolgeraſli il giudi cio, che ſopra
quello da dar era; ſicome non una, ma più fiate Ippocrate,e Galieno (1)
pienamente ne dimoſtrarono. Ora quì, chi non iſcorge allai chiaro, che minorar
ſecon do Ippocrate, e Galieno non mai li puote la cruda mate ria, come
beſtialmente ſi perfuadono i noſtri mcdici; i qua li tentan ciò fare colle
ininoranti, che lor dicono,medici. ne. Ma comechè in ciò grandiſſima arte,
emalizia ado perar ſogliano coloro, che ſon di contrario ſentimento, p coprire,
e naſcondere al Mondo, la manifeſta lor ribellio nca’maeſtri; pur non fanno sì
fare, che da ciaſcun non li conoſca, e non ſi ſcopra la ragia, onde ne reſtin
poi vergognoſamente dinnentiti, e convinti; così ſciocche ſon le chioſe,
eicomenti, co' quali ſi ſtudiano a tutta lor poſſa d'inviluppare, e travolgere
gli apportati Aforiſ mi, e con lor ciance far calandrini, non ſolo la volgare,
e cieca gente, Cheficrede ogni coſa, che l'è detto: ma col volgo ancora
que'letterati, che poco, o nulla a sì filtre coſe,avvegnachè digrandiſſima
conliderazione, ſo glion badare. E certamente non poſſo non maravigliarmi forte
della lor tracotanza: ſe così poco, o nulla eli riguar dando alla ſtima di
sìvenerandi maeſtri, ad ogn'ora così vituperevolmente gli beffano. Perciocchè
volendo coſto ro, che nella copia grande, nella malizia, e nella ſorti gliezza
degli uniori, e ſomigliantemente ne'caſi di confi derazione, o per riguardo
della dignità della parte offeſa, o della gravezza del male, o della grandezza
delle cagio ni, o del pericolo imminente, o per altre ragioni ſia das purgar
l'ammalato, tutto che la materia cruda lia, e non pur nel principio, ma
nell'aumento, e nel vigore delma le: o ciechi affatto, e diflennati; e pure
ſcioccamente ma lizioſi, e maligni apertamente a tutti ſi fan vedere, non ſolo,
perchè vengono ad accagionar di ſoppiatto, ſe non (1) nel lib.4. della dies.
p.44. di malvagità, di traſcuraggine almeno, i lor maeſtri; poi chè in materia
di tanta conſiderazione, ne Ippocrate, nes Galieno di cotalicaſi han fatto
menzione alcuna, comes certamente doveano; ma anco, perchè, o non avviſano, o
fingono dinon avvederſi, che poco men, che ſempre; o una, o più delle coſe per
lor dette, ne'mali acuti ſi trova no. Laonde, ſe tale veramente, qual per loro
fi finge, li foſſe ſtata veramente opinione d'Ippocrate, e diGalicno, aurebbon
elli in verità tutto il contrario dovuto dire: cioè, che no miga già di
rado,come dicono, ma ſovétiſſimamen te, o poco men, che ſempre nel principio
degli acuti ma li ſi debba purgare, e che nell'aumento, e nel vigore di ef fi
ciò anche ſi debba eſeguire. Ma pure per iſchermirli da cotal colpo
s'argomentan coſtoro di traſcinare a'lor ſentimentiqualche ſentenza de'loro
maeſtri: da cui tutt'altro certamente ſi compren de, che qucl, ch'elli
intendono. Ne dovea in buona veri tà Ippocrate, ſe pure frenetico, e mentecatto
egli del tut to non era, in que'luoghi, ove del gonfiaincnto ſolamente fe
menzione, non annoverarvi ancora quell' altre condi zioni, per le qualis’aveſſe
parimente a purgar la materia, non anche al debito cocimento pervenuta. Che ſe
non è da dire, lui quivi averle per balordaggine dimenticate, masſimamente
negli aforiſmi, ove tutto il ſuo ſtudio,e tut ta l'avvedutezza maggiore egli
logorò, perchè per ogni parte perfetta l'opera riuſcir doveſſe, biſogna di
neceſlicà conchiudere,talenon eſſer mai ſtato il ſentimento di lui, cioè a
dire, che gli umori non cotti, anche ove gonfiamé to non foſſe, a purgar
s’aveſſero • E Galieno, che così abbondatisſimo di parole egli ſi fu, che anche
in coſe di niun momento vanamente alla lunga ſcialacquolle, come poi vogliam
dire, che in materia di tanto affare, oltre al ſuo natural coſtumeaveſſe
affatto ri ſparmiate. E certamente non ſi dee in niun modo crede re, ch'egli
così traſcurato ſi foſſe, che quivi ancor nons v'aveſſe fatta la ſua diceria,
fe ftato foſſe meſtieri, diviſan done a ſuo modo quáto n’abbiſognaffe in
que'caſi'la pur R 2 gage ga, e quanto ſtrabocchevoldanno, e nocimento, traſan
dandola,per ſeguir ne foſſe al malato. Ma certamente no fu tale il ſuo
ſentimento, ficome cotefti diffeonati ſquali modei vogliono follemente darne a
divederc. E ben avvi faronlo anche molti valentisſimi Galicniſti, cosìdel paſſa
to, come del preſente ſecolo; masſimaméte Giulio Ceſare Claudino, avvegnachè
del purgare ainicisſimo, pur nõ po cédolo ricoprire apertisſimainete cõfeffollo,dicédo:
Equia dem fic exiſtimo valdè efe probabile, mentem efe Galeni, a Hippocratis,
cruda materia nunquam efſeexhibendum phare macum excepto uno turgentia caſu. E
di lui molto innanzi Giovan Manardi, che per conoſcerſi bene della greca fa
vella, e perciò più leal interpetre de’veri ſentimenti d'Ip pocrate eſſendo,così
delle purgagioni nel principio delle malattie, ebbe a dire. Et licet
Hippocrates dicat buc raro faciendum, nos rationibus adductismoti, crebrius id
face re poſſumus, debemus. E de’noſtrimedici replicar po trebbe Aleſſandro
Maſſaria ciò, che del Manardi e di tute' altri del ſentimento di lui già diſſe.
Hippocrates ducet,ra roin morbisacutis effe medicamenta adminiſtranda: contra
non defunt Manardus, &alii,ſidiis placet, Heroes, qui audent affeverare,
illa effe crebrius, immo Semper admini ſtrandas. Ma omai s'è táto oltre in
diſpetto di Galieno, e d'Ippo crate l'uſanza di purgar la materia cruda pian
piano avan zata, che ove in prima non altri medicamenti ſi metteva no in opera,
che piacevoli, e deboli, ne più, che una, o pur due volte: ora a gran dovizia
grandi,ed efficaciſſime purgagioni cosìcompoſte,come ſeinplici, da'noſtri Galie
niſti largamente diviſanſı; e ſe pur talvolta, o per tema, che n'abbiano
gl'infermi, o per altra cagione, alquan to più lievi, e deboli loro le
impongono, nondimeno, o con accreſcerne la quantità, o con meſcolarvi per entro
alero in ggior medicamento, o collo ſpeſſo reiterar delle medicine coſtringono
maggiormente a vuotarſi il corpo con dannograviffimo, e irreparabil riſchio
degli ammala ti; fe puread Ippocrate preſtar fede noi vogliamo; il qual ficome
di ſopra è detto, tante, e tante fiate manifeſtol loci: e Galicno medeſimamente,
il quale oltre a ciò av vifa, che 3Gν αρχηταί η νόσημα των εκκρινομένων αδέν
έκκρίνε. αι τίωικανά τα λόγω της φύσεως, αλ' έσιν άπαντα συμπτώμα των εν τω
σώματι παρά φύσιν, διαθέσεων • ν ώ γας χρόνω βαρύνεται με υπό των νοσωδών
αιτίων η φύσις, απεψία δ ' ες των χυμών, εν τέλω κενέσθαι τη χρησώς αδύνατον •
πτοηγάσθαι μεν Κρή πέψιν, ακολα θησαι δε διάκρισιν, 49' εξής κένωσαν την αγαθή
γένηται κρίσης. Cioc. quando alcun male comincia, ſe cofa maiavvien, cheppura
ghi, allor certamentenon purgheraftſecondonatura, ma ciò Farafficontro le
diſpoſizioni diquella; imperocchè,'quando la natura vien aggravata dalle
cagioni delle malattie, ma fon crudi gli umori, allora impoſſibil coſaè, che
alcuna eva cuazionefelicemente rieſca,concioffiecofachèfadi meſtieriche in
prima il cucimento, quindi lo fceveramento, e finalmente l'evacuazion ſi faccia,
perche ſia buono il giudicio. E fomi gliantemente in quel luogo ove dice.Per la
qual coſa effen. dovi nelcominciamento delle malattie sēpremaiſegni dicru. dità,
ſemprealtresi nocevol ſarà, e darnofa l'evacnazione di si fatti umori: ώς τ' εα
ειδη κατα την αρχήν τα νοσήματος απε. ψίας εσιν αι σημάα, μοχθηρα δια παντός
έσαι των τοιέτων χυμών ή xívwos: E quindi, per tacer altri luoghi, ſi ſcorge
quan to vadano errati, così coloro, che follemente immagina no non aver vietate
altrimenti quelle purgative medicine, cheminorantieſſi chiamano, no Ippocrate,
ne Galieno nella crudezza degli umori: comequegli altri ancora, che ofano
affermare, che Ippocrate, e Galieno, non per al tro vietafler le purgagioni,
che per non eſſer note loro, ſe non che quelle purgative medicine, che violenti
ſono nell'operare; il che però eſſer molto, e molto dal veroló tano chiaramente
ogn’huom vede; imperocchè per tacer del latte rappreſo, dicuicosì ſovente
Ippocrate ſi valles certiſſima coſa è, che gli antichi ebbero contezza della
Mercorella (la quale per poco val quanto la Siena) dell'E pittiino, della
Fumaria, dello Goico, del Polipodio, dell'Agarico, il quale per Galicno
malamente venne ſti mato radice, comeche fungo egli veramente ſia, e d'al tre,
e 1 tre,e d'altrebenigne purgative medicine. Ne è daracer qui, cheGalieno dice
a Glaucone, che dar egli debba l’Aſsézio, leggeriſſimo, ſenza fallo,
medicamento, nelle terzane, allo ra quando apparir ſi veggano i ſegni del
cocimento. Ga lien parimente viera, cheſi deanell'infiammagioni interne la Iera
di Temiſone, leggeriſſima medicina, ſe non che quando la materia ſarà al
cuocimento pervenuta; ed avve gnachè alcuna delle accennate medicine lenitiva
ſolamen te fia, nondimeno, come la ſperienza, ne inſegna data in quantità
grande divien purgativa. In quanto all'Epit timo, ed alPolipodio, Galien dice
chiaramente eſserel Jeno benigne medicine,e che moderatamente purgano (1) E
quanto è a me, Io porto fermiſſima opinione, che lo pocrate, e Galieno aveſsero
dalle continue, e diligenti of fervazionide'Sacerdotidell'Egitto un tal parere
appreſo; e perciò eſſer'avvenuto, che così ſtabilmente poſcia l'avel fer
ſempremai conſervato; eche dall'Egitto le sì fatte of ſervazioni quel gran
padre della filoſofia, e medicina Ita liana,Pittagora,in prima aveſse nella
Grecia recate; quel Pittagora lo dico, di cui altri ella non vide, da Democrito
in fuori, che il pareggiaſse, non che con lui poteſse entra re in gaggio, o'l
ſuperaſse giammai. Ma che Pittagora, foſse di tal ſentimento, egli li par
manifeſto per quel che nc fia ſcritto in quel celebre Dialogo, che della natura
dell'univerſo compoſe il divino Platone, la ove Timco no biliſſimo Pittagorico
introduce delle purgagioni in ſimil guiſa a favellare. La terza ſpecie del
commovimento ſuol riuſcir, ma non però ſempre giovevole ad huom, che da grave
neceſſità vi ſia tratto; ne altrimenti da chi ſia di ſana mente è da uſare,
cioè quella forte di medicina purgativa; * imperciocchè que’mali,che no ſono
guari pericololi, non ſono da ſtuzzicar con purgagioni; concioffiecoſachè la di
ſpoſizione di ciaſcun male fie ſomigliante alla natura degli animali: c
certamente la coſtituzion dicoſtoro è talmente ordinata, che generalmente ha i
termini della vita già ſta biliti, e qualunque animale ci naſce, con fatale, e
deter mina (1 ) nelmerodal.lib.13.6.15. minato ſpazio ncmena egli i ſuoi
giorni: trattone fuora quelle paffioni, che di neceſſità avvengono; imperocchè
i triangoli dal naſcimento di ciaſcú d'eſso loro tal virtù ſor tiſcono, che ſol
yale a mantenere il loro ordinamento per infino ad un certo tempo, oltre al
quale a niuno è conce duto dipoter più avanti allungar la ſua vita. Lamede ſima
diſpoſizione adunque è data alle malattie, e ſe altri colle purgagioni contro
al fatal tempo ſconccralla, al lora di piccioli,grandi, e di pochi, molti
diverranno; il perchè col regolamento del vitto le sì fatte malattie ſon da
correggere, e rintuzzare, per quanto a ciaſcun veriì, ad huopo; ne il durevol
male con medicamenti irritar fi dee: Πίτον δε αδG- κινήσεως και σφόδρα ποπ
αναγκαζο μένω χρήσιμον, άλως δε ουδαμώς τα νούν έχοντι προσδεκτέον, το της
φαρμακευτικής καθάρσεως γιγνόμενον ιατρικών • τα γαρ νοσήμα όσα μη μεγάλος έχει
κινδύνες, ουκ ερεθισέον φαρμακείαις · πα σα γαρ ξύτα στις νόσων, όσον πνα τη
των ζώων φύσει ποσέρικε και γαρ η τούλων ξύ. νοδG- έχασα πάγμένες του βίον
γίγνει χρόνος, του ο γένες ξύμ. παν G καθ ' αυτό το ζώον ειμαρμένον έχον
έκαςον, τον βίον, φύει χωρίς των εξ ανάγκης παθημάτων • το γαρ τσίγωνα ευθυς
καρχας εκάσων δύναμιν έχον & ξυνίσταται μέχρι πνος χρόνε δυνατού εξαρκών,
ου βίον ούκ αν ποτέ τις ας το περgν έπ βιώη» τόπος ουν αυτης και της πε και τα
νοσήμα ξυάσεως ήν • όταν τις παρα την ειμαρμένην του κράνε φθείρη φαρμακίαις,
άμα εκ μικρών μεγάλα, και πολλα εξ ολίγων νοσήμα τα φιλί έγνεσθαι· διο
παιδαγωγών δεά διαίταις πάντα τα τοιαύται καθ, όσον αν και τα αλή » αλ ' ου
φαρμακεύοντας κακον δύσκολον ερεθιστον, Ma diſcédédo a qualche
particolarmalattia,egliè da ſapere che fu ſentimento diGalieno, che in quelle
febbri, che portan ſeco i flulli da purgar giāmai,ne da ſegnar fia l'am malato,
quantunque ben fi pareſſe, che la materia per la ſoccorrenza uſcita, non foſſe
ella alla debita purgabaſtá te, o altro vi foffe da dover cacciar fuora
nell'ammalato; ſoggiugnendo manifeſtamente Galieno al ſuo Glaucone, eſſervi
ſtatialcuni, che ſcioccamente in sì fatto caſo ab bian condotti, preſſo che a
gli ultimi sfinimenti, gl'infer mi. Mai noſtri mediciavvegnachè d'eſſer di
Galien fede liſſimi ſeguaci ſommamente di pregino, pure i ſaldiſſimi ann maeſtramenti
di lui affatto traſcurando, a lor talento, e purgano, e ſegnano in ſomiglianti
caſi, nulla guardando a’riſchj, che, ſecondo egli avviſa, ſeguir ſovente ne pof
ſono. Così ſomigliantemete Galieno nelle febbriſincopa li (p tacer della
diffenteria)vieta in tutto il falaſſo, e le pur gagioni'; e pur coſtoro arditamente
contro i ſentimenti * del lor maeſtro tutto dì ve l'adoperano. Così anche nel
la puntura quando appajano gli ſputi del ſangue,e nel do lor delle coſtole,
vieta apertamente Ippocrate l'aprir la vena, ſe pure nel dolor delle coſtole
qualche manifefto ſe gno d'infiammagionenell'interiora non appaja. Ma cote iti
diſcreti diviſamenti del loro Ippocrate non altrimente, che vaniſſime
fuperftizioni fi foſſero diſpregiando i noſtri Ippocratici medici, baſta
ſolamente loro in tali avvenime ti, che col dolor vi ravviſin la febbre, che
come in prima poffono, cosìin diſpetto d'Ippocratc,e di chiunque ad Ip pocrate
crede, per iſvenare i miſeri cattivelli arruotano barbaramente le lanciuole,
direbbe Proſpero Marziano per avventura. Ma dove laſciato avea lo il purgar le
dó ne levate appena del parto, e non paſſati ancora i termi ni fatali aſſegnati
apertamente da Ippocrate a ciò conve nevolmente operare? E dove nelle lunghe
malattie, nelle quali la materia ha maggiormente di cocimento biſogno, ne
fegnal d'enfiamento eſſer mai vi puote, il purgar de’no Itri medici contro i
manifefti divieti d'Ippocrate, e di Ga lieno:E dove il cibare a roveſcio gli
ammalatise non guar dar punto all'età de'fanciulli, e de’vecchi, o alle
ſtagioni dell'anno, e cento e mille altre coſe di grandiſſima confi derazione,
ovemanifeſtamente da’lormaeſtri ſi partono? Troppo largo campo o Signori da
valicare aurei, s’lole voleſti fil filo tutte narrare: ne per poco di venirne a
capo Io ſpererei, Ma come ciò avvenuto ſia, che in tante coſe, e malli mamente
nel purgare, c nel trar ſangue dal loro Ippocra te, e Galieno i noſtri
Galieniſti partiti fi fiano: e che ezian dio que' che han riſtorata la lor
medicina, e ſottrattala al l'arabeſca rozzezza, pure travalicando i lor diviſi
abbia no in ciò manifeſtamente fallato; lo ciò giudico avvenirc, perchè gli
ammalati, e i lor parenti, efamigliari ſian ſem pre deſideroſi oltremodo di
rimedj, e ſpezialmente di quei, che per manifeſta vacuazione adoperar fi
veggono; come fe da quelli il lor ſalvamento, e non più toſto la lor morte
dependa. Perchè nelle malattie, e maſſimamente nelle più gravi, e nel vigore, e
accreſcimento di quelle, ove l'intermo maggiormente languiſca, per non
moſtrarſi i me dici ſcioperati ſenza ajutarli con argomento niuno, fi va gliono
di cotali medicine, e talor vi ſono dagli ammalati medeſimi, o da congiuntidi
coloro contro lorvoglia i me dici menati; perchè altrimenti a color non
ſarebbon a grado. E quinci anche è, che alcuno de’moderni intro duttori di
nuovi ſiſtemidi medicina,abbian ritenuti in par te sì fatti modi di inedicare:
non perchè egli veramente crcda, che ſien valevoli conſigli, da riſtorare
ammalati; ma perchè egli avviſa in tal errore eſſer già foinmerſa, ed incallita
la gente, che ſe altriméti adoperaſe,niuno certa o pochiſſimi ammalati da
medicar gli giugne rebbono. Adunque manifeftamente da ciò, che detto è compré
der ſi puote, che purtroppo grandemente nel medicare, da Ippocrate, e daGalieno
i Napoletanimedici ſi diparto no, e s'allontanano; emolto più aſſai di quel,
che'l Paracelſo, e l'Elmonte ſteſſo, e altri moderni ſpargirici, o altri,
ch'elli fieno, per avventura ſi facciano. Mafi laſci ad altri la briga di ciò
conſiderare: baſti a noi il ſapere,co. me ancora da ciaſcun Galieniſta
Napoletano ſi viene con fatti a commendar ciò, che con parole da alcuni di loro
manifeſtamente ſi biaſima; e come ancor' eglino laſcia no il loro Ippocrate, ed
il loro Galieno, ove lor venga in talento: e che tutti igualmente abbandonando
l'an tiche ſtrade più ch'alle cieche autorità de' creduti maeſtri, alla ragion
ne laſcianio guidare. E perciò per Dio ceſſino coſtoro d'abbajare addoſſo
a’moderni medi canti, e di mordere, e di lacerar tutto dìla loro lode vole
libertà, ne mai più per innanzicon uggia, e crepa mente > S cuore ſi ſtudjno
di contradiarla, e di metterla in fondo; poichè, come per addietro ſi è fatto
per noi manifeſto, da' più ſublimi ingegni,che ſtati fieno in ciaſcun tempo s'è
ab bracciata, e mantenuta da' più nobili ſcrittori, edalle più illuſtri
Accademic, e Scuole dell'Italia, della Lamagna, della Francia, dell'Inghilterra,
della Svezia, della D2 nia, della Polonia, e da tutt'altre parti del mondo glorio
famentc ſeguita. Ma riſerb.andomi di ciò favellare a miglior huopo, ri tornerò
pure a'piati,ed alle conteſe deimedici; onde già mi partii. E quantunque
fin'ora per me molte narrate ne ſieno, pur molte ancora, e quaſi infinite a
raccontar ne rimangono; le quali poichè mi pare d'aver oggi ragionato a
baſtanza, e già il ſole comincia a gir ſotto, riſerberolle. alla ſeguente
aſſemblea. RA 139 j: Milli Beda Vantunque volte meco ſteſſo penſando rammento
quel tranquillo, e feliciſſimo ſecolo, che meritevolmente dell'oro per ciaſcuno
vien detto: tante a biaſi mar la preſente, e miſerevol noſtra età; quaſi di
forza ſon tratto. Non pure, perchè a quella la terra dall'aratro non ancor
tocca, tutto ciò, che al mantenimento di noſtra vita abbiſogna abbondantemente
produceva; ed ora a romper zolle col Vomere, e col Raſtro, a ſveller pru ni c
ſtecchi anza, e ſuda, e talora anche in darno il Bi folco; ne perchè allora, e
nuvoli, e nebbie,e tempefte ', c turbini non intorbidavano, ficome or fanno, i
lucidi ſereni dell'aria; ne perchè l'eſecrabil fama dell'oro, non ancor
ſignoreggiava il mondo: reſo ora ſcellerato, e crude le, poichè fol vince l'oro,
e regna l'oro; ne per tant'al tri privilegj, che diquella s'annoverano,
de'quali altro che un'intenſo deliderio, ch'il cuore acerbamente ne pun ga a
noi non n'è rimaſo; ma ſi bene perciocchè, e liti, e S 2 piati, econtefe, ed
armi,eguerre non allignarono. No arruotava le zanne a mordere il cinghiale; non
digrigna va i denti il maſtino;non rabbuffava il doſlo il Lionefra; l'erbe, e
fiori s’appiattava ſenza veleno l'angue. Ma che è ciò? l'huomo, l'huomo di
tutt'altri animali duca, e ſigno re non fabbricò nave, ch'apportaſſe guerra
agli altrui li di, non forbì, non arruotòferro periſvenar l'altrui petto: non
aſſordò l'orecchie con iſtrepito ditrombe, di corni, o di bellicofi tamburi;
vivea ciaſcun ficuro ſenza il riparo di murate Città. Ed a'dinoftri, che più fi
tenta, che più fi machina, ove più fi bada, fe non ſe a' nuovi ordigni da
guerra, perchèl'un Principe, l'altro abatta; l'una Repub blica, l'altra
eſpugni; l'una Signoria, l'altra atterri; l'una Città, l'altra ſtermini; l'un
nimico, l'altro affondi; ſi com batte nelle campagne, ſi combatte nelle Città,
s'armas contro l'un l'altro amico,'e fin dentro il nario albergo con l'un,
l'altro fratello, anzi il padre co'l figlio calora conten de; va in ſomma il
mondotutto in conteſe, e benchè tar dis pure è gionto agli antipodi il furore
dell'armi. M2 egliè pur vero, chele diſcordie abbian per qualche tempo auuto
fine, ne in ogni tempo le porte di Giano ſieno ſtate sbarrate. Ma quel, che pür
troppo è da maravigliare, è ciò, che lo ne’paſſati ragionamenti v'ho detto, e
debbo nel preſente ſeguire; egli cono le tante, e tanto invilup patecontefe
de’medici. Queſte non han mai ſofta, quefte non han inai line; e comeche
moltisſime ve n’abbia fin or diviſate, pur altre aflai a narrar ne rimangono;
le qua li lo fon ora perdiviſarvibrievemente, e darvia diveder, che tutte
quante dall'incertezza dell'arte abbiano origine; la quale perchè più
chiaramente per voi ſi comprenda,dirò brievemente altresì,chente mi paja delle
ſette de'medici. E perchè fi comprenda, quanto queſt'arte fia ſempre mai nemica
naturalmente di pace: ne baſterà per avventi ra il riguardar ſolamente al
cófuſiſſimo drappello de'Ga lieniſti, che co’lor diverſi, confuſi, e ritorti
ſentimenti ban turbati i mari Con menti avverſe, ed intelletti vaghi, Non per
ſaper, ma per contender chiari. Eper la verità delle loro ſtrane, e ſtravolte
opinioni da. to brigando romoreggiano, che poco men fanno per av ventura l'onde
torbide, e fonanti del noſtro Tirreno qual ora nelle più atroci tempeſte
giungono furioſe a riverfar G ſu i lidi. Magna mentis admiratione diftrahor,
dper surbor (dicea di loro appunto favellando Giovanni da Sa lisberia ) quod a
fe ipfo tanto verborum conflictu, &collifio ne rationum defiliunt, &difcordant.
Neancor paghi del le lor lunghe e, oſtinate conteſe aggiugnendo ſempre pia
tiapiati, quiſtioni a quiſtioni, ne preſero anche in preſto dalla brigante
filoſofia, altri più inviluppati, e nodofi, da fare ſtancar inutilmente per
un'intero ſecolo i più riottoſi dicitori del mondo. Perchè riſtucco,
ecrannojato l'avve durisſimo Lodovico Vives, così (clamando proruppe. Ex
fcholaftica illa phyfice exercitatione ingentem, ácopiofifſimă difputandi
materiam in hanc quoque artem, tanquam plar ftris invexerunt, de intentione,
& remilline formarum, de raritate, & denfitate departibus
proportionalibus, de inſtáribus: ea que nec funt, nec unquam evenient
ventilantes fua fomnia; defertapugna cum morbis interea loci premen tibus,
atque occidentibus. Ea res fecunda, e infinita non aliterquam bydra quædam
diutiſſimèremurata eft ingenia, cum fructu aliis vacatura. Videre eft
cavillariones a, trj. cas Iacobi Forlivienſis, nec minus fpinofas, nec minus
inu tiles, quam Suiceticas: nec prolixitate, cu moleftia cedentes. E Gregorio
Giraldi huom di rara, e di ſquiſita letteratu ra, così de’diſcordanti
pareri,che a danno altruiportano, e mettono in campo i medici, fe vagamente
parole. Nec minus quoquo medici noſtro periculo de medēdi ratione ejuſq;
partibus difenſere, aliis alia fubindeapprobantibus, ut no ftra etiam hac ætate
tanta fit inter medicos diſſimilitudo, ut corumaliqui vena inciſiunem omnino
prohibeant, alii ad eam aperiendam potius exclamext. E per recarne brievemente
un faggio, eglino intorno aº principj delle coſe naturali contender fieramente
ſogliono: ne ſi può di leggier credere quante diverſe, e confuſisſime opinioni
ciaſcun di loro ne porti. Dicono alcuni ritrovar fi veramente, e formalmente
gli clementi ne'miſti: altri in contria opinion tratti,ſolamente in virtù, ed
in potenza. Vogliono coſtoro, ſecondo ilſentimento del lor maeſtro, effer le
qualità formevere degli elementi, e de'milti: co loro tutte le forme
eſſerveriſſime ſoſtanze giudicano. S'ay vilan molti collor Galieno, amendue le
qualità nel lor fommo grado eſler igualmente negli elementi; altri una in più
alto, e altra in più baſſo grado ne allogano; quin di infra coſtoro altra nuova
quiſtion forge, ſe colle più fie voli qualità degli elementi le côtrarie
accoppiar ſi ſoglia no. Ma ſe le dette qualità ſien tutte, come dicon poſiti ve,
e vere: 0 pure alcune di loro ſolamente privazioni di quelle, lungamente affai
ſi contraſta ora eziandio in fra’ Galienifti medici. Ed oltre a ciò giudicano
alcuni,in qua lunque,comechè picciolisſima particella deʼmiſti, formal mente
avervi parti corriſpondenti a ciaſcuno degli elemé. ti; altri ſono dicontrario
parere. Ma chi potrebbe mai intorno a ciò rapportar tutte le antiche, e le
moderneopi nioni? ſenzachè non ſon minorile conteſe, s'egli ſia pur vero, che
vi ſia temperamento; ſe quello veramente ſia l'anima medeſima dell'huomo, come
cmpiamente avviſoſ ſi Galieno, o pure altro, che quella; ſe ſia da porre il ſo
ſtanzial temperamento; e ſe quel poſto, del qualitativo in nulla differente
egli ſia. Oltre a ciò quante le differen ze deil'uno, e dell'altro
teinperamento ſi ſieno; ſe il qua litativo ſolamente nella proporzicn delle
quattro prime qualità riſieda, o pure in altra qualità da quelle riſurtu. Ma
troppo a lungo ne verrei, ſe tutte diſtintamente nar rar volesſi intorno a sì
fatta materia, le zuffe, e le conte ſe de’alieniſti filoſofanti. O forſe almen,
ſe in tutt'al tro ſi rodon l'un l'altro il baſto, faranno a buon concio ra
nodati, e concordi in render ragione dell'eſiſtenza de’lor quattro elementi
nella natura? Anzi in ciò più che altrove gareggiano in rintuzzarſi, rifiutando
altri ciò, che altri ne dice, e tutti l'un l'altro oſtinatamente carminandofi;
an zi fra cllo loro Vopiſco Fortunata Pemplio dopo averne molte, e molte
ragioni recate,e tutte rifiutate,ultimame. te con tali parole i ſuoi propj
ſentimenti ne paleſa. Sed hæc omnia quăfint imbecillia quilibet
videt.Quapropter aliorum etiam qui hactenus id ipfum conati ſunt argumentis
penficum latis,puto non poffe vera, & efficaci rationeprobari, ejetan tum,
veleffe debuifle quatuor elementa, ſed id ita effe, nos accredere Ariſtoteli
toti omnium fcientiarum fapientia lumi ni. Concluſione indegniſſima nel vero
non pur di lui: ma di qualunque più cattivello ſcolaretto, che per filoſofante
ſi voglia fare acredere; c ne verrebbe ſicuramente cgli dal ſuo Ariſtotele, c
dal ſuo Galicno ſchernito, e forſe da lor nc torrebbe in capo del ſer Meſtola,
e delgocciolone, le il ſecodo ne meno ad Ippocrate vuol dar fede ſenza il pc
gno in mano delle ragioni, el primo allega l'autorità nel l'ultimo luogo dopo
tutt'altre pruove, con ciò manifeſta mente inſegnando, che non miga delle
autorità, ma delle ragioni lo intelletto ſolamente debba eſſer pago. Ma pu re
Iddio voleſſe,che aſſai non vi foſſero a’dì uoſtri, di quel li, i quali ſecondo
il ſentimento del Pemplio, non alla migliore, ma alla maggior parte degli
ſcrittori voglion gir dietro,pecorum ritu,perdirlo colle parole di Seneca, non
qua eundum eft, fed qua itur. Cattivelli di loro, che tratti dalla bordaglia de
letterati,immaginano, che allora ſien da lor meſſi in ſu’l filo del vero ſapere,
qualora da lo ro forſe più, che da ogn'altra coſa del mondo, ne fon di
ſtornati, e danneggiati così, come cantò il Bembo nello ſuc diviniſſime ſtanze:
Sicome nuoce al gregge ſemplicetto La ſcorta fua quandell'eſce diſtrada, Che
tutto errandopoi convien,che vada. Ed’o ſe mai eglino fi riducellero alla
memoria la ſentenza del teſte da noi citato filoſofo, Argumentum peſſimi turba
eft. E quell'altre parole del medeſimo,non eadem hic,cioè nel filoſofare, quam
in reliquis peregrinationibus condicio eft in illis comprehenfus aliquis limes,
interrogati incola non patiuntur errare: at hæc tritiſima quaquevia,
&celeberri ma maxime decipis: certamente infomiglianti falli ſcimu. niti,
14 Ragionamento Terzo niti, ch'elli ſono, non fi laſcerebbono traſcinare. Ma
egli però giova credere, che il Pemplio non già da fenno, ma per irrifion
parlaffe, ed ironia, ' fe poi ſenza al cun rimordimento, e fenza ſcrupolo
averne di temerità, in trattando delle qualità,paleſemente di LE DOTTRINE D’ARISTOTELE e di Galieno famoſtra
di non curare. Malaſcian do da parte ſtare tutt'altre quiſtioni, nelle quali
inveſchia ti, e impaſtojati i Galieniſti tutti ſtralciar mainon ſi poſe fono,
ficome ſon quelle intorno a' principj dello ingene. rarſi dell'huomo, al caldo
natio, all'umido, che dicon ra dicale, all'eſiſtenza, alla natura, e al numero
degli ſpiriti; e ſomigliantemente intorno all'inviluppatiſime, e tutto che
innumerabili quiſtioni della natura, del numero, del luogo, della diſtinzione
delle potenze, e ſpezialmente in torno a quelle coſe, onde il chilo, e'l
ſangue, e gli altri umori s'ingenerano; o pure in trattar del polſo, dell'arte
rie, e del movimento del cuore: ed onde i ſentimenti nc végano, e formiſi il
moto.Chimai baftevol ſarebbea por gli d'accordo intorno a quella cotanto
celebre, e faniores conteſa, e di tanta conſiderazione in medicina, ſe la bi le,
la flemma, ela malinconia ftian di fatto, o pure in po tenza nella maſſa, come
dicono,del ſangue? Il che in buo ſentimento viene a dire, fe veramente vi lieno,
o no; im perciocchè certamente nulla monta il potervi eſſere, ac ciocchè ſi
dica,che vi ficno;ficome direbbeſi altresì, che nel ſangue vi ſieno in potenza,
e carne, e vermini, e cene to, e mille altre coſe, chequivi ingenerar ſi
poſſono. Ma a cui caglia di vedere un confuſiſſimo rimeſcolamento di diverſe, e
ſtrane opinioni, riguardi digrazia a' Galienilti medici intorno al diviſar
della natura, delle differenze, e delle cagioni delle materie delle febbri, e
de'luoghi, ove s'ingenerano; riguardi all'opere de’loro antichi, e moder ni
maeſtri: e poi, ſe potrà, ridicamiquando mai potreb be alcuno ſcalappiar
dall'intralciato, e confufiffimo labi rinto di tanti, e sì fatti riboboli, e
indovinelli; e guari pu re a quali debolillime fila aſſai ſovente la medicina
di Galicno s'attenga, Tralaſcio pure le lunghe, ed inviluf pate quiſtioni
intorno all'apopleſſia, al catarro, al letargo, alla mattezza,alla malinconia,
a' capogirli, al mal caduco, alla peſtiléza,almalfrāceſco, eda täi'altre
dubbioſe cotro verlie, che non ſarebbe per avventura minore impreſa il raccorle
quì tutte, che l'arene del mare, e le ſtelle del Cie to minutamente annoverare.
E comechè per queſto capo incerta, e confuſa, e inviluppata la medicina de'
Galieni fti oltremodo ſi ſcorga, e perciò inucile, e nocevole ad adoperare:non
peròdi meno non è ella intorno alle mag giori biſognedell'huomo incerta
maggiormente, ed in tralciata, cioè a dire intorno alla dieta: i fini, e le
condi zioni del trar fangue: la natura, la facoltà, gli effettia e'l modo
dell'adoperar de’medicamcnti: quando, ed in qua’rempi del male ſien da dar le
purgagioni: ed altre, ed altre infinite quiſtioni,delle quali queſte,ch'io ho
quì bric vemente raccolte, una menomiſſima particella ſi fono, e certamente lo
m'avviſo, ch’in leggendolei curioſi da non poca inaraviglia ſien ſoprapreſi;
anzi forte ſoſpirerano, s ſdegneranſi, veggendo a quante controverſie,a quanti
ſo fiſini, a quanti pericoli per lor ſi faccia foggiacere il bene ftare, e la
vita deglihuomini. E chicon occhio aſciutto può rimirar il crudeliffimo
ſterminio, che fan tutt'ora de gli ammalati di febbre maligna, per non ſaper di
quella, cofa del mondo? Eglino piatiſcono in prima delle cagioni di fuora,
chenti, e quali elle fiano, e d'onde naſcano, come operino, e muovano il male;
quindi intorno a quel. le d'entro combattono, ſe fien verainente qualità: efe
tali, naſcoſc più toſto, o manifeſte, o pur ſe da loverchio di putrefazione
avvengano, o da tutta la ſoſtanza più to ſto gualta; e corrotta; e oltre a ciò
in quali luoghi elle fi covino, diverſamente contraſtano. Così mordendoſi l'un
l'altro, e piatcndo, niun l'imbrocca, e tutti a malpartito menano gli ammalati;
volendo altri i falaſſi, ed altri vie tandogli, ed altri una fol volta
permettendogli, chi ſcar ſamente, cchi fino a trar loro tutto il ſangue, chi
dalle venc delle braccia, e chi da quello de piedi, e chi anches da quelle
parti, delle quali è bello il cacere, con appic T carvi le mignatte; altri a
tutti coſtoro cótraſtando voglió, che dalla buccia ſolamente per coppette fi
tragga. Alcu ni vengon toſto alle purgagioni, altri aſpettan qualche de
boliſſimo ſegnal di cocimento;ed altri, o nel principio pur gar logliono, ove
turgide lien le materie, il che di rado. avvenir ſuole, o pure inſino allo
ſcemo del male s'indugia no. Molti poi nel purgare, de’violenti medicamenti fer
vir ſi fogliono,molti de'mezzani, ç moltide’deboli, e be nigni n'adoperano: e
parecchi ancora con lenitivi rimedi folamente medicar s'argomentano. V'ha chi
purga una ſol volta, e chi più volte in ogni tempo, e ſtato del mal lo coſtuma.
V'ha alcuni, che come il mal comincia, cosi toſto con le purgagioni v'accorrono;
ma dopo i trè dì af fatto le victano; e dicoſtoro altri di vomitive, alori di
sé plici purgative medicine ſervir ſi fogliono. Alcuni ne'pri migiornidel male
a' rimedj, che chiaman veſcicanti, gli infermi condannano; altri vuol, che in
prima purgati, e ſegnati color fieno; echi in un luogo, e chi in un'altro cô
-sì fatti rimedj marchiar gli vogliono, togliendo loro così manifeſtamente le
forze, e crucciandogli, e dando loro vigilie, e dolori, e forſe con riſchio di
gangrene,di piaghe nelle reni, e nella veſcica, di malagevolezze d'orina,e
d'altri malori, che ne foguono. Ne mancano eziandio infra'Galieniſti medici
alcuni più rinominati, che per be nevoglienza al lor maeſtro Galicno, cd
Ippocrate, o per chè così veramente lor paja,cotal ritrovato come peſtilen
zioſo; e ficriſlino, e di barbara gente, e crudele, oleremo do vituperino, e
danninozil quale non a confortar vaglia, ed ajutare il cocimento, ma ſolamente
a fraſtornarlo, ed indugiarlo, con accreſcer le cagioni ad un'ora, e gli effet
tidel male, e con piagar, ed infiammar malamente ſpeſſo ſpeſſo le reni, e la
veſcica, e far talora gli addolorati lan guenti di puro fpafimo miſerabilmente
morire. E v'ha, eziandio di coloro, che non d'altri rimedi, che de ſolian
sidoti nelle maligne febbri ſervir fi fogliono; ed intorno a queſti ancora
diverſamente piariſcono. E forſe faran mai per riconciarſi, e porſi d'accordo
infra qualche ſpazio di + tein tempo le lor conteie? e le loro incertezze
appianate, fari per porſi fuora, quando che ſia un più ſtabile, e veriſimile
fifteina di medicina? anzi per quanto ne poſſiam conghier turare eglivie piů a
giornate s'accreſcerannoi piati, e le conteſe, e ſempre più confuſo, e incerto,
e pericoloſo il lor meſtier diverráne. E nel vero,chi mai potrebbe deci derle?
non le autorità, non le ragioni, non l'eſperienze; imperciocchè, così gli uni,
come gli altri, di loro eſperi menci egualmente fan moſtra, e pompa; morendo
vera mcnte, e guarendo così degli uni, come degli altri, i malati. Per amendue
le parti poi lor ragioni ſi produco no in mezo; equinci, e quindi ogni conteſa
ha ancora i fuoi parziali. Ne v'ha cagionealcuna, per la qual mag giormente
attenerci dobbiamo a Giovan Manardi,ad Er cole Saſſonia, ad Orazio degli Eugenj,
che d'altra parte più coſto ad Aleſſandro Maſſaria,ed a Fabio Paccio, eze
Pietro Salio, o a Girolamo Cardano preſtar fede, conciofa fiecoſachè tutti
egualmente ficn di pregio, e lieva nella Gia lienica medicina, ed egualmente di
maggioranza gareg giar îi veggino. Perchènon ebbero certamente il torto, per
quelch’lo ini creda ', a dir quc' valene' huomini:non. polje comprehendi patere
ex eorum qui de his diſputarunt di fcordia; ciim de ifta re, neque inter
ſapientia profeſſores, neque inter ipfos medicos conveniat. Ma poiche Io in par
te vi ho diviſato a’quali tempeſtoſe procelle di litigj ediconteſe la medicina
tutta ſoggiaccia, diſconveneyol coſa non farà ', ch'Io mi ſtudi per avventura,
e mi argome ti di recarvene brievemente la cagione. Alcuni ſciocca. mente fi
perſuadono ciò ſolamente per colpa deʼmedici avvenire, i quali oltremodo d'onor
deſideroſi,ed avariſfi mi del denajo, e naturalmente ancora riottofi, e
ſuperbi, ſi graffjno ſeipremai, e ſimalmenino; cercando a ſpada tratta ciaſcuno,
ove a lui venga in concio, altrui travaglia re, e neinichevolmente affitto
atterrare. Così vengono a partirſi in fazioni, e ſempremai a premerſi,e
tenzonare, non altrimenti, che tutt'altri macftri di cialcun'altro me ſtier fi
facciano; perchè faggiamente diffe Eriodo وا T 2 Και κεραμεύς κεραμά κοτέα, και
τέκτονι τέκτων Και ωχός πτωχώ φθανέα, και αοιδος αοιδώ. Che in lingua noſtra
riſuona Al fabbro, è'l fabbro in odia: e'l vafellajo Non puòſoffrir compagno:
arde diſdegno Contro un mendico l'altro: el’un cantore Contro l'altro cantor di
rabbia freme. Malo per me fermamente credo, che alcra di ciò ne ſia la cagione:
e che non tanto per uggia, e mal talento deʼme dici, quanto per mancamento
dell'arte medeſima così in certa,e intralciata,e dubbioſa no poſſan goder mai,
ne pa ce ', ne ripoſo que', che l'eſercitano.Negià in tante, e tan te diverſità
di ſentiméti ciafcun'altro meſtiere partir fi fuo le, in quante la medicina ſi
parte, ſe già non foſſe, che la filoſofia, e tutte quelle ſcienze, c'han colla
filoſofia qual che attacco, o dependenza, alle inedeſime tempeſte del la
medeſima ſoggiacer ſi veggono; nelle quali malagevol molto, e difficile è lo
inveſtigar la verità, licome confeſſa no que'filoſofi, e medici medeſimi, che
d'haver preſte loa lor pruove, e dimoſtrazioni falſamente ſi pregiano,
Nemailetto di ſelva allor, che priva L'arbor difoglie il venta,ha tante fronde
quante, e quante diverſe, e diſcordevoli fette ha l'anti ca, e la moderna FILOSOFIA;
o in ciaſcuna ſetta di quelle's quante, e quanto diverſe infra loro fian de
parteggiatilo pinioni. Così de'Peripatetici ſolamente, chi non sa quam to li
premano, e li rintuzzino iGreci,egli Arabi, eiLa tini Maeſtri? quorum fudium,
dice un di loro, perpetuum,ut contradicant, ab aliis femperdiffentiant. Ed a
cui non ſon manifeſte le continue, ed oftinate contefe delle dire Peripatetiche
ſchiere ancora,che nominali chiamano, creali? E a tanto giunſe la lor riottoſa
oſtinazione, che poco fallò, ch'un dì in Parigi venendo alle mani, nó iſve
gliaſſero nella Francia una nuova, e fanguinofa guerra ci yile. Ed infra i
Reali medefimi chi potrebbemai, co’TO miſti gli Scottiſti rappartumare? e chi
co’Tomiſti i Tomi fti medelimi:econ gli Scottiſti gli Scottiſti? ma per noi 3
dipartirci della noſtra medicina, in queſta altro non è egli per certo di tante,
e tante diſcordie cagione, ſe non ſe la medeſima malagevolezza del rinvenir la
verità delle coſe naturali. E ciò ben’avvisò Galieno medeſimo, ove quel, le
parole di Ippocrate va in prima chiosãdo xehosganemi il giudicio difficile: ο
λόγG- δ'αν ηκρίσης άη, το κρίνεσθαι παρ' αυτό τα ποιητία.χαλεπος και δυσθήρατός
εσιν όγε αληθής, ως δηλόι και το πλήθG- των κατα την ιατρικής τέχνης αιρέσεων
•ου γαρ αν άπερ οίον τ' ήν ραδίως ευρεθήναι το αληθές, ας τοσούτον ήκον
αντιλογίας αλήλοις οι ζητήσαντες αυτό τοιούτοι τε και τοσούτοι γενόμενοι. 11
giudicio, dice egli, fi è la ragion medeſima: poichèper quella le coſe, che da
far fono, fon giudicate. E certamente egli è difficil molto, e malagevole, a
rinvenire, Io dico il giudicio vero, il qual manifeſtamente ravvifarfo fà dalla
diverfità delle fetre della medicina. Concioffiecofachè le agevol foſſe il xin
venir la verità, non ſi ſarebber tanti, e tanti valent'huomi ni, che per
imprenderla con ogniſudio ſi ſono affaticati, in colante ſette partiti. Fin qui
l'avveduto Greco.Manoi più avanti procedendo ci avviſizmo, il rinvenir la
verità effer certamente molto più malagevole, o piùardua imprefa aſſai di
quel', che s'immagini, e dica Galieno. Ad inve Aigar di ciò la ragione convien
ridurci amemoria, che noi non men, che gli altri animali, poveri, e mudi
affatto di qualunque, comechèmenoma contezza delle coſe,naſcii mo; verità così
chiara, e conoſciuta per ognuno, che non le fa d'alcuna pruova meſtiere, e
molto ben ad ogniora Iz ravviſiano, e Platone ſteſſo venne coſtretto a
confeſſar fa, avvegnachè altra volta faccia ſembiante di tener con truia
opinione, dicendo, che'l noſtro apparare altro in vero egli non ſia, ſe non,
che un rammentarci quelle co ſe appunto nredelune, che già noi prima di naſcere
ſape vaino; ed imperciò tutte le notizie ſenza fallo conviene, che da noi
ſteſſi l'appariamo; ma come, e da cui,non èma lagevol troppo per avventura ad
inveſtigare. L'animanoſtra, alla quale, come a parte più nobile, e più
principale dell'umana compoſizione, ſolamente con. viene l'apprender le coſe;
ondefolea ſaggiamente Epicarmo dire: la mente vede, la mente ode, l'altre coſe
tutte fon forde, e cieche; l'anima noſtra lo dico, comechè in corporca forma,
ed inviſibile ella fia, in sì fatta guiſa no dimeno unita, ed avviticchiata,
per così dire, ella al cor po ſi ritrova,che ſe queſto dalle ſenſibili coſe di
fuora toc co, emoflo ad eſſer mai viene, varj, e varj penſamenti in effa egli è
valevole a ingenerare; c ciò avvicne qualunque ora elleno toccano,e muovono le
fibre de’ncryi, le quali a guiſa di fila ſottiliflime di ſeta trapunte in
ricamato pan 10, {parce per tutto ilcorpo ravviſanſi, e che queſte poi
avvalorate da un diſcorrente, e ſottil licore, gli avvti mo viinenti alla prima
loro origine riportano nel cerebro principal ſedia dell'anima, ove quella il
comprende, o per me dire ſente. E le fibre poi col venir variamen te premute da
quelle parti del corpo, che ſi chiamano organide'ſenſi, ecoltorcerſi, e col
piegarſi in varie, ed in varie maniere sì, e tal mutamento ricevono ne pori,
enel ſito delle lor particelle, che da loro, e dalla diverſità de li ſenſibili
oggetti di fuora la diverſità del comprendera, o fia de'ſenſi,ncll'animna
procede. Quinci ſcorger ſi puore, chei ſenſi ſono quelli, per li quali non
altrimenti, che per le fineſtre liz luce, entrano nell'anima le prime contezze
delle coſe, e da queſte ella poi altre, ed altre contezze col mezo del diſcorſo
tracndo, tratto tratto ſe ne viene ad arricchire; ma come, e dove ſi riſerbino
l'acquiſtato notizie, e come l'anima l'abbia più, o meno pronte, quae do valer
ſe ne vuole, e come per ſe ſteſſe talora all'anima firappreſentino, è
malagevoliſſimo ad inveſtigare; ne queſto propoſito più che tanto appartiene
forſe a noi il fa perlo. Ed al ſentir dell'anima ritornando, lo dico libera
mente, e confeſſo, che i ſenſi nc ſe medelimi, ne l'anima mentir non poſſono
gianmai; inperocchè i ſenſi le im preſſioni degli eſterni ſenſibili oggetti mai
ſempre tali all' anima rappreſentano, quali eſſi appunto le ricevono, fen za
curare, o prenderſi d'altro brigi. Verità, la quale non ſo lo come DE’PERIPATETICI
LE SCUOLE COL MAESTRO ARISTOTELE LIZIO abbiano ofato negare;cocioffiecofachè ſe
nella maniera, la qui Del Sig.Lionardodi Capoa. 151 quale effi fingono andaſſe
la faccenda, ogni fabbrica di no Itro diſcorſo certamente a terra ne verrebbe,
come faggia mente avviſa quellaltilimo filoſofante, e poeta latino:.. Vt in
fabrica ſipravaſt regula prima:“ Normaque fi fallax rectis regionibus exit: Et
libella aliqua fi exparte claudicat hilum: Omniamendose fieri:atque obſtipa
neceſ umft: Prava: cubantia: prona: Supina: atq; obfona tecta Iam ruere ut
quædam videantur velle: ruantq; Prodita judiciis fallacibusomniaprimis. E ſe i
ſenſi mai poteſſero una ſol volta, o ſe, o altri ingão Nare, ſi toglierebbe via
certamente dal mondo ogni con tezza, ogni giudicio, ogni fede; e non per altro
in vero gli antichi Padri della Chieſa così acerbamente ripigliaro no i
filoſofanti d'una sì erronica, e ſciocca dottrina: Re cita Ioannis teftimonium,
dice Tertulliano, quod audivi. mus; quod vidimus oculis noſtris, quod
perfpeximus, ma nus noftræ contrectaverunt de verbo vitè falfa utique teſta
-tio fi oculorum, aurium, & manuum fenfusnatura mer titur. Ma a chi mai
ricorrer ſi dovrebbe per conoſcer, ed ammendare i fallimenti di ciaſcun ſenſo?
ad altro forſe? certamente no; imperocchè dell'uno non meno l'altro ſen ſo farà
ſoſpetto difalſità, e d'errore; ſi chiederà forſe aju to agli altri ſenſi tutti:
manon ſono queſt'altri ancora ſom ſpetti di falſità? o ſia una, o ſieno più le
perſone, che ne deano teſtimonianza, nulla importa,fe di eſſe tutte è dub biofa,
ed incerta la fede. O forſe, come Ariſtotele ſi per Snade, gli errori
de'ſenſiconoſcerà la ragione? ma come potrà cio mai eſſa fare, fe per avvederti
dell'error d'un ſenſo, ad ammendarlo, dineceſſità le fa meſtieri fervirſi
dell'opera d'un'altro ſenſo, e di notizie, e di regole col me. zo de'ſenfi
parimente avvte. A queſte, e ſimili malagevo lezze ponendo mente peravventura
Ariſtotele, ne aven do altro rifugio dice, che ben può la fagione giudicare del
l'error d'un ſenſo colla ſcorta d'un'altro ſenſo, il quale abbia però più ben
fatto, e ſquiſito l'organo; e fi ſerve egli per ciò dimoſtrare dell'eſemplo
dell'anello, il quale mello و IS2 RagionamentoTero meſlo ſenza frámettervi
ſpazio notabile ditempo, or nel l'uno, or nell'altro dito della inano appare al
ſenſo del tatto non uno, ma due eſſer gli anelli; il quale per error del tatto
vien ſecondo lui avvertito, ed ainmendato dalla ragione col cõſeglio del ſenſo
della viſta: l'organo del qua le è più eccellente di quello del tatto. Ma a chi
per Dio un sì fatto riparo vano non ſembra; poichè quancunque l'eccellenza
dell'organo perfetta aſſai, e compiuta ſia, nó ſarà mai valevole ad operare,
che quel ſenſo non men degli alori non vada ingannato. E per valermi del
medeſimo p · lui rapportato eſemplo del ſenſo della viſta, non s'inganna queſti,
SECONDO CHE PORTA OPINIONE IL MEDESIMO ARISTOTELE, ne'colori dell'Iride, e
delcollo della colomba; anzi ſe poteſſero mai i ſenſi ad alcuna forte d'errore
ſoggiacere, fi ritroverebbe per tale, che ben ſottilmente vi badaſſe, affii più
agevolmente ad errare il ſenſo della viſta, che tutt'al tri ſentimentiincorrere.
Ma lo forte mi maraviglio poi, come non avviſaffe ARISTOTELE, che ſoventemente
l'errore del ſenſo, che ha più eccellente l'organo, da un'altro fen fo, di cui
l'organo è aſſaimeno ſquiſito conoſcaſi, e cor reggafi; comeincontrarſuole
nelremo dentro dell'acqua, ove l'organo della viſta dal toccamento vien
ricreduto, e ciò lo dico favellando fecondo i ſuoi medelimi ſentimenti. E alla
fine domáderei ad Ariſtotele, ſe i ſenſi de'quali egli intende doverſi la
ragione ſervire per riprovar altri ſenti menti, ſieno anch'eglino tali, e ſe
tali pur ſono, perchè cglino ancora non potranno eſſer fall? adunque mai potrà
giudicar la ragione appiccata allc lor pruove, c certamen te mal può convincer
perſona di falſità quel Giudice, al quale convenga dineceſſità valerſi di
teſtimoni ſoſpetti. E a ciò riguardando forſe ARISTOTELE CON LA SUA USATA POCA
FERMEZZA IN ALCUN LUOGO DICE, i sensi non potere in modo alcuno errare, cche
ſia debolezza d'intelletto i sensi per la ragione lasciare. Ma quantunque non
poſſano iſenſi, ne ſe, ne altri in gannare, non però di meno poſſono molto bene
allo in telletto, cui propianente il giudicar s'appartiene, effer 1 cagione
d'errore, e d'abbagliamento; ecomechè poffafig avventura l'inganno, o l'errore
ſchivare col non precipi tar coſto,e inconſiderataméte il giudicio, ma
ſoſpedédolo, e ritenédolo finattanto che fiarrivi a quell'evidéza de’sē timenti,
tanto, e tanto celebrata per Epicuro: tutta fia ta,perciocchè ne in tutticorpi,ne
in ciaſcuna particella di quelli, tra per la lor picciolezza, e per altro
impedimento egli non è a'ſenſid'internarſi, e di profondarſi conceduto, e
quando ben loro ciò venga permeſſo, ne men altro egli no certamente comprender
ne potráno ſe non ſecotali im preſſioni ſolaméte,che da quelliricevono, pchè no
già mi ga i corpi, ma qualche operazione ſolamēte de'corpi vien loro ad eſſer
manifefta; ma la ragion poiè quella chedal le varie, e varie operazioni
de'corpi, varie, e varie core alla natura lor pertinenti imprende ad
inveſtigare. Ma pera ciocchè dell'operazioni medeſime, che per li ſentiinenti
s'avviſano, varie, e diverſe eſſer poſſono le cagioni, e nel trarne argomento
vezzoſa talora, e ingannevole loro ſi fa davanti Falfa di verità ſembianza, e
larvä, agevolmente la ragion vi s'inganna, giudicando fallaces mente,da tale
cagione un'effetto naſcere,che da altra cer tamente avviene; e come già cantò
l'Ennio noftro Ita liano: Veramentepiù volte appajon coſe, Che danno a dubitar
falſa matera Per le vere cagion, che ſono afcoſe, così s’alcun dicelle, che
l'oriuolo collo ſtelo, e colmare tello tratti da contrapeſi,e da ruote,n'additi
l'ore del giore no, vero per avventura egli direbbe; ma non mai potreb be
certaméte affermarlo,potendo altri ed altri ſtrumentila medeſimacoſa operare.
Perchè ciaſcun fillogiſmo, che intorno alle coſe naturali formaſi,probabile
ſolamente ef ſer può, non già dimoſtrativo, ſe pur toglier non nevo gliamo
alquanti ben pochi, che da quegli effetti ſi dedu cono, i quali d'una ſola, e
certa cagione poſſono avveni re; ſicome per avventura farebbe il dire, dover
eſſer ne V ceſke ceſſariamente corpo ciò, che gli organi de'ſentimenti ne muove;
concioſliecoſachè la coſa, che muove, a ciò fare è ben di meſtier, che tocchi;
e'l toccamento, ſalvo che da corpo,non ſi può incontrare: perchè SAGGIAMENTE
LUCREZIO: “Tangere, vel tangi, niſi corpus, nullapoteſt res.” Così ancora,
che'l corpo mentre egli è dimenſionato poſſa in parti parimente dimenſionate
eſſer diviſo. Che tra uno, &altro corpo eſſer nó pofta altro di
divario,ſalvo, che nella grandezza, nella figura, nel moviinento, nel l'eſſer
diviſo in parti, o non divifo, e nell'aver le parti ol tre alle già dette vario
il ſito, e l'ordine tra di eflo loro;co ciofliecoſachè altro di queſto non
poffa, ne al corpo, ne al le parti, nelle qualiil corpo ſia diviſo, avvenire. E
però è da dire, la diverſità, che così grande eſſer noi veggia mone'corpi
dell'univerſo, altronde certamente non pro cedere, che dalle coſe già dette,
che'l calore, la freddez za, la ſaldezza, il diſcorrimento, icolori, ei ſapori
tutti, cd altre ſomigliantiqualità, le quali a noi parc, che nc corpi
dell'univerſo ſieno jaltro verainente non ſieno, ſe non ſe,o l'accennate coſe:
ſe veramente elleno ne'corpi ſono: e ſe ſono in noi, cffetti di quelle, o per
me' dire de' corpi per quellemodificati. Maqueiti,e ſomiglianti argomenti ſon
così pochi, e generali, che per lor non ſi può al vero conoſcimento di quelle
particolari cagioni pervenire, ove ſenza fallo, del 12 natural filoſofia il
pregio tutto è ripoſto. E ciò sì bene fu conoſciuto al principe di tutti greci
filoſofanti Demo crito, ed a molti ancorde’ſavjantichi, che perciò in ap
portando le cagioni delle naturali apparenze, delle fole probabili ragioni
s'appagavano; e ſaggiamente il Padre de Criſtianifiloſofi Agoſtino il Santo
ebbe a dire:latet ve rit atis quærenda modus; e'l gran Galileo de GALILEI, che
tanto abbiun veduto a’dì noſtri gir dentro alle ſecrete coſe delle ſcienze, che
al parer del dottiſſimo Obbes: Primus aperuitvobis Phyfica univerſaportamprimam:
pur dir ſo leva eſſer pochiuimicoloro, che qualche particella di filo fofia ſi
ſappiano, e Iddio ſolamente ſaperla tutta, eche quanto più in perfezione
monterà la filoſofia, tantomeno merà il novero di quelle concluſioni, che da
quella dimo ſtrar ſi fogliono. E'l celebratiffino fondator della peripa tetica
ſcuola, avvegnachè talvolta d'altro ſentir faccia veduta, pur tanta forza ha la
verità, che gli potè purc al la fine una volta trar di bocca, e far apertamente
confer fare, eſſer la noſtra mente alle coſe più manifeſte della na tura,
qual'occhio di notturno augello a'rai delSole; e 'altrove, che diquelle coſe,
che ſono a’noftri ſentimenti naſcoſe allor baſtevolmente d'aver ragionato
penſar dob biamo, quandoſecondo il diritto della ragione provevol mente, come
eller poffino ne ragioniamo. E quel Fio rentin filoſofo, c poeta fa, che ſecondo
il ſentimento del la ſua peripatetica ſcuola la ſua Bice gli dica, e facciagli
a ſapere. dietro a’ſenle Vedi, che la ragion ha corte l'ali. E innanzi
parimente avcagli colei detto: Erra l'opinione de'mortali Ove chiave di ſenſo
non differra. Ma non penſaron mai, licome far certamente doveano, o pure il
naſcoſero, E ALIGHIERI ED ARISTOTELE le naturalico ſe eller a' ſentimenti, non
perla lontananza ſolamente de gli oggetti, ma per altro ancora vietate, e che
noicolsé ſo non già le coſe, ma ciò, che in noi le coſe operino ſo lamente
comprendiamo. Verità aſſai ben penctrata da quegli antichi ſavj, che diſſero
appo Aulo Gellio: (1)om xes omnino res, que fenfushominum movent são osis, cioè
a dire, come egli ſpiega: nibil eje quicquam quod ex fefe conſtet, ncc quod
habeat vim propriam naturam; fed om nia prorſum ad aliquid referri:taliaque
videri effe,qualis fit. eorum ſpecies, dum videntur: qualiaque apud
fenfusnoftros, quopervenerunt creantur,non apud fefe, unde profeeta sunt. Ma a
che più da filoſofi,eda’Poeti mendicar teſtimonian zein coſa cotanto manifeſta,
la qual dalla verità medeſi ma ne fu ſpiegata per bocca del ſapientiſſimo Re
Salamo V 2 (1 ) lib.iLcap.i. ne: 0 m !ne:
Omnibus, quæ fiunt fubfole hanc occupationem pesſimam dedit Deus filiis hominum,
ut occuparentur in ea. Intellexi quod omnium operumDei nullam poffit homo
invenire ration nem eorum quæ fiunt ſubfole, & quanto plus laboraverit ad
quærendum tantò minus inveniet. Etiam fi dixeritſapiens ſe ea noſſe,non poterit
reperire. Or qual contezza dunque aver mai potrà la incdicina intorno alle coſe
a ſe appartenenti,ſe quelle medeſime fo no, ove s'intralcia, e s'inviluppa
maggiormente LA FILOSOFIA? Ne in ciò la medicina, dalla filoſofia è differente,
re non fe quella in più largo campo forſe va ſpaziando, e nel la contemplazion
ſolamente, o ſemplice diſcorſo s'acche ta: e queſta ha per ſuo fine, e
berſaglio il porre in opera• Perchè ſicome la filoſofia, la medicina ancora di
pochili me coſe naturali conoſcer douraſi, e quelle forſe poco, o nulla al
medicar ſaranno acconce: intanto, che non ſap piendole non è gran fatto per
huom da curarlene. Ma per diſcendere in qualche particolarità,e far quãto più ſi
pof fa una tal verità manifeſta: non vi par’egli, o Signori, che alla medicina
ſovra tutt'altre cofe farebbe di meſtierc,che gutte le parti liquidc, e ſalde
del corpo umano, e l'aficio le facoltà, e la natura ne foſſero interamente
manifcfte? or dove mai ne fa ſcorta la coſtruttura dello ſtomaco, degli
inteſtini, del fegato, della milza, delle reni, della veſcica, del pulmone, del
cuore, delle glandule, le quali ſparte per tutto il corpo poco men che
innumerabili fono, ele più di effe di canta picciolezza,che fenza l'ajuto del
micro fcopio non ſi poſſon raffigurare, per tacer d'altre, e d'al tre parti; e
quantunque a tal ſegno di perfezione eller giunta a'dì noſtri veggiamo la
notomia, che nulla più: nientedimeno non ſi è egli potuto, ne men ſi potrà giam
mai camminar ſicuro, ne determinare, ſe non ſe pochiſſi me coſe intorno
all'ammirabile magiſtero de' corpi degli animalized agli uficj,ed alle
operazioni delle parti di quel li.Ed a dir liberaméte il vero, licome avvenir
noi parimen te veggiamo, in tutt'altre partidella filoſofia, e della me dicina
dopo tante induſtrie, e fatiche durate, e dopo tanti ſparti ſudori per cotanti
valent’huomini,altro alla firms non ſi è arrivato a ſapere,ſe non fe altrimente
in verità an dar le coſe di quel, che s'avviſavano, e davano a noia divedere
gli antichi; e comechè gliocchi de’modernino tomiſti dal microcoſpio avvalorati
poco men che lincei fie divenuti, eche eziandio colla ſcorta dell'avveduto
Bilſio apparato abbiano a fchivare alcuni intoppi aʼnotoiniſti de' vivi animali,
per l'addietro inſuperabili; impertanto non poſsono in modoalcuno nelle
menomiſfime particelle pe netrare, le quali ſe non vengono ben ſottilmente
avviſa te, e ad unaad una diligentemente conſiderate, Io non ſo in qual modo
ſaper fi pofsa la fabbricazione,e la coſtruttu ra delle parti maggiori, che
ſenza fallo di quelle compo fte, e formate ſono. Perchè egli avvien ſovente,dover
noi in sì fatte bifogne camminare al bujo, attenendone ſola mente a troppo deboli,
e incerte conghietture, e per cal. laje inviluppate andando. La inalagevolezza
inedeſimi, anzi maggiore vienſi ad incontrar poi negli uficj e nell'o perazioni
dieſſe parti; e quel configlio, che porger ne puote in sì fatte traverſie il
vital notomiſta, fia pur detto con pacedel Valentino, del Paracelſo, c
dell'Elmonte, quantunque grande, ofere ognicredere egli ſi paja, e che torno
d'ogni briga magnificamente ne prometta, fovente ſuole, per la malagevolezza
eſtremadella coſt, ſcarſo, e debole molto riuſcire, e talvolta anche in tutto
inutile; il che da non altro certamente naſce, ſe non ſe dalla troppo fquiſita,
e dilicata finezza del lavorio de ' corpi degli ani mali. Ma della fabbrica del
cervello cotanto intralciata,e ma ravigliofa, Dio buono, che han potuto
giammai, o gli an richi, oimoderni Notomiſti di certo raccorre? non è ſta ta
egli ogni lor fatica inutil ſempre,e vana, facendovi ma la pruova la loro
induſtria, e’l loro ſtudio? Egli ſono le fi bre, che'lcervello compongono, così
minute, e ſpeſſe, e ſottili, e sì la for teſſitura, e reticulazione è dilicata,
e la lor ſoſtanza molle, che a volerle ben partire fenza riſchio di romperle, o
di perderle, inalagevole anzi impoſſibile: ogni impreſa rieſce. E sì, e tanto
egli è ſpinoſa, ed intri cata, che'l gran Renato delle Carte reſtādovici anche
egli tutto inviluppato, e preſo, ragionevolméte quell' huom, ch'egli compoſe
per molti valenc'huomini vēne propiamé te idcale, e ſuo luomo appellato. Ma ſe
tanto avvien del. le parti grandi del corpo perciaſcun vedute, che farà cgli da
dir poi delle picciole, inolte, e inolte delle quali ha forſe la natura a
nobiliffmi uficj, ed operazioni deputate? eci ha alcune di eſſe parti cotanto
menome, e ſottili, che non ha mano cosìſcaltra, ed avveduta, che poſſa ſperar
di venire a capo di dividerle co'l ferro giammai. E altre vi fono più ſottili
aſſaile quali appena per la lor sóma piccio lezza ſi poſſono col più fino,
eſottile microſcopio ravvi fare; E di queſte ancora vi ſono altreminori, e
quaſime nomillime linee, nelle quali inutile ſi prova ogni arte, vano ogni
ſtrumento per ravviſarle. Ma chi mai potrà le particelle del ſangue darne piena
mente ad intendere, le quali ogni chimico ritrovamento per farne notomia
vincono? Chiquelle del ſugo nutritivo, della linfa, del licor pancreatico,
dell'orina,del fiele,del la mucilaggine, che veſte le membrane, detta dal
Paracel. ſo finovia, e d'altre, e d'altre diſcorrenti ſoſtáze del cor po delle
qualiinfin’ad ora nulla ſe ne fa, ne ſe ne potrà giammai per avventura per huom
ſapere, comechè ſcorto, e diligente nel meſtier del far notomie egli fia. E chi
finalmente aggiugnerà a capire, ſe non ſe per in certe, e fallabili
conghietture, o la grandezza, o la figu ra, o'l lito, o'l movimento di quegli
inviſibili corpicciuoli, che ogni inenoma particella delle falde, e delle
liquide parti del corpo dell'animale compongovo? E ſe ciò all'u mano ingegno è
naſcoſo, come potrà egli mai paſſar oltre a-ſpiarne le facoltà, gli uficj, e
l'operazioni, e tute'altre biſogne, che di neceſſità all'economia degli animali
s'ap. partengono. E come ravviſar mai potrafli, da chi, ed in qual manie ra
s'ingencri il Chilo, e comc, e per chi a cambiar ſi ven ga in ſangue, e coine
il ſangue ad ogni ora in tante, e tante maniere ſi muova, e mai ſempre caldo ſe
ne ſtea, e ten ga in vita i membri tutti dell'animale, e come ſi faccia il
ſenſo, e'l moto: e cante, e tante altre operazioni,le quali non ſappiêdoſi, ne
men certamente conoſcer fi potrebbono gli ſtravolgimēti di eſſe,cioè a dire le
malattie e queſte igno rādoſi,come poi ſi potranritrovar certieſicuri argomenti
da riſanarle? Ma per darvi anco qualche ſaggio dell'incer rezza degli
antivedimenti de'medici, ſe non ſi fa, ne può ſaperſi giammai coſa, che certa,
e ſicura ſia dell'orina, e de polli,chi può indovinarmai, per Dio, non che
ſalda mente ſapere, tutte quelle cagioni, per le quali eglino, malimamente
ipolli, anche in un momento ſpeſſo ſpeſſo variando, così ſtranamente ſi cambjno?
che direm poi de gli altri ſegnali della medicina, onde argomentar parimé. te
ſogliono imedici le malattie, e le cagioni di eſſe non meno de’polſi, e
dell'orina, anzi aſſai più di queſti talora incerti, e fallaci? Certamente non
mai potrà compren derſi perloro la qualità del inalore, e la cagione argomé
tare. Ed ebbero ſenz'altro il torto di sì fatti ſegnali cotá to millantare i
greci maeſtri, ſpezialmente Galieno, come ſi può ſcorgere, per tacer d'altre
ſue opere, in quellibro, ch'egli a Poftumo intorno a tal materia ne ſcriſſe;
che lo per me credo, che quelle, che a forec loro ne riuſcirono, certamēte
colcarbon bianco ſi ſarebbon potute ſegnare. De'cibi, e de’medicainenti, e
delle loro facoltà, e valore nulla certamentenemen potrà ſaperſi, nonſolo per
defimi, ma per quel, che poſſano nel corpo umano opera re. E comechè i Chimici
più che tutt'altri d'aver delle già dette coſe più pieno conoſcimento
giuſtamente vantar potrebbono; pure quel che ne fanno riſpetto a quel che
rimarrebbea fapere è poco, anzi nulla. E ſon di vantag gio tutte le pruove non
altro, che probabili, e poco ſalde conghietture; perciocchè, non ſolamente
imcitrui(liami pur lecito al preſente uſar termini dell'arte ) ma l'aria an
cora, e'l fuoco, e ivaſi, e tutt'altri ſtrumenti, che vi s'a doperano,
ragionevolmente d'errore, e d'inganno pofſon render ſoſpetta ognilor più
diligente, e accorta notomia, ſe me 1 con ne ſeco conmeſcola per entro a'corpi,
che ſi dividono qualche lor particella, che magagni, emuti la lor compleſſione
i E mallimamente l'aria, in cui tanti,e sì diverſi corpicciuo li diſcorrono; i
quali dalla terra, e anche altronde melli fuora, e infra quelle monome
particelle del corpo diviſo per avventura meſcolandoſi, agevolmente le potranno
in altre cambiare. E'l fuoco d'altra parte introducendovial cune di quelle
particelle, licvi, e ſottili, che rubate ad altri corpi ſuol con leco
ſempreportare; o pur portando per li pori del vaſo le medelime particelle
delcor po del quale ſi fa notomia, e maſsimamente le più nobili, ele più
operative, che in eſſo dimorano: comechè la boca ca del vaſo ſia bene, e come
dicono, ermeticainente turata; o purcolla ſua forza nel digeſtire, e nel
formentare, e nel lo ſceverare,ch'egli fà le particelle del corpo, del qual li
fa notomia, diſponendo altramente quelle, e altramente meſcolandole, e dando
lor movimento, per nulla dirdel. la grandezza, e della figura loro per eſſo
diverſamente cambiate. Perchè fe tante, e tante cagioni poſſono alla fotomia
delle coſe intervenire,come potrà egli mai ilChi mico notomiſta co'ſuoi
argomenti vantuti dipienamente, conoſcerle: Anzi tanto egli ne ſaprà meno,
quanto mag giormente faticandovil'havrà guaſte, e ſconce. Adunque ſe vaniancora,
e infruttuoſigli avviſi, e gli argomēti de'più intimifamigliaridella natura ci
rieſcono; e ſe nulla approda la più diligente, e ſottil notomia delle coſe a
ſpogliar dalle dubbietà, e dalle incertezze la noſtra Medicina: Io per mè non
ſaprei qual conſiglio prender mi dovessi a dichiarirla dalle sue nubi. Ne è da
tralasciare a questo proposito quanto agio s’a veſler presso i filosofi dall’incertezze
sull’uomo a ragionar sovente, e piatir nelle scuole or d’una or d’altra parte,
più per vaghezza d’ingegno che per amor della verità, difendendo tutte
opinioni, ed ove lor concio viene, giudicando non altrimenti che quel sottilissimo
filosofante Pittagora face a veder della filosofia de omni re pervalermi delle
parole di Seneca “sin utramque partem disputari pole ex aquo”. Perchè non è da
maravigliare, se DICANILIO EGEO, prendendo a difender cento contrarie opinioni
in altrettanti capi partite, da a diveder manifestamente l'incertezza di cotal
arte. 1. Egualmente dal padre e dalla madre si inandi fuora il seme a ingenerar
gl’animali. 2. Non d’ambedue si mandi. 3. Il seme si mandi da TUTTO’L CORPO. 4.
I testicoli solamente v’hanno parte. 5. Il cibo nello stomaco per opera del
calor si smaltisca. 6 no. 7 iò sia per lo suo sfacimento e stritolamento. 8 no.
Il capo V che sia dal nativo spirital calore. Il capo VB, che no. Il capo VI che
per lo corrompimento del cibo sia. Il capo VIB, che no. Il capo VII che avvegna
per propietà de' ſughi. Il capo VIIB, che no. Il capo VIII che il calor natio a
qualità s'appartegna. Il capo VIIIB che no. Il capo IX che per lo calore
avvegna la digestione de'cibi. Il capo IXB, che no. Il capo X che la diſtribuzion
de'cibi lia per attraimento di calore. Il XB che no. Il capo XI: dagli spiriti
la digestion si fa. Il XIB che no. Il XII: per opera dell'arterie si digestisca
XIIB: no. XIII: ciò sia per mancamento a vuoto accompagnato. XIIIB: non per
ogni mancamento eglilia. XIV: il glauco degl’occhi per mancanza d'alimento al
condotto visivo s’ingeneri. XIVB: no. XV: quel nasca per discorrimento di sangue
nelcondotto visivo. XVB: no. XVI: dalla graſſezza degl’umori e dalla esalazione
si faccian gli’occhi glauchi. XVIB: no. XVII: La frenesia dal distendimento
delle membrane del cerebro e dal corrompimento del sangue si cagioni. XVIIB: no.
XVIII: Per soverchianza di calore ella non avvegna. XVIIIB: no. XIX: Per infiammagione
ella sia. XIXB: no. XX: da infiammagione si cagioni il lecargo. XXB: no. XXI: Per
distendimento e per corruzione egli sia. XXIB: Non già per soverchianza, ma per
la qualità dell'esalazione avvegna. XXII: La fames e la feresia di tutto il
corpo. XXIIB: Dallo stomaco solamente provenga. XXIIC: sia sol nel pensiero e
nell'immaginazione. XXIII: La sete per disseccamento s’accenda. XXIIB: no. XIII:
Nello stomaco due diverse operazioni si facciano. XXIIIB: no. XXIV: dalla
pellicella dentro dal cerebro traggano il lor principio i nervi. XXIVB: Lo
traggan da quella di fuora.e parganti medicine operino XXV: per lo corpo spargendosi.
XXVB: Colloro scorrimento solamente, senza spargerſi vuotino. XXVI: usarsieno
purganti medica nienti. XXVIB: no. XXVIC: Da ſegnar sia. XXVIC: no. XXVD: sia
da dare a febbricoli il vino. XXVE: no. XXVI: Ad operar debbano il bagno. XXVIB:
no. XXVII: Nell' accrescimento de’nrali sia da far il cristeo agl'infermi. XXVIIB:
no. XXVII: In su’l principio delle malattie fan da usar le unzioni. XXVIIB: no.
XXVIII: Nella testa possano ad operarsi i cataplasmi. XXVIIIB: no; ma solamente
vi li debbano porre cose odorifere. XXIX: Esser giovevoli quelle cose che
muovono a vomito. XXIXB: no. XXX: Dal cuor si dirami al corpo il sangue. XXXB: no.
XXXI: Gli spiriti dal cuor si mandiitos ne dall'arterie sien tratti. XXXIB: no.
XXXII: Da per se il cuor si muova. XXXIII: no. XXXIVA: L’arterie per lor natura
sieno stanza del sangue. XXXVB: no. XXXVI: tutti i vali che soprastano, e
gonfiano, sono semplici. XXXVIB: i ricettacoli sieno in voglie in tessure. XXXVII:
Per mezzo de’ nervi facciali il sentimiento, el moto. XXXVIIB: no. XXXVIII: Il cuor
e principio delle vene. XXXVIIIB: no. XXXVIIIC: E il fegato. XXXVIIID: no. E: il
ventricolo. F: no. XXXIX Tutti i ricetacoli si diramino dalle pellicelle che vestono
il cerebro. XXXIXB: no. 90: Il pulmore e principio dell'arterie. 91: no. 92: L’arteria,
la quale sta presso alla spina, sia di tutt'altre arterie capo. 93: no. 94: dal
cuor nasceno tutte l’arterie. 95: no. 96: dalla membrana del cerebro traggano i
nervi origine, non già dal cuore. 97: no. 98: non nel cuore, ma nella testa la
potenza ittellettuale dimori. 99: nel cuore. 100: nel ventricino del cerebro
ella sia. Ma di cotante rivolture e mutamenti d'opinioni e di sentimenti
certamente Dicanilio Egeo non è da maravigliare, se tanto forse ancor fa Galieno
medesimo, ove in concio gli fosse venuto. E di ciò Galieno stesso ne’ suoi
libri si va millantando sommamente di poter improvviso ci alcuna serta de’ medici
de' suoi tempi a buona ragion difendere. Perchè se dir non vogliamo, esser egli
stato Galieno un riottoso giuntatore, o berlingatore sofista, che co’ suoi fisicoſi
aggiramenti per diritto, e a torto il tutto a difender togliendo, uccellar
n'avesse voluto, convien di necessità affermare, ciascuna setta de’ suoi tempi
anche secondo il sentimento di lui essere stata igualmente ragionevole; e conseguentemente
a niuna certezza esser la filosofia appoggiata. Eccme chè Galieno ciò
dimenticando vanti sovente di poter far pruova de’ suoi detti, avendo sé pre in
lor concio nuove dimostrazioni. Non però di meno X 2 (il ci ta, 7 il dirò pur
con buonapace di lui) le sue millanterie row vente fogliono in vanissimo vento
riuscire. Anzi Galieno medesimo dimentendosi talvolta, e in più luoghi contastan
dosi, ne fà della sua bessaggine, e della sua poca fermezza avvedere. Quid enim,
dice di lui stizzosamente gridando il Giuberti, quid enim in Galeni scriptis
frequentiusoc currit, quam ipsum plerumque videre, quod alibi multis rationibus
fuerai demolitus, id constantssime afferere? ERi nieri de' Solenandriz non men
del Giuberti della dottrina di Galieno intendentissimo, così parimente avvisollo.
Galenus, quiuberrimo ingenio fuit, ca oratione liberali ferè prodigus,
innumeros propem conscripsit libros: in quibus rerum et dogmatum multitudine
plurima sunt discrepantia, nec fo bi ipsis consentientia; quasi quis attentem
cum judicio legit, fi quis diligenter in unum colligit, ingens chaos agnoscit.
Ma lo dirò di vantaggio (il che non mi sarebbe per avventura peralcun creduto, se
con l'autorità del medeſimo Galieno io non gliene facelli certa, e ben falda
pruova) che se ancor la filosofia fosse dattanto, che a saper dicer to molte, e
molte di quelle cose aggiugnesse, le quali per addietro dicemmo esser di quelle,
che in quistion cadono tutto'l giorno, e più altre assai: ne meno alla sicura
nell’operar sarebbe; abbisognado a tale effetto, secondo Galieno, che molto
bene in prima la propria natura, e complexione di colui si conoscesse, il quale
sarebbe da filosofare. il che ſecondo, che egli medesimo apertamente confessa,
non si può per partito alcuno bastevolmente giammairav viſare, Ma se sì poco da
noi in filosofia per la sua dubbiezza è da avere a capitale la ragione, non
però dimeno e'non creda alcuno, che sicura ne fia la sperienza. Anzi per
maggiormente incerta, e dubbiosa più avanti per noi sarà mo Itrata. Perchè seguiranne
poi sicuramente, che non purla sagione dalla sperienza accompagnata, valevol sia
a render certa, elicura la medicina; concioffieco fachè verisimile a verisimile
accozzando; e no certo a non certo, e per lunghi argomentise pruove che vi si
aggiugono, non potrà mai, che I certa, e incontratabil fia, ſicuramente
riſorgerne. Magià ſi è per queſte, e per altre coſe addietro diviſa te veduto a
baſtanza, e con quanta diligenza per noi li è potuto la varietà delle ſette
della medicina, e le diverſe; e ſoventi fiate contrarie inaniere del medicare,
e la varieră dell'opinioni, che fra’mnedicanti di tempo in tempo ſono venute in
sù, non da altro, che dalla grandiſſima incertez za dell'arte pervenire; egli
forza fit, ch'al preſente fati gi per noi ſi duri in eſatninar le letto della
medicina come già proponemmo, ed intorno a quelle i noſtri fenti menti ſpiegare;
quantunque a chi attentamente voleſse alle parole, che fino adora di tutta la
medicina breveme te abbiam fitto, riguardare, non farebbe forſe meſtieri più
diſtintamente diviſargliene, potendoſi ognuno a ſuffi cienza accorgere, ſe
giammai un'arte così dubbiola, in coſtante, ed incerta poſſa avere in ſe
dottrina, o principi tali, che su vi poſſa huom porrealcuno ſtabile fondamen to,
e ſicuro. Ma per dar cominciainento dalla volgare Empirica, chiamata imperfetta,
è ella certamente la più copioſa, c abbondevol di ſeguaci, che tutt'altre
ſchieredi medicina unite inſieme, e rannodate fi vantino giamnsai d'arrollare;
infanto, che dir potrei, come ad altro pro polito il noſtro lirico, Non ba
tanti animili il far fra l'onde, Ne lafsio fupra'lcerchio de la lung Vide mai
tante ſtelle alcuna notte, Ne tanti augeili albergan per ti boſchi, Ne tant’erbe
ebbe maicampo,nepiaggia. Onde ebbe ragionevol cagion di dubitare colui, ſe più
coſtoro ſi foſſero, o l'infinita ſchiera degli ſciocchi; ne ba fa tutti
interamente a comprendere quel volgar diſtico, Fingitfemedicumquiſquis idiota
profanus, Iudæus.... hiſtrio, rafor, anns. E ben diſſe il Carlectone: Medicos
ſe fingunt quoque Rizo tomi, Seplaſarii, fordidi Balneatores, triobolares
Phleboto matores,fpurcidici Lenones, indo&tiparochiaram Sacrificuli,
favella egli de’miniſtri della falla ſciſmatica Chieſa In 1 3 ghileſe, de'quali
fa parole altresì, e forte ſi duole il Pri meroſio ) Chymiſte carboniperdes,
audaculi Edentato res, impudentiſſimi V romantes, veteratores Fatidici, lj
bidinoja obſtetrices 231Sádes, a pre cæteris omnibus perfi da illa,
ingratifimaque impoſtorum gens, Pharmacopo le; qui ſuntin Rep. agrorum
pernicies,reimedicècalamitas, & Libitin & præſides. Che più, fe toccar
quaſi co’mani l'innuincrabil torina di sì farti medici al Duca Nicolò da
Ferrara il motteggevol Gonnella, allor, che nel novero di coloro, oltre
allamaggiorparte della Città, il medeſimo Duca arrollando ripole; ed egli era
così celebre, e ftima to tanto in quella Città la volgare Empirica, che molti,
e molti de'Razionali inedici oltreinodo godeano di militar ſotto le ſue inſegne.
Maper Ferrara medicando quanti Veggo andar io, che barbagianni funo Ridicoli,
ineſperti, ed ignoranti: Che non ftudiar d10 anni, fur a ſuono Digran campana
alzati al dottorato Per amicizia o per promeſſo dono: Che ne ARISTOTELE
mailejer,ne Plato, Ne Avicenna, o Galien, ma due ricette, E le regole appena
del Donato. Ma ciò permio avviſo, non altronde certamentewviene, che da una tal
naturale inchinazione, che ſempremai inver la medicina par che tuttiegualmente
abbiamo, e del co prender quanto quella ne abbia ad ogn’or luogo tra per noi
medeſimi, e per gli amici, e per tutt'altre perſone del mondo. E perciocchè ad
interamente apprenderla, e ado perarla, qual veramente fi conviene, di
grandiflima fiti ca, e di ſudore non ordinarione fa meſtiere, ciaſcuno, co me
il meglio puote malmenandola, ed abborrandola, in pochi giorni l'appara, e
ſenza troppo diſagio la mette iz opera. E in vero cotalforte di medicina è
molto agevole a imprendere, e ſovente dinon poco pregio, eguadagno Suol eller
cagione; perchè parecchj diigraziati,cuile robe o per nanfragj, o per
fallimenti mancarono, o a giuochi, 4 o dietro a feminine diinondo, o nelle
follie dell'Alchimia vanainente fcialacquaronle, ſtenchi alla fine,eigannati ri
courar ſoyére al ſicuro porto d'una tal medicina ſi veggo no. Ed ora mi
ſovviene di quel gran miniſtro di ſtato, il quale avédo perduti có la grazia
del ſuo Principe ache tut ti gli avanzi delle ſue miſere fortune, diedeli
ultimamente lo Igraziato a compor ballotte da medicina, e ſpacciarles a
prezzo,qual vilisſimo pancacciere, ſoſtentando così l'in felice ſua vecchiaja.
Ma non fa meſtier, che intorno a coſtoro lo troppa brin ga mi prenda in
manifeſtar le lor beſsaggini, e i loro erro ri; che purtroppo chiaramente per
ciaicun ti conoſce quanto eglino ſempremai ciecamente medichino, ed ari fchio,
ed a ventura; non ſappiendo talora ne men groſsa mente, econfuſamente i ſegnali
delle inalacrie, non che la natura di quelle; perchè convien poi loro nel
diviſare, e adoperarc i medicamenti andar ſempre atatone, con af pettarne,
timoroli, gli avvenimenti. Maggior fatica fen za fallo rimane in dar giudicio
della perfetta Einpirica; la qual per le ſue regolate maniere di adoperare,
nelle qualianifeftamente ſi ſcorge aver qualche ſcintilluzza di ragione,puofſi
in certo inodło covenevolmente Razionale Empirica chiamare; conciolliecoſachè
la perfetta Empi rica inedicina ſopra uma falrima baſe aver ſembri le ſue
fondamenta, che è la fperienza, non folamente per la baſ. fa gente, ma per
gl’ifteli medici raziunali cotanto ſtimata, e a capital tenuta: che apertamente
talora, e in ifcritto, e in voce una delle due colonne della medicina chiamarla
fogliono; eſſendo l'altra, fecondo lor ſentimenti la ragio ne. Anzi huomini
chiarillimi diqueſta medeſima ſembra glia de'Razionali cotáto agli Empirici
nemica (tra’quali fur ERACLIDE DA TARANTO medico e filosofo di sì gran sapere,
e così nell'arte eſercitato, che agevolmente e' li puotè ad ogni più eccellére
medico greco paragonare) abbadonādo la lor fetta Razionale e laſciate affatto
le ragioni alla fola sperienza degliEmpirici ricoverati alla fine ſi
rifuggirono;ed altri comechè perſeverino nella ſetta de’ razionali, pur ma
niſeſtanente confeilano eſſer ſoventi volte da antiporre la sperienza alla
ragione; e dicono, che ove d'una parte la ragione, e d'altra la ſperienza il
contrario ne perſuadono, che allora il medico laſciar debba affatto la ragione,
e la ſperienza ſolamente ſeguire. Ed infra filosofi di grido ARISTOTELE
apertamente confeffa, all'arti tutte aſſai più di con cio, e d’utile la sperienza
recare, che la ragione, e che'l medico maggiorinente in pregio ſormonti nel far
pruova continuo degl’ammalati, che con beccarſi tutto giorno il cervello
ne’libri. E quel scrittore, che col ſuo acu tilimo intendimento ſi ſeppe così
addentro innoltrare ne gli affari del mondo, avvisa, la medicina non eller
altro, che sperienza fatta dagl’antichi medici, fopra la quale fosi dano i
medici preſenti i loro giudicj; ma prima dilui avea detto Quintiliano, medicina
ex observatione salubrium, atq; his contrariorum reperta est, & ut
quibufdam placet,tota co hat experimentis; nondimeno l'Empirica medicina, non
che abbia giammai nulla di certo, anzi ſoventi volte in graviffimi errori
traſcorrer ſuole, laſciandoſi oltre al dove. re alla ſola ſperienza ciecanente
guidare; la qual come Ippocrate grandiffimo ſperimentatore avviſa, ſovente è
fallace,e vana. E in vero ſe la ſperienza è ricordo di quel le coſe,le quali
più d'una volta ſtate ſono oſſervate, chi oſerà mai certamente affermare, che
ciò che più volte av venne, debba poi altre, cd altre volte ſomigliantemente
avvenire? Certamente niuno, ſe non colui ſolamente, che inveſtigatane la
cagione, onde quelle volte già que gli effetti avvennero,delle ſeguenti
riuſcite ragionevoli ar gométi potrà cavarc; delle quali cagioni, ſe le
medeſime ſaranno, certamente nc ſeguiranno i medeſimi effetti, ma ſe
peravventura non ſaran deffe,o quanto diverſi,e varjef. ferti uſcir ne
potranno; ſenzachè la medeſima cagione per la diverſità delle molte circoſtanze,
che l'accompagnano, non ſempre ſuole i inedeſimi effetti produrre, ina diver ſi,
ſecondo la diverſità delle perſone, de'luoghi, c d'altre coſe, che vi
concorrono, Alche ficome in tutte ſcienze è ſommainente da riguardare, così non
è da traſcurar punto in medicina: nella quale avviſaſi a giornate, noul ſempre
i medeſimi mali dallemedeſime cagioni avvenire: non ſempre congiurar le
medeſime circoſtanze in mante ner le medeſimemalattie: e finalmente non ſempre
que, mali, che i medefimi eſſer ſembrano, effer veramente ta li, quali ſi
pajano; concioſliecoſachè i ſegni tutti e gli in dizj, pe'qualicomprender ſi
poſſono,ingannevoliſovente, e fallaci fieno, facendo veduta d'eſſer
manifeſtamented un male, il qual poi tutt'altro ſarà di quel, che noi alla
prima faccia argomentiamo. Ma ne meno giudicar puoſ, fi con piena certezza, ſe
ſia ſtata opera del medicamento il migliorare,e'l guarirc dello infermo;
imperciocchè tal volta dalla ſola natura del malato, o del male ſuole ava
venire; ed altri pur follemente immaginerà, eſſere dal ſuo medicamento
ſolamente ſeguito. E allora più mala gevol ciò, e intralciato ſi rende, quando
all'ammalato più d'un rimedio ſi porge; perciocchè allora non può age. volmente
imbroccarſi, qual di que’tanti medicamenti ab bia per avventura all'inferno
approdato. Ma tacciaſi al preſente di ciò, che di leggier forſe po trebbeſi
ſchivare, comealtresì è da tacer della credenza, la qual ſenza manifeſto
riſchio d'errore non ſi può piena mente alle ſtorie degli ſcrittori preſtare:
coſa la qual già tanto contra gli Empirici rimproverarſuole Galieno. Ne meno
faticheremo in dir cola alcuna intorno al paſſag gio, che da parte a parte far
fogliono gli Empirici, e dal la ben compoſta analogia di male in male; che ben
ciaſ cuno a prim'occhio potrà agevolmente comprendere,quã. to ftrabocchevole, e
inviluppata ſia la lor dottrina, e d'e videntiſſimi riſchj tutta ripiena. Manon
fia forſe fuor di propoſito il rapportare al preſente ciò che della ſperienza
un graviſſimo autore, e più, che altri per avventura in quella eſercitato ne
manifeſta dicendo,eſſer la ſperienza in man del medico, non altrimenti, che il
cuor di bella donna in mano di fido amante; il quale, quádo più immagi na di
tenerlo ſtretto allora quello in altrui inani ſe n'è vo lato. Verità anchemolto
ben conoſciuta all'avvedutiſſi. Y moje 170 Ragionamento Terzo mo, e faviſſimo
ſperimentator de’noftri tempi Franceſco Redi; il quale ſcrive
trovargiornalmente, che le ſperien ze più malagevoli, e più fallaci lien
quelle, le quali intor no alle coſe medicinali fi fanno. Ma volete voi, ch'lo
brievemente vidia a diyedere quanto vana, e fallace ſia nella medicina la
ſperienza? Ella non ha mai potuto ne pur una delle famoſe quiſtioni appianare,
che mai ſempre le penne de'medici tengono affaticate. Ma riguardando i maeſtri,
e fondacori della Metodica medicina all'incertezza dell'Empirica: e d'altra
parte av viſando quanto la Razionale in ſu le fanfaluche degli ar gomenti, e
delle ſofiſticherie vanamente s'aggiri: vollero ſolamente a certe poche coſe
veriffime, e manifeſte del tutto appiccarfi, e quivi l'arte tutta della lor
medicina piantare. Eglino a due foli generi i mali tutti del mondo riſtringono:
uno de'quali diſcorrente, e l'altro ſtretto chiamano. Naſce il diſcorrente
allora, quando i pori del corpo fon ſoverchiamente allargati, e fatti maggiori
aſſai di quelli, che in prima erano; o quando altri nuovamen te accreſciuti
glie ne ſono; e lo ſtretto allo incontro è quż do le parti oleremodo ſtrette
infra loro, e congiunte lì ſo no, perchètalora, o più abbondevolmente, o più di
ra do li vuota il corpo. Quinci eglino due forme di manife fti indizj di ciò,
che far li dee argomentar fogliono: una di ſtrignere, ed una di allargare: e
queſte chiaman comu nità curative, e quelle paſſive; aggiugnendovi di vantag
gio le comunità temporali, cioè a dire il principio, l'avā zamento, il vigore,
e lo ſcemo della malattia. E percioc chè il male talvolta d'amendue le prime
comunità con polto effer ſoglia, cioè diſcorrente inſieme, e ſtretto: vo gliono
allora i metodici, doverſi la cura alla maggiore, e più ragguardevol parte
ſolamente indirizzare. E tanto baſtial preſente aver de’loro principj accennato;
chi più addentro ne vuol ſpiare,leggane più diſtintamente in Ga lieno, e
Proſpero Alpini, il qualcon lunga fatica accolſe inſieme, e ragunò tutti gli
avanzi dell'antica Metodica medicina, e di difender quella con cutta forza
oſtinata medite i senza troppa mente ſi ſtudia; ma non puote però per fatica,
che v'ado: peri far sì,che non rieſca malagevoltroppo,ed intralcia to a'
curioſi l'apprenderne intera la dottrina; concioſie coſachè alcune coſe, poco
forſe bene, e fedelmente egli rapporti; ed in altre faccia meſtiere andar pur
tentone, ed alla cieca. Ma lo quanto è a me, voglio al preſente più di Galie no
medeſimo eſſer liberale a'Signori Metodici, e conce der loro di vantaggio
molte, emolte di quelle coſe, che fatica durare, agevolmente negar loro po trei.
Sien pure, com'eglino s'avviſano, le comunità cut te manifeſte, e piane, e a
quelle nulla mai oppor ſi poſſa: or come, e in qual modo baſterà ciò ſapere per
prender aº mali conſiglio, ſenza più oltre ricercare argomenti a ciò opportuniz
ma eglino nel medicare ſi laſcian pure allora ciecamente trarre alla ſperienza;
adunque eglino anco ra in ſembraglia de’Razionali, e degli Empirici andando
alla ventura, e facendo argomento dall' incertezza degli avvenimenti,
manifeſtamente talora inceſpando traripa no. Ma ciò traſandando,ſia pur da
curar malattia di ſtret tezza, come di poftema, o d'altro ſomigliante malore,
che di allargamento abbia biſogno: manifeſta coſa è,che la materia ingozzata, e
rattenuta in qualche luogo della perſona;cotal ſtrettezza cagioni; ed acciocchè
poſſa li beramente far punta, ed uſcir fuora, conviene in primas, che la
durezza liſciolga, ed ammolliſca: ed altro s'impré da con argomenti a ciò fare
valevoli, & opportuni. Or come potrà mai ciò ſeguirc, ſe non ſi ravvili in
prima, di qual natura ſia la materia indurata, acciocchè poi libera mente il
ſuo vero, ed acconcio rimedio trovare, ed adato tar viſi poſſa: O forſe ciò,
che ſcioglie una ſoſtanza,co sì ſomigliantemente tutt'altre ſcioglier puote?
anzi talora in contrario da quello indurar le veggiamo, Limus, ut hic durefcit,
bæc ut cera liquefcit V no, eodemque igne: Ed ecco brievemente abbattuta a
terra l'evidenza de Metodici; ecco, che pur convien loro entro i confini de? 1
1 Y 2 Razionali medici alla fine ricoverare. Ne più intorno alla lor dottrina
impiegherovvial preſente parola. Ma delle ſchiere Razionali degli antichi Greci
così ſcarſe rimaſe ſono appreflo noile memorie, che non v'ha luogo alcuno di
diviſarne, non che d'abburattarle, o per avventura riprovarle; anzi ne men
ſaper certamente por ſiamo, chi mai ſtato fi foſle il primiero tra'Greci, cui
foſ ſe venuto fatto di dar principio alla Razional medicina, e ciò chealtrove
andato ſe n'è per noi ricercando, non li è potuto ancora così rinvenire, che
foſſe valevole a to gliere ogni dubbietà. Ma non è egli però da porre in for ſe,
ove ſottilmente la coſa ſia riguardata, che la Razional medicina da tempi aſſai
più lõtani di quel, che per avven tura comunemente s'eſtima, tragga la ſua
origine; e forſe forſe ella è sì antica, che non pur ne convien dire, ch'af fai
prima della volgare Empirica ella naſceffe, ma chel Empirica volgare ſia della
Razionale, anzi, che no giove nil parto, e creatura;la qual coſa in sì fatta
guiſa leggier mente noitoccheremo. Quelle coſe onde diſcacciar ſi ſogliono
talora da' corpi le malattie, e che rimedj comunemente ſi chiamano, con vien
dineceſſità, che tutte da ſe ſteſſo l'huomo le im prenda (non avendo altri
ch'inſegnar gliele poſſa ) natu ralmente, da alquante poche in fuora ſi alla
medicina non fanno, le quali gli vengono da' bruti animali dimoſtre; ma può
tali medicamenti l'huomo ap prendere, o a caſo in effi abbattendoſi; o col
diſcorſo in veſtigandogli. E concioffiecoſachèrariſien quei rimedi, che a caſo
ritrovar ſi poſſano; nc ſembri veriſimil punto, che le tante erbe, e radici,
onde negli antichiſſimi tempi, non pur le ferite, ma gl'interni malori altresì
medicavan ſi, veniſſero a ſorte lor conoſciute; rimane adunque, che per la più
parte dalla ragione i medicamêti ftati fieno ſco verti. Ma come que'primi rozzi
huomini per queſta via aveſſero potuto rinvenir le sì varie virtù de'medicamen
ti, non è coſa molto malagevole per avventura ad inveſti gare,ſopratutto cui
voglia pormente a'bruti, e andar mi > che nulla qua nutamente ſpiando come
tutto di s'adoperino in ritrovar le medicine perloro malattie. I brutistutto
che d'anima ragionevole privi, pur nondimeno oltre a' ſenſi, ſi trova no di
tutto ciò, che a lor fa meſtiere a comprendere le; coſe neceſſarie al proprio
mantenimento, baſtantemente provveduti,anziabbondevolmente dalla larga, e prodi
ga mano della natura arricchiti. Vengono talora agli animali le medicine dal
caſo di moſtre, comedel Dittamo, erba crinita, e di purpureo fiore, avvenir
ſuole, eſca oltremnodo gradita, e foave al palato delle capre; onde ſoventi
fiate ſavoroſamente la paſcono; e ravviſando elleno, che ſe mai ferite vengano
da' cacciatori dopo haverla poc'anzi paſciuta,dalla fe. rita, allora Volontario
per fe loftralſe'n eſce, ſi riſtagna di preſente il ſangue, e ractamente ſe ne
fugge il dolore: ad ogni ora poi,che ferite ſi ſentono, a paſcerlo frettoloſe
ſe ne corrono; e per queſta da noi menzionata ſtrada, e non già per quella del
ſognato, e favoloſo iſtin > to,. maſtra natura alle montane Capre ne inſegna
la virtù celata Qualor vengon percole, e lor rimane Nel fianco affilala faetta
alata; e a queſto medeſimo modo fors'anche addottrinati De la Scimmia il Leon
languente, ed egro Avidamente cerca il feropaſto; E beve il Pardo de la Capra
il ſangue, Epafcei ramofcei d'oliva il Cervo; perocchè eſſendone cibati a caſo,
allora, che infermi fi ritrovavano, giovevoli aſsai ſperimentarongli: E ſomi
gliantemente altresì La teſtuggine allor, che'l fero tofco De la ſerpe l'ancide,
e dentro ſerpė Il paſciuto velen falute,, e vita Dall'Origano cerca, e non
indarno. Opera ſomigliantemente del caſo, e' certamente ſema bra,ſe per qualche
male infaſtiditi,dalcibo aftenendoſi gli animali avviſan riuſcir cotale
aſtinenza loro giovevole, c perciò per innanzi per ſimili cagioni ſi rimangono
di ci barſi. Ma con più ſottil modo, e più fagacemente ven gono gli opportuni
medicamenti di vantaggio lor cono ſciuti; comene'lupi,ne'gatti, e ne' cani, per
tacer d'al tri, manifeſtamenie ſcorger ne lece, allora, che ſenten doſi eſſi
aggravare, e moleſtar lo ſtomaco pe'l guaſto, e corrotto cibo, ed avviſando,
che alcune erbe, le quali talora forſe loro punſero il muſo, poſſano,
ſtuzzicando le parti interne,provocar di leggieri il vomito; di quelle op
portunamente ſi vagliono. Chiunque andaſle poi con qualche minuta diligenza, e
ſollecitudinc ricercando, ravviſerebbe per avventura,che ove il gran fattore
della natura ha della ragionevole ani ma privi i bruti animali, abbia nondimeno
lor dato forſe alcun ſentimento de’noſtri più dilicato, e perſpicace, valevole
più agevolmente a comprendere ogni menoma impreſſione, che lor da
ſenſibilioggetti ſi venga a fare, on de poſſano la lor vita acconciamente
regolare; ma ſe tal ſentimento poi, cone ſovente avvenir egli ſuole, diritta
mente non gliſcorge, elli ne argomento alcuno hanno di riparare a'lor mali, ne
fanno, ne poſſono dalle mortali di ſavventure in modoniuno ſchermirſi;perchè
veggiam tut to dì le capre, le pecore, le vacche, i cavalli, ed altri ani mali
infermar gravemente; e ſpeſſe volte per aver palaiu to erbe nocevoli, e
velenoſe; il che quando mai altra ra gion no'l dimoſtraſse, nc dà chiaramente a
divedere, non ritrovarſi veramente negli animali quel maraviglioſo, ed
inverifimilc iſtinto, che cosi inagnificamente lor s’attribui ſce percoloro,
che non ſi avanzan più oltre nel filoſofare, che nella prima ſola corteccia
delle coſe. Or ſe tanto a’ bruti animaliè conceduto, che poſſan talora con
qualche dilicato ſentimento, e con rozzo, ed imperfetto modo in veſtigare, o
pure rinvenir qualche ombra di Razional medicina; come non aurà potuto l'huomo,
ſoura loro d'anima fpirituale, e ragionevole, e immortal dotato come 1 dico non
avrà potuto ſino a’ primi tempi, e col naſcente mondo, col diſcorſo i
medicamenti ricercare, e ritrovare? ſenzachè fa meſtier certamente all'huomo,
ſe ſcovrir pure egli vuole la naſcoſa virtù medicinale o di pianta, o d'ani
male, o di vegetabile alcuno, prender in duce, e in iſcor ta la ragione;
imperocchè l'huomo non gode di quella feli cità in guatando le coſe, che grande
a maraviglia aver-, fi ſcorge ne'bruti; ne'quali, coine di ſopra dicevamo, o
liau per le ſvariate diſpoſizioni degli organi, o ſia pure, che'l di Icorſo
rechi qualche impedimento alſentire, Dove manca ragione ilfenfu abbonda. E in
confermazione di quanto lo dico, s'egli ſi riandaſſero, comechè leggiermente
l'antiche memoric, ſi ravviſerebbe apertamente, che a'primi maeſtri della
medicina convenne valerſi della ragione per inveſtigare, e rinvenire i medica
menti. E percominciar da’ Cineſi: Popoli ſenza fallo di tutt'altri più
antichi:leggeſi ne' loro annali, che'l grans, monarcaCinnungo,il quale
ſuccedette a Fojo che no guari dopo il diluvio refle l'imperio della Cina, c che
quivi prin cipe de' medici, e inventore della medicina vien comune mentetenuto,
ritrovaſſe perpruova fatta in ſe medeſimo la virtù di molte, emolte radici, e
piante, abili non ineno produrre, che a diſcacciare lemalattie; ech'egli ne
compo neſſe varj, e varj libri, de'quali infino ad ora li ſon valuti, e fi
vagliono anche oggidi i Cineſi medici con felicità non or dinaria nel medicare.
Or non sebra mica egli credibile che a caſola prima fiata e' poteſſe Cinnungo
pormano a quel la tal pianta, o radice per farne la pruova? Ma è veriſimil
molto, che foſpinto e'veniſſe a ciò fare da qualche ragione; altrimenti non ne
ſarebbe egli giammai potuto venir a ca po; tanto più, che Cinnúgo, ſicomeivi è
furna, nell'anguſto { pazio d'un anno ſolo inveſtigò,e rinvenne ben ſeſſanta ve
lenoſi ſemplici, caltrettanti falutevoli,e abili a rintuzzare, e a vincere
illoro veleno;e contale, e tanto avvedimento econ ſucceſſi così fortunati egli
vi ſi adoperava, che comu neinente buccinavaſi eſſere i luoi occhj vie più
aſſai di que' del lupo ccrviero acuti, c penetranti. E più chiaro molto rio ciò
che lo ora dico ſi ſcorgerebbe per avventura, ſe colui che ſi diè cura, e
impiegò il ſuo ingegno a traslatare in la. tino idioma le croniche de'Cineſi,il
medeſimo fatto aveſſe de'volumi della lormedicina. Ma più certo ſi rende, che
que'primi Cineſi medici, da ragione ſcorti, aveſſer rivolto l'animo ad
inveſtigare i medicamenti,daciò ch'eglino a queſt'opera fare, ancor della
Chimica valuti commodamé te fi foffero. Per la qual ragione creder pariméte ſi
dee, che que', che nell'Egitto la medicina trovarono, i quali altresì della
chimica ſcorti furono, e inteſi:parimente ſi foſſero del diſcorſo valuri: non
riſtandoſi in ciò, che dal ſolo caſo lor ſi parava davanti.E per dir qualche
coſa anche della Scitia, la quale non ſoggetta allo imperio d'altra nazione,
conten de d'antichità (comeper Trogo Pompeo narraſi) coll’Egit to medeſimo;
tutto che da Erodoto un tal vanto alla Fri gia s'attribuiſca;della Scitia lo
dico, chi mai recar potrebbe in dubbio, che i primi medici per via della
ragione rinve niſſero i medicamenti: ſe in Prometeo, dal quale, ebbe il ſuo
primo cominciamento la medicina degli Sciti, accom pagnata mai ſempre ſi vide
la medicina, colla filoſofia; e fe non aveſſero alla ragion poſto mente, come
mai que’primi medici dell'Arabia ravviſar potevano la puzza del bitume, e delle
barbe de'becchi dar cõpéſo alle infermità cagiona te a que'popoli dalla
ſoverchiaza degli odori ſoavi. Ne meno in verità nella Fenicia i nepoti
diScdoc, i quali, co me narraſi per Sáconiato,o lia Filalete, appo Euſebio
ritro varono primieraméte, qual ſorte d'erbe, oqual maniera di cã to valevol.fi
foſſe adomar queſta,o quella malattia, ſenza l'ajuto d'una profodiſfına natural
filoſofia ciò inveſtigar mai poterono.I Druidi poi dellaGallia, nõ meno in
filoſofia, che in medicina ſcarti,che infra l'altre medicine adoperavano, quel,che
dica Plinio, il fūmo della ſelaginc al mal degli oc chj.no avrebbon fenza fallo
mai a caſo ardendo la ſelagine Sperimétar potuto agli occhi giovevole ilſuo
fumo:ma pri ma di ciò fare cóvié dire,ch'eglino aveſſero in prima alla na tura
dalla ſelagine,e del ſuo voláte ſale poſto mente. E p fa vellar della Grecia,
da qualche ragione moſli furono Chirone, Eſculapio, Ercole, Melampo, ed Achille
a valerli primieramente della Centaurea, dell'Aſclepio, dell'Eraclio,
dell’Achillea, piante che non poteva certamente il caſo loro porle davanti, per
effere elle amariſſime, e non mai per huom veruno, in cibo uſate. E ſe mai
eglino vo lendole ferite turare,di qualch'erba ſi yalſero, la qual ven. ne sì
factamente la ſua virtù a ſcoprire: comepotea mai ciò avvenire delle radici,
malimamente, che alcune di loro convien che con zappe, o marre dalla terra a
viva forza li ſuellano; e parea vana affatto una tal fatica, quando coll erbe
più agevolmente, ed aflaimeglio all'aperte piaghe approdar ſi potea. Fu dunque
l'eſperienza dalla ragion; preceduta; ed ebbe il corto Quintiliano affermando
il contrario colà ove difle:Vulnusdeligavitaliquis, ante quam hèc ars effet,
& febrem quiete, eo abftinentia, non quia rationem videbat:fed quia id
valetudo coëgerat,mis tigavit. E come mai fu egli poſſibile, che Melampo, il
quale parve, che nella greca medicina introduceſte l'uſo de'mi nerali,rinveniſſe
a caſo effer la ruggine del ferro giovevo le alla ſterilità. Ma ſe razionali
furono avvegnachè roz zi, ed imperfetti quegli antichisſimimaeſtri, ed invento.
ri della medicina,convenevole certamente egli ſembra.' che qualche coſa anche
di loro da dir ſia. E daremoa tal diviſamento da'Cineſi principio. Coa me, e
quanto oltre nelle coſe della natura filoſofando s'a vanzaſſero i Cinefi, il
grande teſtè di noi mentovata lin peradorc Cinnungo, e gli altri primi medici
della Cina, Io porto per me ferma opinione, che penetrar non ſi pof ſa per huom
giammai; concioſsiecorachè i libri poco mé, che tutti furono al niente dalle
voraci fiamme condotti, gia ſon due mila anni traſcorſi, per ordine
dell'Imperado re Cino, il quale rizzò incontro a’ Tartari quelle ma. raviglioſe
mura, e delle lettere implacabil nimico maisé pre moſtrosſi; avviſando
faggiamente, che'l troppo ſtudio di quelle, rendea gli animi ſnervati, ed
imbelli, ediſadar tia difender la patria dagli allalti nimici; e ſe alcuni pure
Z de’più antichi tuttavia per avventura ſalvınerimaſero.no vi avendo ora chi
intender poſſa que’miſterioſi caratteri, ne’quali ſcritti furono, è tanto,
comeſe ſmarriti anch'e glino, ed abbruciati fi foſſero. Ma da qualche veſtigio,
che tuttavia ne rimane, ſi ſcorge apertamente, che i Ci neſi nella geometria,
nella filoſofia, e nell'altre ſcienze molto furono addottrinati, e ſi valſero
della Chimica, e conobbero,un ſolo eſſere il principio delle coſe naturali; e
fer ſecondi principj le cinque ſoſtanze dette da loro me tallo, legno, acqua,
fuoco, e terra; ma diverſi da que' corpi, che comunemente con tal nome ſi
chiamano, e non disſimili per avventura da' principj de' noftri Chi mici. Ma ſi
par certamente, che Cinnungo non molto nella filoſofia, e nella medicina
avanzaffeli; mal potendo per opera d'un ſol huomo sì grand'impreſa, c di tanta
lievas in un tratto naſcere, e ricevere l'ultimo ſuo compimen to; masſimamente
alla medicina richiedendofi molto re po, e che molti, e niolti huomini a tal
lavoro s'adoperino, acciocchè a qualche ſtato di perfezione, e di eccellenza
pervenga. Ma chi no ſarà periſcorgere anco a prima viſta poi qua to fien
favoloſe, ed inverilimili quelle pruove,chedi Cin nungo ſi narrano, che egli
faceſſe in ſe ſteſſo lo eſperimen so delle piante nocevoli, e rift orative, e
che nello ſpazio sì breved'una ſola giornata, tante ne provaſse, e ne ripro
vaffc; il che fa chiaramente conoſcere, quanto la medici na, ſe acquiſtar vuole
eſtimazione, in tutti i tempi, cd in ructii luoghi abbia in coſtume di porre in
opera le men zogne, ele millanterie. Quáto poi valeſſero gli antichi medici
Cineſi nella Chi mica, chi potrà mai indovinare fi la ſolo, che eglino s'
ingegnarono di trovar medicine, non ſolo acconce agua rir le malattie: ma anche
valevoli negli huomioi ad eter nar la vita; e comediRaimondo, d'Arnaldo da
Villanova millantano i frati della Roſea Croce, che vivi anche oggi ſien o, che
vadano ſempremaiper lo mondo vagando; co sì fin 1 ! sì fingono,e danno ora ad
intenderei moderni Cineli Chi mici, eſser molti, e molti di quegli
antichiſapienti, che, fattafi colla gran medicina immortali, dimorino nelle cia
me degli altisſiini monti, e quindi vadano, anzi volino dove lor più ſia a
grado, ed anche in Cielo, Sciolti da tutte qualitati umane, Ma più, che
tutt'altri ſi laſciarono nella Cina da' Chia mici ingannare i troppo ſemplici
Imperadori;e narraſi,che da lor perſuaſo l'Inperadore luoo a comporla medicinas
da poter divenire immortale, faceſse fabbricar un pala gio di cedro, di
cipreſso,di canfora, e d'altri legni odori feri, che'l loro odore lūgia inolte
miglia facea ſentirſi.Al zò nel palagio una torre dibronzo altisſima nella cui
vce ta eravi una conca parimente di bronzo, formara a guiſe d'unamano, nella
quale ogni mattina avcaſi a raccorres. purisſima la celeſte rugiada: ove
macerar pofcia fi dovea no le perle, ed altre peregrine, e rare coſe, delle
quali compor li doveva quel prezioſo, e divino medicamento, che facea
l'immortalità conſeguirea qualunque adoper2= valo. Ed anche a’giorni noftri ſi
veggon per tutti i reami diquel vaſtisų moimperia, andar ad ogn'ora vagabon
deggiando, in grandisſimonumero i Chimici; i quali in fingendoſi dicſer nati
più e più ſecoli addietro, vendon altrui la medicina, che fà gli huomini
immortali, e tra per le loro trappole, e per lo deſiderio, che è in ciaſcheduno
di conſeguir l'immortalità, ritrovano, e più tra’letterati che tra gli altri,
chilorpreſta credenza. Ma laſciando sì fatte memorie da parte ſare, ſi ſcorge
quáto ben forniti foſſero de'rimedi efficaci gli antichi Ci ucfi, dalle
maraviglioſe cure, che con eſli tuttavia fanno i moderni medici. Solamente
potrebbeſilevare incontro taluno,dicendo che non ſiano giunti a ſaper quanto
dilet. tevol ſia ilber freddo, ne mai habbia meſſo in uſo i ſalalli; ma tali
appoſizioni recar potrebbonſi eglino a ſomma lo da; imperocchè col ber caldo ſi
ſono i Cineſi ſottratti al nale della pietra, alle podagre, e ad altre atrociffime
malattie, che così frequenti, ed abbondevoli ſono fra z 2 noi. E quanto al non
trar ſangue, oltre al novero de’gre ei, e de’noftri medicanti, che ſeguono il
medeſimo iſtitu to: la ben lunga preſcrizione di quaranta, e più ſecoli, ne?
quali han potuto guarir feliciffimamente, ed in iſpazio al ſai brieve le
malattie, non gli rende degni, non dico di ſcuſa, ma d'altiſſima loda? eda ciò
vorrei, che poneſſer mente tutti coloro, che così di leggieri ſi laſciano a'
medi ci trar ſangue. I moderni Cineſi medici non altrimenti, che gli antichi
già fi faceſſero, de’ſemi, delle frondi, delle corteccie d'alcune piante ſi
vagliono, e d'alcune pictre al tresì, e ſerban libri, ove ſon figurate
l'immagini di tali piante, e pietre, e le loro virtù narrate ne’precetti, e
nelle regolemedicinali,non guarida noi eglino ne van lontani. Preſcrivono
a’loro infermi sì rigoroſe diete, che alle volte laſcian paſſar fino a venti dà
fenza dar loro altro cibo, che certo ſugo dipere, tre, o quattro fiate il
giorno, e ber quãto acqua richieggiono; e sì molte graviilime malattie a
buonoje perfetto ſtato riducono. Immagina alcuno, che tal dieta non potrebbe
fofferirſi da'noſtri huomini; ma quanto egli vada errato,ilpuò far vedere
l'eſſere ſtata in uſo appo gli antichiſſimi greci, e l'eſſere i Cineſi di noi
più teneri, e dilicati aſſai.Ma che che ſia di queſte,van tutto dì i Cineſi
compilando libride'ſegni,delle cagioni, e degli effetti de' mali,da’quali,non
avendo nella Cina ſcuole di medicina, e da' proprj lor padri i Cineſi la
ſogliono apparare • Di. cono tutti, che i Cineſi medici ſono séza alcun
paragone aſſai più de’noftri,valenti in guarire i mali; ma nondimeno ancora ivi
colla medicina s'accompagna l'inganno, e l'ar tificio; ed eſſendo eglino
intendenti molto de'polli, tutta via per parere in ciò da più affai,
s'interrégono fin’a mez ' ora, fingendo d'oſſervar minutamente le lor mutazioni
in toccandogli, e danno a diveder dapoi, che con una tal diligenza eſſi
aggiungano a ſapere d'ogni varia, e più oc culta interna diſpoſizione, e
diqualunque più ſtrana mas, lattia la natura, e la vera cagione. Ma è per mio
avviſo il pregio maggiore della lor medi cina l'aver certi argomenti da poter
talora porre utile cos penſo alle più gravi malattie. Vlano frequentemente la
prezioſa radice, detta da loro Ginſen, dalla quale ſové te ſi veggon guarir
gl'infermi, eziandio morienti, e però una libra di eſa, non val meno di tre
libre d'argento. Nil la io dico dell'erba Te, percioccliè ella ſi adopera tutto
dì anche ora appo noi: comcchè non ſi veggian quì d'cila que’maraviglici
effetti, che narraſi ſoler nella Cina mo ſtrare, o ch'ella colla navigazion
così lunga perda per lo maggior parte quel, che chiamar fogliono i Chimici vola
tile Alcali, e con eſſo inſieme poco men, che tutta la ſui virtù, o qualunque
altra ſiane la c.igione. Eavvegnachè alcuni de’noftri ſcrittori ſi ſieno
ſtudiati di tor via altrui ogni buona opinione, che di tal erba portavano,dicendo,
ch'ella ſoglia talor cagionare Apoplesſia a cui ſovente l'u fi; non però dimeno
noi ben ſappiamo per pruova, cſſer ciò falſo; e ſe egli è incontrato, che
alcuno avendola ado perata fia caduto in Apopleſſia, certamente non vi ha avu
to ella parte niuna. Egli è vero però, che talerba ſoglia apportar qualche
moleſtia, ſe ſi prenda allor, che nello ſto maco non ben digeſto il cibo ſia, e
di ſoverchio acetofo: il che adoperar ſuole altresì il Cafè, ela Cicolata; alla,
qual coſa riparare ottimo rimedio è il digiuno. Ma io no voglio laſciar di dire
con queſta opportunità, che in luogo dell'erba Te lo ſoglio ſověte imporre
a'malati qualch'er ba noftrale, cos lor giovamento non ordinario:e che gli
Ollandeſi portano nella Cina le frondi della Salvia involte a guiſa della Te, e
per una libra di frondi di Salvia tre tan te ne riportano di Te; cotanto le
ſtraniere coſe più in pre gio delle propie dagli huomini tengonſi. Ma
avvegnachènella Cina i medici, quanto alfatto del medicare fien così fortunati,
comediviſato abbiamo: non dimeno avuti vi ſono in pochisſimo pregio,c ſtima. E
quinci avvien poi, che tutti coloro, i quali ſien d'alto in gegno, e di ſaggio
avvedimento dalla natura forniti,nul. la badandoviaila, moral filoſofia
ſtudioſamente ſi volga no, onde a'primi onori del regno agevolmente poi pervé
gono.E ciò permio avviſo è Itata una delle principalica, 1 { gioni 1 1 ! doti,
gioni, per la quale de'buoni libri dell'antica medicina, e della natural
filoſofia pochi rottami ſi trovino, e che a? di noſtri ogni ſtudio di natural
filoſofia tralandiſi. Ma per trapaſſare all’Egiziaca medicina; quanto chia
ri,erinominati al inondo, ſe'n viſſero già lungamente per fama, quegli avveduti,
e ſapientisſimifiloſofi, i quali la medicina ritrovarono primieramente, e
ſtabilirono il Egitto: altrettanto certamente ſono oggi in lunga dimé cicáza
ſepolti, e ſol ſervono all'umana cupidigia per pruos va della leggerezza, e
della fragiltà della gloria monda na; perciocchè eziandio di coloro, iquali
ebbero già vé tura d'eſſer collocati infra’Dei immortali, non è a noine meno il
vero nome pervenir potuto. Caſtigo ben douuto all'invidia,cd alla tracotanza di
quei Principi, e Sacer, i quali ſotto pene gravisſime a tutti l'apparare, e
l'eſercitar la medicina victarono; e per maggiormente na ſconderla, e
invilupparla con cnimmi,econ caratteri da lor ſolamente compreſi,ſempremai di
ricoprirne i miſteri ſommamente ſi ſtudiarono. Perchè io giudico, che po co, o
nulla della medicina Egiziaca apprender certamen te poteſsero que'curioſisſimi
valent'huomini Greci, i qua li tratti dal deſiderio d'appararla inſieme colla
inacemati ca, e colla filoſofia naturale, e altre buone arti nell'Egit to
pellegrinarono; ed in quel tempo appunto per lor di (grazia vi giunſero, che
caduta ivi affatto dal ſuo ſplendo re la medicina, ed empirica volgar tutta
divenuta, comun nemcnte da' medici ſcimuniti, e balordi ſi malmenava; ed i
ſacerdoti l'antiche note più non intendeano, o ſe pu re qualche coſa ne
penetravano,ſommamente avari delle loro dottrine, tenevanſi d'inſegnarle altrui,
e masſima mente a' foreſtieri; del che manifeſtisfima tcftimonianza è il
leggere ciò che della ſtrologia avvisò Luciano, quan do e' diſſe, che i Greci
niente di eſsa affatto dagli Egizi n'aveano mai apparato. Eλήνες δε ούτε παρ'
Αιθίοπων,ούτε παρ' Aiguntów césporogins ma ei ou fèy óxx gav. Senzachè, ſe a
Greci al trôde venuta foſse la medicina,certamente ella non ſareb be tanto
indugiaca ad allignarvi, e di veniryi a tanto ſtato 1 1 1 di gloria, a quanto
ella poi in proceſſo di tempo creſcen do aggiunſe. E comechè per oltraggio
de'ſecoli niunas certezza a noi dell’Egiziaca medicina ſia pervenuta;pur
potrebbeſi ragionevolmente argomentare, eſſere ſtata quella a grandiflima
altezza da' Re, e da' Sacerdoti del l'Egitto condotta, da ciò, che ne ragiona
Omero colà ove narra, che la moglie di Tono Re dell'Egitto diede la can to
celebrata Nepente ad Elena. Ενθ' αύτ ' αλ' ενόησ’ Ελένη Διος εκγεγαλα, Αυίκ'
άρ' ας οίνον βάλε φάρμακον ένθεν έπιναν Νηπενθέςτ'αχολόν τε, κακών επίληθον
απάντων. ος το καταβρόξειεν επην κρητήρι μιγείη, Ούκ άν εφημέριος γε βάλοι και
δάκρυ παρειών, ουδ ' ά οι κατατεθναίη μήτης τε, πα ής τε, Ουδ' ή οι πιοπάροιθεν
αδελφεόν, και φίλον τον Χαλκώ δηγόων, όδ' οφθαλμοίσιν δρώτα. Τοϊα Διός θυγάτης
έχε φάρμακα μηπόενα Β'θλα ταοι Πολύδαμνα πόρην Θώνος παρξί κοιτς. Onde a la
bella, e vaga Elena, figlia Del ſommo Giove, allbor nuovopenſiero Venne ne
l'alma, che nel vino infuſe Ch'efibevean 'un prezioſo, alme Liquur, che toſto
ogni dolor diſcaccia Da l'almaoppreſſa, e l'iraſpegne, ed indi Induce dolce, e
graziojo oblio Di tutti i mali; onde ſe alcun guſtoffe Di tal bevanda nella
tazza miſta Non potria mai per tutto un giorno intero Sparger dagli occhi per
le guance l'onde Del pianto; o d'attriftarſi;ancorchè morti Davanti aveſſe i
cari madre, e padre; Nefe con gli occhi propri anco vedele, Troncar col ferro
l'infelici membra, Del frate amato, o del fuo dolce figlio. Cosifatti i liquori
erano, e i ſughi De l'alma figlia del gran Giove eterno; Cb'erano utili, e
buoni, a lei dati Polidanna gli avea di ToneSpoſa. Il qual medicamento,
qualcertamente fi foſſe in que' te pi malagevol molto è ora ad inveſtigare; ne
comporta il mio ſcarſo ragionamento, che lungamente lo ne favelli, ne che fra
sì varie, e cotante opinioni inutilmente lo mº aggiri, mentre altri vogliono,
non altro eſſere la Nepēte, che una ſemplice, e cruda erba infuſa nel vino;
altri allo incontro medicina artificioſamente preparata, chi dice d'uno, echi
di più ſemplici compoſtage lavorata. Io giu dico, ne forſe da' limiti della
ragione gran tratto queſto mio ſentimento s'allontana, chela Nepente opera
foffe della Chimica; imperocchè sì piacevole ed efficace,e pre zioſo
medicaméro, qual ne vien dagli antichi narrato, al tro cercaméte non ſembra
chedi que', che tutto dà i noſtri Chimici metton fuora nelle loro botteghe. E
fu nel vero la Chimica nell'Egitto antichiſſima; pcrciocchè Vulcano figliuol di
Nilo guardiano dell'Egitto,Opi, e Fia da' ter razzani anche chianato,daprima il
fuoco, e l'uſo di quel lo ritrovò, e diè principio egli altresì all'arti tutte,
che del fuoco ſi ſervono; il cheoltre a Zezze moderno, e ſti mato da alcuni
poco veritiere ſcrittore, il qual dice. Πύρ, και τέχνας δε ύκ πυρος οπό σας
tutti i Tcologi,ei Filoſofi antichi di comun ſentimento af fermano; 'e Vulcano
altresì, ſecondo ARISTOTELE, e Sozione appresso Diogene Laerzio, inveſtigò da
prima i prin cipj della natural filoſofia;perchè potrebbeſi danoi a buo na
ragione affermare, aver lui per dover più acconciamé te farc, e rinvenir
ne'corpi diſciolti, eminuzzati, i primi lor componenti, adoperato da prima il
fuoco, e sì fatta niente dato alla Chimica rozzamente principio. E quin ci
nacque per avventura la favola dell'adulterio di Marte, e di Venere da Vulcano
a gli altri Dii paleſato; con la qualc ne vollono per mio avviſo dare a
divedere quegli antichi filoſofanti, qualche gran miſtero della Chimic'arte
eſſere ſtato da Vulcano primieramenre trovato, e dalui poſcia a’Re,ea
Sacerdotidimoſtro.Ma laſciando a'Chimi ci tutto ciò, che dietro a tal fatto
potrebbeſi più profon damente eſaminare. lo dico, che non ha dubbio veruno
avere gli Egizi Sacerdoti per la lor medicina tratto gran, pro dalla Chimica;
imperocchè ella venne a tale, cheti to altamente ne puotè favellare il
dolciſſimo Iſocrate con queſte parole: gli Egizi Sacerdoti per guarire il corpo
dalle malattie ritrovarono la medicina; non già quella, che ſi
valede’ınedicamenti pericoloſi, ma ſi bene quell'al tra, che potendoſi colla
medeſima ſicurtà adoperare, che gli ordinarj cibi d'ogni giorno; recar ſuole
poi tanti, e ta li giovamenti, che gli fa vivere ſani lunghisſimo tempo:
Ιατρικήν εξεύρον επικερίαν, και διακεκινδυνευμένοις φαρμάκοις χρω - μένην: αλα
τοιέτοις, α τίω μεασφάλμαν έχ ομοίαν τη τροφή τη καθ' ημέραν: τας δε ωφελείας
τηλικαύτας, ωπ εκείνες ομολογεμένως ogcevozallos ng Harga61w télys civos.
Magran pezza avanti Iſo crate, e nel tempo appunto, che in Egitto fioriva la ve
ra medicina, avea detto Omero, dell'Egitto favellando, Ιητςος δε
έκασΘ-έπιαμενΘ-. περί πάντων Αν θρώπων. cioè, ficome volgarizza il Baccelli:
Ivi ciaſcuno è melico perfetto, F più,ch'gn 'altro ajui perito, e fuggio.
Poichè in verità ciò che ſconciamente dell'Egiziaca me dicina vien narraco per
Diodoro, quand'e'dice: gli Egi zj non aver meſſo maialtra forte di rimedio in
uſo, fe non fe criſtci folamente, purgative medicine, c digiuni, e vo mitivi:
τας δε νόσους περκαταλαμβανόμενα και θεραπεύει το σώμα. τα κλυσμοϊς, και
ποτίμοις τε καθαρτηρίοις και νησείαις και εμέ. τους και ενίοτε μου καθ' εκάτην
ημέραν, ενίοτε δε τάς ή παρgς ημέρας dia menortes.e'debbeſi ſolaincnte di
quc'tempi prendere,nc' quali la medicina da'Re, c da' Sacerdoti, in mano della
più minuta bordaglia del popolo eraſi vergognoſamente invilita, eſſendo già
caduta dal ſuo primo ſplendore, ed in iſtato di miſerevole ignoranza ridotta;
ſicome avviſaſi da quelle leggi, da noi nel primo ragionamento recate, che il
mediconon aveſſeſi giammaia dipartir dagli ammae ſtramenti degli antichi, ne
foſſe lecito porger a’malati al; A a cun medicamentoprima del quarto giorno, ſe
non ſe a ri ſchio della propia perſona del medico. Al che forſe po nendo mente
il Corringio, e non diſtinguendo i tempi, af ſolutamente ebbe a dire, la
medicina degli Egizi eſſere ſtaca rozza aſſaige materiale. Ma ſe perciò dal
Borric chio egli meritevolmente ne venne biafimato, egli fareb be certamente
aſſai più da biaſimar Galieno, il qual ne gar non potendo, che gli Egizi prima
de Greci avefler contezza de'medicamenti, pure osò dire eſſere ſtato il lo ro
conoſcimento affai groſſo, e rozzo, e che con l'agio di aprire i cadaveri p
imbalſamargli ritrovato aveſſero mol te coſe alla notomia dell'huomo pertinéti.
Ed era tanto in: Egitto la medicina caduta,e avvallata allor;che quel pae ſe
da’Perſianiſoggiogato venne, e domato in guerra, che i ſuoimedicipiù celebri, e
più valorofi, quali effer do veano ſenza fallo que", che medicavano il
Re,furono vin ti agevoliſſimamente da Greci, i quali ancora erano roz zi,
enovizi nell'arte. Caduto poil'Egitto ſotto l'Imperio d'Aleſſandro, l'Egi ziaca
medicina, ruinà anch'ella, e tracollò sì facramente, che i medeſimi Egizi
da’Grecimaeſtri poi l'apparavano.. E infino ALLA CADURA DEL ROMANO IMPERIO in
Aleſſandria le ſcuole di varie ſette de' medicanti Greci in grande ſtato,
edorrevole durarono; e tratto tratto poi crebbero in tanta fama di dottrina,
che a Galieno, come egli me delimo ne da teſtimonianza,non increbbe d'andarvi
per udir Nemeſiano, famofiflimo infra’diſcepoli di Quinto,che di Galien
medeſimo era ſtaro maeſtro; e ſi mantennero le ſcuole d'Aleſſandria in ranta
grandezza, e ſplendore lun go ſpazio di tempo intanto, che, come narra Ammiano
Marcellino,baſtava in que'tempi, chehuomo aveſſe ftu diato in medicina in
Aleſſandria per eſſer in pregio poi di valentiſſimo medico tcnuto. Narrali per
Damaſcio nella vita d'Iſidoro, i fatti egregi di Giacomo medico Aleſſandrino,
per li quali meritò egli, che gli ſi ergeſſero ſtatue in parecchi luoghi, e
ſpezial mente in Atene. Coſtui quarant'anni continui logorò facendo eſperienze,
e dopo aver tutto il mondo traverſato cſercendo ſempre la medicina, ed
inſegnandola al figlio, che ſeco conduceva: pervenuto poi in Coſtantinopoli,tro
vò quivi medici, che poco, o nulla di medicina ſappien. do, non con la
ſperienza, come doveano, ma congli al trui detti medicavano a ritroſo, anzi (conciamente
mal megavano i caccivelli infermi; maGiacomoin medican do, cosi egli, come il
figlio ſervivaſi delle purgagioni, e debagni,non traendo a niuno mai ſaugue. E
quanto al fatto della Cirugia, oglino ſolean molto di rado porre in opera il
ferro, e'l fuoco; ma le maligne piaghe con la fola dieta curavano. Eben coſtoro
amendue farebbero da ri putar degni di molta loda, ſe non foſſero ſtati
ſuperſtizio fi, e idolatri, come par,che dica Fozio, comechè un an rico autore
appo Suida affermi, Giacomo eſſere ſtato Criſtiano; maavviſa il dottiflimo
Iſacco Cauſaboni, che Fozio ciò aveſſe derto di Giaccmo, moſſo ſolamente da
coloro, che'l credeano mago,per le maraviglioſe cure, ch'ei facea. Dice di più
Damaſcio, che diſcepolo di Giacomo fù Aſclepiodoto, il qual di muſico, ch'egli
era in prima,li fè medico, e infra breve tempo cotanto in ſapere vantag gioſli,
che in molte coſc, emolte, ſi laſciò dietro il me delimo ſuo maeſtro. Fu coſtui
gran matematico, c'l più eccellente infra tutti i filoſofanti de' ſuoi tempi,
comeche di coranto intendimento non foſſe, che poteſse i miſteri d'Orfco, e
de’lavj Caldej penetrare. Egli de' medici de ſuoi tempi avea ſolamente in
pregio Giacomo ſuo Mae ftro, e degli antichi, Ippocrate, Sorano, Cilice, e Mal
leoco. Perchè ſembra, ch'egli, e Giacomo ſuo maeſtro foſſero ſtati metodici; e
quinci ſi ſcorge,ch'a'que'tempi vi cran de'valenr'huomini, che in niun pregio
avcano Ga lieno. Rinovò Aſclepiodoro felicemente l'uſo dell'Elleboro bianco,
già lungo tempo traſandato, e ne vinſe incura bili malori. Entrò egli nella
famoſa mofeta di lerapoli,e ſe ne uſcì ſalvo, ponendoſi al naſo, e alla bocca
la veltes Аа 2 ripie 188 Ragionamento Terzo ripiegata sì fattamente, che
racchiuder vi poteſse qual che particella d'aria, onde egli agevolmente
reſpirar do veſse; quindi accoppiando inſieme varj minerali,con ma. raviglioſo
artificio una ſomigliante mofeta ne compoſe. Ciò, che di vantaggio di lui narra
Damaſcio per non recarvi tedio al preſente tralaſcio. Tanto vo dire,che de'
medici d'Aleſsandria altro non raccontandoſi, ſi vede,che poco alla fama
riſponder dovea il loro valore. Ne pur nell'Egitto la greca medicina nel ſuo
buon nome lungo tempo durò; perciocchè di mano in mano piggiorando magagnoli,
finche tolto al ROMANO IMPERIO per opera de' capitani d'Omare l’Egitto, e
venuto in mano de Saracenia poco a poco vi fi ſpenſe la greca medicina, ed in
ſuo luogo un'imperfetta volgare Empirica vi rimaſe;alla quale ſucce dette poi,
e fin’ora vi regna un'ombra di Razionale, o per ine’dire, di Metodica mcdicina
aſsai rozza, e ſciocca, iil una, o in duc cotali coſe appiccata, e ſtabilita,
le quali ſembrano a que’maeſtri ſcimmioni, cvidenti principi, fondamenta di
quella, c non altrimenti che ſe foſscro già al tempo d'Erodoto. Egli ha ora in
Egitto un'infinita fchiera di medicanti barattieri, i quali per pochi bajocchi
ottenuta licenza di medicare dall'Alimbali, over princi pe de'medici, deſtinato,
ed eletto a quell'uficio per denaro dal Barsa del Cairo, o che ſappia egli, o
non ſappia di me dicina,medicano, una o più fortidi malattie, comc più lo ro in
concio viene; c giudicano eglino, due ſole eſser lo cagioni di cutti mali yil
caldo, e'l freddo; ed eſsendo l’E gitto grandemente al callo ſottopoſto,
immaginano qui vi follemnente, che tutte le malattie, o procedan dal cal do, o
fian da ftrabocchevole caldo almeno accompa gnate; perchè giudicando, che l’un
contrario ſi ſpegna per Taltro, ſeryonli mai ſempre di rimedj acconci, ſecondo
la loro opinione, e valevoli a rinfreſcare. Perchè traggon · largamente ſangue
in tutte le empleſſioni, in tutte l'età, in tutte le ſtagioni dell'anno, ed a
tutti infermi, e dan be re acqua agghiacciata; il che «i ! anto fuor d'ogni
ragione la fascia, non ha cercamente huomo di sì mezzano intendimento, che di
leggieri avviſar no'l poſsa; ſenzachè i cauterj, e le ſcarificazioni, che
crudelisſimamente, e fen za riguardo alcuno anche nelle più menome malattie ſo
gliono adoperare, tolgono affitto loro ogni buon nome; intanto, che affatto
contrarj a quegli antichi mediciſein brano, i quali avean piacevoli argomenti
folamente il uſo. Ma ritornando alla medicina degli antichisſimi Egizzi,
certamente lo non ſo, come iſcuſar ſi poſsa quel graviſſi mo fallo, nel quale
que'Re, e Sacerdoti incorſero in te nendo cotanto a riguardo l'eſercizio della
medicina; il că po della quale è così vaſto, e così malagevole, cheappe na, che
più, e più persone colle lunghe eſperienze, e col le ragioui una menoma parte
oggi coltivar ne poſsano. Ma no meno da biaſimar íono gli Egizi medici, per
aver oglino primieramente colla vanità della divinatoria fero logia, corrotta,
e magagnata la medicina, ſe pure è de preſtar credenza alle parole di Giulio
Firmico: Nekepfo egli dice, Ægypri jufiifimus Imperator, a Aſtrologus val de
bonus, per ipfos Decanos omnia vitia, valetudineſques collegit, oftendens quam
valetudinem Decanus efficeret, quia natura alia vincitur, quia Deum frequenter
alius Deus vincit, ex contrariis ideonaturis, contrariiſque pote
ftatibusgumnium ægritudinum medelas divinæ rationisma gifteriis invenit.
Triginta ſex itaque Decani omnem Zo diaci poffident circulum, ac per duodecim
fignorum numeri ifte Deorum numerus, ideft decanurum dividitur. Se poi dagli
antichi medici cra ſtato introdotta nell’E gitto quell'uſanza, che nel tempo
d'Erodoto, nel quale fenza fallo la buona medicina iyi affatto era mancata, fer
bavali, clic per tre giorni di ciaſcun meſe dell'anno gli huomini per
conſervarli fani ſi purgavano col vomito, e ſi Ιανοvg!'inteftini τόπω δε ζόης
τοιώδε διαχρέωνται: συρμαΐζεσαι σάς ημέρας επεξής μηνός εκάσg, εμέτοισι
θηρώμενοι την υγίειην, και κλύσμασι, νομίζονες απο τών τξεφόνων στίων πάσας τας
νούσος τοϊσι ανθρώποισι γίνεσθαι. loper me non credo,come si poſſa generalmere
favellando, comeche rieſca calor peravventura giovevole, tal coſtume in tutto
lodare; conciolliecoſachè coll'uſare il yomito, ei medicamenti, lo ſtomaco, e
gl'inteftini a poco a poco s'indebiliſcono, e fi ſconvolgono notabilmente, e
alconciano oltremodo le lor commeſſure, c li vuotano in ſieme con i cattivi
umori le mucilagini, che veſtono, e difendono le loro membrane, ed altre, ed
altre ſoſtanze non ſolo utili, ma ſommamente ancora all'economia, all'
operazioni, ed alla vita degli animali neceſsarie, non che gioveyoli. Altro non
rimane a dire dell'Egiziaca medi cina, ſe non chenon coſtumò ella ne meno
allora quando era caduta dal ſuo primiero ſtato, per quel, che ſe ne ſap pia,
di trarre mai ſangue: comechè comunemente credam ſi, che dall'Ippopotamo, o ſia
cavallo di fiume, in Egitto da prima i medici l'apprendeſsero; perciocchè
egli,come Diodoro racconta,nel fondo del Nilo quivi dimora, oco. me Ammian
Marcellino, fra'canneci delle rive di quel 1o. Ma Prometeo, o pure Magog, onde
ebbero la prima origine gli Sciti arricchìpreſso quelli la medicina, per ſua
opera primieramente ritrovata, dinoli, e molti nobili, cgiovevoli medicaméri,
co’quali ebbe egli fortuna dico si felicemente eſercitarla,ch'egli
ragionevolmente ſi vanta appreſso il ſublime poera Eſchilo, ch'egli medicava me
[ colando inſieme medicine acconce, ed atce a domar le malattie, con guarir
tutti coloro, che così malamente ſi ritrovavano ridotti, che non ſi cran pocuti
per niun riine dio in prima riſanare, e che prima, che a lui veniſse fatto di
ritrovarle, e di porle in opera, non vi avea rimedio al cuno per le malattie To
pelice régason, & nis vóm glori, Ουκ ήν αλεξημ’ δεν έδε Βρωμον, ρύ χρυσόν,
και δε πιςον, αλα φαρμάκων Χρία κατέσκέλoντo πείν έγω σφίσιν Εδάξα κegίσεις
ηπίων ακεσμάτων Αις τας απάσας εξαμάζονται νόσος, Ma di lui ancor
ragionevolmente dottar ſi potrebbe, nó egli aveffe dato alla ſua medicina
principio con iſcioglie re i corpi più duri, quali ſono i mecalli, per opera
dei fuo co: mentre è coſtante fama appo l'ancichità, ch'egli pri ma di tutti da
varie, e varie minicre ritraele i metallico me ſi può da que'verli vedere,
Χαλκόν, σίδηρον, άργυρον, χρυσύνη της Φησεν αν πάροιθω εξεύρειν έμού. E
conciofoffe coſa, che atanta impreſa gli faceſſe cer tamente meſtieri riguardar
ſottilmente ancora al fuoco, e in diverſi gradi partirlo, e perciocchèegli
peravventura, del calor del Sole ſervisſi: finſero, ch'egli affole il fuoco
imbofaco aveſle. Ma tafciam di ciò, a' Chimici il penſie ro, come anche di
fpiegar l'allegoria dell'effer Prometeo al raffo legato per comandamento
diGiove; il che cicga remente vien nel fuo idioma da Eſchilo medeſimo narra to,
ed è nel noſtro tale il ſenſo, Gia fiam giunti,o Vulcan, ne'vaflicamping E
nelle folitadini deferte Per dove a Scitia valle; a te s'aſpetta i decreti
adempir delGenitore; Equeſto audace all'alte eccelſe rupi Con lacci indiſolubil
didiamante Legar fra i duri faffi. Eito fplendore Del foco onnipotente, onde tu
altero N'andavigià, furotti, damortali Dono nefeo: dritroi, che d'un sal fallo
Pagbiagli Dei la meritata pent's ondiegti a venerar l'alto potere Di Giove, e
l'huomo almeno amare apprenda. lo perme immagino, che Promeceo, o che'l caſo il
por: taile, o da qualche ragione ſoſpinto accendeffè il fuoco con i raggi del
ſole, e che da queſto traerſe origine la fa voka accennata. Mache che fia di
ciò, li diede Prome teo ad intcrpetrarc i ſogni, e diceſi, ch'ei trovaſſe gli
au gurj: Teórus di nous isoleradio il che fa vedere, che in fin al ſuo primo
cominciamento la f media medicina ſempremaiaccompagnoli coll’arti ſuperſtizio:
ſe, e vane. Ma come poi gli Scici della medicina di Pro meteo ſi valeſſero, Io
non ne ſaprei dir altro, ſalvo, cho eglino ſi ſervivano delle purgagioni, e
della dieta nel cu rare le malattie, come appo Plutarco riferiſce Talete την
δίαιταν αυτή & τον καθαρμον ο χρώνται Σκύθαι περί τους κάμ νοντας και
αφθόνως, και προθύμως παραδέδωκε Ma trapaſſando ora alla Fenicia:ebbe ella
ne'primi tem pi huomini d'acutiſſimo, e maraviglioſo intendimento, e ſopratütro
aſſai vaghi d'inveſtigar le biſogne del mondo, si fattamente, che prima di
ciaſcun'altra nazione ebbero ardimento di condurfi per nuovi mari (fabbricando
ad ogni ora nuove Città, e popolandole di gente douunque capitavano ) a
lontani, e per addietro non conoſciuti paeſi d'Africa, e d’Aſia, e d'Europa,
perchè creduto venne, che i Fenici foſſero i primi, che ſolcaſſero co’legni il
mare: onde diſſe Tibullo. * Prima ratem ventis credere docta Tyros.
Perchègiudicar dobbiamo, eſſere ſtati i Fenici, abi. li ſoprammodo a imprender
colle ſpeculazioni, e colles ſperienze la medicina, e che però ella nella
Fenicii, fe condochè la natura d'un talc affare comporta, alcolmo della
perfezioneaggiugneſſe. E di vero convennc, cho gni ſua parte arricchita, ed
illuſtrata veniſſe dal profondo fapere di Cadino, come colui, che dopo
diverſe,c glorio ſe vittorie dell'Africa avute, come canta Nonno nel poema
dc'fatti dfBacco, edificò cento Città. •... Λιβυσίδι ΚαδμG- αρούρη Δομήσας
πολέων εκατονταδα, δωκε δεκάτη Δύσβαζα λαϊνέοις υφούμενα τύχεα πύργοις e
ſpezialmente la famoſa di Tebe, ove egli regnar poi do veva. Quindi egli
ſpogliando dell'antica rozzezza, c pe coraggine la grecia, le diedeinſieme con
tante, e tante doctrine molti vocaboli, e le lettere ancora, e l'umanità. Il
chei medeſimi Greci apertainente confeſſano, dicendo Erodoto >, per tacer di
Filoſtrato, d'Ateneo, e di Diogene Laerzio, chei Fenici, che vennero con Cadmo,
con molte altre dottrine, le lettere, che prima non vi erano, in Grecia
introduffero: ως δε Φοίνικες ούτοι ως συν Κάδμω απικό. μενοι, εσήγαγαν
διδασκάλια είς τους Ελληνας, και δη, και γράμματα ουκ toy a aliv eranos.
Conoſceſi anche manifeftamenre in ciò, che nella Fenicia la vera natural
filoſofia allora regnavas la quale, come Strabone,e Poſſidonio appo Seſto
Empiri co raccontano, da Moſco Fenice, Leucippo da prima apparò. Ma più che
altro, l'eccellenza della medicina de Fenicj ne da manifeſtamente a divedere,
l'aver ella pe netrar ſaputo, come ſi poſſa col canto domar la ferocia delle
malattic; al che certamente imprendere ben ſalda, e ſottil filoſofia loro
abbiſognava, eun'avvedimento non. miga ordinario, e volgare; eſſendo loro
neceſſario dilige temente inveſtigare la materia del ſuono, qual veramen te
ella lia, ſe l'aria, o ſe pure qualche ſpezial ſoſtanza,che nell'aria fi crovi,
e le figure, e la grandezza delle parti celle, che la compongono; e come la
lingua, che forma il canto per via di miſure, e di convenenza, or fortemen te,
or pianamente, or velocemente, or tardamente la muova; e coine sì fatto
movimento or s’uniſca, or fi di funiſca, or creſca, or manchi, or fi rifletta,
or s’attuti; come intorno intorno egli così velocemete liſpáda;e co. me
all'orecchio finalmente pervenuta la ſonora ſoſtanza, o penetri i poridel
timpano, e per li tortuoſi ſentieri del laberinto, e della chiocciola
aggitandoſi, a percooter rat ta ſe'n vada ne'nervi dell’udico, o pure le ſue
particelle dieno il lor movinento al timpano, e'l timpano le com munichialle
particelle dell'aria, qual falfamente inn.itu chiamaſi, e queſte poi alla
membrana, che veſte la chioc ciola il compartano. Ma ſopratutto inveſtigar loro
cer tamente ancora conveniva, come le fibre de nervi dell'u dito,
rappreſentando fedelmente all'anima lc vare, e va rie maniere, colle quali
elleno tocche, e percofie furo no, facciano sì, ch'ella la sì varia, e táta
diverſità deluo ni ne venga ad imprendere; e come l'anima poi da una ſorte di
ſuono noja, e da un'altra diletto tragga; e come da ciò s'ingenerino in eſſa
amore, odio, ira, timore, ed Bb altre, ed altre paſſioni; e come queſte
finalinente, o cre ſcendo, o ceſando il movimentodel ſangue, e dell'altre
diſcorrenti ſoſtanze del corpo, o allargando, o riſtrignen do, o chiudendo i
pori delle parti ſalde, fi rendan valevo li, come d'ingenerare, così anco di
menomare, c di eſtin guere parecchie malattie. Mache che ſia del filoſofar,
ch'eglino ſi faceſſero intor no a tal facenda, quáto giugner poſta la forza del
căto tut to dì ne' bambini a noſtre caſe oggi'l veggiamo; a ' qu ali per lo
ſolo canto, avvegnachè non ancora i ſentimenti del le voci pienamente
comprendano, s’alleggiano i dolori,e talvolta affatto ancor fi tolgono, e ſi
ſeccan ſu le pupille le lagrime,luſingādogli pianaméte alla quiere il sono;e
vede ſi talora huomo pe'lcāto aſsõnare, in cui vana ache la virtù dell'oppio
ſperimétata ſi era.Il che ne può far fede vero efa fer potuto ciò,che
d'Aſclepiade ſi legge cioè ch'egli la rab bioſa furia del ribellante vulgo
colla muſica, ecol ſuono eſtingucſse. Mapoimaggiore senza filo ſi prova la
virtù del căto,ove ſia chiintéda la ſignificāza delle parole,come quelle, che
ancora per ſe ſtelle fole, gli affettinell'animo, valevolia deſtar ſono. Onde
non ſenza maraviglia lo lege go in Diodoro, che la muſica dagli Egiziachi, non
ſolo inutile, ma nocevole anzi che no venille ſtiinata, Tu'vuge σακην νομίζεσιν,
ου μόνον άχρηστν υπάρχειν, αλα, και βλαβεραν, ecio che Eforo appreſſo Polibio
dice: la muſica eſſere ſtata ri trovata per ingannare gli huomini: ettes, ¿ '
atémy, aggona πία παρεισήχθαι τους ανθρώποις. Perché non eeglia mio cre dere
affatto inveriſimile, che Damone co'l căto aveſſe té perar potuto, e raffrenar
le menti offuſcate, ed alterate dall'ebbrezza. E ciò, che narrafi di Terpandro,
e d'A rione, ch'aveſſer col canto riſanati gli abitatori di I.esbo; chc di
graviſſiine malattie moleſtati, ed oppreffi langui vano; e di Pittagora ciò,
che ne narra Eutimio,che a ſuon di cornamuſa aveſſe ad un giovine tutto
infiammato d'a moroſo foco, l'ardentiſſime fiamme amoroſe ſmorzate, ad
un'altro, che infuriato correva col ferro ignudo, lo sfre nato orgoglio
arreſtato; e di Timoteo, che con furioſo canto iſtigaſſe Aleſſandro Macedone a
prender l'ar: me; ma addolciando le note sì adoperaffe, che le poneſſe giù di
bel nuovo; e di Aſclepiade, che le impazzate men ti, e da furor turbate, aveſſe
con ſoave melodia in iſtato di ſanità ridotte; e del medeſimo, che a ſuon di
tromba a’ fordi renduto aveſſe l'udito. Ma non così di leggieri pe I ) ſembra,che
preſtar ſi poſſa fede a Marziano Capella, il quale afferma,eſſere ſtate guarite
le piaghe perla muſi ca; ed à ciò, che diceli d'Itinenia Tebano, che col canto
guariſſe la ſciatica, comechè li fien fovente vedute per im provviſo timore, e
le podagre, e le quartane febbri dipre ſente fanate. Ma che Talere poi colla
ſoavità della Ce tera la peſtilenza aveſſe fugar potutz, coſa ſembra affatto
lontana dalla verità. · Ma il valor della muſica ben venne conoſciuto a tutte
quelle nazioni, che in mezo alle battaglie vollono i ſuo ni, e l'armonie
framettere; come quelle, che troppo va levoli lor lembravano a trarre gli animi
de'combattenti, e colle varie note ſvolgergli, ove più l'era a grado; e talora
incoraggiargli a più pericoloſe impreſe. E sìi Geti uſa rono le Cetere, e le
Siringhe: i Creteſi ', le Lire: i Lidi ed i Lacedemonj gli Auli,a ſuon de'quali
pria di comin ciare la miſchia, di cantare un melos qucſti eran uſi, che
Embetterio appellarono. E gli Arcadi p incoraggiare la lor giovētù ad altiſſime
impreſe, e per addolciar la rozzezza de’ioro animi,cagionata dall'aſprezza
dell'aria,, con ogni ſtudio ferventemente alla mulica s'impiegavano; e l'eſſer
ne ignoranti aurebbonſi a fommo ſcorno recato; onde diffe Polibio, che fin
dalla tenera fanciullezza s’avvezavan gli Arcadi a cantar Inni, e Perni, i
quali ſecondo il patrio coſtume erano indirizzati a lodare gli Eroi, e gli Dei
della Patria; e altri ufici della lor inuſica va il medelimo Polibio lungamente
diviſando; e ne fa anco parola Atenco.. Vennero, ma non guari feliceméte i
Fenici da’mcdicanti dell'altre nazioni imitati, i quali le maraviglioſe pruove,
che per coſtoro col canto facevanſi ſcorgendo, e non ſap piendone la cagione,
ne per iſtudio c'huom vi mertelle Bb giammai penetrar potendola, li fecero a
credere, che l'ar monia tucti mali diſcacciar poteſse; anzi vi ebbe di van
taggio chi ſconciamente filoſofando immaginò, non ſo lamente ſopra gli animali,
maaltresì ſopra l'infenſate co ſe quella ſignoreggiare, e fin ſopra i Cieli, e
nel baſso in ferno diſtenderſi. E perciò vollono, che colà giuſo nell abiſso
calando Orfeo, co'l ſuon della ſua Cetera ſtrozzal ſe ſu le fauci di Cerbero i
latrati, che uſo era contro a ' paſsaggieri con crudel rabbia di mandar fuori:
raffermal ſe l'orgoglio delle furie ſmanianti: e l'anime tutte perdue te,
aveſler dall'acerbe lor pene alcuna triegua: ne lacera te p allor foſsero dagli
Avoltoj a brano a brano le viſce re a Tizio, ne le membra a Siſifo dal grayoſo
ſaſso sfra cellare; ne per ſete delle vicine acque, e per fame delle vedute
poma arrabbiaſse Tantalo. E tutti quanti in ső ma l'inceſsabili torméti col
ſuon della ſua lira in quel paſ ſaggio ſgombraſse; anzi colla dolce armonia sì
poteſse fa re, e tanto, che dagli infernali Dei a'regni della luce law ſua cara
Euridice otteneſse di riportare; il che vagamen. te deſcriſse l'ingegnoſo
latino poeta. T alia dicentem, nervofque ad verba moventem, Exangues flebant
animæ,nec Tantalus undam Capravit refugam: ſtupuitq; Ixionis orbis. Nec carpere
jecur volucres urniſque vacarunt Belides: inque tuofedifti Siſyphe ſaxo. Tum
primum lacrymis vibarum carmine, fama ef Eumenidum maduiſſe genas: nec regia
conjux Suſtinet oranti, nec qui regit ima, negare: E per tal cagione altresì,ad
imitazione di Teocrito, Virgi lio introduce Alfefibeo a dire Carmina, vel Calo
poſuntdeducere lunam. Carminibus Circe focius mutavit V lalei Frigidus in
pratis cantando rumpitur anguis: Eplamedeſima cagione pariméte quel noſtro
Poeta puo tè far dire alla Ninfa, dicui narrò Ricciardetto aRu. giero: Dal
Giella Luna al mio cantar difcende, S'agghiaccia il foco, e l'aria fifa dura,
Ed bo talor con ſemplici parole Moffa la terra, ed ho fermato il ſole. Ma
cotanto oltre portofſi la ſomma ſmcmoraggine di quegli ſciocchi imitatori
de'Fenici, che non ſolamente nel canto, manelle parole ſole ancora una tanta
virtù, ed ef ficacia conſiſter crederono, e di quelle in medicando fer vivanſi:
onde fi legge in Omero,che colle parole ſtagnals ſero il ſangue delle ferite
d’Vliſse i figli d'Autolico, Τονμάρ Αυτολύκου παίδες φίλοι αμφεπένοντο, Ω'πιλήν
δ ' ο'δυσπG- αμύμονG- αναθέριο Δήσανέπιαμόνως • επαοιδη δ' αίμα κελαινόν
Εχεθος: cioè, Mad' Aurolico i figli eſtrema cura si preſer del divino Vliſſe, e
prima Congrand'arte legaron la ferita Tenendo ilſangue, che già fuor n'uſcia
Conparole d'incanto entro le vene. Ma non ſolo i greci, maanche i noſtri poeti,
per cacer de’latini, ſecondando i ſentimenti del vulgo ciò ſcriſſero, infra'
quali il Taſso padre finge, che la donzella della fa ta Silvana medicaſse colle
parole quell'Inghileſe Cava liere gravemente per man d'Alidoro ferito,
cosìdicendo: E con la forçade'magici incanti Fe in lui tornar la virtù già
ſmarrita, Se ricourati i vaghiSpirti erranti, Gli fanò in breve tempo ogni
ferita. E dicono altri ſcrittori aſsai, che operino ciò anche le parole in
tutt'altre malattie: infra’quali Vindiciano: Namque eft res certa Carmen ab
occultis tribuens miracula verbis: e priina di lui Quinto Sereno:
Multaquepræterea verborum monftrafilebo; Nam febrem vario depelli carmine polle
Vana fuperftitio credit, tremuleque parentes. La qual beſſaggine è durata
fempremai, edura tuttavia nel 198 Ragionamento Termo nel mondo, attenendoſi a
cotali fraiche, e novelle'; non ſolo la ſcempiata plebe, maancora quei, che
tra’letterati tengono qualche luogo; e nel paſſato ſecolo il Perrino,fa
mofiflimo Peripatetico, per tacer d'altri di minor liéva, con vaniſſimi
ſofiſmi, diſoſtener sì fatte pecoraggini fol lemente argomentoſſi, cercando di
dare a divedere,che le parole naturalmente ciò poſſano operare; anzi di vantag
gioancor giudicano, che le parole eziandio ſcritte, e ad doffo portate, non
ſolo a guarire i mali, e le febbri, ma anche a render yani i colpi delle ſpade,
e delle palle degli archibuſi ſommamenteapprodino. Onde poi prendono i noſtri
Poeti a favoleggiar de’loro Cavalieri crranti, co me di Ferraù narra l'Arioſto:
Ch'habbiate ſignor mio già intefo eftimo, Che Ferraùper tutto era fatato,
Fuorche là dovel'alimentoprimo Piglia’lbambin nel ventre ancor ferrato. E del
ſuo valorofifſimo Orlando: Era egualmente il Principe d'Anglante Tuttofatato,
furrche in una parte: Ferito eller pote a fotto le piante: Ma le guardòcon ogni
ſtudio sed arte. Duro era il reſto lor,come diamante (Sela famadal ver nonſi
diparte ) E l'uno, e l'altro andòpiùper ornato, Che per biſogno a le battaglie
armato. Ma più ridevole in vero, e ſtrana allai, èpreſſo il Bojardo, e
l'Arioſto, la novella d'Orillo, il quale ingaggiato a bàttagiia con Grifone, ed
Aquilante ſu le ſponde del Ni lo, non mai da que’prodi campioni potea trarſi di
vita: imperocchè per virtù diparole,e d'incanto, egli era sì fattamente
ciurmato, che dopo eſſere ſminuzzato, e tri tato, di nuovo, que'minuzzoli da
per ſe acozzandoſi, -ri tornava, ſicomeprima a vivere, e a combattere; onde
cantò il Bojardo Segli tagliafſi il collo, il petto,e l'anca Piùminuto il
tritaſi, che'l panico, 6 Mainonſarà dello Spiritoprivo, Spezzato in mille parti
torna vivo. Famoſa ſenza fallo, e chiara al mondo fe la medicina de Traci il
valencillimo medico, e filoſofante Orfeo, come colui, che per teltimonianza di
Clemente Aleſſandrino nelle ſecrete coſe della natura fi fè addétro aſſai; e fu
il pri mo, checurioſamente, per quel che ſi ſappia, dell'erbé ſcriſfe: primus,
dice Plinio, omnium, quos memoria novit Orpheus de herbis aliqua prodidit.
Compoſe egli ancora alcuni libri della natural filoſofia, delle gemme, del ſito
delle fibre, e un libro ſe'l ver dice Galieno della compoſia zione degli
antidoti, e molti, e molte altri libri di coſe naturali; ſenzachè non ſi può
egli di leggier credere, in quanto pregio avuto egli foſſe tra per la
dolciſſimaarmo nia del ſuo canto, e per altre ſue rare dottrine, maſlima mente
della politica, di cui ſecondamente che ne raccon ta Pauſania, fù egli un gran
maeſtro, molte, e molte di di quelle coſe inſegnando, le quali alla vita, e al
regime to degli huomini abbiſognano. E anche fu egli pregiato molto, e tenuto a
capitale per le molte, e valevoli medi cine a corali malattic non men del corpo,
che dell'animo dalui ne'ſuoi infermi felicemente adoperato. E comechè favoloſo
affatto, e vano fia ciò, che vien narraro di ſua moglie Euridice,da luicol
canto riſuſcitata: non però di meno vogliono molti antichi ſcrittori, che Orfeo
la riſa naſſe, preſſo a morte ridotta dal morſo d'una ſerpc, e che poſcia ella
ſe ne moriſſe per colpadel medeſimo Orfeo.Ma ſe foſſe veramente d’Orfeo quel
poema dell’Argonautica, che la bugiarda Grecia ſotto il ſuo nome divulgò,
dottar non ſi potrebbe, che egli non foſſe ſtato della Chimica molto, e molto
avviſato, mentre ſi deſcrive in quel libro minutisſimainente ciò, che ſi
richiede per lo gran magiſte ro, che deſcritto era, come ſi finge nel libro,
che Orfeo con gli altri argonauti a Colco conquiſtarono. E quinci certamente ſi
pare poi, che i poeti prendelſer l'occaſione di finger quel celebre favoloſo
racconto del Vello dell'o ro:, il quale, come dicono lo ſcoliaſte d'Apollonio,e
Suida, e Varino Favorino, altro veramente ei non era, che una pelle, nella
quale l'artificiofa maniera da cambiar in oro qualunque altro
demetallideſcritta leggevaſi. Ma le tante arti, e ſpezialmente la muſica,e la
poeſia; nelle quali dilettavali aſſai Orteo, e l'eſſer egli ſtato, CO me
Simplicio riferiſce,autore, ed inventore deltaco, e no per altro, che per
iſcuſarſi, e riveſciar ſopra la di lui inevi. tabile neceſſità quelle morti,
che per ſua colpa a'poveri in fermi avvenivano, mi dan per avventura giuſta
cagione di dubitare, non egli foſſe ſtato nella filoſofia,e nellamedi cina da
mé, che altri credevalo;ne tāta loda meritar dovel ſe, quanta in prima
guadagnoli nel creſcere dell'arti ap preſſo i troppo ſemplici, enon eſperti antichi,
iquali pa ghi ſolainente delle primeapparenze delle coſe, nonnes venivano
troppo addétro a penetrare le cagioni;comeche Pittagora ſtudiato oltreinodo ſi
foſſe delle doctrine di lui apparare, e diſcerner ſuoi librilegittimi da non
veri,ſico me non pochiſcrittori teſtimoniano, e ſpezialmente Siria no, il quale
di moſtrare a' fentiinenti d'Orfco que'diPi tagora, e di Platone concordevoli
argomentolli. E più avanti è da dottar della ſua dottrina, e valoria; percioc
chè non è egli vero ciò, che il ſemplice vulgo parimento di lui credeva, efſer
le ſue azioni, ed andamenti tutti con una coral gravità di coſtumi, e lantità
di vita ſempremai ſtati accompagnati; conciofoſſe coſa, che egli dimoltes
malvage uſanze, c cattive vezze la Grecia cutra gualta, e corrotta aveſſe:
Sacra Liberi Patris, dice Lattanzio, pri mus Orpheusinduxit in Greciam,
primufque celebravit in monte Bootie Thebis, ubi Liber natus eft. E di
vantaggio ſcrive di lui Ovidio: Ille etiam Tbracum populis fuitauthor amores In
teneros vertiſe mares: Ma la medicina de Traciin fama,edonor maggiorinen te poi
crebbe per opera di Zamolſide, non meno ſaggio, che valoroſo lor Principe, da
alcuni fallamente appo Ero doto creduto ſervo, e diſcepolo di Pittagora. Ma
della medicina di Zamollide altro noi non abbiano, ſe non quel poco che appo
Platone ſe nelegge,cioè,nó poterſi medicar gli occhj ſenza la teſta,ne la teſta
ſenza tuttoilcorpo, ne il corpo ſenza l'anima. E queſta dicca Zamolſide eſser
la ra gione, perchè molte malattie de'corpi fieno naſcoſe a'me dici Greci,
a’quali non è manifeſto dove primjeramente faccia meſtieri applicar la
medicina, cioè al tutto, il qua le non iſtando bene, è imposſibile, che
qualunque ſuas parte ſe ne ſtea bene;cócioſliecoſachè,ficomc egli dicevil ',
ciaſcun noftro bene, o male dall'anima noftra ne diſcenda al corpo, e da quello
conſeguentemente a ciaſcuna parte di ſe, e perciò agli occhj ſi partiſca; e
però giudicava in prima eſſer l'anima ſopratutto da medicarc; acciocchè bé poi
ne ſteſſc la teſta, e tutto il corpo.Mal'anima egli volc va, appo Platone,che
da medicar foſsc có incanci; e queſti diceva eſserci buoni ſermoni, e indirizzamenti,
i quali certamente fan pro a render l'huomo temperaro, e ſigno reggiante
l'impeto de'ſenſi alla ragione rubelli; e quindi 1.2 ſanità al capo, e a tutto
il rimanente del corpo agevol mente poicompartirſi: ecco le ſue parole sa's dº
itu'sa's Guo ας, τες λόγες είναι τις καλές • εκ δε των τοιέτων λόγων εν αις
ψυχαίς σοφροσύνην εγγίγνεσθαι,ής εγγενομένης, και παρέσης ράδιον ήδη είναι την
υγίειαν, και τη κεφαλή, και το άλω σώμαπ πορίζων, Ma non facea meſtieri
certamente di molto ftudio, e di molta acutezza d'intendimento a porre in aja
sì fatti di viſamenti, che poſsono di leggieri cadere in mente anche alle più
idiote perlone. Nevero egli ſi ritrova, che le malattie tutte del corpo,
dall'anima dependano, o ſem - prc, chepatiſce una parte, debba neceſsariamente
patir il tutto, o'lmal delia parte da tutto il corpo, o da qualche parte
principale di quelle dependere; perciocchè ben può eſser tutto il rimanente del
corpo, ſano, & una, o altra parte ſolamente magagnata. È ciò avvenir tutto
dì live de,maſſimamente nelle ferite, ed epfiamenti, che colme dicar la parte
offeſa ſola, ſenza badar ad altro, quella feli cemente ſi riſana; e ciò
conferma l'eſemplo del fatto a'no ſtri tempi avvenuto, dicolui, che portar non
potendo il troppo acerbo dolore, che per la podagra pativa in un de Сс diti del
ſuo piè, venne a tanta diſperazione, che preſo un coltello, troncoſselo, ne più
mai in altro luogo poi venne gli la podagra. Macon gran prontezza venne
abbracciata, e con gra disſima ſuperſtizione oſservata sìfatta guiſa di
medicare da'Greci medici razionali; e di quella tuttavia ſivaglio no i noſtri
medici ancora, tra per far pompa di quel ſape. re, ch'effi non hanno, ed ancora
per menar la cura alla lunga; ma ſopratutto per non aver rimedio opportuno al
male; e di cotali ſorti di medicine ſi ſervono, le quali al la malattia punto
non s'appartengono; e nondimeno egli no millantando dicono uſarle
opportunamente: acciocchè prima il tutto, e le parti principali medicate ſieno;
e quin di all'offeſa parte fi venga a dar riparo; e immaginando follemente
ancora, che ciò far conaltro argomento non ſi poffa, i lor ſalalli, e le
ſtomachevoli purgagioni, che fono i maggiori ricoveri della loro ignoranza,
mettono di preſente in opera,co imporgli largamente ovunque più loro aggrada,
fino a far infralir gli ſpiriti, e preffo, che amorte giugner i malati; ma ben
ſovente incontrar ſuole, che da qualche femminella, o altro menomo Empirico ',
cui il vero rimedio ſia conoſciuto, di sì fatte lor cianceri mangan beffati, e
ricreduti. Ma per altro poi molto manifeſto fiſcorge, che in Za mollide aſſai
più che'l ſapere,parte v’ebbero l'aſtuzic,ele frodi, delle quali niun forſe di
lui meglio ſi ſeppe a'luoi tempi valere. Fabbricò egli un belliſſimo palagio (co
me narra Erodoto, comeche Strabone altrimentijl fatto deſcriv2 ) nel quale
convitava a mangiare la gente più principale, e lor perfuadeva, che ne eſſo, ne
alcun di co loro, che gli tenean compagnia giammai morirebbe; ma inſieme con
eſo lui dopo il trapallamento della preſentes vita, eterna beatitudine
goderebbono. Edificò egli un ' altro palagio ſotto terra, la dove egli
infingendoſi mor to ſtette celatamente tre anni; nel qual tempo con pieto fi
ſoſpiri, ed amare lagrimc doloroſamente fu pianto da que'popoli; ed uſciione
poſcia diè a diyedere, ch'egliera in vi ciò, in vita ritornato; e queſto, ed
altro egli ebbe agio di fa. re, perch'era in grandiſſima gloria ſalito, tra per
la medi cina, e tra per eller qnci popoli groſſi, e materiali ſoprá modo;
intanto, chenon ſolo diedero intera credenza a che detto aveya: ma ancora dopo
mortc in cotanta, maraviglia fu tenuto, che venne da loro per Dio adora to; ed
a’teinpi di Erodoto eglino ancora avevano in co ſtume di madargli uno
ambaſciadore con una nave di cin que hucmini: aʼquali era impoſto, che giunti
ad un ſoli tario, ed ermo luogo,prendeſſero per lo piede il detto am
baſciadore, e lo ſoſpingelſer ſu in modo tal, ch'eglive niſo a cader giù loura
tre lance a tal effetto acconce; il quale fe immantenente ſe ne moriva, eran
ſicuri, che Za molde favorevol farebbe ſtato alle lor dimande; ma ſe per
avventura morto non foſſe, n'era accagionato, coine indegno dell'ambaſceria, e
reo, e perfido huomo era ap pellato; ed un'altro ambaſciadore a queſt'opera
fare eleg gevano, al quale le medeſime ambaſciate imponevano Quefta fortuna
medeſima appretſo lui participarono i ſuoi fcaltriti diſcepoli, come quei, che
poteron dare agevol mente a divedere a quc'ſemplici popoli, che valevoli foſ
ſero coʻloro argomenti a dare altrui quella immortalitá che per ſe medeſimi
conſeguir non potevano. Ma Bacco, ſapientiſſimo, e valoroſiſſimo Principe de'
popoli Affirj, della medicina de' quali ora lo intendo di ragionare, avendo in
pochiſſimo tempo a forza d'ar me vinta l’Iberia, e la Libia, e l'Oriente tutto,
e più, e più volte calcate colle vittorioſe piante l'arene dell’O ceano, e fin
l'ultime regioni della terra penetrate, e po ſtevi per eternamemoria de'ſuoi
trionfi quelle due famo ſe colonne: così ragguardevole, e glorioſo in
tutto'lmon do divenuto,pur ebbe in cotanto pregio la medicina, che non già
monarca, e conquiſtator delmondo, ma medico ſolamente volle elles chiamato. E
nel vero così magnifi che, c gloriofe furle fue impreſe, che per tacer de
Fenicja ftudiaronli i Greci millantatori colle loro uſate menzogne di Cadmo al
nipote, huom di loro nazione propiamente Сс 2 inveſtirle; ma ſi ben non ſeppero
con loro novelle la coſa comporre, che non ſene doveſſe manifeſtamente avvede.
re ciaſcun, che de'tempi di coloro faceſſe ragione; per ciocchè egli è coſa
manifeſta, che molto tempo addietro a Cadmomedeſimo, non che a ſuo nipote, ci
foſse Bacco vivuto, ſecondamente che s'avviſa in Euripide, introdu cente nella
Bacchide Cadmo a comındare il culto di Bac co, fol perchè egli antico fi foſse:
Πατος παραδοχας, άσθ' ομήλικα, χρόνων Κεκτήμεθ', έδεις αντο καβάλει λόγG-. Ed
Ateneo,graviſſimo ſcrittore, ſomiglianteméte dice,far fi menzione di Bacco
nella lapida del ſepolcro di Nino, il qual viſſe certamente ſeicento anni prima
de'tépi di Cad mo; ſenzachè appo Filoſtrato affermano in verità gl'In diani,
eſſer Bacco, non dalla Grecia, comealtri crede, ma dall’Affiria nelle loro
contrade capitato. La maggior opera, che Bacco in medicina faceſse, ſem bra
ſenzafallo il ritrovamento del vino. E ciò fù per av ventura, che adoperando
cgli il ſugo dell'uva per cotal fua biſogna a caſoqualche parte nelvaſo
avanzata ne for ſe,la qual poi bollendo,e formétandoſi in vino fi cambial fe: e
diciò avvedutofi egli, a bello ſtudio poi la colaj provaſse, eriprovaſse,
finchè avviſandolo alla fine così ſpiritofo, e giovevole al genere umano
l'adoperaſſe in prima nelle malattie, quindi ancora agli huomini ſani lar
gamente il concedeſse. Ma forſe egli, ſecondochè lo immagino, per via della
Chimica ritrovollo; la qual, ficome in Egitto, così anche doveva allora in
quelle con trade ſommamente adoperarſi. E veramente ſolo a'Chi miciconviene col
digeſtimento, e formentazione neʼlu ghi vegetabili ſuegliar gli ſpiriti, i
quali pigri in prima, e quaſi addormentari in quelli dimoravano. E potrebbe
eſser’anche, che Bacco apparato l'aveſse in ciò, che lo frutte, da ſe
medeſimeforinentar fi ſogliono, el ſapore e l'altre qualità convencvoli al vino
acquiſtare; avvenen. do ciò per opera de'movevoli ſommamente, & acuti cor
picciuoli, i quali dall'aria intorno lor communicandoſi, e ajutati da cotali
atometti di quelli, onde il fuoco s’ingco nera,che continuo portan ſeco,e che
in que'corpi trovano, fuiluppano tratto tratto, e ſciolgono quella nobiliſsima
foſtanza, ch'anima del vino può dirſi, e da' Chimici, che colla diſtillazione
ſoglion dal vino ſepararla,acquarzente, e ſpirito di vino ſi chiama. Ma comechè
del ritrovamento del vino ſe ne debba veramente l'onore al noſtro comun padre
Noè; impertá to è da credere, eſſer' il modo di fare il vino da lui già ri
trovato,per travalicamento di tempo, ſmarrito: cche Bacco poi da capo il
rinveniſſe. lo fo, che alcuni favo leggiando voglion con lor novelle darnc a
divedere,eſſere ſtata una medeſima perſona Noè, e Bacco; ma ciò trala fcio, per
non effer egli in modo alcuno da credere; per ciocchè per quel, che comprender
ſi poſſa dalle ſagre car te, non guerreggiò giammai Noè, ne altra impreſa fece,
che ſpezialmente a Bacco s'attribuiſca. E molto meno è da preſtar credenza al
Voſſio padre, il quale a deboliſſime fondamenta appoggiato, giudica, non altri
eſſere ſtato Bacco, che'l ſanto Moisè; perciocchè Moisè non fu mai in India a
guerreggiare, non chepunto ta foggiogaſſe. Ma ciò non appartenendo punto al
noſtro propoſito dico, che ciò, che ſifacefle in inedicando Bacco, e quali
altrimedi camienti egli adoperaſle, e come co'l vino guariſse i mala ti, e
coll'edera poi a'nocimenti del vino e' riparaffe, non; ne abbiamo al
preſente,per quel ch’lo ſappia, contezza alcuna. E avvegnachè
valentisſimomedicante e' li foſſe, c imperciò dall'oracolo il dator della vita
chiamato, non però di meno eſſendo egli avido di loda, e vanaglorioſo aflai,
pur comegli altri per maggiormente cfſer tenuto a capitale,
vollemueſtrevolmente render più maraviglioſe le ſue cure, con far veduta, che
qualche coſa ſopranatu rale anchev'aveſse; perchè ſerviſſi delle divinazioni e
de facrifici, i quali tra per queſto, e per la ſperanza di veni re anch'egli
dopo mortequal Dio dagli huomini celebra. to, nell'Alliria, e ne'paeſi dalui
ſoggiogati, in primaj introduſſe. 1 Ante
tuos ortus ar& fine honore fuerunt Liber, & in gelidis berba reperta
focis. Te memorant Gange, totoque Oriente ſubalty Primitias magnofepofuiße lovi.
Cinnama tu primus, captivaque thura dediſti, Deque triumphato viſceratoſta
bove. Ma trapaſſando dalla medicina degli Affirj a quella de gli Arabi, ſe
rozza veramente, e ſciocca oltremodo ne gli antichi tempiquella fi foſſe,o ſe
talpur ſi pareſc,ben G ravviſa in ciò, che da Agatorchide per teſtimonianza di
Strabone, e di Diodoro, che da lui tolfer di peſo ciò, chc ſcriſſer delle coſe
degli Arabi, narrato ne viene. Do po aver detto Agatoichide, che nell'Arabia
per la trop pa fragranzia,e acutezza, che ivi fentivaſi degli odori del le loro
piante, diffolvendoſi, e dilatandoſi tratto tratto la teſſitura delle membra di
quegli abitatori, divenivano i cattivelli in fierisſime cagioni, e malattie.
Soggiugne egli poi, che a quelle co'l fumo, ccolla puzza delle bar bc de'becchi,
e del bitume davan riparo: da#reouév8 rõrúa ματG- υπ ' ακράτε, και μη τικής
δυνάμεως, και την συμμετρον πύκνω. σαν επιπλεονεξίσης, ωπάγαν ας έκλυσαν ισχύ
την.Ρcrche fembra ad alcuni, che a ciò fare ſoſpinti foſſer gli Arabi medican
ti da quel volgar ſentimento, che l’un contrario, per l'al tro curarſi debba.
Ma che che ſia della verità di ciò,tan to, e tanto oggi meſſa in dubbio
da’moderni medici: di co, che ſe rimedio pur quellera, certamente era cgli più
acconcio a conſervare, e difendere da quelle malattie i pericolanti paeſani,
che le già appiccate ceffare. Ne è pū. to vero ciò, che il dottiſlimo Salmafio
giudica, esſere ſta ta queſta in Arabia una cotal ſorte di metodica medicina;
perciocchè i Razionalimedici ancora ſi prendon guardia di non laſciar di
ſoverchio turati, o ſpalancati i pori degli animali, e oltre al convencvole
ſtemperati. Maccrtamē te è da dire, che eſſendo ora cosi odorifera di ſpezierie
l'Arabia, quale in quegli antichissimi tempi ſi era:ne per ciò cagionandoſi
quivisì fatte malattie, fieno affatto fa volore, e vane cotali no c!le di
que'tcmpi; o alti vode,che dagli odori foſſe ciò avvenuto. Ne poſto in ciò
della tram { curaggine di Strabonc, e di Diodoro forte non maravi gliarmi,i
quali non ſi dieron mai cura di ravviſare un cotal farfallonenegli antichi, e
pure nc'loro tépi affai ben cono ſciuta ſi era l'Arabia.Ma nella Grecia da chi,
e in qual té po da prima ritrovata ſi foſſe la medicina, Io quanto a me
confeſſo affatto non ſapere; nondimeno farei d'opiniones molto tempo avanti di
quel, che comunemente ſi giudi ca, quivi eſſere ſtata quella ritrovata: e ben
priina aſſai, che Cadmo le priine lettere vi recaffe; perciocchè per le gravi,
e crudeli malattie, che continuo quella infeltava no, ſommaméte allora faceva
la medicina alla Grecia me ſtieri. Il che fu anche cagione, perchè con tanto
ſtudio, e in tanto novero i Greci tutti allora alla medicina s'impie gaſſero; e
non fu egli al mondo,per quanto ſi poſſa in iſto ric avviſare, nazione alcuna,
che cotanto vis'inviluppal ſe, quanto la Greca. Perchè ſembrami egli certamente
imposſibile, che nelle tenebre di tanti, e tanti paſsati ſe coli, e da poche, e
non ordinate memorie, che appena ai noſtra notizia fien pervenute, ſi poſſa in
alcun modo inve ſtigar la verità di cotali coſe; ſenzachè fon le loro ſtories
tutte ſofperte di falſità, e millantatrici, ccon l'uſate lor favole, e novelle
ſempremai meſcolate;imperciocchè, co me avviſa Giuſeppe Ebreo: non avēdo avuto
i Greci ſcrit ture pubbliche, nelle quali fedelmente ficonfervaſsero fe.
memorie delle coſe avvenute, oguiſcrittore poteva,come più gliera a grado
narrar le coſe,ſenza aver timore di po ter mai eſser colso in fallo ', e
convinto di bugia. Arro ge, che i Greci, come afferma Dione, erano così avvez
zi al piacere, che ſtimavan vere tutte le coſe, che narrate foffero con
eleganza di ſtile; il che poi cagionava, che gli ſcrittori d'altro cura non ſi
deſsero, chedivagamente, ed ornatamente ſcrivere, fenza durar fatica
nell'inveſtigar la verità de' fatti; anzialcuni ſovente ſi ſtudiavano, meſco.
lando a bello ſtudio menzogne coll’iſtorie, di fare altrui delle loro
ſtrabocchevoli impreſe maravigliare; e altri fi adoperavano in ben comporre, e
inviluppar le coſe per coglier poicagione di trarre a ſua patria ciò, che di
ma. gnifico, e di pregiato andaſſe attorno. Così il comun der Greci le glorioſe
geſte in medicina d'Oſiri Egizio, perta cer d'altre ſue impreſe, che non fanno
al preſente a noſtro propoſito, al ſuo Apollo figliuol di Latona mentendo at
tribuì; e'l figliuol di Semele reſe chiaro, e illuſtre co' fat ri di Bacco
Afirio. Così ancora quanto di grande, e di glorioſo in medicina operaſle
Tofortride, inſieme coʻl ſuo medeſimo ſoprannome al ſuo Eſculapio falſamente
attri buì; laſciando così in tanti volumi, e confuſioni il pren. derſi cura gli
ſcrittori di rapportare il tempo, in cui par citamente quegli antichi medici
Greci viſſero, de'quali ancora a' noftri tempi ne ſon giunte qualche
contezze,che malagevole, anzi impoſſibile egli ſembra ad huom lo ſvi lupparſene.
Ma io in quanto potrò per fornire il mio di viſo, faronne una breve, comechè
confuſa accolta, eſc condochè alla memoria a mano a mano mi ſovverrà, ter rò
ragionamento di ciaſcuno. E prima di tutt'altri mi convien narrar di Peone
tenuto in sì gran maraviglia appreſſo gli antichi per la ſua impareggiabil’arte
del medicare, che ragionevolmente giudicarono, aver lui meritato d'eſſer medico
diGiove, e cotanto lafsù pregiato, e tenuto a capitale, che più dicia
fcun'altro Dio preſſo a quello orrevolmente ſi ſedeſſe;nar, rando di lui Omero.
Παρ δε διά κρονίωνι καθέζείο κύδει γαίων, e'l medeſimo poeta nell'Odiſſea avea
detto, i medici del l'Egitto eſſere eccellenti per eſſer della ſchiatta di
Peone: Tlainavos dirigevédans. Il che ci può far credere, che Peone foſſe
Egizio, e non Greco di nazione, ma inſieme con gli altri, che teſtè dicemmo
agli Egizi da'Greci rubbato; e intanto crebbe nella Grecia la fama di Peone,
che ciaſcun medico dopo di lui giudicava, ſe eſser ſommamentelti mato, e
commendato, ſe col ſuo nome chiamar ſi faceſse; anzile mani inedeſime
de'valenti medici da Galjeno, c da altri ſcrittori vennerdette pconie; e peonie
parimente fi diſsero l'erbe più giovevoli,ed efficaci ad uſo di medicina;
perchè cantò il Poeta Et fuperas Cali veniſe sub auras Peoniisrevocatum herbis,
cioè a dire, come avviſa Servio, à Peone Dcorum medico Vsò Peone in medicando
le ferice, piacevoli, e dolci mc dicamenti, co’quali curò egli Plutone, per le
mani d'Er cole grayemente ferito: Τα δ ' επι Παιήων οδυνηφα φάρμακα πέσων,
Η'κέσατ' Dalla qual cura ſi può agevolmente avviſare, eſsere ſta to Peone
appreſso gli antichi in maggior pregio aſs:ri del medeſimo Apollo: comechè
alcuni vanamente giudichi no, la modelima perſona eſſer Peonc, ed Apollo. Ma
ciò quanto ſia lontano dal vero manifeſtamente in ciò ſi conoſce, che Omero nel
ſuo maggior poema, di Peone, e d'Apollo, come di due diverſe perſone ſeinpremai
farvel 1.1. Ne è punto da dar credenza al chioſator di Nicandro, che
vuole,Peoneeſſere ſtato il medeſimo, ch'Eſculapio; nel quale crrore cadde
poſcia Artemidoro,quando diſse: Slautwv gas ó Arxassatoo's heyeces:
imperciocchè nc' tempi d' Omicro, Eſculapio non era ancora deificato; trattando
Omero comc huono Eſculapio allora quando e' dice, in favellando di Macaone, che
egli era figlio d'Eſculapio ec cellentiſſimo medico: Φώτ' Α ' σκληπιά υον
αμύμον G- ιητήρG-, Maciò laſciando al preséte, e ritornando al noſtro pro
poſito della medicina, dico, che di Peone non s'hà ine moria, ch'Iomiſappia,
niuna, fuor ſolamente della Peo nia: Vetuftifima,narra Plinio, inventio paoniæ
eft, no menque authoris retinet. MaIo quanto a me giudico, non cffer lui ſtato
cotanto valoroſo medico, qual per avventu ra lo ci danno a credere i troppo
rozzi antichi; percioc chè altro delle ſue pruqve non abbiaino, che l'aver lui
una fola ferita ſaldaca. Perchèè cgli a buona ragion da crede re, che Peone per
dovere a cotanta gloria, quanta egli acquiſtonne, condurſi, tutti i buoni, c
malvagj contigli adoperati y’aveſe,facendoſembiante alla ſciocca, e fem, D d
plice gente,con ſuefruſche,di tar lemaraviglic. E per av ventura egli ſi fu il
primo, che ne fe credere cotáte ſcioc chezze della ſua peonia:
dicendo,dover'huom quella in lis la notte cogliere, per non eſſer dalle ghiandaje
veduto,le quali ſtandole continuo a guardia, crocchiando, e volan do accorron
coſto a bezzicar gli occhi di chi la ſvelle; ſen zachè dicono correr colui
manifeſto pericolo di cicpargli gl'inteſtini, ſe digiorno la coglie. Novella
ſecondochè giudica Plinio, a bello ſtudio ordinata, e compoſta per dar
maggiormente ammirazione alla coſa. Ma non che ciò ſia vero, anzi le virtù
tante della Peonia cotanto dagli ſcrittoricommendate, e da Peone forſe da prima
a quella attribuite, ora in verità tutto vane, e falſe ſperimentate fi ſono: ne
ad alcun lieto finc giammai riuſcir ſi veggono. Perchè colſer cagionc alcunidi
dubitare, non forſe que Ita noftra Peonia altra fi foſſe, che quella cotanto
tenuta in pregio dagli antichi, e adoperata in diverſe lor malat tie. È altri
giudicano effer veramente quella; ma per conſervarli nelle ſue virtù vogliono,
che ſia in certi tem pi ſolamente, e ſotto cotal coſtellazione da raccoglicre.
Ne è da tacere in queſto propoſito, quanto arditamente uccellar ne voglia
Galieno, il quale afferma aver lui me delimo ſperimentato, che la radice della
Peonia appicca ta al collo de fanciulli, c quivi da lor tenuta, non ſolaine se
glidifenda dal mal caduco, ma anche quando già pre ſi ne ſono, facciagli di
preſente rinvenire. Malaſciando al preſente Pconc, e trapaſſando a dir d'
Apollo, creduto comunemente Dio della medicina: egli è da ſapere, che molti
Apelli già furono in Grecia, e cctante, e sì diverſe, e dal vero lótane ſono
quelle coſe, che per gli ſcrittoridilor ſi narrano, che ſarebbe certa mente un
logorar fuor di propoſito il tempo, il venirle qui ad una ad una a raccontare.
Solaméte dirò del figliuol di Latona quelle poche, e confuſe memorie alla ſua
me dicina pertinenti, che per quanto lo ſappia a' noſtri tem pi pervenute ſono.
E in prima, quantunque Apollo al cuna erba ritrovaſſe ad uſo di medicina, quale
è quella percid detta Apollinare, che è una cotal ſpezie di Solatro; Apollo
hanc berbam,dice diquella Apuleo, fertur inveniffe, da Aſclepio
dediffe,&apollinaris nomen impofuiſſe; inper tanto non è perciò egli da
eſſerne cotantoonorato col rag guardevol titolo di Dio della medicina, ficome
dal vula go, or follemente ſi giudica; perciocchè in quel medeſi mo tempo,
ch'e'fioriva, molto d'altra parte in medicina vantaggiavaſi Chirone; il qual
certamente in ciò cotanto di lui fu maggiore, ch'egli inedefino conoſcendolo
tale, volle, ch’Eſculapio ſuo figlio per maggiormére profittar vi, da Chircne
la medicinaapparaſſe, come da maeſtro di ſe più valoroſo aflai. Senzachè narra
Igino,cſſere ſtato Apollo il primicro ſolamente a ritrovar la inedicina degli
occhj, non di tutt'altre malattie del corpo umano. Ele disse d’Apollo,
Callımaco, che da lui primieramente gli huomini apparato avevano a cellare i
pericoli della morte: Κάνε δε θυμαι και μάντιες: έκ δε νυ Φοίβε, Iyisod dedeany,
ardermoor Java Toio: ſeguì in ciò certainentc egli la comun credenza della
gente volgare, non badando punto alla verità del fatto. Ma ſia pur ciò, comeſi
voglia: lo quanto a me immagi gino, che Apollo, o avendo egli col ſuo ſtudio, e
colla ſua diligenza rinvenuta cotal medicina a’malori degli oc chi giovevole, o
pur da qualche vegliarda appreſa aven dola, a quella adoperare con ogni ſuo
ſtudio continua mente intendeſſe; e comechè in quella parte reſo fi foſ ſe
ragguardevol molto alla gente di que'tempi, non pe rò di meno egli è da dire,
nel rimanéte eſſer lui ſtato mol to rozzo, e dappoco in medicina, e'l ſaper ſuo
manche vole affai; ajutandoci a ciò giudicare la comun mellonag gine di
que’tempi, e maſſimamente nella Grecia nell'arti più ragguardevoli. E che cotal
foſſe ſtato anch'egli Apol lo, in ciò certamente ravviſar fi potrebbe, ch'egli
poco alla ſua ſcienza fidando per dovere aggiugnere a gloria di valoroſo,
quella parte della medicina a imprender ſi dic de, la quale intorno agli
antivedimenti s'adopera;quindi D d 2 poco in quella ancor profittando,peraltre
ſtrade ſconce, e ſuperſtizioſe argomentofli di venire a capo de' ſuoi avviſi,
apparando dal vecchio Pane l'arte ſcaltrita, cingannevo le del vaticinare.
Quindi andato in Delfo, la dove Te. mide dava le riſpoſte, e avendo quivi la
ſerpe ingannevol mento ucciſi, la quale gli vietava l'entrata nell'aperturu
dell'oracolo, ingombrollo di preſente, e cominciovvi in un tratto
maeſtrevolinente a profetizzare; ſcrivendo di ciò Apollodoro quette perole:
Απόλλων δε την μαντικήν μαθών παρα του Πανός, του Διός Θυμάρεως ήκεν ας Δελφούς
χρησμωδούσης το σε Θέμιδα • ως δε ο φρερών το μαντίον Πύθων ώρις εκώλυεν αυτόν
παρελθείν εις το χάσμα και του τον ανελών, το μανλείον παραλαμβάνει. E queſto
vien altresì conferinato di Strabonc, il quale meglio ſembra per mio avviſo,
che abbia ſaputo la coſi. Dice egli ch'effedo ſtato Apollo ammaeſtrato
nell'arte de' vaticinj da Pane, che diede le leggi agli Arcadi, ſe n'an daffela
dove la Notte,e la Dea Temide davan le riſpoſte, ed ammazzato il tiranno di
quel luogo chiamato Pitone, ribaldo, e terribile huomo,che per la ſua
grandearroganza dicevali se zw,cioè Dragone,preſidéte allora della menſa de’
vaticinj, ſe ne impadroniſſe, e celebrar vi faceſſe gli ſpettacoli. Coſtuma poi
ſeguita per tanti ſecoli da que gliempi, c fugaciſuoi facerdoti, e miniſtri, i
quali imi tando in ciò il loro aſtuto maeſtro, vezzatamente davanj le riſpoſte
inviluppate d’enimmi, e diriboboli, intanto, chequalunque caſo poi
n'incontraſſe, ſipotea ben dire, eller quello verainente ſecondo il lor divino
predicimen to ſeguito. Nc in ciò punto meno ſcaltriti, c maliziofi fi rono dopo
Apollo gli altri medici, col tener macítrevol mente mai ſempre i cattivelli
malati a bada, e ragionando ſemprea riguardo, c con duplicità, delle lor
malattie,per dover ſempre poi indovinare, a qualunque fine il mal ne siulciffe.
E quelle fi fur larti, onde in tanta fama, e pregio 2p preſo il vulgo montò
Apollo, che guadagnoſsene il titolo k ! maggior medicante del mondo,anzidi Dio
della me sna. Misi, e tanto non potè egli con fue afuzicado 1 perare, che di
più intendenti, ed avveduti huomini non foſſe ignorante, e poco del meſtier
della medicina confa pevole reputato. Ne per pruova altro che talcertamen te
potevano giudicarlo, riguardando tutto giorno per mā, di lui, e di Diuna ſua
ſorell.2 (la qual medica ancor ella, ritrovò, e diede ilnomeall'Artemiſia)
morirſi a centina. ja i miſeri malati, ſenza mai guarirfene niuno. Infra’qua li
furono i figli della ſventurata Niobe; di chic eila cotan to dolor preſe, che
mancandole ad un tratto i ſentimenti, e riſtretti in ſe gli ſpiriti, ſenza
alcun motto fare, chiuſei le pugna, pirò; perchè poi preſer cagione i Poetidi
favo leggiare, ch'in fafso ella cambiata ſi foſſe. E quinci nac que poi,
ch'eziandio dopo che furono Apollo, e Diana nel numero degli Dei allogati,credevaſi
comuneméte, che tutti quegli infermi, che capitavan niale delle lor malat tie,
ſe femmine follero, perman di Diana, e ſe huomini, per man d’Apollo moriſscro;
perchè Omero, Ε'λθων αργυρότοξ - Απόλλων Αρτέμιδι ξυν και οίς άγανούς βελέσουτ
κατέκτεινε. E’l medeſimo poeta finge, ch’Apollo mandaſſe la pe ſtilenza nel
campo greco; ne per altro, al creder di Por firio furono poſtele ſaette nelle
mani d'Apollo, é ne ven ne giudicato Dio infernale. Qual ſi foſſe egli poi
ne'co ftumi, il taccio; eſsendo pur troppo manifeſte a ciaſcuno le ſue infamie,
e ciò che avveniffe alcattivel di Giacinto, per fua mano, e a Lino. Tanto mipar,
chedebba lo ac cennare ciò, che alnoſtro propofito ſi conviene, cioè, ch ' cgli
avvili da prima, e profanò il ſanto meſtier della me dicina, inſegnandola ad
Enone in pagamento d'averle tolta a viva forza la verginità, e l'onore; perchè
ella co sì preſso Ovidio fi vanta, Me fide conſpicuus Troje muwitor amavit Ille
med fpolium virginitatis habet; Id quoqueiaétando: rupi tamen ante capillos,
Öraque ſuntdigitis afpera facta meis. Nec pretium ſtuprigemmas, aurumque
popofcit; Turpiter ingenuum munera corpus emunt. IR. L:Ipfe ratas dignam
medicas mihi tradidit artes, Admiſisque meis ad fua dona manus. Quècunque herba
potens ad opem,radixque medendi Veilis in toto nafcitur orbe,mea ef. Ma
trapaſsando a Melampo: grande nel vero, e non ordinario fu il pregio, che
guadagnoſli oglicolla me dicina, mentre oltre alle figlie di Preto, egli guarà
an cora della ſterilità, per quel, che nc narri Euſtazio, Ifi cle, colla
ruggine del ferro; comechè ſecondo l'ufan za comune de'medici, maſſimamente di
que' tempi, per più ragguardevole render l'opera, facefle egli veduta,do po
aver ſacrificato un bue agli uccelli, con diſtribuire a ciaſcuno di eſſi la ſua
parte, ch'un avoltojo alla fine croc chiando gli rivclaſſe, che la ſpada, colla
quale Iflaco té tò d'uccider lficle, e da quello affiſſa ad un pero ſelvaggio,
l'aveſſe reſo infecondo. Ma ben fi pare, che Melampo foſſe di non mezzano
intendimento fornito, e che egli for ſe il primo, che cominciato aveſſe a
medicar nella Grecia co’minerali. Perchè agevolmente porraſſi argomentare ',
l'uſo di quelli eſſere ſtato antichiſſimo nel mondo: comc che per loro poca
uſanza, maffimamente eſſendo ſtati ado perati ſempre da medici ſolamente
diprima lieva, detto fia, che l'antica medicina nell'erbe ſolamente confiftelſe.
Ma come ciò avvenir poſla, che la ruggine del ferro ab bia virtù ditor via la
ſterilità dall' huomo, e di diſporlo a potere acconciamente ingenerare, egli
non è certamen ce troppo malagevole, ad avviſare a chiunque ben fappia, onde
provenir ſoglia cocal vizio nel corpo umano; per. ciocchè ſuol'egli naſcere
talvolta dalla ſoperchievole ace toſità de'lughi: alla quale ammendare fa
certamente gra diſſimo proil ferro, e maſſimamente la ſua ruggine; la quale
oltre che non ſuole alle viſcere quella gran moleſtia cagionare, che la
limatura diquello talvolta apporta, el la preparata dagli aliti acetoli del
nitro, e del fal ma rino, che continuo per l'aria diſcorrono, i qual eſsendo
più ſottili affai di quelli fpiriti, che per arte li fanno, più cfficace, e
profitcevole ſi rende di quella ruggine, che per ! man de'Chimici maeſtri li
lavoraziinperciocchè è più accô. ia a meſcolarſi colle ſottiliflime, e acute
particelle, che travagliano le viſcere. E di ciò fenne più volte pruova quel
celebre Franceſco medicante Riverio il vecchio. Ma ſoſpettar p avvétura alcú
potrebbe,che o nell'Egit to, o nella Fenicia in ſicmecoll'uſo delle purgagioni
una tal medicina Melampo da, priina appreſa avelle; percioc chè, focondamente
chenarra Erodoto, egli dell'Egitto alla Grecia, inlieincco'ſacrifici di Bacco,
molte, e molte novelle ufanze reco: Εγώ με νύν φημί Μελάμποδα γενόμενον άν δes
oφoν, μαντικήντα έωυτή συσή σαι, και πυθόμμoν απ’ ΑΙ' γύπτου άλα και πολλά
απηγήσασθαι Ε΄ληση, και τα περί τον Διόνυσον ολίγα αυ των πειραλάξανά. Tanto, e
tanto oltre portoſli nell'arte col ſuo altiſſimo intendimento Chirone, che non
ſolo all'indebolite parti del corpo, come Maſſimo Tirio racconta, con efficaci
ar gomenti la ſm.rrrita ſanità egli ſi vedea tutto di rivocare's m.i agli animi
ancora utiliſime medicine appreſtava. Ne ſolo fu cgli (per quel, che n'avviſi
Stafilo ) eccellente in filoſofia, e in aſtronomia; ma valſe ancora affai nella
mu fica, e in modo, che ſeppe, come il medeſimo Stafilo, e Boezio narrano,
parecchjinfcrinità coll’arinonia della ſua cetera guarire;e fu cotanto vago di
ſpiare i ſegreti del la medicina, che in volontario eſilio lungi dalle Cittàan
doffene aid abitar nelle ſelve, per poter ivi a più bell'agio la natura, e le
complellioni dell'erbe inveſtigare; nel che s'adoperò egli si bene, che
inventor della inedicina dell' erbe ne venne comunemente tenuto: e da altri
inventor di tutta quanta la micdicina fu detto; e in cotanta fama, e grido
crebbe, che non iſdegnarono (come narran Filo ftrato, e Zezze) per appararnela
medicina, d'abitar con e To lui entro la grotta del moute Pelio,oye egli
ſtanziava, Telamone, Peleo, ed Achille, e Giaſone, ed Ariſteo, ed Ercole, c
Teleo, ed altri: huomini di gran pro, eva lore; i quali, coine laſciò ſcritto
Maffino Tirio, egli in continue fatiche d'ogni ſorte eſercitando, e nelle cacce,
e nel corſo, facendo loro giacer nella nuda terra, e per burrari, e per aſpre
vic affaticandogli, e dando lor fcrini cibi mangiare, e ber ſemplici acque di
fiume, ad un perfettisſimo ſtato di ſanità riduccvagli; e doppia utiliti da
tali ſuoi diviſamenti traevan quei grand'huomini; per. ciocchè non pure il modo
di ſe medelimi regolare, ma di curar áltri ad un ora apparavano. Neè da tacere,
che pcr più profittar egli con maggior copie di ſperienze, media car ſoleva
anche i bruti animali; anzi cgli li fu il primo a ciò fare; e imperò venne
Itimato figliuol d'un cavallo.Ne per mio avviſo è vero, che alla Cirugia,
comealtri ſi dan no a c.edere, e ' ſolamente daſic opera; avendo egli, coine
narra Apollodoro, relicuita la viſta a Fenice, il qual fu poi un de ' compagni
d'Achille nella guerra Trojana: cù. το υπ του πατρός έτυφλώθη καίGψευσαμένης
φθο, Κλυτίας και του πα τζος παλακίδος. Πηλεύς δε αυτον προς χείρωνα κομίσας
υπ' εκείνα θε egπευβέντα τας όψεις, βασιλέα κατέςησ: Δολόπων. ΕPindaro an cora
par, che voglia dire, che Chirone ogni forte d'inter mità aveſſe mcdicato;poichèdeſiderava,ch'egli
tornaiſe in vita, acciocchè aveſſe potuto render la ſanità all'infermo Ierone,
perciocchè egli pativa del mal della pietra, co me dice un'antico Scoliaſte di
Pindaro, o di fcbbre, com' altri vogliono. Ηθελον χώρωνα κε φιλυρίδας, et Κρεαν
του3 αμετέρας από γλάς - σας κοινον εύξαθαι έπες, ζώειν τον απικόμδυον, Io
vorrei ch'il Filliride. Chirone, (Se tanto defiar lice a chiſpera ) Tornaſea
reſpirar l'aure del giorno: cpoco appreffo,, « δε σώφρων αντιξον έναιεν έπ
Χείρων, και 1ι οι φίλον εν θυμώ μελιγαρυες ύμνοι αμέτεροι τίθεν, ατήρα του κέν
μιν πίθον, και νυν έσλοίππα αέάν ανδράσι θερμάν νουσών, Or ſe ne l'antro fuo
foſe Chirone E che queſt'Inno mio gli foſe grato, Saria mia voglia inteſa A
dirle fol tua medica arte adopragi: Onde i mali, ch'induce Eſtremo caldo, bai
didomar valore. Diceſi che Chirone tanto valeſſe nella Cirugia, che'l antiche
ulcerazioni, e malagevoli a guarire, da luipoichia mate foſſero chironic, o
perchè lorluogo aveſſe il valor di Chirone, come vogliono Euſtazio, e Paulo da
Egina, o ch'egli foſſe ſtato il primo, che sì fatte piaghe aveſſe riſa-. nate,
com'eſtima Galieno. Ma io, ch'alla fama comun degli ſcrittori non così di
leggierimilaſcio trarre, a cona feſſar il vero, aſſai dappoco, e rozzo parmi,
chefoſſe ſta to Chirone anche in Cirugia; perciocchè egli l'uſo del ta ſto, e
le maniere da faſciar le ferite affatto non ſapeva. Perchè ragionevolmente
immagina alcuno, che chironic fi dican le piaghemalagevoli a guarire, perchè
Chironie prima di tutti foſſe ſtato ad averle; e sì fattamente, che vano riuſcì
tutto il ſuo ſtudio, e ſapere, nó che a guarirle, ma ad alleggiare almeno il
dolore acerbiſsimo, che quel le gli cagionavano; intanto che a morte poi ne
divenne; comeche alcuni dicano, ch'egli da ſaetta folgore ucciſo morille. Ma
vengaſi ora alla medicina d'Eſculapio cotanto fa moſa, enegli antichiſecoli
celebrata. Tiene Eſculapio, per comun conſentimento degli ſcrittori, il più
orrevol grado in medicina, che inedico giammai aveſſe; intanto che meritonne
quel famoſo Inno del maggior poeta de' Greci. Di lui varie coſe, e di gran
lieva ſi narrano, le quali traſandando lo, alcune diquelle, che alla medicina
s'ap partengono ſol brievemente dironne.Già dicevam di lui, eſſer fama, che
primad'ogn'altro metteſſe fuora alquante regole di medicina; manon ſembrandole
poi all'eſperien za, e alla ragion conformi, alcune correſlene., altre di
sfenne affatto, el contrario ne preſcriſſe'; e forſe quelle ch'e'laſciò dopo morte,
cancellate in tutto, ed annullate Еe avrebbe, ſe di ciò tare gli foſse avanzato
tempo. Credeſi dalla più parte degli ſcrittori, ch'egli a veſse folamente
inteſo alla Cirugia, ne d'altre parti di medicina fi foſse giammai intramelso.Ma
ſe vogliam prcfar credenza ad Erodoto, o qual che ſiaſi colui cheſcriſsc il
libro detto in troduzione, overo, il medico: egli è da dir, che di cia ſcuna
parte della medicina egli pienamente ſi conoſceſse; perciocchè quivi leggeſi,
ch’Eſculapio fu quello il qualow ritrovò la perfetta, e in tutte ſueparti
compiuta medicina; e Pindaro parimente dice, ch'a lui accorrevano per curar (i
non ſolasiente i feriti, ma i febbricitanti ancora, c que ch'entro d'altre
malattie erano magagnati: τους με ών όσοι μόλον αυτοφύτων έλκέων ξυνάονες, και
πολιώ χαλκώ μίλη πτωμένοι, ή χερμάδι τηλεβόλω, À Deenvã Avei nego tórefwoodśuas,
και Xepewo, aurons amor, áa λοίων αχίων εξαγεν • τους με μαλακαίς επαοιδαίς
αμφίπων, τους δε προσανία πί νοντας, ή γύoις περιάπων πάντοθεν * φάρμακα και
τους δε τοματς έπασιν ορθούς. Quindi veniano a lui le ſchierea volo
De’languenti infeliciegri mortali, O traejjero in fen fiftola,o piaga, O
dapietre, odaferro aſpra ferita, O pur nafceffeil duolo, Da'diſcordi fra lor
femivitali, Ogni dolor, ogni tormento appaga: Porge con molli incanti a queſti
aita, Ed a quei con bevande il malor toglie Per un farmacod'erbe inſieme aduna,
Per altro acque raccoglie. A chi con tagli induſtri, e Cirugia, Drie 1 1 1 Del
Sig.Lionardodi Capoa. 219 Drizza le membra, e fero duol travia, E prima l'aveva
chiamato difcacciatordi tutti mali Ασκλαπιών άρω παντοδαπών αλεκ' ήετανούσων.
Ffculapio s'appella, Sourano Eroe diſanità perfetta, Có'ogni morbo da lbson
caccia, e ſaettai Egli non ſembra veriſimile adunque ciò, che dice P12 tone,
ch’Eſculapio traſcurato aveſſe quella parte della me dicina, la quale ſuole il
cibo agl'infermi diviſare. Ma fo pra qualifondamenta egli appoggiato aveſe il
ſiſtema del la ſua medicina, egli è malagevol molto ad inveſtigare; perciocchè
nc libro alcuno dilui c'è pervenuto, ne ſenten zaveruna ſua appo altri
ſcrittori ſi ritrova. Tanto ne vie ve accennato appreffo Platone,ch'egli
inſegnato n'aveſse esſer.nel corponoftro molte, e molte coſe infra lor nimi.
chevoli, e tenzonanti; e di loro abbiſognar,che'lmedico diſcreto ne rintuzzi, e
raccheti le contele, e vadale pian piano co’ſuoiargomentirappaciando; e queſte
diſcordá ti coſe vuol egli, che ficno il freddo, e'l caldo: l’amaro, e'l dolce:
il fecco, e l'umido, e altre sì fatte. Ma ſe altro di ciò non ritrovò in
medicina Eſculapio, certamente è da dir, che troppo ftrabocchevoli le lodi
immeritevolmé te gli addoffaſſe il buon Erodoto; -e ben ne potrebbe egli a buon
concio eſſercontento di meno; imperocchè, non che egli l'intero compimento
aveſſe giammai dato alla medicina, come Erodoto immagina, anzine men la pri
mabozza, per que, che fi ſappia, certamente le dicde.' E che mai potrà il
medico ritrarre dal ſapere, che s'abbia no le diſcordanti parti ad accordare, o
che queſte nel cor po umano ſi trovino, ſe poi più avanti non ſappia minuta
mente, ove elle fiano allogate, ove ſia il dolce, ove lama ro ', ondeil freddo,
onde il caldo -s'ingeneri, onde la lor nimiſtà provenga, in che la lor natura
conſiſta, con quali argomenti poſſan porſi d'accordo, come vuotarli, qualo ra
lien di foverchio rigoglioſe, e ſtrabocchevoli, o am mendarſi qualora
piggiorino,o porger loro ſoccorſo qua Ee 2 lora infievoliſcano; che per altro
quel, che ſappiamo averne diviſaro il grandiſſimo Eſculapio, ad ogni huom di
contado agevolmente potrebbe occorrere,ed eſſer ma nifeſto. Affai rozza dunque,
e imperfetta oltremodo fu ſenza fallo d'Eſculapio la medicina, ne sì grandi, e
rag. guardevoli furono i ſuoi trovati,come huomdice; e ſc cgli oltre
all'accennate coſeritrovò qualch'erba, anche i ruſti ci, ei bruti molte, e
molte n’han ſapute ritrovare;nę grād' acutezza d'ingegno per ritrovar il taſto,
oʻl modo di fa ſciar le ferite abbiſognava, o per trar fuora i denti dalla
bocca, che lo perme non vo torgli queſt'altra gloria, co mechè Cicerone ad
un'altro Eſculapio l'attribuiſca colà ove dice. Aeſculapiorum primus Apollinis,
quem Arcades volunt,qui ſpecilluminveniſe, primuſque vulnus obligaviſ fe
dicitur. SecundusſecundiMercurii frater: is fulmin percujus dicitur humatus
effe Cynoſuris. Tertius Arſippine Arſinoe:qui primus purgationem alui,
dentiſque evulfio nem, ut ferunt, invenit. Ne ſembra punto vero quel,che
Diodoro dice d'Eſculapio,ch'egliparecchjinfermi co'ſuoi argomenti guariſse;
onde fe poifavoleggiare altrui,ch'e gli aveſſe richiamati anche in vita i
morti; imperocchè Strabone, graviſſimo autore, e degno ſenza fallo, che gli
ficreda aſſai più che a Diodoro, chiaramente dice, che lo gni furono
d'huominiozioſi, e ſcioperati, quali certame te i Greci ſi furono, le cure
tutte ad Eſculapio attribuite. E Celſo in lode d'Eſculapio altro non ſeppe
dire, ſe non fe, cſſer lui ſtato ricevuto nel numero degli Dei, perchè l'arte
della medicina aſſai rozza,e materiale in que'tempi, aveſſe alquato dalla ſua
groſſezza forbita: quoniam adhuc rudem, a vulgarem, dic'egli, parlando
d’Eſculapio, banc fcientiam paulòfubtilius excoluit, in Deorum numero rece
ptuseſt. Convenne adunque certamente, ch’Eſculapio có l'uſate frodide’medici la
ſua grandiſſima debolezza ap piattata tenelse; imperciocchè cgli,come Pindaro
dice, li valle dell'incantagioni; ma più nc ſi fa manifeſto in ciò che San
Cirillo ne ſcrive, ch'egli intento oltremodo alle guadagnerie, continuó con
giunterie, ed altri rei artifici andato ſe ne foſseper io inondo diſcorrendo (il
che mol to ajutar ſuole i medici, ad acquiſtar fama, e pregio ) offerendo
liberamente a ciaſcun, che biſogno n'avel ſe il ſuo meſtiere e dove che
giugneva prometten do le maraviglie. Così egli vanagloriando per tutto, ſe non
huono mortale, ma celeſtiale Dio eſser diceva, e millantaya temerariainente il
ſuo valor diſtenderſi fino a riſucitare i morti. Le quali arti, e giunterie,
acciocchè poteſse a fine più acconciamente condurre, ſi pensò egli, che
l'iſpida, e folta barba nudrendo, e laſciandola a gui ſa dicaprone lunga
ſcédergiuſo dal méto al petto avreb be più di leggieri alle ſue trappole
trovato crcdito. E sì il fece egli, e con tanto vantaggio adoperovvili, che
ſervì d'eſemplo a tutti i medici appreſso. Il che diede forſe cagione a Luciano
di far dire da Momo ad Apollo, ch'egli non operaſse come fanciullo, ma
favellaſse ani moſamente, é diceſse luo parere, ne fi vergognaſse ad ar ringare
per non aver barba; perchè era ſuo figliuolo Eſcu lapio, il qual così grande, e
lunga, e folta l'aveva üst menn μaegκιεύε πεος ήμας, αλα λέγε θαρρών ήδη τα
δοκάνα, μη αιδε. σθεις, αγένειο» ών δημηγορήτις, και αυ% βαθυπώγωνα, και ευγέ
ναον έτως τον έχων τον Ασκληπιόν Vì ha chi vuole, ch’Eſculapio a quella guiſa
appunto, che a'noſtriciurm.dori veggiam fare, portaſse ſecole ſerpi: e che per
riſparmio camminaſse a piedi: e che que ſta ſia la vera cagione perchè alle ſue
ſtatue, o ritratti ſipo neſse in mano la ſerpe, e'l baſtone; ſopra le quali
coſe poi ſognate ſi ſono tante, e tante fraſche di allegorie per gli ſcrittori,
chemolto lunghe, c nojoſe farebbono a rac contare. Ma vie più dopo inorte
crebbe in fama, edono re Eſculapio, tanto era folle, e cieca allor la gentilità:
perchè glivénero alzati in diverſe parti delmodo,e parte, e per materia
ricchiffimi tépj, co maraviglioſe,e belle ſtatue dimarino, d'avorio, d'argento,
e d'oro, e medaglie infini te furon ſtampate colla ſua effigie; e sì, e tanta
era la fede, che aveyano gli huomini in lui,che i ſuoi tempj ſempremai ſi
vedevan pieni d'infermi, trattivi d'ogni parte; i quali # di notte, edi giorno
quiviil ſuo ajuto aſpettando ſe ne gia cevano;e per tacer d'altri, abbiam di
ciòmeinoria nel Cure culione di Plauto, dove del ruffiano dice Fedromo a Pa
linuro: Id eo fit,quia hic leno ægrotus incubat In Aeſculapii fano; e così
ſtandoimalati,venivan loro i facerdoti malizioſi, fcaltriti, facendo veduta
dinulla ſaper dimedicina, o del male, che coloro avevano; quindi appreffati
all'oracolo fingevan ch’Eſculapio rivelato loro aveſe il medicamento
all'orecchio. Talorapareva,ch’Eſculapio medeſimo all'infer mo in ſogno
additaſse il rimedio;c ciò per avventura avve niva tra per lo aver lui guatato
ffaméte il giorno la ſtatua d'Eſculapio, c per li lunghi ragionamenti, che
dietro a tal materia coʻminiſtri dei tempio avevan forſe tenuti, i quali
avevangli per avventura le maraviglioſe cure d'E fculapio narrate vero per aver
inteſo quel rimedio fterfo da'incdici,o da’altri. Ma pur v'aveva fra' Gentili
huomini di ſcalcrito intendimento, chea ciò niuna credé za preſtavano, come
Filoſtrato narra di Filemone;al qua le avêdo in ſogno detto Eſculapio,che
s'egli voleva guari re dalla podagra, conveniva, che ſi afteneiſe dal bere fred
do, egli deſto poi la vegnente inattina diſle ad Eſculapio proverbiandolo, c
che altro rimedio o valent' huomo a nreſti tu dato, le medicar avelli voluto un
bue? E ſe mai interveniva, che alcuno (o che'l rimedio, o ch'altro ca gioné ne
foſſe ) guariſſe, oltra’doni, che coluiagli altari offeriva, toſto alle mura
un'effigiata tavoletta, a perpetua memoria della ricevuta ſanità appendevaſi a
gloria d'E ſculapio; perchè poi ſe ne traſcriſfero nc'libri de' medici parecchj
rimedj; c delle dette già tavolette, anche a' di noſtri ſe ne vede alcuni;
delle quali per eſemplo vi ridur rò a memoria quella pietra, in cui fu
regiſtrato, che di ſperato da tutti Giuliano per unvomito di ſangue,eſſendo
ricorſo all'oracolo, n'ebbe riſpoſta, che veniffe, e da tro altari piglialle
pinocchie di quelli per tre giorni con inic le mangiaſſe; ed in tal modo
liberato colui, lefe le grazie alla prefenza di tutto il popolo, αίμα
αναφέροντα Ιαλιανώ, απηλπισμλύω υπο παντός ανθρώπε εχρημάτσεν ο θεός ελθών,
καιεκ τα Βιβώνκαι άραι κόκκος προβύλες και φαγών μετα μέλιτG- επι της ημέ. φας,
και εσώθη, και ελθών δημοσία ηυχαρίσησεν έμπροσθεν τε δήμε. Ma trapallando alla
medicina d'Ercole;ſe Ercole come fu in medicina, foſſe così ſtato valoroſo Ne
l'ardue impreſe del ſanguigno Marte, non avrebbe certamente ripieno il mondo
delle ſue mara viglioſe prodezze, ne ſtancate di tanti, e tanti ſcrittori le
penne per celebrarle. Ma ciò non ſi dee punto a neglige za attribuire, o a poco
intendimento, ch'egli avuto avef ſe; perciocchè logorò egli gran tempo, egran
fatica ad imprender la medicina; e fu sì profondo, ed acuto il ſuo
intendiinento, ch'ei ſi fu il primiero a comprendere, che per ta fimilitudine,
la quale i Chimici chiaman ſegiratu, ra, ravviſar ſi poteſſe la complesſion
delle piante'; e per uſo propio ſe nevalſe allor,che preſso a morte ferito dal
l'Idra, ricorſe per guarire alla Dragontea, la quale coll? Idra ha alquanta
ſomiglianza; quantunque egli poiso per tener ciò altrui naſcofo, o per più
ragguardevol renderli appreſso la gente, o per altra cagion, che ſi fofse,
infin. geffe ciò dalla riſpoſta dell'oracolo aver apparato: il qua le l'aveſse
impoſto, ch'egli ſi inetreſse in camino verſo la dove naſce il ſole; perciocchè
quivi al valicar d'una rivie ra aurebbe ritrovata un'erba ſomigliante all'Idra,colla
quale lc ferite da’morfi dell'Idra fatregli poi egli aurebbe ſicuramente potuto
medicare, eguarire. Io non ſo, ſe collo intendimento G foſse Ercole tanto
avanti portato, che foſse giunto a penetrar, che la Dragontea col ſuo fab
volatile acuciſſiino, del quale eila oltremodo è abbon devole, forza aveſse di
ammendare l'acetoſità, in che co filte il guarir delle piaghe; ma la medicina
non era allora tanto oltre paſsata, che aveſse potuto sì fatte ſottigliez ze
ſcoprire. E queſta, e non altra dovette eſsere la cagio NC, per la quale Ercole
non potè nella medicina sì eccel lente divenire, e che guarir non poteſse egli
le piaghe al fuo maeſtro Chirone, comechè gli veniſse fatto di guarir la
moglied'Achille preſso a morte ridotta; onde poi Eu ripide finſe nell'Alceſte,
averla lui da morte riſucitata: E queſto è quanto Io ho potuto raccogliere
della medici na d'Ercole Tebano fra le tante,e tante varietà degli ſcrit ti,
iquali così di lui confuſamente ſcrivono, che nulla più; dicendo Varrone,
eſsere ſtati quarantadue famoſi huomini di tal nomé; altri dodici, altri tre,
altri due, e Ci cerone ſei;ed evvi ancora, chi porta opinione, non eſser mai
ſtato sì fatto huomo al mondo. Ma della medicina d'Ariſteo figliuol d'Apollo, o
pur di Giove, come altri giudica, non ne vengono ſcritte, per quanto lo ſappia,
ſe non certe poche, e confuſe memorie; ſolamente ſap piamo da Cicerone, e dallo
Scoliaſte d’Ariſtofane, che Ariſteo aveſse ritrovato il modo di far l'olio, il
miele, e'l Gifo.ΆρσαίG- δε ο Απόλλων G και Κυρήνης πτώτην την εργασίαν τα σπλ.
φίον εξεύρεν, ώσπερ, και το μέλλG-. Infegno parirnente Ariteo meſcolare il vino
col miele, per quel che dica Plinio: Ari Seusprimus omnium in
eademgente,melmiſcuiſe vino fua vitate præcipua utriuſque natura ſponte
provenientis: e non fi dee tacere ciò, che d'Ariſteo dice Giuſtino: Arifteum in
Arcadia lase regnaffe, eamque primum, apum, á mellis ufum, &lactis,
&coagulihominibus tradidiffe, folftitia. leſque ortus, do federum primum
inveniſe. Ma quantun que il filfio, e'l miele, e l'olio, i quali Ariſteo non
fola mente ritrovò, ma prima di tutti inſegnonne agli altri me dici la virtù, e
la maniera, colla quale adoperar fi doveſ ſero, abbiano recato gran giovamento
al mondo;non pe rò di meno s'altro di ciò non fece Ariſteo, non sò locome ei ſi
poſsa infra gli altri eccellenti medici annoveraré; m2 pure fu egli di tanto
avvedimento fornito, che ſeppe con l'uſate giunterie,e menzogne riparare alle
diffalte del ſuo poco ſapere; e raccontaſi di lui da Teofraſto, da Apollo nio,
da Cicerone, da Germanico, e da Igino, che eſſendo l'iſola di Ceo dal rabbioſo
furor della canicola gravemés te percoffa, sì che feccavan le biade, e gli
huomini mi ſeramenre morivano, eche avendo Ariſtco al ſuo padru Apollo
domandato, come ſi poteſſe a tanta calamità ri parare, n'aveſſe rilpoita,che
proccuraffè egli prima di pure garcon vittime, e ſacrificj l’Ilola, la qual era
così atro ceméte punica o aver dato ella ricovero agli ucciditori d ' Icario; e
quindi pregaffe Nettuno,ſicome Germanico Cé fare riferiſce, coinechè Teofraſto,
ed Apollonio Rodio cd Igino dicano aver riſpoſto Apollo, che pregar egli
doveſse Giove,ch’allo ſpuntar della Canicola faceſſe per quaranta giorni,ſoavi
venti ſpirare, che queſti agli ardori di cotale Hella aurebber dato agevolmente
compenſo; cd avendo ciò egli puntalmente cſeguito,ſpiraſſero i promeſli venti,
e. ceſſalsero di preſente i danni tutti dal ſoverchiante caldo w?quell'Iſola
cagionati; perchè ne venne egli poi Giove Ariſtço, ed Apollo Agreo chiamato, e
frale ſtelle in Cie: { o collocato. Or chiper Dio non ravviſa, che una cotat
folenne giuntcria imboccaffe Ariſtco a quel rozziſſimo po polazzo, ſappiendo di
certo, che il naſcimento delle cas nicola gli ulti venti preceder fogliono, cd
accomp2 guare? Venue fomimamente commendato Achille dalla ſonora cróba del
greco pocta per le maraviglioſe prodezze da lui nella guerra Trojana operate;ne
altro quaſi in tutta l'Ilia de raccontaſi, che l'invincibil fortezza d'un tanto
Eroe; ne in quel divino pocma ſenza lunga maraviglia legger fi pofiono le
ſanguinoſe battaglie, ele ragguardevoli im preſe d'Achillc.Ma doveva egliper
mio avviſo da non mi nor pocta d'Omero eſſer altrettanto commendato per la
contezza, e perl'eſercizio cli'egli ebbedella medicina e con tanta maggior
ragione, quanto più generoſo, e più magnifico ſenza fallo è il dare, che'l
torre altrui la vita. E ben'egli conobbe di quanta loda meritevole e ſe ne rés
deſſe, che però appo Stazio egli vantoſfi eſſergli ſtata in fra l'altre coſe la
medicina ancora da Chirone fuo Avolo inſegnata. Quin etiam ſuccos,atque auxiliantia
morbis Gramina, quo nimius ftaretmedicamineſanguis: Quid faciat fomxos, quid
hiantia vulnera claudat, Queferrocohibenda lues, que caderes herbis Edocuit. Ff
Fu cgli tanto ſtimato nel greco campo, in medicina,ch' Euripilo gravemente
ferito, volle effer ſolamente da Pa troclo medicato, perchè eglifoſse compagno
d'Achille, c'l vero modo di medicar le ferite n'aveſse apparato; Νίζ υδαπ λιαρώ,
επί δήπια φαρμακα πασσε Ε'εθλα, τα σπ ποπ φασίν Αχιλήφ»δεδιδάχθαι. Ma
ſopratutto vien commendato Achille per aver co noſciute le cagionidella
peſtilenza, che allor travagliava ſommamente il campo greco; e per aver anco
ritrovato il Millefoglio,per lui detto Achilleasil quale anche a' dì no ftri
molto giovevole alle ferite, e ad altri parecchj malili ſperimenta; e
ſomigliantemente per aver riſanato Telefo, nella cura del quale adoperò egli la
ruggine della mede fima lancia, colla quale ferito cgli prima l'aveva: Eft,
rubigo ipfa, ſcrivePlinio, in remediis, cific Telephum pro diturfanaſeAchilles,
five id area, fiveferrea cufpide feo cit; ed in un'altro luogo il medeſimo
Plinio dice: arugi nem inveniſe, utiliſimam emplaftris, ideoque pingitur ex
cuſpide decutiens eam gladio in vulnus Telephi; avvegna chè altri vogliano
averlo egli con l'Achillea guarito,ed al tri, con l'Achillea, ccon la ruggine
del ferro. Perchè moſtra, ch'egli fu il ſecondo, cheſi fappia infra'greci me
dici, che i minerali adoperati aveſſe in medicina. Ma po trebbe per avventura
alcun ſoſpettare, e con qualchera gione, non egli applicua aveſſe la ruggine
del ferro alla Jancia imbagnata in fangue d'Euripilo, non già alla feri ta di
lui; e che gli ſcrittori, i quali la biſogna pienamente non
coinprendevano,contentati ſi foſſero ſolamente di di re, che l'atta d'Achille
modelima faceva, e riſanava le feri te. Il che ſe vero foſſe, non moderno
ritrovato, ma ben molto antico da dir ſarebbe la cura, che chiaman ſimpa tica
nclle ferite. Dice Plutarco, che Achille intendente foſſe del modo di guarir
colla dieta, e ch'egli trovaſſe con ragione, che i corpi, i quali avvezzi in
prima alle fatichc, in proceſſo di tempo poi le laſciano, e li ripoſano, toſto
triſtanzuoli, e cagionevoli, e languidi di compleſſione divengono; e però dice
che egli ſoleva far paſcere a cavalli che avevā ma gagnati i piedi per
l'intermeſſo eſercizio, l'appio rimedio grāde a tal male.Macon pace pur di
Plutarco, Io non ſo, che gran coſa queſta fi ſia; ne per eſſa, ne per l'altre
di lui narrate coſe ſi può dire in verità, che Achille gran medi co ſtato e’ſi
foſſe. In quáto poi alla cura ſimpatica delle ferite: lo p me la ſtimo favoloſa
invētione del Valentini; e forte mi maravi glio, che tanti, e tanti
valent'huomini vi fi lieno oltremodo affaticati, in contendendo alcuni cheper
ſopranatural po tenza doveſſe quella intervenire; e altri ciò coſtantemente
negando; e cercando d'inveſtigarne altronde la vera ca gione; ma, ne queſti, ne
quelli avviſano, chele ferite tal volta,eziandio più gravicpericoloſe ſenza
rimedio alcuno guariſcono; perchè non ſi può trarre argomento niuno dal. la lor
guarigione a pro della ſimpatica medicina. Io non ſaprei ridire ſe Palamede
inventore di cotante; coſe, ch'abbiſognano alla vita degli huomini aveſſe anco
ra in medicina qualche bella curioſità rinvenuta; avvegna diochè ſia molto
veriſimile, ch'egli ciò facerſe, come colui, che di natura era molto acconcio a
filoſofare; in tanto, che ne venne appellato noivoo PG, cioè a dire il ſavio di
tutto, come leggeli in molti verſi fatti in ſua loda; quantunque Omero non
faccia di Palamede menzione alcuna, o per invidia, che gli aveſſe, perchèegli
era miglior poeta di ſe, o pure per renderſi grato a ſucceſſori d'Agamennone,
ili tra'l quale, e Palamede fu mortal nimiſtà; impertanto li ſcorge
manifeſtamente in altri ſcrittori più degni di fede aſſaidi Omero, eſſere
veramente ſtato Palamede il più fa vio di guerra di tutti greci,e in prodezza
non puntominor d'Achille. Madi ciò ch'operaffe in medicina Palamede', altro non
ne abbiamo,ſe non ſe ciò che ne racconta Filo { trato; il quale l'introduce una
volta a dire, che a chiunque voglia preſervarſi dalla pefte, faccia
meſtierimangiar po co, e affaticarſi molto, e che così egli avvezzati aveſſe a
viv ere i ſuoi ſoldati; perchè poi la crudel peſtilenza da Po to nella Città
dell’Elleſponto, ed in Troja appiccata, aw ni un de’greci noja mai diede;
comechè eglino fi foſſero in Ef 2 peſtilenzioſi luoghiaccampati. Ma quanto
cotali avver. timenti lontani dal vero ſieno, non ha tra noi,chi non l'ab bia
non ha guari pienamente ſperimentato; e però di più dirne al preſente mirimarrò.
La medicina di Patroclo compagno d'Achillo, e di Po dalirio, e Macaone
figliuoli d'Eſculapio, che ſerbaraſſi eterna, ed immortale nella memoria degli
huomini mercè del ſovrano poeta greco, che ſi diè cura di cele brarla: ſembra
ad alcuno, che ſolamente nelle ferite s'a doperaſſe; e veramente a riparar i
dannidellapeſtilenza, che nel greco campo faceva fieramente ſentirti,non ſi
leg. ge in Omero, che in coſa alcuna, o Podalirio, o Macaone, o Patrocło mai
s'adoperaſſero: avvegnachè la cura de’ga voccioli, e d'altre enfiature, che
ſuolo cotal morbo cagio nare, alla Cirugia dirittamente s'appartenga; la qual
coſa vien raffermata ancheda Celſo, allor che facendo men zione di Podalirio, e
di Macaone, dice: Homerus non in peftilentia, neque in variis generibusmorborum
aliquid at tuliſe auxilii, fed vulneribus tantummodo ferro, & medi camentis
mederi ſolitos elle propoſuit. Ma con pace pur di Celſo, dall'aver ciò taciuto
Omero non ſi può certamente argomentare eller loro ſolamente ſtati cerufici; e
fe noi medicaron la peſte,forſe ciò fecer eglino per non tracollar dal loro
buon nome in medicar quel morbo, cui non v'ha rimedio alcuno, e che l'antichità
credeva,che ſolamente gli Dii poteſſero riſanare; ne ha ſembianza alcuna
divero, ch’Eſculapio lor padre,emaeſtro la Cirugia ſola loro infc gnaffe;
ſenzachè(comeavviſa Eulazio ) Podalirio, non ſolamente curò diverſe infermità:
ma prima di tutti, come egli dice, gittò le fondamenta della razional medicina.
Ma a quale ſtato di perfezione la medicina per Podalirio Macaone, e per
Patroclo uſata montafle, dal poema mag giore d'Omero ſi può agevolmente
comprendere. Primie. ramente ſolevano in medicando ſucciartalora eglino colle
labbra il ſangue delle ferite; e'a tal modo Macaone medi car ſi vide a Menelao
la piaga fattagli da Pandaro, Aύ πιο επα δεν έλκG- ' έμπιστ πικρος οιτς Αίμ'
εκμυζήσας επ' άρ' ήπια φάρμακα είδως Πασσα. Sem.,per Sembrare egli potrebbe per
avventura ad alcımno il ciò fa re vano, ed inutile, anzi per l'umidità della
ſaliva alles ferite anche nocevole ciò li pare, ſenzachè è ſtomachevol coſa, e
pur troppo alla dignità de'medici ſconvenevole Nero io, comeil primo Baron
dell'oſte greca, e nipote diGiovediſavanzando dal ſuo pregio, inchinar ſi
poteſse ad una sì vile, e vituperevole opera. Non ſolo permet teyan poi
coſtoroa'feriti mollidi fudore, edi ſangue, pu re allora uſciti dalla
battaglia, lo ſtarſene giacédo all'om bra, ed al frelco ventilar de’zefiri per
riſtorar dolcemente la ſtanchezza; ma lo ſteſso medicante Macaone dopo ch? egli
fu ferito ciò fece: οίδε έδρώαπεψύχοντο χιτώνων Irávte ne Ti Tvorni zaregi og
ános. Ma quanto polfa nuocere il vento ad huomini anchei faniqualor eglino
molli di ſudore fiano,non che a’feritija? quali feoza fallo per lo minor danno
inacerbir puore les piaghe, non è chi noʻl fappia. Ponevano altresi medica do
alla groffa, entro le ferite,radici d'erbe crude, e ſem plici fenza eller punto
confattese preparate ad uſo de’me: dicamenti: επί δε ρίζαν βαλε πικρών χερσι
διατρέψας. Ma inolto più ſciocchi, e più rozzi furono i loro divi famenti
intorno al regolainento del vitto degl'infermi; eglino cibavangli di groſse
cipolle, e di miele κρόμμυρν ποτώ όψον, Η δε μέλι χλωρον παρ' δ' άλφιτα ιερά
ακτήν. edavan loro berc il loro ufato contadineſco Ciceone; bem veraggio il
qual di farina, e di cacio di capra, e di più grá di, e poderoſi vini delle
Smirre componeyaſi Πινέμαι δ' εκέλευσεν επαρ' όπλισε κυκεώ. E queſte fono le
care, e falucevoli vivande, e beverage gj, che la belliſſima Ecamede concubina
dell'antico Nem ftore dava loro; i quali non iſcherni, ne rifiutò il medefi mo
Macaone,ſenza conſiderare, ne pure un menomori ſchio d’infiammagione, che
agevolméte ſeguir ne poteva Ma ben ſo lo, che di fomiglianticoſe, ed in pro, ed
in contro diſputando, veriſimilmente dir ſi potrebbe, che no già eglino
ſomigliantiguiſe di sì reo, eſconcio medicar praticafsero; ma che Omero a ſuo
talento le finga, poco eſsendo della verità informato; che ſe ciò vero foſse,
lo non ſo come infra gli altri cotanti pregj inveſtir ſi potreb be ad Omero
l'eſser lui ſtato di tutte ſcienze, più di qua lunquc altro maeſtro,affai ben
conoſciuto; nihil unquam. ceciniſe, dice Pier Laſena, quod nun prudenter
excogita tum,ex induſtria diſpoſitum, &in alicujus rei utile dixeris
documentnm. Potrebbe anche dirſi, eſsere il Ciceone di que' tempi valevole, a
ſtagnar il ſangue delle ferite, o pure a ſciorlo, ove egli fia rappreſo, e
corrotto; avve gnachè Platone dica eſser molto nocevole cotal beverag. gio
a’malacije oltre all'infimagione,che apporta, ingene rare anche non poca
flemma;e per avventura con più falda ragione potrebbeſi delle cipolle dire, che
per lo lorotale aguto, oltre allo ſcioglimento del ſangue potrebber'an che
difender le ferite dall'accroſità, da cui certamente la febbre, e'l dolore, e
lamarcia,e l'infiammagione,e tutt' altro male a'feriti avviene. E ſe pure
coloro uſava no con ſemplici radici, e crude, medicar le ferite, ciò era,
perciocchè eglino ben’avviſavano eſserl'erbe cotanto più giovevoli, e vigoroſe,
quanto più ſemplicemente ne ſon dalla natura ſomminiſtrate, e che col tanto
confarle, e ma cerarle, e logorarle ad ufo delle noſtre medicine, manchi alla
fine, e ſvaniſca ognilorvigore; fe pure nonvogliamo dire, eſsere ſtate di tanta
virtù, e di si ſaldo giovamento da’ medici ſperimentate, che ſenza confettarſi
punto,o sé. za contiglio dimeſcolamento niuno le più gravi ferite ma
raviglioſamente ſaldavano; ne a ciò foſse itato anco me. ſtieriregolamento
alcuno di mangiare, o di bere: per ciocchè egli narrafi per coſa certa,che a'
tempi più a noi vicini, il Paracelſo,per lo gran valore de'ſuoi medicaméti,
poco, o nulla a ciò badando laſciaſse che a lor talento fi nutricaſser
gliufermi, facendogli talora ſeco a deſco lie tamente federe, mangiando in
brigata; ſenzachè Platon dice, che per eſſer quegliantichi aſſai regolati nel
mangia re, e pel bere, non avevan poi gl'infermi biſogno, che regola alcuna
intorno a ciò la preſcrivelſe; e finalmente l'uſo di ſucciar le ferite, non eſsere
fuor di ragione; impe rocchè cotal medicamento molto fa pro a riparare al gua
ftamento del ſangue, traendol fuora delle ferite, e difen dendolo col fuo ſale
dall'acetofità, per cui elleno marci ſcono; perchè cotal medicamento a'di
noſtri ancora co munemente l'uſiano e, per pruova tutto di ſperimentia mo eſser
giovevole a'feriti, e utile aſsai; ficome anche ſi può ſcorger ne'cani:
da’quali per avventura Podalirio, e Macaone, oi loro più antichimacſtri
ildovettero da prie ma appararc; perchè ſe veggiamo, che cotanto approda
a'feriti, perchè ſarà egli da biaſimare?Maper me non cre do, che si facce
difeſe loro facciā luogo; imperocchè Ome ro tutto che la incdicina ignoraſse,
deſcriſse nientedime no le coſe, o coine di altri ſcrittori venivan narrate, o
dal la famaerano rapportate, maſlinamente dove cgli non aveva cagione alcuna
d'allòtanarſi dalla verità, o per ren der più vago, c più inır.zviglioſo il ſuo
poem 1,0 per altra cagione; ne punto vale l'eſemplo del Paracelſo, imperoc che,
ſe pur è vera la ſtoria, il Paracelſo fi ſerviva di bala ſamisì prezioſi, e
valevoli a guarir le ferite, che non fa ceva loro d'alero meſtieri. Ma in
quanto al Ciceone; egli è una bevanda in verità sì ſconcia, e mal fatta, che
ſenza fallo non può ella altro inai, che nocuinentu agli huomini ſani, non che
agl'infer mi apportare, che che ſi credan Plutarco, ed Ateneo, i qualinon
avviſarono la ſtrana, e nocevole formentazio ne, che'l cacio, il vino, e la
farina inſieme meſcolati far poſsono nelle vifcere. Vltimamente, le radici, e
l'erbe non preparate, maffimamente l'Achillea, e l’Ariſtologia, colle quali
molti antichi ſcrittori ſi credono, che Podali rio, Macaone, e Patroclo
medicaſsero, abbondevoli ſo no d'umore acquoſo, e non ben digeſto, il quale
oltre che infievoliſce il ſolfo, e l'alcaliloro volatile, in cui law virtù
conſiſte, per ſc iteſso altresì egli è ſommamente alle ferite nocevole.... In
quanto poi al lavar, come è già detto con l'acqua ſemplice le ferite, non è
vero'ciò, che alcunidicono, che ciò eglino-faceffero per iſtagnar di preſente
il ſangue;men cre ciò non ſolamente non licſprime da Omero, appo il quale ſi
ſuol fermare il ſanguecon l'incantagioni; ina di ce eglichiaramente, che
l'acqua, colla quale le ferite li lavavano era calda, e perù più acconcia aſſai
ad aprire, che a riſtrignere; al che avendo per avventura riguardo il lati no
poeta,con l'acqua allora allora tratta dal Tevere fin ge, che'l ſuo Mezenzio ſi
lavaſſe le piaghe. Interea Genitor Tyberini ad fluminis undam Vulnera ficcabat
lymphis, corpuſque levabat. Nove, aphyſice, dice ſu queſto il chioſatore
Servio, nan cum aqua omnia infundătur,hic aitficcari vulnus ab aqua, Oratio
vera eft,quia fluxussăguinis aquarü frigorecôtines Yur.Ma Servio freddamente
troppo,per mio avviſo ſcuſa il ſuo Virgilio d'una sì ſtravolta maniera di
favellare: ma un tal modo di mcdicar le ferite, con l'acqua lavandole, tut to
che ricevuto,ed uſato anche dopo grăde ſpazio di tem po da’Latini, e da'Greci,
onde dice Silio purgat vulnera lympha: anzi ſin’al paſſato ſecolo da molti
Ceruſici anche coſtuma to, quáto lia nocevole ravviſar puollo facilmente
ciaſche duno,che punto abbia d'incendimento;laonde con più lag gio avviſo
da’moderni medicanti leferite col vino, o col l'acquarzente, ovc,lor huopo ciò
lor faccia, vengon lä vate. Maquantunquc sì malamente medicaſſero Podalia rio,
e Macaone, venncro non ſolo vivi, ma anco dopo morte in sì gran pregio tenuti,
che furonodi ſtatuc, di té pj, e facrificionorati. Quelle coſe poi, che di
Podalirio narra aver letto in al cuni antichilibri Celio Rodigino, elle fon
tutte, per quel ch'io micrcda novellette da Romanzi; ciò Zono,degli avendo
rotto in invar preilo la Caria, fu ſottratto al pericolo da un'avvenente
paftore,e lu’l lido corteſemente accol to; e che poi; il Re di quel paeſe
avendone coutezza avu ta, per luimandato aveſſe perchè medicaſſe una ſua fis
gliuola, che dalla vetta d'una torre era giuſo caduta; cui egli facendo crar
ſangue da amendue le braccia, e con al tri rimedi aveſſe in buona ſanità
rimeſſa; di che il padre oltremodo contento magnificamente della Provincia del
Cherſoneſo dotatala, data gliele aveſſe per moglie; e che Podalirio nel
Cherſoneſo födate aveſſedue belle, ed egre gic Città, una col nome della moglie
Cirene, e l'altra col nome di quel Paſtore chiamandone. Convenevol coſa ſtata
ſarebbe, che noi ſecondo lo in cominciato aringo ordinatamente procedendo,
avellimo molto addietro fatto parole di Teſco, di Giaſone, di Pe. lco, di
Telamone, e del ſuo figliuolo Teucro, e d'Erobo te: ora concioſliecoſachè
ſcarliflime memorie di loro fien no a noi pervenute, n'è convenuto tacergli; e
perciò pal farem ſomigliantcméte ſotto filenzio,'e Nicomaco, c Gor gaſo
figlidiMacaone, e d'Anticlea, i quali ſuccedettero al regno di Diocle loro
Avolo materno, e come nar ra Paufania, lolevano gl'infermi corteſemente curare,
e maſſimamente le dislogate oſla, o membra in buon concio rimettere; onde per
grado, gran tratto ne furono come Dij da’poſteri venerati. Ne meno terrò lo
ragiona mcnto diSoſtrato,di Dardano, di Cleomitide, di Teo doro, di Criſime,
dc'quali oltre aʼnomni, nulla affatto noi non poſſiamo fpere. Ma prima ch'a'
più baſſi, e più vicini tempi facciamo paſsaggio,n’è paruto bene il doverci
alquanto intertenere a ragionare di quel ſiſtema, del quale Ippocrate fa parole
nel libro della vecchia medicina;ritrovato,comepar ch'ca. gli porti opinione,
da’primi inventori dell'arte. Or dice Ip pocrate,che quegli átichisſimi e
ſagaci inveſtigatori della medicina,faggiamere avviſaſſero,che ne il caldo,ne
il fred do, ne l'umido, nc'l fecco, ne altra ſomigliante coſa all' huomo foſſe
d'alcun nocumento gianımai; ma di sì fatte coſe il fomino, o l'ecceſso, che
vogliam dire, il qual per Gg ſoverchio di vigore, non poſſa eſſer dalla natura
ſoprava zato, ſia agli animali d'offeſa, e didannaggio cagione; U queſto
proccuravano có ogni ſtudio di reprimere,o tor via; il quale ecceſſo dicevan'
eſſi avvenire, qualora l'amaro, amariſſimo: il dolce, dolciſſimo: l'acetofo,
acetofilimo divenga;mentre portavano opinione, l'Amaro, il Dolce; il Salſo,
l'Acetoſo, il Diſcorrente, l’Acerbo, e altre infi nite coſe di varie, e molte
virtù fornite, dovere eſſere di ne ceflità nell'huomo, sì veramente, che fteano
frá eſlo lor meſcolate, e confuſe, e l'una temperata dall'altra; che foj mai
avvien ch'alcuna di eſſe da tutt'altre appartandoſi, così ſceveratamente ſe ne
ſtca, allor fallendo al diritto or dinamento del corpo umano cominci a farſi
con mole ftia ſentire, e grave offeſa recare. De' cibi buoni, ed offendevoli,
eglino ſomigliantemé te diſcorrevano:dicendo cheil Pane, o altri cibi, onde 1 huom
niun male non pruova,ſia dall'accennate coſe, e ſa pori acconciamente
temperato, e che quegli, onde alcun danno riceve, abbiſogni ch'una delle già
dette coſe ab bia ſoverchiamente d'aſſai. Più avanti volevan'effi, che il caldo,
e'l freddo men di tutte le già dette coſe fieno operativi; cd ove rimeſcolici
inſiemeneſteano niun danno giammai non facciano; ma quantunque volte ſi
leparino,e che o riprezzo, o furiofa febbre perciò hucm ne patiſca l'altro
contrario imman tinente accorrendovi, e la furia del tiranneggiante nimico
affrenando, toſto venga l'infermo d'ogni affanno a liberar fi. Il che ſe pur
non li vede nelle ardēti febbri,nelle infiá magion de'polmoni, ed in altre
gravi malattie avvenire, dicevan'eglino, che in sì fatti cali non già dal folo
caldo, ma inſieme colcaldo dall'amaro, e dall'acetoſo, o da altra fimil coſa la
febbre veniffe generata. Finalmente tutto ciò, ch'Ippocrate dietro a tal
materia fiegne a narrare, e come egli prenda a ripigliar coloro che
dipartendoſi da queſti diviſamenti,le cagioni di tutti i ma li all'umido, al
ſecco, al freddo, al caldo fi ftudiavano d ' attribuire,per eſſer molto lungo,
e forſe di poco momen to, lo to, lo tralaſcio diriferire. Ma quanto al fatto
del teſte da noi rapportato ſiſtema, egli ne ſembra per le parole del medeſimo
Ippocrate, che Apollo, o Chirone, o Eſculapio, i quali è fama d'aver
primieramente la medicina inventata, ſtati ne ſiano gli au tori. E quanto ad
Eſculapio, comechè contuſamente ne faccia parole Platone, e a guiſa d'huom, che
di dubbia, coſa favelli, par che dir voglia, ch'egli in tal modo fi loſofaſſe,
ed è veriſimil molto, che dal ſuo maeſtro Chi, rone, o dialcun'altro egli
appreſo l'aveſſe: e Chirone da alcun'altro fimilméte di lui più antico: eche
poi avendolo Eſculapio altrui inſegnato tratto tratto infino a' tempi d '
Ippocrate per altri andatoſi foſſe avanzando,e a quelter mine condotto, ſicome
egli il riferiſce; ma egli è nondi meno per mio avviſo, aſſai manchevole, e
ſcempiato, ne Ippocrate interamente, e qualli converrebbe il rapporta; si che
ne laſcia cagion di dabitare, che ne men'egli il con tenuto di tal fiſtemi
capiſſe. Ne ſembra impertanto, che non già di ſoli medici; madi filoſofanti, e
medici inſie me, o di ſoli filoſofanti ſia tal lavoro; e per una tal breve, e
confuſa notizia, che può averſene, pur manifeſtamente ſi ſcorge, che non mai
dovette cader in penſiero a que gli antichi medici, e filoſofi, che di quattro
corpi, che ſon comunemente Elementi chiamati, tutto l'Vniverſo com pongali, i
quali diquelle, che prime qualità le ſcuole, appellano forinati, con altre, che
ſeconde nominano ac cozzati, i tanto varj corpi miſti vengano a ingenerare; m2
che quaſi infinite particelle di figura diverſe,in varie gui le ora
accoppiandoſi, or ſeparandoſi,tuttele coſe faceſſe ro; o per me'dire, e più
ſecondo la loro opinione, da tale accozzamento, o ſceveramento tutte le coſe ſi
faceffcro in varie guiſe ſenſibili; e che, ne generazione, ne corrompi mento
v'abbia in Natura giammai, ficome dice chiaramé. te nel libro della Dieta il
medeſimo Ippocrate; ma che ogni coſa, che dinuovo ſimanifeſta, pureravi innázi.
Il qual modo di filoſofare, ſe non è appunto il medeſimo có quel di Anaſlagora,
certamente da quello non è guari di verſo. G g La maniera del medicare di
quegli antichiſſimi medici autori di sì fatto ſiſtema, viene apertamente
accennata da Ippocrate quando dice, ch'eglino davano.opera a tor via dall'huomo
tutto ciò, ch'eſſendo della ſua natura via più valevole, e no'l potendoella
vincere, offefa ne rim.z. ne; come l'amariſfimo, il dolciſſimo, e altre
ſomiglianti teſtè mentovatecoſe; le medicine poi a vuotarle voleva no eglino,
che ſi daſſero nel tempo opportuno a ciò fare, cioè allor,che per eſſer elleno
al dovuto cocimento perve nute, era ceffato il lor impeto, e mitigato il
furore; d'on de fi cava, che quegli avvedutiffimihuomini non adope ravan le
purgagioni, ſalvo che nella declinazione del nia le; e chiaramente dice
ſecondando i lor ſentimenti Ippo crate, che allor, che nell'huomo ſomınamente
creſce la collera, in tutto quel tempo, ch'ella ſi trova ſtemperara; cruday e
ſincera per arte niuna ſi poſsono, ne il dolore, ne la febbre, che da
leicagionanſi mitigare, non che eſtin guere. Macon quali argomenti eglino
cercato aveſsero di cuocere, e diridurre al lor primicro ftato le nocevoli
materie,Ippocrate non ne tien ragionamento; folamente fi pare, per quanto
raccoglier fi pofsa dagli altri ſuoi libri, e dalle parole, che reftè abbiam
noi recate,che eglino in ciò non ſi valeſsero de'falasſi. Ritrovò a'noftri
vicini tempi un sì facro fiftema, oltre al Paralcelſo, al Severino, ed al
Quercetano altri, eal. tri doctisſimi ricevitori; i quali colle tante, e rante
cu rioſe, e ſottili dottrine, che viaggiunſero ſommamente il nobilitarono, e lo
fecero altro in verità parere da quel lo, che così rozzamente defcritto nel
libro della vecchia medicina ſcorgeſi; ma non poterono nientedimeno que'
valentisſimi huomini, per quanto mai s'affaticaſſero, e che poneſsero ancora in
opera per ciò più acconciainente fare la vital notomia, ritrovar argomento
giammai, che effi cacemente provar poteſſe, che nell'huomo, ed in altri
corpitante, e tante varietà innumerabili ſi trovino di coſe; laonde degni
certamente diſcufa mi pajono que'primi au tori del ſiſtensa,fe ne meno eglino
non le vennero in quelli a dimoſtrare; ed in verità lo per me crcdo, che ne me
no eglino non aveſſer potuto ciò fare giammai; imperoc chè ſe ſono, come esſi
vogliono, in minutisſime particel le diviſe, e l'une coll'altre meſcolate, e
confuſe, necon i ſentimenti ſi arrivano a comprendere, ne effetti poſſono
produrre, da’quali argomentar ſi poſlá lor ritrovarſi at tualmente nell'huomo,
ed in altri corpi, e ſe mai pure in eſso loro talvolta feorganfialcune delle
dette ſoftanze di quando in quando venir ſuſo, non ſi può ſapere certa mente ſe
vi erano in primanaſcoſe, o le pure elleno da' primi lor femi di nuovo fiſiono
ingenerate. Orper diffalta di queſte certezze,non farà egli manche vole, e
ſcépiata quella medicina, che preſupponendole, ſu vi s'appoggia? Ed oltre a ciò
fe prima diligentemente non inveſtigheraſſi, e giugneraſſi a faper qualſia la
natura dell' acerbo, delPacecoſo, e d'altre ſimili coſe, qual contezza de’loro
effettipotrà averli, o del loro operare, e delle ma lattic, e della virtù
deʼmedicamenti, e del modo d'ufar gli. E forte aggiroffi Ippocrate, ſofifti
tutti que' fapien tìſliini filoſofi, emedici nominando,i quali volevan,che il
medico foſſe pienamente di tutti gli affari della natura in formato, e intefo
minutamente di tutto ciò, onde l'huomo compongali, e quanto al ſuo
mirabiłmagiſtero concorra. E parvc al buon huono, che il conoſcimento di ciò
antaa più alla pittura, che alla medicina s'apparteneſſe; e ba it are al medico
ſol tanto, ch'egli conoſca l'huomo in ri guardo al mangiare, e al bere, che gli
convicne. Ma quefto medelimo chi non vede, che non mai poſſa fa perfi, fe la
natura dell'huomo in prima, e poi di tutti i cia bi, e beveraggi, e d'altre, e
d'altre coſe e non iſcorgaſi. Io nóho preſo a vagliar ciòsche dicefi
pariméte,che qua Jora popera del ſolo caldo ſeparato dal freddo fi cagionano le
malattie, il freddo v'accorra a dar riparo; che ſomigliati fraſchenõ
maiimmagino,che foſſero ufcite di bocca dique' valoroſi átichi;ne fo
Io,comeIppocrate fe l'abbia maiim maginar potute. Aurebbono bēdovuto dire
eglino, o eſſer mol altra opera, greca, molto, e molto agevolea ritrovare il
rimedio, ſe le malac tie dalcaldo, o dal freddo ſolo avveniſſero, avendo noi
pronti ſempre tra le mani quegli argomenti, iquali, o ſcal dare, o raffreddarne
poſſono; o pure, che il loverchievol caldo, in perdendo le particelle, che
fanno il moto, les quali sfumano velocemente, ove non v'abbia coſa, che vaglia
a intertenerle,coſto s'ammorti,e venga meno.E ſo migliáteméte eglino ácora dir
potevano delfreddo fover chievole,che tor ſi poſſa agevolméte via incótanéte
ſenza che della ſola continua formentazione del ſangue. E tanto baſti del più
antico ſiſtema della medicina, ficome a noi ne giova credere, al preſente aver
detto; onde come d'abbondevole, e larga fonte tanti, e vari ruſcelletri poi
d'altri ſiſtemi di razional medicina tratto tratto li diram irono: chenon pur
la grecia tuttav, ma alere barbareſche, e più rimöte nazioni allagarono. E
primieramente quel ſe ne vide uſcir fuori, di cui ſicome noi teſtè dicevamo fa
Ippocrate mézione; il quale dell'u mido, del ſecco, del caldo, del freddo nel
filoſofare ſi valſe; e quell'altro purdalmedeſimo Ippocrate accenna to, di
coloro, i quali più ſottilmente le coſe fin da’loro primiprincipj fil filo
d'inveſtigare li ſtudiavano; ed altri, ed altri Siſtemi ancor covenne,che a
que'répi ſi adaffer tut tavia mettendo fuora per que' filoſofi, che in molte, e
varie ſchiere eran partiti; alcuni de’quali, come addietro accennammo, ciò
fecero per avventura ſol per render pa ga la lor curioſità, e per vaghezza di
ſpiarei ſegretidella natura; ed altri per intendere oltre al filoſofare, anches
all'opera della medicina, fino a’tempi d'Erodico, oveda prima ad alcun ſembra
che dalla filoſofia indegnamente divorzio faceſſe la medicina; le pure alai
molto prima, e per opera d'altri ciò non avvenne, e ben’ Ippocrate nel libro
della natura dell'huomo, oltre a'già narrati,di quegli altri Siſtemi ta
menzione, formati da que'medici,che volevano, o dal ſangue, o dalla collera, o
dalla flemma elfer formato l'huomo, Ma tempo ſarebbe omai di patrare ad altro;
más poichè non è queſt'opera da dover fornire in brieve ſpa zio di tempo: ed lo
tanto oltre mi ritrovo col mio fa-. vellar traſcorſo, che già omai è
l'umid'ombra della not te ſopravenuta, egli fie convenevole, che ad un'altra
ada nanza l'eſaminamento degli altri ſiſtemi di medicina lo ri ſerbi. KK KE UP)
RA: 240 All E quelle gravi, ed acerbe quercle, che veggiam tutto di metterſi
fuora dalle pé ne di tanti, e tanti ſcrittori contro le bar bareſche armate,
perchè coile più bello meinorie della famoſaGrecia abbia quel le i più prezioſi
libri della medicina cru delinente malmenatic diſtrutti: vorrem noi
dirittamente guardare, ritroverein per mio avviſo eſſer quelle in veri tà poco
ragionevoli, cmenche giuſte doglianze; iinpe l'occhè ſe gli ſmarriti libri
della greca medicina eran fimi glianti a queſti, che a noſtre mani ſon pervenuti,
fideu certamente ſtimare alſai ben lieve la lor perdita, ne da do Ierſene gran
fatto, anzi da non mettere in conto; mare pure quelli di maggior lieva ſi erano,
e più vera, e fotril doctrina contenenti, bcn'a torto, s'io pur non vado erra
to, oiGoti, o gli Alani, o gli Vnni, o iBulgari, o i Sa raceni di sì grā
misfatto accagionanſi; imperchè di coſtoro certaméte niuno giunſe giamai a
depre.larc,ed a ſignoreg giare la Grecia tutta; c quãdo ultimaméte il Turcheſco
fu rore ſurſe ſtruggédola, ed ingiuſtaméte uſurpádola, cd occupandola inleme
colla Città, ſede, e capo dell'Orientale, Imperio, allora preſſo che tuttii
libri, che vi avevano della greca nazione,mercè all'induſtria degli Italiani
huo mini nelle noſtre contrade vennero traſportati; ſenzachè v'han pure molte
Iſole greche, ch'all'Ottomano giogono ſottomeſse dell'antica libertà anche a'
di noſtri ſi godo no. La vera cagion dunque della perdita de' più beilibri non
purdella medicina, ma delle più nobili arti, e delle più ſovrane ſcienze,non
già alla furia dell'armi, o delle fiamme nemiche: non già alla rabbia del tempo
di tutte l'umane coſe fiera divoratrice; ma recheſi ad altrettanto più cruda,
quanto men furioſa, e mentemuta cagione.Diec tracollo, chi'l crederebbe ! dier
tracollo dal lor primo ſplendore le lettere, non per altro, ſe non ſe per manca
mento, e per colpa de'letterati medeſimi; c donde atten devan ſoftegno, e
riſtoro, quindi ſterminio elleno ebbe ro, c ſtruggimento; conciofoſse coſa,che,
ficome talora in bello, e ſpazioſo campo di grano ſoglion naſcer avene, logli,
ed erbe ſterili, e dannoſo, e ſoffocarlo, cosìſur ſero tratto tratto nella
Grecia fra quell'anime grandi, es valenti, che del vero ſapere eran ſolamente
paghe, alqua ti huomini di ſtolido, ed ottuſo intendimento, i quali da vaghezza
tratti divano onore, e di popoleſca fama, ogni loro ftudio ponendo in farſi
tener alla minuta plebe ſapie ti ſol dieder opera; e tutti intelero a certe
vane ombre di dortrine; e perciò laſciando in abbandonamento i buoni libri a
conſumar dalla polvere, e a roſicchiar dalle tarme, ſol cura ſi diedero di
riſerbare, e di tramandare a' po fteri que’libri, che con pompa, cd arringo di
belle parole facevan veduta d'inſegnar tutto quando poco, o niente in lor v'era
di pregio; e delle lodi di sì fatti volumi,aven do eſſi riempiute le carte, la
troppo credula, anzi cieca, pofterità, come prezioſi teſori gli ha ricevuti, e
ſempre mai venerati. Mai voſtri ingegni, o Signori,per cui veggio omai
ſcorgerci da miglior lume la verità: mi danno ani mo ch’lo proſeguendo la
incominciata tela de’varj ſiſtemi de'Greci medici, vi faccia ſcorgere ad un'ora
per la più Hh parte falſe eſſere quelle eccelléti prerogative, che di mol ti
ſcrittori va buccinando da per tutto immeritevolmente la fama. La medicina di
Erodico,la quale quatūque in vitupere vol guiſa per Platoneſtata foſſe
trattata: no però di meno dal gétilillimo ſuo ftilc ella vene sõmaméte
nobilitata,ere ſa immortale, per fatica, che vi ſi duri, Io non ſo vede re,
come ſi poſſa giammai ad eſaminazione acconciamen te ridurre,poichè d'efla sì
poche, e cófuſe memorie avázate ne fono,che appena ne ſi aprirà capo da potere
alcun degli argomentiond'ogli fabbricolla indovinare; impertanto a volerne dir
ciò che per noi fi può, rammentomi, che Platon riferiſce, Erodico eſſere ſtato
miglior maeſtro d'in ſegnare, come gl'infermi eſercitar doveſſero le membra, e
ſtropicciarle, ed ugnerle, e regolatamente prendere il ci bo, chedi giovevoli,
ed efficaci medicamenti a coloro preſcrivere;perchè e'ne viene dal medeſimo
Platone affai Íconciamente vituperato; dicendo, ch'egliin sì fatta gui fa non
diſtruggeva altrimenti le malattie, ma le complcf fioni ſolo a poter quelle
lungamente foſtenere ajutava; ond' egli paſsò ad affermare la medicina
d'Erodico eſſer arte da Pedagogo;imperocchè ficome da coftoro i fanciul lini,
così da quella i mali reggevāli; mache di ciò Erodico la dovuru pena aveſſe
meritevolmente pagata; imperoc chè della ſua inutil medicina, penofa, e
cagionevolvita traſſe continuo, e ad una lunga, e ftentata morte ſempre
diſpofta,perocchè da una nojofiffima, e mortal malattia preſo, egli per
trovarqualche argomento da ſoftenerla, tutto nello fludio della medicina
s’involſe, traſandando tutt'altre biſogne, e ſolo a ciò di forza intendendo,
altro non gliene avvenne, ſe non ch'egliebbe a viver si parca mente, e
regolato, che ſe mai dall'uſato cibo ſi dipartiva, toſto ritornava ad ammalare,
e più che prima cagionevo le diveniva; e a queſta guiſa reſo a ſe medeſimo
inutile, e grave peſo, viſſe infino all'ultima vecchiczza; ove di que favita
rinereſcédogliil morirc, ſdegnofaméte fi dipartio.E alla finc Platone
motteggiandolo conchiude, che una eccellente, e ragguardevol palma e'
riportaſſe dall'arte ſua, e talc, qual veramente gliſi conveniva, come a colui,
il qual non ſapeva, ch'Eſculapio una cotal guiſa di medica re a' pofteri non
aveſſe inſegnata, non già perchè non gli foſſe aliai bé conoſciuta: ma ſi bene
perocchè egli ſcorge va,che in una bé ordinata Città a ciaſcun debba eſſere l'o.
pera ſua convcncvole aſſegnata, alla qual fornire doven do intendere, mal
potevagli ozio lungo avanzare, du potere a ſtéto da una tal medicina attender
prò, o riſtoro; coſa, la quale certamente ridevole ella ſembra ſe vien el la
mai negli arteficiconfiderata. Reca Platon l'eſemplo d'un legnajuolo, il quale
ſe mai, come porta la ſua diſ grazia ritrovali preſo da grave malattia, egli
toſto inan dando per lo medico, da lui richiede, che diviſandoglial cuna
purgativa, o pur vomichevole medicina, o col fer ro proccuri toſto di torgli
ogni inale, e ogni ſeccagin da doſſo;ma ſe allora il medico
ſolpreſcrivcſſoglilungadieta, e altri così fatti riguardi, certamente, che
colui gli re plicherebbe, non eſſer miga ſuo intendimento di menar il can per
l'aja, e foggiacere a una sì nojoſa, e miſerevol vi ta; e così datogli
dipreſente il congedo coll'uſata libertà ſe ne rimarrebbe; e ſemai avveniſſe
per forte, ch'egli guariffe, ſi viverebbe per innanzi felice; ma ſe il corpo no
potendo al mal far contratto ſe ne moriſſe, almen verrebb’ egli ad eſſere da
tante noje ſviluppato. E dopo queſti ra gionamenti Platone apertamente una tal
medicina caccia via dalla ſua repubblica, come dannoſa, e tale, che i ſuoi
cittadini non meno alle lor private biſogne, ch'a quelle del comune verrebbe a
fraſtornare, e ritorre. D'una tal materia ſi legge una lettera dello Speroni,
con la quale egli va dimoſtrado con vani ſofiſmi,la vita ſobria eſfer no cevole
uzi che no; infra l'altre coſe dicendo, la vita ſo bria non poterſi appellar
ſana, eſſendo la ſanità un'acci dente, che coll’inferinità, ch'è il ſuo
contrario via ſi cac cia del ſuo ſoggetto; perchè ſe nella vita ſobria non può
effer inferinità, non può eſſer (anità vera; c ſe tinto, e non più fi mangia,
quanto baſta al vivere noi ne coin H h 2 batteremo, ne cămineremo,ne falteremo
giámai, ne potre mo ciò fare, perchè non averemo le forze,mangiando fo lamente
per vivere, il che ſarebbe un gran difetto nell huomo. Oltre a ciò e' dice, che
come la mano ſtorpiata, non è mano, perchè no può come mano operare,così la ſo
bria vita no è vita,ma meza morte, perchè no opera quan to, e come dee l'huomo
operare.Dice parimente egli che il morir per riſoluzione ſia la peggior guiſa
di morte, che poſſa fare l'huomo:perchè queſto è inorir di fame; della
qualmorte parlando Omero in perſona de'compagni d'V Jiffe l'abborriſce
infinitamente: ed elegge più coſto lo an negarſi, che'lmorir di fame į ne
peraltro Dante biafi matanto i Piſani, che per aver fatto morir di fame il Con
te Vgolino,benchè foſſe traditore della Patria. Con chiude egli alla fine, che
chi è ſobrio nel cibo faria huopo cffer ſobrio in molt'altre coſe: peſare il
vino, e'l pane, nu merare l'ore: farebbe luogo ancora pefare i peſieri, lo ſcri
vere, il leggere', e ſimili cofe, che impediſcono la dige ſtione: numerare i
palli, e le parole, che ajutano la dige ſtione: non dormir ſe non tante ore il
dì, e tante la notte. Ma il chiariſſimo Signor Luigi Cornaro, a cui era in
dirizzata la lettera; col ſuo proprio cſemplo fe veder ma nifcſtamente quanto
ciò vano, e fuor di ragion fia: impe socchè egli colla rigorofa dieta lano, c
vigorofo, e bene atante della perſona anche nella cadente età ſi mantenne, e
viſſe oltr'a cent'annipronto ſempremai, e col ſenno, e colla mano alle biſogne
tutte della ſua patria;comechè ca gionevole aſſai di compleſſione e'li foſse in
prima ſtato ncl Ja ſua giovanezza, ca molti, e graviſſimimali ſoggetto; intanto,
che comunemente da'medici dopo varj, e diverſi argomenti indarno adoperativi,
diſperato ſovente di ſuas ſalure ſtato ne foſſe. Ma quanto vane,quanto deboli,
e fanciullefche fien le ragioni, con che Platone s'argomenta d'abbatter Erodi
co,e come ſcioccamente la dappocaggine d'Eſculapio, e de figliuoli di lui egli
di ſcuſare s'ingegni: Io non pren derommi al preſente briga di dimoſtrarlo,
potendo ciaſcũ 1da per fe a prima veduta baſtantemente comprenderlo. Macome non
ſi può in modo niuno negare, che quel me dico, il quale aveſse per le mani
ſicura,ed efficacemedici na, che ſenza indugio poteſse un grave male di
prefence guarire, non dovrebbe certamentead altri medicamenti aſpettarſi;
nondimeno non ſo lo fe Eſculapio, cotanto da Platone commendato, aveſse pronta
ſempremai unas cotal medicina non che a tutti mali acconcia, ma ſola mente alle
ferire; eſsendo rade molto cotali forti di me dicamenti, e radiſsimi coloro,
che alcun certamente ne ſappiano; perchè lopratutto fa meſtieri, che'l medico
per ogni via ſappia all'infermo ſoccorrere, eſe non può riſa, narlo,poſsa
almeno tantoſto indugiar la fua morte, tem poreggiando, e ſcherinendolo a ſuo
potere. Perchè fom mamente egli è da lodare il ſaggio avviſamento d'Erodi co,
il quale molto bene a pruova ſcorgendo quanto poco a capitale da tener foſse
l'operazion de’medicamenti, diede opera più che altro a quelle coſe, che ſe non
ſono ditroppo vaglia, s'annoverano fenza fallo infra le meno incerte
dellamedicina. Ecertamente per quelle uſare no fi corre pericolo niuno
da’malati, e poca, e niuna fatica. s'imprende a porle in opera. MadalPaverle
Erodico dalla ginnaſtica portatealla me dicina,quanta lode egli per ciò ne
meriti, Galieno mede. fimo il confeſsa; il qual nondimeno una tanta lode ad Ip
pocrate attribuiſce. Io per me ſtupiſco della fcimunita tricotanza di tal’huomo
che avendo letto più volte i dia loghi della repubblica di Platone, e recatone
nel fuo li bro pur qualche luogo, ardiſca pure d'affermare, che Platone in ciò
ſolamente la cattiva ginnaſtica biaſimaſſers la quale ſi predeva cura di difpor
gli Atleti ad eſser valo roſi, ed abili a loro eſercizj. E certamente ſe
quellibro di Platone ſinarrito per ayventura ſi fofse, ciafcun farga mente le
ſciocchezze di Galieno crederebbefi. E come voleva Platone biaſimar la
ginnaſtica, che per Galien cat tiva dicefi, s'egli nella ſua Città ordina, che
s'edifichiil ginnaſio, e diſegna con molte parole la contrada acconcia per i
per quello, e vi ricerca in iſpezialità copia d'acquc cor renti, così per
derivarla in uſo de' caldi bagni, coine per irrigare il terreno, e render vago,
eadorno il luogo; ſen zachè no mai ſtanco ſi moſtra Platone in tutte le ſue ope
re di celebrare il ginnaſio, e quegli eſercizi, che ivi fico ftumavano di fare:
come ſommamente utilia conſervar la ſanità; e fra l'altre egli ebbe a dire una
volta, eſsere ma lagevol molto il ritrovare diſciplina miglior di quella, la
quale fin’alla ſua età in lunghiſſimo ſpazio di tempo s'era ritrovata; cioè
della muſica, che all'animo, e della gin naſtica, che al corpo appartiene. Ma
laſciando ciò da par te ſtare, egli va grandemente per mio avviſo errato Pla
tone nell'affermare, che que'buoni antichi medici non cu raſsero il
regolaricibi a'malati, e che ciò eglino faceſse ro, non peraltro, ſe non perchè
non avevali a que’tempi di ciò punto biſogno, perchè agli antichi, i
qualimaisé. pre regolaramente vivevano, non faceva poſcia inferman doſi huopo
diregola alcuna di medico; concioffiecofachè le tante, e tante förti di
malattie, che fra gli antichi ſové teniente ſi vedevano, faccian’aperta, e
fedele teſtimonia za del contrario. Ma quantunque vero foſſe ciò,che Pla tone
immagina della ſobrietà grande degli antichi huo mini, pure altri cibi
a'lani,ed altri a'malati convengono; e quelmedico, il quale cibaſse l'infermo
come fano, e'l ſano come infermo ugualmente nel certo all'uno, ed all l'altro
nocerebbe. Egli poi non ha dubbio alcuno, che'l regolar i cibi foſse la prima
coſa certamente, che s'ado peraſse in medicina; anzi da ciò venne ſuſo
primieramé ce la medicina; e prima, che foſsero i medici, i medelimi infermi da
per ſe il ritrovarono; e illuſtri.fimo in queſto affare è il luogo di Celſo; il
quale ci giova quì tutto rec.le re, comemolto al noſtro propoſito faccente:
Ægrorums, dice egli, qui fine medicis erant, alios propter aviditatem
primisdiebusprotinuscibum affumpfiffe, alius propter faſti dium ahſtinuile,
levatumque magis eorum morbum effe, qui abſtinuerant: itemquealios inipfa febre
aliquid ediſ Te, alios paulò ante eam, alios poft remiffionem ejus, optime
deinde his ceflife, quipoft finem febris id fecerint. Eadeque ratione alios
inter principia protinus ufos effe cibo ple viore, alios exiguo, graviureſque
eos factos qui fe imple rent. Hæc, ſimiliaque quum quotidie inciderent,
diligentes homines notaje: quæ plerumquemelius refponderent,dein
deægrotantibusea præcipere cæpiſſe:fic medicinam ortam-, ſubinde aliorumſalute,aliorum
interitu pernicioſa diſcer nentem à ſalutaribus, Ma intorno al cibari malati,
certiſſima coſa egli ſi è, che gli antichi medici gră pezza affai prima
d'Ippocratemol. te coſe, e molte diviſarono, come ſi può agevolmente ve dere
nel libro della vecchia medicina, ed in altre opere d ' Ippocrate medeſimo,
onde parimente ravviſar fi puote quanto errato vada Galieno, il quale di ciò
far yolle il buo Ippocrate autore. Ma, che che ſia di tali faccende, terri bile
allai ſembrami nel vero la cenſura, con la quale Ip pocrate, non avendo veruno
riguardo alla venerazion do vuta al maeſtro Erodico, fconciamente il riprende,e
vitu pera; dicendo, ch'egli togliere la vita a tutti que'cattivel li
febbricitanti, ch'e' medicava colle fatiche, e co' fummi. caldi, che loro
imponeva; e ne reca egli di ciò la ragione, dicendo cfler a' febbricitanti il
pareggiare, il correre,e gli ftrofinamenti, eifomenti oltreinodo contrari.Aggiugne
Galieno a ciò che dice lppocrate, che Erodico in ciò fa re, ne anche alla
ſperiéza guidar certaméte e'li faceſſe,non volendo niuna ragion delmondo, che'l
male col male, la fatica colla fatica, il ſimile col liinile da medicar ſia; an
zi e'dice, che gli argomenti tutti adoperati per Erodico nelle febbri, valevoli
più toſto ſiano ad accreſcere sfor matamente il calore, che a toglierlo. Ma
certamente no molta fatica aurebber egli durata i ſeguaci d'Erodico in
rimboccare Ippocrate, e Galieno,dicendo,che Erodico, come buon medico razionale
non già alle febbri, ma alla cagione di quelle riguardar doveva,alla qual
togliere cer tamente quemedeſimiargomenti fi convengono, i quali egli adoperava,
avvegnachè in prima ſe ne creſca talottas la febbre per qualche poco ſpazio di
tempo; ma poi ſenza fallo rimoſſane la cagione del tutto ſi ſpegne; ſenza chè ben
potrebbono di vantaggio aggiugnere, il medeſi mo appunto farſi da Ippocrate, e
da Galieno: i quali con fregamenti, e con dare a {piluzzico, e a riguardo il
cibo medicar parimente ſogliono i febbricitanti. Ne qui deb befi tacere,
ſcorgerſi da ciò chiaramente eſſere antichiſ ſimo coſtume de'medici biaſimare
in altri, come manche voli, e malfatte anchequelle coſe, che eglino medeſimi in
ſomiglianti caſi operar tuttavia ſogliono. Ne poffo sé. za maraviglia
riguardare alla gran tracotanza di Galieno, il quale così aſprainenre riprende
il diviſamento d'Erodico ſenza punto penſare, che ello ancora alcune febbri
linco pali co'fregamenti, e col digiuno curar foglia; perchè egli vien forte
ripigliato dal Tralliano, il quale rintuzza lo, c percuotelo, e con maggior
ragione per avventura, con quell'arme medeſime, che Galieno aveva contro Ero
dico adoperace. Vltimamente ſe un ſomigliante coll'alcro da curar ſia, coloro
ſe'l veggano, i quali comeche con parole il biaſimino, purcon fatti talvolta il
ſogliono ado. perare: ſolamente lo avviſo, che Ippocrate medeſimoma nifeftaméte
afferma, che'l yomito col vomito ſi cefla,e che col limile il ſimile ſi cura.
Quinci ſcorger ſi puote, chcgli huomini tutti,e più che altriimedici, Togliono
di leggieri nell'arti, chedi nuovo imprendono ad eſercitare, valerſi di quelle
coſe, alle qua li per qualche ſpazio di tempo diedero in prima opera; e percið
Erodico per mio avviſo ſi ſerviva così ſpeſſo degli Itropicciamentiin medicando
gl'infermi, e d'altre opere, ch'erano in uſo nel ginnaſio, di cui egli aveva
avuto la cu ra; così veggiam que',che, o d'Aſtrologi, o d'Alchimi ſti divengono
medici, non preſcriver rimedio alcuno, che non ſe ne fian colle ſtelle,
eco'fornelli conſigliati; ma no penſi però alcuno, che'l maeſtro, o preferto
del Gimnaſio aveſſe cura di far ſtropicciare, o d’ugnere que' ch'eran deſtinati
alle lutte, al corſo, e agli altri gilochi, che ſi fa cevano nel Gimnaſio; ma
il ſuo uficio ſi era il comandar nel Ginnaio, e conliſteva nella ſupreina
autorità di quello p li vile li varjufici a quella ſottopoſti, e per le ipeſe,
che per l'e ſercitazioni facevan meſtieri; edun taluficio era in sì grá
pregio,edonore tenuto,che nó foleva darſi,ſe non ſe a'più nobili, o ben’agiati
huomini del paeſe; c durò lungamen te tal uſanza sì fattamente,che i medeſimi
Romani Im peradori talvolta non iſdegnarono in volendo favoreggiar qualche
Città amica, e qualche popolo a loro affeziona to, infra i titoli, egli onori
degli altri maeſtrati, d'accet tar anche quello di prefetto, o maeſtro del
Ginnaſio. Ma non men della medicina montò in grandiſſimo pre gio, e venerazion
l’arte ginnaſtica, la qual fu cotanto ce lebrata a que'rempi dalle dotte penne
de ſagaciflimiſcrit tori, che nulla più; d'alcun de'quali con ſomma lode fa
menzion Galieno, appo il quale leggefi di vantaggio,che non ſolamente eglino
contendevano co’più chiari, ed il luftri medici razionali, ma che quegli fteffi,
chenel Gin naſio bazzicavano proverbiar ſolevano Ippocrate,che egli
temerariamente inipreſo aveſſe ad inſegnar un'arte, dicui cgli era affatto
ignorante, e digiuno. Ma ritornando ad Erodico, chc che ſi dica di lui Platone,
non ſi fermò egli nelle coſe ſole della ginnaſtica ncll'eſercitar la medicina,
ma ſi valſe d'altri, e d'altri rimedj, de' quali altri medici dopo lui
parimente fi valſero: come ſi può vedere in Ce lio Aureliano, il quale in
facendo parole della ſciatica, delle medicine d'Erodico così dicc: Herodicus
igitur, ut Aſclepiades memorat, ventrisadhibet purgationem, atque pofl cenam
vomitus, quifunt implebiles potius quam ficcabi les: tum vaporationibus tepidis
aceti decocti exhalatione con fectis utitur, vel aqua marina, admifta thalsa
herba,atq; biljopo, & his fimilibus, veficis bubulis repletis corpus va
purandum probat, vel aliis quibufque majoribus inflatis tu mentia loca pulſari
jubet, e tanto baſti della medicina d’E rodico avere accennato. Eurifonte
celebre medicante dell'antichiſſima ſcuola di Gnido, il quale,come riferiſce
Sorano inſieme con Ippo crate medicò Perdicca Rè della Macedonia, dalle poche
memorie, che n'abbiamo, non ſi può ſcorgere in qual ma I i niera egli medicaffe,
ene meno come egli in medicina fi loſofato aveſſe; e delle ſentenze Gnidie,
dicui voglion ch ' egli li foſſe l'autore, ne reca tanto poco Ippocrate, il qua
le fi diè cura di eſaminarle, ch' Io per me non ho che di viſarne. Egli vien
rapportato da Ippocrate, che i compi latori di quel libro aſſai minutamente, ed
a ſpiluzzico avel ſer raccolto, e diviſato tutte quelle coſe, che avvenir ſo
gliono agl'infermi in ogni lor malattia; ma non è per ſuo avviſo da far gran
fatto ſtiina della coſtoro induſtria, come quella, ch'aſſai leggiera, ed
agevole impreſa è a chiunque neprenda cura, quantúque niente informato di
medicina egli ſia: baſtado ſol,che dallo infermo della nojoſa iſtoria della
propia malattia pienamente véga avviſato.Ma lo,có buona pace d'Ippocrate, ſono
in contrario parere; e lem brami, che gran ſenno faccian que’medici, e fieno
ſom mamente da commendare, qualora ſi danno ſomiglianti brighe; imperocchè,non
di ſole ciance,madicoſe in qual chemodo rilevāti ſi vedrebbon ripiene le
ſcritture de’me dici. Ma che è ciò, che ſoggiugne poſcia Ippocrate, che egli
fia queſto un peſo da tutte braccia, ne v'abbiſogni in tendimento di medicina?
E chi non vede quanto dalvero manifeſtamente il ſuo parer li diparta? da che a
ſimili rac conti fa luogo comprender le variazioni de' polli, e altre biſogne
ſola medici conoſciute; edo che vaghe novelluz ze da riftuccar la pazienza di
ciaſcuno ſarebbon le imper tinenti ciuffole, ed anfanie, che talor foglion
narrare a ' medici gl'inferini, fe quelle appunto aveſſero a deſcriver ſi poi !
e ſe per alcun, ſicome affai ſovente avvenir veggia mo, foffe offeſo il
cervello, che domine potrà unqua ridir dirittamente giammai de'ſuoi travagli
l'infermo? nondi. meno, quantunque una tal impreſa lia aſſai propia del me dico,
lo giudico, che ſe altri vi ponetle mano, chemedi co non foffe,peraltro
riguardo maggior utile ſe ne ritrar. rebbe; iinpcroccliè nurrerebbe egli
ſemplicemente come và la biſogna ſenza giugnervi nulla di ſuo, ove da ' medici
mercè dell'ufire loro aliuzie, tra per ridur'la cagion d'o gni avvenimento
de'ma i alle lor concepute opinioni,o per altrid 1 alera cagione,cofa,che
ſoſpetta di falſicà,cd'errore non ſia non pongono in iſcrittura giámai.
Soggiugne Ippocrate, che di quelle coſe, delle quali dee aver contezza ilmedi
co per propia fua induſtria, oltr'a quelle, che poſſon ſa perſi dalla bocca
dello infermo, molte ne tacquero que gli ſcrittori; e ch'egli di quelle notizie,
che s'acquiſtano per opera della conghicttura, e che pertinenti ſono al mo do,
col quale curar fi dee ciaſcuna malattia, non s'app.2 ga affatto di ciò, che
color ne dicono; e quinci ſi pare, ch ' Eurifonte medico razionalc ſtato ſi
foſſe, e che, ſecondo i ſentimenti d'Ippocrate medeſimo ſuo emulo, aveſſe ſcrit
to affai bene in medicina: nientedimeno, per quel che Ip pocrate
parimenteriferiſca, chiaramente ſi ſcorge,che co sì Eurifonte, come que' della
ſua ſcuola di Gnido ben molto poco valfero nella medicina; imperocchè nel medi
car le malattie, toltene l’acute, fi valevano ſolaméte dell'e Jarerio,del
latte, e del fiero; e veramente intorno a ciò IP pocrate a gran ragione ne
ripiglia l'autore di quel libro ſoggiugnendo, che ſarebbe degno di gran lode
l'adoperar pochi medicamenti,ſe quelli buoni li foffero e conveniffe ro
veramente a que’mali, a'qualieglino gli preſcrivono; ma che altrimenti vada la
biſogna. Vengono in ciò i medicanti da Gnido imitati da parec chj de'moderni
medici, i quali ſi tengon le mani a cintola ne'mali lunghi, ed allo incontro
poi nellacute malattica non dan mai foſta a' poveri infermi, travagliandogli ad
ogn'ora con importuniffimi rimedj, la dove dovrebbono ſenza fallo il contrario
operare; concioſliecofachè il ma de, il quale qualche ſpazio di tempo dur.2,renda
aſſai age vole al medico il potere inveſtigarne, e rinvenirne il rime dio; il
che nc'mali acuti malagevolmente riuſcir puote, i quali per ſe ſteſſi, o bene,
o male finiſcono in brieve. Ma nondimeno egli è ſommo artificio di medico il
medi car sì fatti mali con molti rimedj: imperocchè ſe l'infermo guariſce, il
vulgo ignorante agevolméte crede eſſer ciò per opera avvenuto di alcuno di
que'tanci rimedi, che gli furono dal medico preſcritti: non avviſando, che
celeres, ! I i 2 & acu 1 cu acutæ pafſiones, etiam fponte folvuntur,
&nunc fortuna, nuncnatura favente, come laggiamente Celio Aureliano avvila;
e ſe purl'infermomai vienea capitar male, tutta via della ſua induſtria ognuno
contento, ed appagato li tiene, inmaginando, che egli non abbia laſciata coſa p
riſanarlo. Ma che che ſia di ciù ne'mali lunghi,ove nel vero l'imprendimento, e
l'opera del buon medico maggiorme te ſi richiede, perciocchè, ficome avviſa il
medeſimo Ce lio, neque natura, neque fortuna folvuntur, ſi portò pelli maméte,
per avviſo d'Ippocrate,Eurifóte;maſe crediamo a Celio Aureliano, nelmedeſimo
fallo incorſero parimen te con Ippocrate ſteſſo tutt'altri greci medici, che
furono prima di Temilone. Ma ricornando ad Eurifonte, Io non ſo, s'egli, o pure
alcri compilando la ſeconda volta il libro delle ſentenze Gnidie,maggiormente,
come porta opinione Ippocrates, il perfezionaffe: parte delle coſe, che in
prima vi li legge vano, come chioſa Galieno, affatto togliendo, e parte in
altro cambiando; effetti, come altrove abbiamo pa rimente avviſato,che provenir
ſogliono dall'incertezza della medicina; e queſto è quanto laſciò ſcritto
Ippocra te della medicina d’Eurifonte. Si valſe cgli, come Ce Jio Aureliano
dice, di qualche medicamento d'Erodico, e ſcriſſe per quel che narri Galieno,
di notonia,e di quel le inedicine,che ſi poſſono in luogo d'altre, che mancal
ſero porre in opera. Ma trapaſſando ora alla medicina d'Ippocrate, egli cer
tamente oltrealcrcder di ciaſcuno malagevole mi ſembra a diviſarne ora i miei
ſentimenti; perciocchè di que’libri, che ſotto il ſuo nome ſi leggono, ne pure
a teinpo dell'an tico ſcrittore, che ne racconta la vita, dar fermo, e ſicu ro
giudicio ſe ne poteva. Ma che unque diciò ſia,manife ſta coſa è, che parecchi
dell'opere dilui per travalicamé to di tempo ſmarrironſi, ed altre manchcvoli
in parte, tronche li riinaſero; ed in altre ancora molto, e molto co ſe, o da
ſuoi ſcolari, o da altri aggiunte furono; noiz però di meno c'fi pare ad alcuno
che, coll'efler perdute l l'opere d'Eraliſtrato, di Diocle d'Aſclepiade,e
d'altri buoni medici antichi, in queſte ſolaméte, che ſotto nome d'Ippo crate
ne rimaſero, oggi ſia quaſi tuttoquáto di buono v'ab bia infra'Greci di
medicina,cópreſo; impertanto moſtrano manifeftaméte, che non riſpondono a quel
gran nome,che da alcun medico greco in prima, e poi da altri anchenon medici
ſenza troppo ben'eſaminar la coſa,egli n'ha ripor tato; ne lo ſo permevedere,
come ſi poteſſer mai, nu Platone, ne Ariſtotcle approfittarli per efle tanto
quanto nella filoſofia naturale, come Galieno, e altri medici ſo gliono ad
ogn'ora millancare. Ma chi per Dio paſſerà sé. za riſa la beſtaggine di
Macrobio, il qual poco di sì fatte coſe conoſciuto, e nõ avédo forſe mai letti
i librid'Ippocra te, follemére cómendandolo, gli attribuiſce ciò che a Dio
ſolamente conviene, dicendo: Hippocrates qui eam fallere, quam falli neſcius.
Nulla poi dico diGalieno,il quales tutto che non ſi vegga mai pago di lodare
Ippocrate, con dire una fiata infra l'altre,che le ſentenze dilui tutte ve
riffime fieno, Ta' ti Ittasaxegéros dogueala mutu le árugega tab iar e che la
parola d'Ippocrate fi: come la voce d'Iddio: Notip Des our nj In Toregros
réžis:impertātono approva egli poi co* fatti ciò, che dicecolle parole:
imperocchèmolte,emolte fiate apertamente dalla ſua dottrina s'allontana; anzi
tal volta dimenticando quanto aveva detto in ſua lode, for te il proverbia, e'l
biaſima, come altrove dimoſtrato ab biamo. Mai più ſapienti,cd ayveduti tra gli
antichi ſcrit tori, quali furono ſenza fallo i Setteggianti, e queich'eb ber
più valore, e più nome tra ’ loro ſeguaci, in pochillimo pregio tennero
Ippocrate: come ſi può agevolmente ve dere in Celio Aureliano; ed Aſclepiade
chiamar ſolevala medicina d'Ippocrate Meditazione della morte. Ma noi non
badando a'cicalecci di niuno, diciamo primicramente, ch'egli ſi pare certamente,
che Ippocra te aveſſe in qualche grado avuto quel natural talento, che alla
medicina richiedeli; e che ſi foſse altresì cgli ſtato un' huomo infin da’primi
anninello ſtudio, e nell'eſercizio di ella continuamente involto; e comechè non
ben intelo scorgeli ſovente delle coſe, ſembra pure, ch'egli ciò che ſi
conoſceva in medicina in que'rozzi tempi, ne’libri degli antichi letto, &
veduto egli aveſſe; e chi ben vi affiserà la mente ravviſerà nelle ſue opere
affai più manifeſte le fondamenta delle varie, e diverſe ſette della medicina,
di quel, che già follemente millantando Plutarco ne ſcriſſe, d'avere i principj
tutti delle ſchiere de'filoſofi ne' Poemi d'Omero pienamente rinvenuti; perchè
fi dee ‘ certamente credere,o cheIppocrate impiegato tutto nell'uſo delme
dicare non aveſſe avutomaitempo d'inveſtigare, e deter minare ciò chepiù vero
gli foſſe paruto in medicina:o che pure avendo egli coſa per coſa minutamente
ſtacciata, ed abburattata, ftanco alla finc,manifeftaméte avviſato aver ſe non
eſſer più da appiccarſi ad uno, che ad un'altro fi ſtema di medicina,per la
loro egual dubbietà;e quinci egli poi di varj, e tra effo loro contrarj
ſentimenti da' capi di diverſe ſette appreſi i ſuoi ſcritti riempic; e per
tacer d'al tro per ciaſcun ſi ravviſa aver Ippocrate nel libro della natura
umana impreſo a parlare d'uno ſpezial fiſtema di medicina, ed'un altro nel
libro della vecchia medicina, e d'un'altro nel libro degli fpiriti, e
d'un'altro ultimamen te nel libro della dieta, comechè qucftie'confonda con gli
altri ſiſtemi da lui poco ben'inteſi, e ſpezialmente con quello della vecchia
medicina; il quale ultimo ad alcuno ſembra, che intorno a tal materia.e '
compoſto aveſſe; e viene ſcioccamente da molti creduto non già ď Ippocrate, ma
di Democrito; ma certamente fuor d'ogni ragione; perciocchè in altra più nobile,
e più ſottil ma niera quel ſublime filoſofante compoſto l'avrebbe. Ma che che
di ciò ſia,per tornare a quelchereſtè dicevamo, pié d'incertezze, e tcmpellante:
Ippocrate, par che talvolta alla ſperienza, ed alla ragione il tutto raſſegni;
ed altre yolte ſembra, ch'egli alla ſperienza ſolamente s'attenga; e da ciò
moſſi negli antichitempi alcuni, come narra Ga ļieno, ed alcuni altri della
noſtra età, infra'quali è il Mon tano, preſero cagionedi piatire, fe Ippocrate
in medicina da parte empirica, o da parte razionalc veramente tenuto haveſſe;
ma non poteva certamente egli,comechènon foſe ſe di molto grande intendimento
fornito, nel maneggiar tutto dila medicina non avvederſi della poca fermezza e
della molta dubbierà di quella. Ma per altro poi, quan to Ippocratemancaffe di
quell'intendimento, che a gran filoſofante, emedico, qual vien' egli
comunemente te nuto appartienfi:ſcorger fi può chiaramente in tutte le ſue
opere, e particolarmente nel libro della vecchia medicina; nel quale avendo
egli avviſato eſſer da filoſofare in medi cina in quella guiſa appunto, che
cgli quivi ſecondo i fen timenti de'più antichimaeſtri diviſa, da chiunque al
vero, e perfetto conoſciinento di quella aggiugnere intenda:ed oltre a ciò, che
la medicina non foſſe ella ancor tutta a ' ſuoi tempi ritrovata, ma unamenoma
ſola parte di quel la, e che molto ancor ne reſtaffe per innanzi a ſcoprire;
egli nondimeno, ne molto, ne poco vi s'affutico; anzi andò dietro ad altri, ed
altri ſiſtemi di medicina a guiſa di cieco, che séza guida alcuna vada caſtoni,
ed attenědoſi a ciò che, incontra, or per una, or per altra ſtradì errando,
ſenza mai venire a capo del ſuo cammino;la qual verità ben vé ne dului
me.Iclimo conoſciuta, e finceramente paleſata nella piſtola (ſe alori ſecondo i
ſuoi ſentimenti in nom:) fuo, pur non la finale ) che egli ſcrive a Deinocrito;
over apertimente dice ſeno eſſere ancora pervenuto a quel le gno nell'arte, che
diviſato ſi aveva, avvegnachè negli an ni molto, e molto avanzato, e nell'uſo
del inedicare con tinuanente logorato fi foſſe. Map far pienamérc vedere,e
toccar co muni quáto po co in filoſofia avázato fi foſſe Ippocrate, egli ſi
convégono ad uno ad uno elaininarle fondamenta de'varj ſuoi, e co tanto infra
loro diſcordanci ſiſtemi di medicina; coinechè ciò per avventura ſoverchio
giudicar ſi potrebbe; percioc chè tali, e tante ſono le dippocaggini di lui, e
le ſcioco chezze de'ſuoi ſentimenti, che tolto per qualunque mez zano
intendimento ſenza troppa firtica avviſar li potreb bono; il che egli ancor
conoſcendo, e reſtandovi alla fine inviluppato, e contuſo, in njun di quelli
riſtr fermame te fi volle, dottando, e tempellando ſempremai di ciaſcu no. E
conciofoſſe coſa, che del Giſtema della vecchia me dicina altrove baſtevolmente
detto ſia', cominceremo al preſenteda quello, che nel libro della dieta con
lungo, e magnifico apparecchiamento di parole egli neporge. Pri mieramente in
quel libro e'nedice ſecondo il ſentimento, ch'egli altrove rifiutato avea
dique'valent'huomini da lui contro ogni ragionechiamati ſofiſti, che chiunque a
ſcri ver imprenda della dieta all'huom pertinente, egli con venga in primain
prima aver piena,e perfetta contezza della natura dell'huomo, e di
qualiprincipj egli da prima compoſto foſſe: e oltre a ciò ſpiar minutamente, e
com prendere quali di que'principj in lui maggiormente s'avã taggino.
Sentimento quanto ſaldo, evero, e che non ha di pruova alcunabiſogno,
altrettanto volgare, e agevole a penſare; perchè eglimoſtra,che Ippocrate non
abbia per quello, ſe pure è ſuo, cotanto merito appo i medici dovuto acquiſtare;
non peròdi meno lo ſcaltrito temen do negato non gli foſſe sì bel diviſaméto,ne
vuol far pruo va, ſo giugnendo, che ciò non fi ſappiendo, mal ſi po trebbe cibo,che
profittevole abbia ad eſſere, ad huom ’ ragionevolmente diviſare. Indi
foggiugne convenire an cora aʼmedici la compleſſion di tutti cibi, e vivande,
che noi uſiano eſſer conoſciuta;e ſopra ciò con lunga,ed inutil diceria grā
pezza cgli di provar s’affatica,comcchè di pruo va niuna ciò abbia punto
biſogno.E quindi il ſuo ragiona mento cominciando intorno a principj delle coſe
della natura, in sì fatta gniſa ne parla. Così l'huomo, come tutt'altri animali
di due principj so compoſti, i quali comechè diverſi ficno quanto alle lor
facultà, all'uſo nondimeno ſon concordevoli, e acconci; ciò ſono l'acqua, e'l
fuoco; i quali amendue non meno a tutt'altre coſe, che l'uno all'altro
ſcambicvolmente ba fano; ina ciaſcuno per fe a ſe inedefimo, ne ad altra coſa
del mondo non baſta; e la virtù, e la forza di ciaſcun di effi è tale cheper lo
fuocoli muove ciaſcuna coſa qualun qne clia lia, c in qualunque luogo dimori: e
per l'acqua convenevolmente ella ſi nutrica, e creſce. Ma in conti nui piati, e
battaglie elliftando ſempremai fi contraſta no, e ſi vincono; non però sì
fattamente, ch'alcun d'eſli cotanto abbattuto, eſpoſſato ne rimanga, che niente
più di vigore,o di forza non gli avanzi; perciocchè ove il fuo co preſſo
all'eſtremo dell'acqua ſtrabocchevolmēte è per venuto, toſto il debito nutrimento
gli manca; perchè egli volgeli colà, ove nutricar ſi poſſa; e l'acqua d'altra
parte quando all'eſtremità del fuoco è aggiunta riman priva di inovimento, e
nulla vale; perchè vien toſto dallo ſcorre te fuoco in nutrimento cambiata. E
imperciò nel conti nuo lor tempellaméto niun di loro sì pienamente può ſo
verchiar l'altro, che affatto l'uccida; ma amendue vengo no in sì fatta guiſa
ſcambievolmente a ſoſtenerſi, che egli no ſolamente baſtevoli ad ogni coſa
rieſcono per doverla in qualunque modo comporre. Orchi domine cotáto ſarà di
cieca paſſionc ingombro, che non iſcorga pienamente quanto vani, e ridevoli
ſieno i diviſamenti d'Ippocrate intorno a ' ſuoi principj. Vn ſol principio,
dice egli,non baſta; ma baſterà egli, che sì il dica? anzi vi ſarà chi vi
replichi, uno eſſer ſufficientiſfi mo, ove le parti, che il compongono di
diverfa figura fie no, e diverſamente fieno allogato, e infra loro compoſte, e
ſi muovano: perchè poidi yarie facce le coſe tutte del mondo compor debbano;
ſenzachè ſe principj delle coſe vuole egli, che ſieno il fuoco, e l'acqua,
perchè egli non ne ſpiega lor natura? ne baſta in ciò ſolamente dire eller il
fuoco valevole a dare il movimento; perciocchè ben do veva egli più avanti
ragionando ſpiar la cagione del movi mento delfuoco, e ricercarminutamente
diche egliſia compoſto, e chedifferente il faccia dall'acqua: e queſte coſe
ritrovate riporle poi per principj delle coſe, come quelle, onde tuce'altre
vengono ingenerate: e non già il fuoco, e l'acqua, che non ſon primieri
nell'ingenerare. Ma mentre egli con l'uſata ſua traſcuraggine di ciò niuna
briga ſi prende, certamente dall'acqua, e dal fuoco in quella guiſa, ch'e' ne
favella, nc huomo, ne altro animal K k niu i
1 niuno coinpiuto, ne coſa altra delinondo non ſe ne potrå comporre
giammai; econtraſtino pure, e ſi meſcolino quanto ſi vogliano l'acqua, e'l
fuoco tra cſſo loro, che poche coſe infra lor diverſe riuſcir ne dovranno:
licorne di due lole lettere dell’Abici non poſſono per rimeſcola mento comporſi,
fuor ſolamente, che due fillabe: conie da A, ed L: di cui altro, che LA, ed AL
non può for marfi. Macome potran mai riſtrignerſi cotanto, eammaſlarla le
particelle dell'acqua, che formar ſe ne poſſano, ecar ne, e oſſa, e nervi, e
cotant'altre fulde, e dure parti d'a nimali, e d'altre coſe del inondo? Ne ciò
può adoperarli punto dal fuoco; perciocchè egli nell'acqua altro far non può,
che le particelle diquella col ſuo movimento, che chiaman dilatante, ſempre
partire, e ſceverare, licome noicontinuo incontrar veggiamo: perchè l'acqua vie
più liquida, c diſcorrente, e rada ne diviene, non che s'am maſſi, e fi
riſtrigna in coſe falde, e dure. E alla fine ell2 dal fuoco cotanto menoma, e
faccil diventa, che ſe non, d'aria, d'un corpo all'aria ſomigliante, certamente
ella prende forma; ſenzachè l'acquanon può per troppo ſpa zio di tempo ritencre
il fuoco, e convien ſe calda ſi vuol mantenere, che continuo altronde quello le
venga ſom miniſtrato. Ma che'l fuoco,come s'avviſa Ippocrate, dall' acqua
nutrito fia, e perchè l'un l'altro vincer non poſla, ſciocco troppo lo mi
terrei, ſe perder tempo lo voleli in rifiutarlo. Vuole oltre a ciò Ippocrate,
che l'acqua fia fredda, ed umida,e'l fuoco caldo, c ſecco: e che'l fuoco riceva
dall'ac qua l'umidità, e l'acqua vicendevolmente dal fuocolas ſecchezzaze che
così eglino l'un nell'altro adoperando,le tante, e tanto varie forme, e
generazioni di ſemi, eda nimali vengano a produrre: e cotanto diverſe infra
loro, che ne quanto all'apparenza, ne quanto alla lor virtù hā nulla di
ſomigliante; perciocchè non iſtando giámai l'ac qua, e'l fuoco nello ſtato
medeſimo: e ſempreinai cam biandoli, e diſcorrendo, forza è, che le coſe, che
da lor 1: fi ſeparano, eli producono,diſſimiglianti oltremodo rie? fciano. E
certamente, com'e' diviſa, niuna coſa del mon do non muore, nc ſi fa quel che
in prima non erazma me ſcolate inſieme, e partite ſi cambiano le coſe: come chè
giudichi alcuno, che da Pluto per accreſcimento tratto venga alla luce, e ſi
crii: e altro incontrario,che dal la luce per iſcemamento a Pluto giunto ſi
diſtruggage dice poi,che nó ha dubbio veruno, che fia più toſto da preſtar fede
agli occhi, ch’alle opinioni, o pareri degli huomini. Reca eglipoi di ciò la
pruova, dicendo animali ef ſer queſtie, quelli, e non eſſer miga poſſibile,
ch'uno ani mal ſi conſumi, non con tutti: conciolliecoſachè chi po tri mai
diſtruggerlo? ne può ingenerarli giammai quel che non è, non avendovicofa
alcuna,che non ſia, onde poſſa ingenerarſi;mabé s'accreſcono tutte coſe,e li
meno mano a soma grādezza,e picciolezza in quanto egli ſi può: e quinci
s'ingenera, e muore alcuna coſa. Indi egli ſpiega in grazia del Vulgo, che lo
ingenerarſi, e'l corróperli del le coſe altro non ſia, che'l meſcolamento, e lo
ſcevera mento. Ma più avanti facendoſi dice, che lo ingenerarſi, e'lcorromperli
la medeſima coſa ſieno: e'l medeſimo pa rimente il meſcolamento, e lo
ſceveramento: e che lo i13 generarſi altro che il mefcolamento non fia: el
corrom perſi, e'l menomare altro non fit, che lo fceveramento: e che ciaſcınıa
coſa ſia la medeſima, che l'altra: e tutte lien uno; e in queſte sì fatte
coſedice egli l'uſanza eſſer con traria alla natura; ma ſpartamente ciaſcuna
cofa, o ſia di vina, o umana,ſufo, e giuſo vicendevolmente, giorno, e notte,
più, o meno traſcorrere. Indi fiegue egli a di se il fuoco, e l'acqua hanno
avvicinamento; il Sole l'hà lunghiſſimo, e breviſſimo; di nuovo queſti, e noi
qucfti; la luce a Giove, le tenebre a Pluto: la lu ce a Pluto, e le tenebre a
Giove avvicinanſi, ecam ' bianſi quelle quà, e quelte là;d'ogni tempo paffano
quello coſe di queſte,e queſte di quelle; ne fi lanno quel che el leno medeſime
fi facciano, comeche faccian veduta di fa. perlo:ne ciò, che veggono,conoſcono,
ma in tutto ciò Kk 2 ogni coſa loro per divina neceſſità avviene, così in quel
le coſe, che vogliono, comein quelle, che non voglio no, perciocchè
accozzandoſi, e partendofi quelle quà,e queſte là, fra eſſo loro avviluppate, e
confuſe, ciaſcuna il preſcritto fato adempie. Or chi ſarà così da paſſione
accięcato, e imbard.ato, che manifeftamente non ravviſi in ciò, che rapportato
nº abbiamo, effer egli una ſtrania cervelliera, e poco men, che ſpiritata
colui, che ſognandolo lo ſcriſſe Ė non fico prende chiaro in cotanti
aggiramenti, ed arzigogoli, che Ippocrate parla aſſai di ciò,che meno intende?
e che nő ſolo coll'oſcurità delle parole vuol naſcădere la ſua dap pocaggine, e
ignoranza; ma anche farne cotanti Calan drini:e tenendo lo ſciocco vulgo in
parole, il qual fem premai coſtuma di pregiare aſſai più ciò che non gli èma
nifeſto, darne conmaraviglia a divedere ch'egli delle co ſe della natura
oltremodo conoſciuto ſia. Egli è ben ve ro, che molti anche di coloro, i quali
letterati ſtimanſi,há creduto, o moſtrato di credere, che in queſti riboboli,
cd enimmi d'Ippocrate, e in altri ancora, che largamen te ſon ſeminati entro i
libri tutti della dicta, e in quel del la vecchia medicina, edell'alimento,
ch'egli tutti i più naſcoſi, e pregiati miſteri della medicina, e della filoſo
fia abbia deſcritti; e non ha guari che'l Tacchenio nel ſuo Ippocrate chimico
ſi è ſtudiato con queſto libro di darne a divedere eſſere ſtato Ippocrate un
valentiſſimo chimi co. Ma ritornando a ciò, che diciavamo, lo m'avviſo, che
Ippocrate ciò trovaſſe ſcritto in qualche libro d'alcú di quelli antichi
filoſofi, i quali ſolevano cosi vezzatamé te favellare:e che poco cgli
incédédoiſentiméti di coloro, così ſconcj, e guaſti l'abbia portati, in quella
guiſa,che fileggono; e tanto più, chemoſtra,ch'egli confonda in ſieme, e
meſcoli due ſiſtemi di medicina, e di filoſofia fra ello loro contrarj; da che
egli dopo aver portati que? due primieri principj delle coſe, avvedutofi forſe,
che non baſtavano, parla poi non altrimenti, che ſtabilito aveſſe in prima, che
ciaſcuna coſa in ciafcuna coſa ſia, nella maniera appunto, che ſi accennò nella
cenſura del libro della vecchia medicina; perciocchè e' dice, che nul la ci
s'ingenera di nuovo, ma sì ſi meſcolano inſieme le parti, e compongono le
coſe,e lefan grandi,ne alcuna co fa li muore al poſtutto, mà ſparpagliandoſi, e
dividendo ſi vien meno. Coſa, la quale non può intenderſi in verű modo di ciò,
ch'aveva egli in prima detto; perciocchè ſe l'acqua, e'l fuoco i principj ſono
dell'huomo, meſcolan doſi queſti, e accozzandoli a formar l'huomo, non ſe ne
potrà certamente altro naſcondere, che l'acqua, e'l fuo co medeſimo,prendendo
ſembianza delle parti dell’huo mo, com'e' dice; ma non già le parti dell'huomo,
ciò ſo no carne, offa, nervi, e altri membri di quello, eſſendo ci in prima,
comechè appiattate, e naſcoſe, nel meſcola mento dell'acqua, e del fuoco ci ſi
laſcino poi di preſen te vedere; ne partendoſi poi l'acqua dal fuoco, e guaſtā
doſi il lavorio dell'huomo non diverrà ne la carne,ne l'ol fo così menoma, e
tritolata, che non ſi parrà; ma tutta la carne, e tutto l'oſſo diverrà acqua, e
fuoco: e queſti che in prima non apparivano, manifeitamente nelloro.ſcioglimento
poi ſi vedranno. Si pare adunque,ch'e ' vo glia dire eſſer nell'acqua le
particelle, chc chiaman ſimi lari, ma così menome, e ſottili, che non ſi poſſan
per huom ravviſare: le quali poi rannodate, o ſciolte dal fuo co, compongano, e
guaſtino le coſe. Ma ſe pur queſto cgli volle intendere, comepotrà mai il fuoco
le particel le dell'acqua colla ſua forza annodare, ſe il movimento è
dilatativo, come dicono, e ſempremai ſcioglie, e parte? Convenivaadunque, che
Ippocrate altre, ed altre ragio ni ne recaſſe, le quali ciò poteſſer operare.
Ma concedaſi ciò pure a lui: non perciò l'acqua,c’lfuoco, ma le par ticelle
ſimilari ſarebbon da dir principi delle coſe. Ma cadendogli dalla memoria ciò,che
poco anzi egli detto aveva, ricorre di nuovo all'acqua, eal fuoco: e in
favellando dell'anima dell'huomo,non mçno ſciocco,che empio, e miſcredentc,dice
quella ancora, come tutt'altre coſe, eſfer d'acqua, e difuoco compoſta. E
tante, e tali sono le ſue ſcempiezze, e mellonaggini neʼlibri della die ta, che
lungo ſarebbe ad una ad una narrarle. Ma trapaſſando all'altre ſueopere,
contende il Vale riola, e con luianche ſi conforma il Cardano, non eſſer
d'Ippocrate illibro intitolato mei quoär, overo degli ſpia riti groiſi, o
vizioſi: peralcuneſciocche, e falſe dottri ne, che in quello s'avviſano, e
altre ancora contrarie a quelle, che in altri ſuoi volumi egli divisò, Ma fe
tale oppofizione aveſſe luogo, converrebbe certamente con dannar come non ſue
l'opere tutte, che ſotto il fuo nome fi leggono; perchè è da dire, che poco
ragionevolmente aveſſe perciò cotal libro ilValeriola colto a lppocrate;ma
Galieno, comeche in quel libro vi ſien diviſamenti poco a' ſuoi pareri
conformi, non però di meno riconoſcendo lo egli d'Ippocrate, il reca ſovente in
concio di qualche ſuo ſentimento. Sembra certamente il libro miglior per
avventura di tutt'altri,chc intorno a ſomigliante materia aveſſe mai compoſto
l'autore; imperciocchè ha egli ordi ne, e qualche forte di chiarezza: e moſtra
fovente, che l'autore intenda bene ciò, che ſi dica. Vuole egli in eſſo darne a
divedere, che tutti mali, che n'avvenge:10, da una ſola cagione ſi dirivino;
comeche per li diverſi luo ghidelcorpo, ove n'aggravano, diſſomiglianti affai
ne ſembrino. Tutti corpi, eglidice, così dell'Iruomo,come d'altri animali,del
cibo,dello fpirito, edel bere ſi loſten tano. Gli ſpiriti, che ſono entro il
corpo, vengono da Ippocrate chiamati quoca: e quello, che è fuora del cor po
aveõua cioè: a dire, aria. L'aria fecondo Ippocrate ha grandiſſima parte fra le
coſe, che accaſcano alcorpo: ed è donna, e lignora del tutto. Indi egli
lungamente fopra quella ragionando, dice delle fue gran virtù, ed opere,
Itabilendo in prima qualche ſentenza; la quale preſe 2 gabbo dal Valeriola n'è
moſtra a' di noſtri per ve re dalle maravigliore, c fommamente comincndevoli of
fervazioni de’noftri moderni. Dice egli, che tutto ciò she fra’l Cielo, ela
terra s'interponeſia, da ſpirito ingôn bro: e che lo ſpirito cagioni il verno,
e la ſtate: e che'l corso della Luna, e delle Stelle per lo īpirito facciali: e
che lo ſpirito alimenti ilfuoco, intanto che ſenza quello non poſſa il fuoco
più vivere: c che l'aria ſottil perpe tua purimente perpetuo mantenga il corſo
del Sole. E oltre a ciò avviſa Ippocrate ritrovarſi achcin mare lo ſpio rico;
perciocchè ſe quelnon vi foſſe, dice egli, che i pe ſci non potrebbono in niun
modo vivere; concioſliecola chè non participerebbono dello ſpirito dell'acqua
traen dolo. Aggiugne di vantaggio effer la terra fondamento dell'aria,c queſta
veicolo della terra: ne aver coſa niuna al mondo vuota di quella: e quella
ſolamente eſſer cagione a noi della vita, e diciaſcuna malattia, che n'avviene;
intanto che avendone meno infra bricve ſpazio di tempo ciaſcun ſi muore;
perciocchè ben può ciaſcuno ſenza ci bo, o beveraggio alcuno viver qualche
giorno: ma non già ſenza ſpirito; e ben poſſiamo poſando ceſar di tutte noſtre
operazioni, comechè menome, e brievi elle ſieno; ma non già del reſpirarc. E
quinci egli vuol trar conſe guenza, eſſer molto ragionevole, che ficome la
morte, così anche le malattie tutte dallo ſpirito n'avvengano, e che quello
calor compreſo, e putrefatto da altre cagioni diſcorrendone per lo corpo
n'offenda. Quindi egli co minciando dalle febbri và diviſando, ficome ciaſcun
ma le dallo ſpirito ſi formi: e tutti minutamente gli anno vera. Ma un sì fatto
liſteina, perchè ingegnoſo fia, e conte gna in se qualche coſa di ragionevole,
non però di meno, generalmente ragionando, falſo affatto, e inveriſimiles eſſer
fi ſcorge; concioſliecoſachè quantunque grande fia il biſogno, chedell'aria
abbiamo, non è perciò quel a ſo la, che ne mantiene, e ne nutrica: ma l'acqua
ancora al noſtro vivere è neceſſaria, e altre molte coſe, così den tro, come
fuora del corpo; le quali, o mancando, oſo verchiando, o alterandoſi, non men
dell'aria medeſima cſfer poſſono a noi cagion di malattie. Nemeno al preſente è
da tacere, come cotal ſiſtema di medicina s'appoggi a'divilainenti, i quali non
cheda Ippocrate foſſer provati, anzi dalvero talora manifeſta mente appajon
lontani. E comechèalcuni di loro ne sém brino aver qualche ſembianza divero;
non però di meno fon da lui con parole non propie, e ambigue a bello ſtu dio
inviluppati, e adombrati; acciocchè aggiugnendo noi con malagevolezza, e fatica
a ritrovarne il coltrutto, da quelli poi prendeſimo argomento di giudicar
talijan zi maggiori gli altri ſuoi ſentimenti ſciocchi, e vani, com poſtida lui
per uccellarne maggiormente. Ma ſe lo ſpirito,ſecondochèIppocrate così
liberamen te afferma, è colui, che ſignoreggia, e governa ciaſcuna coſa del
mondo, e che la vita, e la morte ne porge: per chènon iſpiega egli poi, ficome
certamente fargli con veniva, come, e con quali artificj tante maraviglie quel
lo adoperi? e perchènon ragiona della natura di quello, e diquell'altre
ſoſtanze, che, come e' dice, imbrattan dolo, e inſuccidandolo cotanto a
noinocevole, e peſti lenzioſo il rendono? E per avventura gran ſenno egli fe a
non addoſſarſi cotanta briga; perchè è da dire, che ciò egli non ſappiendo, non
potrà certamente mai la natura, e la generazion delle malattie per sì fatta
ſtrada incoglie re; e ſeguentemente gli argomenti ancora, come a quel le da
proveder ſia non ſaprà. E quinci avvien poi, che ne men di que’mali, cheper
compreſſion dell'aria vera mente n'avvengono, no mai egli coſa alcuna di ſaldo
rap porta; perciocchè non ſappiendo egli la natura dique'cor picciuoli,da cui
compreſso lo ſpirito quella generazion di febbre cagiona, la quale,
com'eglidice, è tutta comune, e appellati peſte: ſenza dubbio non giugnerà egli
giam mai a penetrare gli effetti tutti, che da quelle diverſame te provengono,
e le varie maniere, colle quali ciaſcuno animale offendono. E ſe egli non cura
d'inveſtigare altre si quali ſoſtanze ſieno quelle, che s'accompagnano collo
ſpirito allor che racchiuſo entro noi ne muove la colica,o altri ſomiglianti
mali, come ne potrà egli mai compiuta mente ragionare: o donde trarrà egli gli
argomenti da porvi ragionevol conſiglio? Ma ſe le ſoſtanze, che collo ſpirito
-meſcolanſi, ſon ca gion di cotante malattie, come potralli eglia buona ragić
dire, che lo ſpirito medeſimo, enon più toſto quelle ciò adoperino? perchè è da
dire, che ſtabilendo Ippocrate it ſuo ſiſtemà, alla prima v'abbia dato di becco,
e vi ſia infe liceinente fdrucciolato, dicendo eſſer l'aria cagion del. le
noſtre malattie, e non più toſto le varie, e diverſe for ſtanze, che per quella
diſcorrono, e collaria inſieme en trano ne'noſtri corpi: quali ſono molti ſemi,
e animaletti, chę ſovente fi ravviſano, così nelſangue, come nell'altre parti
liquidedi noie, le rendono mal'acconcc ad adem piere i loro uficj: e fermandoſi
talora o nel cuore, o nell? altre parti ſalde del noſtro corpo in molte, e
molte manie re le moleſtano; ſenzachè ſon nell'aria varie, e varieme nomiſſime
altre ſuſtáze da'vegetali, e da’ıninerali corpia quella mandate: alcune delle
quali, quando di ſoverchio vi diſcorrono, fannofi anoi per opera dell'odorato
ſentirez e l'avvedutiſſimo Elmonte intorno a ciò narra chente, es quali
ritrovate egli n'aveſſe una volta in una tela ſtata al quanto appiccata al
merlo d'un'alta torre; perchè egli for: te fi maraviglia,come noi che continuo
le beviamo, lunga mente viver poſſiamo ſenza nocimento alcuno; ma non aya visò
egli eſſer ancora nell'aria molte, e molt'altre ſoſtanze a noi giovevoli,le
quali certamentepoſſona'dannidi quel le riparare. Ora in queſte,e in ſomigliati
oſſervazioni cõveniva, che il buono Ippocrare tutto il ſuo ſtudio
impiegafle,ricercan do diligentemente le vere cagioni della peſtilenza, accioc
che prender vi dovelle convenevol riparo: e non fare il pancacciere con lunghe
dicerie, e vane, e inutili fraſche tenendone a bada in quel ſuo fainoſiſſimo
libretto,ove egli lungamente ragiona degli ſpiriti. Ma lalciãdo alpreséte ciò
da parte ſtare,quáto Ippocra te manchevole, e difettoſo ſia ſtato in queſto ſuo
nuovo ſi ſtema di medicina, ſi può agevolmente conoſcerc in ciò, che cgli della
febbre và diviſando. Dice egli, che allor che diſoverchio empieli il corpo di
cibi, ingencranfi in 1. 1 130i 266:: noi grandi ventolit, le quali non
potendoper lo ventre di ſotto uſcire per ritrovarlo chiuſo, ruggiando per ic bu
della diſcorrono all'altre parti del corpo, maſlimamente a quelle, ove ſerbaſi
il langue, e sì l'infreddano, e'l fanno intriſire. Or come domine potrà mai
dentro de' ſuoi vaſi infreddare il săgue plo ſpirito che è nelle viſcere? ma
egli ingannofi forſe Ippocrate avviſando il ſanguc tratto dalle. vene, il qual
per l'aria di fuora divicn freddo. Ma che che ſia di ciò, davcva ben
egliconſiderare non potcrne in mo do alcuno raffreddare il ſangue dentro alle
vene l'aria, in che di verno crudo, e rabbruzzata dalle nevi, comeche continuo
ne circondi, e continuo da noi fi reſpiri. Erra ancora grandemente Ippocrate in
dicendo, che'l ſangue dall'orrore, e dal treinore fopravegnenté intimo rito ſi
rifugga alle parti più calde del corpo: ove poi ſi ri ſcaldi, e ſiraccenda per
maniera tale, che anche l'aria me delima, che prima infreddato l'aveva,nc
divenga calda; e sì amendue ftraboccheyolmente affocati riſcaldino cutto il
corpo, e'l faccia febbricoſo. E certaméte in ciò egli ragio nando, molto
ſconciamente s'ingāna;perciocchè,le, come egli confeffa, il caldo tutto al
corpo dal fangue fi cagio. na,come potrà mai infreddato il ſangue niuna parte
del corpo rimaner calda; anzi treinerà egli per tutto, e diver rà ghiaccio,
come cantò l'antichiſſimo fiorentin Poeta. Qual'è colui, c'ha sì preſſo il
riprezzo De la quartana, c'ba già l'unghiaſmarte, E triema tutto purguardando
il rezzo. Ma, ſicome egli s'avviſa, rimangano pur calde l'altre parti del corpo,
nedall'infreddardel ſangue fi mortifichi no; non mai tanto però faran vive, e
affocate, che vale voli ſiano a raccender l'agghiacciato ſangue, e ſvegliare in
quello un sì rabbioſocalore,qual ſenza fallo è quel del la febbre. Ma troppo
nojolo lo nc verrei, ſe tutti minutamente raccontar voleſſi gli errori
d'Ippocrate intorno a sì fatto ſia ſtema; perchè rimanendomi al preſente di più
ragionarne trapaſſerò a quell'altro ſuo ſiſtema di medicina cotanto ICITU 1 1 1
eenuto in pregio, e commendaco dal luo chiòfator Galie no, che nulla più: di
cui cotanti filoſofi, e medici in ragioz nando, e in iſcrivendo ſi ſon valuti,
e tuttavia li vaglionoj che ſembra omai ſconvenevoliſſimo, e indicibil fallo il
mu* farvi contro, non che manifeſtamente abburattarlo. E queſto ſi è il
diviſamento, ch'e'fa nel libro della natura umana; il qual libro non può
recarſi ir dubbio,che-d'Ip pocrate verainente non ſia, in ciò che, come
faggiamente avviſa, e argomenta Gilieno della teſtinonianza di quel lo ſerviſſi
più volte Platonc; e ben può per quello chiun que n’abbia talento
agevolmentecomprendere,fin’a quá to d'Ippocrate ſi ſtendeſſe l'intendimenco,
ela valoria, co sì nell'inveſtigar le coſe della natura, come in altre, ed ala
tre coſe alla medicina pertinenti; e coincchè per Galien ſi contenda eſſere
ſtato verannénre Ippocrate il pri:11 ) ittle tore, e inventore d'un sì fatto
ſiſtemi; noa però dimeno per teſtimonianza delmedeſimo Ippocratc apertimento
ciò eſſer fa ſo s'avviſa; concioſliecoſachè rapportandolo egli nel libro della
vecchia medicina manifeſtamente na ragiona, come di dottrina da altri già prima
di lui ricrova ta, einſegnata;anzi nel medeſimo libro della natura un la 112
agevolmente per ciaſcun ſi può comprendere, che Ip pocratc,non come di ſuo
propio diviſamento ne ragionin. Miche che fadi ciò tralaſciandolo digiudicar
noi al pre ſente, darem cominciamento dal titolo dellibro così an pio, e
inagnifico, che nulla più; e certamente cilcuno abbattédoſi nella prima faccia
nel libro deci puoi cvJpurs, ſcaglierebbeſi tolto a leggerlo, e a volerne
imprender con ingordigia tutto ciò, ch'e defidera: giudicando, ch'un si
valentemedico, e filosofantc, qual Ippocrate comuneiné te ſtimaſi, verainente
trattata l'aveſic, licomealla propo fta materia ſi conveniva: cche,comegià
Marco Tullio del divino Democrito, il quale nel cominciuniento d’un ſuo libro
ſcritto aveir, b.ec loquarde univerſis, ebbe a dire nit excipit de quo non
profiteatur, così d'aſpettar foile d'Ippo crate, chenulla già quivi tralaſciato
aveſſe di quanto alla natura umana s'appartiene. Ma tolto egli del.no avviſo LI
2 folier [ chernixo, e beffato
rimarrebbeli,vedendo in quante brico vi parole fuggendo Ippocrate traſcorra
tolto una così ma lagevole, e così vaſta matcria; e ciò, che è affatto impor
tevole in lui, che cotanto nella brevità dilettoſli, egli è il libro più ricco
aſſai di parole, che dicoſe; anzi di poco falla, che tutto parole egli non ſia:
e quelle pochiſſime coſe, che vi ſono, così ſconce, e ſenza ragione ſi portanto,
opure con cosi vani,e fanciulleſchi ſofiſmiintralciate, che nulla di ſaldo vi
ſi può per huom giammai apprendere. Egli dice primieramente Ippocrate con lungo
aggira mento di ciarlc, che alcuni giudicavano eſſer l'huomo ſo lamente una
coſa; ma, che coſtoro tuttimal certainente comprendevan quello, di cui
favelſavano, e che perciò di verfâmente l'andavano ſpiegando; concioſlīccofachè
quá tunque ciaſcun di loro concordevolmente diceffe, tutte co ſe, che ci ſono
eſſer una, e queſta medeſima effer una a tutte; non però di meno diſcordavā poi
oltremodo inſieme in dando a quella nome; perciocchè altri dicevano eſſer aria,
altri fuoco, altri acqua, e altri terra. Soggiugne egli poi, che ciafcun di
coſtoro recava teſtimonianze, e ſe gni, ma di niuna lieva, in concio del fuo
ſentimento; e che tenendo tutti la medeſima opinione, e contradiandoſi nel le
parole, davan manifeſtamente a divedere, che niun di Loro ſapea veramente la
coſa; e che ciò parimente ſi ſcor geva ili vedendo tutti coſtoro nel lor
continuo piacire, che tratto tratto facevano, non mai per tre fiare continové
riu fcir dalla battaglia i medelimi: maoruno, or altro eſfer il vincitore,
ſecondamente che ben parlante egliera, edat popolo tenuto in pregio. Conchiude
alla fine Ippocrate, chuom, che di coſe vere, e da ſe ben conoſciute faceſſe pa
role, ſempremai dalle conteſe con vittoria uſcirebbe; o che ſembra a lui, che
coſtoro piatiſfer con parole più per iſocmypiczzi, che per altro; perciocchè
tutti alla per fine convenivano infra loro nel ſentimento di Mcliffo. Ma
Galicno chiofando queſto luogo d'Ippocrate, con ' gran pompa di parole forte fi
maraviglia, una sì fciocca credenza eller caduta nell'aniino di
que'filoſofanti, i qua live Si venivano in sì fatta guiſa a coglier via la
contemplazioni delle coſc naturali, mindando a fondo la vera filoſofia. Ma
ftiaſene pur con pace Galieno: non ſembra per Dio, che con sì fatto
cominciamento prometter ne voglia Ippocra te un trattato beir lungo della
materias ch'egli imprender a ragionare, e quale appunto quella richiede?
mapoinon trapaſſando oltre a divifarne, par che ne vogliamanifeſta mente
uccellare, laſciandone affatto digiu ni della mate ria, ne inſegnandone coſa
alcuna di lieva. Ma ſi per doni queſto pure a Ippocrate: qual ſi foſſe
veramente las ſentenza di que’valent’huoinini, Io nonmidarò al prelen te curz
niuna d'inveſtigare; tanto accennerò, che eglino tutti una medeſima coſa
dicevano: e cheniun di loro giu dicava, che o l'acqua, o la terra, o l'arir,
o'l fuoco foſſe principio delle coſe dell'Vniverſo:ne di ciò mai fu conteſa
infra loro, comeſcioccamente giudicano Ippocrate, e Ga licno; ma ſolainente
eglito piativano, e andavan confide rando di qual faccia veſtiſſe l'univerſo da
prima, allor,che fu fatto ilmondo,ſe d’acqua, o di fuoco, o d'aria, o di terra.
Ne laſcerò d'accennare quanto vana', e ridevole fia la ragioneper Ippocrate
recata; concioſſiccofachè chiſa rà colui, che manifeſtamente non ſappia,che nel
piatir de? letterati huomini, maſſimamente appreſſo il vulgo, non mai vincer
foglia colui ', che ſa ben la coſa, e che dice vero: ma colui, che meglio con
vaghe', e ben ordinate dicerie Ja fa colorare: eche il più delle volte nelle
conreſe ne ha ſempre la miglior parte l'ignorante, e'l ſofiſta,come ilme deſimo
Ippocrate ancor rafferma? Macome que’valent" huomini porevan mai eſſer
d'accordo colla ſentēza di Me liffo, il qualnon diterminò mai il principio
delle coſe nx turali, fe eglino, comc Ippocrate racconta, il ditermina vino Ma
che che ſia di ciò, Io per me immagino, che te neſſer veramente eglino la
ſentenza di Meliſſo, come Ip pocrate dice'; ma ſe ciò era, a torto certamente
da lui fur biaſimati: dicendo egli, che coloro determinato aveſſero il
principio delle coſc qualli foſſe, con chiamarlo o arias, o acqua,o fuoco, o
terra; ſe pure non vogliam dire, che Ippocrate veramente non intendeſſe ciò che
que’valent huomini fi diceſfero, it che fe ben li conſidera, il fue vellare,
che in tutto il ſuo libro ne fa Ippocrate, ſembra nel vero più ragionevole. Fin
qui e' fi pare, cheIppocra te abbia de'filoſofanci ſoli favellato: ora ſe'n
viene egli a’ medici, e dice, che alcuni diloro affermavano non alira cola, che
ſangue eſſer l'huomo; altri eller quello ſolamen tecollera: ed altri ſolamente
flemına; perchè dice egli che coſtoro imitavaro que’hiloſofi dalui in prima
raccon tati, tenendo uno eſſere il principio dell'huomo, e chia mandolo col
nome, che più lor veniva a grado, o di colle ra, o diflemma, o di ſangue, e che
quello dalcaldo,e dal freddo a cambiar fi venga in ſembiante, ed in virtù, e di
venga, e amaro, e dolce, e bianco e nera, cd ogn'altra.com fa. Soggiugne
indiappreſſo Ippocrate, che molti, emol ti così dicevano, e che altri, ed altri
dicevan parimente coſe da queſto non guari lontane. Or quinci ſi vede chia
ramente chenei,cqualiſi foſféro anche ne tempi d'Ippa crate infraʼmedici le
conteſe; perchèmoſtra veramente, che da ſe ſteffa la medicina altro non ſia,
ch'un fertiliffi mo campo, che litigj,piati, e diſcordio ad ogn'ora pro duca.
Ma riprova Ippocrate si fatte opinioni con quell'argo mcnto cotanto per Galienu
ammirato, e celebrato, che nulla più: ſe una coſa fola, dice egli, l'huomo ſi
foſſe non verrebbe certaméte eglimzi a dolerſi:imperchè nó aureb be egli donde
venir gli potefíe il dolore, per eſſer ogni coſa una ſola coſa; e fe pure
l'huom mai li doleffe, convera rebbe ſenza fallo, che uno ſi forre il rimedio,
coʻl quale egli guarir doveſſe; ma in farti va altrimenti la biſogna. Micomechè
nella prima vista ogn’un ch’abbia punto d' intendimento avveder ſi poſa della
vanità di sì fatto argn mento, pure ne farem noi qualche parola'; ma veggiani
prima ſe contro coloro, a'quali par propiamente indiriz zato, coſa alcuna egli
conchiuda. lo permeavviſo, che que'buoni medici nulla curar fi dovettero mai di
sì tutte ciuffole, ed anfanie, imperciocchè eglino tenevano, che 1 1 1 o'l
fangue, o la collera, o la flemma ſia quelprincipio prof fimo, cioè donde
iminediatamente s’ingeneri l'huomo:ma che ciaſcun di eſli venga poicompoſto da
quell'altro pri mo principio, del quale l'altre coſe del mondo tutto fatte
ſono; e che queſto foſſe ſtato lor ſentimento ſcorger fi puo te chiaramente
dalle parole, chc Ippocrate medeſimo di lor riferiſce allor ch'e'dice, che eſi
volevano, che o dal ſangue, o dalla collera, o dalla flemma ſi-cagioni l'amaro,
e'l dolce, e tutte altre coſe, che nell'huomo li ravviſano; or comenon può
agevolmente l'huomo,tutto che di ſana gue ſolo formato e' li foffe, ayer
cagione di dolore dall'a. maro, dal falſo, dall'acetoſo je da altre, e altre
coſe, co mechè eſſe dal ſoloſangue ſi foſſero ingenerate?ora a que. fte tante
cagioni de’dolori non fa egli meſtieri, che con più d'uno rimedio li ripari: e
ſe in ſentenza di que'valent'huo mini nelle vene altro non è, ſalvo che o ſolo
ſangue, o ſo la flemma, o ſola collera: potrannocertamente rondime no nelle
vene ſteſſe, o dal fangue ſolo, o pur dalla flem ma; o dalla collera., ed oltre
a ciò nello ſtomaco da'cibi molte, e molte coſe parimente di diverſa natura,contrarie;
e moleſte all'huomoingenerarfi, che potranno ſenza fallo elfer cagioni di
dolori, e di varie; e varie generazioni di malattie, le quali certamente con
altrettante medicine di fcacciar ſi convengono. Egli doveva adunque provar
Ippocrate primicramentes che dal ſolo ſangue, o dalla ſola flemma, o dalla
collera, fola,nientealtro,che o ſangue, o flemma, o collera inge: nerar fi
poffa; il chein niun modo fa egli, e ne men fare veramente il potea:
concioffiecofachè favellando ſecondo i medeſimi ſentimenti d'Ippocrate aurebbon
potuto dire que'medici, il ſangue, la flemma,e la collerà eſſer non ſemplici,
ma compoſte coſe di que'quattro corpi, che Ip pocrate vuole, che ſiano i primi
principj; e come tali ben poter eglino in varie, e varie forme cambiarſi; ed in
vero fe le varie, e varie ſoſtanze onde l'huom ſi nutrica, come dovetter fenza
fallo conoſcer que'valent'huomini, non ſo: no di ſangue formate, e d'eſſe
nondimeno s'ingenera il sangue, convien neceffariamente dire, che varie, e
varic coſe che ne meno han ſomiglianza niuna col ſangue, fi pof fan dal ſangue
parimente ingenerare; e cosi ſomigliante mente della collcra, e dellaflemma
aurebbon potuto co loro filoſofare, Ma aurebbe poi per avventura riſpoſto un di
que'filo ſofi, che Ippocrate s'avviſa parimente colla ſua ragione di riprovare,
chel'aria ſola col riſtrignerſi, e coll'allargarſi, e con altri, e altri
movimenti delle ſue particelle valevole fi renda a ingenerare, e ſangue, e
carne, e oſſa, e nervi, c altre, e altre parti cosìſalde, come diſcorrenti
dell'huo mo, e che ſimiglianteméte coʻmedefimi ſuoi vari moviine ti cagionar
poſſa mole’altre generazioni di varie altre lo ftanze, onde ricever poi debba
l'huomo non una, ma più, e più cagioni di dolori, e di malattie, alle quali
faccian, meſtiericotantialtri medicamenti per ſuperarle. Ma cer tamente Meliſso,
e gli altri buoni filofofanti, i quali fole lemente ſi fa a credereGalieno
ch'abbia Ippocrate vinti, direbbono, che non ſolo veramente uno ſia il
principio.di tutte coſe, cioè il corpo: ma che ſe uno il principio non foſſe,
non ci ſarebbe ne dolore, ne malattia, ne rimedio alcuno giammai, e che a fare
diverſità di inali, e di rime dj altro non vi ſirichiegga, che l'eſſer
quell'uno corpo di verſamente ſtritolato, e partito: lecui ſottiliflime
particel le di tante, e sì varie figure compoſte, ſolamente in ciò dif
feriſcano. Mimaraviglio poi oltremodo di Galieno, il qualnon s'avvede,ciò che
impugna Ippocrate eſſer crede za d'Ippocrate medeſimo; ma ciò che nedee recar
vcra mente più maraviglia, ſi è ch ' una tal opinione dallo ſteſ ſo Galieno
vien tenuta in tutte le ſue opere, e particolar méte nelle chioſe di queſto
medeſimo libro.Ma Ippocrate dopo aver recata la ſúdetta ragione folleméte
dice,checo lui ilquale porta opinione, che l'buomo ſia ſolo ſangue, debba
mo& rar, che'l ſangue non muti ſpezie, ne ſi cábj in varie, e varie
maniere,c allegnare almeno un'ora ſola dell' anno, o qualche età dell' huomo,
nella quale non altro che ſangue in eſſo lui fi ravviſi, e ſimilmente dice egli
degli altri. Ma perdonifi ad Ippocrate il non oſſervar lui l'ordi nato
diviſamento nel favellare, avendolo egli ſempremai per coſtume: Io l'addimando
in prima, perchè ſecondo lui la collera, il ſangue, e la flemma, e la
malinconia nel comporre varie, e varie parti dell'huomo, poterono sì be no
cambiar natura: e cambiar non potralla ciaſcuna di lo ro ſeparatamente? e
s'egli riſpondeſſe, che non già col cambiar natura, macol ſolo meſcolamento
quelle parti formarono, lo gli ritorno a dire, che non mai col ſolo
meſcolamento quattro corpi a far mai valevoli ſaranno tá ta, c tanta varietà
dicoſe; e addurrei per eſemplo, che quattro lettere dell'alfabeto col ſolo
meſcolarſi pochiſſi me ſillabe arrivano a formare. Ma ſe que’mcdici diceſſe ro
eſser un di que'loro umori compoſto de quattro corpi d'Ippocrate, come potrebbe
mai Ippocrate quelli impu gnare? ciò, che promette poi Ippocrate di fiar
vedere, che quelle coſe, delle quali egli compone l'huomo ſi trovino mai ſempre
nell'huomo medeſimo: Io per me non ſo, co me ſarà egli ciò mai per moſtrare?
Contende parimento Ippocrate non poterſi farla generazione da un ſolo princi
pio; recando perragione, che un ſolo principio non poſsa meſcolarſi. Ma
chiaramente ſi dimoſtra ciò che in pri ma lo avviſai, Ippocrate non miga
comprenderei veri se timenti di que'filoſofi; concioffiecoſachè un principio,
il quale abbia particelle diverſe tra di loro per figura, per grandezza, e per
movimento, con meſcolarſi clieno infra loro in varie, e varic guiſe,valevole
egli è certaméte ad in gencrar tutte coſe. Per far pruova poi maggiormente
della ſua ragione ſog giugne Ippocrate: ſe ne meno il caldo, il freddo,e l'umi
do, e'l ſecco,fe temperati eglino non ſono,non baſtano a far la generazione,
come aurà mai vigor di farla un ſol principio: Io per me non ſo, che ſorte
d'argomentar ſi ſia queſta d'Ippocrate; doveva certamente egli, il che mai no
adempie, provare in prima con efficaci ragioni, che di quclle quattro coſe il
tutto s’ingencri; e poi addurle per elemplo. E nel certo egli non ha dubbio,
che a lui avreb M m bon riſpoſto quei filoſofi, che clleno, comeche ten perate
ſi fingano, non poſsano in niun modo ciò fare, un principio ſolo a tanto bene
valevol' eſsere: ficomenes terra,ne acqua,ne pietra, ne aria, ne altre, e altre
coſe mol te poſsono formare una ſpada, un'elmo,una corazza, e tanti, e tanti
iſtrumenti da guerra, che'l ſolo ferro può fa re: imperocchè il ferro ſolo è
quello, il quale ricever puo te le diſpoſizioni neceſsarie a formargli, non
altrimenti il corpo, il quale in particelle, o ſia già diviſo, o divider ſi
poſsa, le quali ricever poſsano parimente varie, e varie grandezze, fito,figure,
eordine, può ogni coſa produrre, ne que quattro corpi d'Ippocratenel modo, che
egli va filoſofando, potranno mai ne anco un menomiſlimo gra nello di ſenape
giammai ingcnerare. Ma non altrimenti, che s'egliavuta già aveſse la vitto ria,
faccendo gran gallorìa trionfa il buono Ippocrate di quegli antichi maeſtri, e
dando a lor la ſentenzia finale co tro, determina temerariamente la quiſtione
con dire, che eſſendo la natura dell'huomo, e dell'altre coſe chente, e quale
egli ha diviſato, non uno ſia l'huomo: ma che ogn' una delle coſe, che lo
ingenerano abbia una cal virtù, che al corpo ella ha dato. Magodaſi pure
Ippocrate della ſua vittoria, e ne riceva l'applauſo da Galieno, il quale non
per altro certamente fa ſembiante di farne cotanta ſtima, ſe non ſe per
acquiſtar fede alle ſue opinioni; qual coſtu maegli parimente negli altri
autori tener ſempremai ſcor geſi, delle teſtimonianze de'quali ſe mai egli a
ſuo pro fi vale commendagli, che nulla più; ma ove poi cofa inſe gnino alle ſue
opinioni contraria, non ha villania, che ſi diceſſe mai a triſto huomo, che
lornon dica. Ma ripi gliando il noſtro diſcorſo, vuol egli intendere certamente
per le teſtè menzionate parole, che que' quattro ſuoi corpi ritengano il calore,
la fredezza, la ſiccità, e l'umidità nel corpo per loro ingenerato. Ma cotante
altre, che nell’ huomo ravviſanſı donde cglino naſcono? Dirà egli dall'
accénate quattro qualità;ma ſe altri ciò negaſſe,come glie le neghiamo noi,
come il proverebbe mai? Ma così ſcon ciaméte diſcorre Ippocrate p no aver
voluto mai volger 1. ſiad fi ad inveſtigar la natura di quelle ſue quattro
qualità; il che certamente al filoſofo, e al medico far ſi conviene,mal.
Gimamente ove imprenda a trattare della natura dell'huo mo: e dall'aver ciò
traſandato Ippocrate, avvien, ch'egli forte aggirandoſi immagini potere il
leggiero, e diſcorré te caldo quelle coſe operare,che a ſpiritual ſoſtanza ſola
mente convengono. Ma laſciam noi a miglior huopo il diviſar di ſomigliante
biſogna: ſoggiugne appreſſo Ippo cratc con lungo giro d'ozioſe ciance, che in
diſtruggendo fi l'umancompoſto, tutti e quattro i già detti corpi ſce
verandoſi, alla lor primiera natura ritornino; e ciò vuoľ anch'egli,chenel
disfacimento di qualunque altra coſawa avvegna. Ma le egli ficomea caſo, in
fretta, e ſenza niu no avviſo ſomiglianti coſe afferma, così foſſe andato a
poco a poco con ſagace diſcernimento diſaminandole, lo porto opinione, che in
cotanti errori non ſi ſarebbe lalciaa to così agevolmente traſcorrere;
perciocchè oltre alla Chi mica arte,altro ancora ne rende ſicuri, che quelle
ſoſtanze in cui nel lor disfacimento ſi riſolvono i corpi,ſiano non, miga
ſemplici, ficomee'vuole, ma compoſte. Paffa più oltre Ippocrate coll'impreſo
ordine a dir, che nel corpo umano viſia il Sangue, la Flemma, la Collera
gialla, enera,iquali umori ove ſiano con quell'ordinamen to, che ſi convenga,
l’huom viva in ſanità:mafe'l contrario avvenga e' toſto ammali. S'affatica egli
con lunghe dice ric di moſtrar, come poffan que' quattro umori tutte le
malattie ingenerare:maciò fa egli troppo groſſamente, e generalmente ne'dubbj
maggiori tacitamente paſſandoſe ne; e dopo queſto torna di bel nuovo alla
canzone dell' uccellino, che ſian quattro gl'umori de'corpi degli anima li, di
natura, e di nome fra effo lor differenti; la qual di verſità immagina egli di
ſtabilire, e poter ſaggiainente ar. gomentare dalla diverſità de'colori, e
dalla diffomiglian za del tatto, che ſecondo lui vi s'avviſa. Ma s'aveſſc egli
mai poſto mente a cotante coſe; ch'avendo un medeſimo colore fon di natura poi
diverſiſſime, e al contrario ad al tre, ch'avendo una medeſima natura han
colori aſſai di M m - 2 ver 276 Ragionamento Quarto 1 verſi, ſicome le Fraghe,
le Ciriegie, le Azzaruole, le Corniuole, eľVve, e i Fichi, certamente, del ſuo
ab baglio ſi ſarebbe avveduto. E più avanti dovea fomiglia temente avviſare,
che v’abbian parecchi, e parecchj altre coſe, che per poco artificio variando
grandeméte nel colo rela medelima natura pur ſerbano;licome della Cera, dell'
Ambra gialla,dell'Inceſo,delCorallo,del corno delCervio avvenire a giornate
ſperimentiamo;evidétiſlimo argomen to, che i vari colori non ſian buoni, e
fedeli teſtimonjdel la varietà della natura delle coſe. Ne la ragione il con
trario ne addita; imperocchè la varietà de'colori, non al tronde avviene falvo
che dal variamento del ſito, o della diſpoſizione della ſuperficie de'corpi, la
qual diverſamen te i luminoſi raggi riflette. Ma che domine cadde cgli in mente
ad Ippocrate allor che diſſe, che dalla varietà del toccamento, poſſano iva
rjumori diſcernergli E quale è mai quel divario, che mer cè della mano poſſa
avviſarfi, ſe tutti egualmente caldi fi ſperimentano, tutti egualmente nelle
vene, e nell'artcrie so diſcorréti. E da cotali lor vaſi uſciti eglino p la più
par te e'li rapprendono, e in una maſſa s’uniſcono, nella quale, poco, oniun
divario per lo toccamento può ſcorgerſi E ſe più avanti facendociconſidereremo
l'altra ragion pre ſa dalla varictà del calore, dell'umidità, della ſiccità, no
aurem di forza a confeffar, ch'ella più frivola aſsai, eri devol fia delle
prime, e che moſtri ben’appieno quanto egli sbalcſtrato in filoſofando
Ippocrate vanamente s'ag giri? concioſiecofachè, ſe negli umori non v'ha
ficcità, come potrebbeſi dalla ficcità la lor differenza conoſcerſi? e ſe
l'umidor del corpo altro non è, ſe non che la ſua di ſcorréza, c'l poterſi
agevoliéte ad altro corpo appiccare, ficome conſentir ſi dee da chiunque voglia
Tanamente fi loſofure, egli dourà concederſi, che tutti gli umori del corpo
umano egualmente fian umidi, dache tutti s'ap piccano parimente alcorpo
tangente, e tutti parimente ſon diſcorréti,e quanto al calore détro al corpo,
tutti ſono egualmente caldi, e fuor di quello tutti fimilmente dalla circonſtante
aria raffreddati vengono, o riſcaldati. Ma più avanti: ſe gli umori nel corpo
umano ſognati da Ippocrate, ſicome e vuole veramente ſi foſſero, e alcun di
elli, o calorc,o freddo eccitaffe, impertanto no potrebbe dirſi effer cotale
umore,o freddo, o caldo: imperocchè ſe o ſpina, o chiodo, o altra pugnente, o
doloroſa materia in alcuna parte del noſtro corpo violentemente ſi ficcarella
ſuol poco ſtante, e freddi riprezzi, e ardenti febbri ecci tare; e pur la ſpina,
il chiodonon per tanto, o freddi, o caldi potrà dirſi,chefiano. Finalmente ſi
sforza Ippocrate queſta varietà d'umori di Atabilire con conghietture tratte
dalle purgative medicine. Se medicina purgante la flemma, dice egli, ad huom da
raſli giammai, certamente fi vuoterà la flemma, e così pa rimente ſiegue a dire
dell’una,e dell'altra collera; e ſoggiu gne appreſſo: veggiam noi per ogni
ſcalfittura uſcir fuora il ſangue, e ciò in qualunque tempo, o d'eſtate, o
d'inver no, o digiorno, o di notte; ma ſe alcun primieramente riſpondeffe ad
Ippocrate, come per tacer de’noſtri, già fe rono i più valenti, e più celebri
fra gli antichi medici,non avervi medicina, che vaglia a vuotar determinato
umore, che mai incontro gli ſi potrebbbc per lui replicare? E a yo ler dire il
vero, lo ſtimo da non dover mettere in forſe, che Ippocrate niuna notizia
aveſſe delmodo, comeoperano le purganti medicine; che ſe mai di quello ſi foſſe
alquan to inteſo, forſe non gli ſarebbono dalla penna uſcite cotante fraſche, e
novelluzze; ne ftillato s'aurebbe il cervello per dimoſtrar gli errori in cui
credette eſſere tutti coloro chediſſero uno eſſer l'huomo,e non già dal guazza
buglio di sì diverfi umori compoſto: c pur egli non giunſe mai la mente di
que'valent’huomini ſanamente a compren dere, come chiaro dal medeſimo ſuo
diviſamento ſi fior ge. Credettero, dice Ippocrate, coloro uno effer l'huo mo;
perciocchè vedevano per le purganti medicine morir ſene alcuni con vuotarſi un
ſolo umore; perchè ſtimavano altro non eſſer l'huomo, che quel folo umore; ed
altresì dallo ſcorgere ſolamente ſangue nfcir a' decapitati,non esser altro
l'huomo,che ſangue; e per la medeſima cagione non mancò chi diceſſe eſſere il
ſangue l'anima umana. Or contro ad eſſi la vuole Ippocrate, e immagina di
gettare a terra tutti i loro argomenti, e opinioni, dicendo non mai alcuno
eſſer morto colla vacuazione d'un ſolo umore, ſenza tutt'altri eſsere
inſiemcmente ſcappati fuora; e vuol che quantunque volte huom prendendo
medicina purgante la collera ſe ne muoja, vomiti primicramente la collera, ap
preſſo la flemma, indi la malinconia, e finalmente il ſan gue di forza
ancordalla purgazione ſia tratto fuori, e ſo migliante avvenga nell'altre
purganti medicine. Ma chi quinci non iſcorgerebbe, che Ippocrate, o voleſſe
altrui uccellare, o ſcriver ciò che prima gli cadeſſe in penſiero, fenza
prenderſi briga di narrar gli avvenimenti diquegl'in fermi, cheper virtù delle
purganti medicine forſe a gior nate gli morivano nelle mani;e perciò anche
aveſſe a sì gra zioſa favoletta aggiunta una più vana ragione, cioè, che il
medicamento entrato in corpo vada da prima movendo, e cacciando fuora
quell'umor, che ha porianza di trar fuo ra. Aggiugne per iſpianar la
materia,l'eſemplo delle pian te, le quali dic'egli; dalla terra per lor
nutriméto traggono varj ſughi dolci,acetoſi, e falli; c ſomigliantemente po
tranno le purganti medicine trarre da tutto il corpo uma no i varj uinori, ma
coll'ordinamento, che teſtè accenna vamo: cioè, che la medicina purgante la
flemma debba vuotar prima la flemma, e poi gli altri umori, e finalmen te il
ſangue, e cosìſimilmente tutt'altre; ma dagli ſcan naci prima il ſangue, poi la
flemma, e appreſſo la collera eſca fuori. Ma con tale eſemplo delle piante, non
che non agevoli egli l'intelligenza de'ſuoi trovati, ma vie più l'in garbuglia,
e ravviluppa; concioffiecoſachè non mai può ſembrar vero, cui voglia la coſa
pe'l ſuo verſo guardare che le piante ſenza uncini avere, o mani, e ſenza poter
dar di grappo poſſano trar ſugo dalla terra, o altro, che lor bi fogni; elleno
ſi nutriſcono della terra, macon altro ma giſtero di quel che troppo
groſſamente immaginò il buon Ippocrate. Evvi nelle piante una fotcililina, e
volantes sostanza ſomigliante molto allo ſpirito del ſangue degli animali, la
quale ſtando in continuo movimento diforme cazione, la picciola pianticella
sbucciando ſcappa fuori, e framiſchiaſi colla terra proffimana alle radici; or
tra per lo movimento d'eſſa, e per quello, checontinuo dal Sol ri ceve la terra,
e damolt'altri minuti corpi, che perla lor focofa, e attiva natura, a guiſa di
tanti ſpiritelli l'agitano,e la commuovono, molte parti d'eſſa in ſu vengon
fofpinte in licve alito aſſottigliate, le quali di leggier poſſono i pic cioli
pori delle radici, in cui s'abbattono penetrare, e fic candofi elleno in così
farti buchi vengonoa cambiar figu ra, e da'formenti digeſtivi delle medeſime
piante altro va riamento ricevono si, che pian piano vengono la pianti cella ad
accreſcere, in lei traſmutandofi;ne queſta trasfor mazione è maligevol molto a
comprendere, anziin molte frutta può agevolmente oſſervarſi; pongaſi mente alle
me lagrane, che a volerle aſſaggiare ritroveralli, che le ſue fibre portano a'
granelli un amarisſimoſugo, il quale, o dolce, o alquanto agro divien nella
carne d'eſlo granello, ma nell'oſſo inſipido, e ſcipito; e ſimilmente
avviſeremo altresì in quelle frutta, che colte da propj alberi, e ripo ſte
ſoglion venire a inaturezza: alcunide’quali eſſendoin prima amari divengon poi
dolci, e ſaporofi, ficome ſono le ſorba, le neſpole, e le melegrane medeſime.
Non fa dunque luogo di traimento veruno alle piante, acciocchè fi nutrichino;
il qual traimento da filoſofi è ſtato meſſo nella natura, comechè di ciò alcuna
pruova giammai non aveſſero:ne ſo lo pchè vogliano farci a credere,ch'un ſimile
abbia a trar l'altro fimile séza adoperarvi altro, cheſimpa tia, la quale altro
noè, che un bel vocabolo. Nóv'ha adun que medicina al modo, che vuoti il
tale,o'l tal determinato umore; ne mai vero diſſe chiunque affermò aver ciò
offer vato: ma le purganti medicine ciò che nelle viſcere ritro vano,
formentano, e rendon mordace, e fangli cambiar na túra; e quinci avvien,che ciò
che ſi vuota appaja di diver fi colori, e prenda una puzza ſimile a'cadaveri
sper, eſſer le purgativemedicine si ſtimolofe, che aprono ledelicate boccuzze
de'vaſi facendo, da eſſe uicir fuori il ſugo in ef ſo lor contenuto, e
corrompendolo; e conſiſtendo la virtù delle purganti medicine ne'lali, chein
eſſe ſono, in quelle foſtāze elle più operano, e la efficacia lor dimoſtrano
mag giormente ove i ſali più preſtamente diſſolvonſi; e quinci avvien, che le
fecce, che per eſſe ſi vuotano liquide diven gono, e diſcorrenti. Finalmente lo
immagino, che non mai veduto avelle Ippocrate ſcanar Porco njuno,e che ſe pur
cgli guatato mai aveſſe immolar vittime negli altari, aveſse avuti gli occhi di
glauco,o di nero colore tu le pupille ripieni,õde la gialla, e nera collera nel
lor ſangue diveder raffembrogli. Scorſe egli per avventura alcuna fiata, Io bé
glicle cóſento,ad huo dopo aver preſo vomitiva,o altra ſimigliante medicina,get
tar perla bocca fuori inſipido,amaro, acetoſo, biáco,o gial lo uinore, ma non
giunſe a conſiderar tanto che baſti,cioè che i sì fatti umori s'ingenerano nello
ſtomaco de'corpi c.2 gionevoli, e infermicci, e chenon ſi ravviſano nelle venc,
ne pur quand'huomo inferma. Ne deve egli così toſto ob bliar ciò, che altrove
più d'una fiata racconta, altri ſughi aver egli oſſervato recere, c per ſotto
altrui cacciar fuori certi altri umori, i quali eglinondimeno vuol, che nelle
vene non abbian luogo; sì cheanche ſecondo lui, non è fano diſcorſo, ne
concludente argométo a provar gli umo ri eſſervinelle vene, perchè ſi vuotano
colle purgagioni. Ma a che domine dovrà egli tanta fatica logorar tanto tempo
indarno, ſtillarli sì fattamente il cervello, e porger cagione a' poſteri di
ricercar ſempremai Duovi ſofiſmi per iſtabilir la ſua ſentenza in materia, che
con un foi fifo gua tuento potea ben coſto determinare? Ecco come una ri cevuta
opinione ne fa velo alla mente,si ch'ella obblia ſo vente i più piani ſentieri
della verità. Orlo, direi ad Ip pocrate, e a tutti quanti i ſeguaci di lui,
traggaſi ad huom fano il ſangue, cd aſsaggiſi, chee' non ritroveralli ne af ſai
ne poco amaro; oue è dunque la collera? e non ſarà l'a cctoſo, oveè la
malinconia? Replicheran per avventura, che'l miſchiaméto, ela cõfuſione di sì
fatti umori fraſtorni tal diſcerniméto al palato; ma ſe a giuſta porzion di
ſangue poche gocciole d'acetoſo liquore,o picciola quãtità di fiele ſi meſcoli,
e ſi dibaſti in modo, che daper tutto ſi ſparga,e fi confonda,noi proverem nel
ſangue,e l'acetoſo, e l'amaro ſapore:adunque ſe nõ vi ſi aſſaggiavano in prima,
novi do vevan eſſere. Più avanti veggiam ſe ſceverandoſi i diverſi liquori, che
nel raffreddato ságue ſi ſcorgono ſi poſſano av viſare i quattro umori
d'Ippocrate;egli è ver,che nel ſangue ſia un liquore acquoſo,in su'l quale
vogliono i ſeguaci d'Ip pocrate, che nuoti la collera,ingannati da un certo
giallor, che vi ravviſano, e'l rimanente ſia tutto ſiero; ma s'egli ciò vero
foffe, abbiſognerebbe, che la ſuperficie del detto li quore amareggiaffc;il che
no mai veggiamo avvenire.Se poi tutto il ſiero ſitragga via dal ſangue, rimarrà
una materias rappreſa, la qualroffa nel ſommo,e nera apparirà nel fon do; ma
non miga egli è vero, ficome per coloro ſi eſtima che quella, ch'è in fondo del
vaſo ſia la malinconia, 1013 efſendo ella di niun modo aceroſa, ma del ſapor
medeſimo della roſſa; ſenzachè fe tal fanguigna maſſa foſfopra ſia ro veſciata,
la roffa parte in nera, e la nera ſcambieraſli in rof. fa; il che avvien
dall'aria, la qual movendo le particello; della fuperficie del ſangue, le fa
così roffe, e di più allegro color dell'altre apparire. Ma oltre alle già dette
coſe, due altre ſoſtanze nel rapa preſo ſangue ſi ſcorgono; una
dellequalicſſendo diſcorre te, e bianca, ne fa chiaro veder, ch'ella fia chilo,
in fan gue non ancor traſınutato: l'altra gaglioſa,e tenace, di cui ne fa
purmenzione Ippocrate; e perciocch'ella è deſtinata a nutrir le parti tutte del
corpo, da' moderni ſugo nutriti vo acconciamente vien detto; e queſto ſugo va
col ſieroſo migliantemente miſchiato; e agevolmente la coinprenderà chiunque
ponendo il vaſo del detto fiero ſu le lente bragie nie farà tutto l'acquoſo
unore agiatamente eſalare. Nefi nalmente voglio laſciar d'avviſare, che in
quelle febbri, le quali per parere d'Ippocrate ſon dalla bile prodotte, non,
mai ritroveralli il ſangue d'alcun'amaro ſapore, nepur quella parte, che vi va
a nuoto; ne in quell'altre, che per Nn avviſo di lui dalla malinconia
provengono, il ſangue ſenti rà miga dell'acetoſo; ne men quella parte d'ello che,
nera appariſce; ſicome ſenza durarvi molta fatica potea chiarir fene Ippocrate,
ſe pur ſicome non ebbe a ſchifo le ſtoma chevoli fecce degl'infermi
aſſaggiare,così la pūta della fin gua in cotai parti del ságuedegnato aveſſe
d'intignere, qua lora veniva tratto agli ammalati di terzan2,0 quartana;e ſe a
coſtoro egli non ne traeva, in altre opportunità potea farne eſperimento. E più
di lui era debito di Galieno tal fatto, nie dovea a chiuſi occhj in biſogna di
cotanto rilievo preſtar fede ad Ippocrate. Ma Io non poflo non ammirar quì
quelle anime grandi, le quali a torto accagiona Ippocrate, perchè elle dicano,
effer flemma l'huomo; perchè avendo nel ſangueſcorta quella bianca ſoſtanza
ch’appella flemma Ippocrate, giun ſero a comprendere, di quella effer formato
l'huomoje ve ramente di quella vié la parte materiale del ſeine formata, di
quella il latte, diquella tutt'altre parti del corpo uma no nutricanſi. Ma ad
Ippocrate ritornando: tralafciò egli in queſto luogo di far parole della più
nobil parte del ſan gue, dico della parte ſpiritofa; quantunque altrove oſeu
ramente ne faccia motto, e ſenza penetrare, o diſaminar tanto che bafti la ſua
natura; e moftra, che la riponeſe fra le ſoſtanze diſcorrenti non umide, licome
è l'aere,e non già fra le umide, com'è l'aqua: il cui ſembiante più coſto par,
che ritiga lo ſpirito del fangue;il che no dovea trapal farſi tacitamēte da
Ippocrate;e doveaegli por mēte altresì a cotāte altre umide ſoſtanze
dell'huomo, e diſaminar così di effe, come delle parti ſolide, la natura, gli
uficj,e le ope razioni; le quali ignorand'egli nulla viene a ſaper della na
tura di quello, la quale altrui pretende d'inſegnare, ne può ſiſtem.2 alcuno ne
meno manchevole, e ſcempio ftabi fire di razional medicina. Ma il buono
Ippocratc, come ſe taſe uficio aveſſe inte ramente compiuto, e come ſe quanto
avea diviſato foffes incontraſtabile, e fermo, paſſa più avanti nel fuo libro a
narrare, che l'inverno s'avanza nell'huom la flemma,come quella, che più
d'altri umori a cotale ſtagion confaffi,eſſen do più di tutt'altri fredda; la
qual coſa egli vuol ritrarre non altronde, che dal toccamento; ed afferma
coſtante mente, cha la fiemma,del ſangue, e della collera ſempre ha'l tocco più
freddo; la qual coſa però quanto ſia falſa è teſte per noi detto. Fa egli, che
l'inverno abbondi più ch ' altro tempo la flemma; perocchè in più larga copia
ne veg giam per le bocche, per le narici degli animali uſcir fuori; e per
l'enfiature, e altri mali dalla flemma cagionati, che ſovente in quella
ſtagione afcir ſogliono agli huomini. Ma ſe l'inverno, ficomealtroveafferına
Ippocrate più che mai le viſcere, ele interiora ſon riſcaldate, non ſo lo come
poſs'egli argomentar ch'abbiano allora a ingenerare abbó dante copia di flemma,
poſto che la flemma foſſe da an noverare infra gli umori; e flemma foſſe ciò,
che per la boce ca ſi ſpurga, e per le narici, e ch'ella produceſſe que'mali,
che freddi s'appellano. Ma più avāti al diviſamento d'Ippocrate fa la continua
cſperienza contraſto, e ſcorgeſi, che l'eſtate, ſe avviene ad huom qualche
catarro, qualunque ne ſia la cagione, e' ſcaricherà per le narici, e per la
bocca le flemme, ch'e'di ce, in tanta copia, cheſtimeraſli colui non aver altro
inca po, ne in corpo, ſalvo che flemma. Ora Ippocrate a voler faggiamente
diſcorrere, dovea bé avviſar, che l'inverno per lo freddo riſtrigonfi i pori
della' noſtra pelle: il perchè non potendo per eſli uſcirne cosi ah
bondantemente quella ſoſtanza, che in ſottile alito,altro tempo ſvaporar ne
ſuole, vienaa rapprenderli in flemma, edella natura per più larghe ſtrade
ſivuota. La Primavera vuol, che ancor ſian copioſe le flemme; ma collo
ſcemamento del freddo comincino pian piano w ſcemarli, e'n loro veceil
ſanguigno umor vada creſcendo. Ma feper opinion di lui anche la primavera le
vilcere lon cal:liffim, chefanno in corpo le fléme, e chi loro da luo go? Ma la
ragio, che ne reca per l'avanzaméro del ſangue, cui no fem ! rerebbe
dimoſtrazion di ſcrupoloſo Geometras Nn 2 : la Primavera dic'egliè calda, ed
umida,e caldo, ed umido è altresì il ságue:adúquc alla primavera cofaſſi. Ma
pur noi veggiamo,che a quel tempo ilſiero alquáto più copioſo di venga, anziche
no, ſe a quel tempo ſon più abbondanti le urine, e oltremodo patiſcono gli
Idropici, in lor ſover chiando sformatamente le acque. E che abbiam noi a dir
degli altri argométi, ond'egli ſi sforza Ippocrate di confer mare tal
ſoperchiamento di ſanguenella già detta ſtagione: in cui, dic'egli, fogliono
avvenir diffenterie, e vacuazion di ſangue per le narici, ed è il ſangue più
caldo, e roſſo, che mai? Certamente come altre fiate abbiam detto; im perocchè
la diſſenteria non puòdal ſangue avvenire,il qual giuſta i ſentimenti
d'Ippocrate è umor piacevole, e dolce anzi che no; e più toſto la malinconia, e
la collera dovreb bon eſserne accagionate, le quali eſsendo aſpre, e ſtimo Joſe
avrebbon a rodere le inteſtina, e farne uſcir fuori il fangue. Rimarrebbono
altre leggiere coſe a diſaminare in que fto libro d'Ippocrate dietro tal
materia de'quattro umori, le quali da lui coll'uſato ſcioperìo, e groſſezza fi
trattano, e altre coſe degne da avvertire occorrerebbono per avven tura a
chiunque con minuta diligenza l'andaſse rivolgen do, ch'Io per fretta non ho
curato d'oſservare. E baſtami d'averne fol tanto confuſamente rapportato,
perchèfi ſcor ga qual foſse la traccia da Ippocrate temtita nel filoſofare
dietro le biſogne della medicina; e ch'egli andato foſse nolto lungi dal vero,
ne mai imbroccato aveſse al legno. Ma ſe pure a lui non venne fatto di poter
con pruove fta bilire i quattro primi corpi,no è da prenderne maraviglia:
imperocchène iné v'aggiuſe Ariſtotele;il quale,e pl'altez za dell'intédiméco, e
per le notizie di varie coſe,digrā lūga gli ſi dee antiporre,che che ſe ne dica
in contrarioGalieno; e veramente le ragioni per colui rapportate eſſer frivole,
e di niun valore, non che da altri,mada'medefimi Peripatetici vien conſentito;
ma che chc ſia di ciò, non avendo Ippo crate potirto giámai provar ne
l'eſiſtenza de'primi quattro corpi ſemplici, ne de'quattro umori, tutto il
ſiſtema deila ſun ſuamedicina,chelu vi fő:la,cõvié,che crolli ad ogni leggier
foffio, e cada giù in terra. Maben s'avvide Ippocrate della debolezza de' ſuoi
ſiſtemi; onde o di rado, o non mai in al tri ſuoi libri volle valerſene, e
particolarmente in quei de gli Aforiſmi;i quali non voglio lo traſandar ſotto
lilenzio, poichè da molti ſono avuti in sì gran pregio appo Suida, che loro non
già inortal coſa, ma opera di ſouraumano in gegno raſſembra, non altrimenti,
che dell'Alcorano ſi fac ciano i melenli ſeguaci di Macometto. E per lo meno
cre de altri, che non maisì grand'impreſa fu da un’huomo ſo lo compiuta; c
anche coſtor ſon partiti, alcuni credendo, ch'egli da varj ſcrittori gli aveſſe
raccolti; c altri, ch'e' la veſſe copiatidalle tavolette affilfe nel tempio
d'Eſculapio. E certamente ſe mai vero foſſe, che Ippocrate, come An drea
antichillimo autor riferifce, miſe a fiamme, ed a fuo co quella cotanto celebre
libreria di Gnido, egli ſarebbe da fufpicare, che nõ pur gli
Aforiſmi,maquát’opere van del fuo nome intitolate,ſtate folero altrui fatiche,
ed ei per ac cattarne reputazione, come propie le aveſſe divolgate. Ma avend'
egli per avventura poco ſanamente le opinioni di quegli autori compreſe,sì
malamente compilare le aveſſe; e quinci ſia altresì avvenuto, che tante varie,
e diſcordan ti dottrine, e opinioni per entro vi ſi ritrovino; e perciò ſia
indarno gettata la fatica di coloro, che di accordarle tanto lungamente ſi
ſtudiano; a ciaſcun de'quali potrebbe ram mentarſi l'avviſo di Franceſco
Ottomanno: Vercor ne ple rumque in iis, qui confultò inter fe diffentiunt
conciliandis nimium ingenioſi eſe velimus. Ma che che ſia di ciò, lo per me ſon
ſicuro, che agevolmente accorgerafli, cui caglia di chiarirſene, non effer
degni di cotante lodi gli Aforiſmi d'Ippocrate, quante d’uma cieca, e comun
fama ne han ri cevuti; e perciò nella ſchiera de poco accorti foſſe il noſtro
Petrarca,ovein favellando di biſogna a lui poco conoſciu ta ebbe a dire: E quel
di Coo, che fe vie miglior l'opra, Seben intefi foller gli Aforiſmi. Sicome del
poco lor valore s'avvider tutti que’medici,che infra i Greci ebbero inaggiore
ſtıma,e rinomea;i quali non men, che di tutte altre opere d'Ippocrate, tenner
pochiſſi mo, o niun conto degli Aforilmi; la qualcoſa ſi ſcorge rebbe
manifeſtamente da noi,ſe ſpente non foſſero,e ſmar rite tutte loro ſcritture;
ma nondimeno può argomentar ſi ſenza rimanerne in forſc, dalle reliquie, chene'
libri di Galieno, e di Celio Aureliano, a ' dinoſtriſe ne riſerba no; e per
quelle poche memorie, ch'abbiam di Giuliano eccellentiſſimo filoſofo, e medico,
quantunque il con trario ſis forzi dimoſtrarGalieno. Ma ſe ancor foſsero in piè
que’libri, che ilmedeſimoGiuliano compilò contro gli Aforiſmi, o ſe foſſero
almen rimaſe le chioſe, che ſu d'er ſi fe Lico, il quale ſi diede cura
d'andargli un per uno mi nutamente, e ſenzariguardo alcuno diłaminando, chente,
e quali eſſi ſiano apparirebbe chiaro, comechè io non mi dalli briga di
favellarne; ma poichè così va la biſogna: di co, che molti degli Aforiſmi liano
così generali, che per la medicina poco, o niun pro trar ſe ne poſla; e di
leggier ſi potrebbono ad ogn'altra materia acconciamēte adattare; il che ha
porto occaſione di occupar certi sfaccédati cervelli a travorgergli con
pochisſimo ſtorciméto alla politica, alla milizia, e ad altre arti, e
diſcipline; altri ve ne hanno co tenenti sì groſſo, e materialinotizie, che ad
ogn ' huom di 'contado aſsai meglio ſon conoſciute; altri, come avviſa il
Santoro, non li poſson mai recare ad effetto ſenza molto ritegno, e ſenza
l'indirizzamento delle regole dell'arte;di fetto, ſenza fallo,gravisſimo ad
autor, che imprenda a pre. ſcriver certe regole, e leggi in qualunque arte,
emaſlima mente in medicina; e altri v'han cui facendo biſogno di pruove, fur da
lui tralaſciati ſenza alcuna ragione; e ſe pu re alcuna fiata vi rapporta
qualche argomento, ritroveral fi eſſer poco ſaldo, o inefficace; anzi loventi
fiate ridevo le, e frivolo; altri ſe ne ritrovano,la cui dottrina, o aper
tamente, o per poco che ſi vada diſaminando, falſa, e fal lace ſi ſcorge. Altri
finalmente per entro a quel libro ve n'han sì confuſi, e oſcuri,e impigliati,
ch'a volervi per in tendergli qualunque più grave farica durare, non ſe ne ri
trarrà coſa, che monti un frullo. Ma l'oſcurità è vizio si ordinario
d'Ippocrate, che ne men Galieno cotanto di co lui parziale potè contenerſi sì,
che non ne faceſſe motto, a non ne lo proverbiaſſe, e ſcherniffe più fiate. Ma
fe è vizio, ed error grave l'oſcurità in qualunque materia, egli è ſenza fallo
graviſſimo, ove ſi tratti dimc. dicina; arte malagevoliſſima per ſe ſteſſa, e
in cui l'crrare potrebb’eſſer di graviſſimi danni, e nocumenti cagione; if
perchè non ſon da intendere quelle ſcuſe, che dell'oſcurità d'Ippocrate voglion
farſi per alcuni, dicendo ch'egli a ſtu dio voleſſe sì fattamente ſcrivere le
ſue opere, e maſſima mente gli Aforiſmi, acciocchè sì prezioſiteſorinon iſtaffe
ro ſenza riſerbo; ma quafi ſotto bel velo ricoverti, e aſco ſi; imperocchè lo
primieramente non ſo intendere qualſia mai quell'altezza di dottrine, che nella
medicina d'Ippo. crate ſia ripoſta, ne fin'ora v'è ſtato chi abbia potuto fco
vrirla; anzi è avvenuto a coloro, che troppo v'han durato fatica a
interpretrarla, quel che accader ſuole ſoventeagli Alchimiſti, che in vece di
divenir dovizioſi d'oro, e d'arie tutto il for picciolo capitale ſcialacquano.
Ma fe Ip pocrate voleva aſconder la ſua dottrina,sì che da altri non mai fi
riſapeſſe, potea con un più bello, e fottil modo ben farlo, cioè rimanendoſene
in pace, ſenza ſehiccherarle carte, o por tanticervelli a partito per intender
la ſua mé te, con si grave riſchio de' poveri ammalati. Or veggafi di vantaggio
quanto egli foffe dabbene, equanto oſſerva tor dell'impromeſſe,e facraméti,co’quali
dichiarò di voler a'ſuoi ſcolari tutta quanta la medicina perfettamente inſe
gnare; e certamente ſe non altro lor comunicò di ciò che ne'ſuoi libri, e
particolarmente in que' degli Aforiſmi la fciò regiſtrato, e in quella sì
confuſa maniera, que' catti velli l'olio, e la fpeſa indarno vi dovettero
logorare. Ma il bujo di quella favella, ſe mal puofli fofferire altrove,cer
tamente nell'opere degli Aforiſmi, ove principalmente egli vuol dar leggi, e
regole di ciò, che fi dce nell'arte eſe guire, è tanto biafimevole, e ſconcia,
che nulla più; e ſe Principe mai, o Repubblica in dettando leggi, e ftatuti ſi
valeſſe dello ſtile degli Aforiſmi d'Ippocrate, in quali tea nebre, in quai
garbugli, in quali intrighi, in quantipiati, o conteſe ſe ne viverebbe quella
malnata Città, quellas infelice provincia? S'attēta altri di ſcuſare Ippocrate
col precetto d'Orazio Quicquid precipies eſto brevis,utcito dicta Recipiant
animidociles, teneantquefideles. Ma per coſtui non badoſli, a quel,che poco
avanti dal medeſimo Poeta fu ſcritto: Decipimurſpecie recti: brevis effe laboro
Obfcurusfio: Ne potè ciòdiſſimulare, comeche parzialisſimo d'Ippoa crate, per
tacer d'altri chioſatori, il Signor della Sciam bre, sì chenon aveſſe
arditamente a dire d'Ariſtotele, ed' Ippocrate, e de'loro eſpoſitori favellando:
ita perplexe, & obfcurè uterque locutus eſt, ut ad ſingula verbaceſpitandum
illis fuerit,antequam tantis tenebris lucem aliquam afferro potuerint. E
quantunque egli appreſſo imprenda a farne ſcuſa, indi a poco ſoggiugnendo:
Atque id ſaneHippocrates quadam neceffitate impulſus præftitit in Aphoriſmis:
cùm enim ad pauca quædam capita vaſtam, & immenfam artem
contrahereftatuiffet, ne trunca, manca redderetur, necef fe illi fuit ſuh
unoquoque plura præcepta recondere, quàm quæ verbis deſignarentur:
&fingulos Aphoriſmos prêter id, quod exprefsè docent, proponere, ut figna,
du notas, quibus aliarum rerumeadem ſpectantium recordatio excitaretur: no però
dimeno lo perme non ſo ſe venga sì fattamente ad iſcuſarſipiù tolto, o ad accagionarli
Ippocrate; imperoc chè qualbiſogna, o diſtretta lo sforzò mai a favellar di tut
to, e'l tutto avviluppare, ed entrar nell'aringo ditanti, e sì diſgiunti
ragionamenti per diviſar pochiſſimecoſe, c di niun rilievo? E qual lode è mai
d'uno ſcrittore l'accennar ſotto velame d'oſcurillime parole una cofa, e
laſciarnu cento, e mille, cuiabbiſognerebbe, che dall'intendiinen to del
diſcreto lerrore fi ſuppliſſero; il che ſe mai il letto re far poteſſe da ſe
medeſimo, a che affaticarſi in sicer carle fu le altrui ſcritture con ſuo
diſtento. Ma ſe pur po telle teſse Ippocrate ritrovar qualche perdono persì
fatte ſcule in alcunadelle ſue opere, chi mai potrebbe ſofferir quelli oſcurità,
che per tacer d'altri ſi ravviſa nc' libri della Die ta, degli umori, degli
alimenti, in cui ebbe a dire quel celebre galieniſta Antonio Fracanziano ſuo
chioſatore, Hippocrates anigmaticè, dw obfcurè adeo loquitur, ut divi nandum
magis quandoque, quam afferendumquid voluerit: orin quegli certamente le
ſottili difeſe del Signor dellau Sciambre non poſſono a niun modo aver luogo.
Egli adú que nc fa meſtieri di dire a voler ſchiettamente la verità có. feffare,
che l'oſcurità d'Ippocrate avvenga dal rozzo, e oſcuro conoſcinicnto, ch'ebbe
di quelle coſe, che a ſpia nare egli impreſe; e perciò con oſcure, c affai
brevi parole cerchi toſto sbrigarſene, come fan coloro, che di future, e loro
ignote coſe ragionano.Ma pur troppo bene è riuſci ta ad Ippocrate, e d'onde
biaſimo e' meritava, e vitupero, quindi gli avvenne lode, e commendazione dalla
voigare ſchiera de'letterati; i quali ciò che meno intendono, comes cofa
maggior de’loro ingegni vie più commendano; e per ciò è avvenuto, che sì folta
turba de'chioſatori abbia in darno tanta fatica durata,per volerdimoſtrare,ch'altiſlima
dottrina ſotto l'ombra di quel favellar ſi naſconda; e dico indarno: imperocchè
a gente di ſano intendimento quelle cotante lor novelluzze malagevoliſſimamente
iinboccar poſſono; eſſendomanifeſto, che ove Ippocrate favella di coſe, ch'egli
intenda,e ſappia, ſicome quando narra avve nimenti, e iſtorie di malattie, o fa
parole di qualche parte di notomia, ch'egli avea oſſervata, non torbido, e
confuſo ſtile;ma cõchiaro,e intelligibil ragionaje ſe ben ſempremai ſparge per
entro a tai ragionamenti qualche antica, e vieta, e poco inteſa parola:
impertanto non può renderli tutto il favellar sì avviluppato, che in fine la
ſua mente non fi com- ' prenda. Egli è adunque oſcuro, ove di ciò che non inten
de, imprende a favellare. Ma per non iltar quaſi ſempre in ſu l'ali, c
diſcender omaia qualche particolarità: lo dico, che il primo, ove procura di
ſcorgerne la medicina, come poſta lu la vet Oo t21 1 ta d'un erta, e lunga, e
ſtraripevol roccia,' oue mat puofli, tra per la brevità della vita,ei molti, e
gravi peri coli, che vi s’incontrano per huom pervenire; e tale,e tan to, che
vale a torre il pregio a quanti e'ne ſoggiugne;im perocchè ſe cotante
malagevolezze ha la medicina per fe medelima, ei, che dovea far altro, fe non
ſe a tutto sforzo. agevolarne il ſentiero? e pur coʻſuoi Aforiſmi il varco sì
fattamente impruna, che ove huom dietro a lui mettaſi in cammino,a diftento
fenza offefa potrà ritrarne il piede.Do vea ben avviſar Ippocrate, chela
brevità, ove l'oſcurità non iſchifi, quanto ſcema allo ſcrittor di fatica, al
lettore altrettanto ne aggiugne. E nel vero chi potrebbe confide rar quanto
ftento dovettero durar tutti coloro, che prima di Galieno ſi dieder briga
d'interpetrar l'opere d'Ippocra te; e pur nientedimeno non uſciron dal
laberinto, come vuol Galieno; il qual ſoggiugne lui aver primieramente porto il
filo da poterlo ſpiar tutto, e ritornare in ſalvamé to; quantunque v'há chi non
gliele vuol credere, e affer ma coſtantemente ch'egli vi ſia rimalo
avvolpacchiato,co me tutt'aleri; e ne ci reca la ragion dicendo, che ſe vera
mente per Galieno foſſero ſtati compreſi i ſentimenti d'Ip pocrate, cotante
quiſtioni, e piati dopo lui non ſarebboe no inſurti, per indovinar, che diavol
d'inſegnamenti ſian que' d'Ippocrate,maſſimamente negli Aforiſmi. Orail té. po,
che in ván fi logora in sì fatti litigj,nó ſarebbe meglio, e con maggior pro
nell'inveſtigar tante coſe, che fann'huo po allame licina, opportunamente
impiegato? Ma nella feconda parte di queſto primoAforiſmo, poi chè tanto gli è
a cuore la brevità, a che perder parole per dire,che, acciocchè il medico
adempier poffa felicemente il ſuo uficio, abbiſogni che vi concorrano l'opere
dello in fermo, de’famigliari, e tutt'altre eſteriori coſe al biſogno fian
preſte? O utiliſſimo, o raro, e non mai caduto in mé. te umana conſiglio del
diviniflimo Ippocrate ! e Monna Berta, e Monna Nonna ſomigliantemente non
l'averebbe ſaputo? Ma il ſecondo Aforiſmo, per la cui eſpoſizione veggiam
venire fino a villane parole i Chioſatori, e alqua 1 le più coſto con aringo
d'ornate ciance, che con faldezze di dottrina, cerca difar riparo Galieno a
petto degli argo menti, che incontro gli avventa Giuliano: non contien al tro
certamente, ſalvo che unadottrina molto volgare, tanto baſſa, ch’un Maeſtro
Simone, non che altri G verge gnerebbe d'averla meſſa in dozzina, maſſimamente
ſules prima fronte d'un libro di tanta eſpettazione; ella è tales: le
vacuazioni, che per vomito, o di ſotto ſpotaneamente avvengono, ſe fian tali,
quali eſſer denno, giovano, e age volmente ſi collerano; e ſe ilvuotamento
de’vaſi tal lia,qual çiler dee, giova, e ſi tollera. Orlaſciando da parte ftare,
che con chiarezza, e brevità maggiore potea cotal diviſa mento ſpiegarſi, per
avventura dicendo, cheſe l'arte, o la natura vuoterà ciò che pecca nel corpo,
fie di giovamento l'evacuazione: lo quì chiederci, chemifoſſe moftro, ove ſia
l'altiſſima ſapienza, ove il ſottile intendimento del Prin cipe, e
dell'inventore, come Galien lo dice, della razio nal medicina Ippocrate;
adunque in faccenda di cotanta lieva haſſi a giudicar degli eventi: A che
dunque vagliol tanti ſiſtemi di razional medicina, sì lungamente, eintan ti
libri da lui regiſtrati? A che giova l'aver eglicotanto ra gionato degli
uinori, e dell'altre cagioni delle malattie, e delle altre coſe confacenti alla
medicina,ſe al miglior huo po non gli vagliono un frullo,egli abbiſogna, ch'a
ſuomal grado,alla fallace empirica abbia ricorſo. Ma più oltre: onde fe
meſtieri ad Ippocrate dirigiſtrar tale avvertimento nel divin volume degli
Aforiſmi, ſe non v'ha perſona così ſcicmpiata tra'l vulgo, che molto bene non
ſappia, che al lor, chenon reca moleſtia allo infermo, e ch'egli ſe n’ap
profitta, che tale qual eller deeſiaſi la vacuatione; ma do vea certamente,
&aurebbe fatto il meglio,avviſare Ippo crate, che quantunque non ne tragga
alcun diſagio l'infer mo, e che imınantinente dopo la vacuazioncegli guariſca,
avvenir può talora, che l'umor vuotato non ſia tale, quale vacuar ſi dec;imperciocchè
ben potrebbe egli di leggieri avvenire, che dopo la vacuazione di qualche
materia, la quale niente aveſſe che fare colmale, riſtoraſleli l'infermo Oo 2
per qualche vacuazione inſenſibile di ciò, che cagiona il male,fattanel
medeſimo tempo. Nedee ciò recar maravi glia, ſe talora ne’più gravi, e
pericolofi malori, quanto più rigoglioſi,cotanto menome, e fottili ſono la
cagioni, che l'adoperano; e ben ſovente avviene fenfibilc vacuazione per opera
di quelmovimento,cheſi fa nel corpo nello ſcio glierli, e nell'ufcir fuora, e
nel mutar faccia, fito, o movi mento que corpicciuoli, onde il mal ſi cagiona:
a pruova conoſcendoſi, che huom ſuda, vomita, e manda fuori per altre parti
quantità d'umori, e ſi ſgrava immantinente dal male; che ſe non uſciſſe allora
o pietra, o altro, che'l ca gionaſſe, ogn’un di certo giudicherebbe, che per la
vacua zion di quelle materie foffe l'infermo riſanato. In confer mazion di ciò
che lo dico, in quci, che ſon morſi dalle vi pere noi veggiamotutto di dopo
preſi gli antidoti vacuarſi per vomito, e per ſudore gran copia dimaterie nel
tempo medeſiino, che guariſcono; e pure quelle non han coſa del mondo che fare
col veleno della vipera, il quale in altro non conſiſte, che in una
piccioliſſima, e poco men ch'insé fibile ſoſtanza, la quale rappigliandone il
ſangue nelle ve ne toſto n’uccide. Ma che non veggiamotutto di nelle poſteme; e
nelle ferite, ed in altre ſorti di malattie vuotar fi copia d'umori ad eſſe non
pertinenti,c guarire, ma per al tra cagione,gl'infermid e quinci poiinginn.icii
medici con falaſli, e purgagioni, ed Jorinojoſi, cimportuni rimedj i loro
infermi crudelmente ſogliono malmenare; giudican do così imitar l'opere della
natura; e per aver talvolta av viſto, che qualche febbre, o altro male ſi ſia
diminuito dopo un grand'uſcimento di ſangue: comandan poi, che nelle febbri ſi
tragga langue. Ne per altro parimente,nulla curando l'avviſo d'Ippocrate, e di
Galieno,ſi vagliono del le purgigioni nel principio, nell'accreſcimento,e nel
vigo re delle malattic, ſe non ſe dall'aver eglino veduto, come chè radillime
volte, che dopo eſſerſi vacuata qualche ma teria in que’rempi lia migliorato, e
riſanato qualche infer mo; e queſto è quello, s'io non vado errato, che dovca
norar Ippocrate negli aforiſmi. Ma ne meno ſempre che quelle materie ſi vuotano,
quali appunto da vuotar ſono, ciò vien lievemente comportato dall'infermo;
concioffie coſachè molte volte elleno tra per la loro mordacità, e per la
delicatezza della parte, per la quale ſi vuotano, e per altre cagioni ancora
recar ſogliono noja grande agl'infer mi; come Ippocrate medeſimo ſe ſteſſo
dimenticando al trove avviſa; ma non ſenza ragione Giuliano prover bia, e
ripiglia Ippocrate dicendo, ch'egli incominciando queſto aforiſmo afferma come
vera una propoſizione non miga per lui provata, ne dimoſtrata in prima, cioè,
che naſcan le malattie dalla foprabbondanza ſolamente, o dal cambiamento degli
umori in altra qualità di quella, che in prima aveano, la qualvien da'medici,
corrottela, chiama ta; ch'egli però giudica,che ove non ſi ſcorga legno di cor
rottela d'umori,che la ſoperchianza ſia de’inali cagione. Coſa, la quale
foggiugne Giuliano, in modo veruno in tender noir fi puote, ne è vera:
imperocchè fe ciò foſſe, eglinon ha dubbio, che tutte in fermità agevolmente
gua rir potrebbonſi: ne fi vedrebbe giammai lunghezza di ina lattia: e una ſola
la maniera di tutte curarle certamente fac rebbe; imperocchè ciaſcun potrebbe
agevolmente qualo ra a grado gli foſse, effendo ciò in ſua mano, comeilmal
l'affale, così toſto ripararvignon gli biſognando a ciò altro, falvo che fa
ſola vacuazione, la quale in qualunque tein po porre ſi può in opera col
ſegnare, ſe'l male ſarà cagio. nato dal ſangue, e fe dalla flemma, e dalla
collera,condar loro acconce medicine. Riſponde Galieno all'argomento di
Giuliano con dire, che allora oltragli umori, abbia an cora nelle parti falde
del corpo qualche vizio; perchè va cuito l'umore dura ancora il male; ma ſe nel
inale,ficome Ippocrate ſuppone, tengono gráī parte gli umori, dovrebbe almeno
tanto quanto fcemarlo il vuotamento di quelli; il che certamente non avviene;
anzi Galieno medeſimo ri portando in ciò molte fperienze, coſtantemeure altrove
il niega. Ma come allor, che fon crudele materienel princi pio de’mali,quando
le parti ſalde non ſon potute ancora contaminar da eſſe, le vacuazioni riefcono
nocevoli, non che infruttuoſe: e allo incontro poi, licomecon Ippocrao te
afferma Galieno, elle giovano affai,e colgono via il ma lenel loro ſcemo,
quando non può eſſere, che non ſiano rimaſte offeſe gravemente, e contaminate
le partiſalde, le quali in tutto il tempo delmale in varieguiſe moleſtate, e
ſconce ne vennero? adunque direbbe Giuliano, non avran nulla che fare con
quelle malattie le diſcorrenti ſoſtāze del corpo; e allor, che li veggono dopo
la vacuazion di qual che umoré ceſſar le malattie, ciò non avvien certamente
per la vacuazione,comeIppocrate afferma. Ma par egli certa mente, che
Ippocratemedefimo non troppo fitidi in ciò della ſua dottrina; imperocchè avviſa
egli poi nell'ultima parte dell'aforiſmo, che convengafi aver riguardo al
paeſe, alla ſtagione, e alle mulattie, e all'età, ove da far Giala va cuazione.
Ma per tacer della ſtagione, dell'età, e del paeſe, onde niuna certezza trar ſi
puote, con qual argo mento in tata incertezza delle coſe dell'arte potrà mai
rin venire il inedico fe fia, e qualſia quella parte diſcorrente, che cagioni
l'infermità? Credeſi la collera cagionar la ter zana: la malinconia, la
quartana: e pure queſte alla va cuazione, che penſan fare i medici di tali
umori, non ce dono:'maſivincono ſenza vacuazion’alcuna colla ſcorza del Perù, e
con altre molte sì fatte medicine. Il terzo Aforiſmo per mio avviſo parve al
Paracelſo co tener dottrina di sì poca conſiderazione, che egli lo tra sformò
sì, che in tutto è diverſo da quello d'Ippocrate;ma ſe cosi debbonſi chiofare,
e interpetrare i detti degli auto ri, egli ſe'l veda · Dice Ippocrate, lo ſtato
degli Atleti, i quali ſian pervenuti al ſommo della bontà eſſer pericoloſo;
imperocchè non potendo poſare,ne vantaggiarli in meglio, convien, che vada al
peggio; e che però dipreſente huopo faccia vuotargli. Primicramente la ragion
d'Ippocrate, la quale ha dato cagione di quiſtionar canto, e d'aggirarſi fra
vani argomenti al Forli alSermoneta, e ad altri ozioſi cervelli, è troppo rozza
nel vero., e materiale, e più li ſten de aſſai di ciò, che Ippocrate s'avviſa;
imperocchè perpe tuamente ſe la detta ragione aveſſe luogo, sìfatte perſone
dovrebbono andaralpeggio; il che falſo ſi ſperimenta; e ben ſi conoſcerebbe
apertamétc per ciaſcuno la falſità del la menzionataragione d'Ippocrate, s'egli
come far dovea, l'aveſſe con più parole ſpiegata, comepofcia fecero i ſuoi
chioſatori, dicendo, che non poffan mantenerſi nello ſta-, to preſente,
nepofare: perchè continuamente cibandoſi sì fatti huomini, e ingenerandoſi in
loro il chilo, e'l fangue, c queſto ad ogni ora diſtribuendoli per le parci del
corpo, ne potendoſi a quello unire per non eſſervi luogose peròſo verchiandos
debba di neceſſità cambiar in peſſimo il lorot timo ſtato. Ma non poſer mente
coſtoro alla copia grande. del ſangue, e delPaltre tuţte diſcorrenti parti, e
ſalde del. le loro foſtanze, checontinuamente G dileguano, e per sé.. fibili,e
p cieche ſtrade efco fuora da'corpi degli huomini p. la continua formentazione
di quello, che in aliti lotciliſi-. mi mai ſempre gli va ſciogliendo; e quanto
più abbonde vole, e di buona condizione è il ſangue, tanto più egli è vigoroſo,
e valevole ne'ſuoimovimenti, e nell'altre ſue operazioni; e quindi
ſcorgonſimolcijemolti dicotali huo mini ftar bene lungo tempo: e
comechènondimeno qual-, che volta coſtoro pur ne pericolino, ciò non èmiga già
per la ragione per Ippocrate apportata; maperchè venendo ta lora oltre al
dovere per qualche cagione di fuora a muo-, verfi, e a rarificarſi
ſoverchiamente il ſangue, ſi rompono ivaſi, che'l contengono: 0 pure quello
diſcorrendo in co pia grande nelle parti falde delcorpo, cdivi fermatofi, or
una, or un'altra ſorte di mali, e talvolta con impedir affar to la circolazione
del ſangue repétina morte alcresì cagio na; e ciò è quanto dovea il noſtro buon
Ippocrate avvi fare. Appreffo fålla egli gravemente, ſenza dubbio, in tacendo
come, e in qual maniera s'abbia negli Atleti a tor. via la pienezza; ſe colle
vacuazioni, o pur colla dicta; s'egli quì intende di quella vacuazione, che ſi
fa colla die. ta, comedicono i chioſatori di queſto aforiſmo,dovea pur
certamente egli avviſare quando ciò far convenga colla ſc. la dieta, e quando
altrimenti e in sì fatta maniera non in fruttuoſi affacco,e vani farebbono ſta
i per avventura i ſu: i avvertimenti. Imprende poi ne ſeguenti aforiſmiinfino
al venteſimo a far paroleIppocrate dietro al cibar degl'infermi; e come chè in
lor ſi contenga qualche utile avvertimento, pur col Puſato ſuo modo intrigato
del favellare, confonde quelle materie, che meſtier fenza fallo gli facea
illuſtrare; eſſen do nel vero la maniera del cibar gl'infermi una delle coſe
più neceſſarie a ſapere in medicina; eavendo in quegli aforiſmi alcune regole,
alle quali fa meſtieri d ' eccezione, le dovea egli almeno accennare; ed era
aſſai più neceſſario l'inſegnar ciò, che le tant' altre bazzicatu re, in cui
inutilmente di certo ſpende egli tante parole das vegghia, come quello, che
agevolmente lapute ſono,e co noſciute per ogn’uno. E in verità, chi è, che non
ſappia eziandio fra quelli, che non mai ſtudiarono in medicina, che ne'mali
lunghi s'abbian’a mantener le forze dello in fermo, e conſeguentemente, che dar
non gli ſi debba a ſpi luzzico il cibo, ma un poco più largamente x Chiè, che
non conoſca, che nell'acceſſioni della febbre, non ſi debba a niun modo cibare
il malato? ma sì general legge dover cgli riſtrigaendo avviſar, ch'alcuna fata
anche ciò far colz venga. Nel duodecimo aforiſmo fi da briga, e ragionevolme te
nel vero Ippocrate, di narrac i ſegnali delle durate delle malattie; ma in
materia di sì gran lieva, e onde, com'e gli medeſimo avviſa, depende il diritto
regolaméto del nu tricar gl'infermi,ſecondo il ſuo coſtume, ofcuro, e intral
Lito favella, e con poche parole ſi toglie dal doffo ogni ſeccaggine;
tralaſciando non per ſuo mal talento, ma per ſuo poco ſapere di far motto
de'polſi. E quanto al fat to deglieſempli, egli è molto ſcarſo: recandone un
ſolo della pleureſi, e nemeno in quella fi trova ſempre eſſer ve che apparendo
nel cominciamento di quella lo ſputo, il male abbia poco a durare. Va errato
parimente Ippo crate in dar intera credenza a ſudori, alle fecce, e ſpezial
mente all'orina; la quale per tralaſciar altre ragioninon tutta li ſepara dal
ſangue;maparte di eſſa trapelando dal ſacco latteo per una breviſſima ſtrada
tragittaſi alle reni; e ro, comechè una sì fatta ſtrada ignoraffe Ippocrate,
dovca pur cgli por mente ad alcuni beveraggi, che appena tranghiot titi, di
preſente ſi orinano: e agli ſparagi, al Terebinto, e ad altre coſe, che ſenza
toccar punto il ſangue alterano sé, fibilmente l'orina. Nel tredecimo aforiſmo
dice Ippocrate, cheivecchi portano agevolmenteil digiuno; e quindi paſſa a far
paro le dell'altre età. Ma queſto è un'errormaſchio; imperoc chè dal continuo
ſperimento ne fi fa chiaro, ch'a’vecchi tra per la lor debolczza,e perchè poco
nutrimento traggo no da'cibi, aſſai ſpeſſo faccia meſtier riſtorarſi. E
verilimo troviain noi l'avviſo di Celſo: inediam facillimè fuftinet media
etates, minus juvenes, minimè pueri, & fenectutes confećti. Vien
poil'Aforiſmodecimoquarto, il qual tanto ammi rar ſi ſuoledaʼnoſtri medici,
cioè, che coloro, i quali cre ſcono, abbiano in copia grandeil caldo innato, e
che per ciò faccia lor meſtiere abbondevol cibo, alorimenti il cor po ſi
conſumi. Ma non avviſano coſtoro, che alcuni peſci creſcono oltremodo, e non
che eglino caldi fieno, anzi só freddi si fattamente, che lc loro interiora
agghiacciate,no altrimenti che neve li ſentono: come avviſa de’luccj del la
nuova Francia il Padre Giuſeppe Breſſani: ho aperto (dic' egli) il luccio ancor
vivo, e trovato il freddo del ſuo ſtomaco, quafi inſopportabile alla mia maro.
Altra coſa adunque co vien certamente dire, che ſia quella, per la cui opera
ben,' digeſtendoſiicibi, e altra cagion concorrendovi creſcano glianimali; e a
quella in prima dovea por mente Ippocra te, e poi diterminare; ma eglia ciò non
badando, indias poco ſiegue a dire nell'altro aforiſino, che di verno, o di
primavera fiano le viſcere per natura caldiſſime, ei louni lunghiſſini; e
perciò in quelle ſtagioni più largo cibo dar ſi debba;concioliecofachè l'innato
calore allor creſca, cui maggior cibo certamente abbiſogna, e che di tal coſa
nes fan pruova l'età, egli Atleti. Ma che fan qui tantc parole a ſpiegar una sì
breve ſen tenza: ecco l'uſata felicità del ſuo breviffimo ſtile; ma ab biz Рp
biaſi pur ciò per niente, egli non è tuttoda trafandar fotro ſilenzio, che
quantunquevero in tutti huomini, per tacer d'altri animali, ciò che
diceIppocrate ſi ſperimentaſſe, che diverno, e di primavera affai meglio
fmaltiſcanſi i cibi: la ragione nondimeno, che di ciò e' ne reca è falſa;
concior fiecofachè falfo apertamente ſia, che nelle menzionatcſta gioni
caldiſſime fiano leviſcere degli animali; e perchè ciò vero fofle, nemen nulla
montcrebbe: non facendoſi altri méte dal calore la digeſtione de'cibi: ficome
ne ſiamo omai tanto accertati, chenon fa luogo, che lo vi ſpenda parola. Perchè
in van brigafi Galieno di recare in concio d'Ippo crate le ragioni
fanciulleſched'Ariſtotele, che le viſcere di verno caldiffime fiano, perchè il
caldo, come ſenſo egliavel fe, e del circoſtante freddo ſentiſſe l'offeſe, alle
più naſco fe interiora ſi rifugga; e certamentecotal ſciocca filoſofia, che i
luoghi ſotterra caldi ſiano di verno, e freddi di ſtate, per lo Termofcopio
falſa apertamente ravvifaſi, comeché tali pajano a noi, che di ſtate caldi, e
di verno freddi v’en triamo dentro. Ma avvegnachè a pro d'Ippocrate dir
potrebbeſi, che di verno per eſſer chiuli i poridegli animali ſi venga aritener
quella ſoſtanza, che di ſtate eſce fuori, la quale da al ſan gue col movimento
il calore: non però di meno, come fiè accennato, manifcſtamente in noi ſtesſi
ravviliamo le parti dentro del noſtro corpo tutte, non altrimenti, che quelle
di fuora, effer più affai calde di ſtato, che diverno; ne per altro nella detta
ſtagione così volentieri acque freſche, e altri raffreddari liquori beviamo; ne
Ippocrate medefimo oferebbe ciò negare; il quale dice altrove, che di verno s'
ingenera la flemma, ſecondo luifreddiflimo umore, eche avvengano lunghe, e
cagionate da tardi, lenti, e freddi umori le malattie. Ma Galieno volendo le
parti del ſuo maeſtro difendere, immagina sì fatta malagevolezzaceſare, con
dire, che di ftate ſian calde, maggiormentc che diverno le viſcere, di quel
caldo, ch'egli avveniticcio, e foreſtiere chiama,ma non già miga deicaldo
innato. Chiama egli caldo innato una i 1 1 remo. una aerea acquoſa ſoſtanza
d'un calor mite, e ſoave inſieme con gli animali nata, e avveniticcio allo
incontro poi chia ma un caldo terreo mordace affocato; e di queſto egli di ce
nell'infelice difeſa del precedente aforiſmo d'Ippocrate contra Lico, che
abbondevoli fiano maggiormente i giova ni, e di quello i fanciulli. Ma quanto
ciò poco, anzi nulla approdi a difefa d'Ippocrate, noi or brievemenre dimoſtre
Primieramente convien ſapere, che'l calore negli anima li naſce tutto dal
ſangue; perclié folea dire l'Arveo, altro non eſſere il caldo innato, che'l
ſanguemedeſimo: folusnē pefanguis eft calidum innatum, ſeu primo natus calor
ani. malis, uti ex obſervationibus noſtris circa generationem ani. malium,
præfertim pulli in ovo luculenter conftat: utentia, multiplicare fit
fupervacuum. Argomento manifeſtiſimo è di ciò, ch'io dico lo ſcorgere,
ch'abbandonata dal ſangue qualunque parte dell'animale, immantenente ogni calor
viene ella a perdere: e ſe mai eſce dall'animale tutto fuori il ſangue, ben
toſto dal cuore, dalle vene, dall'arterie, da altre parti falde tutto il calor
fi diparte. Vano, e falſo adunque è ciò, che con Ariſtotelecomunemente dir ſi
ſuo le, il cuore effer fonte del calore: ne ſo lo vedere, come in sì fatta
opinione compiaceſſeſi quel grandiſſimo filoſo fante Renato delle Carte;
imperocchè agevolmente egli avviſar potea il cuore noneſſer più caldo, che
l'altre vilce re deglianimali. Ma fe'l ſangue (e ciò avviſa infra gli al tri il
noſtro Ippocrate ) per ſe ſteſſo non è caldo, convien! inveſtigare, onde il
calore in prima gli avvenga,e la cagio ne per la quale caldo mai ſempre nell'arterie,
e nelle vene quello mantieneſi. Credettero alcuni degli antichi, che'l fangue
ſi riſcaldi, e caldo continuamente ſi mantenga, perlo movimento, che dal cuore,
o dall'arterie egli conti nuo riceve; ma non baſta certamente un si debile
movie, mento a ingenerar nel ſangue sì gran calore; anzi prima che'l cuore, e
che l'arterie ſi faccian vedere nell'huomo, caldo vi ſi ſperimenta il ſangue;
ne meno a ciò baſtevole è certamente il ſuo perpetuo muoverſiin giro; ma
chiunque P p 2 pon mente alla materia, onde ingeneraſi il ſangue, più age?
volmente peravventura inveſtigar ne potrà la cagione. E gli faſſi séza dubbio
il sāgue del Chilo, e'l Chilo s'inge nera d'erbe, e di frutta, e di carni, che
altresì dell'erbe, e del le frutta vennero fatte, e ingenerate; or sì fatte
vegetabili ſostanze, come ancora le minerali,per la formentazione ſo la
divengon calde sì factamente, che ſenza aver d'altro bi ſogno., mentre dura la
forinentazione, dura parimente in loro più, o meno il calore; cofa,la quale nel
mofto, c in al tri ſomiglianti fughi da chiunque mente vi pone ad ogni ora
ravviſar eglifi puote; ma d'altra affai più nobile, e più maraviglioſa maniera
certamente e' ſi pare quella formen tazione,che faffi nel fangue, la quale in
parte è ſomiglian te a quella, che avvenir ſcorgeſi alle diſcorrenti ſoſtanze
minerali; onde avviene che lo ſpirito,che per chimica ma no dal ſangue li trae,
ſia gran fatto diffimile da quello che ſi tragge dal vino e da altri ſughi
formientati vegetabili trar fi ſuole. Ma come veramente una tanta opera nel
ſangue fi faccia, e qual ne ſia la cagione, non mi par tempo oppor tuno a
conghietturare; e baſti per ora ſolamente ſapere, la formentazioneeſſer quella,
la quale diliberando nel fan, gue i ſemi del fuoco da que'ritegni, per li quali
non pote vano eglino muoverſi di quel moto mai ſempre dilatante propio delfuoco,
v'ingenera, e vi mantiene continuo il ca lore;ma nel ſangue poi(o in altro ſugo
al fangue equivale te )de’peſci, o d'altri ſomigliáti animali, no mai calor fi
rav vila; cõcioffiecofachè i femi del fuoco in lor fieno, o molto pochi, o in
sì fatta guiſa con altri, & altri ſemi di varie altre coſe avviluppati,che
mal ſi poſſono eglino per lo movime to della formétazione,conechè grāde e’lia
agevolınéte ſvi luppare. Ma che che fja di ciò, uno ſolo è certamente per
manevole negli animali il calore, il quale, or naturale, or non naturale porrà
dirſi, fecondochè convenevole, o non convencvole e farà alla natura di quelli.
Ma fe'l ſangue concinuo va cõſumandoſi cô ingenerarſene ſempre mainuo vo,
intanto,che dopo qualche giorno non ne riman più goc cia alcuna del vecchio,
certamente convien dire ch'appena ne'fanciullinon inolto guari dopo i loro
naſciinenti il caldo innato ritrovar puoſſi; ed ecco, s'io pur non m'inganno,
ca duti, e ſparti a terra fin dalle fondamenta i maggiori argo menti in difeſa
della doctrina d'Ippocrate, portati per Ga licno. Ma per ritornare al noſtro
propoſito: di ſtate pllo calore dell'aria circonſtante, la qual continuamente
dagli huomi niper la reſpirazione li bee, e per le ſoſtanze del volante. ſalc,
che'n quella, più, che in altra ſtagione nell'aria ſi ri trovano, sformatamente
la formentazione del ſangue, e in eſſo in prima, e poi nelle viſcere divien più
grande,e pa riinente ilcalore; allo incontro poi il verno, mancando all' aria
que'ſali, e tra per queſto, e per la ſua freddezza ſi di minuiſce colla
formentazione, così nel ſangue,come nelle viſcere neceſſariamente il calore; ne
per altra cagione nel le parti di Settentrione il ſangue, e le viſcere,
maſſimame te di verno non molto calde ſcorgonſi ncgli animali, e in alcuni di
eſli mancar affatto ſi ravviſa ogni fcintilluzza di calore,sì fattamente, che
per ogn’uno trapaſſati ſi ſtimereb bono; ne pare dalla verità lontano ciò che
de' Lucumori narra Sigiſmondo Libero: Dicono che agli kuominidi Lucu morie:
coſa mirabile, e incredibile, e che ha più della favo la, che del verifimile:
fuole intervenire, chequelli per ciaſ cun'anno, cioè a' ventiſette del meſedi
Novembre, nel qual giorno appreffo de', Ruteni è la feſta di S. Giorgio,
muojano,6 chepoi nella ſeguenteprimavera a'ventiquattro d'Aprile al la
fimilitudine delle ranocchie di nuovo riſuſcitino. Ma che che faſi di quelli:
lo dico, che ſe Ippocrate, e Galieno aveſſer voluto veramente filoſofare,
avrebber per avven tura ritrovato la vera ragione, per la quale di verno, e di
primavera i cibi meglio aſſai fi digeſtiſcano, eſſere ſolo per chè a que’tempi
quella nobiliſima ſoſtanza, la quale fico municâ dal ſangue allo ſtomaco, e fa
la digeſtione,affai più vigoroſa, e forte fia, che di ſtate non è, in cui per
lo calore oltremodo in quello accreſciuto ſi diſlipa, e fi dilegua; cf fendo
ella, comechè accender non fi poffa, vie più dello {pirito delvino volante, e
ſottile; e per mancamento d'u pa co na
cotal ſoſtanza ſenza fallo avviene, che gli huomini, co mechèpiù caldi, men
gagliardi ſi ſentano, e atanti della perſona. Ma nc.men ſe ſi concedeſſe a
Galieno, che v'abbian ve ramente due ſorti di caldo negli animali, ſarebbe ciò
pun-, to per giovare ad Ippocrate; concioſliecoſachè, o innato, o avveniticcio
che'l caldo fi concepiſca, purchè e' s'avanzi.nell'animale, conſumerà ſenza
fallo il corpo diquello; la onde ſe fi ammette la ragion da Ippocrate nel
precedente aforiſmo recata, converrà certamente dire, ch'a' giovani più ch'a'
fanciulli, e che di ſtate più che di verno abbon devol cibo faccia meſtiere; ma
ciò Ippocrate, e Galieno fe'l vedano, che per altro poiifanciulli più
largamente eſ ſer denno cibati; sì perchè abbiſogna lor copia di materia per
creſcere, sì perchè la lor ſoſtanza più agevolmente fi dillipa; e quantunque di
ſtate abbian più biſogno di riſtoro, e dicibo gli animali, nondimeno non molto
bene, e per fettamente in quel tempo facendofi la digeſtione, convien che
parchi ſiano alquanto eglino nel cibarſi. Ma lo laſcia to aveva di rammentarvi,
che Ippocrate medeſimo rifiuta incautamente ciò, che Galien delle due ſorti di
caldo, a pro di lui dice; imperocchè Ippocrate reca l'eſemplo degli atle ti, in
cui certamente il caldo avveniticcio, è quel che ſovrabbonda; tralaſcio ciò che
dice parimente Ippocrates, cheivecchj per avere ſcarſità di calore, non
ainmalino co sì, come i giovani difebbri acute; co che pare, che ne me no il
calor de'febbricoſi, ſecondo Ippocrate, differiſca dal l'innato, ſalvo che per
gradi. Maper mio avviſo la colpa tutta non è miga già diGalieno, ma d'Ippocratc;
imperoc chè egli,comechè no'l dica apertamente, ſuppone le due ſorti di caldo;
perchè nel medegmo aforiſmo a ſe medeli mo e'viene a contraddire. Nell'aforiſmo
ſedecimo fi dice, chci cibi umidiconven gono a 'febbricitanti tutti. Ma a color,
che patiſcon coti diane febbri, o terzane, diquelle chechiamāli(purie, i qua
per tutto il corſo del male tengono lo ſtomaco, e l'altres viſcere
ripiened'acquoſe, ed unnidiſſime ſoſtanze, lo per me li me non sò, comegli
umidi cibi poſſan unqueinai approda re. Lafciando egli poi di favellar più
de'cibi, fa ſtrano pal faggio Ippocrate alle medicine purgative; foggiugnendo
nell'aforiſmo venteſimo, che quelle coſe, le quali o figiu dicano, o giudicate
interamente già ſono, non ſi debbano muovere, e ne con medicine, ne con altro
irritare, ma lila fcin così ſtare; ſentenza, la quale con altre de' libri degli
aforiſmi volle Ippocrate, che ſi leggeſſe nel libro degli umori, ed in altre
ſue opere, e contiene ſenza fallo uil, atiliffimo avvertimento;mapotea
certamente Ippocrate far di meno ditorſi una sì tatta briga, cotanto ella è
chia ra, e manifeſta coſa; e nel vero chi ignorar mai potrebbe, avvegnachè non
inai ſtudiato abbia in medicina, che ad huom perfettamente guarito della
malattia, non che lava cuazione, che potrebbe di nuovo ſcopigliare il ſano ordi
namento del corpo, ma niuna altra forte di rimedio non faccia meſtiere? Ma
forſe ſcorger dovette Ippocrate, che i medici de'ſuoi tempi, non altrimenti che
li facciano og. gidì que' de’noftri, o poco, o nalla vi badavano; e ciò per
mioavviſo avviene, perchè di lor natura i medici avidi ſon mai ſempre di far
coli, chepaja al vulgo grande; come è il vuotar con ſalafli, e con purgative
medicine; e van cer cando ogniora qualche apparente cagione di poter ciò egli
no fare;eforſe che'l medeſimo Ippocrate non gliele porge allor ch'e ' dice in
un'altro aforiſmo, che ciò che rimane dopole malattie foglia dinuovo
ingenerarle? ma chi ben riguarda la coſa, apertainente ſcorge, che non
ſolamente in ciò,che accénato abbiamo,maquaſi in tutte altre materie ritrovano
i medici ciò, che lor fa inefticre, nell'opere d'Ip pocrate; e queſta
certamente è la cagione, per cuida'no Atri Setteggianti ſia Ippocrate in
qualche pregio tenuto. Ma che che lia di ciò, dovea annoverar Ippocrate
minutamen te i ſegni, per li quali ravviſar poſſa il medico, che'l male
interamente lia andato via; c que'ch'egli altrove, e Galić nelle chioſe
brievemére produce in mezzo,quáto ſianofal laci ognun per ſe ſteſſo conoſcer
puote. Doveva pariméte Ippocrate ſpiegar diligenteméte,che ſia ciò che rimane
do po le malattic; es aitro e' non dice, niente certamenteegli inſegna, chenon
ſia a tutti ben noto. Dice indi nell'aforiſmo venteſimo primo Ippocrate, che
ciò che vuotar fi dee,per le ſtrade, onde ha egli cominciato ad uſcir fuori, e
per li convenevoli luoghi convenga vuo tarlo. Qui il gran macſtro delle più
aſcoſe materie dell'ar te, non fi dipartendo dall'uſato ſuo coſtume, imprende
ad inſegnare faccenda, eziádio alle madrine manifefta; e non fa menzione di
niuno di quegli avvertimenti, i quali dovca egli negli aforiſmicertamente
regiſtrare; cioè quali vera mente li licno que'luoghi, ch'egliappella
convenevoli, come talora tra per la delicatezza d'alcune parti, e per le
mordacità de’lughi, o per altra cagione convenga al me dico altrimenti operare
di quel,che li faccia la natura. Vien poſcia quell’Aforiſmo altrove da noi
recaro, che contiene nel vero un'ammaeſtramento molto, e molto ne ceffario a ſaperſi
dal medico intorno al tempo delle purgam gioni nelle malattie; ma da’ſeguaci
d'Ippocrate, e diGa licno, come abbiam dimoſtrato,in niunconto tenuto. Mów la
colpa, s'Io pur non vado errato, in gran parte ſi dec ad Ippocrate attribuire,
ilquale dovea certamente ſcriver co ſa di sì gran momento d'altra miglior
forma,e produrre in mezzo le ragioni, e le ſperienze, che fanno al propoſito, e
poſſono la verità dalui inſegnata appieno aʼmedici perſua dere. Ma il buono
Ippocrate ciò traſandando logora il té po in narrar altre inutili novelluzze;
anzi con recar egli quell'altro Aforiſmo:nel cominciamento de’mali, ſe pu re ti
pare, che s'abbia a muovere, tu muoverai: séza giugner altro, comecertamente
dovea eglifare,da cagione di por re in dubbietà ciò che prima avea egli
inſegnato. Nell’Aforiſmo ventitreeſimo ripete Ippocrate vanamé te ciò ch'egli
altre fiate avea detto;ma ciò ch'e'poſcia v'ag giugne, egli è certamente
un'avviſo così fuor di ragione, che giuſtamente da più avveduri medicanti,
comechè per altro ſuoi parziali,vien traſandato; cioè che vuotar fi deb ba
fin’allo sfinimento, ſe mai ne ficcia inelticri, purchè pof ſa comportarlo
l'infermo. Maquinon ha dubbio nuno, che Ippocrate dato c'non abbia il cervello
a rimpedulare; imperciocchè non ſi rammenta, che poco addietro corali
vuotamenti avea egli oltremodo biafiinati, ſaggiamente ſti mádogli di grādilimo
riſchio; quantunque egli in ſe ritor nato altrove poidi nuovo gli rifiuti.Ma
più v'è di male, che Ippocrate no fa parola niuna diqual vuotaméto intēder vo
glia; ſe di quel, che per li ſalaſli, come ſpiega Filoteo, o pure diquel, che
per le purgagioni s'adopera; come rac coglier fi può da ciò, che in prima egli
ha detto; o diquel che fafli, e per gli uni, e per l'altre,comevuol Galieno, il
quale ſcioccamente approva nelle chioſe la menzionata, dottrina dell'Aforiſmo,
Ma ſe mai d'un sì grave fallo ſcu ſazion ritrovar poteſſe Ippocrate, e vero
foſſe ancora in qualche malattia haver luogo sì fatte eſtreme,e mortali va
cuazioni, Io ſaper vorrei da lui,comemai cotali purgagioni s'abbiano a porre in
opera sì, che o giúgano appunto allo sfinimento,o no’ltrapaffino anche di
molto; perciocchè con graviſſimo riſchio del povero infermo sì fattamente
ancora operar potrebbono, che colle liquide ſoſtanze curte ſi vuo caſſero
päriméte le falde,anzil'anima ácora, e 12 vita;séza chè p cercana (periéza
abbiamo, che debile, e ſpoſfata puc gativa medicina ralormolto vuoti, e groſſo
calice d'ama riſſimo, e violentiſſimo beveraggio nulla non operi, ſecon dochè
'l corpo, più, o menvi & ritrova adatto;perchè trop po pericoloſo nel vero
riuſcirebbe a porre in opera l'avviſo d'Ippocrate, ponendoci a troppo ſtretto
riſchio d'ammaz zar l'infermo, o di nulla giovarlo. Ma poſto, che ciò che
inſegna Ippocrate ſi poreifc dal medico ſicuramente legui re, qual pro per Dio
a’milerellilanguéti mai ne avverrebbe, ſe di neceſſità le più nobili, e utili
foſtāze del corpo s'avreb bono ad un'ora a vuotare? e quì ci accade d'avviſar
la ſcioc ca pecoraggine d'alcuni medicāti de'noſtri tempi, i quali no avendo
ardimento d'imnitar Ippocrate, e Galieno nel ſe gnare fino allo sfinimento,
l'imitano poi nell'uſare violen tillime, e nocevoliſſimepurgagioni: follemente
immagi nando,nel far grandemente vuotare, tutto il ſapere, e'l va lore del
medico, e l'eccellenza dellamedicina confiftere; e RI pure il medeſimo
lormaeſtro Ippocrate apertamente avvi ſa,che non miga per la quantità s'abbiano
a ſtimare le pur gagioni, ma per la qualità degli umori,che ſi vuotano.Ma
trapaſſando al ſeguente Aforiſmo:ciò che ſi dice in quello, giàvenne detto in
prima nell'Aforiſmo ventidueſimo; per chè chiaramente ſi vede, che Ippocrate
follemente riſpar miando le parole nel biſogno maggiore, le conſuma poi, ove
non fa meſtieri; ma non una, o due fiate egli in ciò ſi vede fallare; e
ſimigliantemente ciò, che ſi dice nell'ulti mo aforiſmo, fù detto già nel
ſecondo;perchè egli vien giu dicato ragionevolmente vano, e ſoverchio da
Galieno,che che fi dicano in contrario gli altri chioſacori:onde non è da farne
più motto. Egli era sì agevole impreſa ad Ippocrate il dettar aforif mi, che lo
immagino, che egli dormendo ancora ne com poneſle; imperocchè non ſolamente in
queſta, ma in cuce ' altre ſue opere gliva egli ſeminando; e quelche più dej
recar maraviglia ſiè, che ne reca alcuniegli ſovente, che colla materia, la
qual ſi tratta non han punto che fare; ma quando di ciò lo vado ricercando la
cagione, ritrovo da al tro una sì fatta agevolezza non procedere, ſe non fe dal
ſuo poco intendimento, e dal non diſaminar lui bene le coſe; perchè fi verifica
in Ippocrate quel faggio avviſo d'Ariſto tele, che coloro, che a poche coſe
riguardano agevolmea te diterminano; e quindi avviene, ch'egli tratto tratto
diſguiſato, econfuſo non ſerba ordine, o maniera alcuna, a guiſa de’noſtri
Romanzatori, i quali di palo in fraſca ſem pre faltando, quando men s'aſpetra,
rompendo il fil del ra gionamento ci laſciano, e d'alcro imprendono a
ragionare. Malafciam Bradamante, e non v'increfca V dir, che così reſti in
quell'incanto, Che quandoſarà il tempo, ch'ella n'eſca La farò ufcire, c
Ruggier' altrettanto, Come raccende il guſto il mutare efca, Così mipar, che la
mia iſtoria quanto Or quà; or là più variata ſia, Mero a chi l'udirà nojoſafia.
Così il noſtro Ippocrate ora laſciando di favellar delle purgagioni,nelſecodo
libro a far parole del ſonno trapaſſa, dieědo: il ſonno ove in alcuna malattia
fia tormentoſo ne addita quella eſſer mortifera; ma ſe ſarà egli giovevole,ne
fa avviſati non eſſer mortale. Egli l'ha indovinato certamente alla prima; e
non veg giam noi tutto di trap.affar molti, emolti, che tempo del male piacevol
ſonno agiatamente ſopiva: e allo incontro rimaner in vita altri, che nelle loro
malattie da funcſtif limiſogni,o da altro aſpramente fur dormendo travagliatis
Or non avvien quaſi ſempre nell'avanzamento dell’avute malattie, che gli
infermi più moleſtia in ſonno, ch'in veg. ghiando patiſcono? e purnondimeno
eſli per la più parte riſanano; oltr’a ciò le terzane, e tutt'altre febbri
intermit centi fogliono il più delle volte con faſtidioſi ſonni gli am, malati
sformatamente annojare: e pur le sì fatte,ſecondol' avviſo del medeſimo
Ippocrate,non fon di riſchio veruno; e quantunque,per parere diGalieno,
Ippocrate non intenda, di favellar de fonnida tali febbri avvegnenti, pur nondi
meno era il diritto ch'egli l'aveffe apertamente ſpiegato, ne miga alla
diſcrezion de'chioſatori, o de' lettori laſciato. Nel ſecondo Aforiſmo afferma
Ippocrate, che ſe'l ſon no la farnetichezza raccheta, vada ben la biſogna. Ma
che è ciò per Dio, ch'egli dice; Io vo conceder, che talor vaglia, ne vi ha chi
il nieghi, ch'un placido, e ſoave ſonno valevole ſia una ſinaniante
farnetichezza ad attutare: eche aver fano l'intelletto ſia coſa non che buona,
maottima; ma ſe un sì fatto giovamento s'aveſſe altronde, che dal sô no, domine
ſe ſarebbe male? e ſe ſarebbe ancor bene,ab biſognava certamente Ippocrate dir
nell' Aforiſmo: buona coſa è, che i farnetici dal lor farneticare riſanino; e
five drebbe ſenza fallo regiſtrata una dottrina nel divino volu medegli
Aforiſmi da fare ſcorno alla concluſione di quel ſovrano collegio de’medicanti,
la ove tutti conchiuſcro, che Mecenase non aveva ſonno, E queſt'era cagion,che
non dormiva ”. Ma quanto meglio avrebbe fatto Ippocrate, e quanto Q92 con
avanzaméto della medicina ſpeto avrebbe egli il tem po, ſe in vece delle sì
fatte novelluzze aveſſe impreſo a rac corre, e a dimoſtrarne di quanto
riſtoramento ne fia il ſon none come allettar fi poffa a recarne quelle tante
utilità,on de ragionevolmente ilParacelſo ebbe a gridare: fomnus Jant um
arcanum eft in medicina ut libenter ab aliquo fcire velim, abfit difto error,
an, & qua medicina fit, quæ in omnibus morbis, tampræfens, &
repentinumfit auxilium, adeoque corpori, acfanitati condueat æquè ac fomnus. Co
sì col grave fafcio di penſieri ſogliono i malati laſciar an che i più oſtinati
dolori della perſona, allorche luſingando loro le pupille il ſonno dolcemente
gli abbandona in fule piume; laonde non ſenza qualche ragione l'autore dell'in
no ad Orfeo attribuito,chiama il ſonno Re degli huomini, c degli dei Somnequies
rerum,placidifſime fomne Deorum, Paxanimi, quem cura fugit,tu pectora duris,
Feſa minifteriis mulces, reparaſque labori. Canta Ovidio; e Seneca Tuque à
domitor Somne malorum, requiesanimi, Pars humanamelior vitae E'I Caſa O ſonno,
o dela queta umida ombrofa Noite placido figlio, o de’mortali Egri conforto,
oblio dolce de'mali Si gravi, ond'è la vita aſpra, e nojosa E'lTallo Padre
Orche m'arde l'a febbre gorche'l vigore Vital m'invola il duolo acerbo, e rio,
Col ramo: molle dell'onde d'obblio Torrai laluce agli occhi, ame l'ardore; ne
altro rimedio ritrovò Erminia (appo il maggiore deno Itri Poeti ).a? ſuoi dolori,che'l
ſonno Cibo non prendegià, che de'ſuoi mali Solo fi paſce, e för di pianto ha
fete; Ma'l funno, che de'miſeri mortali E' coiſko dolce obblio poſa, e quiet
thing Son. DelSig. Lionardodi Capoa 309 Sopš coʻfenfi i ſuoidolori, e l'ali
Diffefe fuura lerplacide, e chete. Ma comechè ciò fia vero, pocomontava a noi
certame te il faperlo, fe non fappiamo inſieme chenti, e quali ſiano irimedj
daciò operare;perchèdovea certamente Ippocra te diviſare inſieme degli
argomenti, onde a’malati ſi può chiamare il ſonno; e comechèoſtinato ingannarlo:
e non folamente dire cheil ſonno approdi a corali infermi. Ma forſe lo vado
errato; perciocchè non fo com'egli il pur rivelò af fuo Signor de la Sciambre,
e fe, che colui n'in fegnaffe i ſentimenti di lui, o per fua dappocaggine, o
per la ſua natural mutolezza in prima naſcoſi: conciofoffe co fa, che
chioſandocolui queſto ſecondolibro, ſcritto aveffe: nel titolo: nova
ratioexplanandi aphoriſmos Hippocratis, per quam uſusaphoriſmorum ab Hippocrate
intenti, nec ta. mea conſcriptireperiuntur. Econ queſte magnifiche pro. meſſe
venendo egli poi al poſtro Aforiſmo, dice per fenté za d'Ippocrate: ad praxim
revocabitur hæc prognofis, ſiis ejufmodi effe&tibus appoſitis remediis
fomnus concilietur. Ma prima,chc a lui ne diè la curaIppocrate alParacelſo
d'avvi ſarlo, il quale nelle chioſe del derro Aforiſmo diſſe: Som nifera
quomodocunqueea vocentur àquolibetmedico fummo perè conſideranda Junt;
fomnusenim medicina ef ſuperans omnia arcana gemmarum ', cu lapillorum
pretioforum. Qui Natura Arcantfomniferumexconvenienti effentia desīte ptum,rectè
applicare novit,is magni apud ægrotosfaciendus eff. Non igitur folum
defomnisnaturalibusHippocrates bic loquitur,fed oportet ut euminrelligatis,
fcut medicum ex pertum, qui ex fpiritu medicina locutus eft, non ut Humori Ba,
qui ignorat quid fit fomniferum,fed ut artifex. Mache mivo Io più nel farnerico
degli Aforiſmi d'Ippocrate lun gamente avvolgendo, i quali di sì picciola
levatura ſono, quára per noifin'ora s'è accénata. Vegga pur chiunquecó animo
tranquillo, e ripofato, e veramente da filoſofo daw niuna paſſione imbardaro,
e'sì gli giudichi cutti, e ſottil mente gliſtacci, cheſenza troppa fatica
logorarviagevol mente ritroverà eſſer i rimanenti tutti della medeſima va glia
diquelli, che fin quì diviſati abbiamo:eche malamē: te allogata abbian l'opera
in affibbiarvi tante chioſe, eco mentiſopra,i noſtri medici, mallimamente il
narrato Signor della Sciambre, il quale lo non sò con qual arte s’indovis ni, e
a noivoglia comunicar corteſemente ciò che Ippo crate avea intenzione di dire,
e'l racque ſolamente per ri ſerbare al ſuo valoroſo ſegretario la gloria d'una
sì magui. fica impreſa. Ma ſe bene Ippocrate detto veramente aveſ ſe ciò che il
Signor della Sciábre diviſa, e pretende aver il maeſtro a bello ſtudio tacciuto,
gran coſa pur cgli non fa rebbe, come ſi può ſcorgere nelle ſue chiole. Ma
incom portabile certamente, e' mi pareil Signor de la Sciambre, Aon ſolamente,
perchè in ogniaforíſino coſtantemente egli afferma queſto, o quell'altro aver
Ippocrate avuto in men te di dire,ma eziandio, perchè talora in materie
chiariffime ci vuol'egli far vedere per roſſo il giallo, ficome quando p
ſoftenerche'l, ſuo modo di medicare non travii dagl'inſe gnamenti d'Ippocrate,
vuol farne a credere colui aver avu to in animo, che ancora fuori del
gonfiamento le crude materie vuotar fi debbano; error,che in verità non mai gli
porè cadere a niun modo in penſiero. Or ſe la potente faſcinazione
dellepaſſioni non aveſſe magagnate le menti de'chiofatori, eglino ſiſarebbono,
fe lo diritto eſtimo, da per ſe del poco, 0 niun valore del volume degli
Aforiſmi agevolmente avveduti, almen per quelli che perentro ma nifeſtamente
falfi vi s'avviſano; intanto, che ne meno il tanto parzial d'Ippocrate Galieno,
e altri ſeguaci di quel lo gli han voluti torre a difendere. Ma comechè cotanto
imbardato fi moftri Galieno delle dottrine d'Ippoctate pur egli falſo a cento,
c mille pruove confeſſa apertamente ayer lui ritrovato quell’Aforiſmo, il qual
dice, che ſe mai la rete efca del ventre fuori, abbia di neceſſità a
infracidire. Machi falſo parimente non ravviſa quell'altro, ove inten de
Ippocrate didarne certi ſegnali da conoſcer le donne in cinte, dicendo; ſe
conoſcer tu vorrai quando la femmina gravida ſia, innanzich'ella vada a
coricarſi, dalle bere la mulla, e s'ella ſarà moleftata da’dolori del ventre,
di certo, che ſarà gravida: ſe nulla ſentirà ella nonaverà concetto.E fe
l'aforiſmo è falſo, abbiſogna anche dir, che in vano ſi becchiil cervello
Galieno per recare la cagione, perchè abbia a farſi dopo il definare cotal
operazione; è falſo diſ fe Avicenna,chedell'error dell’Aforiſmo in parte
s'avvide, che tal fatto avvenga a quelle donne, che non hanno in co ftumetal
beveraggio; imperocchè a quelle donne, le qua li per addietro non mai
l'aſſaggiarono, o gravide, o non, gravide, che ſiano elleno, foglia talora la
mulla dolori di ventre cagionare: il che avviene ancora dalla mulla com, poſta
coll'acqua piovana, della quale alcuni immaginano aver Ippocrate favellato.
Falſo pariméte ſcorgeſi l’Aforiſ mo, che mortale ſia a donna gravida ogni acuta
malattia. L'Aforiſmo, di cui meritevolmente dice il Santoro: ne, mofana mentis
defenderet hunc aphoriſmum: cioè, che co loro, de'quali l'orina è fabbionoſa
abbian la pietra nella veſcica, che che a difeſa d'Ippocrate il Zecchi ſi dica,
egli è così apertamente falfo, che Ippocrate medeſimo altrove lo rifiuta, e
ripiglia fortemente alcuni antichi medici, che ciò dicevano · Galieno ancora
avvifa la ſua falſità, e dice eſſer errore d'Ippocrate, o dc'copiſti, e che
l'Aforiſmo do vea dire, o nella veſcica, o nelle reni; ma con cutta que fta
aggiunta di Galieno, falſo altresì tutto di egli ſi ſperi menta.e Girolamo
Cardano nelle chiofe,dice lui ſteſſo per lo ſpazio di trenta anni aver avuto
l'orina ſabbionoſa, ſen za aver avuta mai menoma pietra, o nelle reni, o nella
ve fcica. Soggiugne oltre a ciò, che di dieci perſone appena che una additar ſe
ne poſſa, che non abbia l'orine ſabbjo noſe: e pure rari fon coloro, che han
pietre nelle reni, e radiſſimi coloro, che l'han nella veſcica. E oltre a ciò
egli racconta, che gli Spagnuoli poco men che tutti fan l'orina ſabbionofa, e
nondimeno pochiſſimi vi ſono infra loro, che patifcano il mal della pietra. Ma
non menofalſo è quello altro aforiſmo,che'n bocca de’medici tutto di eſſer
veggia mo,cioè,che que'febbricofi,i quali fan corbida l'orina, qua le è quella
de giumenti, o hanno attualmente, o auranno di preſente dolor nel capo. E
quell'altro, che a coloro, a ’ quali nelle febbri ogoigiorno viene il rigore,
ogni giorno le febbri ſi tolgano. E quell'altro, di cui Giulio Ceſare della
Scala, così a Girolamo Cardano ragiona: nequemés ægrotat, ut falfo voluit
Hippocrates, cum dolorem, quo cru ciamur non ſentimus: comechè non vera ſi
trovi la ragione, checolui poi ne recà ſoggiugnendo:fed quoniam dolentem ad
locum fubfidii ergo diſtracti ſpiritus non repreſentantur, imaginationi. E
quegl’aicri, ch' alle femmine, alle quali corrono imeſtrui,e agli Eunuchi,non
mai vegna loro la po dagra. Maquale ſciocca femminella nõ riderà ſtrabocche
volmcntc in udendo quell'aforiſmo, che i malchi per lo più s'ingenerino nella
parte deſtra della donna, e le fem mine nella ſiniſtra? E di quell'altro, che
ſe la donna aura conceputo maſchio, ſi vedrà ben colorita in volto; mares avrà
conceputa femmina, farà pallida; e di quell'altro: ſe una donna non ſarà
gravida, e vuoi ſapere ſe concepirà,co prila bene con panni, e di ſotto adopera
ſuffumigji e feľo dore per entro il corpo vedrai, che vada alla bocca, e alle
nari, ſappi, che per ſe ella non è ſterile. Taccio altri, altri aforiſini
intorno alla medicinal materia, che fan vede re, che Ippocrate poco avea che
fare certamente quando fcriveva un tal libro, ſe vi pone sì fatte fraſche, che
ſe ben vere elle foſſero, non però di meno non ſono tali, che debu ban
regiſtrarſi in un'opera nella quale intende Ippocrate inſegnare le più ſegrete
coſe dell'arte. Ma ad altro facendo paſſaggio: già noi veduto abbiamo quanto
poco Ippocrate intelo foffe della natura delle co fe pertinenti alla medicina;
ma ſpezialmente anche ſi pa che niente fi fu egli certamente ſcorto della ſto
ria delle parti del corpo umano, e degli ufici di quel lc, e del modo, col
quale adoperano, come ogn'un può ſcorgere in tutti i ſuoi libri, che non fa
meſtieri, ch’lo ne faccia parola. Solamente narrerò, come per ſaggio dell'
altre coſe, ſicome intorno a ciò filoſofi egli una fiata, di cendo, che quelle
parti, che ſono ampie nel ventre, e ftret te nella bocca, com'è la veſcica, il
capo, e lå matrice, ſon fatte per attrarre, eche apcrtamente queſte sformatamen
re, 1 1 1. te tras 1 i ; te traggono, e ſon pieni degli attratti umori; ene
reca per ragione il vederſische colla bocca aperta nulla ſi trae, e che
fporgendoſi in fuori poi, e ſtrignendoſi le labbra, e adata tandovi una fiſtola,ſi
trae agevolmente ciò che ſi vuole, e che le ventoſe, le quali ſogliono
appiccarſi per attrar re dalla carne, ſiano ampie nel ventre, e ſtrette verſo
la bocca; ccco le fue parole: Το μειο ελκύσει εφ' εαυτό, και έπεσα σας υγρότη
εκ τέ άλε σώματG-, πότερον τα κοίλα π, και εκπτ. παμύα, ή του στρεά της και
τρο/γύλα, και του κοίλα τε, και ές στνον εξ ευρές. συνη μία, δύναιτ' αν μάλιστα,
οίμαι μύτσι τα τοιαύτα εις ενόςσυγγ μένα εκ κοίλε ε, και ευρίG-' καζ μανθάνειν
δε δεί αυτα έξωθεν εκ τω. φανερών • τέτο με γαρ,τησόματι κεχίωώς, υγρόν δεν
αναστάσεις προσμελήναςδε, και συσείλας και πιέσεις τε τα χίλεα · έτι τε αύλον
ποθέ. μυς, ρηιδίως αναστάσεις αν ό, τι θέλας • τούτο δε, αί στκύαι ποζαλό μίμαι
εξ ευρές ως πνώτερον ενενωμέναι πες τούτη τεχνέαται, προς το έλκαν από της
σαρκος, και επιστά αλλά και πολ α τοιούτοςοπα · των δ ' έσω του ανθρώπς φύσης,
χήμα τοιούτον• κυρίς τε, και κεφαλή, και υπέ es γυναιξί - και φανερώς αύτο
μάλιαάλκει και πλήρεςέπν επαρκτα υγρό Tuloi aici. Non occorre, che Io mi dia
briga in diſaminar si fatte fanfáluche, potendo ogn'ın per ſe medeſimo ravvi
fare, ſolamente in udirle ſoluna fiata, che contengono più errori, che parole.
Egli vuole, che la veſcica tragga l’o. rina; il che tanto è, quanto s’un
diceffe,che'l letto del ma re tragga l'acqua da'fiumi;e'l medeſimo dir ſi puote
del ca po, e della matrice. Ben ſi pare poi, ch'egli ignorimolte di quelle
ſtrade, per le quali le diſcorrentiſoſtanze ſi por tano in diverſe parti del
corpo. Ma egli è diſadatto l'eséplo della bocca, e delle ventoſe, comechè egli
pur ſi cõcedeſſe, ch’elleno adoperaffero per traimento, ficome fin ' a' dìno
ſtri han follemente creduto, e inſegnato le ſcuole; ma qual maraviglia, che ciò
Ippocrate aveſſe affermato, s'cgli ſcriſ ſe ancora nel libro della natura del
fanciullo, che lo ſpirito caldo tragga a ſe lo ſpirito freddo, e ſe ne nutrichi:
Távce δε, σκόσα θερμαίνεταικαι πνεύμαέχει το δε πνεύμα ρήγνυσι, ποιέει οι οδον
αυτ έωυτώ, και χωρέσα έξω · αυτό δε το θερμαινόμενον έλκα ες έωυτο αύθις έτερον
πνεύμα,ψυχρόν δια της βαγής, αφ' και τρέφεται. Νce vero cioche diccAndrea
diLorézc, cheIppocrate ſapeſſe títo dinotomia Rr quanto gli faceva luogo per la
medicina; concioſliecolache dubitar non ſi poſſa,che molte, e molte coſe di
notomia, che neceſſarie séza fallo ſono alla medicina razionale,igno te affatto
gli foſſero; imperocchè, per tacer d'altro,cgli è certamente neceſſario a
quella il conofeer chenti, e quali fieno i movimenti dell'arterie, le itrade
del chilo, l'aggira mento del ſangue, la fabbrica, e gli ufici delle giandole,
e altre, e altre molte coſe, delle qnaliniuna conrezza ebbe egli giammai;
nondimeno avvegnachè queſte, e altre co Scaffai, pertinenti alla medicina
ignoraffe Ippocrate, non ſi può negare, cheegli molto nous'avanzaffe ſopra
tutti gli altri medici de'ſuoitempi, per quel, che noi fappiamo, il che da
altro certamente non nacque, che dal talento natu Tale, che egli ebbe adatto
aſſai al ineſtier della medicina, il quale ajutò egli, e accrebbe ſommamente in
coltivan do oltremodo quella parte alla medicina, molto neceſ faria, qual è
ſenza fallo l'offervazione; e nel vero Ippocra te fu un curioſo oſſervatore;
perchè ebbe a dire di lui Ga lieno, ch'egli affai più coſe colla ſperienza, che
colla ra gione conoſceſſe; e il meglio certamére avrebbe fatto egli, le
trafandate tutte altre biſogne, a queſta ſola inteſo ſem pre aveſſe; e ſenza ad
altro inframmetterſi aveſſe folamen te narrata la nuda, e femplice ſtoria
intorno agl'infermi da lui medicati; ma nondimeno non ſi ſcorge aver egli tanti
felicità nell’ofſervazioni Ippocrate, che, o per poca dili genza, o per alcro,
che ſi fia egli ſovente non inciampizma quel, ch'è peggio, anche talora in coſe
agevoli molto ad offervare e fallare ſcioccamente ſi vedese ciò ch ' e'nenar ra,
ne men per avventura il direbbe un rozzo, ed ineſperto huomo dicontado. Ma in
quella parte poi della medicina, ch'alla dieta ap partiene egli li portò nel
vero così bene Ippocrate, che niu na cofa par che glimanchi; e di certo e' ne
meriterebbe una grandiſſima loda, ſe queſto medeſimo non faceſſe aperta mente
conoſcere, ch'egli ſtato foſſe molto manchevole, e difettoſo in quel, che più
propio, e neceſario egli è in me dicina, e in cui conſiſte, ed è riporta
l'eccellenza, anzi l'cf fere tutto del medico; cioè nella concezza
de'inedicamen ti: maſſimamente di quelli, che tali veramente ſono, e che
da’moderni, ſpecifici chiamanſi; i quali ſenza cagionar ne vacuazione, ne
movimento altro niuno han virtù d'eſtin guere il male, e riſtorar l'infermo;
ina comechè in ciò affai mancaffe Ippocrate, purebbe egli tanto
intendimento,che ne'mali acuti della ſola dieta per lo più ſi valſe, rade volte
adoperando i vuotamenti, come colui, che ben conoſceva, ch'eziandio con yuotare
gran quantità d'umori, le malat tie per lo più ſi mantengano nel loro vigore.
Ma che poco foſte inteſo de medicamentiſpecifici Ippocrate, ſipareaper, tamente
da chiunque ſi da cura di legger i libri degli Epi demj, ne'quali ſi veggon le
malattie ne'terminiloro fatali, o in bene,o in male eſſere oftinatamente
terminate; c alcu. na fin’al centeſimo giorno eſſer durata. Si ſcorge ancora
ciò nelle medicine, le quali egli adopera, come quelle che pericoloſe ſono, e
poco efficaci, come ſono infra l'altre ch' Io taccio, comea tutti conoſciute,
le cantarelle, di cui egli ſi vale temerariamente in verità nell'Idropiſia,e in
altri ma li dando cinque di effe, e togliendone ſcioccamente il ca po, i piedi,
e l'ali, che potrebbono in parte rintuzzare il lor veleno; e racconta Galicno,
ch’un medico per ciò aver yo luto fare aveffe ucciſo miſerevolmente un'infermo;
ma tã. to e' ſi compiacque di sì beſtial medicamento Ippocrate, che con peffimo
conſiglio e' vuol, che le cantarelle ſi met tano entro la matrice per vuotarla
de’malvagi umori; ove pone egli in opera ancora l'Aglio, il Pepe, e la
Sandaraca, la quale,comemoſtra il Mattioli, è una ſpezie d'orpimen to velenoſo
corroſivo, cd altre, ed altre cauterizzāti medi cine; il che volendo
ſcioccamente un medico de’noſtri tem pi parzial molto d'Ippocrate una fiata
iinitare, riduſſea, pèſſimo ſtato una povera inferma.Neper altro,che p máca
méto ď' efficaci medicine nell'interne infiamagioni ſegnar ſuole Ippocrate fin
allo sfinimento; c quel che ſi è il peg gio, e Galieno malagevolmente il
comporta contro le ſue medeſime regole,nella pleureſi,ſe nelle parti interiori
ſi ſtea da il dolore, ſolve egli il ventre coll’elleboro, e col peplio, Rr 2 Ma
chi voleſſe annoverar le mal preparate, violcntise veler noſe oltremodo, c
ſtrabbocchevoli medicinc,che ſuol por re in opera Ippocrate, elle ſon tali,
chei medeſimi ſuoi fee guaci meritevolmente l'han poſte in miſuſo. Ne per al
tro parimente egliconfiglia, che la febbre non s’abbia a mi tigare nella punta,
per fette giorni, e ſi debba dar largamé, te bere,o aceto co mniele, o aceto
con acqua: Ineueſten we xex άσθαι ή πυρετόν μη παύεινέστα ημερέων ποτέ δε
χρήσθω,ή οξυμε aixpýtw,vi šče xzi üfatı:oltre a ciò ſoggiugne egli poco ap
preſſo,che nel quinto, e nel ſettimo giorno ſi debbano por re in opera
gagliardiflimemedicine da ſpurgare ben bene il petto,acciocchèil ſettimo giorno
menmoleſto all'infermo poi fi faccia fentire: και έτι τή αίματη, και την έκτη
ισχυροτύτοιστ χρέεσθαι τσιστν επαναχρεμπτηeίοισι φαρμάκοισι, ως την εβδόμην δια
jnásoe spegno dydyn. Ma da queſto,e dal non eſſer ben lui ſcor to dell'altre
coſe della medicina naſce il peſſimo conſiglio, ch'egli da al medico:che non
avédo egli contezza del male adoperar debbamedicine,manon molto gagliarde; e ſe
co un tal argométo ſcemerà il male,gli addicerà,che curar e'l debba
coll'aſciugare; ma ſe'l male non ne ſcemerà, e ne di verri piti graveil
citrario fardovrafi: Τών νουσημάτων,ών μη επί 5ηταί τις, φάρμακον είσαι μη
ισχυρό,. ήν δε ράων γένηται, δίδεικται «δος, εύπεπιέον έσιν ισχνάναντα • ήν δε
μη ραων ή, άλλα χαλεπώτερον Xu tavavila. Dalle quali parole, e da quel che indi
appreſſo edice apertamente ſi ravviſa aver Ippocrate voluto in tendere, che il
medico,non ſappiendo qual male l'infermo paciſca,fi vaglia delle purgative
medicine; e che altro per Dio avrebbe mai potuto Maeſtro Simone nello ſtudio di
-Bologna a'ſuoi ſcolari infegnare Magli ſcherzi laſciádo, intorno a ciò
certaměte parmi più faggio aſſai il coſiglio d ' Avicenna, il quale vuole,che
il medico no conoſcêdo ilma Ic, altro farnon debba, ſalvo che preſcrivere
all'infermo una rigoroſa dieta, e intáto ſtar cauto, cariguardo per po, ter
quello per qualche ſegnal fotcilmente avviſare. Ma della fuadebolezza ben
avvedutofi Ippocrate, per guadagnarſi il buon nome, ſeguendo egli il coſtume
degli alori medici, cheabbiamonarraci, coll'arti, e colle giun, 1 terie Del
Sig.Lionardodi Capoa. 317 terie ricoprir cercolla, perchè diede opera grande
agli arr tivedimenti, e ne ſcriſſe molti libri; ne per altro cgli com pole
ancora illibro degli inſogni; opera ridevole allai nel vero, la qual
ſembraverainente fatta per huon, che lo gnando færnetichi; perchè mi maraviglio
forte della follia di Giulio Ceſare della Scala, che ſi diè briga d ' appiccar
gli sù un comento. Divulgò altresì Ippocrate per la me deſima cagione quel
celebre ſuo ridevole giuramento, in cui no lo lo fe più ammirar ſi debba la ſua
ſciépiezza, o law fua malizia. Quelle cofe, ch'e' giura Io non le reco; ma ben
può ſcorger ciaſcuno,che elle vi ſono poſte tutte per farlo credere huomopio, e
divoro, non altrimenti, che Ser Ciappelletto per la ſua falſa confeſſione. Ma
nientedi meno non furono baſtevolitanti se sivarj artificj, ch'egli non cadeſſe
dalſuo buon nome, e che, come egli mede fimo confefſiz, più biaſimo affai,che
gloria dal mcdicare e ’ no riportaſſe;ilche non ſolamente gli avvenne,permio av
viſo, dal non aver lui avuto niuna contezza di nobili, e va loroſe medicine,
per le quali egli in pregio montaffe,e l'ac quiſtata gloria e' non perdeffe,
qualora in qualche finiſtro accidéte in medicãdo incorreſſe; ma ancora dal
coprendere aſſai bene Ippocratc, ammacſtrato dalle ſue continue of ſervazioni,
i viluppi, e l'incertezze della ſua arte, e qua to poco ſia il frutto, o'l
giovamento, che poſſa da'ſuoi ar gomenti huom ritrarre; perchè egli ſcarſo anzi
che no mai ſempre fu d'imporre ne'mali acuti que'rimedi chegrā di chiamanſi
da'Greci; temendo oltremodo di ciò, che age volmente ſeguirne poteſſe; ne
coſtumava egli, come ab biam veduto, trar ſangue nelle febbri, ſe non fe quando
ſcorgevale da grandi, e interne infiammagioni accompa gnate: ne purgar
coſtumava, ſe non ſe molto di rado, e nel cominciamento ſolo de'mali acuti;
perchè n'era talora ol tremodo biaſimato dalle genti minute, le quali giudica
vano, comechè grave foffe, e di riſchio il male, eſſerne nondimeno piggiorato
l'infermo, ſolamente per la tra. ſcuraggine, e manchevolezza del medico che non
ci avel ſe al tempo con valevoli purgagioni, e con replicati falafi fatto
riparo; ſıcome la ſciocca rubaldaglia deʼmedici allor forſe avea per coſtume; i
quali in ſomiglianti malattie mol ti, e varj medicamenti,ficome egli narra,
adoperavano, non altrimenti, ch'or ſi facciano poco men, che tutti i Ga
lieniſtide’noftritempi. Cosìnella paſſata ctà videroi no. ftriantichi con
biaſimi di traſcuragginc indegnamente ol traggiato, o proverbiato maiſempre
Proſpero Marziano, e prima di lui anche GirolamoCardano;i quali ſaggi,e avve
duriſſimieſsédo in gir dietro ad Ippocrate le medeſinc tac cc del lor maeſtro
agevolmére ſi guadagnarono.E a' tempi noftri abbiamo pure uditi i brôtolaméti,
erimproccjcutto di ſcagliati a Paulo Emilio Ferrillo, per eſſer lui nelle
febbri dal preſcrivere le purgagioni ritroſo; e indi a poco acerba mente cffer
proverbiato Diego Raguſi, perciocchè nel ſegnare, e nell'uſare le purgative
medicine fedelisſimo ſe guace d'Ippocrate, e del Marziano ſi dimoſtrava, ne mo
riva giammai infermo, chenon ne veniffe loro rimprove rata la dappocaggine, e
traſcuratezza d'aver colui ſenza gli acconcj medicamenti miſeramente laſciato
morire. Com tanto il non operare ſecondo la folle opinione del cieco vulgo,
grave crrore, e biaſımevole ſempremai fi giudi ca e; maggiormente allor, che no
li ficgue ciò, che comu mente dalla traccia de' menovili maeſtri coſtumar ſi
ſuole, 1 1 RA 319 1, des S É ſtanco, c anſante pellegrino, cui lunga, e
faticoſa ſtrada ancor rimane, acciocchè pofla gli ſmarriti ſpiriti rivocando,
al fine diterminato agiatamente pervenire,or in ombroſa felva al canto di
piacevole uſi gnuolo s’arreſta,or indilettevol poggiore fpirãdo fi ſiede,or
lūgo la riva d'un qualche fuggére, e chia risſimo fiumicello ſi slaccia or in
un pratello di freſchiſ fima, e minatiffimaerba ripieno, e di vaghi
fiori,dolceme te ripoſa; e ſe Natura rizzare, e ſparger volles come huom crede,
in mezzo agli fpaziofi campidel inare tante, e tante Iſole, acciocchè quando
a'Soli più tiepidi s'accolgono,ri trovaſſero agios e poſa ne'loro lunghiſſimi
voli le varies tormedegli uccelli; ragionevolmente dobbiam noi, o Sig. poichè
sì dura, e malagevole imprefa di dover ragionādo traſcorrere le ſcuole de più
famoſi medici abbia già comin ciata ragionevolméte dico dobbiam noi talora
interrāpédo i noſtri lúghi ragionaméti préder nuova lena; e táto più, che vie
più ſghembo, e inviluppato ſentiero di quello, chedie tro n'abbiam laſciato,
orci ſi fa innanzi; imperocchè ab } biano, ficome avere potutofin'ora
comprendere, piena mentediinoſtro,ſe'l mio avviſo non m'inganna, a quanto mal
riuſciſſe a coranti valene'huomini il volere alcun fifte ma di razional
medicina ſtabilire; e fornigliante di molt’al. tri appreſſo andrein diviſando;avvegnachèa
trattar dico ſtoro aſſai più grandemalagevolezza s'incontri; imperoc chè di
loro opere nulla a' noſtri tempi non ſe ne ſerba, e quelle poche, e intralciate
memorie, che di eſſe abbia mo, maffimamente appo Galieno, o poco, o nulla
n’appro dado a farne diviſar di loro dottrine; imperciocchè quel buon huomo,
tra perchè non l'intendeva, e anche, perchè vezzatamente ſtudiavali d'oſcurare,
e porre a fondo ogni lor fama, e gride, cosìſconce,o travolte le ci narra
talora, che a gran pena illor intendimento ſe ne può ritrarre, Ma comunque ſia
la biſogna, Iomiargomenterò ſecondo mia poffa d'illuſtrar quanto poſſibil fia i
loro ſentimenti e la lor dottrina ſtacciando, ſeguitar la coſtuma del noſtro im
preſo diviſamento. E tralaſciando quì in primadi far parole d'Apollonio,di
Diſippo, e d'alcun' altri ſcolari d'Ippocrate:i quali per va rj, e diverſi
ſentieri avviandoſi, a varie, e diverſe altre ſet te di medicina dicder
principio: come di quelli,de qualial tro non ho che dire, ſe non che alcuni di
loro vennero ini vituperevolguiſa crattatida Eraſiſtrato: darem comincia mento
dal famoſo Diocle. Dico adunque, ch'e' fi puòbé ammirare, e commendare la ſua
grandiflima corteſia, o umanità veramente ſingulare, colla quale, come teſtimo
nia Galieno,uſar ſolea con gl'infermi; ma tion già la ſua dottrina, eſſendo
molto rare quelle notizie, che a noiper venute ne ſono; ſi legge nientedimeno
ancor oggi una ſua cpiftola del inodo del conſervar la ſanità, dove permio av
viſo non ha coſa per cui meriti egli quelle ſomme lodiche dagli ſcrittori, e
particolarmente da Galicno sfoggiataméte inveſtire gli vengono; nesébra punto
chesì fatta piſtola Gia degna di quel ſapientiffimo Principe, al quale ella è
fcrit ta; vi ſi ſcorge tuttavia, che Diocleera aſſai vago dell'A ſtronomia, e
che ben poco egli gradiva le compoſte medicine, e che non moito gli erano a
cuore le purgagioni. Per quel poi, che di lui vada dicendo Galieno, egli ha Dio
cle per fondamenta del ſuo ſiſtema il caldo, e'l freddo, e'l fecco, e l'umido;
de'quali i due primi,agenti, e gli altri pa zienti e' vuol, che fieno. Dottrine,
che quanto dal vero modo di filufofare vadan lontane, altra fiata avendone lo
fatto ſermone, non fa lungo, ch'al prefente più il dimoſtri; ma comechè Diocle
d'altiſimo intendimento, e ben acco cio al filoſofare ſi foſſe, non però di
meno, o per manca mento di maeſtro, o di guida, ch'al diritto fentiero l'avel
fe fcorto, o per altro, che ciò operato aveſfe;ſconciamente laſciandoſi trarre
a’hiſicofi impigli della dialettica, sì, e tal mente bambo, e ſcempiato ne
divenne, ch'oltre a' già detti crrori, impreſe a foftenere, non eſſer
altrimenti il ſu dore, vuotamento naturale;e quantunque a Galieno ſem braſſer
molto probabili fue ragioni, nondimeno da colui, come troppo durauna
talopinione, e come ripugnante, e contraria all'evidenza de'ſenſi vien forte
bialimata, e rifill tata. Ma quanto molto poco in filoſofando in medicina egli
s'avanzaffe Diocle, chiaramente il ci da egli medefi mo a conoſcere, quando
favella della malattia ipocondria ca, di cui un libro ben'intero e compofe, il
quale ſcëpia to, emancheyolc ftimnafi per Galieno; ma che che nedica colui,
degno certamenteini pare di grandiflima foda quel libro; imperocchè ci fa
vedere il fuo componitore eſſerfi molto ben avveduto della incertezza della
medicina, da che tutto ſoſpettofos e rentonc e' ſempre ſe'n va in con
ghietturando le cagioni delle maraviglioſe, e ſtrane appa senze di quel male.
Dice infra l'altre coſe in quel ſuo libro Diocle,doverſi fo ſpettare in coloro,
che ſon travagliati da’mali ipocondria ci, non quelle venc, che ricevono
l'alimento dal ventrico lo, abbian aſſai più calore del convenevole, e'l ſangue
in effo loro ſia più groſſo aſſai divenuto; concioliecoſachè cerca coſa ſia le
menzionate vene eſſere in quelli oppilate i edice ciò argomentarſi
dall'alimento, ch'al corpo accon ciamente non ſi diſtribuiſce, e nel ventricolo,
indigeſto ri Sf inane;mane; quando davanti per li meati ſi ricevea,e per la mag
gior parte con agevolezza s'avvallava al ventre, come dal vomito poi
manifeſtamente s'avviſa, quandoil giorno ap preſſo così guaſto ſi rece, per non
eſſerſi diſtribuito al cor po il cibo; mache'l calore in sì fatti infermi fiz
più del na turale ſoverchievole, agevolmente fi ravviſi, così dall'in focamento,
che a loro avviene, come da quelle coſe,che anche lor li danno; imperocchè
giovevoli eglino ſperimé tano i cibi freddi, i quali ſogliono certamente
rintuzzare, e fpegner in parte il calore: τες δε φυσώδεις καλεμόες, υπολαμ.
βάνειν δεί πλέον έχειν το θερμόν του ποσήκοντG- εν ταις Φλεψί Gίς εκ της γασρος
την κοφίω δεχομλύαις · και το αίμα πεπαχιώθαι τούτων δηλοί γαρ ότι μου έσι
έμφeαξις περί ανώς τις φλέβες τω μηκαταδέ χεθα το σώμα την τοπίω · αλ' εν τη
γασρί διαμένειν ακατέργασον» πρό τερον των πόρων τοίχων αναλαμβανόντων, τα δε
πελα αποκρινάντων ας τω κάτω κοιλίαν και το τη δευτεραία εμών αυτες έχ υπαγόνων
ας το σώ. μα των στίων · ότι δε το θερμόν πλέον εα του καιτου φύσιν» μόλις αν
της κατανοήσσεν, έκ τε των καυμάτων των γινομένων αυτούς, και της ποσ φοράς •
φαίνονlαι γαρ υπό των ψυχρών όφελούμενοι σιτίων•ταδε πιανα το θερμόν καταψύχων,
και μαραίνουν σωθεν. Soggiugnc indi appreſſo Diocle, che affermino al cuni
eſfer infiammata in sì fatto male la bocca dello ſto. maco, la qual s'uniſce
con gl'inteſtini, e per la infiamma gione quella parimente oppilarſi, e vietar,
che i cibi non calino giù agl’inteſtininel tempo opportuno, e ſtabilito; perchè
dimorando i cibi poi,oltre alconvenevole nello ſto maco,cagionino igonfiamenti,
e'l calore, e l'altre coſe tur te, che menzionate per lui in prismafi fono: Λέγεσι
δε πνες επι των τοιούλων παθών ή σόμα της γασρος το συνεχές των εντέρω φλεγμαί
ΥΑν, δια δε την φλεγμονίω έμπε πξάχθαι, και κωλύειν καταβαίνουν τα σιτία ας το
έντερον τοϊς τεταγμένοι χρόνοις· τούτα δε γιγνομένα, πλείονα χρόνο του δέον-
έντή γατε μένονά, τους πάγκες παρασκευάζει,και τα καύμαζ, και τ' άλατα
πποειρημένα, Egli vien Diocle ripigliato da Galieno, perchè infra le tante coſe,
ch'egli in mezzo produce, del timore, c della triſtezza, che propie ſono
delmale ipocondriico, e'punto non favelli, ma Galien medeſimo diciò poi lo
ſcuſa, fog giugnendo dallo ſteſso nome del male farli ciò manifeſto, impertanto
Diocle non averne fatto menzione; ma nondi meno a Galieno non diſpiace la
maniera del filoſofa te di Diocle intorno a ciò;maſolamente forte fi maravi
glia, dicendo eſſer una quiſtione degna da fare, perchè non abbia Diocle recata
la cagione, per la quale in sì fat to male venga la mente offeſa:masì fatta
quiſtione, s'egli vi aveſſe poſto bé méte, nó gli era molto agevole a folvere;
imperocchè ragionevolmente nel vero non volle darſi bri ga niuna Diocle di
produrre in mezzo coſa,qualegli non avea avuta fortuna d'inveſtigare: nel che
avrebbe certame, te il meglio fatto ad imitarlo Galieno, il quale così ſcon
ciaméte ebbediciò a filoſofare, che meritòd'efferne acerba mére proverbiato,e
deriſo da’luoi medeſimi parziali. Ma noi laſciādo da parte ſtare
Galieno,diciamono molto bene nel vero aver de'maliipocondriaci filoſofato
Diocle; cõciof ficcofachè in priina, per tacer d'altro,non continuo ſi avviſi
ſmoderato calore nello ſtomaco, o nelle parti vicine, ma talora fredde
ſenſibilmente ſi ſcorgano in coloro, che pa ciſcono sì fatto male; perchè
convicn certamente giudica re, che'l calore quandunquc in lor ſi trovijalcro
non ſia, ſal vo che un effetto del male medeſimo; la qual certezza fal fa
apertamente ne fa conoſcere l'opinion teſtè rapportatas da Diocle, di coloro
iquali ſtimavano cóſiſter sì fatto ma le in una infiammagione, o altro ſimile
della bocca del Pi loro. Gli argomenti poi, che reca Diocle per far pruova
della ſua opinione quanto deboli fieno, e fallaci, non fa meſtieri, ch'lo dica;
concioltecofachè ogn’un per ſe ſteſ ſoconoſcerpuò, che da cibi, chefreddi egli
appella,ſovés te ſaccrefca oltremodo ilmale, comechè talora ſembrich ' cglino
lo mitighino in qualche parte, col rintuzzar la mor dacità de'ſughi secol
reprimere la ſtrabocchevol lor fora mentazione. Chi poi ben riguarda alla
fabbrica, call'ufi cio delle vene, le quali picciole nelle loro boccucce ſi van
tratto tratto allargando, perchè acconce, e valevoli firé dono a ricevere più
agevolmenteil ſangue, s'avvede inco tanente quanto dal ver ſi diparta la
ſentenza di Diocle,co tanto cómendara, e tenuta in pregio dal vulgo de medici,
SI 2 che le che le vene meſeraiche ſi poſſano oppilare. Ma fievolej molto
certamente ſi pare l'argomento, onde provar imma gina Diocle eſſer negli
ipocondriaci le vene meſeraiches: oppilate, perchè l'alimento al corpo in lor
non fi diſtribui ſca: imperocchè dovea Diocle conſiderare, che non diſtria
buendofi l'alimento al corpo dell'animale,non guari dité. po egli in vita durar
potrebbe, e chemolti,e molti ipocó driaci, anche forti talora, e vigoroſi
fin’all'ultima vecchiz ja veggionſi tutto dì pervenire; falſo adunque ſi è ciò
chè di loro va filoſofando Diocle; ſenzachè ben chiaro ognun vede la parte più
ſottile dell'alimento,qual è quella la qua. P le vene meſeraiche,com'egli ſtima
al corpo li diſtribui fce, continuo trapelare, e diſcorrere agl'inteſtini, avvegna
chè la parte di luipiù groſſa nello ſtomaco rimanga. Mavi dovea altresì por
mente, e inveſtigar Diocle, onde avve gna, che'l cibo nello ſtomaco degli
ipocondriaci,indigeſto rimanendo,non n’eſca fuori nel tempo uſato; ma certamé
te s'egli innoltrato ſi foſſe nella ſpeculazione delle coſe 112 turali,ne
avrebbe di leggieri ritrovata per avventura la ca gione; e tanto più, che pur
egli avviſa nello ſtomaco degli ipocondriaci la pontica, e ſtitica acetoſità,
la quale non permettendo, che'l cibo ben ſi digeſtilca,increſpa,e ſtrigne la
bocca del Piloro, per inodo, che dallo ſtomaco non pof ſano nel tempodovuto
calari cibi agl'intcftini. Ma laſcia do di ciò più favellare: non ineno e' ſi
ſcorge il modo del filoſofare in conghietturando di Diocle, da ciò,ch'egli dice:
appo Plutarca: επι δε τοϊς φαινομένοις δοαται ο πυρετόςεπιγενόμG" nečuvala,
noi Prey Movad,sy 6x6õves, cioè: le cose, le quali a noi manifeſtamēte fi fă
vedere,additano le nafcofe: poichè ſi vede la febbre,colleferite,colle
infiammagioni, e cõ i gavoccioli ac compagnarſi; dal che certamente egli vuol
cavare Diocle, che in quelle febbri, nelle quali nulla appare di fuori del le
menzionate coſe, ficno entro al corpo elleno, o altro fimile, che colla febbre
parimente s'accompagni. E rav viſaſi eziandio la maniera del filoſofare di
Diocle allor che appo il medeſimo Plutarco va inveſtigando le cagioni, per le
quali i maſchij ſtendi ſono.4.0 disocyóvoustousaideges,na es' Del Sig.Lionardo
diCapoa. 325 Θα το μήθ' όλως εύνες σπέρμα πιοΐεσθαι,ή παeg το έλαήoν του δέοντG.
και παρά το άγονον είναι το σπέρμα, ή καλα παράλυσιν των μορίον, κατα λοξότη
του καυλού μη δυναμένε τον γόνον ευθυβολεϊν,ή περί το ασύμ Mergov tæv
porów.alo's Tajvané saory oñs peýrsas. Ma oltraciò ſappia di Diocle aver lui,
contro quel, che avca inſegnato Ippo crate negli aforiſmi avviſato, l'itterizia,
d'ognitempo,ch' ella ſopravegna alla febbre eſſer giovcvole; al che cgli poi
aggiugner volle, che ſopravegnendo all'itterizia la febbre, mortifera coſa
quella ſia: arquatum morbum, ſono parole di Celſo, Hippocrates ait, fi poft
feptimum diem febricitante agrofupervenit, tutum effe, mollibus
tantummodoprecordiis fübftantibus; Diocles ex toto, fi poft febrem oritur,etiam
pro defe, fi pofthanc febris, occidere. Ma non meno dell'afo riſmo d'Ippocrate
la ſentenza di Diocle falſa cutto di fi ſperimenta. Coltivò egli poigrandemente
la notomia, ma come qucl rozzo ſuo ſecolo comportava, poco felicemente nel vero;
non però di meno cgli in ciò è da commendare;m2 séza fallo poi a ſommo onore
attribuir gli ſi dee, l'eſſer lui ſtato il primo, ch'aveſſe ofrto pubblicar con
un libro partia colare al mondo le coſe, ch'egli avviſate avea nel far no tomia
degli animali. Ma procedendo più oltre ci ſi fa davanti l'altro famoſo Principe
deʼRazionali inedici Pralfagora, cotanto celebras to, c in pregio tenuto da
Galieno, il quale diſſe eller lui ſtato in tutte le parti della medicina
eccellentiſſimo, e in tendentiſfimo di tutte le più ſottili (peculazioni delle
coſe naturali. Ma di queſt'huomo non è per mio avviſo da far giudicio diverſo
da quel, che di Diocle noi teltè fas; cemmo; poichè iinitando in ciò Diocle,
portò Praffagora, altresì opinione dalle quattro primieramente comuni qui lità
appellate dirivar tutte l'operazioni della natura; e con queſta credenza
camminando avanti, di neceilità dovette, da uno in altro crror tratto
inceſpicare. Oltra ciò viens forte Praſlagora biaſimato da Galieno, perchè egli
ſcrivel fe con tanta oſcuritàche ſembrano fc fue ſentenze enigmi da tener mai
ſempre in biltento il lettore. Ma con pace. pur ! 326 Ragionamento Quinto pur
di Galieno,Io non giudico queſt'errore cotanto propio di Praſſagora, che non ne
ſia ſopratutto da cacciar lamedia cina medeſima, per la grandifinna incertezza
di quel la; onde imaeſtri più accorti, e malizioſi, per non farſi torre in
fallo foglion sì facramente ſcrivere chenon ſi pof fa per niuno ne’lor veri
ſentimenti penetrare. Ma impertáto fallò grádeméte Praſſagora,e lervi di pel
fimo eſemplo agli altri Razionali medici, che dopo lui furono, e
particolarmente a Galieno, in voler con ſue ciar le farne calandrini, ecercare
di render poſſibile l'impoſſi bile, cioè certa, l'incertezza della razional
medicina. Vien biaſimato anche Prafſagora da Galieno, ch'aven do egli in prima
detto, che gli umori non ſi contengano al trimenti dentro l'arterie, cerchi
nondimeno egli poi d'in ſegnare, e minutamente additando vada, come per opera
del toccamento avviſar, eglinon ſi poſſa quali umori fia-. no quelli, che nell'
arterie ſi naſcondono; ma lo immi gino, che in ciò non ſi contraddiceſſe
altrimenti Pralſago 11, come dice Galieno, ma ch'aveſse egliportato opinio che
allor, che l'huomo è rano non abbia alcro nell'ar terie, che ſangue, ma che
infermando egli poi altri umari ancor vi diſcorrano; ne potea egli in verità
altrimenti di rc, s'egli pur non era affatto di ſenno fuori. Che ſia vero
quanto lo dico,apertamente ſi ſcorge in ciò, che il mede fimo Galieno di lui
riferiſce, cioè ch'egli ne men nelle ve ne credea che vi ſieno gli umori. Ma
errò certamente, e in iſconcia guiſa Praſsagora, in portando opinione l'arterie
cambiarli finalmente in nervi; avvegnadiochè difender s'ingegnino giuſta ogni
lor pof ſa si ſtrana, e dal vero apertamente lontana opinioncscome favorevole
al lor Ariſtotele, il Cefalpino, il Reuſnero, e'l Marziano; ma di non poco
biaſimo degno ſi rende appo molti antichi ſcrittori Praſsagora per lo ſtrano, e
crudel modo, col quale egli intende, che s'abbia a medicar l’lleo, volendo egli
infra gli altri rimcdi,che all'infermo fi faccia vomitare, e dopo il vomito gli
li tragga il ſangue, emol to forte gli ſi premano collc mani, il ventre, e
gliinteſtini, cal nes e alla per fine poi col ferro ſi taglino; ond'ebbe a dire
ra gionevolmente Celio Aureliano: quo probatur magnificam mortem Praxagoram
magis quam curationem voluife fcri bere; ſenzachè vié egli tacciato dal
medeſimo Celio, ch'e'li yaleſse anche nel curarlo degli ſconcj rimedi
d'Ippocrate: Aliquos etiã poft vomitum phlebotomat,&vento perpodicem replet,
ut Hippocrates. Item libris de caufis, atquepaſſio nibus,& curationibus
vinum dulce dari jubet, d rurſum Hippocratis ordinem ſequitur congerens omnia
peccata. Macon qual eccellenza di dottrina, e con qual artificio pervenir
aveffe potuto al principato della razional medici na il celebratiſſimo
diſcepolo di Praſſagora, Pliſtonico, chi farà mai che poſſa ſpiegarlo fra le sì
ſcarſe memo rie, che di lui ne ſon rimaſe? Io permeſolamente, e ap pena ne lo
quanto per Galicno all'avviluppata, eſcarfamé te ſe ne racconta: e gli ſi
afcrive ciò a ſomma losa,cioè che raffermaſſe egli quanto in prima diviſato
avea Ippocrate de’quattro umori; la qual coſa ſe tale è veramente, qual ſi
jarra egli, ne fa apertamente vedere, quíto troppo grofa ſolanaméte foffe
căminato Pliſtonico in filoſofando; ina no dimeno pur ſembra, che qualche
ſcintilluzza di lume in quelle folte tenebre, e oſcure egliſcorgeſſe allor,
chej porta opinione, che le digeriſca il cibo nello ſtomaco putrefacendoſi; il
che nel vero fu aſſai ad inveſtigar ma lagevole a lui, che non avea contezza
niuna di Chi mica, e veramente il cibo nello ſtomaco non maiſi ſcioglie, e muta
natura, fe non vi concorre l'opera d'una pronta, c velociffima filoſofica
putrefazione. Scriffe Pliftonico della materia de'medicamenti, macom'egliin ciò
li portafle al cri.per meve'ldica. Ma trapaſſando ad altri, Io non potrei
dire,ne'l mio det to ritroverebbe agevolmente crcdéza, in qual pregio ſovra
tutt'altri Principi della Razional medicina il grand'Erofilo s'avázaſſe.E
certamente degli ſtudi della notomia egli mol to ſi conobbe, e gli poſſon ceder
ſenza contraſto la maggio ranza non pur Galicno, ficome giudica dirittamente il
Vera ma quant'altri notomiſti prima, e dopo lui nella Grc 1 fatio, cii cia
tutta fiorirono. E quanto alla dialettica, egli cotanto lungamente divifonnes e
tanto minutamente, che il vulgo ſciocco dalle tante fraſche delle quiſtioni,
delle diftinzio ni,e diffinizioni, e argomentioffuſcato,comeſe da ſovrano nume
ftate fofſer dettate, le dottrine di lui celebraya oltre modo, e riveriya. Ma
il tanto ſtudio della dialettica do vert'eſſere alla ſetta d'Erofilo dinon
picciol damnaggio; e quinci forſe avvenne, che molti, o sfidando d'intender
pienamente le tante ſottigliezze di lui, e altri a niun pre gio, comevani, e
inutili arzigogoli avendole, ad altre ſcuole ſi rivolgeſſero. Ma impertanto la
ſua dottrina ritro vò inolti, e gravi ſeguaci, e fù aflai commendara; anzi
narra Strabone,che infin nella Frigia v'era a'ſuoi tempi una famola ſcuola
della dottrina d'Erofilo. Or Io, quantunque a voler dire il vero eſtimi, che
gran pro alla notomia abbia apportato Erofilo, nondimeno fembramifarfallon da
Ro. manzo quel del Falloppio: Contradicere Herophilo in Ana tomicis,eſt
contradicere Evangelio.Ma ebbe Erofilo per co ſtume di paleſar séza riguardo
niuno ciò che a fui veraméte parea delle coſese cotraddiſſe quando egli
ſtimava, che ine ſtier ve ne foffe, a tutti gli antichi, non la perdonando ne
meno al ſuo divin Maeſtro Praſagora. Fuegli molto prati co nella materia
demedicamenti,e fcrille parecchi volumi del modo, come ſe nc debbano imedici
valere; il che fu gli agevole affai, avendo egli logorato tutti i giorni della
ſua vita in far prove, e fperienze;per le quali non ſi può ne gare, ch'e'non
merti grandiſſima loda; comechè non cſen do a noi pervenute, niuna utilità del
mondo abbian potu to recarci. Ebbe vétura Erofilo d'abbatterſi nelle vene
fartee;ma egli traſcurato, sì bella opportunità laſciofſi uſcir delle mani, non
dandoſi cura d'ilveſtigarne il lor proceſſo, e l'uſo; ma di cotal negligenza è
fomigliantemente da accagionar Ga lieno, e tutti quegli altri notomiſti,
chedopolui anche ſe ne rimarono. Non molto diffimile dal fallo d'Erofilo fi fu
quello del noſtro Bartolomeo di Euſtachio, il quale avendo sitrovato il canal
pettorale, non ſi diè briga d'altro, e la 1 fcion fcionne il penſiero al
Pecchetti, a cui meritevolmente la gloria tutta di così gran fatto ſi dee. Ma
ritornando ad Erofilo: non fu egli nel vero molto fe lice in ritrovar coſe
grandi, e maraviglioſe, o molto com mendevoli in ſagaceNotomilta; avvegnachè
tutto dì ta gliar ſoleſſe non ſolamente i cadaveri, ma eziandio vivi gli
huomini. Scelleratezza tanto crudele, tanto infame, e vi tuperevole, e degna
d'eterno biaſimo,che val ſolo ad oſcu rar ogni ſuo pregio, e a far conoſcere al
niondo ad un'ora, quanto la fierezza de'medici, il diritto delle naturali, del
le divine, e delle umane leggitraſandando, oltre palli law crudeltà d'ogni più
fiero tiranno; perchè a gran ragione certamente ebbe a gridare il gran Padre
Tertulliano: He rophilus ille medicus, aut lanius, quifeptingentos exſecuit, ut
naturam ſcrutaretur, qui homines odit, ut noſlet. Man prima di lui Cornelio
Cello, dopo aver detto,ch'Erofilo, ed Eraſiſtrato aveano alle lor notomie vivi
gli huominide ſtinati, cosi ách'egli un cosìabbominevol misfatto deteſta:
crudele vivorum hominum alvum, atque præcordia incidi, & falutishumanæ
præfidem artem, nonfolumpeftem alicui, fed hanc etiam atrociffimam inferre.
Sopra tutto s'affaticò Erofilo nella materia de polſi, la quale,valendoſi egli
della muſica, cercò d'illuſtrare, e di ti durre a perfezione, per modo, che
nulla vi ſi aveſſe di vātag gio a diſiderare; ma tanto, e tanto egli vi ebbe a
ſofiſtica re, che meritevolmente forſe perGalieno,e per altri ne venne più
d'una volta ripreſo, e proverbiato;mad'altra parte per altriſommamente
commendato, come ſi può ve. dere in Plinio. Arteriarü pulfus in cacumine maxime
merebro rū evidens in modulos certos,legeſq; metricas, per atates, fta bilis,
aut citatus, aut tardus defcriptus ab Herophilo medici na vate miranda arte. E
queſto accrebbe in modo la ſua fama, e buon nome, che nulla più; promettendoſi
cgli, e dando altrui ad intendere, che col mezo de'polli, com' ab biamo con
Galieno accennato, poſſanſi avviſare ancor les coſc impoſſibili a conoſcere;
come ne’barbari ſecoli comu liemere li vider poſcia farei medici coll'orinc,
colle quali fa Tt cean veduta diconoscere pienamente lo ſtato de'malati, e
de’lani; di che ancor qualche veſtigio tuttavia nella noſtra Italia, e altrove
ne rimane. Mache / a'tempi noſtri in va rie.guiſe noipur veggiamo da qualche
medico ſcaltrito porre in uſo si fatte frodi, e riportarne ſempremai premj, e
laudi non ordinarie. Ne è da maravigliare; perciocchè il mondo gode in tal
guila d'effer ſemprcmai uccellato; il che apertamente ſi fa vedere dalla grande
ſtima, chevien fatta della Srologia, e della Gabbala, e d'altre arti vane, e ſu
perſtizioſe; e tanto prevalſe, e montò in pregio con fomi glianti artificila
gloria d'Erofilo, che di baſſo, e rintuzza to intendimento', e come della ſua
dottrina incapaci venis van giudicati coloro, che ſi dipartivano dalla ſua
ſcuola; perchè diſſe Plinio di lui favellando: nimiam propter ſubti bitatem
defertus: e della ſua ſetta facendo parole: deſerta hac Secta eft, quoniam
neceffe erat in ea literas ſcire. S'af faticò parimente Erofilo, come Galien
riferiſce, in inve itigar la natura dell'erbe; e dir ſolea, non haver così gra
ve, e pericoloſa malattia,che non ſi poteſſe coll’erbe curare; ma non però di
meno il valor di molte di quellenou effer conoſciuto, e alcune di loro gran
virtù avere ', le qua li tutto dìda noi fi calpeſtano: inde plerofque, fono
parole. di Plinio, ita video exiſtimare, nihil non herbarum vi effici poffe,
fed plurimarum vires effeincognitas, quorum innume 70 fuitHerophilus claras
medicina, à quoferunt dictü quaf dam fortaſſis,etiam calcatas prodeffe. Solea
far altresi grá diffima ſtima Erofilo dell'Elleboro; il quale, come altrove
vien ſcritto dal medeſimo Plinio, veniva pareggiato da lui ad un fortiſſimo
Capitano; perchèturbate egli avendo en tro il corpo tutte le coſe,foffe poi il
primoa uſcirne: elleború fortiſſimi Ducis fimilitudini aquabat; concitatis enim
intus omnibus,ipfum in primis exire.Mada ciò apertamente ſcor geſi, che poca, o
niuna contezza aveſſe Erofilo di quelle nobiliſſime medicine, le quali ſenza
recar moleftia, e dan no niuno ſon valevoli a domar le più gravoſe, e feroci ma
lattie: e ch'egli altresì ignoraſſe ilmodo, per lo quale la fciandogli intera
la parte giovevolemedicinale,ſi toglie all '. Elleboro la velenofa; ſenzachè
non è miga vero ciò ch'e. gli trancaméteafferma, che l'Elleboro fia il primo ad
uſci re; imperocchè talora non li diparte dallo ſtomaco, e dall altre viſcere
allo ſtomaco proſſimane,ſe nõfe ha fatto vuo far egli all'infermo in prima
quanto di cattivo, e di buono nel ſuo corpo ſi ritrovava. Non è ſtato adűque in
medicina il valor d'Erofilo così grande, quale il ci narra millantan do la fama,
Ma doveva Io certamente aſſai prima far parole di Me necrate da Siracuſa; il
quale col fuo ſtrano modo di filoſo fare, e di medicare rinnovar volle l'antico
uſo di Apollo, e d'Eſculapio, facendoſi venerar come un Dio. Ma a bello ſtudio
venne da me tralaſciato, per non haver Io potuto p quanto lo mi vi fia
affaticato, niuna contezza aver mai dėl ſuo liſtema; ritrovo ſolamente di lui,
ch'egli ſcriſſe, per quel,che ne narri Galieno, un libro de'medicamenti, de
quali egli molti da ſe ſteſſo trovò, Fu egli Meneçrate così ſuperbo, ambizioſo,
e vano, che non volle egli giammai denajo, o altro premio dagſinfer mi di mal
caduco, che guarivano per le ſue mani; folo ri. chicdea, che eglino ſuoi ſervi
fi doveſſero confeſſare, e che col nome di Giove l'aveſſero a chiamare, e come
Gio ve il doveſſero onorarc.Solea egli ſpeſſo in mezzo a coloro, traveſtiti,
chi da Ercole, chi da Apollo, chi da Eſcula pio, chi da altro Dio minore, a
guiſa di Giove con coro na d'oro in teſta, colla veſte di porpora, e collo
ſcettro in mano farſi in pubblico vedere, 1.a qual si ſciocca traco tanza
imitar volle Ottaviano Ceſare, quando, come rac conra Suetonio, con gli abiti
d'Apollo fra huomini, e fra donne rappreſentanti Dij, e Dec, e'feder yolle in
un ſono tuofo convito; Cum primum iftorum conduxit menfa choragum, $exque Deus
vidit Mallia, exque deas; Impia dum Phabi Cafar mendacialudit, Dum nova divorum
cænat adultera: Omnia fe à terris, tunc Numina declinarunt, Fugit auratos
luppiter ipfe thronos, Tt 2 1 Mapiacevole egli è a udire ciò che avvennea
Menecran te con Filippo Rè diMacedonia, comechè Plutarco dicas con Ageſilao Rè
di Sparta; ſcriſſe a Filippo egli in sì fatta guifa Φιλίπσω Μενεκράτης ο Ζεύς
εν πτά θαν: maFilippo trattado lo da pazzo, qual egli veraméte era, così gli
riſpoſe: dínia πος Μενεκμάτα υγιαίνειν συμβελεύω σοι ποσάγαν σεαυτόν επί τοϊςκα
στο Ανήκυραν τόποις · ηνίδετο δε άeg δια τούτωνόππαραφρονώο ανήρ. Vna volta
anche il medeſimoRè invitò Menecrate a deſinar ſeco,egli fe porre un deſco da
parte, facédoglidar cótinua méte incenſo, in tépo,che gli altri convitati in
altra tavolas allegramente ciurmavanſi, e facevan gozzoviglia. Mene crate nel
principio fommamente godeva dell'onore fattogli dal Rè, come å un Dio; ma
poichè gli ſopravenne la fame, e gli fè vedere, ch'egli era huono, comegli
altri, fi parcì dolendofi, e lagnandofi fortemente della beffa fattagli dal Rè.
Mi ſi fan davanti ora Neſiteo, Filotimo, Eudemo, e M2 rino, i quali comechè
ſommamente cominendati, e in pre gio avuti foſſero da Galieno, è da dir
nondimeno, che no troppo bene filoſofaſſero cglino in medicina, c che molto
poco altresì valeſſero in notomia; ficome da qualche lor ſentimento rapportato
dalmedeſimo Galicno, apertamen tc per ognun ravviſar ſi puotc. Maintra le ſette
più chiare, e più famoſe, che nell'air tiche ſcuole già s'inſegnavano della
razional medicina (ſe cgli s'ha riguardo alcorſo non mai interrotto Per volger
d'anni, oper girar di luftri) che nelle Città, e nelle Provincie più nobili s
ove la greca fapienza era in pregio, glorioſamente fiorirono: o le pur fi mira
all'onore, alla fama, e al numero ragguardevole de lor maeſtri, niuna
certamente, s'Io pur non vado errato egliſembra, che agguagliar fi poffa, non
che antiporre a quella, che da Crilippo in prima ritrovata, indi per opera di
Medio, e d'Ariſtogene celebri tra' ſuoi ſcolari,maſopra tutto per Eraſiſtrato
ſommamente accreſciuta ne vennc, e ftabilit2. Quinci ſi può agevolmente
conghietturare ché te, e quale egli ſtato ſi foſſe il fapcre, l'avvedimento,
law ſperienza, e l'induſtria d'Erafiltrato, che di Criſippo,d'A riſtogene, e di
Medio nulla v’abbiam che dire; ma ciò più aſſai in verità argomentarlece da
quelle pochiſſiine coſes comechè tronche, e ſmozzicate, Che fan col duro tempo
afpro conflitto, che di lui nell'altrui opere, e più che in altre, in quelle de
ſuoi einuli tuttavia ſi leggono; nelle quali pariinente egli moſtrò quanto, e
quanto oltre condotto fi foffe per le più dure, c ſpinoſe malagevolezze
dell'arte; intanto che ad acquiſtar meritamente e' ne venne la Signoria curta
della medicina; e non ſenza ragione certamente venncgià da al cuni
valent'huominicreduto, ch'egli laſciato di gran lun ga s'aveſse addietro
nonch’altri, Apollo, Eſculapio,e Peo ne medeſimo. Così egli da Appiano
Aleſsandrino,venne appellato meetóvuje @u,c Galieno parimé: e con orreuoli, e
riverēti maniere trattandolo, 11011 iſdegnò di ragguagliarlo ad Ippocrate;
chiamando egli l'uno, e l'altro: iv dožoTátis iørção. E avvegnadiochè pure
alcuna fiara moſſo, o dal zelo della verità, o dall'invidia, o dall'emulazione,
o daw troppo altieris e ſuperbi portamenti de'parreggiatiei ſegua ci di lui,
ſconciamenre egli lo biaſimise prendaa gabbole ſue opinioni; nientedimeno in
tanto pregio, e in sì gran, yenerazione ebbe Galieno la dottrina d'Eraliftraro,
ches prender volle fatica di commentarmolte delle ſue opere: e di lui favella
più d'una fiara con molto riguardo, e onor di parole; e mi ricorda, ch'una
volta infra l'altre togliendo egli ad impugnar una ſua opinione, ſcuſando quali
il ſuo troppo ardimento con eſo luicosì ne favella: Si compiac cia di grazia
Eraſiſtrato, che in quella guiſa appunto,e col la medeſimalibertà lo tratri lui,
e le ſue quam le egli trattar mai ſempre ebbe in coſtume Ippocrate, ela
doctrina di quello. Ne fi dee anche aſcrivere a poca lodo d'Eraſiſtraco,
ch'egli, comenarra Galieno, ſi foſſe ſtato il primo autore, e introduttore
della vera arte ginnaſtica, e che per opera del ſuo ſenno, e della ſuamano in
piede ſi ri metteſſe; anzi ſi ritornaſſe in vita la notomia, la quale per
infingardia degli antichi medici già affacco caduta, e ſpen ta fe ne giacea. Ma
1 opere, colla ! Ma qual maniera egli tenelle Eraliitrato nell'inveſtigare le
cagioni in ſeno della natura appiattate, e naſcoſe, e quai foſſero i ſuoi
ſentimentiintorno a ' principi delle coſe ſenfi bili, malagevole molto egli è
ad avviſare; impertanto ſi ſcorge apertiſſimamente, ch’Eraſiſtraço era affai
libero nel filoſofare, e oltremodo ſchiyo, anzi nimico di far pompa appo il
vulgo di mentito, e apparente ſapere; onde mai non ſi vide ricovrar egli alla
franchigia tanto da’ſofiſti uſi ta, e praticata, delle facoltà, e d'altre
fimili vanillime novelle, e ciance, le quali non altro in verità, che Nomije
fenza ſoggetto Įdolifono, nelle malagevoli, e inviluppate tenzoni della
filoſofia, e della medicina; nella qualcoſa,comechè ne doveſſe Era fiftrato con
ogni ragione, s'Io pur diritto eſtimo, ſomma lode ritrarre, malignamente troppo
in verità, e a gran for to funne ripreſo, e vituperato da Galieno; il quale
oltre a ciò ardiſce anchetemerariamente a vituperarlo, e a biafi marlo, perchè
ſempremai moſtrato ſi foſſe ſul filoſofeggia re, duro, e implacabile avverſario
dell'opinioni d'Ariſtote le, nulla curando, che ſuo avolo ſtato e' fi foſse;
col qua le, e coʻPeripatetici in una ſola coſa convenne, ciò fu nell' affermar
coſtantemente, che per la natura niéte a caſo mai vegna fatto, e poſto in
opera.. Ma non rammentò Galieno, che Ariſtotele, ed Erafi Atrato convengono
bene inſieme anche nel dire, che le re ni, e la milza non fervano a coſa niuna;
ma della milza. prima di tutti ſcriſſe colui ad Ippocrațe, parlando della na
tura dell'huomo, παλίων απέναντι £'δα, πάγμα μηδέν αιτίμο». Furicevuta una tal
opinione da Rufo da Efeſo, il quale dif ſe,che la milza foſse anánt, ni
avevéeyn,mano già da’ſco Jari d'Eraſiſtrato, come que’, che diſsero, che la
milza preparaſse al fegato il ſugo da generare buon ſangue, tör το σπλάγχνον
περπαρασκευάζειν το ήπατπ τ έκ ή σιτίων χυμόν ής α' Mateu xensă girsar, Ma
benchè Erafiltrato sì grande, e sì valent'huomo ſi foſſe, e che tanto dalla
natura foſſe favo. reggiato, e di rari doni, ç maraviglioſi arricchito, c per
ső mo sforzo di ſtudio molto avanti fontille nelle coſe dellam! natura, e che
colla altezza del fuo anino ſtudiato fi folle di aggiugnere anche talora fin la
dove forſe non potè per addietro pervenire altro intendimento mortale: e coll'e
ftremo diſua poſſa di formareſi foſſe argomentato il fiſte ma della ſua
razional medicina ſommamente perfecto, e compiuto; nientedimeno più d'una fiata
dal diritto ſentier della verità inolto, e molto lungi ſi trova; e ſi leggon di
lui alcune ſtrane, e ſconce opinioni, comeche in alcune a cor to accagionato
talora e' ne vegna da Galieno', e in alcun con aſſai fievoli, evane ragioni
riprovato; il che ravviſa no talvolta, e ſono coſtretti a confeſſare i
medeſimiGalie niſti ancora Ma nientedimeno a grandiſſima ragion certamente vien
da Galieno aſpramente ripigliato Erafiftrato per aver dct to egli, che
nell'arcerie nello ſtato naturale dell'huomo no v'abbia ſangue, ma ſolo ſpirito
vitale, ſecondo lui:e fpiri to' animale ſecondo Criſippo ſuo maeſtro; coſa',
della qua le, così evidentemente ne appare il contrario, che forte mimaraviglio,
comeGalieno quantunque abbondevole d'ozio, e di ciance aveſse potuto darſi
briga di compilare un libro intero per impugnarlo. Ma, o Quanto è'l poter d'una
preſcritta ufaniza ! equanto dileggieri un’huompaſſionato in gravi falli quaſi
inavveduramente traſcorre. I ſeguaci d'Eraſiſtrato per niu na ragionedel mondo,
neper evidenza de'ſenſi, che loro apertamente additaffe il contrario,
abbandonar mainon vollero i ſentimenti del lormaeſtro"; il quale non
altrime ti, che ſe Dio ſtato foſse', ſe preſtar lece in ciò fede a Ga lieno
ſolevan eglino ammirare', e venerare; avendo per vero, e ſaldo, e indubitato
ogni ſuo qualunque detto. Ma ritornando a noſtra materia; egli è da creder, che
dall'o pinion, che reſtè abbiā noi rapportata, prendeſse cagione d'inſegnar poi
Eraſiſtrato, altro non eſser la febbre, che un movimento inuſitato del ſangue,
che dalle vene, dove naturalmente riſiede, all'arterie tragittiſi: e cheſicome
al lor, che non ſoffiano i venti, pofa abbonacciato, E nelſuo letto il
marfenz'onda giace; ma ſoffiando poi fortemente Oſtro o, Aquilone enfia, ed
eſce fuori impetuoſo, e rapido dall'uſate ſue ſpon de, e inonda, ed allaga le
piagge tuttc, c le campagne vici ne; così anche, fe non v'ha coſa, che l'agiti,
o'lcommuo va, dimori placido il ſangue nelle vene:maſe per ſoverchia abbondanza
gonfio, o per altra cagione ſoſpinto, e agita to mai venga, sboccando ſubito
dalle vene, ratto all'arte rie diſcorra, e ſe quindi dallo ſpirito, che in eſso
dimora ſia altrove riſpinto, vada a fermarſi, e ſtagni in quelle cic che ſtrade,
dove terminano l'arterie; e quivi riſtrignen doſi, crappigliandoſi, formerà
l'infiainmagione; e la feb. bre; ecco le ſue parole rapportate da
Plutarco:Nuperds isi zí. νημα αίματG- παρεπιπλωκός ας του τα πνεύματG- αγγείο
απιοαιρέτως γινόμενον • καθάπερ γαρ επί της θαλάττης, αν μηδέν αυτήν κινη ήρες
μί, ανέμε δε έμπνέοντG- βιαία παρά φύσιν, τότε εξ όλης κυκλεται. ούτω και εν τω
σώματι, όταν κινηθήτο αίμα και τότε εμπίπτει μες στο αγγα των πνευμάτων,
πυρέμενον δε θερμαίνει το όλον σώμα. Αrtifciofotis trovato nel vero, ma che
appoggiato in aſsai poco falde fó damenta non può far, cheda ſe ſteſso non
crolli, e rovini. Manon laſcerò già lo quì di narrare ciò che immagina. alcuno,
ch'altri ſi foſsero intorno a ciò iyeri ſentimenti d ' Eraſiſtrato, e
chemal'inteſi, e peggio ſpiegati a noiſien pervenuti; e tanto più, che come
Galienoavviſa,Eraſiſtra to a ſtudio oſcuro alle volte Con giri diparole
obblique incerte recar ſuole le ſue opinioni; e che perlo ſpirito egli abbia?
intender voluto un ſangue ſottiliſſiino,e di quelle particel le, onde ſi forman
l'etere, e l'aere per la più parte ripicno. Macheche ſia di queſto, certamente
ſi deecgli credere, ch? a niuna guiſa mai avrebbe Erafiltrato dato fuori così
inve riſimili, e vane fanfaluche, ſea lui foſse pervenuta qualche menoma
contezza del vero movimento del ſangue; e pure egli vi fu molto da preſso:
imperocchè ravviso, e conob be, che dalle vene all'arterie, comechè vi lien le
ſtrade, na turalmente non ſi tragitti il ſangue; il che diede poſcia ca gione a
Galieno d'affermare, che l'arterie traggano il ſan gue dalle vene. Qui
riſtette, ne paſsò più avanti Eraſiſtra to, comechè la ſua gran virtù molto
bene il valeſſe, merce che non già alla Grecia, ina alla noſtra Italia era la
glo ria riſerbata dello ſcoprire l'aggiramento del ſangue. Oltre a ciò ſi pare,che
ſommaméte lodar ſi debba Eraliftra 10, perchè al ſuo grande avvedimento, e
induſtria aſcon der no li potè il ſugo nutritivo ma: pur fallò egli in immagi
nando, che quel ſolamente ſerviſſe a nutricare i nervi, ſe è vero ciò che ne
narra Galieno. Conobbe ancora Erafiftrato le vene lattee; niétedimeno rinvenir
non ne ſeppe l'uſo; s'accorſe egli anche, ed è egli non picciolo ſuo vanto,
che'l reſpirare non diedes già a noi natura, comeimmaginò con Ippocrate,
Diocle, e Ariſtotele, Perchè'l caldo delcor temprato fia. Ma non potè penetrar
egli nientedimenoil vero,'e propio uſo della reſpirazione: e perchè alcuni
animali fieno ſtati formati sì, che debbano reſpirare; imperocchè contendes
Erafiltraco, che la reſpirazione ad altro non vaglia, fe non fe a poterempier
d'aere Parterie; coſa, che da per fe appar dal vero così apertamente lontana,cheimutilmente
colle fue ciance Galieno impréde a dimoſtrarla alțresì tale.Mafe Eraſiſtrato
aveſſe avviſato, che il sague,tutto che no appaja di coſe diffimiglievoli eſſer
cópofto, pur contenga molte, e molte parti dinatura diverſisſime avrebbe potuto
agevol mente ſpiegare, qual ſia la neceſſità dell'aere, e della refpi razione
neglianimali; imperocchè avviene, che nel ſepa rarli dalſangue la parte più
ſottile, e per così dire, ſpirito ſa, ſi faccia anche neceſſariamente
ſeparazione di varie al tre parti groſſe;come nella formentazione del moſto, e
d'al tre liquide foſtanze chiaranxente ravviſaſi; queſte groffe porzioni, forza
è, che s'abbattano, ſeparate cheelleno ſo no, o nell'acre, o in altro corpo
ſimile, il quale contenga pori acconci a riceverle, e che ricevutele, ſia
valevole a tragittarle fuori de'vafi:a quella guiſa appunto, che al ráno
s'appaltano le lordure, le quali imbrattano il panno, e che col ráno ſe ne van
via; e ſe perdiſgrazia dell'animale qual che tratto di tempo, quancunque aſſai
menomo, non fao V u ceſſe nel ſangue una cal purificazione, intoppando agevol
mente negli anguſti vaſi dieſſo colle craffe porzioni ſepa rate i ſottiliſſimi
formentāti corpicciuoli,ſarebbono queſti incontanente coſtretti ad abbandonare
il movimento loro dılacante; e ſeoltre a'formentanti corpicciuoli aurà nel são
gue abbondanza di ſoſtanze d'altro genere, ma altresì vo lanti, tra le quali
viliano in copia grande i ſemi del fuoco, così queſti, come quelle non
incontreranno molta diffi coltà a liberarſi da' ritegni; e ſe vi ſi aggiugnerà
qualche altra circonſtanza, onde, e l'uno, e l'altro movimento, e di
formentazione, e dicalore rieſca grande, e notabilmée te impetuoſo, allora cgli
grande oltremodo converrà ch ' avvegna la ſeparazione: per lo che non baſtando.
dilatare, il ſangue dalle groſſe, c importune porzioni quell'aere,che
inceſſantemente negli animali per li pori trapela, abbiſo gna, che altra aria
mediante la reſpirazione fi beva; e di quì ravviſato ſenza fallo avrebbe
Eraſiſtrato, che parecchi animali no poſſano vivere colla ſola traſpirazione,
maloro faccia huopo pariméte della reſpirazione; e ſe'l moviméto formentante
non ſarà molto grande, ne verrà da notabile, calore accompagnato, allor
l'animale avrà di pochiſſimo aere biſogno, e baſteragliquello, che, o colla
ſola traſpi sazione, o con qualche forte ancora di imperfetta reſpira zione
ſuccerà;e p cal cagione poſſono détro alle acque vie vere i peſci; imperocchè
nell'acque, benchè aere non vi ſia almeno che ſenſibile appaja, vi ſono
impertanto parecchi, e parecchj aliti, i quali cosìdalla terra, come altronde
gli vengono ad ogn'ora ſomminiſtrati; e trapelando queſtinel corpo de'peſci,
adempiono il medeſimo uficio dell'aere col riportarvi quelle ſoſtanze, che, o
nel fangue, o ne'liquori al ſangue equivalenti impedir potrebbono la
formentazio ne, col mettergli giù nell'acqua, acciocchè l'acqua ſe n’ abbia a
ſcaricare, comunicandola all'aere più vicino; il che ſe mai lor viene impedito,
rimangono i peſci poco ftanto privi di vita. Nell'uovo poi, e nell'utero
eſſendo i mo vimenti dell'animale non molto grandi, e maſſimamente fra queſti
il formentante, ed eſſendo anche oltremodo mol lise li; e pieghevoli, e poroſi
i ſuoi vali, può baſtar ſolamente quell'aere,che per li pori vi trapela; e ſe
mai dal freddo, o da altra cagione vegan chiuſi i pori,nõ entrādovi più l'aria,
ceſſa nell'uovo, e nell'utero la formentazione del ſangue, e ſe ne muore
l'animale; ſenzachè non è di picciolo mo mento a mantener il debile moto
formentativo nell'anima le racchiuſonell’vuovo,ilpicciolo,e rimeſso eſteriore
caldo, che o dalla chioccia,o dalla fornace, o dal fime gli vié comum nicato; e
come tutto dì veggiamo,nc'vaſi ermeticaméte fi gillati, il calore del bagno,o
del fime è valevole a far sì, che non ſi attuti, anzi duri, e fi accreſca
nc'liquori la formen tazione. Aggiugneſi, che mal ſi può render volante quel la
nobiliſſima ſoſtanza, la quale continuamente a vivificar le parti dell'animale
dal ſangue lor ſi communica,ſenza l'ac re, in cui mai ſempre troyanſi
quc'volanti corpicciuoli, che ajutano la formentazione. Ma laſciando queſto
ſtare al preſente, forſe noi cammi namo dietro la guida d'un cieco; e altra
peravventura ſa rà la vera opinione d'Eraſiſtrato, la quale a dir il vero vien
portata in sì fatta maniera da Galieno, che ſembra ch'egli, o non l'aveſſe
inteſa, o non l'aveſſe voluta intendere, come fa anch'egli nel rapportare
quellaltre opinioni d'Eraſiſtra to intorno alla cagione,per la quale ſe ne
muojan gli ani mali nelle mofete. Vuole Eraſiſtrato, per quel che ne nar ri
Galieno, che ſe ne muojan gli animali nelle mofete, e nelle ſtanze chiuſe,
einfette o dagli alitidella calce, o dal fummo de carboni, per ritrovarli in sì
fatti luoghi l'aere ad un tal grado ſommo di tenuità ridotto, chene fi riceva
dall'arterie, ne ricevuto per eſſe ſi poſſa ritenere; ma con grandiflima
facilità fe n'eſca fuori; laonde per mancamen to di ſpirito egli ſe ne muoja
neceſſariamente l'animales. Prende a gabbo una tal ſentenza Galieno, e dice,
che do vea dire più toſto Eraſiſtrato,che ficome nel pane, ne’logu mi, e in
altre ſomiglianti vivande fi ritrova una qualità as noi contraria, così ancora
una sì fatta diſpoſizione d'ae re ſia bcnigna, e amica agli ſpiriti, e un'altra
maligna, es nimica. Vu 2 M2 1 !. Ma
nondimeno conobbe chiaramente Galieno la vani rà del ſuo ragionamento; onde
vien coſtretto a confeſſare d'eſſergli di ciò naſcoſa la vera cagione; come ſi
può vedere nel libro dell'utilità della reſpirazione; ma che che ſia di Galieno,
lo ammiro grandemente l'acutezza dell'ingegno d'Eraſiſtrato, e'l ſuo modo non
guari lontano dal vero filo fofare intorno a tal faccenda;e forſe la fua
opinione ſe ſi va fottilmente vagliando non ſi ritroverà tale, quale la s'im
magina, o la fi dipigne Galieno; il quale a dir il vero ſem brami troppo groſſo
in ciòse materiale,anzi che no, facen dofi egliacredere, che Eraſiſtrato da lui
medeſimo in sigra pregio avuto aveſſe ſognar mai potuto che Paer pregno del
fummo de carbonizfia del puro aere piu tenue, e più ſottile. Ma lo per me porto
fermiſlina opinione,chc Eraſiſtrato aveſſe fatto differéza tra fúmo e acre,
come da ognun falfi fra l'aere, e l'acqua;e che non altro per tenue aveſſe
egliin tendervoluto, che picciolo, o poco: imperocchè la p.2 rola asfilos,
della quale e' li valſe, ſecondochè dice Galie no ſteſſo, non ſolamente ſuol
eſfer preſa da'Greci antichi a fignificare quel che noi Italiani diciamo
foteile, e che da' Jatini ſi dice tenuis;ma ancora per dinotare,come ſi può ve
derein Ariſtotele, e in qualch'altro autore di que' tempi, quel, che i latini
chiamano, cxiguus, e noi picciolo, o po co diciamo. Or chidomine non fa, che la
dove è aſſai de ſo il fummosivi ſi ritrovi in meno quãtità l'aere? Conferma fi
ciò che lo dico dalle ſteſſe ragioni d'Eraliſtratos per Ga lieno recate;
imperocchè ſe l'aere delle mofetc, e di sì fat si luoghi egli foffe tal
veramente, qual Galien dice ch’af fermiErafiltrato, ch'egli ſia, cioè troppo
ſottile:con gran di ſlīmaagevolezza ſenza fallo penetrar egli potrebbe alles
art erie; concioſliecoſachè le ſoltanze diſcorrenti tutte, qu anto più ſottili
ſono, tanto più convenga, che compo he, e formate licno di minutiffime
penetrevoli particelle; lao nde ſcimunito affatto ſarebbe Eraſiſtrato in
dicédo,che per eſſer l'aere delle mofete troppo ſottile, tragittar egli no lip
offa volentieri alle arterie; ma entrarvi poi allo incontro malagevolmente vi
potrà l'aere qualora eſſendo egli pochiſfimo venga con copia grande di denfe, e
groſſe fo ſtanze accompagnato. Ma non ſi ſarebbe vanamente nel vero aggirato
infra tante ciuffole, e anfanie Erafiltrato, ro con diligenza degna d'un sì
grande filoſofante aveſſe poſta ben mente alla natura delle mofete; perchè
agevolmente aurebbe per avventura rinvenuta la vera cagione, per liza quale in
quellamuojono glianimalisin iſcorgédo la mofe ta eſſer una diſcorréte ſoftāza
più groſſa, e grieve affai dell? aria; e comechè nõ umida, in altro poi non
guari dall'acqux disſomigliāte;e gli aliti della mofeta unirſi nella guiſa me
deſima appunto,che veggiam infieme unirki i zampillidel le acque, e mátenerf
nelle cocavità nõ meno ſtrettamente uniti infieme, e congiunti, che que'
dell'acqua nelle fon tane fi facciano; e non altrimenti che l'acqua incontrando
declivo il terreno, correr alla in giù la mofeta. Errò pari mente Eraſı trato
la dove c'credette eller la carne non al. tro, ch'un accozzaméto di ſangue
rappigliatose raſſodato, da che la carne è veramente un compoſto di picciole, c
mi nute fibre; e di fibre parimenté vengon formate le piccio liffime
glandolette, che ſparſe perentro, e ſeminate vifo no; c quantunque la carne del
fegato, e della milza paja, nella prima viſta una mafſa di ſangue, pur
nondimeno tal non ritroveralla chiunque mettédola in acqua a macerare, faccia,
che ſe ne ſepari quel ſangue, che vi ftà meſcolato; che allora manifeſtamente
delle già dettc fibre tutta appa rirà ella refuta. Ma paſſando ad altro, che in
Erafiſtrato lo ho ritro vato; egli mi ſembra, che ſi foſſe in qualche ſembian
za di verità incontrato in diviſando delle febbri, in quella guiſa, che s'è da
noiaccennata; non conſiſtendo verame te in altro la natura della febbre, ſe non
ſe in un tal certo movimento non ordinario, e non naturale del ſangue; ma non
prende egli a ſpiegar mai poſcia, anzine men cura, per quelche fappiamo per
bocca di Galieno, d'andar inveſti gando, come a razionalmedico fa meſtieri, le
cagioni,on de ciò poſſa avvenire; il che avrebbe potuto fareegli age
volmenteper avventura,ſe li foſſe innoltrato maggiormen te nella filoſofia; ne
gli mancò, al mio credere, ingegno, ne animo ad una tanc'impreſa acconcio; ma
gli vennero meno gli ſtrumenti, i quali la ſola Chimica da lui nonco noſciuta
ſomminiſtrar gli potea Ma che cheſia di questo, non potè celarſi all'acutezza
del ſuo intendimento, che la digeſtion del cibo non ſi fà al trimenti dal
calore; ma inveſtigar nondimeno, e rinvenis non ſeppe egli mai que'
ſottiliſſimi vapori nel ſangue, onde il cibo ſidivide, e li rompe in minutiſſime
parti nello ſto maco; e comeche conoſceſſe ben egli ancora il ſangue non eſſer
da ſecaldo, non potè egli nondimeno però penetrar mai, onde, e come il ſangue
caldo diveniffe, e fi conſer vaſſe negli animali. Maper far qualche parola
dietro all' eſercizio del ſuo meſtiere: egli maneggiò l'arte Eraſiſtrato così
magnificamente, che niun'altro tanto mai più,ne pri ma, ne poi, per quello, che
noi ſappiamo sì ragguardevol mente la ritenne. Ma egli non ha però dubbio
niuno,che col profondo ſapere, colla gran fua diligenza, e induſtria gli
s'accompagnaſſe proſperevole anche la fortuna: la qua le al maggior huopo
nonmancò di favoreggiarlo, avendo egli dalla vicina morte ſottratto, e
penetratane la cagione a tutti naſcoſa della graviſſima malatcia del regal
giovanet to Antioco figliuolodi Seleuco,il quale in ſua lode così fa, vella
appo il noſtro loyrano lirico E ſe non foſe la diſcreta aita Del fiſico gentil,
che ben s'accorſe, L'età fua ſul fiorire era finita, Or chi è per Dio, che
apertamente non conoſca aver avu to in ciò grandiſſima parte la fortuna. E non
potea egli agevolmente ingannarviſi Eraſiſtrato, e in vece dell'oro, delle
dignità ſupreme, degli onori, e della gloria immor tale, ch'e'guadagnonne,
obbrobrio, e vituperio eterno riportarne? Ma in ciò imitar lo volle anzi
emularlo Galie no, le pur è vero il ſuo magnifico racconto allorche e' ſco
verſe quella Romana femmina eſſer preſa forte dell'amor di Pilade ballerino; c
comechè egli vanti aver in ciò ſupe lato rato il medeſimo Erafiftrato, ſe pur
tale appunto andò law biſogna, qual egli la narra, non però di meno per eſſere
fata colei viliſſimadonnicciuola, non ne riportò Galieno, ſe non quella gloria,
ch'egli a ſe medeſimo attribuiſce, in iſcrivendo a Poſtumo talconvenente. Ma
per toccar qualche coſa intorno alla maniera del medicare tenuta da
Erafiltrato,fi pare,ch'egli nonmolto ſi Je i Salopsi ſoddisfece, ne troppo ſi
valſe delle purgagioni: delle quali affatto ſi tenne egli nelle febbri; e dar
ſolamente le ſolea in altre malattie, che'lrichiedeario; ſi portava egli sì
fattamente con gli infermi,che ſenza lor molta moleſtia, e riſchio alcuno
recare, e ſenza porgerne loro cagione, fol con iſtrettamente cibargli,
felicemente conſeguire ſperava ciò che altri dalle purgagioni, e da’ ſalaſli
attendeano. Ma nonmeno Eraſiſtrato, di quel che Criſippo ſuo maes ftro s'aveſſe
già adoperato, ftudioſſi egli ancora di ridurre alla ſua antica ſemplicità
innocentee, inerme la greca me dicina; vietando ſeveramente i ſalafi, i quali
s'erano a po co a poco in tutte le ſette della medicina introdotti; per chè ſi
vede chente, e quale e' fi foſſe il valore, e quanto grande l'animo di Criſippo,
e d'Eraliſtrato, i quali ebbero ardimento primieramente di far fronte
all'oſtinata bruzza glia del vulgo, e rincuzzare una già quaſi preſcritta
uſanza nella medicina. Ma le ragioni delle quali eglino fi valſe ro a ciò
perſuadere,vengon deliderate da Galieno; ne accé na egli una ſola d'Eraſiſtrato:
la quale ſiè, che nel ribut tamento del ſangue non ſi dee ſegnare, acciocchè
per lo mancamento di eſſo non vegna poi coſtretto il medico a cibare fuor di
tempo l'infermo; e in ciò loda grandemente egli Criſippo ſuo maeſtro, il qual
dice, che in ciò ebbe ri guardo,non ſolo alpreſente, ma all'imminente male anco
ra; concioſſiecoſachè al ributcamento del ſangue agevol mente ſeguir ne ſoglia
l'infiammagione, in cuiilcibare ric fce ſenza fallo molto, e molto pericoloſo
a' poveri infermi; ed egli è forteda temere, che chiunque dopo l'etſer legna zo
dee portar la famc gran tempo, non vegna a mancare; indi poſcia ſoggiugne, che
per sì fatta maniera adoperan doni doſi nel medicare Crilippo, n'acquiitaſſe
lode, e gloria immortale. Mas'altra ragione di ciò ne recalle Erafiſtrato, Io
no'l ſaprei diterminare; non potendoſi preſtar fede in si fatta materia a
Galieno; cercando egli, come avviſa eziandio alcun de'ſuoi più parziali ſeguaci,
a diritto, e a roveſcio il meglio ch'e'potea d’avvallar la gloria, e la
famad'Erafi ſtrato; c anche talora tentando a forza di ſofiſmi, e dica lunnia
(trappargli di mano la ſignoria della medicina. Recar ſi veggiono in mezzo da
Galieno alcune frivolei ragioni de'parteggianti d'Eraſiftrato; ma da Galieno
me. delino per avventura fognate. Maegli ſi dee fermamen te credere, che non
poteano mai, ne Criſippo, ne Erafi. ſtrato, ne Medio, ne Ariftogene bandire,
introdurre, mantenere in piede poi una maniera sì da quella diverſa ch'era
comunemente in uſo, ſenza farne ben prima pruos va con qualcheprobabili
ragioni, colle quali moſtraffera eſſere ſtati a ciò fare tratti di peceſſità, e
non da vaghezza alcuna; ne poteano altrimenti facendo difenderſi ne'lini ftri
avvenimenti delle malattie; e forſe Criſippo, o pure Erafiltrato qualche libro
particolare ne compofe non per venuto alle mani di Galieno; il quale dice
chiaramente una volta, che l'opere di Criſippo crano molto vicine a ſmar richi,
e ad eſſer ſommerſe in perpetuadimenticanza. Ma quando primieramente cominciato
foſle nella Gre cia un sì crudel coſtume d'aprir col ferro, o col morſo di
velenoſi vermini le vene, e colla luſinghevole ſperanza di fottrarla a'
preſenti, o a'ſopravegnenti mali,impoverir dell? unico ſuo ſoſtentamento la
vita, egli è coſa malagevolen aſſai nel certo,anzi per avventura impoſſibile a
diſtinguere; folamente,che non ſi poſſa porre in dubbio e' mi pare,che'l crar
ſaugue,nemolto nepoco, ne'primni antichillimi tempi della medicina appoi Greci
in uſo niuno noirera; ne Ome ro, il qual non iſdegna con abbaſſarſi alle più
menome par ticolarità delle coſe porre in non cale la dignità, e la gran dezza,
e magnificenza convenevole all'eroico poeta, livi de giammai far mézione alcuna
del ſegnare nella cura del le ferite di Marte, diMenelao, d'Euripilo, e di
Macaone; perchè, per tacer d'Achille, e di Patroclo, ne Podalirio ne Macaone,
eſſendo favoloſo ciò che di lai narrali intorno a tal convenente per Celio
Rodigino, ne Chironę lor maeſtro, ne Eſculapio lor padre, ne Apollo lor avolo,
ne Peone medico di Giove conobbero, e.miſero mai in uſo i ſalafli, e ne meno fi
fa fe'l fegnare,da loro mcdelimi i Gre ci trovaſſero, o pur da altri popoli
l'apprendeſſero;macer tamente ciò non poterono iGrecidagli Egizaj antichi ap
parare, i quali per teſtimonianza di Socrate,da noi altro ve apportata,non ſi
valfero mai di rimedi pericoloſi; ne ore no da’moderni: imperciocchè coſtoro,
come avviſa Dio doro, altra ſorte dirinedj non ebber mai in uſo, fuoriſo
Jamente, che criſtei, digiuni, purgative medicinc,e vomi tive. E ſi pare, che
dagli Egizzj nell'altenerſi oglino mai ſempre da’lalaſli veniſſero imitati i
fapiéciflimi popoli Chi neli, nel cui paeſe, che poco cede in grandezza
all'Europa, ma l'avanza di gran lunga nel numero degli abitatori,non di vide
mai, comedicemmonoi già, trar ſangue in infer mità vcruna; il cui eſemplo han
ſeguito quei della Coccin cina, del Giappone,e tutti quegli altri popoli porti
in quell' eſtremo tratto della terra, che bagnata viene dall'Oceano orientale;
e in modo tale abborriſcono i Cineſi medici i falali, che ne i Saraceni, allora
quando i Tartari occupa rono quell' imperio, neinoſtrive l'han mai potuti intro
durre.? Ma che che ſia di queſto, chi poſe in uſo primiero il trar ſangue, Io
immagino, che fi movcffe, e ſpinto vi. foffe, non già come immaginò Plinio (ſeguito
in ciò fol lemente dalMontano, e dal Vonio) dall'eſemplo del caval lo del fiume;
non eſſendo miga vero ciò, che ſe neraccon ta, come. Avempalace Arabomedico
avvisò; ma dallo ſcor gere forſe, che dopo qualche ſpontaneo uſcimento di fan gue,o
dalle narici, o da altra parte ſi vedea cedere in qual che parte il malc e sì
crebbe l'uſo del ſegnare nella Grc cia, checonvenne, che Ippocrate, c.prima gli
altri più ani tichi landaſſero a poco a poco riſtrignendo, sfidando per It' ! d
ſe per avventura di torlo via affatto Ma non ſarà forſe fuor del noſtro
propofito a rap portare ora alcuna delle tante ragioni, colle quali po
trebbeſijs’Io pur non vado errato, sì fatta opinione difen dere. La vita degli
animali (dico ora vita, largamente parlando x quello, ſenza cui al corpo,
comechè compiuto, e ſufficientemente organizzato; non può l'anima accoppiar ſi,
o ſtar tantoquantoin lui ) egli ſembra, che in altro ve ramente non confifta,
che nel ſangue, o in qualche altro- li quore alſangue equivalente, che in
alcuni animali in vece di quello (i mira. Coſa, la quale non può punto dottarſi
da chiunque avviſa, che collo ſcemo del ſangue fcemaſi agli aniinali anche
manifeſtamente la vita; perchè ſe non per forte diſtretta, e neceſſità quello
non li convience vuotar negli animali. Ma delle due maniere, colle quali il
ſangue menomac puoſli, ciòſono, ocom trarlo fuora a viva forza da'vafi, che'l
contengono, o con dar ſtrettamé te', e a riguardo il cibo; il trarlo certamente
è quello, il qual reca nocimento, e danno maggiore, e più gli animam li
affraliſce; concioſliecoſachèfgorgando il ſangue, con quello inſiemene
ſvaporano quelleſottiliſſime volanti ſo ſtanze: per le quali, e del chilo
s'ingenera il ſangue, cin, priina de'cibi s'ingenera il chilo; ne può il ſangue
mantc werſi nel ſuo ſtato, nevivificare le parci dell'animale, ſenza loro; il
che apertamente da chiunque mente vi ponga; po tendoſi di leggieri avvilare,
non fa luogo, ch'Io ne faccia parole. Quinci chiaramente ſi vede, c'l confeffa
il medeſimo Ga lieno, che potendofi, qualor ne faccia meſtieri, acconcia mente
coldigiuno menomare il ſangue, non fia ciò da fare in modo alcuno coltrarlo
fuor delie vene,maſſimaméteove ègrade malattia;imperocchè quelle nobiliflime
foſtāze,che detro abbiamo effer nelſangue, ajutano oltreinodo gl’in fermia ſtar
vigoroſi della perſona ſenza eſſere diſvenuti, affranti dal male, e giovano
affai al mantenimento di quel li, cafar laro ricoverar la ſalute; perchè quanto
più gra voſe, e di riſchio ſono le malattie, più nocevole certamente è il erar
fangue, e men fi eonviene. Malaſciandoda parte ſtare ciò che berlingando diceſi
Galieno intorno al dovere fcemareil fangue, onde preſeg cagione i ſuoi ſeguaci
di continuo aggirarli infra vane, e inutili contefe: certa coſa è, che'l ſangue
può eſſer nocevo le agli animali, o per ſoverchio di rigoglio, e d'abbondan za,
per cui o di preſente cagionar puofli in quelligrave ma latcia, o perchè egli è
sì, e talmente piggiorato in tutto, in parte, che traligni dalla ſua natura, e
non ſi conformica quella dell'animale:0 pure perchèegli inſieme e malvagio, e
ſoprabbondevole s'avviſa. Ora in tutti, etre queſti caſi certiſſima coſa è,
che'l ſegnare è fommamente nocevole E per cominciar dal ſoverchio del sāgue,
chi negherà quel lo non eller mica vizio nella perſona: ficome anche vizio egli
non è nella vita civile l'effer riccamöte fornito a denari, o d'altro,che
meſtier faccia ad huomo per bene, e agiatame te vivere. E apertamente avviſafi,
che coloro, che fom mamente in ſangue abbondano, ſon più d'aleri forci, e be
atanti della perſona. Ma ficome la copia delle ricchezze, comechè buona coſa
quanto a ſe, pure ad uſo cattivo da gli huomini adoperandori, ſuol di
gravidanni talora eſſer cagione: così anche l'abbondanza del ſangue, avvegna
chè buona, e laudevole fia,può talora nuocere, ſeconda mente che per noi ſopra
il fecondo aforiſmo del primo li bro d'Ippocrate già fu accennató. Orrel
foverchio del ſangue può táto nella perſona adou perare, che ragionevolmente ne
debba temere il medico, poco ſenno ſenza fallo farà di lui a volervi riparar
col fa Jaffo: potendo ben eglicon imporre ſtretto digiuno ciò ac conciamente
fornire. E ſe'l male è già fufficientemente appiccato, ne di quello il ſangue
punto più s'inframerre; che monterà egli attutar la canapa, acciocchè la
girandola già preſa di foco non ſi conſumi? o pur che monterà egli ſpuntar la
ſpada, perchè la ferita fattane fi ſaldi? E ſe pur dura oſtinato il ſangue a
tener mano al male, oglirecas qualche impedimento alla cura di quello, può bene
il me dico avveduto ſenza ricorrere al pericoloſo partito della X X 2 1: { so
laſſo, con imporre all'infermo, che più o meno fi riman ga da' cibi: o più,
o'meno, ſicomcli conviene, menomar lo. Nein ciò è da riguardare a ciò che in
contrario ſi dice Galieno, cioè, ch'alcuni corpi v’abbia, i quali non così
agevolmente potľano il digiuno comportare, per eſſer egli no caldi, e ſecchi in
compleſſione,e come e' dice, collerici; '. concioſliecofachè, per tacere, che
ritrovar non ſi poſſa mai ficcità ove ſia gran ſangue, maſſimamente laudevole,e
buo no, qual G ſuppone: e che la collcra non s'inframetta pun. to nelle vene,
nelle quali, come altrove diviſato abbiamo, ne meno in que'mali, che ſecondo
effo Galieno dalla col lera avvengono, nelle vene ſi trova: e che in sì fatti
corpi non poſſa eſſer troppo abbondevole il ſangue per lo ſmalti mento, che
continuo di quello falli: può bene il medico co medicine, che attutino la
collera, e con beveraggi, che non facciano ſe non ſe pochiſſimo ſangue,
acconciamente a ciò dar riparo; ſenzachè in cotali corpi, i quali oltremo do
abbondan di collera,ſicome faggiamente avviſano Ip pocrate, e Avicenna,ſon
pericoloſi iſalasſi; e ſe ciò fonte, c'huom collera aveſse nelle vene,
impoſibil certamente egli ſarebbe, che non n'aveſſe ancor nello ſtomaco: nel
qual caſo ne men Galieno medeſimo ardirebbe a trar ſan. guc agli infermi, per
qualunque gran male cglino aver ſero, Ma ſe'lſangue è malvagio, o cgli è per ſe
ſteſſo tale, o pur altronde la reezza gli vien comunicata. Se altronde gli vien
comunicata, non che giovi mai il falaſſo, anzi egli è ſommamente nocevole;
imperciocchè, non che per lo trar del ſangue ſi ſcemi mai il mále,anzi ne
monterà egli maggiormente, c più fiero, e rigoglioſo diverranne, ufcé do
inſieme col ſangue quelle nobilisſime ſoſtanze, che di cemmo: le quali poſſono,
e nel ſangue, e in quella parte, ond’al ſangue diſcorre il male, rintuzzarne
l'impero:e ſcio gliendo, e aminendandocacciar via dal corpo per cieche, o per
ſenſibili ſtrade quel caccivo ſugo, onde cotanto attri ſtivali il ſangue. Echi
voleſse ammendare il ſangue coil cavarne dalle vene, farebbe come colui che con
trarre acqua da un lago, in cuicontinuo acqua ſalmaſtra, o dall'int. teriora
della terra,o altronde trapeli, voleſſe quelle addol cire. Ma ſe'l ſangue per
ſe ſteſſo è cattivo, con trarne parte, non mé cal rimane, qualſe vin ravvolto,
o aguzzo emend.:re ſperaſſe mai ſcimunito contadino, con trarne dalla botte al
quáti maſtelli; ſenzachè l'infermo, perdendo anchequel le menzionate fpiritualı
ſoſtanze, le quali ſole poſſono i difetti del ſangue ainmcndare, il nuovo
ſangue, cheper quelle s'ingenera, e'l chilo diverranno mai ſempre pig giori. E
quinci apertamente avviſar puofli, che ne merz faccia luogo il ſegnare, quando
il ſangue nella perſona ab bondevole inſieme, e viziofo ritrovali. Ma per farci
più addentro nella preſente quiſtione: l'al terazione, o'l cambiamento del
ſangue, o egli è in tut to effo, o pure in qualche una, o più delle ſue parti,
ość. fibili, o inſenſibili ch'elle ſiano ſi trova; oveche ſi covi il difetto,certaméte
inutile affatto, e dáncvole ſarebbe il crar lo; concioffiecoſachè il l'angue in
guiſa meſcolato per lo continuo movimento della tormentazione, e confuſo ne
vali ſi ritrova,, che non men della parte vizioſa di quello, la buona ancora
col ſalaſſo fuori ne ſcorga; perchè queſta, debile, e infiebolita rimaſa, meno
certamente potrà rin tuzzare, e ammendare l'avanzo della cattiva. Ma potrebbe
per avventura alcun dire, incontrar tal volta ne'malati, che il ſangue loro ſia
tutto buono: ma che ſol qualche ſoſtanza di qualità cattiva, o dentro a’ vaſi
in generata, o altronde in quelli venuta,come vermini, e altre fomiglianti
ſtrane coſe, chenel ſangue talora anche d'huo mini ſani ſi ſcorgono, renda
quello vizioſo; e allora col fa laſlo ſi poſſon molto bene quelle vuotare; ne
per altra ra gione alcune malattie ſcemanſi talora, o affatto li ſpegno no per
uſcimento di ſangue dalle nari, o da altra parte del la perſona. Io certamente,
ſe ciò foſſe vero, a sì fatto argomento non ſaprei lo che riſpondermi: e non
che a ſegnare diſtor nerei i noſtri medici, anzi a ciò ſommamente confortar gli
devrei; ma in verità altrimenti va la biſogna; perciocchè, o che nel ságue la
vizioſa foſtáza s'ingeneri, o che altróde a quello avvegna,no guaridopo il
ſuomagagnaméto tra plo moviméto in giro del ſangue,e per quel della formentazio
ne, convien, che quella sì, eralmente ſi meſcoli, e li ri volga inſieme con
quello, che è buono, che ſe di tutti, e due non ſi ſgoccino interamente i vaſi,
certamente non ſe ne potrà egli giammai tutto il malvagio ſpiccare. Anzico me
in tutt'altri vuotamenti avviene, anche in quelli, chej per più larga bocca ſi
fanno, certana coſa è, che allora il fangue piùpuro, e più ſottile più
agevolmente ne ſpiccia fuora, rimanendo ſempre quaſi inorchia in fondo ilmalv.2
gio; ſenzachè può talvolta ne pori de'vaſi sì facramente fare inframeſfa la
cattiva ſoſtanza, che per trarne tutto il ſangue ne mencertamente quindi
ſpiccar ſi potrebbe. Ma ſerbiſi pure ella ſolamente nel ſangue, e per lo
cotinuo ri volgimento di quello ella ancora ſimuova: certamente il caſo ſolo
operar potrebbe, che in paſſando per lo ſpiraglio della vena, trattadalla foga
del ſangue ancor ella per la medeſima ſtrada fuora ne ſgorgaſſe. Ma certamente
il co trario tutto di avvenir veggiamo, maſſimamente nel velen della vipera: il
qual penetrato una volta entro il ſangue,no ſi può quindi per ſalaſſi ritrarre
giammai, ſe non ſe quando di preſente ſi taglia l'offeſa parte; perciocchè
allora non penetrato ancor molto addentro il veleno, inſieme col fan gue fe
n'elce fuora. Ne dee ſempre il medico avveduto prender guardia d' imitar co'
ſuoi argomenti in ogni coſa la natura; concioſ fiecorachè non può egli ſapere
comc, quando, e perchè quella opcri. Avvien talora, che s’alleggj, o affatto
ſpe gnaſi qualche malattia dopo uſcimento di ſangue;percioc chè nel tempo
medeſimo incontra per avventura, che la ca gion vera del male, la qual nó avea
coſa che fare col sāgue, come altrove è detto, ſi è tolta via. Talora la cagion
del malce nel ſangue: ma dalle partiſalde nel tépo medefimo dell'ufciméto, o
poco avanti, e prima,che mclcolată fi fof ſe con tutto il ſangue, a quello
mandata; e talora, perchè nel 4 1 1 3 1Ael medeſimo tempo ella del ſangue ſi è
partita: e giunta... alle boccucce de'vali colla ſua mordacità le
ſtimola,leapre, e inſieme col fangue n'eſce fuora. Or fe poteſſe il medico mai
per ſenno avviſar sì fatte coſe; forfe ſarebbegli permel ſo talvolta il
ſegnare; ma perciocchè egli èmalagevole al fai, anzi impoßībile a comprenderle,
impoſſibile altresì ſi rendea lui la pericoloſa impreſa di poter col ſalaſſo
vin cer le malattie. Perchè quando egli follemente s'arriſchia ad adoperarlo,
ſi pone inmano della fortuna:e'l nocimen to, e'l danno è ſicuro, e'l giovamento
molto incerto, che ne poffa all'infermo ſeguire; e maggiormente che rariſſi me
fiate ciò che lo hodetto incontrar fi vede.Perchè ſcioc chi ſon da ripurar
ſenza fallo coloro, che da quelle pochiſ. fiine volte, che felicemente per
opera della natura ciò av. vcnire ſcorgono gvoglion, che parimente dall'arte
ſempre mai ſeguir debbawo Mafe nel fangue farà per avventura in parte ſcema to
il movimento in giro, o quel della formentazione, allora ccrcamente, non che
rieſca giovevole, ma dannoſo olcremodo ſi ſperimenta il Talaſſo; imperciocchè
per quello fcemandoli quelle parti, onde al ſangue cagionanſi eſimo vimenti,
diverranno eglino ſenza fallo minori;ma le i movimenti faran creſciuti, comechè
fembri, che per ſegnare debban ceflare, fcemandoſiquelle ſoſtanze nel la
perſona, onde effi' movimenti procedono: non però di meno rimanendo in piede la
cagione non naturale, per cui il' moviméto in giro, e quel della formentazione
nelſangue accreſciuto ſi era, nonſolamentevano ſarà il falaſſo, ma altresì
ſommamente nocevole; perciocchè con quello fi vé gono a tor via dal fangue le
ſoſtanze ſpirituali, le quali ſo le poſlon vincere, e ſgombrare la cagione non
naturale,per cui que’movimenti oltre al dovere, sformatamente accre fciuti ſi
erano; ſenzachè in que'movimenti sì factamente avanzati, ſi fà grandiſſima
perdita di Sangue: e poco, o nulla fi dee cibar l'infermo; perchèfe vorreio a
quello col ſalaſſo ancora torre il ſangue, egli correrà certamente grá diſſimo
pericolo della vita. Ma ſe'l ſangue li ferma in qualche parte falda del corpo, come
veggiamonelle infiammagioni avvenire, allora non è da ſcemare il ſangue
co'ſalaſli: ma sì ſi dee prender guar dia, che ſi toglian via le cagioni, onde
quello a fermarſi quivi fu coſtretto se ciò non ſolamente, perchè il ſangue
allor dalla febbre, che s'accompagna coll'infiammagione, grandemente ſcemaſi, e
perchè poco, o nulla ſidee l'infer mo cibare: ma ancora, perchè quantunque ſe
ne traggu daʼvafi,quel,che rimane,ſi fermerà pure Oſtinato quivi,e tā to più,quáto
ſarà facto men vigoroſo il ſangue a più oltre pasſare;come veggiamo ne'mali
della gola, e della pleureli avvenire; ę fcorto manifeſtamente ſi è allor che
ſpina, o al tra fomigliante coſa ſi ficca nella carne, che con quantun que
ſangue trarre, non ſi può far sì, che non vi accorra in fiammagione: evi ſi
ripara ſolamente con trarne la ſpinews ſenzachè col ſalaſſo dipartédoſi dal
corpo ciò che ſcioglier puote il ſangue rattenuto nella parte offefa, ne viene
av montaremaggiormente il male. Neha luogo niuno certa mente quì, o la
derivazione, o la rivulſione, che chia mano i medici, percui eglino tutto dì
ſono a zuffc, eacă teſe in volendo riconciliare alcuni luoghi d'Ippocrate, e di
Galieno: i quali variamente ne favellano; imperciocchè movendo di continuo il
ſangue in giro, da qualunque par te egli ſi tragga, ſempre ne liegue il
medeſiino: c niente ri lieva quantunque l'arterie ſi ſegnaſſero; imperciocchè
vuo. tandoſi l'una parte del ſangue da'vaſi colla lanciuola, inco tanente nuovo
ſangue dall'altra vi diſcorre: ficome in fiue micello avviene, le cuiacque per
varj ravvolgimenti ricor rando a guiſa diconfuſo labirinto s'incontrano: E
mentr’ei vien,se, che ritorna, affronta, E comechè i moderni per no li
dipartire in medicando da gli uſi comuni, ſi ſtudjno, e s'affarichino dicoglier
pruove; no però di meno apertaméte ſi vede cheindarno li beccano i geti; per
maniera,che un di loro ebbe manifeftaméte a co feffare, che in ciò deſli ſtare
alla ſola ſperienza; comcchè al cuni più ſaggi,e avveduti affermino le ſperiēze
tutte recate dagli antichi a queſto propofito eſſer fallaci, e vane.Perchè
ragionevolmére temevano i più famoſi Galienifti, che fiori vano a que'tempi che
da prima ſparſeſi la circolazion del ſangue,no ſe n'aveſse a travolger tutto, e
andar a foqqua dro l'uſo del medicare comunemente ricevuto; e queſta fi fu una
delle cagioni, perchè un sì lodevol ritrovato tanto lor rincreſceſse.; el
principal.degli argomenti, che contro a ciò giammai fi ftudiaffero di fare il
Riolano, il Primero fio, il Pariſano,e altri ſi fu, che come narra l'Arveo:
ftão se circuitu phlebotomia nonrevelli; quit ſanguisnibilominus parti
affetteimpellatur. Ma comechènó ſapeſſe l'avvedu tisſimoGio:Battiſta Elmonte
dell'aggirainento del ſangue, pure ebbe egli tanto d'intendimento,chegiunſea
conoſcer ja vanità della revulſionc,,.e della dirivizionc,allor che iit facendo
paroic della punta c'diſle: Quam circumfpečte ſunt Scholæ in fermocinalibus,
&artificialibus: que in natura nil nifi ludicra ſunt! Quoniam etiamfi vena
cubiti ufque in cavam totum depleat cruorem: do hecconſequutive èvena azygos
cruorem extrahat; fcire tamen deberent ſcholæftatim poft, totumiterum cruorem
æqualiter in venas reftitui: adeò licet.vena cubiti tatapoffetevacuari (quodnunquam
) tamé mox iterum totus cruor equareturper totum venarum cótex tum. Vnde
manifeſtum fit vanas efle revulfionis, deri vationis nanias: quippe quibus
conceſſis adhuc non nifi pro paucula mora inſervirent intenţiopi, Perchè ad
alcuna delle dette ragioni, per tacer della ſperienza, riguardando per
avventura quegli antichiſſimi medici della Grecia, i quali prima d'Ippocrate
fiorirono, ma in quel tempo, che'l ſegnare era già nella Grecia in trodotto,
furono così ritroſi, e guardinghi in crar ſangue: ne mai oſarono ſegnar nelle
febbri, anche ardentiflime.Ne Ippocrate medeſimo, come ſi vede
nc’libride'luoghi dell' huomo, e in altre ſue opere, fegnò giammai nelle febbri,
ſe non folamente in quelle, che da grande infiammagione dentro cagionanſi; e in
alcuni mali vuole egli di ſtrettamen te, che da ſegnar ſia con tal convegna,
che non vi ſia feb bre; e avviſa egli oltre a ciò una fiata, che dopo lungo
uſci Y y nicht mento di ſangue dalla matrice d'una donna, le ſopraven ne la
febbre: coſa,la qual veggiamoanchenoi più d'una volta avvenire. Ne è punto vero
ciò che dice Galicno, che Ippocrate porti opinione, che in tutte acute, egrandi
malattie ſia datrar ſangue;concioſliece ſachè in quel luogo per noigià recato,
in cui ſi conrende da Galieno', che ciò egli affermi, egli nel vero non di
tutti mali acuti vuol che s'intenda, ma di que'ſolamente, de'quali egli quivi
ragio na, sì veramente, che ſien grandi; e imperò vípoſe la par ticella deg che
i Latini dicono fed, o pure verùm, e noi diciamo ma: della qual particella
Galieno in ſu quel luogo non fa menzione alcuna, e artaramente la tace per
poter quello recare a ſuo concio; perchè i ſeguaci d'Ippocrate forte ne'l
tacciano, dicendo, ch'egli falſato aveſſe il teſto d'Ippocrate. Ne è da tacere
quanto Galien ſi maravigli, perchè una cal ſentenza non ſia ſtata poſta da
Ippocrate negli aforiſmi; e perchè egli altresì non abbia detto, che ne'mali
grandi anche non acutiſi debba trar fangue. Ma ne men da’Galieniſti medeſimi
viene ricevuto e ap provato il lor macſtro Galieno in quel ſuo famoſo decco:
che in tutte febbri ottima coſa ſia a trar ſangue, non fola mente in quelle,
ch'egli chiama finoche, ma in quelle an. cora,che da putrefcenza d'umori fon
cagionate. E nel ve o eglino in ciò gran ſenno fanno a laſciar da parte la reve
renda autorità del lor maeſtro, e ſtar guardinghi, e ritroſi di cavar ſangue in
tutte ſorte di febbri; anzi licome eglino nella quartana, e nella terzana
ſemplice di ſegnar ſi guar dano,così nelle altre ancora ſe sbandeggiaſſero
affatto i ſa laſli, o quanto miglioriſarebbon da eſler giudicati, e più
aſſennati aſſai del lor medeſimo maeſtro; concioliecolachè nelle febbri
maſſimamente acute, e più in quelle, che ſino che chiama Galieno, per la
ſtrabocchevole formentazione, e per lo troppo riſcaldamento del langue, cotato
egli liſce ma, e s'affraliſce, e s'infieboliſce la perſona, che pericolo ſo
alfai, e nocevole riuſcirebbegli ilfalaſſo;ſenzachè dal la ſcarſezza del cibo
ancora, e per lo poco ſmaltimento di quello s’aſſottigliano sì fattitebbricoli,
e quali a buccia eſtreina dimagrano. Ma avvegnapure, che con ſegnare
rinfreſcaſſeli veram mente il fangue, ilche in cotalifebbri non ſi ſcorge, ſe
non fe di rado, eperpochiſſimo ſpazio di tempo avvenire, ri furgendo teſteſo
vie più che mai impetuoſo, e fervente il calore; non però,dimeno aſſai
ſciocchezza certamente fa rebbe a volerper poco rinfreſcamento pericolar
graveme te la perſona, e manifeſtamente porla a riſchio dimorte;
perciocchèſovepti volteincontra, che dopo il falaſſo vol gendofi a maligna la
febbre., più coſto n'uccida. E fe pur vogliam rinfreſcare il ſoverchio calor
ne'malati: che non cercar di ſcemarlo con argomenci acconcj, ſenza metterci al
pericoloſo partico de ſalaſſis che non cercar rimedj da to glier la cagione,onde
nel ſangue colla formentazione il ca lore ſtrabocchevolmente ècreſciuto,
laſciando in lui quel la vital ſoſtanza, che ſola puòl'infermo ne' ſuoi mali
aju tare? Ma ſopratutto certamente vorrei Io domādare ad Ippo. crate, e Galieno,
perchè eglino diſideravan, che ſi traef fe ſangue fin’allo sfinimento dello
infermo nelle febbri ca gionate da grandi infiammagioni dentro,
maſſimamente.ne' mali della gola, e della punta? perciocchè in quelli, fico me
il inedeſimo Galieno inſegna, ogni ſperanza di riſto ramento nelvigor.dello
infermo allagaſi; ilqual ceſſando molti ſe ne veggion miſeramente morire,
eziandio nel di.chino del male, non avendo in lor virtù, perla fiebolezza, da
poter il puzzo già cotto, e digeſtito ſpurgare. Ma ſe Galieno non vuole,che ſi
tragga ſangue a'fanciul li prima del quatroidecimo anno per qualunque
graviſſimo male elli abbiano, non per altro certamente, ſe non ſe per la
grandiſſima inſenſibil vacuazione, che continuo coloro fanno: perchè farà
eglida trar ſangue nelle febbri, malli anamente sipoche, e in quelle
dell'interne infiamagioni,per cui l'inſenſibil vacuazione, che fasſi negli
infermi è ſenzaw paragone affai maggior di quella de'fanciulli? Ma per
avventura egli non fu Galieno così amico di ſe gnare., comeſi fanno a credere i
ſuoi Galieriſti; e forſe più per oggia, e diſpecto, ch'egli aveva nella nimica
ſerta di Y y a d'Eraliftrato, cotanto egli commendò i ſalali, che per ra. gion,
che veramente ve'l traeſſe; perchè con tante leggi, ' e convegne, e riguardi
egli ne riſtrigne l'uſo, che certa mente delle diecivolte, che i noſtri
Galieniſti ſegnano, ſe bé li mir231on ne ſaran due per avventura ſecondo il
vero ſentimento del lor maeſtro Galieno adoperate; e rariſſiine volte
certamente quelle ſarebbono, che ſegnar ſi dovreb be ſecondo il lor Galicno; ma
eglino credendo d'adoperar bene nelle malattie, con porre ayanti un sì gran
rincdio,e sì giovevole, qual e' dicono; non curano di trarre a' mini feltisſimo
riſchio i malati, ordinando largamente i falasſi in ogni malattia ſenza
riſpetco alcuno, anche contro i divi lamenti del lor medeſimo maeſtro. E
comechè Galieno, come teſtè diciavano, n'aveſſe una volta inſegnato, che ottimo
ſia a ſegnare in tutte ſorte di febbri,pur quando poi più minutamente nevuol
divifare raccontando ad una ad una al ſuo Glaucone le maniere di toglier via le
febbri, quaſi dimentico del falaſſo no nefà motto niuno nella cu ra della
ſemplice terzana la qual ſecondo lui muove dapll treſcenza d'umori; e nella
cura della terzana baltarda egli dubitoſo, e in nube ne favella, tempellando
nel ſuo ani mo tra'l ſoſpetto, e la paura di non offender con sì fatto
medicamento gl'infermi. Perchè ragionevolmente il Ro rario di ciò avveduto,
forte proverbiandolo diinunifeſta contraddizione nc'ſuoi ſentimenti
l'accagiona: quum aliud videatur proponere in univerſali methodo, ficome e'
dicu, quàmin particulari exequatur. Ma non che Galieno die fcendendo al
particolare, a ciò che prima accennato ave va in univerſale, minutamente fi
conformi; anzi cotanto fciocco, ebalordo egli è nelle ſue regole, come già
diviſa to abbiamo, che in preſcrivendole in univerfale, fache ſo vente l'una
all'altra contraſti, e vicendevolmente fi com battano. Così nel libro del modo
di medicar per via di fa lasſi,contro il rapportato duo diviſamento dice: lo
dimos ftrerò in queſto libro, che non che a ciaſcuno convenevol fia il falaſſo,
anziche ne men coloro, ch'abbondan oltre fiodo ia langue, fian da ſegnare, ſe
prima manifeſtamente non fa non ſappiafi. di qual natura fia l'abbondanza del
lor fan gue: e quale lo ſtato dello infermo, e gli anni, e'l luogo, e la
ſtagione, e la complesſion dell'aria ſia: e chenti, e quali fegniabbia egli
patito' o patiſca nelcorſo della fua ma lattia; per ciaſcuna delle quali
convenienze dice egli di do verne inaniteſtamente dimoſtrare, che molti ſenza
graviſ fimo for dáno ſegnar non ſi poffano. Ecco le ſue parole: Εγω επιδείξω
κατατον εξής λόγον, και μόνον άπαντας και δεομένες φλεβοτομίας, αλ' εδέ τες
πληθωρικές αυτούς, εαν μη πεότερον αυτό το πλή θG-, οποίον πτην φύσιν εα
διορίστι μετα τούτα την έξιν του κάμνονlG Xoxíarte, xai megy, noi xwegen wij,
satíscos, @osc te thonyera, sche όσα περεστ τω κάμνονασυμπώμας καθ' έκασον γαρ
τούτωνεπιδείξω πολ. λους μη φέρον ως αβλαβώς την φλεβοτομίαν. Ωltre acio avendo
Galieno nel libro cótro di Eraſiftrato, e altrove inſegnato, che del ſoverchio
ſangue trar G debba copioſamente infino allo sfinimento; nel quarto libro poi
del inetodo eglicer tamcnre in miglior ſenno rinvenuto affermanon cffer il ſo
verchio ſangue indizio del ſalaffo; perciocchè ſe huom ſa no sformatamente in
ſangue abbonda, non è egli si toſto da ſegrare: ma sì fi dee con purgagioni, e
con menomargli il cibo, c con iftropicciamenti e, altri rimedj ajirtare. Co sì
anche egli inſegna nell'undecimo del ſuo metodo, che nella febbre ſinoca no
debba il medico troppa copia di sã gre allo infermo trarre: acciocchè il debito
alimento alles parti rimanga, ne fia ſtretto l'infermo per ricoverar le
ſinarrite forze a doverſi troppo ghiottamente nutricare; non però di meno egli
medeſimo altrove dice ſe aver nella febbre finoca fino allo sfinimento ſegnato.
Ma più che in ogn'altronel nono libro del metodo moſtra affai ma nifeftaméte
Galieno quáto egli ondeggiáre, e dubbioſo in torno al ſegnar fia;
conciosſiecofachè egli quivi dica do verſi trar ſangue di preſente a'malati di
febbre finoca ſenza punto por cura che fia ilfeſto, o'l decimo giorno, o altro
giorno critico: e ciò diſtrettamente egli comanda ſenza ri fpecto alcuno.
Matoſto poi rivolgendoſi,indi a poco ſog. giugne, che ſe peravventura da altri
medici, o dagli asli ſtenti, o dal malato medeſimo ti verrà ciò vietato, allor
tu: debbj imporgli beveraggi d'acquafredda,e agghiacciata potendoli ciò
ſicuramente adempiere ſenza nocimento al. cuno dello infermo; e ſe ciò pure
ſicuramente adoperarnon ſi puote, allor comanda,che il medico ſi debba ad altri
ri. medj rivolgere forſe più accoci di queſti. Dal quale diviſa méto
manifeftaméte s'avviſa quáto poco fperava Galieno nel falaſſo a dover guarir la
febbre ſinocajāzi qnāto egli no men del ſalaſſo temeva anche dell'acqua fredda:
la qual ſe.condo lui ſmaga la perſona, affieboliſce le membra, e ren de crudi
gli umori, e ſveglia tremori, e dibattimenti nel corpo, e cagiona
nonpocamalagevolezza nel reſpirare. E ſe con molta ragione egli ebbe nel libro
primo del metodo a coinmendare oltremodo gli antichi medici; i qualicosì
ritroſi, e guardinghi erano in permettere agli in. fermi vino,o acqua, o altro
rinfreſcamento della loro ſete; che non altrimenti, che i rigorofi Capitani
a’ſoldati comā dino, o i Principia i lor popoli, cosi eglino in ciò ſtretta
mente ubbidir ſi facevano da' loro infermi: certamente Galieno, ſc avelle
creduto eſſer neceſario il falaſſo a cota li febbri, avrebbe egli il ſuo medico
conligliato,che ripu gnando altri medici, o gli aſſiſtenti, o l'infermo
medeſimo, di quello ſi rimaneſſe; maſe più a capital ſenza fallo auuto
l'aveſſe, egli ſaldo, e oſtinato nelſuo proponimento avrebe be pur confortato
ilſuo medico a doverlo metter avanti, o pure d’abbádonardi preſente la cura
dello infermo; ficome altrove in ciò che conoſce neceſſario al ſalvamento de'ma
lati, più volte il ſuo medico diſtrettamente egli ammo niſce Mache direm noi
quanto egli generalmente poca ftima faccia de Calaſſic poco in lor lifidi?
maſſimamétein quelli bro, quando contro ad Eraſiſtrato maggiormente aiz zato, e
riſcaldato vuol provar quanto ſia convenevole, neceſſario a'malari il ſegnare;allora
nel maggior caldo del la pugna, quali ſchivando la propoſta, che cotanto in pri
ma avea preſa per la punta, li rivolge contro coloro,i qua li giovani, e mal
pratici in medicare, temerariamente ove non ſi conviene adoperano il Calaſſo; e
sì cutta la colpa riverſa ſopra coloro, i quali quantunque nel cominciamento
del male traggan ſangue', dice nondimeno,cheper lor dap pocaggine ſpeſſo
gravemente pericolano gl'infermi; per chè conchiude egli diſiderar più toſto,
che cotali nuovi uc celloni non s'infrámettano dibiſogna così pericoloſa,e più
toſto per ſalvamento demalatiſe ne rimangano. Mamol to aftuto, e malizioſo
ch'egli è, ſe per prender riparo di cotanti mal capitati infermi per lo ſalaito,
n'accagiona la tracotanza, e la befraggine de'giovani e mal praticime dici:
come ciò colpa foſſe dell'età di coforo, e non più to fto del medeſimo
medicamento; perciocchè egli dice', e manifeſtamente confeffa, maggiore aſſai
eſſere il numero di que’malati, che per malamence ſegnarſi ſi morirono, che, di
coloro, a'quali tratta non fu mai goccia di ſangue. Eal la per fine egli
conchiude, che gran danno, e nocimento agl'infermi apportano que'medici, che
giudicano nel co minciamento di tutte tebbri doverſi crar ſangue. Ma che che
ſia dell'opinione diGalieno,la continua ſpe rienza di ciò baſtantemente
ammaeſtrar ne puote: e ſe li beri d'ogni neo di paſſione negli uſcimenti delle
malattie riguardiamo, ben coinprender pofliamo quelle per ſalaſli non eſſer mai
ſcemare, le per avventura giunte non ſienoa' termini loro facali se da ſe ſono
ſenza argomento alcunori ſtate; ma non così negli altri rimedi, i qualivantar
poſſo no di riparar veramente alle malattie, e cacciarle fuora dalla perſona
per lor virtù, e giovamento; ficome nelle terzana, e nella quartana avviſar
puoſli: le quali non cede do a’ſalalli; o alle purgagioni, pur dalla ſcorza del
Perù só vinte, e fignoreggiate; perciocchè quella ſolamente è ri medio acconcio
loro,e non già il falaſſo, o la purgagione,le quali coſe più coſto offédono,che
giovano in corali malat tie.Nein ciò voglio lo diftédermi al preſente,co farne
lun ghe pruove: ſolamente rapporterò l'avvenimento del Sere niſlimo Cardinal
Infante;al quale comechè per li tanti ſa laffi non foſſe rimaſta gocciola
difangue nella perſona,pur. dura, e oſtinata la ſua febbre non ceſsò mai, ne
rifinò, fin chè cacciollo diqueſta mortal vita. Anno 1641 Noven bris diſſectum
fuit curpus Principis FerdinandiHiſpaniarum Regis fratrisCard. Toletani, qui
89.diebus tertiana febri agitatus obiit ætatis 32.annorum. Etenim fublatis
cordes bepate, cu pulmone, adeoque difettis venis,arteriis, vix cochlear
cruoris in cavuum thoracis confiuxit; planè nimiru hepar oftendit exangue: cor
verò inſtar crumena flaccidum: biduo enim ante mortem plus ediffet,fi ipfi
conceffum fuiffet, Fuit enim per venæ feitiones, purgationes, hirudineſque ità
exhauftus, ut dixi; non definebat tamen tertiana fuum sypă Servare. Ne muove
punto ciò, che ſi porta per Galieno, ſe pur cgliè vero, di quelmalato difebbre
ſinoca, che ſegnato da lui fino allo sfinimento ſi guarì; concioffiecoſachè
veg. giam noi molti, e molti guarir turto dì da și facte febbri ſenza
verſargoccia di ſangue; ed'altra parte infiniti anche ſono coloro,come
teſtimonia il medeſimo Galieno, i qua li fino allo sfinimento ſegnati G
morirono; e coloro ancora, i quali a peſſimo ſtato della lor ſalute ne giunſero:
e coloro, i quali anche per teſtimonianza del medeſimo Galieno,co loro
grandiſſimo riſchio,dopo ſegnati fino allo sfinimento, affieboliti, e
raffreddati di tutta lor perſona n'ebbero ſudo ri grandiffimi, e ſoccorrenze,
comechè poi loro ne folie ccffata la febbre. Ne di ciò è punto da maravigliare;
con cioſliceofachè tra per lo perdimento del ſangue,e degli ſpi riti s'agitino,
e ſi perturbino sì fattamente le parti (alde, e diſcorrenti della perſona, che
per lo ftrabocchevol rime ſcolamento ſe ne viene a fommuovere,e disſipare la
cagione della lor malattia: e sì rimangono liberi, e lani di preſente co non
poca maraviglia de’inedeſimi medicanti. Così veg giamo per ira, o per timore, o
per altra grave, e ſubitana paffione le gotte, e le quartane, e altre dure, e
pertinaci malattie eſſer di preſente riſtate. Quinci manifeſtamente ſi
comprende, ſciocchi oltremo do, e ſcimuniti eſſer coloro, i quali per picciol
ſalaffo per fuadonſi aggiugnere a ciò, chè Galieno con largamen te trar ſangue
fino allo sfinimento aggiugner fi crede va; perciocchè coſtoro per non porſi a
riſchio d'ammazzare i malati nonolano loro con iftrabocchevolmente rea gnargli
torre affatto le forze,e sì porli in bilico della lor vie ta; ma si
mezzanamente ſegnandogli certamente non po tranno mai muover a rimeſcolamento
le parti falde', e di fcorrenti del corpo, onde taloramaraviglioſamente,come
chê con non poco riſchio della perſona, ſi riftanno le ma. lartie; perchè
da’loro falaffi altro certamente ſperar non ſi può, che certisſimo danno, e
nocimento ſenza ſperanza di riſtoramento alcuno ne'malati. E fenza fallo gran
ſenno fanno coloro, che ne più, ne meno ſegnano, pereſſer i ſa lasfi ne'malati,
o gravemente dannofi, e di riſchio, o affat to inutili. E a ciò riguardando i
più pratici, e vecchi nel meſtier deilamedicina,ritrofi oltremodo, e guardinghi
ſo 110 nel fegnare: ficome Raſi, e altri valeuti medici nell'ulti-, ma lor
vecchiaja dalle continue pruove addottrinati, nois mai; ſe non molto di rado, e
con grandisſimo riguardo ſi videro adoperare i ſalasſi. Mainoitri medici,
comechè di ciò pure fien ſufficientemente ſgannati, e ricreduti, pure per non
metter affatto in miſaſo l'antichisſima coſtuma de ſalasſi, e si laſciare anche
in ciò la medicina del lor mac. ſtro Galicno, così ſcarſamente, e a biſtento
ſegnano, ch'o ve gli antichi medici largaméte traevano il fangue a libbre,
coſtoro ſolamente il traggono a pochisſime once; ritenen do così ſolamente in
nome, e per veduta l'eſler Galieniſti in trar ſangue, quando in verità non
ſono. Ma per ritornare allamedicina d' Eraſiſtrato, egli fem bra, per quel che
nemoftriGalieno, che della materia de medicamenti egli ſi foſse allai ben
conoſciuto; e viencegli oltrcmodo da Galien celebrato: perciocchè pellegrinando
egli, e non avendo una fiata in acconcio una ſua medicina per lo ſtomaco,
ponetie ſaggiamente in opera alcuni ſughi d'erbe,le quali quivi abbondanteméte
erano;eGalien pari mente di luiracconta, che trovandoſi cgli medeſimo un giorno
infermo in contado, e abbiſognandogli al ſuoma lc il paſtello d'Androne, ne
potendolo quivi avere, in luq go di quello aſſai felicemente adoperò il ſugo
del Rovo; c ſoggiugne Galieno, chee'non venne Eraliſirato a ciò fa Z Z 1 1010
re ſoſpinto altrimenti, o perſuaſo', come millantavano Sea rapione, e Menodoto,
dal paſſaggio, o argomento dal fi mile al fimile, non avendolomiglianza niuna
tra'l paſtello d'Androne, e'l ſugo del Rovo,madalla general contezza, la qual
egli avea della facoltà de'ſemplici; per la cui' mea deſima ſcorta,ad
emulazioned'Eraſiſtrato ritrovò poiGa lieno parimente quel medicamento, che'l
fa tanto ſtraboce chevolmére pavoneggiare,cioè il ſugo delle noci.Or penſa te
voi che ſchiamazzio avrebbe farto egli, e qual loda avrebbea ſe ', e ad Erafiltrato
attribuita Galieno, ſe qual che menoma delle chimiche medicine aveſſer potuto
mai eglino rinvenire. Ma ne Eraſiſtrato, ne Galieno ſeppero mai', che nel ſugo
del Rovo, e delle noci viabbia un ſale adatto a ſciogliere molte, e molte di
quelle materie, onde ingenerar fi loglion le poſteme; e che non ſolo i fughi
già detti ſono riſtrignitivi,mavalevoli anche a fare cambiar na tura a quelle
acetoſe ſoſtanze', oude s'ingenerano l'infiam magioni. E quinci ſi ſcorge
apertamente, chevada errata in ciò la medicina razionale antica, la qual ſi
crede, uſana do medicamenti sì fatti nel primo cominciamento dell'in
fiammagioni, porre in opera coſe, che di ripercuotere, o di riſtrignere
ſolamente abbian valore. Maritornando a noſtro propoſito: bé potea anche effer
agevolmente vero ciò che diceano que’gran lumi dell'em pirica medicina,
Serapione, e Menodoto, che da qualche ſomiglianza no penetrata da Galieno tra'l
Rovo,c'l paſtel lo d'Androne indotto ſtato foſſe Erafiſtrato a ciò fare; e in
verità tra'l Rovo, e la Galla,per tacer del vitriolo, onde vien formato il
paſtello d'Androne, potea non che Eraſi ſtrato, ma huom di mezzano intendimento
di leggieri av viſare eſſer non poca lomniglianza. Maquanto sì fatta ſo
miglianza poſſa ingannare, non ſi richiede gran forza di loica a farlo vedere;
e ſe, come pare a Galicno, Eraſiſtra to avea una general contezza
de’medicamenti per quella acquiſtata, certamente egli l'avea per iſperienza, o
da fe, o da altri fatra, la quale agevolmente può eſſer fallace: 0 pure per via
di ragioni non meno della ſperienza ſoſpettes d'errori, e d'inganno.; perchè in
un punto cosi principale manchevole, difettoſo, e incerto il fiftemadella
razional medicina d'Eraſſtratoanche ritro.yafi. Ma trapaſſando ad altri: Io non
ſaprei dire s'empirico e ſi foſſe, opur razionale quel famoſo medicante
Petronas, il quale dopo Ippocrate, maprima d'Erafiftrato ebbe ad introdurre un
iſtrano, e non più veduto, o intero modo di medicar le febbri. Solea coprir
egli i febbricoſi di tanti pannilani,che loro ſi yeniffe a creſcere olcremodo
il caldo, e la ſece; matantoſto, che incominciava il febbril caldo as ſcemare,
ei facea loro pienetazze trangugiare di freſc'.ac qua, il ſudore aſpettandone;
il quale ſe non compariva, di nuovo tacealorbere nuovaacqua, e proccurava
ch'eglino vomitaſſero; riſtata poi la febbre, gli cibava di carne di porco
arroſta, econcedea loro liberamente il vino; maſe la febbre non ſi partiva, facea
bere agli ammalati acquad calda, e fale per render lubrico il corpo; e in
queſto tutti igrantrovati della ſua medicina eran ripoſti. Mamipare da non
dover logorare indarno il temponella cenſura d'un sì fatto modo di medicare; e
comechè in alcune fortidi febbri, e in qualche huomo gagliardo, e ben atante
della perſona non foſſe per avventura fuor di ragione il farlo tuttavia in
tutte ſorti di febbri, in tutte perſone, egli fem bra certamére una ſciocchezza
non punto diverſa da quel la d'alcuni medici de'noftri tempi: i quali non con
altro che.colle purgagioni, e co'ſalali immaginano ciaſcuna gene razion
dimalattic rilanare. E più ragionevole certamente egli ſembra la manicra del
medicare alcune febbri, dagli Albaneſi uſara; i quali nel cominciamento di
quelle foglion dare all'infermo vin generoſomeſcolato.con iſpezierie, fimile al
vino ippocra tico, e al vin brugiato degli Inghileſi. Ma quino ſi può certaméte
lodare il cófiglio diCornelio Celſo, che nelle febbri lente tratto tratto
fidebbail corpo imbagnar con acqua fredda meſcolata con olio; che in tal guiſa
egli credette, che ſi verrebbe a riſvegliar il riprezzo, e conſeguentemente
anche il calore, ondeagevolmente ne Z 2 2 po potrebbel'ammalato guarire: fæpe
igitur, egli ſcrive, et aquafrigida, cui oleam foc adječium, corpus ejus
pertractan-, dumeft; quoniam interdum fic evenit, ut horror oriatur, ds. fiat
initium quoddam novi motus, exque eo, quum magis corpus incaluit,fequatur etiam
remiffio. Ma quantunque alcuna fiata a ciſo poſſa il fatto nella guiſa da lui
deſcritta accadere, ed agli ammalati alcun pro avvenire; pur non dimeno ſenza
manifeſto riſchio non va la biſogna; impe rocchè ſe altrimenti riuſcirà,
n'andrà ſenza fallo da male in peggio l'infermo. E quinci fi ſcorge con quanta
ragio ne abbian laſciato i Galieniſti il pericoloſo modo, col qual guarito aver
fi gloriava la febbre finoca Galieno, confar uſcire il ſangue dalle vene per
via del falaſſo, fino allo sfi nimento dello infermo; da chefacendoſi gran
movimento nel corpo fogliono i ſudori copioſiſſimi,e l'uſcite del corpo, e'l
vomito anche talora, come avviſa il medeſimo Galicno, avvenire; per li quali, e
per le quali o ſperano, che debba mancare affatto,oin parte la febbre. Ma in
vano certa mente eglino poi attendono tal opera da’lor piccioli ſalallı; al che
non dovette aver riguardo Avicenna,la ove diſſe el fer meglio affai accreſcere
il numero, che la quantità de’la laffi; cioè più cofto in più volte il ſangue,
che tutto inſie metrarlo fuori, Ma per più d'una pruova avviſando il
grand'Atenco, fra quante traverſe, fra quanti viluppi, fra quante incertezze
vacillanti s'andaſſer ad ogn'ora aggirando le varie, e tra effo loro
diſcordanti dottrine, che per le fcuole più cele bri della razional medicina
nellaGrecia s'inſegnavano,im preſe anch'egli una fabbrica di novello fiſtema di
medici na; perchè tutte le forze del fuo acutiffimo intendimento egli vi poſe
in opera; c tanto in ciò fare ebbe ſeconda las fortuna, che da molti
valent’huomini vennero a gara le ſue opinioni ricevute, e approvate; e per
tutto quel tempo, che le lettere fiorirono nella Grecia, e nel Romano impe. rio,
celebre fi manterne la ſua Setta, e in buon nome, las qua le ſpirituale venne
chiamata; imperocchè una fortiliſ ſin a fpiritual ſoſtanza clla immaginava; la
qual per tutti i 1 corpidell'Vniverſo diſcorrendo mai ſempre, e penetrando, non
meno il grande, che'l picciol mondo regger doveſſe; é dove ella non foſſe
primjeramente offeſa,non poteaſi, fe condo il ſuo ſentimento, male alcuno
ingenerarſi; il qual diviſaméto ſi parve egli, che’n parte adombrar voleße Vir
gilio in prima dicendo. Principio cælum, duterram,campofque liquentes,
Lucentemque globum Luna, Titaniaque aſtra Spiritus intusalit:totamque infufa
per artus Mens agitat molem, & magno fecorpore mifcet. E poi Torquato Taſſo
Ele menzogue antiche Di chifiloſofando, e menie, e Spirto Dieda queſta mondana,
ed ampia mole? Il qualper entr'a lei trapaſa, e ſpira; Com'a lor parve, e'l
Cielo, e l'ima terra, E laſpera delſollucente, e vaga, E’l globo de la Luna, e
l'auree ſtelle, E de l'aria, e del mare i larghi campi Nutre, e miſto al gran
corpo in varj modi, Move agitando le diverſemembra? Ebbe la ſetta fpirituale
oltre ad Ateneo, e a Criſippo fuoi principi, e alMagno, ad Agatino, ad Erodoto,
altri, e al tri valentiffimi huomini, che colle loro opere univerſalmé te avute
a grado,ſommamente la nobilitarono, e l'illuſtra rono; e fra gli altri
Archigene:il quale, tra per lo medica che felicemente mai ſempre fece, e per li
tanti doctiſ ſimilibri, ch'e' diede fuora, ne'quali non laſciò cofa, ne grande,
ne piccola, che trattata diligentemente per luino foſſe nella medicina, non ha
che cedere a niuno, ch'abbia o prima, o dopo lui ſcritto, e medicato
infra'Greci; im pertanto per la ſoverchia applicazione alla loica, onde a gran
ragione talora vien Archigene accagionato da Galie no: e per valerſieglino
della filoſofia degli ſtoici, i manca mentidella quale altrove da Noi fien
conti, difettoſo, e fallace moltoegli riuſcì il loro fiſtema di medicina razio
nale. Oltre re, Oltre a queſto e'miſembra, che riprovino eglino me deſimi il
loro ſiſtema; imperocchè in medicando le malat tie, poco, anzinulla a sì fatto
Spirito badar fogliono; con che danno a divedere non altro eſſer queſto loro
ſpirito, ſalvo che un gentil trovato per fare parer maraviglioſa al vulgo la
lor medicina. Doveano adunque eglino provar in prima con ſaldiđimi argométi
eſſervi un cotale ſpirito; indi diligentemente inveſtigare, chente,equal li fia
la ſua nas tura, cioè qual figura qual, grandezza, equal movimento abbiano le
particelle, che'l compongono, e come egli fac cia le ſue operazioni nelcorpo
umano, e come nell'inge nerarſi le malattie egli offeſo vegna; e in qual guiſa
dar li pofla a'ſuoi diſordinamenti compenſo.. Poco men che crucciato ſi
maraviglia Plinio, in pone do egli mente alle ſtravaganti pur troppo, e
maraviglioſes felicità nelvero d'Aſclepiade;huomo com'e'dice, quan to al
naſcimento, di condizionemolto vile, e di maſtro di ritorica ch'egli era in
prima, perciocchè aſſai poco gli fruttava, in un tratto medico divenuto. E sì,
e tanto egli adoperò, che nuova ſembianza in breviſſimo tempo ve ſtir facendo
alla medicina, a rimaner ne veonero l'antiche regnanti ſette ſconvolte tutte, e
poco men, che affatto op preſe, e abbattute; ed egli folo vincitore,e
trionfante de gli altri medici, a guiſa di perpetuo dittatore nella Città
donna,e capo del mondo, ne ordinò a ſuo talento, e ne diſpoſe le leggi:
ſupremo, e aſſoluto arbitro, della vi ta, e della morte diquelpopolo, nelle cui
mani ſtava la morte, cla vita d'ogn’uno ripoſta. Ma fermamente egli fi dee
credere, che a tanta grandezza perveniſſe Aſclepia de, non tanto com’alcuno
immagina, ch'egli ottimo e pro to parlatore ſi foſſe, quanto che colſenno, e
col valor no punto ordinario viſi portaffe, comechè la fortuna anch'el la vi
concorreſſe con qualche gran fatto; quale appunto di fu quello, che vien
narrato dallo ſteſſo Plinio; ch'eſſendo ſi un giorno egli a caſo incontrato in
un miſerello, che per morto era portato alla ſepoltura, facendolo egli a caſa
rie tornare, con valevoli argomenti in perfetta ſanità il rimiſe. Eben 1 túrós,
E ben palesò egli al mondo la grandezza del ſuo animo', e la ſingolar fua
prudenza: allor, che prevedendo la fa tal rovina del gran Re di Ponco Mitridate,
generoſamente diſprezzando la gran ſomma dell'oro da colui per amba fciadori
offertagli, ricusò d'andare alla ſua corte. Malale tezza del ſuo acutifſimo
intendimento appieno benmoſtra no quelle, che delle tante, e tante ſue
opereſcarſiſſimes particelle a noi ſono rimaſe; nelle quali ſi vede apertainéa
te, che non iſchivando egli mafagevolezza niuna, ne ſi fermardo nella prima
buccia delle coſe, s'ingegnava ſeco do ogni ſua poſſa d'internarſi nc più
ripoſti ſecreti della na Primieramente vuol egli Aſclepiade, che non già per
caſo, ma di neceſſità, e per l'indirizzamento della natura ognicoſa avvegna
nell'Vniverſo: e che fa natura altro ve ramente non ſia, che'l corpo medeſino,
o'l ſuo moto: per la cui perpetua, e iron mai ſtanca opera i corpicciuoli, i
qua li cosìpiccinli ſono, ch'alla menteſola permeſſo viene co prendergli,
veloci, e ratti, e con volante foga fra' effo lo ro incontrandoſi, e con
vicendevoli percoffe, l'un coll'al tro cozzando, e forte battendoſi, fi vengano
a ſminuzza rc, e a dividere in minutilíme, e innumerabili ſchegge; le quali con
diverſi movimenti andando l'una verſo l'altra, e inſiemeaccoppiandoſi, e
congiugnendoſi, prive d'ogni qualità, col moro, col numero, colla grandezza,
collow figura, e coll'ordine le coſe, e l'apparenze tutte ſenſibili
producano;ne eſſere fuor di ragione,egli poiſoggiugne,che ſien privi diqualità
i corpicciuoli; concioſliecoſachè altro dal tutto, altro dalle parti ne ſegua;
l'argento è bianco, ma nera è la ſua radicura; il corno ènegro, mala ſua
polvere è bianca; ma dovetre dir egli ancora, che le qualità altro non fieno, o
per me'dire altro non le faccia apparire, che'l concorrimento, la figura, e’l
fito, e la grandezza, e l'or dine, e'l moto di que'corpicelli; perchè allor che
concor rono inſieme piccioliſſimi corpicelli, o ſperali, o piramida li, e con
dilatante moto velociſſimamente ver noi fi lancia no, a formar ne vengono quel
ſentimento, che dicalore ſi chiaina. Dice oltre a ciò
Aſclepiade,chenell'accozzarſi inſieme, appigliandoſi le particelle, o ſchegge
ſuddette nel formar le membra degli animali, vi laſciano molti, e molti ſpazj
vuoti, per opera delſolo intendimento compreſi, varj di grandezza, e di figura;
i qualiſe aperti fi mantengono al tragitto de ſughi, ſi mantiene l'animale ſano,
callo incon tro, ſe impediti fono per la dimora de'corpicelli,a far li vê gono
ſecondo la varietà delle parti, e degli ſpazj, varie, e diverſe le malattie; ma
non però già tutte malattie, ſecon do Aſclepiade, avvengono per la dimora
de'corpicciuoli, fe non ſe alquante ſolamente, come la freneſia, il lecargo, le
puinte, e lefebbri grandi; ma altre poi avvengono per ſoverchio aprimento: e
s'ingenerano per la curbazione de ſughi, e degli ſpiriti, per la quale
ſtrabocchevolmente s’al. largano gliſpazj, come nella fame canina, e nella
fover, chia magrezza ſi vede: 0 nuovi ſpazj a viva forza in non, convenevoli
luoghi ſi aprono, come nell'Idropiſia acca de, Vuole oltre a ciò Aſclepiade,
che non iftiano le cagioni operatrici de’mali ne'liquidi corpi ripofte; ma nel
vero al tro quelle non eſſerç, ſe non ſe le cagioni antecedenti. Si ride egli
di quel grande ſchiamazzio, che fanno i medici in. torno a'giorni critici;
portando opinione, che d'ogni tem po, com'egli avea avviſato, poſſano creſcere,
e ſcemare, o ſpegnerſi affatto le malattie. Ma per accénar qualche coſa intorno
all'altre parti del la medicina d'Aſclepiade: egliamo di condurre iſuoi infer
mial deſiderato fine della ſalute, con moleſtargli il men, ch'c'potea; avendo
ſempre in bocca quelle celebri ſue pa role, che vengon per Cornelio Cello
rapportate: tutè,citò, jucundè;perchè cra egli nimiciſſimo di que'medicamenti,
che così ſovente, e per lo più fuor di teinpo venivan da al tri medici
adoperaticon incerțillima ſperanza d'avere a re, care qualche giovamento
agl'infermi; e allo incontro con ſeguirne loro licuriſſimo, e pronto il danno,
ela nojx;per chè chiamar egli folea la medicina degli antichi, medita zion
della morte; e molto ben’ayyisādo l'accortiſſimo huomo, e di sì fatte coſe
aſſai intendente, quanto poco atten der fi poteſſe dal'incertezza della
medicina, e dalla fiebo lezza de'ſemplici, o compoſti medicamenti, che in que'
tempi erano in uſo, nel ſapere ben regolar la vita col ci bo, coll'eſercitar le
mébra,e altresì fatte piacevoli cole, poco men che tutto il sómo del ben
medicar ripofc. E nel vero ciò non fe già egli, come huom crede, da neceſſità
alcuno ſtretto,per no aver contezza, ne men mezzanamite de’rimedj; anzi egli ſi
fu della materia de’medicamenti co sì ſemplici, come compoſti sì ben conoſciuto,
che ſicoine Galien dice, egregiamente cgli ne ſcriſſe: e molti, e molti
medicamenti di ſuo ingegno egli ritrovò, e poſe primiera mente in uſo, e ne
compoſe un particolarlibro; i qualime dicamenti, non che da altri foffer mai
tacciati, anzida’ine deſimi ſuoi emuli, e avverſarj commendatioltremodo, e
fovente adoperatifurono; infra’quali ſi ammira per Galic no quel celebre
impiaſtro per le piaghe, che non ſi dee ri muovere, ſe non ſe dopo tre
giornizonde fi pare,che Aſcle piade apriſſe la ſtrada alnuovo modo in queſto
ſecolo in trodotto di medicar le ferite. Oltre a ciò abborrì egli ſoprammodo le
purgagioni; ma fivalſe de criſtei. Danrò ancora, come racconta Plutarco,
ivomiti, che troppo frequentemente allora erano in ufo, e che a' tempi noſtri
ancora fi uſano da alcuni i quali per dir la colle parole di Cornelio Celſo:
quotidiè ejiciendo, vo randi facultatem moliuntur: ma non già egli il tolſe
affatto dalla medicina,anzivuol'egli, che nelle terzane ſi proccu ri il vomito;
del quale, com'c'medeſimo narrazli ſervìnel curar quella nobile femmina di
Samotracia. Ne ſi dee qui tacere, che ſi pare,ch'Aſclepiade vicino ftato foſſe
ad aver contezza dell'elatere dell'aria, come ravviſar ſi puote dal le ſeguenti
parole di Plutarco, avvegnachè coſtuimoſtrino aver ogni particolarità compreſa
de ſentimétid'Aſclepiade: υπομιμνήσκα δε αυπ επι της κλεψύδρας Ασκληπιάδης και
τον με πνεύμα να χώνης δίκην συνίσησεν, αιτίαν δε της αναπνοής την εν τω θώρακι
λεία μέρειαν υπο τίθεται • πεος ήν τον έξωθεν αερα ράν, τε και φέρεσθαι παχυμε.
ρη άνε πάλιν δε αποθεϊσθαι,μηκέπτε θώρακG- οί'ε πόντος μήτ' έπεισ A23 370
Ragionamento Quinto 1 re δέχεσθαι, μήθ' υπρεϊν • υπολειπομένα δέ τιν G- εν τω
θώρακι λελομερές dei begyiQ (šgaię o nav ixreiveron ) neos Tšto nánar có trw umojéves
βαρύτης του εκτός αντεπεισφέρεται αυτοι δε ταϊς σκύις ασικάζα: την δε και
προαίρεσιν αναπνοήν γίνεσθαί φησι συναγομένων των εν τω πνεύ μονι λελοτάτων
πόρων,και των βρογχίων πνεμένων » τη γας ημετέρα G. &υπακούει πιοαιρέσει. ·
Machi potrebbe mainarrar tutt'altri diviſamenti, e opi nioni, le quali fallo
Iddio, come riferite vengono; e per la più parte da chi punto non l'intendea; e
talor anche da al cuni per vggia, e mal talento a ſtudio guaſte, e travolte. Il
che oltremodo malagevole rende la cenſura del ſiſtema della ſua medicina; pur
lo brievemente ne dirò in qualche coſa il mio ſentimento. E primjeramente
parmi, ch'aveſſe errato aſſai ſconcia mente Aſclepiade nella notomia; portando
egli opinione con Ariſtotele, ed Eraſiſtrato, che le reni non abbiano al cuna
operazione: echeciò, che ſi bee, ſciolto in vapori ſe'n vada nella veſcica,dove
poſcia li ftipi in orina; delche meritevolmente vien egli ripigliato da Galieno;
comechè a gran torto dal medeſimo venga poi biaſimato, perchè c' non fi vaglia
della facoltà ſeparatrice, che vuol dire in buo ſenſo, perchè egli non ſi metta
a filoſofare con ciance, e anfanie. Ma fuor d'ogni ragione,e a corto non meno
sfac ciatamente fi accagiona per Galieno Aſclepiade, dicendo, che contro
l'evidenza de'ſenſi egli aveſſe negato, che quel le coſe,le qualiognun vede,
che vanno verſo quelle,dalle quali ſi crcde eſſer elleno tratte,veramente vi
vadano;che certamente non potea egli sì milenſo, e ſciocco eſſere un tanto
huomo, Negò ben'egli la facoltà attrattiva, e co'buoni filoſofan ti ſtimò
eſſere per lo lume della ragione manifeftiffimo,che ne ſomiglianza mai, ne
facoltà, ne altra coſa del mondo potrebbe far sì, che un corpo moveſſe altro
corpo ſenza toccarlo, o per ſe ſteſſo, o per altro corpo da ſe parimente tocco,
e moſſo; poichè a trarre a ſe un corpo lontano fa certamente meſtiere uncino, o
fune, o altro ſomigliante appiccatojo, che'l prenda. Ma non poſſo lo laſciar di
forte non ridire, quantunque volte rammento quella ragione, colla quale Galieno
con tro Aſclepiade,ed Eraſiſtrato, e altri buoni filoſofantiſen za vederne
altro,fermanente credette, ſe averela virtù at trattiva già faldamente provata;
dic'egli,che per induſtria d'alcuniladroncelli, i quali poneano vaſi di creta
pieni d' acqua nelle carrette del grano, quello ne creſceva manife ftaméte
dipeſo;coſa la quale avvenir nó potea,fecondochè cgli ſtima, ſe'l grano non
aveſſe la virtù attrattiva; concio foſſecoſa che eſſendo egli diſcorſo per
tutte fette di medi cina rinvenir non aveſſe mai potuto ragione alcuna, che in
ciò punto l'appagaſſe. Quinci ſi pare,che meritevolinen te il Veſſalio avendo
anch'egli avvifata un'altra cotal ra gione a queſta poco, o nulla diſſimile,
prorompeſſe in sì fatte parole motteggiã do i libri della dimoſtrazione di Ga
licno:profeito ſiGaleni libri de demöftratione, cjufmodi crebris Scatent
demonſtrationibus,que ipfi & fimodo aufim proloqui) non infrequens, ac
poriſfimum in quamplurimumGalenusex celluit anatome ſunt, non eſt ut eos libros
tantopere expecte mus. Ma laſciando ad altri più di noi ozioſi ſopra ciò fa
vellare, certamente venner conoſciute molte, e molte coſe di notomia per
Aſclepiade, che avrebbono fenza fallo po tuto render chiaro, e ragguardevole
oltremodo il ſuo ſite ma: comechè paruto fo fe, ch'egli aveſſe portata opinio
ne, che'l nutrimento alle parti non diſcorreſſe per quel cá mino, che
co'nunemente per ciaſcun ſi credea; impertanto immaginò egli, di ſottiliſſimo
vapore in guiſa portarſi per tutte parti dei corpo il cibo crudo; ma non diſse
perchè, e comeſi ſmaltiſca nello ſtomaco per renderſi valevole a pe netrare in
quegli anguſtiſſimi ſpazj da lui immaginati. Ad imitazione poid'Aſclepiadevolle
l'Ofmanno, che in forma di vapore il chilo dalle vene, e dalle arterie
miſeraiche tratto veniſse. Ma prima d’Aſclepiade pare che Eraclito, Ariſtotele,
ed Eralitrato aveſser detto, che in guiſa della ruggiada il chilo, e l'alimento
per lo corpo ſi ſpargeſse. Ma laſciando di favcllar di queſte coſe, nelle
quali, non ſolo Aſclepiade, ma tutt'altri Greci andarono errati; egli Aaa 2 è
ben 1 cerco, che dovea minutamente Aſclepiade per dar l'ultimo compimento alla
ſua dotcrina più avanti diſami nando riconoſcere, chenti, equali, e dove
veramente fof ſero nelle membradeglianimali gli ſpazi, e la grandezza, e la
figurą, e'l fito, e l'ordine, e'lmovimento di quei cor picelli, i quali o
affatto, o in parte turandogli, o più del convenevole dilatandogli, o altri
nuovi ſpazj formando ſien poi cagione, ſecondochè egli vuole d'ingenerare i
mali negli huomini; perchè fa meſtieri aver piena contezza di tutti corpicelli,
onde le parti diſcorrenti, e falde vengan compoſte; e ciò non
ſappiendoſi,malagevolmente potralli, come a razional medico fi convienc, alcun
ſicuro, e certo rimedio per ragion ritrovare. Dove poicgli dice farſi la
freneſia, il letargo, la punta, ele febbri da'corpicelli, chenegli ſpazj
inframelli dimora no, perchè egli non ſoggiugne (o forſe no'l ſappiam noi
s'egli il Gfacefle ) quale quegli abbian grandezza, e figu ra e, come ſeano
compoſti, e accozzati infra loro que'pic cioli buchi? e avvegna pure,ch'egli
accennalle avvenir la contina dal rattenimento de corpicelligrandi, la terzanz
de'piccioli, e la quartana de’menomi: non è però queſto ſuo parere ſaldamente
raſſodato dalle ragioni, ch'egli rap porta; anzi pajon'elle molto leggieri: e
ſono queſte, che i corpicelli grādi più agevolmére gli ſpazj riemoiano; e più
agevolméte gli ſgõbrino,e i piccioli meno;ma ſe la biſogna pur così andaſſe.com'e'diviſando
ne ragiona,queſta contez za fola al medico razionale non baſterebbe al ſuo
intendi. mento fornire; ma di ſaper anche il movimento, la figura, el ſito di
quelli farebbe a lui meſtieri, ficome poco 'addie tro noi dicevamo; e ſe
impoſſibile per avventura una sì fąt ta impreſa pare che ſia da poterſi per
intelletto umano co durre a capo, yana ſenza dubbio ricſce ogni induſtria, ogni
argomento d'Aſclepiade, o di qualunque altro ingegno, che di ſtabilir ſetta
veruna di razional medicina preſuma ), E avvegnachè Aſclepiade, come detto
abbiamo aſſai ben inteſo fi foſſe della materia de'medicamenti, a modo che,
comeperGalieno ſi narra, egli ſolo, e Dioſcoride d'ogni ſorta
dimedicamenti,cosìdell'erbe,come degli arbori,deld le frutta,de' ſughi, de'
liquori, e d'altre, e altre coſc fof ſero pienamente informati: nientedimeno,
ſe le pruover che intorno alla loro natura, e al loro operare egli nellas ſua
opera recò, ancora di leggeſſero, ſi troverebbono, per quel che ſi è accennato,
ſolamente probabili, o forſe po co falde ragioni;e meſtier certamente farebbe
ad Aſcle piade, alla fola ſperienza, non men che altro più vile Em. pirico
ricorrere. Ma ben ciò conobbe egli, ne'l diffimulò punto, e confeſsò
apertamente, altro la medicina non ef fere, ch'una cotal ſemplice conghiettura;
onde ebbe a dire Plinio, ch'egli: medicinam ad caufas reuocando conjectur.i
fecit: o come legge Giacopo Dalecampj: conjecturalem fecit. Nel curar le febbri
terzane,e quartane egli ſembra,che non molco bene (comechè'l contrario dica
Cornelio Cel ſo)faceſſe in laſciando la coſtuma di Cleofanto antichillimo
medico, ilquale alquanto ſpazio avanti al cominciar della febbre uſava dare
aglinfermi il vino, e bagnar loro con acqua calda la teſta; ove in inolte altre
coſe i coſtui avviſi era uſo di ſeguitare. Vuolanche Aſclepiade, chenon ſi
tragga mai ſangue, fuor ſolamente ne'dolori; e ciò perchè facendof queſti da’
grandi corpicelli nelle parti ſalde fermati, c rattenuti, ſe condo il ſuo
ſentimento, gli pare, che ſi poſſan trar fuora dagli ſpazj per opera del
ſalaiſo. Maegli ſenz'altro fallò; sì perchè i piccioliflimi, e velo
ciſſimicorpicelli,che formano il fuoco, cagionar ſoglio no il dolore: come
anche perchè converrebbe per la me deſima ſua ragione trar ſangue nella contina;
il che da lui inceſſantemente ſi nicga;ſenzachè,ſe com'egli immagina, i
corpicelli fermati negli ſpazj ſono cagione de'mali,e queſti tutti nelle parti
ſalde conſiſtono: e le liquide, benchè fuor di modo abbondino ne'vaſi, non ne
ſono cagioni vere, e preſenti, ma ſolo antecedenti: che monterà egli il trar
fuo ra mai le parti liquide de’vaſi per la cura de dolori Mache che ſia di ciò,
egli non mi par, che ſi poſſa punto dubitare, chc 374 RagionamentoQuinto 1 }
che profondiffimi fi foſſero i ſentimenti d'Aſclepiade,e che cgli, il quale
tra'greci medicimaggiore, e più alta contez za ebbe delle cole della natura e
ſolo ardì a ſpiar tutto, e a ſcriver tutto, ciaſcun maeſtro più valoroſo
", e più rino mato in medicina a molto ſpazio dietro ſi laſcj; perchè fai
meſtieri dire, che grandiflimo danno per la perdita dello ſue opere fia alla
medicina, calla filoſofia ſeguito, Quinci ſi vede, che ſcarſemolto, per non dir
altro, ſem bran le lodi,colle quali Plinio volle onorare Aſclepiadeo Afclepiadi
Prufienfi, condita nova feéta,fpretis legatis, doo pollicitationibus
Mithridatis Regis reperta ratione,qua vinü agris medetur,relato è funere homine,
ofervato,ſed ma xime/ponfione falta cum fortuna, ne medicus crederetur fi
unquam invalidus ullo modofuiſſet ipfe, & victor fuprema in ſenecta lapſu
ſcalară exanimatus eſ. Ma laſciando Aſclepiade,che pur troppo n’abbiam dete to,
e trapaſſando ad altri ſetteggianti medici; qual e ſi foſſe veramente il
ſiſtema della medicina del famofiffimo Antonio Muſa, lo non poſſo ne meno
immaginare, non che diviſare; e fe'l favore, e l'autorità d'Ottavio Ceſare potè
farlo prevalere a tutt'alori di que'tempi: non per tanto fù cgli da tátoge
baſtevole a mantenerne vive le memorie ap po i pofteri. Potrebbe di leggieri
eſſere, ch'egli per mag giormentepareggiar Temiſone ſuo maeſtro, fifoffe fatto
di qualche nuova forte di metodica medicina inventore. Veggiam di lui ſolamente
alcune forme, o ricette di co pofizion di medicamenti aſſai volgari, e di molta
poca co ſiderazione, dalle quali nulla comprender puoſſi dalla maniera per lui
tenuta nel medicare Ottavio,tutta travolta da quella di Cimolio; perciocchè
Ottavio, licome narra Suetonio, quia calida curari non poterat, frigidis curari
coa &tus authore Antonio Muſa. Perchè potrebbe ragionevol mente dubitare
alcuno, non egli empirico foſſe ſtato di ſet ta; ma per avventura a ciò fare da
qualche apparente ra gione egli fu moſſo. Neciò è nuovo, che i razionali ſiva
gliano di tal regola; poichè il fece Ippocrate ancora; co mechè egli poi moſtri,
ch'aveſſe altro in animo, con inſegnare una fiata il contrario, la ove
diſſe,che chiunque ope ra con ragione, avvegnachè ſenza profitto, e infelicemen
te fi faccia, dee coſtantemente camminare per la ſteſſa ſtra da:
návraisatakóyov meséori,xai pen'govojévwv * xara'dégor,designer swßaives, i
inapoy, pérovt QuTð dóžavo iš devās, il che da cao gione a molti medici di
pericolar ſovente i loro infermi; i quali veggendoapertamente, che a mal fine
rieſcon pure le lor cure, non per tanto ſe ne riniangono, o ad altro divi ſo
volgono i loro intendimenti, con graviffimo dan no de' cattivelli. E mi ricorda
in acconcio di ciò aver letto in un coral autore ', che avendogli ſcritto un
ſuo ſcolare, che avea egli per più d'una pruova cono ſciuto, che'l ſegnare in
alcune febbri ', che allora la Città di Vinegia fieramente malmenavano,
conduceva a ficura morte gl'infermi: impertanto ſe n'era egli rimaſo cô nolto
giovamento di quelli: egli replicogli una gran vit lania, chiainandolo ſciocco
empirico, biaſimando il ſuo fa lutevol diviſo, non altrimenti, che ſe colui
aveſſe una gra ve ſcelleratezza comeſſo; e diſſegli ſpacciatamente, che tor
naſſe al falaſſo di prima, nulla curando, che gl'intermi per ciò fare
certamente fe ne moriſfero; e in ciò rammentogli la teftè apportata dottrina
d'Ippocrate; non avviſando,che comechè verilimo ſia il detto d'Ippocrate,
nientedimeno è ragionevolmente da ſoſpettare non ſia manchevole, e fal lace la
ragione, allor che non le riſponde l'uſcimento. E chi ſa poi tra le tante
incertezze dell'arte, qual ſia la vera, e legittima ragione? ma come
ſaggiamente avviſa Galie no,non è peſo da tutte braccia, ne opera d'huom di
poca dottrina il ciò poter ben avviſare. Egli li fu Antonio Muſa, per quel che
s'argomenti dal ſoprannome impoſtogli, d'ingegno aſſai nobile, ed elegá te; ne
per altro Euripide nel Palamede chiamò colui col medeſimo ſoprannome: εκτάνετ'
εκτάνετε ταν πάνσοφον, μεν ουδέν αλγύνεσαν αηδόνα μούσαν. Maqual fi foſſe
veramente l'eleganzadell'ingegno d'An conio Muſa, manifeſtamente ſcorger ſi può
da quelvaghiſ, fimoEpigrammadi Virgilio. Cuivenus ante alios Divi,
Divumqueforores Cuneta,nequeindigno Mufa dedere bona. Caneta quibus
gaudetPhabus,chorus ipſeq; Phabi Doctior o quiste Mufa fuiſse poteſt? O quis se
in terrisloquitur jucundior uno, Clejo nam certè candida non loquitur. Sivalſe
Antonio Muſadella carne delle vipere, enedam va mangiare con non poco
giovamento a coloro che da in fanabili piaghe languivano: i quali
maraviglioſamente con incredibil velocità, ſe'l ver dice Plinio, ne guariyano.
Io yo meco diviſando,che'lMuſa aveſſe ciò appreſo dal vale tiſſimo tra'greci
mediciCratero, cotāto daCicerone in iſcri védo ad Attico,celebrato;dicui narra
Porfirio che riſanato aveſſe un miſerello ſchiavo, cui in iſtrana guiſa dall of
Ia la pelle ſpiccavaſı, fol coldargli mangiar vipere prepa rate a guifa di
pefci: Kegπρούτου ικττού οικέτης ξένων περιπεσών νο τήματα, των σαρκών απόφασιν
λαβεσών εκ των οδών, τοίς μου ωφέλι ούδέν, ιχθύω- δε κόπο ίχα εκευασθένη, και
βρωθένπδιεσώθη της σαρκός συγ 2014 nbbons. Ma ſopra ogn'altro medicainento ſi
ſervì Anto nio Muſa de bagnidell'acqua fredda; e egli, e'l ſuo fratel do
Euforbo medico di Giuba RediMauritania ne introdur fc primiero l'uſosappo il
quale in sì grande ſtima Euforbo crâ, che zvédo egli ritrovata
un'erbamedicinale,volle,che colnome d'Euforbo foſſe chiamata. Mail Muſa folea
ba gnare i ſuoi inferini prima nell'acque calde,voladosper mio avviſo, aprir
loro in prima bene i pori, acciocchè le fredde poimegliovi poteſſero penetrare;
quindi entroall' acque fredde gli laſciava agghiacciare.Del qual modo di medica
se così narra Orazio nelle ſue piſtole,dimádádo Numonio Valla, ſe in Salerno, e
in Velia foſſe così fredda l'aria,che dimorandovi egli poteſſegli giovare
a'ſuoi mali; percioc. chè il ſuo medico Antonio muſa, freddiſſima gliele
richies deva per dover prendervi i bagni freddi. Aua Quæ fit hyems Velie,quodCalum
Vala Salerni, Quorum hominum regio, &qualis via.(nam mihiBajas Mufa
fupervacuasAntonius, &tamen illis Mefacit inviſum: gelida cumperluur unda
Per medium frigus; ſanè myrteia relinqui, Dictaque ceſsantem nervis elidere
morbum Sulfura contemni, vicus gemit, invidus ægris: Quicaput, & ftomachum
fupponerefontibusaudent Clufinis, Gabiosquepetunt, & frigida rura. Ma
certamente ebbegran ventura il Muſa, che dopo l'el ferſi bagnato in sì fatta
guiſa Ottavio, guariſi d'una gra villima inalattia; comechè dica Plinio, che
ciò foſſe avve nuto per opera delle lattughe,delle quali egli cibavalo co tro
il parere di Cimolio; perchè fu queſti della caſa di Ot tavio ſcacciato fuora;
indi cominciarono i Romani ad uſar ſovente nelle lor menſe le lattughe, che per
averle anche fuor di teinpo, riſerbavanle nell'oſſimele. Per la qual cura
Antonio Muſa in sì rilevato ſtato montonne, e in cotanto credito, cheoltre alle
ricchezze, agli onori, e a'privilegi, che per ſe non ſolo, ma per tutti altresì
i medici ottenne, l'adulatore Senato rizzogli una ſtatua di bronzo nel ſegno
d'Eſculapio, come ne da teſtimonianza Suèronio: Medico Antonio Mufa, cujus
opera ex ancipiti morbo convaluerunt, ſtatuam, çre collaro juxta fignum
Eſculapii ftatuerunt. E fe'l mio avviſo non m'inganna, d'oro gliele avrebbe
certa mente rizzata, ſe più coſto Ottavio morto ne foſſe;percioc chè non bene
allora ſtabilita ancora la tirannide, n'avreb be per avventura la libertà egli
ricupcrata; e veramente ſe la fortuna fecondato aveſſe il diſiderio de'Romani,
non ſa. rebbe riſtato per lui di far co'ſuoi bagni ciò che Bruto, ne Caffio, ne
Seſto Pompeo, ne Marc'Antonio con tanta oſte per mare, e per terra non avean
potuto adoperare. E bé ſi vide quanto nocevole e' foſſe il modo del medicare
del Muſa, quando da lui in sì fatta guiſa trattato, come narra Dion Callio, ſe
ne morì Marcello; perchè di preſente e'per denne !, gloria, che guadagnata
s’avea; non ſi dee imper 1.2. P; CXLV2Livi, come o telo 378 Ragionamento Quinto
poteva nel Dione dicc, che allora buccinayaſî,che eglicon que' ſconci rimedj lo
faceſſe a bello ſtudio morire; anzi morilli Mar. cello in Baja, come teſtimonia
Properzio, il quale viſse a que'tempi His preſſus Stygiasvultum demiſit in
undas Errat, in veftro fpiritusille lacu. Neſembramiveriſimile ciò, che ne va
conghietturando quel ſottiliſſimo inveſtigatore, e d'ogni rara dottrina ſovra
no maeſtro Giuſeppe della Scala, facendoſi egli a credere, che Properzio
cosìvezzatamente la biſogna rivolgeſſe per ‘iſcagionar Livia, e fargliene
ſervigio; 'perciocchè allor ſu ſpicavaſi, che in ciò ella certamente aveſſe
tenuto mano;vo luit, ſono ſue parole, gratificari ei, que de ejus morte ſu
Specta fuitLivi& Aguftę. Ein vero non ha dubbio alcuno, che per
machinazione di Livia no meno morir le acque di Baja Marcello,che in quelle di
Stabia, la dove alriferir di Servio egli moriſli; e ficome immagina il mede
Simo Giuſeppe,la ſua morte avvenne nell'acque acetoſe di quella fonte, che a
tempo di Plinio chiamavali di Medio. Io porto opinione,che'lMufa bagnaffe più
d'una fiata Mar cello nell'acque calde di Baja, e poi,com'e’avea per coſtu me,
nelle fredde il poneſſe, e che alla fine nell'acquecalde colui abbandonaffe la
vita; ne dal narrainento di Properzio argomentar fi puote: Marcellum in aquis
Bajanis fulz merſum interije: coine va interpetrando lo Scaligero;im perocchè
altro nő,è il ſentiméto di Properzio, fe no ſe Mar cello effer morto per
quell’acque,colle quali,eſsédo egli si tiſicuzzo, e triſtanzuolo, e col
Toverchio lor calore, o rõpe dogli qualche interno tumore, il ſoffogallero: o
di ſover chio creſcendo il moviméto del ſangue li diffipaſſero le ſot tiliffime
particelle, dalle quali depéde.la vita negli animali, onde repétemente egli
mādafle fuori l'anima;coli, la quale eziādio ad altri è avvenuta; ne veraméte
fi puote sõmerge re niuno in que’bagni, ſe a viva forza altri non ve l’affoghi;
onde maggiormente avrebbe dato cagione alle genti diſu ſpectare non ciò foſſe
per opera di Livia avvenuto; e ca to balti del Muſa aver fin'ora accennato. Ma
paſſiam oltre a dir di Clinia da Marſiglia. Fu la guiſa del coſtui medica. re
nel vero ſtranamolco,e ſuperſtizioſa: imperocchè infi gnevaſi egli di non
darmaia malato niuno,o cibo, o medi cina, fuor ſolamente, che in certi
puntiaſtrologici di fito, o dicongiunzioni della luna, o d'altri corpi celefti:
e bert gli approdarono sì fatte malizie; poichè montò in sì buon nome, e fama
appo i Romani,che oltremodoricco in brie, ve tempo ne divenne;delle quali
ricchezze, parte cgli co funionne largamente per cinger di novelle mura la
propia patria, e parte alla medeſima ne fe dono, acciocchèpoter Le riſtorar
quelle, quando huopo ciò lor foſſe. Ma lo non prenderò a dar giudicio dietro il
fiſterna del la ſua medicina, non avendene niuna certa, e ſicura con tezza; ma
mi darò briga di far paleſe la ſciocchezza di lui, conoſcendoſi molto bene da
chiunque abbià fior d'inten dimento non eſſer altro la ſtrologia da lui in
medicãdo ado perata, ch'un ſottile, e malizioſo ritrovamento per paſcer divanc
ciance, e promeſſe le troppo credule perſone. Ma forſe, come i Romani ſi
ſervirono degliauguri ſecondochè la neceſſità il richiedea: ne folean giámai
darcominciamé to all'impreſe, ne trar fuora gli cſerciti, ne far giornate, nc
alcuna coſa di confiderazione, o civile, o militare ado perare, ne mai ſarebbon
andati a gucreggiare, ſe prima non perſuadevano a l'ofte, che gli augurj avean
promeſſo loro la vittoria, affinchè i Coldati maggiormente incorag. giati
prédeſſero ſperanza divincere: dalla quale ſperanza ſpeſſo certamente naſce la
vittoria: così Clinia valevali della ſtrologia, acciocchè gl'infermi deſſero
piena fede alle medicine loro preſcritte; e forſe ſe ne valſe altresì egli per
iſchivare, quádo più in cõcio gli era di preſcrivere qualche medicina, la quale
da lui non convenevole al male foſſe ftata ſtimata;ma dalla minuta gente
giovevole, e neceſſaria giudicata; valevaſi dico della ſtrologia appunto a
quella guiſa, che coll' artificio degli Auguri i Capitani Romani fi rimanevano
dal coinbattere,quando giudicavano non do ver la battaglia a lieto fine dover
per loro riuſcire. Il ſiſtemadimedicina di Carmide conyenne ſenza fallo, Bbb 2
che cono. 1 che foſſe non meno fciocco,che ſtrano, come quello, che poſti in
non cale, e dannati, e vituperati, i diviſamenti di tutti gli altri medicijalle
più rigide ſtagionidell'anno glin fermi, avvegnachè vecchi nell'acque gelide
fommergeva; iinpertanto ritrovò gran ricevitori,come Plinio ed altri di Ma per
venire allamedicina di Galieno, vana per avvé tura, eſoverchia giudicherà
alcuno la mia fatica in abbu rattarla; imperciocchè chiunque avvedutamente
v'affiſe rà lo ſguardo, ben toſto ſcorgerà i mancamenti, e i difetti di quella:
i quali non tanto dalla natura medeſima della medicina, quanto dal ſiniſtro
modo del filoſofar di Galie no naſcer fiveggono;. il quale avvedutiſſimo in
fuggire il ranno caldo di ſpiegar diſtintamente le particolarità della medicina,
ch'e'medefimoconfeſſa, e proteſta eſſer tanto a ' medici neceffarie: a bello
ſtudio par, che riltando in s l'ali, o dando lunghe, e inutili aggiratc, a
quelle ſpiegar ne giammai ſcender non voglia. Perchè luo mal grado gli è pur di
meſtiere d'abbatterſi,e d'impaſtojarſi ne'mede fimigruppi, e nodi, ove
parimente i Metodici, e gli Empi rici tutti s'impigliano. Così con le medeſime
ſue pruove, con che egli lorcerca d'abbattere, gli ſi ſcagliano pur con tra i
ſuoi nimici;e dicendo, ch'egli inneſta in ſu'lſecco, or dinando falſamente il
ſuo liſtema, e ponendo a ſuo talento i fondamentialla medicina, niegano
conſtantemente gli eleincnti', e gli minori, e l'altre coſe cutre '; ove egli
coil poco ſode, ed efficacipruove la gran machina della ſua medicina pianta, ed
appoggia. Ma lo ciò al preſente trala fciando, renderommi lecito di brevemente
accennare, che di Galieno la medicina non ifpieghi punto il vero, e fiſio comodo
come naſcano, o naſcer poſſano le quattro fue prime qualità,ma ſolamente le
ponga già nate; ne men, quella tanto quanto ne diviſa,in qualcoſa il lor eſser
conſi ita; perchè poi valeyol non è a manifeſtar la maniera del loro operare,
ne quant’oltre la lor forza fi ſtenda, ne pur gli effetti che per lc, o per
accidente da lor fortiſcono. Ma come egli maile natura delle qualità ſpiegar
potea, ſe la > natura della materia, dalla quale quelle dirivano ed in cui,
coine e' medeſimo dice, e naſcono, e muojono, giámai inve Aigar egli non cura;
il che quanto monti, agevolmente da ciò potrà comprenderli, che traſandato il
conoſcimento delle qualità l'economia degli animali, ne la natura delle
malattie, ne le cagioni diquelle, ne i medicamenti mede fimi non ſi potranno in
modo veruno comprendere. Per chè non ſarà medico, che abbattendoſi in qualità
di ſover chio rigoglioſe, o manchevoli di ciò cheal corpo richieg gafi, poſsa
mai,la ragione adoperando alla debita propor zione ad agguaglianza ammendandole
riporle; e ne men per la medeſima cagione provar egli mai non ſi potrà, in che
conſiſta la árminatío, o nimiſti, che tra loro eſser fi dice; perchè anche ne
fiegue, che non ſi ſappiano, ne convenevolméte ſi poſſano perGalicno ľaltre
qualità ſpie gare, che ſeconde chiamanli,e che egli pocoriguardando a ciò che
gli antichi nel lib.della vecchia medicina ne nar rano, giudica, che cheno non
pofsan cola alcuna opcrare; € pure avviſar egli poteva, che l'acetofo, per
eſemplo,avve gnachè freddo, o caldo, o temperato, pur nelle ferite meſ lo,
dolore, e infiammagione apporti;e che non altrimenti, che dal caldo,
dallacetoſo anche l'acetoſo s'ingeneri; e ſe Pamaro fembra a lui effetto del
caldo, il caldo eziandio na fca dall' amaro Macertamente ſe Galieno aveſſe bene
avviſata la natura delle prime qualità, iion avrebbe giamai fopra quelle il
fiſtema della medicinapiantato; concioſſie coſachè ben egli compreſo avrebbe
non eſser quelle baſtá ti a ſpiegar tutto ciò, che nella naturä vedeſi. Perchèi
più ſcorti tra ſeguaci di ſua ſchiera, ove s’abbattono a diviſar delle coſe
della natura, fono ftretti ricorrere alla propria foſtanza, o pur alla forina
eſsenziale, all'amiſtà, o alla ni miſtàgalla fimigliáza, o diſimiglianza tra le
coſc, e alle qua lità naſcoſe; che è tanto quanto a dire a cagioni, delle qua
li nulla non ſi ſa, ne ſaper fi puote. Quindi: per racer del Fernelio, e del
Severino: il ſottilif fimo Andrea Libavio amico per altro di Galieno, colſe ca
gione di dire: in magneticis, quum omnia elementa excufse runt, elementarii
medici nibil inveniunt,nec de proprio ſubje cto virtutis, nec de caufa prima.
Mala vero funt princi. pia artis ea, qua inexplicatam tādem relinquüt
quæſtionem. Talia verofuntelementa Galenicorum: ex quibus non potes demonſtrare
rationem facti offis, carnis, fuccini,magnetis, & cetera ſecundum formam
eſsentialem. E Daniel Senner ti, pertacer d'altri aſsai, cosi diſse:ubicumque
pluribus eçdē affectiones, & qualitates infunt, per commune quoddams
principum infint neceſse eſt;ſicut omnia ſunt gravia pro pier terram, calida
propter ignem. At colores,odores, Sapores efse progosov, fimilia alia,
mineralibus, metallis, gema mis, lapidibus,plantis, animalibus infunt. Ergo per
com mune aliquod principium, & ſubjectum infunt. At tale prin cipium non
funt elementa: nullam enim hatent ad tales qua litates producendas potentiam.
Ergo alia principia unde fluant inquirenda funt. Ed una tal neceſſità molto
bene avviſando molti degli antichi, e poco men, che tutti imo derni Galieniſti,
ſe maicoſa alcuna malagevole, ed oſcura intorno all'economia degli animali a
ſpiegare imprendono, o ſcorger intendono la natura,e la cagione di qualche ſtra
na, c non conoſciuta malattia, allora abbandonato affac to il lor maeſtro
Galjeno, e poſta in non cale ogni ſua dot trina, ed ogni diviſamento della ſua
razionale, e vana mie dicina, a’nuovi ſiſtemi de'Chimici filoſofanti toſto
s’appi gliano, E ben di ciò avvideſi anch'egli Galieno; e rimirando alla
manchevolezza,e dappocaggine delle ſue fondamen ta, dopo aver più, e più fiate
diſegnato, le facoltà non có fiftere in altro, che nel temperamento, o
meſchianza delle quattro primnequalità, avviſando alla perfine mal poterli con
quello l'opere della facultà baſtantemente ſpiegare, così ſcagionandoſi
apertamente confeſsa, che eſso per non ſaper la natura della cagion factrice,
la chiama facoltà, o potenza; c però dice eſser nelle vene una certa potenza da
ingenerare il ſangue, e nello ſtomaco un vigor di cuocere', e nel cuor di
palpitare; e in tutt'altre parti del corpo eſser anche una tal potenza
d'adoperar quelle coſe, chcin eſse ſi fanno. Con cheGalicno apertamente
confeſſa cgli me defimo, le facoltà, che coſa mai elle ſi ſiano, affatto non ſa
pere; e ſolamente così per via di ragionamento chiamarle. Ma non fi potrebbono
con parole ſpiegare, tante elleno, e tante ſono, quelle fiate, che per Galien
ſi ricorre ad una cagione, la qual eglimedeſimo, non ardiſce, o corporca, o
incorporea determinare; e che egli ignorando, che coſa ſia veramente, inſieme
col vulgo coſtumacol nome di Na tur'a appellarla. E ridevole veramente ſi è la
maniera,col la quale egli una fiata imprende a ſpiegar,come le partide gli
animalifacciano le loro operazioni;dice egli, che ſico me al comandamento di
Vulcano, ſecondo finge Omern, i mantici da ſe ſteſſi mandavan fuori, o'più, o
neno il fiato; e le dózelle d'oro da ſe ſi muoveano; cosinel corpo degli
animali niuna coſa eſſer immobile, ed ozioſa; imperocchè dal ſupremo facitore
alcune divine virtù ſono ſtate impreſ fe alle parti di quelli, sì che le vene
non ſolo il nutrimento dello ſtomaco deducono: ma l'attraggono, e lo preparano
al fegato; ilquale così preparato da' ſuoi ſervi ricevendo lo, gli da l'ultima
perfezione di ſangue: müstepOuengo εποίησεν αυτοκίνητα τουτου Ηφαίςκαι
δημιουργήμα, και τας μια φύσας ευθύς άμα τα κελεύσαι τον δεσπότην, παντοίων,
εύκρηκτον αύτμηνεξανι είσας: τοις δε θεραπείνας εκάνας τας χρυσας ομοίως αυτά
τώ δημιουργώ κινουμένας εξ αυτών ούτω μοι και συνοεί κατά το του ζώου σώμα
μηδέν αρ. γον μήτ' ακίνητον, άλα πάντα μεία της πεσούσης καζασκευής βίας τινας
αυτοϊς δυνάμεις τουδημιουργού χαρισαμύου,κοή, τας μέν φλέβας, ου πα eaγούσας
μόνον την τξοφήν εκ της γασφος, ' έλκούσας άμα και πιο παρασκευαζούσας το ήπατι
τον ομοιόταν εκείνων τόπον, ως αν και eαπλησίας αυτώ φύσεωςυπαρχού σας, και την
πξώην βλάσησεν, εξεκεί YOU MEWCimpéva. Ed è anche manchevole la medicina di Ga
lieno, per non faperſi in quella il meſtiere, e l'uficio di mol e molte parti
del corpo; perchè malamente l'economia degli animali, ed ondenaſcan le malattie,
ei luoghi, e le cagioni, e gli effetti di quelli vi ſi potrà convenevolmente
ſpiare. Concioffiecofachè Galieno medeſimo principe, e titrovator di quella,
non ebbe ne men ventura di ravviſar baſtan te, j 384 ' Ragionamento Quinto
baſtantemente la coſtruttura, e gli ufici delle parti dalı conoſciute;non che
d'abbatterſi mainel: canale del Ver ſungio, o nelle vereacquoſe, o nelle vene
lattee, o in alą tre, cd altre infinite coie da’moderni deſcritte. Ne ſeppe
cgli ne men per ombra il vero movimento del cuore, e dei fingue: ritrovato, del
quale ſecondo l'avviſo dell'inge. gnoſilliino Renato, nullum majus, &
utilius in medicina eft. Ne del vero cammin del chilo ſeppe boccata; le quali
due coſe ſole di tanto pregio, e di tanta conſiderazione parve l'o al
nobiliſſimo filoſofante Pietro Gaſſendo, che meritc volméte egli chiamarle
ſoleai due poli della medicina; e de queſti due trovati, che l'un l'altro
conferma maggiormen te, craſſoda, egli ſommo contento prender ſoleva, quindi
fperando, che'la medicina, quando che fosſe, aveſſe avuto a ritrovar qualche
coſa diſaldo a pro degli huomini; malli. mamente in quella parte, in cui
dall'economia degli ani maliella s’argomenta di riſtorar la perduta ſanità;
almen finattanto, che novello lume lo dimoſtraffe l’orſa;imperoc chè della volgar
medicina, che tutta ſi briga in diſaminar le qualità, ed in aggiugner ciance a
ciance, eglicēto niun non facea: Ma perciocchè queſta ſarebbe opera da trattar
con maggior agio, e tempo in un'intero volume, laſcerolla al preſente,
riſtrignendomi ſolamente in un capo, ch'a dover lo quì brievemente accennar mi
tira. · La maggiore, c principal parte, e pił d'altra alcuna nel meltier della
medicina neceffaria,ſenza alcun dubbio quel la fiè, che alla materia de'cibi, e
de'medicamenti s'appar: tiene; or queſta nella medicina di Galieno è certamente
tutta impirica;conſeguentemente a tutte quelle jacertezze, e a tutti quegli
errori, e falli ſottopoſta, che Galicno me deſimo, ei ſuoi ſeguaci tanto, e sì
factamente negli Impiri ci dannano, erimordono. Ed è ciò dicanta conſiderazio
ne, e rilievo, che in utili a baſtanza, c infruttuofe, e vane le contezze cutte
della medicina, ſe mai clla in altre parti alcuna n’aveſc, render puote: le
qualitutte ad altro non fono indirizzate, che a diviſare, & proporre agli
ammalati i cibi, siinçlicamen:1, 3? fu conced.fipreselierelli 13,45's ra,
medicina di Galieno s'abbia certa, e ſicura contezza dell'ea conomia delcorpo
umano, della cagione, e della natura de’mali, e d'altre ſomiglianti coſe molte
a ciò pertinenti, ed acconce:qual pro giammai peropera di tali notizie dal la
razional medicinapotrà ritrarſi? certamente per quel che Io micreda, niuno, ſe
non ſi prenda inſieme a diviſar con efficaci, e ben certe ragioni, come,e qual
ſorte di me dicamenti, e dicibida dar ſiano agli ammalati. E ciò cos me mai
vorráno i Galieniſti convenevolmére porre in ope, ſenza in prima pieno, e
faggio conoſcimento dellana, tura, e della propietà di quelli avere? Ma queſto
per lor non avendofi, avvegnachè d'eſfer razionali millantino,cm pirica
certamente, e incerta farà da dire la lor medicina; per tal modo, che non ne
potrà ſe non-ſelargamente il no. bile, e laudeyol titolo dell'Arte meritare. Ed
interviene nella medicina ciò che ſi vede anche nella Loica avvenire; che per
una menoma particella, che nella definizione, o nel partimento, o nel
fillogiſmo dubbiofa fia, ed incerta, toſto dubbioſo, e incerto il tutto anche
diviene; e per una pic cioliſſima taccherella ſi sfregia. Senzachè la medicina
in tanto è arte, e conſeguenteinente certa, in quanto ella ha ficuri, e
certimezzi, quali ſono ſenza fallo i inedicamenti, ei cibi, per ritrarre il ſuo
bramato, ed aſpettato fine della ſalute degli huomini. Adunque non eſſendo
queſti certi, ç ſicuri, conſeguentemente non ſarà da dir veramente arte la lor
medicina. Perchè poi veggiamo iGalieniſti medici, quanto più avveduti, e più
dorti eglino ſono, tanto più dubbiofi, e tertennanti ſempremai medicare; ne
dalla lor doctrina, e diligenza mai nulla di certo promettere. Nequáto in fin
quì ho detto ha biſogno alcuno di pruo va; imperocchè manifeftiffima coſa è,
che Galieno mede ſimo, non che altri, con iſchiettezza veramenteda filoſo fo, e
degna di lui, molte, e molte fiate apertamente il co felli; ed una infra
l'altre mordendo, e biaſimando alcuni medici de'ſuoi tempi, che troppo
arditamente ſtudiavanſi di inveſtigare per via di ragione da’ſoli effetti la
natura, e la proprictà de’medicamenti; dicendo: non laſciaremoin Сcc. tanto,
380 Ragionamento Quinto tanto, paffar ſenza gaſtigo la ſoverchia tracotáza di
coloro, i quali dalla coſtruttura, e dal colore, e dall'odore, e dal fa pore, e
dalpeſo, e dalla leggerezza di ciaſcuna coſa del modo,la di lei propria virtù
diſpiar s'argométano. Quindi appreſſo ſoggiugne, che tutta la ragione
d'eſaminare, e giudicar bene la biſogna nella ſperienza ſopra tutto confi iter
debbia, avvegnachè v'abbia aſſai de’medici, chequel la traſandata, ſolamente in
avviſar ſe vermiglia, o di buono odor la roſa ſia vanamente s'indugj. Ed a ciò
anche riguar dando di Galieno il fedeliſſimo interpetre, Vallelio, così al la
fine prorompe. Modoillud unum ftatuimus nullum effe certum argumenti locum ad
inveniendum, rei cujuſpiam temperamentum ex ſecundis qualitatibus; fed ex modo,
quo nos afficiunt ſolum; ita ut in hac doctrina nullum locum ra tio kabeat, fed
tota fit empirica. Con la qual ſentenzas certamente egli abbatte infin da'
fondamenti, cmanda au terra la medicina tutta del ſuo maeſtro, e ſpezialmente
ciò che egli medeſimo nelle ſue côtroverſie avea in prima infra l'altre
sbracciate arditamete millantato: Poj]Galenum non amplius interpollis ars fuit,fed
perpetuo eadem veris de monftrationibus confirmata. Ma certamente s'egli
riſuſci taffe a' tempi noſtri il Valleſio, rimarrebbeſi per innanzidi gracchiar
più del ſuo divino Galieno; e ricreduto a’moder ni ritrovati, non più di colui
vanterebbe: nihil ti ejus in ventis adhuc eſse additum: quoniam hic author
nihil, quod ad artis attinet conſtitutionem non reliquit inventum, quod
pofteriſuperadderent. E tanto più, che il Valleſio fu ſempre amiciſſiino della
verità: poichè, per tacer d'altro, non ſi ritien per quella di rimproverare a
Ippocrate medeſimo.co. tanto da lui ſtimato, il non ſaper punto di Loica; e più
ma nifeſto ſi vede nel fin delle ſue fatiche intorno alla ſacra fi loſofia, ove
infra l'altre coſe accreſcendo il numero degli elementi dice, che quelli non
ſiano ſtati mai, ne fuora del corpo miſto eſſer poffano: i quali (ſon ſue
parole ) actu qui. dem nullibi, potentia vero in omnibus miſtis eſse dicimus. E
ben’egli avvedutoſi de’vaneggiamenti, e degli errori di Ariſtotele,
ſpezialmente intorno alla materia prima, dice. manifeſtamente, e confeſſa, che
quella Aggira, ed avviluppa il capo agli huomini. Ma laſciando queſto ſtare al
preſente, dirò coſa non da trapaſſar forſe ſenza qualche ammirazione; anche il
mede fimo Galieno, nonche altri s'avvide eller tutta la ſua razio nal dottriaa
non altro, che vaneggiamenti, cd inutili ciar le; poichè avendo egli ſognato,
che ſarebbon guariti due infermi, ſe lor tratto fi foſſe dall'arterie della
inan deſtra copioſo il ſangue, ei prontamente gliele craſſe, e tutt'altri ſuoi
ſtudj,ſpeculazioni, e fatiche in non cale ponendo, fe guì l'indirizzamento d'un
vanillimo ſogno;e certamente un tal fatto appo me non ritroverebbe niuna fede,
ſe Galieno medeſimono’l confeſſaſſe; ed Io il ridirovvi colle parole di lui;
πξοτζαπείς υπό τήνων όνειρά τον δυοϊν εναργώς μοι γενομένον, ήκον επι την εν τω
μείζξυ λιχανού τε και μεγάλου δακτύλου της δεξιάς χει ρος αρτηρίαν, επέτρεψα
ερείν, άχρις αν αυτομάτως παύσηται το αίμα, κελεύσαντG- ούτω τε ονείρατG- ερρύη
μεν εν εδ' όλη λίτζα • παραχρή μα δεσπεύσατο χρόνιον άλγημα κατ' εκείνο μάλισα
το μέρG- ερείδον ένθα συμβάλα τα διαφράγματι το ή παρ' εμοί μεν ουν τούτο
συνέβη νέω την • ηλικίαν όντι • θεραπευτής δε του θεού εν περγαμω χρονίου
πλευράς αλ γήματG- απηλλάγη δι ’ αρτηριοτομίας,εν άκρα και τη χaei γενομένης
και εξ ονείρα G- επι τούτο ελθών και αυτος. Ho lo tralaſciato a bello ſtudio di
riferir poi ad uno ad uno, come fanno il Veſſalio,ed altri,ed altri
notomiſti,tan ti, e tanti errori, che nel deſcriver le parti del corpo uma no
preſi furono per Galicno: per non recarvi consì lungo racconto più di noja, che
per avventura non ſi conviene. Ne menomiho preſo briga d'avviſarciò,che a
ciaſcuno è manifeſto, che l'opere di Galieno ſenza alcun paragone ſian più di
vane ciance, che di coſe ripiene; sì che quantū Andrea Lacuna l'accorciaffe, a
più picciol volume po tca ſenza fallo riſtrignerle. Ne meno ho curato accennar
come coſa a tutti nota, chc la dottrina inſegnata da Ga lieno, per la più parte
ſia colta di pelo ad altri ſcrittori; e tal volta male da lui inteſa, c peggio
ſpiegata. Ho trala ſciato altresì per la medeſima ragione, di narrar come Ga
lien poco intendente fi paja delic ſentenze di Democrito, Ссс 2 di que 1 di
Placone, e d'Ariſtotele, e come al roveſcio anch'egli ſovente ſpiegar fi vegga
i ſentimenti d'Epicuro;comechè da un particolar maeſtro n'aveſſe egli la
filoſofia epicurea ap parata; il che ſovente anche egli fa dell'opinioni
d'Eralia Itrato, d’Aſclepiade, e d'altri Setteggianti; avvegnachè eº millanti,
che di tutte ſette e' ſtato foſſe nella ſua giovanez za da più celebri maeſtri
di quelle addoctrinato. Ho tra laſciato anche di far parola dello ſconcio modo
del filofo fare, che mai fempreGalieno adopera, non iſccndendo mai alle
particolarità delle coſe; e ſe talor e'fi pare, che viſcenda, il fà per
modotale,che'l traſcurarlo ſenza fallo farebbe menmale. E nelvero chi è, che
non conoſca,co me per lui ſcioccamente ſi filoſofi dietro agli clementi, a'
temperamenti, agli ſpiriti', al caldo innato agliumori; la natura delle quali
coſe non mai filoſoficamente egli ſpiega; ne mai pruova, ſe non ſe con ſole
parole la lor eliſtenza? Chi non fa poi, come egli ſcorriamente favelli
dell'inge ncrazione, del naſcimento, del creſcimento dell'huomo, e come
follemente e' ragioni dell'ingenerazionedelchilo, e del ſangue, della natura, e
degli uficj, delle parti, e di tut te altre coſe all’huomo appartenenti? Chi è
per Dio, che non iſcorga, com'egli facendofimenare per la barba dagli
ſtrolaghi, vanamente favolegojde giorni critici, e com'e. gli oltremodo vancggj
in facendo parole della materia del la natura, delle cagioni, e deglicfetti
delle febbri, e d'al tri mali, e particolarmente dell’Apopleſſia,e
dell'Epilcilia. dicendo egli, amendue queſti mali avvenire per l'oppila zione
de’ventricoli del cervello fatta da freddo, groſo, e tenace umore; recandone
per ragione, che di preſenta faccianſi, e di preſente finiſcano; o eſſendogli
caduto dal la memoria, o ponendo in non cale d'aver lui altra fiata,più al vero
conformandofi, argomentato il palpitar del cuore di botto ingenerandoſi, e di
botto riſtando; di neceſſità ca gionarſi da ſoſtanza aerea, e ſottile; ſenzachè
ſe ver folle, com’ei dice, dall'intera oppilazion de’ventricoli del cervel lo
l'Apoplefia, e dalla non intera l’Epileſia ingenerarſi, converrebbe chemai
ſempre dall’Epileſſia cominciaſſe l'A popiel ra, poplellia: e che queſta in
quella mai ſempre terminalſe; il che non ſi avviſa, ſe non ſe di rado; ma ciò
fa vedere le gran traſcuraggine di Galieno nelle coſe della medicina, che non
curoffi mai di aprir cadaveri; perciocchè aurebbe rinvenuto in alcuno oppilati
i ventricoli del cervello, il quale no foſſe morto d'apoplesſia,o
d'epileſſia;ed altri eſſer morto di sì fatti mali, ſenza tenere ne' ventricoli
del cer vello umore niuno. Laonde potrebbe a Galieno addattarſi molto bene
quelcelebre detto d'Ariſtotele:87 @ gu dangrasa γα, αλα μαντεύεται το
συμβησόμενον εκ τείκότων, και προλαμβάνει και ως ουτως έχον και πειν γινόμενον
ούτως. Or non fi coglie da ciò che è detto, che Galieno della coſtruttura delle
parti del cervello, e del loro uficio non ſapeffe boccata? il che da egli anche
chiaramenre ad inten dere, allor, ch'ci fa parole degli altri mali della teſta;
ed ora mi ſovviene,come follemente ei filoſofi dietro alla pau ed alla
triſtizia de'malinconici, in così dicendo: ficome le tenebre eſteriori
apportano ſpavento a quegli huomini, cheaudaci, o fapienti non ſono, così la
malinconia col fuo colore offuſcando, ed ottenebrando la ſedia dell'anima, le
reca timore; ne' qualiderti è certamente da ammirare, che ſié più errori che
parole; e moſtrafi chiaraméte per eſli, che Galieno niéte foſſe della natura
dell'anima, edi quella delle qualità intcſo:eche nó ſapeſſe, che coſa foſſe la
luce, che coſa foſſe il colore, ne come le ſenſibilità, e l'immagi nazionc, o'l
diſcorſo in noi fi facciano; perchè ragione volmente nel vero, comechè non a
baſtanza ne vien egli per Averroe proverbiato, e deriſo. Or come per Dio huom,
che ſuperficialmente filoſofu della natura, e delle cagioni delle malattie, mai
può in medicando della ragione valerſi?.e certamente, per ta cer d'altro, a
Galicno ne meno una terzana ſemplice gli verrà mai fatto poter con ragione
operando ſecondo i ſuoi diviſamenti medicare; imperocchèquantunquegli ſi con
ceda eſſer vero ciò ch'e' finge della terzana, cioè, che ſi cagioni la terzana
dalla collera, la quale fuor delle vene s'imputridiſca:e s'abbia p cofa
provata,e vera la ſua rego la, che la,
che curar ſi debba per li contrarj; le Galien non fa la natura della collera,
come potrà ſaper mai come s’impu tridiſca, e che imputridir la faccia,e come
per la putreſce za vi s'accenda, e ſi comunichi al corpo il calore: e d'onde
egli potrà coglier gli argomenti ad inveſtigare ciò che all' altro ſia
contrario? lo ſo ben, ch'e' dice la collera eller un umor caldo, e
ſecco,corriſpondente all'elemento del fuo co; ma s'ei non fa qual ſia la natura
del calore, e della ſic cità, e del fuoco,certamente nulla ei non ſaprà della
colle ra, ne comprender mai potrà, come ella, e per chi s'im putridiſca, e come
ella cagioni la febbre, e comea ciò ſi poffa dar compenſo. Certamente meglio
partito egli avrebbe preſo, ſe della ſola impirica valuto li foſſe;la qua le,
ſecondo quel, ch'eglimedeſimoafferma, è aſſai mens fallace della falfa
razionale, Ne meno lo dirò, ch'ebbeGalíeno avvegnachè compi laſſe tutto
Dioſcoride,diſagio di buoni, ed efficaci medica menti: c che egli la più gran
parte delle compoſte medici nedegli altri inedicimeſcolò nelle ſue opere: e che
adope raffe ogni maggior diligenza, per apparar rimedj, ricercă dogli eziandio
infra altri ſetteggianti, e cra’volgari impiri ci; perchè diſperato egli anco
di ciò, fu coſtretto ne'falar fi, nelle purgative medicine, e nella dieta, e
ne'giornicri sici tutte ſue ſperanze riporre. Or ſe a queſte,e ad altre cole,
che ſe Io voleli ad una ad una narrare per ora non ne verrei a capo, aveſſe
avuto Gi rolamo Cardano riguardo, certamente e non avrebbe fra quei ſuoi dodici
più ſottili ingegni del modo meſſo Galie no in iſchiera, nc mai ſi ſarebbe
laſciato traſcorrer dalla penna ultimus fubtilitate ſed clariſimus arte Galenus
metho dis, pulſibus, atque diſsectionibus. Ma quanto a queſt'ul tima parte,ben
qual ſi foſſe Galieno, il riconobbe, e l'ad ditò il Veffalio, che più del
Cardano ne fudi gran lungu informato. De' poiſi poi,che coſa potea indovinarne
mai colui, che per iſpiegarne la cagione, alla facoltà ricorſe, ne punto ſeppe
de’movimenti del ſangue? Ma nella loica, quanto egli poco valce, il dica Aver
roc, i 1 tropo ſtudio. roc, il dican aldri, che tanti errori gli ſcoprirono in
doſſo. Ma queſto è il veleno di tutte ſue opere, il della loica: e fe Galien
conobbeſi bene della loica, ficome pare al Cardino, che monta ciò, s'egli non
ſapea,ne pro to avea fra le mani ciò ch'avea eglicolla loica a diviſare? e
tanto baſti avere al preſente della medicina di Galien fiz vellato; e dicoloro,
che dopo lui vennero, paſſeremo omai a far brievemente parole, comechè
novelliſiſtemino ritrovaſſer eglino di medicina. Furono di così poco taléto
que' che dopo Galieno ſcriſ ſero in medicina, che non ſoppero altro, che le
coſe mede fime dagli antichi già dette, malamente per lor compreſe, e peggio
rapportate, compilare; anzi in ciò pur cotanto bambi, e goccioloni
diinoſtrarõſi,che tralaſciando perdap pocaggine le migliori, ſolaméte alla
ſchiuma inteſero; per chè Giuliano Cefare avendo commeſſo ad Oribaſio, che di
tutti antichi libri di medicina il più bel fiore coglieſe ', mal puotè vedere
il ſuo deſiderio a nobil fine códotto; per ciocchè colui non altro che di
fraſche, e di novelle,e di va niſſiine anfanie ſolamente fe faſcio. Ma dovea
purGiulia no, ſe filoſofante era, qual ſi ſtudiava di far vedere ad al trui,
avviſar ben cgli eſſer queſta d'altri omeri loma, che dello ſciocco
berlingatore d'Oribafio; ne alcuna coſa di pregio certamente atrendere da
quegli infeliciſſimi tempi potcaſi, ove i medici anche eglino nelle loro
dottrine reſi ſervi,parean ſol nati a ſeguir prontamente i fallimenti, e gli
errori de'ſecoli traſandati, edi queimaeſtri, i quali ſicome da ciò che
addietro da noi è detto ſi può agevolmente ri trarre, anzi alle ciance, e alle
lunghe dicerie, che alle fal de operazioni avean l'animotutto, e'l penſiero
rivolto. E sì, e tanto queſta ſconcia, e biaſimevol coſtuma crebbe, e
diſcorſeper tutto a que' tempi, che i medeſimi impirici, ancora,laſciando da
parte le loro pruove, e le ſperienze, tutti nelle ciuffole, e ne'ben compoſti
cicalamenti ancor ella s'impigliarono; perchè meritevolmére Galieno una fiata
fi biaſimava di quel valentiffimo medico di tal ſetta, ch'avef fe voluto
logorar la ſua induſtria, e'l tempo in contraſtare ! ic le ſette razionali;
perchè in iſperimentare, e in medicare folamente adoperandoſi maggior frutto
certamente confe guito n'avrebbe. E fe gran ſenno quell'altro dottiſſimo
impirico, ch'or mi ricorda eſſere dalmedeſimo Galieno co loda mézionato: il
quale a un inferino, che avea dato orecs chic ad una lunghiſſima diceria tenuta
dietro alle cagioni, alla natura, a’ſegni, e a’rimedj della ſua malattia per un
ciarlatore razionale, così diſſe; Io per me non ſaprei io, ond'è, che tu più
coſto debbi attenerti alle vane ciance di coſtui, che alle tante, e tante
pruove fatte permefin'ora; dal che moſſo lo infermo, diede di botto comıniato
al van ſofiſta, e nelle mani dello ſperimentato impirico rimiſeſi. Ma
certamente cotanto ciarlare, e anfaneggiare appararo no gli antichi incdicanti
greci dal ſoverchio ſtudio della loica;avvegnachè per quella intorno
alrimanéte,anzigua fti che addottrinati ftati foſſero in avviſar le cagioni, e
vere ragioni delle coſe: cotanto ſconcia, e travolta l'adoperava no. E forſe in
ciò potrebbon ritrovar pietà, non che per dono, ſe già l'oſtinazione, e la
fracotanza d'alquanti di lo ro non foſſe giunta a tale, che per fermo eglino
ebbero, e per coſtante, così veramente andar le biſogne della natų. ra, come
eglino le îi davano ad intendere, Ritroſi ancora ſi parvero, e negligenti affai
i Greci mę, dici nell'inveſtigar le parti così diſcorrenti, come faldede gli
animali; e poco o nulla s’affaticarono per iſpiarne l'e, conomnia, e
l'ingenerazioni, e gliavanzamenti delle ma lattie; ma ſour'ogn'altra coſa ſi
vider traſcurati in raccon tar la ſtoria de'medicamenti, la quale così dubbia,
incer ta, e favoloſa eſſer s'avviſa, come ſe a ſtudio di tal formar la ſtato
foſſe il lor principale intendimento; tante, e sì ſpeſ ſe fraſche, e novelle ſi
troyano colla verità in quella me ſcolare, e confuſe, E ben ſi ſcorge ciò dalla
raccolta, che ne fe il noſtro Plinio; ina foyra tutto dal volume di Diofco ride,
il qual da varjantichi autoriritraendo le virtù de'mc dicamenti ſenz'avviſar ſe
vere, o falſe elle fi foſſero, di tut te pienamente fece faſtello; e tali
vengono poi per Galic no, per Oribalio, per Paplo, per Aczio, per Simon Seti
trat tiatto tratto deſcritte, quali appunto.le.laſciò Dioſcoride regiſtrate; ſe
non ſe ſcioccamente (forſe per far ſembiante, che da coloro erano ſtate le coſe
affai minuramente difa minare ) in qual grado il ſemplice, o caldo o freddo,o.umis
do, oſecco egli.fi foffe v'aggiunſero.. Ma ſe talora in qualche menomiſlima
parte vien per lo ro mai Dioſcoride ripigliato, certamente il fanno dove e *
no'l merita; ficoinc allo.incontro il commendano, dove no'l vale. Ne lo ciò
dico per diftorre imedici dalla lettu ra di Dioſcoride, ch'egliè anzi permio
avviſo il volume di lui la miglior' opera di quante della medicina de' Greci
alle noſtre mani ne lian pervenute: ma perchè eglino vi ſia cauri, guardinghi,
e ſenza rigoroia efaininazione alle cofe per lui riferite alla rinfuſa non dian
intera credenza. E quinciancor manifeftamente s'avviſa, che non che nulle
giovaffe.a'Greci la Razional traccia a difcernere le facoltà de'medicamenti,
anziella di vantaggio loro oltremodo nocque; perciocchè più veritieri aflai
trovanfi i rapporti delle virtù de’ſemplici appo i barbareſchi popoli, privi,
digiuni di lettere, che nelle limite, e ben culte ſtorie loro. Io tralaſcio di
far parole de’medicamenti compoſti de’Gre ci, che afai chiaro fi pare,
quantodalla fortuna, dal caſo, anzi che daila ben regolata loro ragione ne
vengano di viſati; mal porendofi dirittamente accozzare, e comporre infieme
imedicamenti femplicida colui, che di quellinon fia pienamente informato. E ben
s'avvidero i Greci ine dicanti più ſagaci,.e più ſtimari della. poco lieta
uſcita de' loro medicamenti; perchè andando per innanzi maggior mente a
riguardo: folamente nel preſcrivere fobrio, e ben regolato vivere, l'arte
tutra,e'l ſommodel medicare ripo fero; e sì, e tanto-in.ciò furono ritenuti, e
rigorofi, ch'a molti infermi più giorni ogni cibo vierano, cad altri la fo la
mulla permettevano. Poco accorti in mole'altre coſe li videro i Greci medici;
perciocchè per iſpiarequanto lor foſſe ſtato poſſibile deca gioni delle
malattie di tanti infermimorti nelle lor mani no fi diedero maicuca d'aprire
icadaveri; avvegnachè una tal Did diligézainutile altrui poſſa sebrare,eflendo
malagevol mol to lo inveſtigare ſe ciò che guaſto nelle interiora ſi ritrova,
più toſto ſia effetto,che cagion delmale; pur nondimeno alcuna fiata
potrebbeperavventura a qualcheutilità riuſci re. Ma quelche più rilieva, ne
meno fcriſſero i Grecile ſtorie de'mali, ſe però non le ci ha tolte la
lunghezza del tempo; e quelle poche, chenoi ne abbiam focco nome da Ippocrate,
elleno ſon cosi rozze, ed imperfette, che r.2- ' gionevolmente huom favoloſe le
crede. Perchè non è po co da lodare il diviſo di que'moderni, che ſi ſono
attentati di ſcriverle, comeche Pabbian poſcia meſſo infelicemente in opera, o
perchè lor venne in talento di raccontar le ma raviglie, ſicome fece Amato
nelle ſue ſtorie:0 pure, perchè dalla faſcinazione delle ſette adombrati',
vider le coſe al trimenti diquel ch'elle erano; ſe pur non ſon elli imalizio fi,
che le coſe ſempre aroveſcio, e travolte ne vogliono da re a divedere; ſicome
alcuni di loro cento, e mille fperien ze, matutte falſe, per difender le loro
opinioni tutto di van recando. Egli furon poi i Greci cosi per vaghezza
brigāti, eriot tofi che, tal ſovente videli, nonche ad altri,ma a ſe me d'elimi
far contraſto; ſe bene in ciò non tanto eglino ſono da accagionare, quanto i
viluppi, e le malagevolezze di quell'arte, che eglino cotanto con biftentis e
vigilie, e fudori ſtudiaronſi d'illuſtrare, emaggiormente offuſcaro no; perchè
non ſenza rifa da huom di ſano intendimento leggerafſí la millanteria di Pelope
Maeſtro di Galieno, il qual vantava di ciaſcuna coſa di medicina ſaper la vera;
incontraſtabil cagione. E già parmi leggiermente avet cocca, e traſcorſa tutta
la medicina de'Greci;e quantunque non abbia lo fatra ſpezial menzione d’Areteo,
il cuili bro per avventura ſembra ſcritto con diligenza maggior di quanti ne
fon rimaſi interi della medicina deGreci,e con filoſofica libertà; pur non è da
maravigliarvene, perciocchè egli contien le dottrine medeſime da noi più fiate
diſami nate, e riprovate. Finalmente ſi conoſce, che non hanno gran coſa i
Greci in medicina adoperato; imperocchè les aveſfer qualche coſa di pro eglino
mai rinvenuto, certame te qualche veſtigio appo gli autori, chealle noſtre mani
so pervenuti,ne apparirebbe. Ma chedovrem noi dire della Arabeſca medicina ella
fu tanto nel paſſato ſecolo abburattata, e premuta,che par che d'altra
eſaminazione non le faccia più meſtiere. E ciò maggiormente, che dagli Arabi fu
maiſempre il filoſofar in inedicina di Galieno ſuperſtizioſamente ſeguito; del
cui mancamento molte coſe abbiam noiragionato. Ma egli è in iſtato più
miſerevole la loro ſcuola, che dove alcunas volta Ippocrate, e Galieno non
dipartendoſi dalla ragio ne il ver dicono, ella ſconciamente gli abbandona. Nel
rimanente poi, e ſpezialmente nella materia de ſemplici: di leggieri immaginar
nonpuoſli, quanto ſciocchi ſi ſiano i diviſamenti degli Arabi;imperocchèbaſtava
lor ſolamente aver letto, o pur udito, che per Galicno una coſa ſi affer maſſe,
che immantinente per vera la credevano.Perchè poi gli Arabi ignorarono la greca
favella, l'un ſemplice, e l'un malore per l'altro ſpeſſe fiate colfero in
iſcambio; e de’libri della natomia de'greci molte coſe, emolte non inteſero; ma
gran male queſto non ſarebbe ſtato per avventura, fe di vantaggio qualche lor
ſogno non ci aveſſer frāmeſſo. Ed anvegnachè fra’medicamenti dagli Arabi
ritrovati ve ne abbia forſe saluno, che a que' de Greci prevaglia., niente
dimeno nulla,.o poco ciò monta riſpetto al grave, e incom parabil danno,
ch'apportarono gli Arabial mondo colla ver introdotto l'uſo del zucchero, per
cui ſi fono sbandeg giate perpetuamente le Sape, le Mulſe, gli Offimeli ſem
plici, e compoíti, e in tante guiſe formati; e ſono a lor ſuc ceduti con
graviſſiino danno degl'infermi,i ſciroppi; con cioliecoſachè ſotto il doice del
zucchero,un enordaciſſimo, e pungentiffimo fale ſi naſconda, valevole colla ſua
morda cità a ingenerarferventiſſimo caldo; ed egli oltre a ciò ab bonda il
zucchero d'una cotal tenacità oppilante, e perciò alle viſcere nocevole
oltremodo, e nimici; della quale il miele è affatto privo, mercè, che le apiil
rendon volatile, Ddd 2 é fottile, e penetrante e, quaſi ad una celeſtial
quinteffens za il riducono; perchè facendo nelle viſcere il miele poca dimora,
poca, o niuna offeſa può certamenteil ſuo fale re carne, che men acuto anche, e
mordace del ſale del zuc chero ſi ſperimenta. Maſenza più diftendermi in queſto,
ayendovifaſtiditi pur troppo, lo fo quì fine al mio ragio mare. vele Icome al partir della fredda ſtagione,
dal grave peſo delle neviſgombra la terra, tutta lieta:, e feſteggiante
ringiovaniſce, e allo ſpirar de'tiepidi zeffiretti laſciando ležiarſe, e
ſquallide ſpoglie; di vaghi fio ri, e di fronzute piante fi riveſte; e fiabe
belliſce: cosìparimente;o Signori,le ſcienze, e le più no bili artiscellati
ifuriofi diſcorrimenti de'barbari, che mala mentemalmenare l'aveano,
cominciarono aʼnoſtri più yi cini tempiper l'Italica induſtria tratto tratto a
farſi vedere, a poco a poco riacquiſtando l'antico', e forſe altro più rag
guardevole ſplendore.Già la Greca, e la Latina favella,d'o, gni ſcienza antichemadri,
riſurte fiorivano; già la Poeſia ', egli ſtudjtutti del ben parlare erano in
ſu'l far frutto; ne l'Archițettura più, 12.Muſica,o la Pittura, o ciaſcuna
altra arte abbattutalanguiva; ma pur la medicina ſola;e la Filoſofia nel comun
ſollevamento, in vil ſervaggio vivens do ſe ne giacevano oppreffe, efgombinate
dal barbareſco giogo d'Ariſtotele, e di Galieno; quando piacque finalme. te a
colui, che impoſe a tutte umane coſe aver fine, che fi levala 3 1 Ievaffer fuſo alquantianimigrandi, e
generoli, quali NOR G fperavano, e non poteano per huom mai immaginarſi, ch,
avallar doveſſerola ſignoria di coloro, e la medicina, e la filoſofia alla
primieralibertà, e al perduto pregio riporres O ſpiriti veramente generoſi, e
da elſer commendati per quantoil mondo durerà; i quali ardirono prima di far ri
paro all'impetuoſo torrente dell'abuſo comune; e ad op porſi sforzatamente
all'univerſalconſentimento delle gen ti. Maggior gloria certamente fu di
coſtoro, i quali furo no i primi a rompere il guado a sì ardua impreſa, e arice
ver a battaglia affrontata i pertinaci ſeguitatori di Galieno: che di coloro, i
quali in prima ſetteggiando a lor talento, nel confuſo rimeſcolamento della
medicina s'argomenta rono di trarla moltitudine ancor libera a’lor ſentimenti;
c. s'eglino, i quali riduſſero la medicina a qualche più toſto
apparente,ch'eſiſtente ſtato di perfezione, ed i primi ri trovatori di quella
in cima d'altiſſima gloria aſcefero,e for montarono: che farà da dir di coſtoro,
i quali, non che ab battuti e'fi foſſero in terren ſoluto,e d'ogni erbaccia
purga to: anzi cotanto duro, e mafagevole, e ſpiuoſo il ritrova rono, che ben
convenne loro in prima durar lunga fatiga a liberarlo da’bronchi, e da'pruni, c
da’ravvolti ſterpi,che l'ingrombavano,anziche vi poteſſero granello riporre. Ne
ſembra certamente cotanto malagevolel'introdurre da pri ma alcuna coſtuma infra
le rozze genti: quanto egli è du To, e quaſi impoſſibile, allor che quelle già
auſare viſono, e tutto che indurate,a far loro cambiar uſanza, ericre derle, e
ſgannarle de loro errori; perchè è da dire, ches molto maggior vanto foſſe
deʼriſtoratori della guaſta, e mal menata medicina a rimetter fe medeſimi in
prima, e poi gli altri al diritto ſentiero: che non fu di coloro, i quali non
incontrarono malagevolezza niuna d'invecchiata, cpre ſcritta uſanza da ſuperare.
Ma ciò al preſente laſciando, trapaſſeremo a narrar de'noſtrivaloroſi moderni,
ſecondo il noſtro diviſamento; e diremo chente, e quali ſiano le loro opinioni
intorno alle coſe più ragguardevoli della me dicina. Egli fembracertamente, che
prima diciaſcun'altro l'al cilimo Chimico, e filoſofante Bafilio Valentino,
monaco diS.Benedetto: fatto capo a' ſuoi tempi nella Lamagna co tro la
ſignoreggiante medicina di Galieno, e quella degli Arabi, perpiù d'una prưova
conobbe a deboliſme fonda menta quelle attenerſi, e in ſü’l ſecco ſenza fallo
effer in peſtate;concioffiecoſachèprive di ragioni,e manchevoliol tremodo
d'efficaci medicamenti végano alla per fine ſtret re a riporre tutta loro
ſperanza di vincer le pertinaci,e gra vi malattie nella ſola natura: comcchè co
' falalli,e colle purgagioni, e con altriſconcj, e violenti rimedi render la
ſogliono ſovente ſpoſfata, e poco acconciza fofferir la vio lenza del male.
Perchè argomentoſſi dicomporrenuove forti di medicamenti profittevoli a malati
ſenza riſchio di piggiorar loro con quelli di nulla la conpleſſione. E con
ciofoſſecofa,che eglivalentiſſimo Chimico foſſe, e molto in folver icorpi
maſſimamente minerali affaticafléfi, diede egli cominciamento a quel ſuo
famoſiſſimo ſiſtema di medicina, chepoicompiuto,e perfezionato venne da Teo
fraſto Paracelſo. Ma comechè ponga egli per fondamen to della fua medicina
que’tre principi, de'quali anche ſer veli il Paracelſo: çiò ſono zolfo, ſale, e
mercurio; non però di meno diſcorda egli non poco dal Paracelſo in ciò, che
egli giudica corali principj ingenerarſi dagli elementi. Nel qualſuo ſentimento
certamente egli non poco falla, laſciandoli ſcioccamente menare alla piena del
folle vulgo in ſupporregli elementi; perciocchè ben doveva egli avvi ſare,
quelli ſolamente eſſer nel cervello d'Ariſtotele, e di Galieno: e che tutti
loro argomenti, malimamente quel lo, che ſembra aver qualche ſembianza di vero,
cioè, che icorpi tutti in iſciogliendoſi, a quelli come aloro primi componenti
ritornino, ſiano yani, e fallaci; alla qualcoſa fare bédovevalo ajutare
lanotomia vitale;mal'aver lui uſa. to qualche tempo nelle ſcuole in ciò pur
dovette abbaci narlo. Adunque egli giudica, che tutte coſe abbian lor materia,
e lor forma, onde poi prenda dirivo ciaſcuna lo ro operazione: e che queſta
dalle ſtelle venga ingenerata,e dagli elementi formata, e da’tre principj ſolfo,
fale, e mer curio prodotta, e perfezionata; ma pur.dice egli una fiaca l'acqua
eſſer la primamateria ditutte le coſe; que, ſon fue parole, exficcatione ignis,
& aëris in terram formata eft. Oltre a ciò egli afferma, in ciaſcuna coſa
dimorar cotali fpi riti vivificanti operativi, i quali G nutrichino, e fi
foftenti no de'corpi, ne'quali albergano: che in queſti ſpiritila vir tù, e la
forza d'effi corpi ſpezialmente conſiſta; ma come chè queſte, e altre fraſche
aſſaiintorno alla natura di sì fat ti ſpiriti egli vada ſcrivendo, pur ſi
potrebbono le ſue parole intendere allegoricamente, e con ſentimento forſe da
non diſpregiarſi: ſe non ſe moſtra manifeſtamente così in: ciò, comein altri
ſuoi divifamenti eſſere ſtato lui molto [um perſtizioſo, e vano nel ſuo
filoſofare. Perchè o colpa foſſe de'tempi, o altro, che il ſi faceſſe, comechè
egli intenden tiffimo foſſe ſtato della vital notomia, e che con quella ma
raviglioſe coſe aſſaioperate aveſſe, avviſando ſottilmente i più naſcoſi
ſegreti della natura; non però di meno non ſe ne ſeppeegli sì ben ſervire, che
penetrare aveſſe potutoi veri principj,onde le operazioni, e gliefferci de
vegetabi li, degli animali, e de'minerali procedono. Mapure egli, come non poco
arricchita aveſſe de' ſuoi comiendevoli ritrovati, e di ſottiliffimi
divifamenti la me dicina, e che ſaggiamente giudichi infra l'altre coſe, che
dal lavorio delle chiniche preparazioni de' corpi naturali ne lieguano,naſcere
il certo conoſcimento di cotal arte;im pertāto.egli manifeftamête avviſando
l'incertezza di qucl la, ne conſiglia, econforta a riguardar ſempre all'uſcimen
to de’rimedj; perciocchè dal nocimento, e dall'utile, che quelli recano
a'malati, può il medico avveduto prender có figlio, ſe debba più per innanzi
adoperargli. o nulla, quanto al fatto del medicare, il Va lentino delle chimiche
operazioni fi valſe; imperocchè qua tunque belli, e grandi, e copiofi
medicamenti gli venine ro, mercè la chimica conoſciuti; la cui vircù egii
profone damente ſpiò: e più avanti facendoſi giugneſſea penetrar la propietà
de' tre principi nondimeno non tols'egli a {pie 1 Ma poco, gi!re Del Sig.
Lionardo di Capoa 401 gare, come da quelli s'ingenerino, el guariſcano i mali.
La quale imprela certamente fu dopo luidal Paracelſo, ſe non compiutamente
fornita, a grande ſtato condotta; av vegnachè il Valentino non tralaſciaſſe
affatto di metternes fuora da quando in quando qualche profittevole ammae
ſtramento; ſicomeè quello chea’mali ch’abbian fatto cal lo, e di ſoverchio ſi
fian radicati in corpo, ſolo le fifle me dicine approdar poſſano, ficome quelle,
che fin dalle ra dici gli sbarbano; le non fiſſe ſaggiamente a quell'acques
piovane aſſomigliando, le quali toſto diſcorrendo per le Atrade, non penetrano
per fonghe, o per foſſati fin nelles viſcere della terra. Siinigliante è
quell'altro ſuo avviſo, che Come d'affe ftraechiodo con chiodo, così l'un
ſimile vaglia l'altro a curare; allegandonc l'eſem plo del veleno, il quale non
altrimenti che la calamita ſi faccia il ferro, tragge, ed aſſorbiſce l'altro
veleno; ed in veggendo egli, che l'acqua arzente guariſce la Riſipola,
immaginò, che il caldo di quella l'interior calore di queſta attraeſe. Ma da
queſto diviſamento può ciaſcuno far con, ghiettura, ch'egli entrato ne’valti
regni della natura, qui vi poi li ſmarriſfe, ne fructo, e pro che dovea ne riportaſ
ſe; imperocchè s'egli ſi foſſe dirittamente appoſto, avreb be detto, che
ingenerandoſi la Riſipola dall'acetoſità, gli Alcali volanti dello ſpirito del
vino ciò adoperino; il che ben ebbe inteſo il Paracelſo, onde potè cotant'erbe
di ſimi li alcali volanti ripiene,valevoli a far contraſto all'acetoſità delle
ferute agevolmente rinvenire, e compornc tanti be veraggi, che vulnerarj ſon
detri. Maciò, ch'è di maggior conſiderazione, cgli non curò mai il Valentino
d'inveſtigare (il che forſe a lui non guari malagevole ſtato ſarebbe) la figura,
e tutt'altre proprietà di quelle particelle, onde i tre principj ſono formati,
eco me, ed onde le loro operazioni avvengano; in tal guiſa avrebbe egli potuto
felicementenella filoſofia innolcrādoſi ſcorgere, come il ſuo Vulcano fia
conoſcitore, egiudica tore ditutte le coſe ne’ere principj ſolvendole, ficome
e'di Eec CC CON ce con quelle parole,
che dal tedeſco idiomanel latino così furono dalChercringio portate; Quum
Chalybs durif fimusfilice duro ſolidoque percutirur, ignis ignem excitat,
commotione vehementi, & - accenſione eliciente occultum ful phur, fiveignis
occultus manifeftatur.commotione ifta vehe menti, eper aërem accenditur, ita ut
verè, & efficaciter ardeat; fali maner: in cinere, &mercurius inde fe
proripit una cum ſulphure ardente. Ma ſe mai avutoegli aveſſe pie na
contezzadella naturadel fuoco,di cuipoteva informar ſi dalle continue
operazioni, che gli ſe ne parávano innanzi agli occhj;séza fallo,egli in
sifatramaniera none avreb be ragionato.. E ſe in cocal guiſa foſſe andato
confidcrara mente negli alti miſterj della natura innoltrandoſi, NTOI farebbe
ſtato da cotanta maraviglia ſoprapreſo per lo con tinuo ſcambiamento delvino in
aceto. Ne ſarebbe egli ſta to nelle ſue opinioni cotanto bergolo, e poco
ſtabile;:fe forſe ciò non avvenne in lui dall'accorgimento, ch'eglieb be del
noſtro corto intendimento, e dalle malagcvofezze in cuici avvegniamnoi fovente
in filoſofando. Il perchè preſe ad eſclamare una fiata. Bone Deus !'natura à
nobis bominibus quodammodo indignatur tota: pervideri ! cum vi tri noftratempus
conftitueris adeobreve, & cu verus omnia judex multa refervaveris tibi in
creaturis; que non ſcientiæ, fed admirationi noftræ reliquiſti. Ma tempo è omai
di venire a Teofraſto Paracelſo; ne già m'invicrò lo per la ſtrada dall'Eraſto,
dal Cortino, dal Riolano padre, e da altri famoſi Galieniſti calcata; i quali a
biaſimar in lui ciò,che eglino medeſimi non comprende vano fi miſero, porgendo
giufta cagione ał gran Ticone di dire: Paracelſus pluribus oppugnatus quam
intellectus; e lor fatica impiegando intorno a materie bazzeſche,e gher minelle
s'ardirono a rimbcccar quelle ragioni, che già più fortunatamente avea il
Paracelſo contro illoro Ariſtotele, e'llor Galicno adoperate: intorno a' quali
ſoleva il Para celſo dire, che con una ſola ſperienza arebbe cento ſuppo fte
dimoſtrazioni d'Ariſtotele abbattute, e mandate a ter ra; ma rimarrò ſolamente
pago di toccar pochiſſime coſe di mio talento, e ſpezialmente quelle, ſopra le
quali il di ftema tutto di lui vien piantato.. Lamedicina del Paracelſo,
quantunqueragionevolme te a chi può dar di queſte coſe perfettogiudicio molto
più veriſimile dell'altre razionali fi paja, e che tanto ne' pro fondi miſteri
della natura innoltrata, e profondata lilia, cheminutamente ragguardar poſſa a
quelle minuzie, per le quali ſolamente l'arti alla debita perfezione montarpor
fano: ediſceſa ſi veggia più di tutt'altre medicine, ad ogni
menomillunaparticella diſtintamente Itacciare: coſa, la quale già tanto da
Galieno fu nella medicina fofpirata; e quantunque nel diviſarle cagioni,e la
natura delle målar tie, e diciù, ch'a quelle, ed all'economia degli animali
s'appartenga, valentiſſimo egli fia: edil ſuo autore abbia trovati, e
poſtiglorioſamente in uforimedj valevoli, ed ac concj a riſanare ancheque’mali
giudicati per addiecro infia nabili dagli antichi; e quantınque alcuno dir
giuſtamen te vaglia, aver lui aſſai più di lume, e di vantaggio, e d'ui tile
recato al mondo co'foli ſuoi libri del Tartaro, che co® loro infiniti, e
voluminoſi libri di medicina tutt'altri fcric tori, così Greci, come Latini
inſieme s'ayefſer mai fac to; non però di meno chiunque con occhio filoſofico,
e fpaffionato ben ſotcilmente vi badalſe,agevolmente ravvi far potrebbe la
dottrina per lei inſegnata eſſer alquanto manchevole, ed intralciata, e le ſue
saccherelle, comechè minori forſe dell'altre, avere anch'ella. E tutto ciò
certamente avviene tra per la natura della medicina, impoſſibile a comprendere
ad intendiméto uma no, come di ſopra baſtantemente è detto; ed ancora per chè
il Paracelſo a tante, e sì diverſe, e ſtranemaraviglie da lui nuovamente nella
natura offervate, a guiſa d'occhio da troppa luce abbagliato, Che dal troppo
veder men'alto intende, tutto vinto, e tremolante più oltre non osò guatare:
ſule prime ſoglie della natura riſterteſi, ove maggiormente a fpiarla per tutto
inuoltrar fi dovea; così Nun altrimenti ſtupido fiturba Ece 2 Il montanaro, e
rimirando ammuta, Quando rozzo, e ſalvatico s'inurba. Perchènon men, cheGalieno
già de'ſuoi principj s’aveffe fatto: grazioſamente immaginandoſi la natura
della corpo rea ſoſtanza, e delle quattro primjere da lui dette Relol lacee
qualità: ene men inveſtigando onde avvenir poſfa, ch'elleno sì poco valevoli
ſiano nel corpo umano ad opera re, e cheniuna parte abbiano nelle gravi
inalattie; e per altre,ed altre ragioni,nelle medeſime tacce delle quali ac
cagionali Galieno poco meno incorrer fi vede. Così il Pate racelſo intorno
a'ſuoi principj non miga già, ſicomea buo.si filoſofíte covenivaſi,riguardò
alla natura, o alla proprietà, o a’modi del loro operare;ſenza le quali
contezze non può certamente, ſe non murarſi a ſecco, e poco durevol ſiſtema di
razional medicina in piè rizzarſi. Ma acciocchè quanto Io dico più apertamente
ſcorger ſi poſſa, convien la coſaw più minutamente diſaminare. Queſta
grandiſſimamaſſa dellVniverſo e' fi pare, che da Teofraſto Paracelſo venga in
due globi partita: uno al to, che due elementiin ſe contiene, ciò ſono il fuoco,
Paria: e un'altro più baſſo, che ſomigliante due altrine ha, e ſono l'acqua, e
la terra. I quali quattro Elementi chia manfi ancora da lui
vacuitadi;perciocchè vuoti d'ogni cor po eglino ſono:altrimenti no potrebbono
da' corpi agevol mente efſer ingombri. Sono adunque gli elementi incorpo
rei,cioè a dire privi d'ognicorporea diméfone. Ma in que Ha vacuità dice egli,
chela luce, e le ſeminali ragioni di tutte cole dal loprano Facitore meſſe
furono, allorches quello, di nulla criò da prima l'Univerſo; quindi v'aggiun ſe
le ſembianze, e le coperte propie de corpi, le qualiallor che quelli veſtono,
varie, e diverſe coſe ci producono. Per quel, che ſi poſſadall'opere del
Paracelſo argomentare: i principi primi delle coſe fon di due inaniere;
perciocchè, o ſono principj propiamente tali, o alcuni di que', ch'elemé ti comunemente
diconſi. Gli elementi ſono due, uno è fecco, il qual terra dannata, e cenere,
carena anche tal volta chiamaſi: l'altro è umido, il qual flemmafi dice. La
terra dannata non ha virtù alcuna, ſalvo che d'aſſor bere, e impiaſtrica,come
dicono; e la flemma parimente al tro non adopera, che ammollare, e inumidire;
perchè ſon dette principi paſſivi. Ma non ſolamente la ficcità, e l'umidore,
giudica il Pa racelſo, che in nulla s'adoperino in queſta maſſa mondiale; ma
quell'altre dire qualità ancora,che dalle ſcuole agli ele menti s'attribuifcono,
dice egli ad altro non ſervire, fuor folamente, che a riſcaldare,o a
raffreddare; perchè da lui, tutte, e quattro chiamanſi Relollacee, cioè a dire
ſeioperd te, e ozioſe; perciocchè non hanno elleno virtù alcuna ſe minale.
Nelche ſi pare, che il Paracelſo imitare abbia vo Juto Ariftotele, ilquale vuol,
che i ſemi tucti ſian d’unco tal calore forniti, propiamente celeſte, e diverſo
affatto dal calore elementare. Perchè è da dire, che fecondamente chè giudica
il Paracelſo, le quattro volgari qualità altro non adoperino, che cccitare, e
riſvegliare le féminali virtù nc'corpi,ove clle ſono. Ma i principj propiamente
tali, che attivi egli chiama; ſono anchetre, fecondo lui; ciò ſono il Sale, il
Solfo, e'l Mercurio. Egli è il ſale una ſoſtanza ſalda, ſavorofa, la, qual
disfaſli, e ſolveſi volentieriper acqua,e per caldo derato fi ſecca, e li
raſſoda: e per ſoverchio fuoco ſi fonde. Il ſolfo è un corpo liquido, untuoſo,
agevole ad accender fi. E dalſale vengon tutti ſapori alle coſe: e per lo ſolfo
gli odori in quelle fpirano. Ma il Mercurio è un coralli quore fottiliſſimo,
echiariſſimo, il quale per la ſua ſottie gliezza in tutto penetrando,
agevolmente ſi diſperde, ei fvaniſce. Or sì fatti principi giuſta i ſentimenti
del Paracelſo abbi fognan tutti neceſſariamente a comporre, egenerare cia fcuna
coſa del mondo; perciocchè il ſale è il fondamento di tutta la faldezza
de'corpi; e non potendoſi il fale meſcola re, s'egli in primanon li ſolve in
minutiſſime particelle, fa meſtieri della fleminaa ciò adoperare. Ma la flemma
non può meſcolarli col fale per cóporre i corpi,ſenza l'ajuto del ſolfo; il
qual parimente per la ſua untuoſità non potendo mo: ſi age 406 Ragionamento
Sefto fi agevolmente partire, ficomefi conviene, abbiſogna dell' acqua; la
qualcompreſa, e impregnata del ſale ſciolto, fonde il ſolfo, e maggiormente
disfallo, acciocchè poſla diſcorrere, e meſcolarſi acconciamente a formarle
coſe del mondo. Vien poiil mercurio, il quale a guiſa d'anima nel corpo, per
cutto penetra, e diſcorre; ma in niunama niera potrà certamente ingenerarſi
fermo, e ben faldo cor po, ſe per la terra dannata in prima non ſi ſuccia,
es’at trae la ſoverchia acqua, chesformatamentel'ammolla: per la qual terra
finalmente alla debita perfezione, e all'ultimo for compimentole maſſe tutte de
corpidivengono. Per le quali coſe dimoſtrandone il Paracelſo, che
diſtruggendofi qualunque corpo, in queſte cinque ſoſtanze folamente fi lolva: e
contendendo, che cotaliſoſtanze non poſſano cer tamente per cola del mondo in
altro giammai cambiarli, o folverſi: egli inſiemeraffermail ſuo diviſamento, e
abbat te ſenza fallol'opinione d'Ariſtotele, e di Galicno intorno a’loro priini
quattro elementi. E sì avendo ben tutto ciò che fa meſtieri alla natura
de’principi, queſte ſole ſue ſoftá ze, e non altre dice il Paracelſo eſſeri
veri principi delle core. Ma Io per manifeſtare il mio parere intorno a cotal
di viſo del Paracelſo, non vo'ora opporgli, che y’abbia alcu ni corpi, i quali,
come affermal'Elmonte, e altri valoroſi maeſtri in Chimica, non ſi poſſano
maidisfare, o fciorre nelle loktanze da lui avviſate; ficome certamente è l'oro,
e'l mercurio volgare;perciocchèegli agevolmente riſponder potrebbe, ſe aver
bene cotali corpi ſoluti; comcchè ciò 2 coloro malagevol fia, ſenza il vero
artificio adoperare. Ne meno dirò, che cotali ſoſtanze s’ingenerino di nuovo
allor che disfannoſi i corpi: e che prima in quelli in niun modo alliguavano;
perciocchè potrebbe egli ancor dire, che'lle gno per qualche ſpazio di tempo
macerato nell'acqua, le poi ſi brucia, non dimoſtra nulla di ſale: ſegno
manifeſtif fimo, che'l ſale allor, che in bruciandofi il legno nonmace rato ſi
pare, era in priina nellegno: e che dal legno l'ac qua n’avea tratto colſuo
maccramento il ſale; anzi dirà il Paracelſo eſſer alcuni corpi, ne'quali ſenza
artificio alcuno, e ſenza ſolverſi v'appajano manifeſtamente cotali principi,
ſicome nelle ſugne, e in altri corpi grafli', e uotuolije nelle ulive anche non
ſolute il ſolfo-apertamente li ſcorge; per ciocchè in quello ſommamente
abbondano; ne a trar da quelli il ſolfo fa luogo lungo ftudio di chimica, o ben
fati colo favorio di diligentemaeſtro; che poſfiamo dire eſſer il ſolfo quivi
tratto per l'artificio del fuoco, e in canta abbon danzaefferſi di preſente
ingenerato. Nepuò il fuoco, per direvole, e gagliardo, ch'egli fiaſi ciò
adoperare; percioc chè dalla terra dannata', o dalla flemma, ove fólfo,ne mer.
curio, ne fale non alligna, non ſi potrà per opera difuo co, orlalaro chimico
ſtrumento trarne goccia giammai. Tralaſcerò pure di dire collElmonte, che
dall'arena; dalla ſelce, non maiſolfo, o mercurio ſi può trarre; per ciocchè
riſpõderebbe il Paracelſo in cotalicorpieſſer quel le ſoſtanze cotanto ſcarſe,
e poche, che nel volerle diſa minare ſi difperdono. Ne recherò, che per far
pruova diciò l'Elmonte con ſuo ſottiliffimo artificio ſciolle in un purisſimo
ſale l'arene, e le pietre: le quali s'avvisò egli no aver perciò perduto nulla
del loro primjero peſo; percioc chè fa pochiilimaquantità delſolfo,
edelmercurio ſvapo raci,quello cotanto poco fa menomare,che malagevolmen te fi
pud per huomo avviſare; ſenzachè ben può penetrar qualche coſa in eſſi corpi,
quando ſolvonfi,la quale riſtorar poſla il perdimento delle ſoſtanze, che ne
ſvaporano. Ne dirò pur coll'Elmonte, ſcambiarſi infra loid vicen devolmente
corali principj; conciofoſſecofa, che egli con maraviglioſo artificio ſcambiato
aveſſe il ſale in olio, e l'o lio poi tramutato in acqua; perciocchè non così
agevol mente il Paracelſo avrebbegli in ciò preſtato tede, fe pri ma con gli
occhj propj non l'aveſſe veduto. E medeſima menteciò riſponderebbe il Paracelſo
a quell'altra novella dell'Elmonte, ove egli vantaſi da ſedici once di gromma
di vino aver tratto per diſtilazione un'oncia d'acqua, due once, e mezza di
ſale, e dodici d'olio, perchè egli n’argo menta poi contro al Paracelſo, che
l'olio ſi ſia nuovamente dal Cale acetoſo della gromma ingenerato;
conciofoſſecofa, che ſe tanta quantità d'olio ſtata in prima vi foſſe,ſarebbe
& a più d'un ſegno certamente manifeſtaţa. Ė alla per fine laſceròmolti, e
molti altriargomenti da rintuzzare il ſiſtema del Paracelſo, e i ſuoi principj:
ficome quelli, a' quali cgli agevolmente riparar potrebbe. Sola mente dirò, che
quantunque lo ſcioglimento ottimo mnez zo fia da dovereavviſarei principi delle
coſe; non però di meno tra per la ſcarſezza degli ſtruinenti, e di tutto ciò,ch
' a perfettamente fornirlo ſi conviene, e ancora per lamala gevolezza
dellavorio, ſi rende quaſi egli impoſſibile; ſen zachè nello ſcioglimento delle
coſe,moltec molte lor por zioni delle più ſottili, e però forſe più operative
fa mestier, che ſvaporino, e ſi diſperdano prima di potereſſer avviſa te; c
altre comechè pur virimangano, nondimeno per la loro picciolczza non si poſſan
comprendere, non che per altra notomia più ſottile diſaminare. Ma ſopra
qualunque altro argomento, che ſoſpetti rens de i principi delParacelſo quello
ſiè,che colle ſuddette ſue cinque ſoſtanze egli non iſpiega, ne ſpiegar
certamente po tea, come da loro le ſenſibili qualità ad ognun conoſciu te, e
quelle, ch'egli chiama Cherionie s’ingenerino,eco me operino, ſe pure il fanno;
ne è maraviglia, che'l Para celſo ciò non abbia adempier potuto: da che egli
non ſa qual ſia la lor natura; ne certamente ſaperla, anzine meno inveſtigarla
egli giammai poteva, non ſappiendo la natura della ſoſtanza,onde quelle
produconſi. Perchè egli fa meſtier confeſſare, che la medicina del Paracelſo
manche vole nella ſua maggior parte ſi ſia. E ſe egli cotanto valoroſo ſi foſſe
ſtato in iſcienza, qual veramente giudicavaſi, dovea ben'egli in avviſando, che
co'ſuoi principj non ſi potea render ragione dell'apparenze delle coſe, prender
quinci cagione di ſoſpettarenon certa mente altri foffero i veri principj di
quellc, e quindi forte ſtudiarſi d'inveſtigargli; perciocchè ſe a ciò aveſſe
porav ventura egli indugiato; ſenza fallo avviſato avrebbe, le varie, e diverſe
figure delle menomiſſime particelle eſſer de'ſuoi principj cagione; perchè
agevolmenteargomentar n'avrebbepotuto come, e perchè quelli operaffero: eche
non eglino, ma il corpo medeſimo in varie, e diverſe brice fgrecolatose
partito, forſe delle coſe del mondo il vero prin cipio, onde poi ciaſcuna
operazione di quelle prendeſſera dice, e cominciamento. Ma intorno alla maniera
dei medicare del Paracelſo, ſe credenza preſtar ſi deve a que’libri, che ſotto
ſuo nome vanno, èda dire, chemolto vaga, e in coſtante ella ſi foſ fe, e di
pochiſſima fermezza. Il che altronde certamente non nacque, ſe non fe
dall'avvederſi, ch'egli fe in medicão do, dell'incertezza grande dell'arte; non
però di meno egli pur convien confeffare, niuno,per quel che ſi ſappia, aver
avuto corante, e cotanto efficaci, evalevoli medicine a fgombrar le più
pertinaci, e diſperate malattie, quanto il Paracelſo; e sì ſaggiamente ſeppele
egli a tempo adope rare, che non fu certamente infra gli antichi medico co
tanto valoroſo, e avveduto, ch'a molto ſpazio, così nell' uno, come nell'altro
non gliandaſic dietro. Perchè in tā to pregio, e rinomèa montonne egli preſſo
le genti, che non huomo mortale tanto, o quanto della medicina cono ſciuto,ma
non altrimenti che dal Cielo per ſalvamento del genere umanomandato comunemente
giudicavanlo. Ne v'increſca al preſente aſcoltarne anche da altri le lo di,
ancorachè alcuni di loro per uggia, e mal talento con biechi occhj il
guardaſſero. Ecco il doctiſſimo Spondano, il qual ſovente lumc, e occhio della
Germania folea chia marlo, così di luifcrive: creditur habuiſse præftantiffimum
illud vellus aureum, quod Iafon apud Colchos conquifivit: (Intelligunt me qui
Suidam legerunt) quo defperatos mor bos fanavit; ande magietiam opinionem apud
quofdam cele bres viros, quod magis miror, eft confequutus. E prima dello
Spondano, Corrado Geſneri, comeche parzial di Galieno, e di lui per invidia
inimico, pur dalla verità ſtret to ebbe a dire: audio multos paffim ab eo in
morbis deſpera tis curatos: & ulcera maligna ab eo feliciter ſanata. E al
trove egli n'avea detto: Paracelſus noftra memoria mugus Fff FJOR (nondubito.quin hoc nomen magis
fanèintelligas', ut apud Perfas ufurpatum fuit) admirabilis homo, notusamicis
qui. bufdam meis; à vicinis noftris Helvetiis oriundus, perva. gatus magnam
Orbispartem: chimica arte y qaamipfe puto ſpagiricamvocat, excellentisfimus
omnium, ita utper eam metalla immutaret. E'l dottisſimo Geometra, e filoſofo
Pietro Ramo di lui parlando fcrive:in intima natura viſce ra ficpenitus
introivit, metallorum, ſtirpiumque vires, facultates tàmincredibili ingenii
acumine exploravit,acper vidit, ad morbos defperatosi, & hominum opinione
infana biles, percurandum,ut cum Teofraſto nataprimum medicina, perfett'aque.
videatur. Madel ſuo incóparabilvalore; e delle maraviglie adope. xate da lui in
medicina;piena teſtimoniāza ne rende la Città tutta, e la dottiſſima Accademia
di Balilea, e'l Comun di Norimberga, ove egli per tante maravigliole ſue pruove
ragguardevol molto, e famoſo divenne: intanto che ragio nevolmente ftipiditone
il Zemeo avvedueisfiino ſcrittor de'ſuoi tempi,cosìdi lui dice: Apud Germanos:
nunc Thea phraſtus quidam vir adolefcens'exiſtit, cui parem Orbis.non fert:doctioremme
legiſememor non ſum.. E Melchiorre, Adamo dilui pur raccontando dice: eum
ingenio acutisfimo, acferè divino fuiſſepreditum: din univerſa philofophia tàm
ardur, tum arcana', abdita eruiſse mortalium nemi nem: lepra, podagra,
hydrope,aliiſqueinfanabilibus malis, defperatis mulios liberaſse: "idie
per duas horas Ba flee tum aétiuamtumcontemplativam philofophiam fumma
diligentia, magnoque auditorum fructu eſseinterpretatum doctrină,quam non ex
Hippocrate, fed experientia aſsegur sus erat. E'l Barthio pur di lui dice: Ego
de Theopbralo pre clarèfentio: admiranda praffitit; ſed qui cum perfectè intel
ligat, & quæ ipfe fecit faciat, nondum audivi. Ę France fco Oporino fuo
famigliare, per veduta anche di lui racco ta: pari induſtria novi ipſum
leprofos, bydropicos, e pilepti cos, podagricos, morbo venereo infectos,
aliofque innume ros infirmos gratis fanare. Id quod Galenici Doctores non fine
notabili dedecore non potuerunt imitari; unde in magnum apud
quoslibèt.contemptum inciderunt. E'l me delimo Oporino in quella lettera
appunto, ove fraſtorna to dagli emuli dilui, e fommoſſoanch'egli in truppa, a
rabbioſa monte mälmenarlo, infra le tante, e tantc menzogne, e cacce, che per
isfregiarlo farnesicando ſi fogna (del che gravemente poi pencilſı, ſicomene
narra Michel Toſite ) pur non potè tanto diffimulare, che apertamente talvolta
non confeffaſſe eſſere il Paracelſo valentiffiino medico, aver prontamentetra
le mani mirabilem faciendi medicinä in omni morborum genere promptitudinem,
felicitatem, Quindi di luinarrando foggiugne, che in curandis vulne ribus,
etiam deploratiffimis miracula edidit, nulla victus præfcripta, aut obſervata
ratione. E de'ſuoi mirabili, e valevoli argomenti maravigliato: laudano fuo,
dice, ita gloriabatur, ut non dubitarit affirmare ejus folius ufu ses mortuis
vivas reddere pole; idque aliquoties, dum apud ipfum fui, ipfe declaravir.
Macelebre ſopra tutte fiè la teſtiinonianza, che fe del le maraviglioſe cure
del Paracelſo il SereniſſimoArciveſco vo di Salburgo, il quale dopo averlo
altamente anorato in vita, e faccigli in morte famofiflimi eſcqui: volle, che
nel Ja lapida del fuo ſepolcro fi leggerle queſto orrevole ſopra ſcritto;
Conditur hic Philippus Teophraſtusinfignis medicine doctor, quidira illa
vulnera Lepram,podagram,Hydropem, aliaque infanabilia corporis.contagia,
mirifica arte fubftulis, ac bona fua in pauperesdiftribuenda, callosandaque
curavit. Ma:2pertamente tutto dì ſi ſperimenta il valor di qual che medicina
del Paracelſo, comeche delle men nobiliel la li fia, alla contezza noſtra
pervenuta; perchè tutto dà i più valenti Chimici ſtudianti per rinvenirne alere
nelle ſue opere. Ma delle medicinedelParacelſo aſſai bene ſcorro Giovan
Battiſta Elmonte, tuttochè ſuo emulo, ebbe a dio re eller quelle così rare, e
prezioſe, che meritevolmente il gloriofo ſoprannome di Monarca degli arcani ne
avelle egli riportato. Maavvegna pure, checotanto valorolo foſſe ſtato il P.2
racclſo in medicina, qual noiraccontato abbiamo; non però di meno non ſempre ſi
veggono i rimedi di lui a liero ffa ne riuſcire: e ciò maggiormente teſtimonia
la non macura morte,che fopravennegli a mezzo il corſo della fua vita, cioè a
dire nell'anno quaranſetteſimo; dalla quale nó li po tè egli per argomento
niuno fchermire: comechè cotanti diſperati infermi dall'orlo della ſepoltura
ſottratti aveſſe, e quaſi di mano a morte sforzaraméte ritolti; e pur egliavea
detto in prima: nullus morbus fuo medicamine defituitur. Che ſe'l maggior
medicante del mondo non potè ceſsar la violenza del ſuo fato, e adoperarsì
co'ſuoi valevoli, co prezioſi medicamenti,che la ſua vita a'più vecchi anni ſi
ri ſerbaſſe, che dovrem noi ſperar mai di certo dalla medici na, attenendoci a
rimedjdeboli, eſpoſſati, per falvainen to delle noſtre vite? Ma egli
ſcagionando in ciò l'incertez za grandiſſima dell'arte, che pur troppo avveduto
ſe n'eray e roveſciandone follemente la cagione a'forcunoſi fati, dice che in
baha di quelli ſia l'uſcimento de’rimedj interamente ripoſto; perciocchè da
quellola vita, e la morte noſtra de pende; quod autem, dice egli, parlando
dell'incertezza de' medicamenti, ium medicine, tum his atentes perfæpè à fa
talibusgravius vexentur, &cuentum conditioni medicina AC curſuinatura
adverfum omnino experiantur;ideo nobis fa Gere debet, ut inde diſcamus nimis
obftixatam de hac fragili vita fiduciam,ac fpem deponere. Etfi enim nocentia
fimul omnia, &medicinarum fimulomnium virtutes, morbo rum genuinascaufas;
ac bis oppofit& remedia debita plenè teneamus: nibilominus tamen
hancconfidentiam incumbes fan tum infringit facilè, ftatum formum omnem
deftruit; cui nos non modo non obluétari quicquam poſsumus, ſed fatali bus
caufs nofmet nudos totos potiøs objicimus, utpote que nos in folidum
mortalesfaciani, noftraque molimina infrin, gant, & providentiam noftram,
ac confilia univerſa ever Ma de'medicamenti di lui cotanto poco approfittar ne
poſſiamo, che comechè egli valentiſſimo medico, e filorow fante ftato foſſe,
pur le ſue opere in gran parte inutili, infruttuoſe ne rieſcono; cotanto piatto,
e imbacuccato tant. egli ſi fu ne'ſuoi ſentimenti,ch'a ben rugumargli malage
voliſſimamente ſe ne può cavar nulla di buono. Eoche foſſe ſtata invidia
aʼmedeſimi ſuoi ſeguaci, o altro ch'a ciò far lo ſpigneſſe,dique'ſuoi
maraviglioſi medicamenti, on de cotanta fama egli accattofſi, pochi egli ne
volle inſe gnare:. e que'pochi cotanto monchi, e oſcuri ne fcriffe, che ben ne
laſciò nel farnetico di doyerne inveftigar con lunga fatica la traccia;
de'quali egli medeſimo favellanda, dice: in quibus afsequendis paucisfimi
fcopum contingent., Perchè alcuni inviluppativiſi ſconciamente vi favellarono,
togliendo in cambiouna coſa per altra, e sì con quelli pig giorando gl'infermi
delle loro malattie, e ſovente anche uccidendogli. Vuole egli, che ciaſcuna
malattia, toltenc quelle, che richiedono la mano del medico per dover curarſi,
e quelle ancora, che dalle ſole qualità relolacce avvengono, le quali ſenza
argomento alcuno d'arte ſi guariſcono, dalle impurità ſemplici del ſale, o del
mercurio, o del ſolfo, o da tutte queſte foſtanze so da parte di eſſe
s'ingeneri no. Ma comechèegli cotanto danno ne dica da quelle av venirne: ſe
noi non ſappiamo, ne egli punto ne ſpiega qual ſia veramente la natura loro, ne
anche certainente avviſar poſſiamodi che forte d'impurità quelle loro fiano,
accioc chè acconciamente alle malattie da quello inoſſe riparar posſiamo. Le
medicine, dice il Paracelſo, effer debbono ſomigliá ti al inale, ch'è da curare;
perciocchè quantunque ognun fappia, che le malattie fian contrarie alla ſanità
delle gen ti, e che perciò vincer ſi debbano con argomenti contrar alla lor
natura; non però di meno le medicine, le quali G convengono alle malattie eſſer
debbono pure della mede fima lor generazione; perciocchè altrimenti mala
pruovan vi farebbono a raccattar la ſanità. Quinci ſi è, che'l Para celſo dopo
aver avviſato tre eſſer i generi delle malattie, così dica: caveat itaque
medicus ne arbores duas in unams curam inferat:fed teneat regulas,morbis
mercurialibus dan dum ejſe mercurium: morbis falinis,falem:morbisfulphureis,
ſulphur; unicuilibet nimirum morbo fuum appropriatum ficut convenit. Ma in
buona fe, che ha egli che fare la ſomiglianza con la cura delle malattie?
Perchè ebbe egli la ragione l'Elmo te di forte biaſimarnelo: igroravit bonus
ille vir, quod ifta non fintagentia fufficienter ad fanationem requifita. Ne
ciò è ſempre vero, che le coſe più agevolmente poſſano alle ſomiglianti
penetrare, cmeſcolarſi inſieme; ecome il me deſimo Paracelſo diffe:quodlibet
fuumfimile comprebendere. fuum fimile,non diverſum; perciocchè avviſiamo noi
tutto giorno in molte, e molte coſe il contrario avvenire. Ele pur talvolta
incontra, che s'accozzino, certamente per al tracagione egli
s'adoperajāzicotáto ciò è falſo,che per co trario alcuno dir potrebbe più p
diverſità, che p ſomiglia za inſieme le coſe accozzarſi: ficome i corpiconcavi
ſono, i quali ſtrettiſſimaméte a’ritõdi s’uniſcono;nei corpi ſpea rali, o
ritondi, comechè fomigliantiſſimi infra lorofiano, poffono in alcun modo
convenirſi: avvegnachè pur ſi con vegnanoi quadrati. Perchè dica pure a ſuo
seno il Paracel fo:Scorpio ſcorpionem curat, realgar ſuŭ realgar, mercurius
fuummercurium, meliſir fuam melilă; che ditanta mara viglia non ſarà certamente
cagione la ſomigliáza;anzitute' altro di quello, che egli va diviſando;
perciocchè, per ta cer dell'altre coſe, nello ſcorpione i pori auſati per lungo
tempo a ritenere in ſe quel ſuo veleno, e acconcj anche a riceverlo, più
agevolmente il ricevono dalla ferita, ch'egli fa nella carne d'alcuno, che non
poſſon riceverlo l'altre parti ſane vicine diquella; perchè movendo per la
forme tazione le particelle delveleno nella fcrita, volentiericol loro
diſcorrimento nello ſcorpione paffano, e a riccrti me deſimi, onde uſcirono, fi
ritornano. E queſte ſono le con tezze,che deve avere il medico avveduto per
doverpren. der argomento da porre avantile fue medicine, e non già le
ſomiglianze, o altre fraſche, le quali agevolmente poſ fono ingannarlo, e
mettere per la mala via iwiſeri infermi. Che ſe noiveggiamo alla giornata a'
mali del ſale aceroſo porfi conſiglio collaflomma, e colla terra dannata, e
altri mali guarirli con diſſomiglianti rimedi, perchè do vrem noidire,che la
ſomiglianza fola poffá diſmalare i cat tivelli infermi, e nello ſtato
ſalutevole del primiero vigore riporgli? Maſu riccvaſi pure',comevera,la regola
del Pa. racelſo intorno a'generi de'medicamenti, e ſia pur la fomi glianza da
ſeguire in medicando; come potrà mai il media co avveduto avviſare qual forte
di ſale, o di mercurio, o di folfo daelegger ſia per riſtorar de’ſuoi mali
l'infermo, feu prima egli pienamente no coprenda la gencrazion di quel ſi, ch'a
ciò il conduffero. Conviene adunque al medico fa pere quali ſien quelle
particelle, che forman l'apparenza dell'aceroſità nel fal dell'aceto's quali
l'amaritudine nel ſal della coloquintida, ſc ragionevolmente egli proceder vuo
Ic nel ſuo meſtiere. · Ma fe'l Paracelſo ebbe la medicina univerſale, come è
coſtante famaaverla lui apparata nel fuo lungo pellegri naggio, non facea
meſtieri ſapere; o'avvifar niuna disì fata re coſe, ne'curar di vene łatice, o
di acquoſe, ne della doc cia del Virfungo, o della circulazion del ſangueso dal
tri, e d'altrimoderniritrovati: comeche ſembri aldortifia mo Vitiſchio aver
parte luidi queſte coſe felicemente avvi fate. E cócioſliecofachè l'univerfal
medicina ſenza riguar dare a età o oa compleſſione, o ad altra coſa del mondo,
igualméte torte malattie vanti di guarire;Io non ſo lorper chè il Paracelfo a
si fåtte fraſche foſſelli: attenuto, ſe egli diquella erisì ben fornito;
perciocchè quella diceni eller ſomigliante albalſamo naturale, e perciò
valevole a invi gorirlo, e ajutario sì fattamente, ch'egline ſolva, vinci, e
diſtrugga le cinture ſeminali di qualunque ſorte zonda l'e malattie curte
prendon dirivo. Diceſi balſamo naturale dal Paracelfo' una coral ſpiriz tuale
ſoſtanza di principi puriſſimi compoſta, e participan te della natura
celeſtiale: onde ella è quafi incorporea ye incorruttibile; adunque corale
eller conviene l'univerſal medicina, e che ſia partecipe di tuttiprincipj,
acciocchè in ciaſcuna malattia approdar poffa. Ma certamente non che il
Paracelſo cotal medicina avuta aveſſe giammai, anzie egli 416 Ragionamento
Seſto egli fola il creder, che quella ci ſia, o pofla mai eſſere:av: vegna pure,
chealquanti medicamenti di lui fieno ſtati va levoli a ſgomberar molte, e
diverſe generazioni di graviſ fime malattie. Ma egli tante,e tante ſortidi
medicine ado però nelle ſue cure, e argomentoffi dicomporre, e lavora te con
ſuo gran biſtento, e noja degl'infermi, che certa mente a cið recar non
s'avrebbe dovuto, ſe quella ſua uni verſal medicina conoſciuta aveſſe;
ſenzachèegli, ſe non voleva pur logorarla nelle cure baſſe, e menovili, ſarebbe
fene almen ſervito perſe medeſimo, allorche da graviſſi ma malattia ſorpreſo
anzi tempo morilli, e prima d'aggiu gnere all'anno cinquanteſimo della ſua
vita. Ma ſe eglifof fefi pur nella filoſofia tanto, o quanto innoltrato, no
avreb be sì fatte millanterie ſcagliate del ſuo valore, e della vir tù della
ſua univerſal medicina. Ne meno egli certamente detto avrebbe, che l'huomo per
la ſola immaginazione va levol ſia anche fuora del corpo a far le maraviglie,
cche i caratteri, e le immagini ſcolpite nelle piaſtre, e porta te adoſſo
poteſſero ſchermir le genti dalle inalattie, e libe rarle da quelle; ne
farebbeli follemente ſognato, che'l ſole fo ne'corpi degli animaliſidiſtilli,
ſi fublimi, ſi riverberi, fi calcini, e ſi fonda: onde poi mettan fuora varie,
e diver fe forte di malattie: e che'l ſale, e'l mercurio in noi ſimi gliante ſi
diſtillino, fi ſublimino, e ficalcinino cagionando le malattie: è che'l
mercurio aſſottigliato oltremodo per la ſoverchia circulazione ſia cagione
delle ſubitane morti, e repentine:e che noi puntalmente n'aſſomigliamo
all'univer fo, e neſiamo vere imınagini in ciaſcuna noſtra parte: e che i tre
principj in noi cotante generazioni di malattie prodı cano, quante ci ha coſe
create: e tante, e tant'altre ciuffo le, e aggiramenti, che ſe tutti fil filo
gli vorrei narrare,non così agevolmente ne verrei a capo. E tutto ciò a lui
avvē ne per diſagio di profonda filoſofia. Ma per avventura egli non fu cotanto
ſciocco, qualnoi giudichiamo dalle man chezze dell'opere fue; perciocchè quelle
da' ſuoi malevoli per uggia, c per diſpetto cosìdiſguiſate, e travolte furo no
con torne alcune ſentenze per entro, e altrs, o ſciocche, o fanciulleſche, o
empie vezzataméte frapporrvi,che omai tralignano dallo ſplendor d’un
tant'huomo, enon ſembran più ſue. E alcune ancora affatto non ſon fue, licome
il medeſimo Oporino, che così fellonoſamente rubbellogli ſi, manifeſtamente
rafferma; perchè non dovrebbeſi certa mente coglier cagione per quelle
d'accoccaglierla, c dir glicne male; ſenzachè manifeſta coſa è, che quelle, che
ragionevolmente ſon da credere opere ſue, vennero perla più parte ſolamente
dalai diſegnate, ne più poi per innan zi rivedute; perciocchè egli dal ſuo
focoſo, e diſcorrevo {e ingegno traportato inteſe ſolamente in prima a ritrovar
le coſe, e quali dal profondo della natura cavarle, con in tendimento poi di
più minutamente a ſuo bell'agio quelle ſtacciare,.e diſaminare, per poter
metter avanti con eterna fama del fuo valore quelſuolodevoliſſimo ſiſtema, che
im preſe a diſegnare; e per avventura ſarebbegli venuto fatto, s'a ciò tempo
aveſſe avuto; ma la morte, ch'improvviſo gli fopravvenne, fe riuſcire a vuoto i
ſuoi diſegnamenti, e non laſciogli agio di fornirgli; perchè rotto a mezzo
della fa rica ilſuo lavorìo,cosìmonco, e diviſato rimaſe, qualnoi veggiamo. Ed
è anche opinione d'alcuni, che le menzio oate ſue opere foſfono componimenti
de'ſuoi ſcolari; per ciocchè egli uſava folamente a boce inſegnar loro i ſuoi
ſentimenti, ſecondo la coſtuma di quc'rempi; e quelli poi gli cópilavano in
iſcrittura, molte coſe giugnendovi dellor capriccio,e molte non ben copreſe
travolgendo a lor talen to in tutt'altro, cheegli li voleva dire. E ciò tanto
più ne ſi fa manifeſto, quanto in eſli ſuoi libri più fiate le medeſi me ſue
coſe ſon ripetite, ſecondochè da diverli ſuoi ſcolari furono accolte; anzi dal
loro natio tedeſco linguaggio nel Jatino idioina ſcioccamente traportate da
perſone diciò poco, o nulla intendenti, così confuſe, c inviluppate di vennero,
che malagevolmente ne vien fatto ad avviſarne, iveri ſentiméti dell'Autore; col
qualdifetto aggiūta anche l'ofcurezza, ch'egli a bello ſtudio argomentolli
frapporvi, certamente oſcuriſſimi, e malagevoli oltremodo quelli ne, rieſcono;
conciofoſſecoſa,cheartatamente il Paracelſo co Ggg sì piatto, e imbaccuccato
ne' ſuoi ſentimenti con nubi di riboboli, e d'enimmi i ſacroſanti miſterj:della
natura avef ſe coperti,per far quelli ſolamente, e con lunga fatica agli
huomini dotti, e di maggiore intendimento comprendere, enaſcondergli alla
minuta: bcuzzaglia:delle genti, o comes diſſe il Berni Alle brigate goffe, agli
animali; Che con la viſta non pafsan gli occhiali. Ilche ſenza fallo infra gli
altri fu dalBorricchio avviſaperchè egli dice: ne Eleufina ſacra.profanè
Viiverſi pro fituerent: gnarus, id factiraſse Egyptias, & Pythago ne
affeclas ſacheche la di ciò, non ſono impertanto da ſpregiare i ſuoi
diviſamenti intorno alle coſe della medicina; percioc chè per tacer de’ſuoi
medicamenti, de' quali ſe vier mai quella priva, poco men, che come corpo morto
ſenza vita rimane: non può certamente eſſere ne filoſofo, nemedico valoroſo
colui che non ſappia appieno ciò,che dellecoſe della
natura:glorioſamente.Paracelſo n’abbia diviſato.. Fra Tomaſſo Campanella,
comechè d'acutiffiino inten dimento, e libero filoſofante e' ſi foſſe, pur sì
fattamente tratto tratto favella delle cofe naturali, cheben ne da.aw divedere
quanto più agevole impreſa ſia lo ſchivar quegli errori', ove gli altri incorli
ſono, che il ritrovar la verità. Nocquegli più che altro ſommaméte in ben
filoſofare nel lamedicina,l'averlui-troppa credenza. voluto preſtare alle
opinionidel Teleſio ſuo maeſtro, per tacer della ſtrologia, e d'altre vane
ciurmerie,c.indovinelli, ove egli fanciulle ſcamente dilettavaſi; e l'averfi
dato follemente a credere, che cotali.coſe, o enti favoloſi da lui ſolamente
immagi nati abbian parte nelle cofe della natura; perchè non è da maravigliare
ſe'l ſiſtema della medicina, dalui fabbri cato, manchevole oltremodo, e
difettuoſo riuſciffe. Al la qual coſa fu egli anche cagione il non aver lui
eſercitato gianmai cotal meſtiere: ficome anche nocque a Cornelio Celſo;
perciocchè aflai per avventura ſarebbonfi vantag. giati, ſe per pruova
ſperimentato aveſſero i lor diviſamenti. Ma ſopra tuttonocqueal Campanella il
no eſſerfi eglipũ to conoſciuto di nocomia; perchè egli poi traſcorfe in co
tanti errori, e aggiramenti, dicendo il fegato efferfonte, c origine del ſangue
e la milza del fiele: e che tutto dal cervello provenga: Organum fpiritus, dice
egli, cor Jan guinis jecur,fplen fellis, & alia aliorum; omnia autemiſta
cerebrocauſsam habent;arteria vocalis manifeftè ex.com pite oritur, ubi et
ftipitem amplisfimum haber:igitur& alia; Junt enim ejufdem fubftantia, d
originis. Etanti, e tantal. tri falli egli preſe nella notomia anche in coſe
manifeſtiffi me, e a ciaſcunconoſciute,che ragionevolmente di lui cb be a dire
ilLindeno: Quid horum eft, quod fenfus teftis omni exceptione major manifefta
fallitatis etiam Anatomi corumpueris damnate.convincit? Ma non però di meno fep
pebenegliil Campanella da quel gran Padre di Chicas Santa,GiovanniCrifoftomo
appararc, che'l nutrimento p una cotal cortiliffima foftanza; la quale ſpirito
appella Cri foſtomo, dal cervello infieme colfenfo, e col movimento all'altre
membra degli animali fi difpenfi;comechèpai egli di ciò dimenticato,altramente
favelli..: Ma che direm nai del fiſtema di lui, della nuova arte di
medicare,ch'egli ne compone? Vuole eglicol Telefio il caldo ſolamente,
e'/freddo effer primi principj di tutte co fe, i quali egli chiamaagenti: e
l'umidità, e la ſiccità ef fer ſolamente diſpoſizioni della materia, ceffetti
di quelli; intanto che la materia delcaldo aflottigliata divenga umi da: e ſi
rondafecca, ingroffata dal freddo. Ne l'umido có altro può accompagnarfi, fuor
folamente che col caldo: nè'l ſecco con altro, che col freddo; perciocchè
ſel'umido s'accompagnerebbe col freddo: 04 fecco col caldo, dice eghi, che
ſarebbon da quelli toſto diſtrutti. Anzi dice egli, che'l caldo fia cagione
dell'umido.: e'l freddo del ſecco; perciocchè il caldo ſolve le coſe, e le
allarga, e l'aſſorti glia: e'l freddo per contrario le indura, le ſtrigne, e le
co ftipa. E queſti due principj dice egli effer foſtanze, o for me eſſenziali,
de quali accozzate alle lor materie formino il Cielo, c la Terra; perchè anche
due, e non quattro vuo Ggg 2 fe egli, che ſian da dire gli elementi. E le forme
dice efier nuovamente introdotte nelle coſe dalla potenza della na tura agente,
non già dal feo della materia cavate. Maquel,che più è ridevole in lui ſi è,chc
dice egli eſſer: altri principj incorporei, che régan parte nel componiméto
delle colc; daʼqualivuol egli, che prenda dirivo ciaſcunas operazione la
qualda'volgarifiloſofanti alle qualità occul te delle coſe s'attribuiſce. E
queſti principj incorporei, o primalità, ch'egli chiama, vuol egli, cheſiano
lapotenza, la ſapienza, e l'amore; onde ciaſcuna coſa voglia, poffaw, e
conoſca:onde anche quella prenda naturalmente ſenſo della propia conſervazione.
Ma quanto poco vero fia sì fatto diviſamento de’princi pj della natura,non fa
meſtier, ch'lo ſpieghi; potendo cia fcuno per fe agevolmente avviſare, non
ſolamente il caldo, e'l freddo effer nella natura, ma altre, e altre coſe diver
filime da quelle; ſenzachè non ifpiegando il Campanella la natura del caldo, e
del freddo in che veramente conſiſtay mal può inveſtigar poi, non che
dichiarare, fe quelli vera mente operino, e come; imperciocchè ſovente
egliſoftá ze chiamandole,par che ne voglia certamente uccclare; poichè egli
medeſimo dice, la materia ſola eſſer propiamé te ſoſtanza, e non altro; perchè
manifeſtamente s'avviſa, che il Campanella nel primo ſuo filoſofare, e in ſu la
ſoglia appunto di quello ſconciamente fdrucciolando cadele: e grandiſſimo
tratto dalla vera ſtrada della filoſofia forvia to erraſſe; perchè
poicertierrori, e aggiramenti gliene ſeguirono, che nulla più; prendendo egli
in cambio della mido il diſcorrente, che è ſuo genere, e non iſpiegando la
natura di quello, ne del ſecco, o del dolce,, o dell'amaro, o di tuce'altre
ſenſibili qualitadi. Negran fatto v’abbiſo gna a dimentirlo delle operazioni
de'ſuoi principj;percioc chè per ciaſcun, che riguardiall'acqua, che per lo
freddo congelata fi rarifica, agevolmente ſi può avviſare, che non feiapre il
freddo condenſi le coſe. Mache è ciò ch'egli di ce, che le coſe inanimate
abbian ſenſo certamente a ciò credere, per tutti gli argomenti del mondo, ne
egli,ne il Tea lefio, ne l'Elmente,che in ciò volle ſeguirgli, m’indurreb bono.
Ma ſpiegar poi non può egli in modo quelle ſue prima lità, c'huom finte da lui
non le creda, e aver la loro eſiſté za tutta nel cervello ſolo dell'autore;
perchè non sà cgli dir neanchecome vengan quelle a incorporarſi nelle coſe ſen
fibili dell'univerſo,eda far tutte quelle maraviglioſe ope razioni, che da lor
procedere tutto dinoi veggiamo. Ma per darci ad intendere, che le coſe tutte
abbian ſenſo, do vea certainente egli prima farci vedere in quelle gli orga ni,
i quali render le poſſano del ſenſo capaci. Vuole il Campanella,che l'huomo ſi
componga del fal do, dell'umido, dello ſpirito, e dell'anima; e che la ſal
dezza dalla denſità naſca, e queſta dallo ſpeſſo, e fulto ac eozzamento delle
parti ſi componga; perchè dice egli, che le coſe condenſe, e falde, sì
attamente, che di vantaggio più riſtrigner non fi poſſono reſiſtano al toccamento,e
fem brin dure.E d'altra parte dice naſcer l'umidezza per diſa gio di parti;e
per alkargamento diquelle che ſon diradate,e folute, dice eglieffer la
ſpiritualità: la qual non che reſiſta al toccamento, anziella dileguiſ
immantinente,e fugge da ognjintoppo. Ma purdice egli alcune volte gli ſpiriti
operar faldamé te per l'unione non già corporale, ma ſicomeeglichiama,
affettiva:dalla quale invigoriti incontro la forza, che lor fatta viene,
riſcuotonſi quelli, e combattendo diſcacciano ciò, cheloro è d'impedimento.
Soggiugne il Campanella, ch’alle parti ſaldefaccia me ftier dell'umide per
dover nutricarſi delle parti di quelles più groſſe, e per non dover ſeccarſi,
erõperſi:e per cõrra rio l'umide delle falde abbiſognare, come divafo, o di ri
cetto, che loro dia luogo,e le ſoſtenga. Ma agli ſpiriti,di ec egli, far luogo
le parti umide,acciocchè dalla lotti gliezza diquelleſi nutrichino: e le falde
ancora, acciocchè appiccati quivi dimorino, e non ſi portin via; e per con
trario l'umore abbiſognare dello ſpirito, acciocchè quello premendo il cibo, e
traendone il fucco, il formi: e ſomi gliante, acciocchè per quello ſi riſcaldi,
e diſcorra; e al ſaldo ancora convenirli loſpirito, acciocchè per quello ſo
ſtener fi poffa, e muoverſiovein concio gli venga. E alla perfine dice egli che
l'anima abbia ancor ella biſognodello ſpirito, acciocchè per opera di quello
itu dioſamente muova il corpo, e la ſcienza delle coſe natu rali apprenda;
perciocchè l'anima da'corporei oggettief ſer non può mofla,ſe nonſe permezzo
dello Ipirito: dalle cui paflioni ella vien rattenuta, o reſa prontaalle ſue
ope fazioni. Ma lo ſpirito allo incontro haegli ancor biſogno dell'anima in
quanto egli è umano: e acciocchè maggior. mente egli perfecco ſi renda nelle
ſue primalità, e più valo roſo nelle ſue operazioni, e più ragionevole nel
reggimen to delcorpo. Main quanto eglièanimale,1100 chemeſtier gli faccia
l'anima, anzi egli fortemente contro quella com batte, maggior capital facendo
degli agj propj di ſe, e del fuo corpo,che de celeſtialidell'anima. Adunque
dice egli, effer corali vicende fommamente neceſſarie a ben viverle genti; che
le alcuna per mala ventura in quelle traſandaffe, toſto le malattie mettan
fuora: le quali ſciogliendo l'uma na compoſizione, ne diſpongono alla morte. Ma
quali ragioni adopererò lo per mádare a terra si fat to fiftema, e rintuzzare
il diviſamento del Campanella? Egli non ha dubbio veruno, che nella maggior
parte di quello cotanto egli dalla natura s'allontani, e trafandi,che ſenza
ch'Io l'accenni agevolmente ciaſcuno per ſe medefi mo il può avviſare. Ma
s'egli pure fondar voleva ſiſtema di razional medicina, conveniva in prima
molto bene la natura del corpo inveſtigare, e di ciò che a quello avvenir poffa:
ficome fecero quegli antichi greci filoſofanti, i quali egli follemente in
quella piſtola,ch'egli ſcrive al Gaffendi forte biaſima, e riprende. La qual
coſa egli certamente nonfacendo, comechè egli col ſuo acuto intendiméto mol ti,
emolci errori di Galieno, e de ſeguacidi lui ſcoperti aveffe: pure per
manchezza non poco danno gliene ſeguì; perciocchè egli così poco acconciamente
della natura del le malattie, e delle cagioni,e de'ſegni e delle cure di quel
le imprende a ragionare, che ineritevolmente ne fu ſghi» gnato, e carminato da
tuttimedicide'ſuoi tempi;non pe rò dimeno fra cotante fue ſconcezze famoſa:
ſenza fallo fi è quella ſentenza, ch'cgli reca intorno alla natura dellow
febbre: ne ſaper puoffi, ſe egli dáll'Elmonte, o pur l'El, monte da lui tolia
l'aveſſe; imperocchè ſcriſſero coſtoro nelmedeſimo tempo; ma ad amcnduc n'avez
dato forfe cagione disì. Fattamente filoſofar della febbre Roderigo Veig... Io
la rapporteròcolle proprie parole del Cápanel la: Febris, dice egli, eft
fpontanea.extraordinaria fpiritas agitatio, inflammatioque ad pugnam contra
irritantem mora bificam cauſam: quam fic.calefacit, agitar, digerisque, red
ditque expulfioniapsan, vel extinétioni', velmeliorationi. Macomechè la febbre
tutto ciò faceffe, nonperò di meno offendendo ella ſoprammodo le operazioni, è
ella cert2; mente da dir malattia; ſenzachè Io non ſolo, come lo ſpi rito poſſa
aver ſentimenti: e non altrimenti, che s'egli ani mal foſſe, quando gli metra
bene, riſcuotaſi, e s'apparec chj di combattere contro ciò che'l molefta, e gli
reca in toppoalle ſue operazioni. Cofia, la quale delcervellodel Campanella
fofamëte,e:dell'Elmonte immaginar ſi poteva: Ma intorno a medicamenti,
eglivuole,che la cura quan to a ſeda far ſia perli contrari: ma per accidente
talora dal le cofe comigliantiancor ſi elegga; e alcuna fiata gli uni,ė gli
altri meſcolando compor fi convenga, acciocchè il foa migliante appiccandoſi
alfomiglianteaſe l'attragga;quin. di il contrario combatrendolo il difçacci.
Orcome egli fti ma le genti disi groffa paſta, che ne vuol far Calandrinis
dandone a divedere sì fatre favole x Reca égli in pruova il fapone: fiquidem,
dice, Sapone ex oleo, cinere, da calces confefto maculas olei ex panno
extrabimus: oleo invitantej oleum, & alliciente: cinere, calce fimul
expellentibus, Quare, ſoggiugne poi, maculas vini ex calce, di vino fa. pone
confecto educes; fihanc nofti magiam. Ma doveva av viſar pure il Campanella,
non già per la fomiglianza, che pulla opera, l'olio con l'olio fi meſcola, el
vino col vino; i mil 424 Ragionamento Sesto 1 1 ma per la figura, e per la
diſpoſizione delle loro particel le; e doveva egli pure inveftigar la cagione,
per la quale la cenere, ela calcina radendo l'olio della veſte,allettaco. come
egli dice, dall´altro olio, quello ne portin via; per-. ciocchè ſe a ciò egli
badato avrebbe, ben ſarebbeſi accor. to coral purgamento altronde non naſcere,
che dalla figu ra delle particelle de'ſali di quelli, i qualiſe mai loro ven
gono colti, la calcina, ne la cenere, ne anche il ſapone, che di lor fi lavora,
non ſaranno d'efficacia alcuna; ſenza. chè fe per fomiglianza è, che l'olio del
ſapone attragga l'olio dalle veſti, e con la ſua amicizia ne lo ſpegoli, e dia
vella:qual ſomiglianza giammai ritroverà il ſapone in curtº altre macchie de'
panni lini, che così gli imbianca so puc Laſciando il ſapone, qual ſomiglianza
avrà egli il bucato con quelle: 0'1 fummo del ſolfo colle macchie de'veli? cer
tamente non altra, che quella,che ha la granata colla ſpaz zatura della caſa, o
l'erpice, elamarra colle zolle. Soggiugneil Campanella, che quando ſi vuol
preſcrive re purgativa medicina, ineſcolar ſi debbano talora i ſimili
co’contrarj, appunto come il ſapone da lui diviſato;accioca chè i ſimili
ateraggano'a ſe gli umori, ei contrari poi ſcac ciandogli fuora gli purghino. E
quinci, dice egli, nella compoſizion dell'utriaca ſi meſcola la carne della
vipera, acciocchè dal veleno di quella il veleno s'attragga, e dagli aromati
poi ſi diſcaccj. Ma alla Croce di Dio, chi non ſa, o chinon ha per pruova
avviſato,che la carne della vipera non ſia veleno? Perchè falſo, e vano eſſendo
affatto il ſuo diviſamento intorno alle compoſizioni de’medicamenti: come, e
quando de ſomiglianti,ede'contrarj, o ſemplici, o meſcolatinelle cure delle
malattie ſervir nc convengu: a'conſigli di lui certamente in niun modo attener
nedob biamo, fe a liero fine delideriamo i noſtri medicamentido ver riuſcire.
Fu egli ancora cotanto poco fcorto della natura de' me dicamenti, che per tacer
d'altri falli in ciò da lui preſi,dif ſe egli, che le coſe fredde non ſi
convengano puntoal le cargo: perciocchè eſtinguino gli ſpiriti; e pure il
caltoreo, il quale è argomento acconcio aſſai ad affrenar la violenza di quel
folto, che cagiona il letargo, avvalora gli fpiriti. Dice egli ancora, che
l'antimonio crudo gagliardiffimaw medicina ſia. Mapiù ſconciamente egli
trafanda in pre ſtando fede alle fraſche del Maeſtro Agoſtino del Roſli in
quella ricetta, in cui colui dice, che ſi tragga il mercurio dell'argento, e
che quello ſi meſcoli, e s'uniſca con l'arien to vivo volgare per dover
lavorarne il precipitato da cura re il mal franceſe. Ma ridevole ſopra tutto ſi
è quel ſuo di viſo di dover colle ventoſe d'oro trarre il inercurio dall'of ſa
degl'infermi:fi Hydrargyrus,dice egli, offa penetrarit,nec expellipoffit,
cucurbitulisex auro confectis facilè educitur, tractione vacui; Sympathia
fimulnaturarum. Ma comechè in molte, e molte coſe, ficome accennato abbiamo
falli il ſiſtema del Campanella, e ſia ſopra de boliſſime fondamenta murato;
impertanto non è affatto da ſpregiare quel ſuo libro della medicina; perciocchè
può egli a chi ſaggiamente l'adoperi non poco giovamento recare; eſſendo nel
vero egli ſtato un de' maggiori inge gni e più valoroſi, che la noſtra Italia,
e'l noſtro ſecolo ab. bia alleyati. Ma Roderigo Caſtello anch'egli della
debolezza della medicina di Gilicno reſo avveduto,imprende forte a com batterla,
e mandarla al ſuolo; e proteſtando di dovere gli inſegnamenti del ſuo Ippocrate
ſeguitare, ſi biaſima oltre modo delle dottrine d'Ariſtotele, e di Galieno, e
diſtinta mente egli i loro falli ſcoprendo va dagli antichi Greci filo fofanti
ad accattar contezze di buona medicina; ma non gli venne cotanto fatto, chenon
deſſe anch'egli in iſconcj, e biaſimevoli errori, giudicando follemente in
prima eſle re gli atomi delle prime qualità forniti; quindi in tanti, e sì
grandi vaneggiamentie' traſcorre,che lungo ſarebbe quì ad uno ad
unoannoverargli. Ma ſopra tutto fi ftudia egli di darne a divedere ciò che il
Paracelſo prima di lui inſegna to n’aves: cioè a dire, che il mondo picciolo
ritenga in fer tutte le parti, e tutte l'apparenze, che nel mondo grande ſi
veggono. E mentre egli da ciaſcuno qualche ſentiinento Hhh imbolando
s'argomenta da cotanti meſcolamenti ſconcj, e mal conformi far forgere un nuovo
ſiſtema di medicina propio di ſe, filoſofandoora col Paracelſo, e ora con Ga
lieno, avviluppa il tutto, e comediſſe colui, Confunde le dueleggi a ſe mal
note. Ma egli convien ora far parole dell'ingegnoſiſſimo ſiſte ma di medicina
diGiovan Battiſta Elmonte; il quale,a vo lerne liberamente dir ciò che me ne
paja, aſſai più felice lun go tratto fu in abbattere, e ſpiantare gli altrui
edifici,che in fondare, e in iftabilir fermamente i ſuoi, comechèdimol ti, e
molti nobili, e utiliſſimi ritrovati venifle fatto alla ſua induſtria
d'arricchir la medicina. Il materiale principio di tutte le coſe ſenſibili
dell'univerſo, appo l'Elmonte,è l'ac qua, non intervenendo nella compoſizione
de'corpi miſti altramente l'aria, ne il fuoco, come quello, che non è ſo ftanża,
ne accidente, ma morte delle coſe; argomen taſi provar una cotal fua opinione,
con dire, che ciaſcuno corpo del mondo poſſa ſempre che ſi voglia in ſale
căbiar fi; e'l ſale poi per opera del circolato del Paracelſo, in ac qua
d'altrettanto peſo ridurſi. Oltre a queſto dice l'Elmo te l'acqua eſſer
ſempliciſſima, e benchè contenga ella in qualche modo il ſale, il mercurio, e'l
ſolfo,i quali da quel la per natura', e per arte ſeparare giammai non ſi
ponno;ne ſono veramente ſale, folfo, e mercurio, come tali da eſſo appellati,
per eſſer a quelli ſimili, e per non ſapergli altri menti ſpiegare; no vuolc
egli però, che l'acqua di ſolfo, di fale, e di mercurio coinpoſta venga. Ma che
che ſia dicið egli ſcorgeſi apertamente, che l'Elmonte non manifeftis pūto,
come far ſenza falloe'douea, che coſa l'acqua vera mente fiafi; ne fpiega di
qual natura fornita l'aveſle L'alta cagion, che da principio diede A le coſe
create ordine, eftato; anzi egli manifeſtamente confeſſando di non ſaperne boc
cata, conforta, e rimuove chiunque d'imprender la natura dell'acqua s’affatica:
così di quella dicendo, Quis unquam mortalium novit quid fit aqua? qua tamen
creatorum eft maximè obvia, aperta,viſibilis,atranslucida? tantum enim de ea
fcit rufticus, vel idiota quantum philofophus:něpè æquam liter illam concipiunt
per obſervationem fenfuum: quod fit.corpusgrave, liquidum, humidum,digitocedens,
fluidum, amotoque digito ſerecludéns, calorisſuſceptivum,attenuabia le in
vaporem:nemo tamē novit internam aquaquidditatem, vel quare liquida
fit,anhumida. Ma in vero egli ha il corto l’Elmonte a ragionar sì fatra mente
dell'acqua; imperocchè s'egli così ſolamente di.com loroſchiamazzatoaveſſei
quali a coſto dicicalecci apprefa fo il volgo,il nobile, e laudevol titolo di
filoſofanti compe rar ſi vogliono,vero per avventura egli detto avrebbe; im
perciocchè affermado eglino l'acqua eſſer un tal corpo dal la natura compoſto,e
meſcolato d'atto, e di potenza, ei freddo, e umido, ne ſpiegundo poi qual ſia
l'atto, per lo quale l'acqua a partir ſi viene da cuce'altre coſe, che acqua
non ſono, e in che conſiſta la potenza, e come ſi maturi nell'atto, e venga a
perfezione, sì che acqua, se non altra coſa più coſto quella divenga: ne
diviſando, che coſa las freddezza fia, ed onde avvegna il diſcorrimento, ne per
qualcagione alcuni de'corpi liquidi, e corſoj, umoroſi an. cor ſiano, ed altri
no:nulla certamente vengono ad inſe ghare intorno all'acqua, ne più di ciò
che'l popolazzo mi nuto ſenza il lor diviſamento ne ſappia. Ma fe l’Elmonte
aveſſe mai ben fiſamente riguardato 2 * dialogi di Platone, e a que'pochi
mnaraviglioſi avanzi del le divine opere, ch'ancor fi riſerbano di Democrito, o
al diviſar degli altribuoni filoſofanti: o pur s'egli, ficome conveniva, dagli
effetti rapportati, di penetrar poipiù ad dentro nelle cagioni di quelle
ſottilmente ſtudiato ſifoffe: o alla natura de' corpi diſcorrenti aveſſe poſto
mente: Io ſon ben certo, che in cotal guila dell'acqua egli ragiona. to non
avrebbe: e altro certamente egli principio di tutte coſe naturali, che quella,la
cui natura di non ſaper libe raméte cõfeffa,determinato
avrebbe;perciocchèconvenen do tuor d'ogni dubbio all'acqua il diſcorrimento, a
queſta guiſa poteva ben egli riuſcir nella più ſicura ſtrada da avvi. far la
natura di quella. E certamente in ciò, che ſi apro Hhh 2 no, e ſi fendono
agevolmente i corpi diſcorrenti, e da cida ſcuna parte anchemenomiſſima, in
ogni tempo ſon pene trabili: e dallo ſpargerſi di quelli, e diſcorrer
liberamente per tutto: e dal riempiere gli ſpazj, e adattarſi agevolme te alla
figura del vuoro, che ingombrano, intanto che al tra forma non hanno fuor
ſolamente quella, che loro da vali, che gli contengono, e chediſcorrer non gli
lafciano, vien preſcritta: e dall'avviſare, che ogni particella loro
participando delle medeſime propietà di eſli, diſcorrentes anch'ella fia:
ottimamente raccoglier egli poteva dovere eſſer icorpi diſcorrenti compoſti di
menome particelle, i1f ſenſibili, e tra eſſo loro in atto partite, e fpiccate
per un.. cotal movimento continuo, che non mai le laſcia appicca re, e
congiugnerſi inſieme. La qualcoſa egli avviſando agevolmente fatto gli veniva
di poter la natura dell'acqua apparare, e si riparare all'ignoranza, ch'egli di
se medeſi mo ne confeffa; concioffiecoſachè eſſendo l'acqua oltre modo
diſcorrente, egli è da dir che ſia un'accoglimento di menome, e inſenſibili
particelle, le quali sì fattamente fixo no accozzate,eammaſſate inſieme, che
ſembrino a'noſtri ſentimenti una ſola coſa: avvegnachè in atto elle ſiano fe
parate, e partite,intanto che inſieme non maiforte fi ſtrin gano, ne meno per
alcuno de’loro lati: e ſeguentemente continuo ſi muovano. E ſcorto egli avrebbe
altresì noi avvenir loro sì fatto movimento dal caldo; concioffiecofa chè
l'acque, comechè fredde elle fiano, e poco mé che ag ghiacciate: non però di
meno non ſono elle meno diſcor rentije-ſdrucciolevoli delle calde,ſe non già
ſiano in ghiac. cioammaſſate;perchè avrebbe eglicertamente detto che'l
movimento, checosì l'acqua ſciolta ritiene, abbia le par cicelle ſue, o da ſe
medeſimo, o altronde che dal caldo a: quelle comunicate;: perciocchè l'acqua,
almeno perquel che noi avviſiamo, cede cheta al toccamento, e da luo go a ’
ſaldi corpi ſenza vederſi. ella punto muovere: e di lataſi a'raggi della luce:
e riceve entro di ſe particelle di ſale marino, e d'altri corpi cheper la
ſomiglianza, che hā no con quello, parimente eſſi vengono ſali appellati: avve
gnachè muovēdo in noi molre,e diverſe varietà di ſentime ti nell'organo del
guſto, convengano eſſer diverſamente foggiati; i quali corpi penetrando per mezzo
effe particel le, ingombrano gli ſpazj piccioliſſimi tramezzati: o pure
ingombrano gli angolije i cătoncelli che quelle colle for fi gure formano,
intanto che vi ſi poſſano acconciamente le diverfe figure delle particelle
faline allogare. E moltise molti d'effi tramezzamentiper tal maniera compoſti,
e or dinari ſono, che agevolmente per entro, e ſenza niun rite gno diſcorrer vi
poſfä fa luce. E oltre a ciò riguardando l'Elmõte all'operazioni dell'acqua,
avviſato ben'egli avreb be eſſer quella un di que' corpi diſcorrenti,
ch'agevolme te a'ſaldicorpi s'appiccano, i quali tanto, o quanto fier poroſi: e
che fi fpargano ſopra tutti quelli, e penetrino lo ro dentro, c talotta anche
in parte, o in tutto gli ſolvano; perchè comunemente diceſi l'acqua eſſer
umida. E come chè egli nc ſembrieſſer l'acqua tenera oltremodo, e molo le; non
però di meno egli alquanto d'aſprezza avviſato an che v'avrebbe, avvegnachè
dipoco momento elia fia:non iſpiccadofi l'acqua agevolméte da'corpi ſaldi sì, e
talmen te,che quelliaffatto sgocciolati nerimągano; e quincianch ' egli
comprender avrebbe potutonó effer le particelle dellº acquada tutte parti
cotanto terſe; e liſciatesquali per av vécura iminagina ilDeſcartes.Alle quali
coſe tutte ſe l’El mõte ben fiſamente riguardato aveſſe, certamente egli ar
gomentata n'aurebbe la figura d'effe particelle, ficome ferono già ne’primi
tempi Pittagora, Timco, Platone, altri, i quali la immaginarono icafoedrica: 0
pure ſicome de’giorni noftri l'accennato Deſcartes, il quale giudicata l'ha
cilindrica, e pieghevole, e guizzante a guifr d'anguil le: 0 ficome
l'incomparabil filoſofante Gio: Alfonſo Bor relli, il qual.cosi'ne favella:
lanugo quedam tenuis, &de bilis inveſtiens.quodlibet aqua minimum, ſcilicet
concipide bet interna, & individua qualibet aquæparticula, ſolidad's
&dura: cujus figura octaedra. E avvifato ancora l'Elmon te avrebbe eſſer le
particelle dell'acqua d'una medeſimas foggia infra loro, o almeno poco
diſſomiglianci; la qual forma loro, o affatto non ſi può in altra cambiarc, o
egli è cotanto malagevole, che grandillima fatica meſtier vi fa rebbe a ciò
operare; ne fino a'tempi noſtri ciò ad alcuno è venuto fatto, ne mai, per
quanto Io poſſa comprendere, certamente verrà per innanzi:acciocchèin altra
figura l'ac qua ſi tramuti. E ciò egli anche avviſa l’Elmonte, e vera mente per
ognun yedeſi, che non riceva l'acqua fcambia mento alcuno ſenſibile:avvegnadio
che a qualunque ingiu ria ella ſi eſponga., o di caldo, o di freddo,o di altra
imma ginabile qualità; ſe non ſe riſerbandone ſolamente quella, che ella in
agghiacciando riceve, o riducendoſi in vapore; per le qualiè coſa manifeſta, e
all'Elmonte ben conoſciu che non già la figura delle particelle dell'acqua, ma
il ſito ſolamente, e'l movimento di quelle ficam bia.Maſenza far tante parole,
l'acqua racchiuſa entro una guaſtadetta ermeticamente, come ſi dice, ſuggellata
das Criſtofano Clavio, la quale dopo cotant'anni nel Collegio Romano della
Compagnia di Giesù dimoſtraſi: ella s'avvi ſa non punto dall'eſſer ſuo naturale
mutata; e altre acque ancora per più,e più ſecoli intere,elane pariméte li fon
mā tenute séza ricevere oltraggio veruno dal tépo; perchè ſen za fallo è da
dire eſſer quelle di tempera dura, emalage vole aſſai a ſolverſi,
dall'onnipotente facitore da prima fabbricate: Adunqueragionevolmente può dirſi
dell’El. monte, che de'principi delle coſe naturali Nonpinſe l'occhio infino
alla prima onda. E per avventura dobbiam noi confeffare, il medeſimo
all’Elinonte eſſergià intervenuto, che in prima di lui al Pa racelſo fortito
era: che ove maggiormente egli ſciarpillar figli occhi perpiù veder
conveniva,quivi tralandındo,più, ch'altrove ſerrati gli aveſſe; ed avvegnachè
di ſottiliſimo intendimento, emaraviglioſo foſſeſi l'Elmonte,pure abba gliato
al troppo luine della natura per troppo veder rintuz zato ſi fofle și come
ilſol, cheſi cela egli ſteſſo Per troppa luce, quando il caldo ha roſe Le
temperanze de'vapori Speli: c firta e fatto groſſo dall'abbondantiſſimapiena de
curioſi:fegreti di quella Quaſi torrente,ch'alta vena preme foverchiando il
letto, ed allagando le prode;pertroppo ri goglio diſperſo ſi foſſe. E quinci
certamente viene, che nello ſpiegar l'economia degli animali, qualche fiata
ricorre ancoregli alle facoltà, nonmeno,cheGalieno fi aveſſe fatto; ne di ciò
pago pro duce egli in mezzo alcuni ſtrani arzigogoli, e nuovighiri bizzi del
ſuo cervello:altri ne toglic in preſto dal Paracel fo, come gli Archei, i Blas',
i Magnali;e quelFormento, il quale per dirlo colle ſue ſteſſe parole, eft ens
creatum form male, quod neque fubftantia, neque accidensfed, neutrum » per motum
lucis ignis magnalisformarum conditumàmundi principio in locis fue monarchia,
ut femina preparet;exiſtat, a precedat; con che', e con altre molte fue
fantaſie, le qua li lo per non rediarvinon ridico, da apertamente a divedere
l'Elmonte, ch'egli non già nel mondo noftro, di cui tutto di nuove, c nuove
maraviglie egli ſcopriva,main un mon do da lui immaginato filoſofava. Tanto, e
tanto poi egli involto fi fu nella notomia vita le, ch'egli traſcurò la morta,
ne di queſta ſeppe altro di quel, che n'era ſtato già ſcritto; perchè
alcuniaffatto non ſeppe', ed altri, poco curioſo non curò de’modernitrovati; i
qualimolto approdato avrebbono; rendendo ad un'ora più credibili, e manifeſte
alcunedelle ſue opinioni; perchè sé bra ', che forſe non abbia tutto il torto a
morderlo, e biaſſa marlo il Gliſſonio, quando così di lui diſſe; hic auctor,
utu eunque acerrimi ingenii,in eo fuitminus felix, quod.veteri placitis
rariffime aſsétitur,& vix,nifi in iis rebus,in quibus il li ex certisſimis,
demonftratis neotericorum obſervationibus manifeſte coarguuntur Ma ſe dalla
maniera del medicare argomentar lece il va lor de’ſiſtemi della medicina,
certamente in ciò quello dell' Elmonte tutt'altria molto ſpazio ſilaſcia
addietro. Per ciocchè oltre alla contezza delle buone, e valevoli medi cine,,
ch'egli ebbe pronte così ſempre fra le mani, cotan to egli vanraggioſli negli
ſtudi del ſuo meſtiere, e di si acum to intendimento fu, ch'avviſando i
graviflimi danni, che per li ſalaſſi, e per.le purgagionipoſſono intervenire:
e'l veleno, che per entro quelle ſi naſconde: così nimico ne fu, e così ritroſo
d'adoperarle, che come confeſſa Andrea Cel lario, comechè Galieniſta ', baud
paucis medicam artem profitentibus oculos aperuit. Ne laſcioſſi in ciò menare
alla piena del ſecolo,oalla famoſiſſima rinomea del Paracel lo, che non aveffe
egli ſolamente intefo quelle medicine, operare, le quali ſenza recar moleftia,
o noja alcuna allo in. fermo, fan vuotare ſolamente ciò che cagiona il male.Per
chè egliin cotanto pregio,e onor crebbeneadoperando ciò anche nelle più gravi,
e pericoloſe malattie, che daGalie niſti medeſiıni, non che da altri, ne venne
ſommamente commendato, e quaſia miracolo tenuto. Così infra gli altri Andrea
Cellario in facendo parole di lui, e del Paracelſo nel terzo tomo dei fuo
Atlante celeſte, Chymicarum, dice, operationum adjumento admiranda hatte nus
præftiterunt, ac talia medicamenta produxerunt quæin morbis illis natura humana
penetrantibus arêtius, altius fe infinuantibus, & remediis à natura
productis cedere ne Sciis, primas terent, &vulgaria medicamina longe
ſuperăta E per tacer di Daniello Orftio, Nicolò Franchimorc famo fillimo
maeſtro infra'Galieniſti nell'Accademia di Praga, in una piſtola mandata
all'Arciveſcovo di Colonia,dilui di ce: Helmont pater tanti fiebat Bruxellis,
ut non niſi deſperati ad illum quafi ad ſacram anchoram confugerent: quorum non
exiguum numerum ab orcifaucibus eripiebat; enon ceſſaro no i rabbioſinimici
d'orrevolmente commendarnelo, ſtret ti a ciò dalle maraviglioſe cure di lui,per
tacer de’liberi mc dicáti Frāceſco Glišonio, cd Olao Borrichio, che nó ſi veg
gion mai ſtanchi di ſommamentelodarlo. Ma cotantielo gj pur nulla fono in
riſpetto di ciò, ch’in ſua loda vantano i più nobili filoſofanti del noſtro
ſecolo, ciò ſono il Gallen do, elBoile, ed altrimolci di non poco pregio. Ma
doler ne dobbiamo eternaméte dell'Elinõte,come di quello, che niuna delle ſue
nobili, e prezioſe incdicinema 1 wifeſtar ci abbia voluto, e quancunque
ilParacelfo nie al tri valenci Chimicigliene aveſſero dato eſemplo; non do vea
pure egli, che sì corteſe, umano, e compallionevole dell'altrui miſerie
unquemai moſtroflisin ciòimitargli. Ne da coſa, che di tanto pro era al mondo
rutro,dovea diftos lui, lamalignità d'alcunimedicanti, i qualificome uſura
parono ingiuſtamente gran parte de' ſuoitrovati ſenza fag di lui menzione, così
parimente avrebbon fatto delle ſues medicine. Ma ſe egli più lungamente
l'Elmonte viſſuto foſſe, con dar compimento alla ſua maggior opera, che la cera,
ed imperfetra in man del ſuo figlio rimafe, avrebbes forſe di sì fátti
medicamenti alquanto più apertamente fas vellato, Ma affai più tardi certamente
di quel, che fi richiedev. per avventura miſeſi in alletto Pier Giovan Fabbri a
dar cominciamento all'opera del ſuo novello ſiſtema della ra zional
medicinazimperocchè egli da prima dietro la vanità dell'Alchimia per convertire
in oroi più vili metalli conſu. mò lungo tempo, ed appreſſo trapaſsò ben ſei
luftti medi. cando altrui, ſicome egli ſteſſo confcſſa, ſenza alcun fruta to
mai ritrarne; ne maigli venne fatto di ritrovare in tutto quanto quel tempo
medicina, chevalevole a domarfolie le malattie; e quantunque egli dì, e norte
ſtudiato avelle attentamente ne’libri d'Ippocrate,e di Galieno, e molti cu
daveri aperti d'huomini, e di bruti, per inveſtigar l'efficie ti, e le
materiali cagioni dc’mali: non mai potè giugnere a ravviſare i luoghi de'
putridi umori, ne in parte veruna di ſano, o d'inferm'huomo, o la collera, o la
flemma, o la malinconia putrefacte ſcorger giammai. Il perchè pres'e gli per
partito, di voler,laſciando le altrui autorità a nons calere,per ſe medeſimo
metterſi ne'più cupi pelaghi della filoſofia navigando; e poi i ſuoitrovati al
giudicio de'fa vj, e diſcreti eſtimatori delle coſe rimettere, così dicen do:
Si rationes mea, cu experientia non optimę videan tur, trutinentur,
&ponderentur diſquiſitione naturali, ut Aquid falſi continere
videanturrejiciantur omnino, Celia minentur prorſus à fcholis: quod fi vero
probe experiantur lii quid 1 1 434 * Ragionamento Sefto 1 quid ni. amplexabuntur,tutabuntur.
Primieramente avviſa il Fabbrila materia, onde fon le Senſibilicoſeformate
efferpalpabile, viſibile, e falda na giddiſtinguerſi dalla forma, la quale
fecodo luisaltro no es cheuna propriedeionatæ, virtùnella materia,laquale poits
chè è ufcica fuori sidiſtingueda lei,come dalla ſua cagio nel'effetto.
Ondeagevolmente può ſcorgerſi,che ſefalſe andato il Fabbriin si fatca guiſa
piùavantifiloſofando, faa rebbe egli per avventura a qualche buon
terminepervenu po: ma egli appenamefſoli in camino, ſmarrì il diritto fen:
tiero.. Immaginò il Fabbri la prina materia non eſſer.al extocheil fale
dell’Vniverſo nelquale il folfo ilmercurio, ed'un'altro ſale ſi contêga: e
credette ', che queſto medeſir no áveffe voluto dire Ariſtotele, la dove della
priina mate ria cosiofcuramente favella. Vuoldivantaggio egli, chę tutte le
coſe, omallimamente l'huomo abbiano dentro di ſe un tale fpirito volanto
oleremodo, e diſcorrente, di cui tutteleſueparticompoſtebeno, ed'onde tutte
l'operazioni della vita, e tutte quelle coſe avvengano, che ſi oſſervano
nellemalattie. Queſto ſpirito, dic' egli, che nel fegato e alquantogre /fo: ma
più ſottile nel cuore e ſottiliffimondi seżvello; naſcere:ad un parto colfeme,
e nel'naſcere venir dalle ftelle arricchito della luce, la quale ſecondo lui
èlau farma eſſenzialc, non ſolo dello ſpirito, ma di tutt'altres coſe del mondo...
Stimapariméte il Fabbri:altro veraméte non effer. Ja na tura, falvochelaluce',
e che dallaluce ilmovimento, e la quiete a'corpitutti dell'univerſo dirivi, e
ſecondo più, o meno, che lo spirito participidella luce, tanto più, o me,
noegli nelle ſue operazionivigoroſo, e potente divenga, Immaginaancora
ilFabbricheentrije penetri l'anima dell? huomo allo ſpirito, e che lo ſpirito
poia tutte le parti del ſuo corpo l'anima uniſcaaMa:Io pur troppo lūgone diver,
reiſe volcliquitute'altri ſtrani ſuoi diviſaméti narrarvijne midarò impaccio di
contraſtarglije gittarglia terra aduna ad uro ', facendomia credere, che
ciaſcun da per ſe in ſen dendogliraccontare,o.in legendogli ſia per accorgerſi
coſto della lorvanica. E cerramenteſe alcuna coſav'hadibuone no nel Fabbri
yella è colta di peſo.al Paracelſo, all’Elmon të, e ad altri valorofi Chimici:
marelle eſſendo poi da lui có altre volgariopinioniaccozzato vengono a perder
tāto del lor valore, che ſembrano prezioſegemme dal vil fangoia cretate. Or
quantoal fatto del medicare e'non ha dubbio, ch'al ſai dappoco ſi dimoſtraſſe
il Fabbris imperocchè tralaſcian, doda parte tutt'altre mal fatte fue cure:
nella peripneu. monia vuolegli, ch'abbondantemente abbia da principio a trarſi
ſangueallo infermo, c poi collc viole; e collo fpiri to del vitriolos o con
altri simili argomenti abbia z rinfre fčatli quel caldo, che collo ſpirito
della vita di foverchio nc'polmoni ribolla: ed il feguente giorno
coll'antimonio ábbia aprocacciarfegli il vomito, acciocchè con tal move mento
venga ad aprirli alcunapoftema, ove vi ſia. Ein tãto fi cibi l'infermo d'orzate
colſal della prunella, e collo { pirito del vitriolo.Orchi mai divifar potrebbe
più folli di vifaméti di queſti e ben per'talie'medeſimo gli conobbes poichè
altrove confeſſa, che le più valevoli medicine alla peripneumoniafianla verga
del Toro,e'lſangue dell'Irco. E certamente dagli acetoſi medicamenti, che altro
maiſe non ſe grave danno avvenirpotrebbe a coloro, che di pe ripneumonia
patiſcono; la qualgiuſta i fencimenti del Fab bri,dall'acetolità s'ingenera; e
oltre aciòcol purgare l'in fermo con sìpotente vomitivo, poich'egli è divenuto
fpof fáto, e fievole per l'antecedente falaſſo, qualpro ſe nepos trebbe per lui
fperare? mafopra tutto dal trar fangue, qual buono avvenimento ne potremo
giammai attendere? Ed o quanto fe più ſenno il Fabbri, allorche dall'Elmonte ay
viſato,de'ſalaffi altrove in altra guiſa favellando, ne diffes:
MirorParifienfium medicorumpertinacitatem, curationem febrium, & ferèmorborum
omnium in fanguinismisſione lar. ga, ocopiofa collocantium: cum fepe fæpius
caulja moru. borum, & potisfimumfebrium tam continuarum, intermite sentium
non refedeat in fanguine, imovirtus s proprietas: lii curana curandi morborum
omniü in fanguine collocetur,cum arcbeūs visalis fanitatis economus, &
morborum amniumcuratorin fanguine refideat: ea fublata,dlarga manu effufo
effundan, tur etiam unacumſanguine vitalisſpiritus, undevires tola luntur, di
diffunduntur, &perinde tota rotius corporis nad Cura debilis admodum fit,
do curatio etiam morborum omniū, que ab ipſa naturadependetevaneſcit;ita ut
loco illius fubfc quaturmors; aut incurabilismorbus, E quinciſcorger li puote
altresìchiaramente,quáro bere gol fi foſſe,e incoſtante ne'ſuoipareri il Fabbri,
e quanto malagevole; c dura impreſa lia lo ſcaricarſi delle falle opi nioni fin
dalla prima giovanezza concette, e per vere al. cun tempoi fermamente credute;
il che nella ſtoria della cure da luifatte più chiaramente ſi ſcorge;nella
quale fto ria, e nel divilainento altresì delle chimiche medicine po trebbe da
luiper avventuralealcămaggiore, epiù ſincerità d'animo ricercarfi; maciò
traſändando, quanto al ſuo liſte maſo replicherò, licome poco addietro
accennava, che troppo vacillante, e caduco e'fia,eche il Fabbri poco, o niente
non badando ad inveltigar la natura de'ſuoi primi principj,forz'è,ch'egli abbia
a rimanerſene fenza poter mai de’loro effetti aſſegnar la vera cagione. - Ma la
SignoraD. Oliva Sambuco, della quale lodovea molto addietro, l'ordine de'tempi (erbando,
far parolesar vegnachè ſtudiata ſi foſſe continuo di ſvilupparli dagli er: rori
de’mueſtri, e delle dottrine già da loro imbevute: pur tanto non potè ella
dimenticarle', che non vi frameſchiaffe qualche ſentimento di quelli talvolta
entro al ſuo ſiſtema Svétura nella quale i più famoſi filoſofanti veggőfiancora
incorrere; perchè la ſua medicina non altrimenti, che quel le deglialtri
razionali, è manchevole, e difertuofa; edan co tale ventura certamente le
avvenne, per non aver ellow avuta cortezza della chimica.Ma nocquenon poco
a'ſuoi divifamenti l'aver ella più di quel, che fi dovea,preſtata... credenza
alle parole di Platone; et non eſſerfi a que’rem pi aperca ancor la {trada
della vera filofofia. Immagina la Signora D.Oliva effer l'huomo ana travol ta
pianta, le cui radici fian nel cervello, onde un bianco fugo dipartendoſi ſe'n
vada il tronco, i rami, è tutto il ri manence a mutrire, tal ſugo bianco vuol
che ſia freddo, umido; mache nel fegato facendoſi roſſo: caldo, e umido
altresìdivenga; e che nel cuor finalmente ſcambiato in să gue, in caldo, e
fecco fi muri. Il calor del cuore crede ela la, che ſerva all'huomo, come it
caldo del ſole alle pian te; e che'l bianco fugo faccia l'uficio de quattro
elementis fcorrere dal cerebro cotal ſugo per la pelle, per li nervize per le
dilicate pellicelle, o membrane, che vogliam dire, delle vene:mapoiin roſſo, e
ſanguigno umor convertitos per altre vie, cioè per le vene, e per le arterie ritornare.
Or queſto fugo ove ſia malignato,fuor delle proprie vie sboce cando per
tutt'altre parti del corpo ſconvenevolmente an dar penetrando, contro il
provveduto ordinamento della natura. Tutto adunque il Florido,e vigoroſo ſtato
di queſtº arbore, vuolella, chedalle radici, cioè a dire dal cerebro avvenga:
la dove fc quella, che pia madre fi appella, la dura madre toccando, ftiano
ambedue ſollevate, e diſteſes e quali alcranio appiccare,
allorvederſiverdeggiante, e fiorita tutta la pianta: ma ſe mai divengan vizze,
o alqua to s'abbaffino, fanguire parimenre lei; e quando finalmen te la pia
madre ſia dalla dura totalmente ſtaccata allor non poter avere a niun modo più
vita. Con queſto trovato, o purcon queſta ſomiglianza dell'arbore, vaella tutti
i con. venenti della vita, e della morte, e della generazione, u della
corruttura dell'huomo, e de rimedi, e delle malatı tie acconciamente fpiegando.
Tali ſono i divilamenti dietro alla medicina della Signo ra D. Oliva; i quali
comeche pajanoin gran parte dal vc to lontani, purealcuni di loro ſon tali, che
non poffeno. fenza lunghi encomj, enon ordinaria maraviglia guardar fi;
edIomifarò lecito d'arrogare a sì valoroſa donnaquel che già della poereſſa
Sulpizix diſfè Giulio Ceſare della Scala:ut tamlaudabilis heroina ratio
habeatur non anime objicere ei iudicii ſeveritatem: Ma crapaſsado al ſiſtemadella
medicina di Tomaſo Vil lifio; egli ſipare, ch'in fula foglia appunto diquello
con ciamente fdrucciolandovaneggj. Imperocchèavendoegli Popinion d'Ariſtotele
rifiutata intorno a' principj delle cos fe, ficome troppo groſſa, e ſciocca: e
quella di Democri to, e d'Epicuro, ficomefoverchiamente ſottile, e da’ſenli
lontana: alla perfinc egli alnuovo diviſainenco de'Chimi ci tutto s'appoggia, e
vuolche ciaſcunacoſa di ſpirito (co sì chiama egli ilmercurio ).di ſale, di
ſolfo, d'acqua, e di terra formata ſia; perciocchè in quelli ciaſcun corpo
ſenga bilmente ſi riſolva. E con quelto cinque ſoſtanze, in ciò, che elleno
ne'corpi compoſtihanmovimento e proporziou ne, ſi ſtudiacgli, e s'affatica di
dar ragione dell'apparen ze cutre della natura, e ſpezialmente diquelle,ch'alla
mc dicina s'appartengono. E comechè egli apertamente con felli cotali ſoſtanze
non eſſer ſemplici, ma comporte, e me ſcolate; pur tutto il ſuo diviſamento quì
egli fermando,no fi prendepiù avanti briga di ſpiar di cheforte priacipj fora
fono quelli, onde le ſue prime cinque ſoſtanze ſon compo fte; anzi egli dice,
che non avendoviragionc, o ſtrada al cuna da potergli avviſare, ſciocchezza ſia
l'entrar nel fara netico didoverciò fornire:e qualunque coſa ſe ne dica eller
più coſto un grazioſo diviſamento, e voler giudicarc allas ventura, ea riſchio
delle.cofe del mondo, che conſaldez za di buona filoſofia ragionarne. Ma
quantochè egli con ciò di ſcagionar la ſua dappocaggine s'argomenti, imper:
tanto maggiormente in altri, e altri ſuoi divifamenci egli s'accagiona;
perciocchèa chiben vi ponga menre, tuttoil fuo filoſofare, avvegnachè egli
contro i buoni filoſofi fa vellando, dica procudere,autfomniare philofophiam me
nola le, lubens profiteor; altro nel vero egli non è, ch'un andare alla cieca,
e taftonc,ſenza certezza alcuna. Ma ciò laſcia do ſtare, o non s'avvede egli, o
s'infigne di non accorgerſi in dicendo chelo ſpirito una coral ſoſtanza
fortidiguna, ë voláte Gia; che spiegar uc doveva come cotal ſostanza s'av valli,
e fi deprima, c come poi ſi cſalti, e come con gli al tri principj ſi meſcoli:
c comc ammendi, e affreni i ftraboc chevoli diſordinamentidel ſolfo', e del
ſale: é comequela to tante, e tant'altre operazioni faccia, le quali egligliat
tribuiſce. Certamente non mai egli ſaper potrà diche. for te particelle quelle:
fiano, ondela ſottigliezza dello ſpirito diriva; e colcoccare, che colmuovere
ora in uno, oras ialtro modofogliono negli altri corpioperare. Eben'e gli
dovera (ficomca buon filoſofante ſi conviene, ilqual fondar voglia ſiſtema di
cazionalmedicina) dalle appareze degli effetti la natura delle loro
cagioniinveſtigare: cav vifare, chenon puòlo ſpirito effer diſcorrevole, ſe di
pre fente nonceda atutti corpi ſaldi, che perentrovi paſlino je perchèeglièda
dire', cheloſpirito ſia in molte, e moltes particelle diviſo: le quali continuo
movendo infra loro sé.. pre ſeparate ftiano;ne lo ſpirito,foctile,c volante
efferpuðn e per cutto perretrare, ſe le ſue particelle picciolitime non fono,
esì fåttamente foggiate, che molti gomiti 20 angoli, non abbiano. Neper
darragione dell'opere del ſolfo giova ſapere eſ fer quello, licomc egli dice,
di coſtruttura alquauto più groffa', emaggioredi quella dello ſpirito; e che da
quello nafca il calore, cla varietà de'cofori, e degli odori alle co fe, e l'a
lor bruttezza, e bellezza: c per la più parte la di verſità de' ſapori;
perciocchè quantımqne tutto ciò vero fi foffe,cheegli ſenza niuna pruova farne
grazioſamente, afferma, ben potevaeglidall'apparenze,che dal fólfo vega giamo,
argomentar, che le particelle diquello comeche, in continuo movimento anch'elle
fteano;ficome quelle dela 16 fpirito e fiano peròmeno pulite, e ſdrucciolantii,
calia quanto' famoſc. E què è danocare, come il Villiſio vada divifando
dellacomplellion del fuoco; egli dopoaver ava vifato effer quello
ſomigliantiſſimo alla materia prima de Peripatetici, in ciò che in tutto
partire in niuna dice quel, lb allignare, così poi faggiamente ſi ſpiega:Ignis
exfuina tura nullibi exiſtentiam, ac certum durationis modum obtin net.
Quindifoggiugne: formaignir omninòdepēdet à para siculisfulphureis infubjecto
quopiam agglomeratis.y - cona fërrimerumpentibus a quodque ignis nihil fit
aliud, quam ejuſmodiparticularum impetuofius concitarum motus, deras ptio.Ma
s'egliaveſſe mai poſtomente alle particelledel fol fo, le qualieſſendo di
neceſlità ramoſe, per la loro figuras non così acconce ſono a muover
velocemento, e a penetrar ne'corpi più duri, e fpeffi, ficome far veggiamo al
fuoco: il qual perciò dice Democrico aver gli atomi ſuoi ritondi: non avrebbe
certamente eglicosì di quello filoſofato. Ma Signori ancor Io immaginava una
volta cosi andac la biſogna del fuoco, qualla giudica il Villiſio: e acciocchè
ceſſar poteſli le malagevolezze propoſte, mecomedeſimo penſava doverſi i
ramidel ſolfo piegare in ingenerando il fuoco, e in ſe medeſimi ravvolti formar
cotante ſperette, acciocchè agevolmente muovere, e penetrar poteſſero; ma
meglio poi il mio divilamento vagliando, ricreduto, igannato inutaiparere.
Convien dunque dire, chele pare ticelle componenti il folto diduefogge ſiano,
una ramoſa, e un'altra ritonda. E cosìſomigliante doveva egli delle particelle
de'fali filoſofare, e ſpiar le vere cagioni dell'o perazioni di quelli,e di
que’loro ftati, ch'egli chiamafram fionis, volatizationis,& fluoris:quali
egli ſpiega co ſole pa role ſenza recarne giovamēto alcuno. E certaméte non per
altro ciò egli adopera, cheper non curar d'inveſtigare la na túra, e la
propietà de'componenti di quelli. E doveva bé egli quanto più ciò era malagevole
a fornire, cotanto mag giormente argomentarſi perogni ſtrada diaggiugnere infin
dove colla mano, ecol ſenno arrivarpoteffe: e cið mallima mente egli col
conſiglio dell'incomparabile Boile, edal. tri valorofiffimi filoſofanci
fornirpoteva; ma egli per cele far farica non volle di cotante biſogne
imbrigarſi: perchè poi diſguiſata, e ſconcia la ſua filoſofia ne divenne. Eles
non da altro, almeno dagli effetti de'ſali,ch'e' continuo da vanti agli occhi
avevasben egli in ciò, che quelli folvonli nell'acqua, e a temperato fuoco
ſeccanfi, ca gagliardo fi fondono avviſar poteva la natura delle loro
particelle, e di quelle di tutt'altre generazioni de' ſali: e ancora in ciò che
quelli,davolanti divengono fiſſi, e da fiffi di nuovo volar ti. E Gimigliante
da ciò ben'egli inveſtigar poteva in che convengano le particelleinfra loro, le
qualicotante gener razionidifali compongono; e in ciò ancora, che i volanti
ſali agevolmente le loro propierà lafciano, divenendo da aſpri, e amari, e
acetofi: dolci, e foavis e per contrario da dolci,e ſoavi:acetofi,e aſpri, e
amari; e alla per fine inciò, che i ſali di qualúque ſorte ſiano, ftranaméte
cambiadoli, e laſciádo illoro natie ſapore, e ditutt'altre propietadiſpo
gliádoſisin ſalfezza ſolamēte ſi rivolgano;perciocchè da ciò tutco ben'egli
argométar poteva eſſer i ſali compoſti dipar ticelle acconce a cambiar figura:
0 pure non eſſer quelle in loro d'una medeſima forma, madivarie, e diverſe
figuu te foggiate. Quindi oltre paſſando avviſare' poteya', iſali acetofi, in
ciò che recano acerbiflimi dolori, eſfer d'acutif fimc particelle compoſti: e
l'altre generazioni de' fali cſfer più, o meno di quelleforniti,
ſecondainenteche più o me no il palato nepungono. E così anche dell'acqua, e
della terra dannata certame te a lui faceva meſtierdi filoſofare, ſe aggiugner
voleva al ragguardevol nome di buon filoſofante. E comechè negat non fi poffa
che per la maggior parte riuſcir ſogliano gli ar gomenti tanto, o quanto
probabili folamente, e ragione. voli ſenza ſaldezza alcunadicerta verità; non
però dime. no egli è il migliore affai, ſtudiarſi, e affaticarſi per via di
conghietture,ed'argomenti d'aggiugnere a ciò, cheper noi non ſappiamo: checosì
ſenza nulla imbrigarfi d'inve ftigarne, laſciarlo vergognoſamente in non calere
pernou Ara dappocaggine: Ne lo al preſente midarò briga d'eſaminare il poco lo
devolfiloſofare del Villiſio intorno alla formentazione, al ſangue, alle orine,alle
febbri, e ad altre malattie; percioc chè ognuno agevolmente veder può, che non
è altrimenti ſaldo filoſofare il ſuo, ma ſolamente ragionarea riſchio, e a voto
ſenza fondamento alcuno; e ben potrebbe per buo monegarſi poco men ch'ogni coſa,
ch'egli afferma, ſenza timore d'eſſer dalle ſue anfanie, e da'ſuoi aggiramenti
rim beccato. Ma non però di meno montò egli in qualche buo nome dei ſuo
meſtiere, per eſſere Atato egli molto avventurato ne’luoi emoli; perciocchè
de’ſuoi tempi abbatteſt in tal, che nulla ſappiédo delle coſe della natura,
volle ſcioc camente e con fanciulleſchi argomenti carminarlo; per chè non durò
molta fatica il dottiſiino Lovero ſuo ſegua ce', non tanto d'inframmetterſi
della difeſa di lui, quanto per ricredere, e rintuzzare la tracotata beffaggine
dello ſciocco Galieniſta; e nel vero ſe filoſofo ſtato foſſe il Mea La, avrebbe
egli minutamente ciò che lo ho accennato del la medicina delVilliſio in prima
detto. Ma nella notomia il Villifio fu molto ſcorto, e avveduto, intanto che
non v'ha notomiſta alcuno, che meglio di lui, e più ſottilmente le parti del
cervello ſpiare aveſſe;ma da cià altro certamente noi raccoglier non poſſiamo,
che la pro poſta da noi cotante fiate dimoſtrata,ora maggiorméteper fuadere:
cioè a dire che vano, e inutil ſia il diviſar di me. dicina razionale: ne
medico poter giainmai in quella tane to, o quanto
vantaggiarſiz.conciolliccoſachè dalla lunghif fima, e inolto ſcorta
diſaminazione, ch'egli fa dell'uficio delle parti del cervello, non altro
certamente ora ne ſap piamo,chequello, che in prima fapevamo:: cioè a dire
nulla di certo. Quanto alla maniera del medicare fu egli ſenza fallo ſciocco,,
e infelice aſſai; perciocchè dopo aver appreſa, ed eſercitata la medicina a
quella guiſa, che in Inghilterra comunemente coſtumavali:volendo egli
filoſofare ſopra quella, ſi perſuaſe, che le continue ſperienze, così.dover fi
medicare additato aveſſero; perchè non guari egli lontan facendofia'comunali
rimedi, nel ſuo ſiſtema,ſtudiof ſi di darne a credere eller quellii veri
argomenti da raccato tarne la ſanità, ricoprendo con sì fattoavviſola ſua
beſſage gine, c non rinvenendo nulla per giovamento de'cattivelli, inferini'.
Anzi vi fu di peggio nella ſua medicina, che non che valevole argomento egli
mai ritrovato aveſſe: anzi in qualche biſognatalvolta, ove i volgarimedici bene
ado peravano, egli diverſamente ſentendo dipartiſlene. Ma prima difar parola
della maniera del ſuo medicare, egli conviene avviſare, cſſer poco ragionevole
ciò che 1 1 d egli giudica, cioè, che la febbre finoca puerida,ficome egli dice,
per eſſenza ſempremaiſia: e che la pleureſi, la peri pneumonia, l'infiammagion
della gola, e altri fomiglianti mali ſiano effetti, e non cagioni della febbre;
conciollie cofachè ciò manifeftamenteripugnar ſi vegga all'evidenza:
avviſandoſi fempremai tratto tratto avanzarſi, e ſcemarla febbre, ſicome Icema,
o creſce l'enfiagione; anzi talora prima d'apparir la febbre: il dolore, c
l'enfiagione appa fiſcono: e cominciandoſi poi la ſoſtanza ivi cntro racchiu
fa'a formentare, e a comunicarſi al ſangue, e far ſaccajan comincia altresì la
febbre. Ma più manifeſto ciò s'avviſa nelle ferite, e allor che qualche
ſcheggia, o ſpina, o altrás ſomigliante coſa nella-carne ſi ficca;perciocchè
ivi a poco accendefi la febbre nella piaga ſolaméte, enelle parti prof ſimane,
e talor anche pertutto il corpoſi fpande; e leav vien, che le fibre alcuna
fiata enfino, ciò nulla rilievaan dover far pruova del ſuo diviſamento;
perciocchè quella medeſima cnfiagioneſarà anch'ella cagion della febbre, no già
effetto, ſicome immagina il Villilio; concioſliecoſachè manifeſtamente s'avviſi
in sì fatte eiffiagioni rattenerſi il ſangue, e dal ſuo uficio rifturfi; perchè
poi naíce la febbre; ne ciò potrebbe in piun côto negare il Villifio,
confeſsado egli medeſimo quefta verità: Ab ejuſmodi tumore,dice egli
dellenfiamento delle fibre, calor, e dolor in parte intendű. tur: fanguis in
motu ſuo magis perturbatur: adeoque febris accenfa plus aggravatur. Ma non men
vano, e falſo è ciò ch'egli giudica dell'ingencrazionedelle febbri, che chir
mano intermittenti; la quaic opinione potrei lo agevolme te rifiutare:ma
perciocchè egli è manifeſta aſſai la ſua fal lanza, e per non dilungarmitroppo
me ne rimango.Sola mente dico ciò lui fare perpoternella cura delle febbrila
biaſimevol coftuma de ſalafi ritenere; nella qual certame te cotanto egli è più
de'Galieniſti medeſimi tracotato, che ovei più avvedutifra loro nella terzana
intermittétenõ ar diſcono a trar sāgue, egli pur vuol, che trar fi debba,
accioce chè col ſuo mcnomamēto il sāgue fi rinfranchi, e ſi rinfre ſchi, e
mcnos'accenda, e più liberamente ſenza riſchio ď K k k incendimento diſcorrer
poſſa, e riandar perla perſona.Ma ſe aveffe avviſato il Villiſio le terzane
intermittenti divenir talora per li falalli contine, certamente cgli non
avrebbe così follcmente ragionato. M2 apertamente ſi vede, ch'egli dictro alla
bruzzagliai de’volgari medicanti, più negli effetti de’mali, che nelles cagioni
di quelli s'indugia. E per favellar con lui, ſecon do iſuoi medeſimi ſentimenti,
ſe la terzana s'ingenera, per ciocchè il facgue ſtrabocchevolmente mordace, e
punge te,non intride, e matura toſto il ſucco nutritivo: mala maggior parte di
quello in una cotal materia nitro - ſulfurca corrompendo muta: come potrafli
ella maiper lalafo am mendare, ſe il ſangue, che riman nella perſona, anch '
egli mordace, e pungente vi rimane? certainente egli ancora, ſe non ſi addolcia,
farà valevole a corromperc, e guaſtare il ſucco nutritivo, e ingenerar la
febbre; anzi tanto mag giormente, quanto per lo ſuo fcemo, più debole, e
fpoſfato diviene a rintuzzar quella mordacità, che'l corrompe,me nomandoſi in
lui quella nobiliſſima ſoſtanza,che ſolamente poteva nel ſuo intero affinamento
ritornarlo; perchè poi il ſangue, che di nuovo s’ingenera, diverrà ſenza fallo
pig. giore: e non ben digeftédoſi il cibo, il ſucco nutritivo yer rà anche a
ingenerarſi cattivo: e manterrannc quel calo re, checol ſalaſſo iinmagina di
ſcemare il Villiſio;ſenzachè è egli inolto di riſchio il ſegnar nella terzana;
perciocchè tra per lo cibo, che dentro dallo ſtomaco de’inalaci ſi cor rompe,e
per lo sfoggiato calore,ch'allottigliando, e diradi. la collcra nel ſuovalo
avvić,chequella nello ſtomaco ſi tra sfonda, e cotanto mal cagioni: ſicome a
quel giovinetto nobile intervenne, di cui narra il medeſimo Villiſio,che no
oſtante la cardialgia avendolo cgli fitco ſegnare, piggioró ne sì fatcamente, chequali
ne fu per debolezzamorto, gliene ſeguirono fieriſſimivomiti,e ſpalime, c
rivolgime ci d'inceſtini: ne alleggioll in lui il dolore, ſe non ſe nel de
clinamento del male. Vuole ancora il Villiſio, che trarſi debba fangue nello
febbri, ch'egli chiama efiimcre, e nella finoca putrida, ac ciocchè perlo
falaſſo diradandoſi il ſangue fia ventato: e le particelle calde di quello per
affoltata non ſi accendano; ſi. coinc adoperar veggiamo a contadini, i quali
rivolgendo, e ſcioperando il fieno difoverchio riſcaldato, fannogli pré dere
rinfreſcamento. Ma egli è certamente ſogno del Vil lilio, che liquorsche
continuo muova, e diſcorra, ficome il ſangue, abbia quelle particelle,
ch'egliſcioccamente chiama calde, le quali poſſano ſtare ammonzicchiate,e af
faſtcllate, ficome ficno in palco, maſſimainente, che pic cioliflime, e ritonde
quelle fono, e ſi muovon rapidiſſim.2 mente allor che fanno il calore; perchè
malagevolmente ſtar poſſono inſieme, ſe da qualche materia viſcoſa, e tenz ce
non ſianoben prima appiccate. Perchè è da dire, che fconcio, e ridevole
oltrcmodo ſia il paragon del fieno dal Villiſio apportato,in cui lo
ſtrignimento premendone il fucco cagiona la formentazione, e'l riſcaldamento.
Maw oquanto meglio egli avrebbe adoperato, ſe non già con falalli, ma con
rimcdj acconcja ciò fare, ſicomealtrove per noi è detto, ſi foſſe argomentato
di ſventolare il ſangue, edirinfreſcarlo. Ma egli più oltre traſandando vuol
che da ſegnar fiano anche i fanciulli: quandoil medeſimo Ga lieno, che de
ſalaſli fu cotanto amico, e altri antichi medi cistutti ad una giudicano efſer
quelli ſommamente a' fan ciulli dannevoli, e da fuggire. E avvegnadiochè egli
molce novelle ne racconti d'alcuni febbricoli da lui felice mente col fataſſo
guariti; non però di meno, ficome egli medeſimo teftimonia, non pochi ancora ne
poſe per la ma la via; ne è da credere, che coloro che ne camparono,fof fcro da
falaſiajutati: anzi per qualche altro argomento, o cagion da’lui non conoſciuta
celsò loro la febbre: e fuma raviglia, che infermo, chenon potè reſiſtere alla
febbre ', aveſſe poi la febbre inſieme, e'l mal del falaſſo contraftato. Che ſe
veggiuno noi alcuni avvelenati ſenza cóſiglio niu no campare, e altri cadere
ftraboccati da alto ſenzafiaccar fi il collo: ele ſcoppiate delle bombarde
alcuna volta non colpire, perchè dobbiam noi dire i ſalali ſolamente, per chè
talvolta non ammazzino, non effer mali? Ma ben disi travolto diviſamento
portonne egli la pena il Villiſio; per ciocchè co'ſuoicari
ſalasſi-egli-medeſimo s'ucciſe. Ma gľ Inghilefi, huominicotanto pertraffichi, e
per uſanze co noſciuti di tutte coftume della maggior parte del mondo, Io non
sò lo come ſi laſcino ciecaméte portare alle beſlag gini de’loro medici, e non
più toſto rimirino alle varie, ¿ diverſe nazioni, colle quali eglino uſano, che
ſenza laper mai di lanciuole, o dimignatte, e ſenza 'logorar goccia di ſangue
ſtan bene delle perſone: e ſe pure infermano, altri argomenti coſtumano a
raccattar la ſanità, che i nocevoli ſalaffi. E per non andar ricercando
detl’Indie, e d'altres a noi rinnotiſfime partijagevolméte ciò potrebbono
avviſa re da’Mori: i quali, ſicome teſtimonia quel gran Maeſtro in divinità
Tomaſſo Campanella, le malattie tutte col ſolo di giuno, e colle unzioni, e co
' tropicciamenti curama. Ma non meno ſciocco, e poco avveduto nelie purgagio
niegli ſi fu il Vihiſio; concioffiecofachè egli talora ſenza riguardare al
tempo delmale toſto le purgative medicine,e le vomitative impor foglia, con
graviffimo danno degli in ferini; e ciò egli vuole anche dove la febbreſia
grande, d'accendimento dentro agevolmente temer fi poſſa. Ma quanto poco fermo
e' ſi foſſe nelle ſue regole il Vil lifio, manifeſtamente egli medeſimo il ci
da a divedere, al for che dopo averdiviſato ſecondo fua poſſa a che debba il
medico riguardare per dovere acconciamente i ſalaſſi, e le purganti medicine
adoperare, maſſimamente nelle feb bri peſtilenzioſe, e maligne: alla per fine
avviſando egli la vanità de'ſuoi diviſaınenti, e dimentito della certezza della
medicina razionale, non altrimenti, che ſe volgare impi rico e' fi foffe,
conſiglia imedicifuoi ſeguaci, che ſi laſci. no ſolamente in ciò alla ſperienza
guidare. In his cafibus, ſon fue parole, prater medicicujuſque privatum
judiciums; experientia potiffimam mededi rationem fuppeditat; cã enim hæ febres
primo graffantur,finguli ferèfingula tētăt remedia: diex eorum fuccesſibus una
collatis facilè edifcitur, qua li demum methodo innitendum erit, donec ultimo
crebro ten tamine, feu tranſeuntiuin veftigiis via quafi regia, « Lata ád
bujuſmodi affectuum rationem texitur, variiſque obſerva tionibus,
monitiſquemunita, Or quinci manifeſtainente comprēder puoſli quanto po co egli
affidato nel fuo fiſtema di medicina, il tutto nel ſens; no, e
nell'intendimento de'mediciavveduti roveſciaſſe, giu dicando non eſſer rimedio
cotanto certo, di cui noi poffil mo vivere a ſicuranza. Ma non ſi dec egli
nondimeno privar della meritata lo de il Villiſio, per eſſes e' ſtato
certamente il primiero tra' Chimicimedicanti,ch'abbia avuto ardimento, rendendo
giuſta ogniſua poſſa cagioni veriſimili di tutte le coſe, di fabbricar un
ordinato ſiſtema di medicina razionale, e ſopra tutto per quelbel libro, ch'ei
compoſe della Farmaceutica razionale; ove egli s'ingegna di dar ragione
dell'operazio ni tutte, che ſi fanno ne'corpi umani dalle medicine. Ma non già
egli però, come par,chemillanti con queſte paroleg. Spartam hanc fcilicet
operationis pharmaceutice Ætiologiam, prius fere intactam, fi nunc temere
agreflus, non dignefatis abfoluero, veniam utcunque merebor, quia terram non
modo: incognitam,fed, GvaldeSalebrofam,&quafi labyrintheam peragrare.
incumbebat, fù’l priino aqueſta opera; poichè il Paracelſo, e l'Elmonte, ſopra
i diviſamenti de'quali áp-, poggia tutta la ſua machina il Villiſio, ne
trattarono, tut tochè non ordinatamente aſſai n'aveffero eglino favellato Ma ne
a queſti, nc al Villiſio, per non aver eglino conſide rata innanzi tratto, e
riandata con diligenza la natura del la coſa, cioè que’principi primi,
ondederivano immedia tamente le operazioni de'medicamenti, riuſcì il-finir una
sì commendevoleimpreſa, con quellafelicità, che le avca no eglino dato
principio. Malaſciando dipiù ragionar del Villiſio, e del ſuo liſte ma, a quel
di Franceſco delle Boe Silvio trapaſſeremo;egli fin da primi anni il Silvio,
licome di lui narra Luca: Schache negli ſtudi d'Ariſtotele, e di Galieno
involto, do po lungo tempo a ciò logorato, veggendo alla fine, la Chi mica di
que' tempi a grandiſſima altezza ſormontata per le maraviglioſe cure
dell'incomparabile Giovan Batrifta El monte, di cui ſopra è detto, a quella
apparare con tutto il ſuo intendimento, e con non ordinaria fatica ſi rivolſe;
e conoſciuti i grandillimi errori, e ſconcezze delle volgári dottrine, per non
dovervender la ſua ſcienza a minuto, ne? più ſaldi ſtudi delle buone arti sì, e
tanto innoltroffi, cher grandiſſimo, e famoſo ne divenne: e di molte, e
laudcvoli conoſcenze arricchito miſeſi a diſcorrere pergli ſtrabocche voli
campi della medicina. Ma ſicome ardito,e poco cſper co Nocchiere, avvegnachè di
ſarte, di - gomene, di ve le, di boffolo, e di tutto ciò, ch'a ben corredata
nave fac cia meſtiere, ſufficientemente ſia fornito: impertanto per nuovi, e
nonconoſciuti mari navigando, no ſappiendo egli poi ben quelli adoperare,
miſerevolmente inghiottito vi muore; così il Silvio, comechè dibuona
filoſofia,per quel ch'e' medeſimo dice: e di non ordinaria medicina fornito,
non però dimeno non ſappiendo egli quelle adoperare,ſcó- - ciamente fallovvi, e
quaſi nocchier mal pratico negli alti maroſi del ſuo meſtiere appena
ſciogliendo, fortunolamen te annego. Ma potrebbe alcun recare in dubbio, ſe
ſcor ro in filoſofia si bene il Silvio si foffe veramente itato, co me
eglinevuoi dare a divedere; e nelvero per quel che comprender poſſiamo dalle
fue opere, egli ſembra, che no molto addentro e' la ſpiaſſe, comechè una fiata
dalla ra dezza, che adopera il fuoco ne'corpi,cgli argomēri le parci celle di
quello effer piramidali; non però di meno egli po co conoſcendoſi eſſer
profittato nella buona filoſofia, co mechè,i per quel, ch'e'nedica, trentatrè
anni continuo in appararla e' ci aveſſe logorati, proteſtando le ſue
dappocaggini, manifeſtamente dice: optabile foret naturalium rerum principia
vera, eorundemque numerum certum, qualitates legitimas via,methodoq;
mathematicis demõltrari. Ma nella medicina razionale più alquanto egli ardimé
toſo, volle il ſuo ſiſtema diviſarne, dicendo tre umori prin cipali eſſer
ne'corpi degli animali: cioè il ſucco pancreatico, la collera, e la flemma; i
quali nel ſottile inteſtino adunā. doli inſieme, e meſcolandoli, quell'umor
poicompongano, che da lui è detto triumvirale; che il ſucco pancreatico di
ſangue, edi ſpiriti animali dentro al pancrea s'ingenere quindi agli inteſtini
per la celebre 'doccia del Virfungio diſcorra; chela collera ſi formi di ſangue
dentro alla ve ſcica del fiele; e che ſia ella abbondevole aſſai diſale ama ro,
e volante, e comee'dice, liffiviale, da poča acqua foo Luto: in cui alquanto
d'olio, e di volante ſpirito anche s'av viſi; che la flemma ſi crii della
ſaliva, la qualdegli ſpiriti animali, e della più ſalda, e tenace parte del
ſangue com pofta, dalle glandole delle maſcelle per le docce, che falia vali
diconft, alla bocca trapeli, e continuo tranghiorten doſi dentro allo ſtomaco
diſcenda: e quivi le ſue tuniches ainmorbidando digeſtiſca i cibi;
quindiallinteſtino fottilc pianamente trapelando ivi s'accolga,c per la più
gran par te dimori. Venir la flemma di molta acqua, e di poco fpi rito aceroſo,
e volante se dipochiſſimo olio, e ſale lillavia le compoſta; perchèin quella
una gran virtù formentantea ritrovarſi; il ſucco pancreatico ingenerarſi degli
ſpiriti ani mali, e del ſanguenel pancrea: e che fia eglialquanto ace toſo: ne
dalla flemmadiffomigliante, ſe non ſe più alqua to ſottile; che ſi tragittiegli
perlo canal del Virſungio al fotcile inteſtino, la dovenel meſcolarſi ch'egli
fa colla collera, perla contraria diſpoſizione dell'amaro di quella,
edell'acetofodi eſſo,a riſvegliàr fi venga un cotal bollimé to, per lo quale la
parte più groſſa, e limacciola ſi ſeparije queſta giù per gl'inteſtini
s'avvalli: e quella per le venes lattce diſcorrendo al cuore aggiugna; e la
flemma anco ra nel fuo ribolliméto fi ſolva: e che la parte ſua più diſcor
rente, e ſottile inſieme colla maggior parte della collora, e del fucco
pancreatico traſcorrano parimente al cuore: ove la fermezza, e’lcompimento
deano al ſangue; e'l lor rima nente diſcendendo giù per gl’inteſtini groili, e
alle fecces! meſcolandoſi, quelle maggiormente colorate, e tenaci ré. dere,
Cosìavendo formato con queſti tre ſoli umori il fi ftema tutto della ſua
medicina il Silvio, dal guaſtamento, e perturbazione di effi vuol, che tutte le
febbri dirivino; concioſliecoſachè ritrovandoſi talvolta per qualche cagio ne
il pancrea oppilaco, quivi il pancreatico fucco oltre all' LII uſaço dimorando,
maggiormente acetoſo divenga, e mor: dace; perchè egli poi faccia
negl'inteſtini un bollimento grande, c ſtrabocchevole aſſai più dell'uſato: e
naſcerne la febbre, qualdicono intermittente. E ſe quella parte della collora,
della flemma, c del ſucco pancreatico, la quale al cuor ſi tragetta, non ſia
ben condizionata, ella nel deltro ventricolo di quello un'altro diverſo
ribolliméto riſ veglj, e le contine febbri cagioni. Ma troppo lungo fa rebbe il
voler qui raccontare comedal rimeſcolamento di tutti, e tre queſtiumori vuole
il Silvio, che ciafcuna maa, lattia ne*corpi umani s'ingeneri. Io non ſaprei lo
di leggier narrare quante miſchie, quan te conteſe, eriotte abbia riſvegliate
infra' medici un cosi ftrano ſiſtema, così vivendo il Silvio, come anche dopo
ſua morte; ma lo diciò non curando al preſente, folamente per quanto a mio
propoſito s'appartiene, dico eſſer vera mente ingegnoſo, claudevoleil
diviſamento del Silvio, e quale appunto a un cotanto valent'huomo conveniya; ma
perciocchè egli tutto grazioſamente afferma ſenza nium pruova fare delle ſue
ſtranezze farà quello da dircertamēte una ben compoſta novella per tener a bada
con ſue ciarle l'ignoranza del vulgo, e preffo quello accattar titolo di va
lorofo filoſofante;machi ſpia più addentro, non veggen do comepoffano effer
tali quei tre umori, quali e' glide fcrive, ecome poffano aver poſlanza di
cagionare i bolli menti, e le febbri, e tutt'altre malattie, che egli racconti,
poco certamente a capitale il ciene. Anzi radillime volte nella flemma, e nel
ſucco pancreatico l'acetofità egli avvi far ſi puore; ſenzachè nel pancrea non
ſi è giammai per al cuno acetofità, ne poca, nemolta avvifara: e pure dovreb be
ad ognora quella trovarviſi, le nel Pancrea s’ingeneraf fe, e s'accoglieffe
veramenteil fucco acetofo; perchè ra de volte ancora quel bollimento, ch'egli
immagina,negli inteſtini da quelli riſvegliar puoſli; anzi è egli imposſibi le,
che per l'acetoſità il bollimento avvegna: ficome per pruova veggiamo, che il
liquor del fiele collo ſpirito del vitriolo, o delſale, o con altro acetoſo
umore meſcolato ri bolla: che che in contrario fi dica Olaaldo Crollio, da cui
peravventura ciò apparò il Silvio: il qual contendendo co tro la manifeſta
ſperienza, ne vuol dare adivedere, chelo ſpirito del vitriolo a ſtomaco,
cheabboudi in collera,bol Jimento cagioni. Maſenza fallo egli di gran lunga
s'aggi, 1.3 il Silvio a dir, che gli ſpiriti animali ſiano aceroſi; per
ciocchè, fe ciò foffe, inervicontinudrattratti, e in malei Itato ne ſarebbono:
ſappicndo ben ciaſcuno, che l'acctori tà, ſicomc (triguente, e lazza, e
pugnereccia, a’nerviol tremodo contraria, e nimica fia. Ma chela ſaliva allo
ſmaltimento de'cibinelnostro ſton macobaltevol fia, comechè ella pur gli ſia
diqualche gio vamento, chiunque al maraviglioſo artificio del digeſtimé. to non
abbia poſtomente, potrà folamente crederlo. E ſopra tutto è da maravigliare di
ciò ch'e dice delle febbri intermittenti; perciocchè ſe quelle dall'acetofità
fi cagionalſero, ſenza dubbiogl'Ipocondriaciad ognorafi vch drebbono, e terzane,
e quartane patire; poichè in loro fo pra tutti il ſucco delPancrea, ficome
anche il medeſimo Silvio confefla, oltremodo acetoſo s'avviſa. Ma riſerbando a
più agiato tempo sifatte conſiderazio ni: ciò che toglie maggiormente l'eſſere
razionalmedico al Silvio, e'l fiſtemadilui manda a terra, fiè, che egli trasa
dando le fondamenta, a niuna cura prende l'inveſtigar la natura di quelle prime
ſoſtanze de Chimici, ſule quali egli fonda la fua medicina. Mache che Gadella
ſua filoſofia, il modo certamente del ſuo medicare, comechèpovero, e manchevole
degli arcani dell'Elmonte, e del Paracelſo, non poco dee effer commendato;
perciocchè egli usò le volgarichimicheme. dicine, e masſimamente l'alloppiate
connon ordinaria fe licità,, e pregiodel ſuo nome; fe non ſe quanto egli preſtò
alle purgagioni troppa credenza: ele pole talora in opera, ove in tutto, e
pertutto diſconvenivano: avvegnachè pur guardingo, e ritrofo alquantoegli ſtato
ne foſſe. E come chè cgli dicoloro, che così volonteroſi ſono a ſegnare, só
mamente ſi biaſimaffe, non però di meno per non dipartir LIT 2 ſi dall' folo
può contrariare almale. Oltre a queſto la formentl fidall'uſo comune, andò a
bello ſtudio accattando cagioni di ſegnare ancornelle febbriintermittenti: ove
egli affer ma non aver luogo niuno il fataſlo.Immagina poi egli, che faccia
luogo il ſegnare nelle febbri finoche,acciocchèilsā gue ſtrabocchevolmente
radificato non rompa i vaſi,o fac cia qualche altro gran male; non avviſando,
che con altri ficuriargomenti, quandociòpur s'aveſſea temere, dar vi fi può
compenſo, ſenza tor via, col trar ſangue, ciò che zione,tutto che grande, nel
fangue,non li dee con -iſpogliar lo della ſua vital ſoſtanza impedire, poichè
per quella ſteſ ſa formentazione, grande eccitandoſi, o fenfibile, o inſen
fibile vacủazione, fi difcaccian fuori del corpo le cagioni delle malattie, il
che s'impediſce certamente col ſegnare. Dopo il Silvio,mi ſi fa davanti Lazaro
Meffonieri, il qua le troppo libero, coltre alconvenevole ardito, imprende a
determinar delle più ardue', epiù ripoſte quiſtioni, di cui piatiſfer mai con
lungo ſtudio ifilolofanti. Primieramente egli ſtabiliſce effer principidelle
coſe il mercurio, il fales, e'l folfo, e dice quefti, licome in cotante arche,
o matrici contenerſi negli elementi; i quali ſecondo l'avviſo di lui, fon
quattro:cioè il fuoco, efficiente cagion di tutte altre coſe, in cui niun
principio egli v'alloga; l'aere, in cui ri fiede il mercurio;l'acqua, ove
ſtanzia il fale; e la terra in cui dimora il ſolfo. Il fuoco ond'ogni altro
elemental mo to deriva, vien dal folto ajutato, ed eccitato dal mercu rio; e
ſue proprietà ſono il dar movimento al mercurio, il riſplendere, il riſcaldare,
l'attrarre a fc le cofe oleaginoſe, e Peſſere attutato dall'acqua; l'aria
colfuo mercurio fa fare a ſegno il fuoco; il mercurio è un certo ſpirito aeree,
il qual coagula l'acqua, e'l fal volante rappiglia, e che afo fai bene col fuo
ſal fiſſo s’uniſce,ed al ſolfo cótraſta.Dimo ra ilmercurio ne'luoghi piùdalle
vie del ſole rimoti, fico me ſono amendue i poli;l'acqua tiene una ftrettiſſima
ami, ſtà col ſale, e nimiſtà grande allo incontro poi colſolfo. La terra
opprimeilfuoco, e quanto ella è del ſolfo amica, altrettanto ſi moſtra nimica
del fale. Indi deltemperamento il Meſonieri vegnendo a favel lare, così ne
divifa: il temperamento è un'armonia delles quattro prime qualità, avvegnente
dalmeſcolamento de gli clementi, e de’naturali principj:(Delle qualità, che gli
elementi compongono, due ne ſono attive, e due paſſive: attive ſono il calore,
e la freddezza, paflive l'umidità, e la ſiccità. Tre coſe vihan nell'univerſo
manifeſtamente calde, il ſole nelmondo celeſte, il fuoco nel mondo ele, mentale,
e lo ſpirito vitale nelmondo animale, e tre allo incontro manifeſtamente fredde,
la Luna, il mercurio, lo ſpirito animale. Alcune ſtelle divantaggio vi han
nelmo do celeſte,dilornatura calde, e altre freddo, ma occulta mente; e altresì
nel mondo elementale altre coſe calde fredde, macelatamente, o accidentalmente
ſi trovano: umidifſime ſoſtanze fon da per ſe l'acqua, e l'olio; ſecchiſ fime
la terra, e'l fale. Maicorpimiſti divengono umidi,o ſecchi, allor che conalcuna
delle già dette coſe 's accop piano. Le ſeconde qualità daglielementi, e da
principi naturali variamente fra eſfo loro meſcolati dirivano. I 12 pori
ditutte coſe naſcon dal ſale, gli odori dal folfo, lam durezza dalla terra, e
dal fale: la mollezza, e tenerezza, dall'acqua. Ed ecco in brevei lunghi
diviſamenti del Mel fonieri ridotti:ne'quali egli nel vero indarno tenta
diridur re in un corpo folo, membra cotanto fra effo lor diſcorda ti, che non
poffono a niuna guiſa acconciarfi. E quinci ſcorger puoli, che quantunque egli
molto ſtelle in fu l'av vifo pernon laſciarſi trarre, e cader col yulgo de
filoſofan ti in errore; pur nondimeno non potè affatto obliar le ſcon ce, e
falſe opinioni, che cotanto tempo han tenuto maga gnate le ſcuole; le quali ',
come faggiamente,il Verulamio avviſa: Elementorum commentum, quod avide à
medicis acceptum, quatuor complexionum, quatuor humorum, qua juor primarum
qualitatum conjugationes poft fe traxit, tan quam malignum aliquod, infauftum
fidus infinitam, & medicine,nec non compluribus mechanicis
rebusfterilitatem attuliſje, Maciò che egli poivi aggiugne del ſuo il
Meſfonieri, in tut curto,e pertutto inverigmile fembri; ficomcè il dir; che il
mercurio freddiffima, emobiliffimafortazaſi ſia;e che ſte colà ne paeſi al polo
vicinijed alorcedaltre sì fatte fanfalu che', che lo non mi do briga diriferire,
per non logorare fuor di propoſito il tempo. Mada tanti, e sì varj,e sìftra ni
ſuoi arzigogoli, nonmai vien fatto alMeſfooieri di co glier coſa che vaglia a
dar ragione di quelle apparenze,ché tutto dì nel grande, e nel picciolo li fan
vedere.i ': Vuole oltre a queſto il Meffonieri, che di tutte l'azioni del noſtro
corpo ſien cagione gli ſpiriti animali, e vitali; lo fpirito animale,
dic'egli,è della natura del mercurio, aereos freddiffimo, e dalcervello
perlinervi, e perle membrane penetra, e fa il ſentimento, ed ogn'altra azione
animales; fi nutriſce della ſalſa, e acquola parte del ſangue; lo ſpiri to
vitale è della natura del fuoco, ed egli è il primo a muo vere, e a far impeto
nel corpo, e a ſuegliar lo ſpirito anima lé, il quale da per ſeimmobile,e privo
di ſentimento farebo be; tragittaſi dal cuore perle vene, e per le arterie
infieme col ſangue, e forma i dibattimenti de'polli. Nell'uniones d'amendue
queſti ſpiriti conſiſte la vita dell'huomo, e nella ſeparazione, perlo
coptrário,la morte. Maconcedaſi, che dal ver lontano non ſia ciò, che divi ſa
il Meffonieri,vorrei fapere, onde argomenti egli eſſere lo ſpirito animale
freddiffimo, ed immobile, e participar del la natura di quel mercurio aereo da
lui ſognato, e paſcerfin. enudricarſi del fale foluto dall'acquoſa parte del
ſangue; e come parimenté egli provar poſſa aver lo ſpirito vitale na tura di
fuoco, e dar lui il moto, e'l vigore allo ſpirito ani male. Ma formentandoſi
continuo il ſangue nel corpo dell'huomo, e comunicando egli ſempremai più, ome
no calore a cucce le parti delcorpo, come, e dove por trà mai l'animale ípirito
olcremodo freddo, e inmo bile ingenerarſi? Coavien parimcnte poi, che'l Mcf
ſonieri ci additi il modo, col quale s’uniſcano fralo ro, el diſuniſcano si
farciſpiriti; e altresì, che ſaper egli cifaccia, onde avvenga,che'l caldo
eſtremo dello ſpirito yitale non difrugga, e diſlipi lo ſpirito animale; ccoine
al lo incontro l'ecceſſivo freddo dello ſpirito animale non am morzi, ed
eſtingua lo ſpirito vitale. Laſcio di narrare,quanto il Meffonieri
nell'aſſegnare gli uficj alle parti del corpo umano, vada ſovente errato; e
quanto egli poco felicemente lt vaglia (non riconoſcendo Je tali ) d'alcune
falſe opinioni di Galieno; ma accennerò fol tanto ciò che follemente va
diviſando dietro allo in generarſi delle malattie: dicendo, che qualor l'azione
dell' animale, o del vitale ſpirito ſia impedita, gli huominiven gano
damaloritravagliati; sì che le malattie propriamen te favellando fien tutte
negli ſpiriti, e meno propriamente poi negli humori, e nelle altre parti
delcorpo; e la cura delle malattie tutte in altro non conſiſtere, ſalvo che in
tor via quelle cofe, che impediſcono l'azioni degli ſpiriti je conchiuder, che
tutto ciò con cinque generazioni ſole di medicamenti fare agevolmente ſi poſſa.
Ma a queſti, cad altri diviſamenti, ch'egli poſcia produ ce in mezzo in facendo
parole delle particolari malattie,no fa certamente luogo d'argomenti per
moſtrargli fall. Fi, nalmente la maniera delmedicare del Meſfonieriaſſai roz za
nel vero, e materiale effer ſi vede. Ma poichè da uno in un altro ſiſtema
paſſando fin quì lią giunti lo non voglio trafandar tacitaméte Franceſco Mea.
ra celebre medicante nell'Ibernia. Fu coſtui della ſchiera deGalieniſtiin prima:
ma avviſando egli poi quanto all'o pera del medicinare mal veniffero ad huopo
le vane ciance di Galieno, impreſe a metter fuori un'altro ſiſtema di ra zional
medicina; nel quale egli fu tutto inteſo ad accozza. re inſieme le dottrine di
Galieno con quelle di Paracelſo, in quella ftrana guiſa appunto, che pittor
farebbe, ſe mai te Ita umana fopra un collo di cavallo tutto coperto di penne
di varj, augelli e dipigner voleſſe. Forte egli rimproccia tutti coloro che
ichimici principj ofano dinegare: cô que fte parole. Et miror profecto qua
fronte quiſquam experien tia Scientia omnis, & cognitionis inventrici)
repugnare prefumat, nifi pro ratione fufficiat, multos pudere, cos pige me
quiequam denovo admittere, quod confirmat& eorum upinioni adverfetur, à quo
ne látum quidem unguem recedere Suftinent, ne prius non recte fapuille
videantur: multos taria ta cum fatuitate, ne dicam Idololatria, Hippocratem,
Ari ftotelem; aGalenum venerari videas,utquicquid ab illis non dictum, non
dicendum, quicquid abillis incognitum, no cognofcendum putent; e molto appreffo
fi briga in moſtrar, che in natura v'abbiano sì fatti principj; sì veramente
però, che non debba a crederſi, che ſian primi; imperocchèegli vuole, che della
materia,della forma, e della privazione i quattro elementiſi formino, c'di
queſti facciali il ſale, il ſolfo, e'l mercurio, che ſon terzi principi; i
quali finalmél te col vario accozzamento loro, quanto v'hanell'univerſo
coinpongano, Ed ecco, ſecondo lui, onde formanſi le parti ſalde, e di.
ſcorrenti del corpo umano: e particolarmēte i quattro umo ri di Galieno;
ne’quali, allor, che il ſale, il ſolfo, e'l mer curio ſtan così bene adattati,
che non vengano fra ello lo ro a tetizone, n'avviene la ſanità, e per contrario
lemalat tie. Diviſa egli, ſecondo l'avviſo dechimici, lungamente de'ſali;
dicendo, che altri ſe ne ravviſano nella flenna ſas lata, come è il fal comune,
e'l ſalgemma; altri nella flem ma acetofa, e in cerca fpecie di malinconia
parimente acç. tofa, come è il ſale armoniaco; e così ancora diſcorre ra
gionando degli altri ſali, che ſono negli altri umori. Vna sì fatta dottrina fu
introdotta primieramente nelle fcuole per alcuni ſeguaci del
Paracelſo;immaginado eglino con ciòfare,che celtaſſero le perſecuzioni chelor
faceano i Galieniſtis ma lor non venne fatto il diſegno; anzi, come in tute
gare civili avvenir ſuole, cui non voglia ad alcuna delle fazioni attenerſi,
eglino divennero d'ambedue le par ti nimici; e come alga, o ondamarina, che
da'contrarjvé. ti ſia, or quinci, orquindi agitati, così l'opinioni di coſto ro
furono da'Paraceláſti, e daGalieniſticótraſtate. Il per chè anche noi ſenza quì
intertenerci immaginamo, che da quel, che di Galieno, e di Paracelſo addietro
abbiam di: viſato, rimanga ilſiſtema del Meara baſtantemente impu gnato;
imperocchè, ſe ne con gli elementi, ne co’principi chimici poſſono i varj
avvenimenti del corpo umano fpię garfi: di ſeguente è da dir, che ove ancor
vero foſſe (il che non potrebbe a niun modo concederſi)che i princpj chimi ci
daglielementi ſi formino, ne men coſa, che monti una frullo Gi farebbe mai a
pro della medicina ſcoperta. Quanto nocimto recar poſſa a ben filoſofare il non
eſser l'huomo'da prima indirizzato per diritta via, il ci fa mani feftaméte
vedere Frāceſco Gliſſonio;il quale comechè d'ala tiffimo intendimento fornito,
e nella notomia, e in alte cofe alla medicina appartenenti oltremodo avanzato
fi foſ: fe; impertanto non ſeppe egli sì, e tanco ſchivare le ſcom ee opinioni
nella gioventù appreſe, che intriſo alquanto, e guaſto non ne rimaneſle. E ben
ne diè egli manifcfti ſegni nel ſuo ſiſtema di razional medicina, allor che
veriſſimo giudicando il diviſamétode'Chimici dictro a’principj del le coſe
naturali,vuol, che il mercurio, o ſia lo ſpirito, e l'olio, c'l ſale, ela
flemma, e'l capo morto, o terra dan nata fian l’ultime particelle, nelle quali
le coſe o per ingen gno, o per induſtria umana folver li poſſano. Ma dicia avendo
lo altrovci miei ſentimenti paleſati, qon fa luogo al preſente, che lo di
vantaggio ncragioni. Credeegli accordar queſte cinque ſoltanze con gli ele
menti d'Ariftotele, dicendo l'elemento del fuoco allo ſpiri to riſpondere, e
quello dell'aria all'olio, e quel dell'acquz alla flemma, a quel della terra
alla terra dannata, e allale. Ma in buona fe,Signori,chi non avviſa, che'l
fuoco non abbia punto che fare col mercurio il quale comechè foco siliflimo ſia,
e che le particelle, che'l compongono lian, piccioliffime', nonſono però elle
tali, che tutte quelle ope razioni, chedalfuoco naſcer veggiamo, adoperar poſla
ao. E ne men certamente l'olio potrà mai quella attegné. za coll'aria avere, la
qual peravventura immagina il Glif fonio; perciocchè l'aria, comechè
diſcorrevole, c vagas oltremodo ſia, non è perciò umida, ne ad accenderſi,o bru,
ciare acconcia, Ma avvegnachè l'acqua alla flemma ſia pure in qualche parte
conforme: che compenſo prenderà egli il Gliſſonio a voler duc diverſillims cofs,
quali ſono il Mmm file, slaai Cáte jela terra dannata, porre d'accorto, e far
ch'una coſt fola, e un ſolo elemento elle fiano E fe pur v'ha infra loro
qualche attegnenza, nondimeno fallò egli no poco Ari ſtotele a porre quattro, e
non più toſto cinque elementi, e principj delle coſe; perchè ſcompigliata', e
ſconvolta ner diviene oltremodo la filoſofia d'Ariftotcle: la qual folle mente
il Gliſſonio con quella del Paracelſo ſi ſtudia di ri conciare. Ma ſufficienti
non parendo si fatti principj al Gliſſonio a falvar l'apparenze della natura,
egli in luogo di ſpiar ſottile mente,ſicome far doveva,i vcri principj onde
fiicópongono quelli, al Paracello, e all'Elmonte per dappocaggine ſi ri fugge,
e togliendo da foro ciò, cheeſli degli Archei mil lantando dicono: e giugnédovi
di vantaggio molte altres fraſche del ſuo, ſcioccamente con si fatti ripari di
riſtorar la ſua cadente Gloſofia s'argomenta: dandone apertamente a divedere
con quanto poco ſenno imbolato egli aveſſe il piggior di que’libri di
que'valent huomini','tralandando d? altra parte coranti buoni, e pregiatiſſimi
diviſamemi, chę coloro in altre coſe,e fpezialmente intorno alla via da do ver
curar gl'infermi han laſciati Almondo, che giacea pien d'alto errore.".
Dice adunque il Gliffonio eſſer l'Archeo un cotale ſpi rito reggicore, il qual
negli ſpiriti di qualunque coſa,il.ca lor vitale, e attuale riſvegli: e muova,
e rilievi tutte le cor loro facoltà natūrali: e altri ſoſtegna: e ciaſcuna
natural parte dal corrompimento difenda: tenendola buona fperā. zagli fpiriti,
iquali egli in feſta, e lietamente fa vivere. Quindi il Gliffonio le varie
generazioni degli Archei di ftintamente va rapportando, ein prima quella
dell'Archeo dell'uovo»; il qual primieramente eglidice, che habbia lo fpirito
ſuo innato, il quale a tutt'altri elementi dell'uovo fi gnoreggi; e oltre a ciò
contenga ancora, ma ſol virtualmé te l'infiuffo vitale, e animale, e che fia
ancora delle tre prime facoltà naturali fornito, le quali egli percipientes,
appetente, e movente chiama, da una ſpezial diſpoſizione circonſcricte, c
terminate. La facoltà percipiente, dicu, egli, che l'Idea dell'uovo, e quella
ancor dell'animale dam ingenerarhi, o della pianta in ſe comprenda;
imperciocchè l'Archeodi quelli, non ſolamente ſemedeſimo,e gli effer, ti, i
quali egli può produrre, conoſce; ma l'idea ancora dell'animale, o della pianta
ravviſa; ſappiendo oltre a ciò il modo' ancora, e l'ordineditutta ſua
formazione, e qual fa tempo acconcio a mandır avanti le ſue operazioni. La
diſpoſizione della facoltà appetente compréde in ſe l'amor della natura
rappreſentata per l'idea,e una cotal brama di quella limitata, sìche ſoſpeſa
reſti laſua potenza infino al sempo opportuno. E ultimamente, la diſpoſizione
della faç coltà movēte porta con ſçco la ſua virtù formatrice, euna tanta
operazione valevole, e acconcia, maches'indugi all'opportunità
dell'attualeformentazione. Oltre a ciò vuole egli, che l'Archeo nell'uovo anche
dopo l'eſſer fuoriquello uſcito dall'ovaja,ligato alquáto ję pigro nerimanga;
perciocchè le ſenza il conſiglio della chioccią, o d'altro ſomigliante ajuto la
formentazion dello animale rentaſſc, ad infelice fine ogniſuo ſtudio riuſcireb
be. Quindi egli alquante propoſizioni pertinenti alla na. tura di quello va
ſpiegando, facendoſi a credere ſe averba ftantemente ogni ſuo diviſamento
ſpiegato per gli avvifi dell'ingegnoſo Malpighinell'uovo. L'Archeo, dice
egli,di tutto il corpo già formato è di tre maniere: naturale, vita le, e
animale; il primo in due ſole coſe è differente da quel ch'egli è già ſtato
nell'uovo: l'una fiè, che egli in quello avca già ſolamente la forza d'operare:
e poi nel corpo for mato, in atto già opera; e l'altra ſi è, che al preſente
egli in un caſamento già fabbricato abita, e dimora: al quale in, acto egli
fignoreggia. Ha cgli due miniſtri generaliſciò for no l'Archeo vitale, e
l'Archeo animale; e oltre a coſtoro di diverfi altri particolari miniſtri egli
è fornito, quali ſono ſenza dubbio gli Archei del fegato, de’polmoni, del ven
tricolo, della matrice, e d'altre parti del corpo a qualche uficio dalla natura
dell'animal ſorteggiate. L'Archeo vi tale, licoine il ſole è di tutto ciò, che
la terra produce prin çipal cagione, così eglią tutte parti del corpo l'effetto
iq Mmm 2 fluiſce, comechè da le ſolo niuna coſa egli ſpecificar polfa. L'Archeo
animale agli ſpiriti animali tutti è ſopraftante, i quali nel ſucco nutritivo
abitano, e dimorano. E dalla perturbazione, e rimeſcolamento di coteſti Archei
vuole egli, chele malattie tutte ne avvengano. Ma egli ſarebbe un logorar
vanamente le parole, ſe fil filo annoverarc Io vorrei i diviſamenti tutti del
Gliffonio intorno agli Archei. Dirò ſolamente apparer manifeſto, ch'egli in
luogo di ſpiegar, ſicome egli intende, la natura degli Archei, il che
traſandato a ſtudio venne dall’Elmon te, vie più oſcura, e inviluppata la rende.
E doveva pure cgli avviſare, che di quelle cofe, che nonci ſono, ne eſſer
poſſono, quantomaggiormente ſe ne favella, tanto men ſe i nedice;ne ſi può
ſenza maraviglia conſiderare, come uns sì ſottile, e avveduto notomiſta,
qualſenza fallo ſi è il Glif ſonio, eſſendoſi ſottilmente argomentato
d'inveſtigar con fua fatica anche le più merome bazzecole da altri poco curate,
foffe poi sì vocolo, e traſcurato in ciò, che folle mente ammannare aveſſe
potuto cotante ciuffole,e giunte rie, non meno a' ſentimenti, che alla ragion
lontane. Ma non tanto del Gliffonio, quanto di tutti quali i va Ient huominiun
tal fallo ſi è ſtato; i qualiper aver più mi nutamente le maraviglioſe
operazioni della naturaavviſa tc, diffidando per for manchezza d'inveſtirne le
cagioni corporali, e far che da quelle tutte dipender poteffero,fi rifuggirono
a sì fatte fraîche, e ne compoſero cagioni fia tc, e favoloſe, onde natura.
Diſdegnofa fen 'duole, e fene'ricbiama. Maſopra tutti in ciò è certamente da
biaſimare il fallo del Gliffonio; il qual manifeſtamente affermando, fe cfſer
pago, e contento a ' principj chimici, e a que primicorpi, che coloro chiamano
componenti, avvegnachè egli con felli poterſi più olere coll'intendimento
procedere traſcor: se egli poi ſconciamente a favolar degli Archei, e sicon
fondere, e invituppar la fua filoſofia con arzigogoli, non men vani, e ridevoli
di quelli de'folleggianti peripatetici Ma che è ciò, ch'egli dice de’pori di
noitra buccia,negan do affatto quegli eſſerci mai? c pur dice egli, che perquel
la ſottiliſſimeloftanze fuor del noſtro corpo continuo tra pelino. La qual coſa
nel vero cotanto ridevole fiè, quan to le pruove ancora ridevoli ſi ſono,
leqnali egli ſciocca mente a ciò raffermar va cogliendo. Ma chi non iſmaſcel
berebbe delle riſa in avviſare i forciliſfimi argomenti, co' quali ſi ſtudia, e
s’affatica il Voffio giovane di fare in ciò le fue parti? Tralaſcio a bello
ſtudio, comeche aſſai vi ſarebbe da di re, ciò che egliintorno alle maniere di
ſeparar le parti de corpimiſti ragiona · Solamente accennerò quanto egli di
que’ſcioglimenti diviſa, i quali, ficome egli dice, avvengo no per
congregationem, vel attractionem magneticam, fi ve fimilarem. E in prima va
egli rapportando quelcomun proverbio: che'l ſomigliáte del ſuo fomigliante
goduzquint di egli loggiugne, che ſicome gli animali dilettanli oltre modo di
quelli della tor generazionc, così anche eſſer ra gionevole ad argomentardelle
coſe, che nonabbiano ani ma; imperciocchè ciafcuna coſa del mondo per narurat
tz Jento la confervazion di se difidera,la quale da’ſomiglianti avviene: e
fugge il ſuo diſtruggimento', il quale per li ſuoi contrarj le incontra.
Finalmente cglicoichiude: ex dictis conftat, quod per attractionem fimilarem,
five magneticam intelligam.nempe alle &tationem, five incitamentum, quo
cora pus naturale ad aliud fui fimile fertur. Ma qual coſa in buona fe più
ſciocca, e ridevole può per travolto, e ſcempiatocervello immaginarfi
giammaisquí to queſta del Gliffonio, il quale a cutte inſenſate foſtanze il
conofcimento, e'l poterf a fua balìa muovere actribui ſce? certamente fe di
baona ragione voleva egli filoſofare, dovea pure avvifare,che le cofe, che
ſtanchete, e fenzów movimento, ſe già non fono animate, tali ſempre fe ne ſtao
no, infin che per urto da altricorpi tocche, e fofpinte di fuo luogo non
partano.Eſe non piace pure al Gliſſonio ciò, che naturalmente filoſofando
ragionan que' valent' huomini, de qualiegli l'opinion rapporsa incorno all'an
dar del ferro alla calamita, doyea ben egli alcra più ragio nevol inaniera
inveſtigare, onde ciò ayviene. Ma direbbő per avventura coloro iquali
follemente avviſa il Gliſſonio aver con ſue ragioni abbattuti, infra l'altre
coſe eller nella calamita una tale ordinanza di pori dirittamente dall'aſſe, il
qual dicon magnetico, del quale eſcan continuo fuora particelle ſottiliſſime, e
ſpiritali aſſai: e che ſian nel ferro i pori pieni di particellemagnetiche
travoltę infra loro, inviluppate per maniera, che entrandovi le ſottiligime
para ticelle fpiritali, che efcon fuora della calamita, faccian, l'uficio della
formentazione riſvegliando in quelle il movi mento; le quali poi movendo verſo
il polo magnetico, dis rizzino, ci fianchidel ferro forte percuotano: e sì
quello co’loro colpi innanzi {pingano; ma nella calamita -ancora farſi un cotal
rimeſcolamento di particelle ſpiritali, le qua. li urtano in eſſa, e ancor la
ſpingono intanto, chevicende volmente incontro moyendo dagl' innumerabili
corpice ciuoli d'entro ſoſpinti, corrano a cozzarſi. Ne ciò deves punto recár
maraviglia, che la calamita ancorada ſua parte fi muoya, comeche più tarda, e
lenta i perciocchè ſe nel acqua il ferro, e la calamita ſi pongano,da qualche
legno o altrá ſomigliante leggiera ſoſtanza ſoſtenuti, intanto che ſopránocanti
poſſano andarea gall.2, ſcorgefi toſto il ferro notar verſo la calamita, e la
calamita d'altra parte verſo il ferro. E ſe ciò pure non ſoddisfaceſſe al
Gliſſonio a voler cotanta maraviglia ſpiegare, dovrebbeegli in alera, e altra
maniera-la cagione di quella inveſtigare. Maad altro fac cendo paſſaggio, èegli
ſommamente damaravigliar della troppo ſcimunita ſchiettezza del Gliſſonio;
perciocchè có tro i propjſentimenti talvolta alle comuni opinioni del vul. go
laiciali ſcioccamente traportare: ficome,per tacer d'al tro, manifeſto avviſaſi
in ciò che egli de'quattro volgari umori va ragionando; cioè;che con util
grande della media cina un tal diviſamento rinvenuto foſſe: e che ragionevol
mente damedici feguir debbafi, ficome loro molto pro fittevole, e acconcio a
dover porre in opera le purgagioni, e altre ſorte di votamenti; eche Galien
d'altri diviſamengi degli umori infrămetterſi non volle, ficome poco utili alla
medicina. Madi ciò egli toſto pētuto dice eſſervi un quin to umore, cioè a dire
il ſucco nutricāte, il qual giudica egli effer soinmamente a ſaperſi neceſſario,no
che utile a chibe neje lodevolmente apparar voglia la medicina; e pure il fuo
Galien di quello nulla ragiona, ne moftra certamente pun to ſaperſene. Ne è
vero ciò, che egli millanta di Galieno, eſſer quello non poco commendevole per
avere cotal divi ſamento da primaritrovato; concioſliecoſachè poſto che loda
pur nedoveſſe all'inventor ſeguire, certiſſima cofa. ſia, che la dottrina
de’quattro umori molte centinaja d'an ni, anzi che Galien naſceſſe divulgata
già foſſe nelle ſcuo le della medicina. Ma ſe il Gliſſonio intéder vuole di
que. gli uinori, che in varie, e varie parti del corpo fan dimora, non mica già
quattro, ne cinque, ma molti, e molti egli no ſono, de' quali alcuno non ſi è
forſe ancora ſcoverto. Nelle vene, e nelle arterie poi non trovarſi queſti
quattro umori, ſi è moſtro già; ed i più ſcorti,e celebri fra'Galienia
ftimedeſimil'han conoſciuto. Vn divifamento poi quaľ è quel di Galieno dietro
agli umori, che non ſi da niuna cu. ra d'inveſtigar la natura delle coſe, non
ſolamente utile niuno, ma danno graviſſimo alla medicina ha recato Maquanto al
medicare, comechè ſcorto molto, eave veduto egli ſi moſtri il Gliffonio in
conſiderando una fiata, che'l trar fangue nella Rachitide niun giovaméto rechi
allo infermo;nonperò di meno non ardiſce eglia riprovare una sì
biaſimcvolcoſtuma dagl'Impirici in Inghilterra, ficome cgli afferma, introdotta.
Non propone egli medicamen to, che volgar non ſia; ne contento d'un ſol
medicamento, molti e molti inutilmente nemeſcola inſieme non men che gli altri
medicanti ſi facciano;e in ciò,per cacer d'altro, da egli manifeſtamente a
divedere quanto mal fornito'lia d'efficaci, e valevoli medicine. E ciò baſti
avere al preſen té del ſiſtema del Gliffonio accennato; il qual per altro è
certamente non poco da commendare; maſſimamente per la ſomma, e maraviglioſa
diligenza, e ſollecitudine da lui pſara nelle coſe dellanoromine Ma di troppo
lungo tempo abbilognerei, fe lo voleli eſaminare i fiſtemi cutti dellamedicina
dell'Ogelande, del Regio, del Moebbio, del Carlettone, delBartoli, e d'altri
ſcrittori. A baſtanza potrà ciaſcuno in leggêdo le loro ope re da ſe fteſſo
accorgerſi, che il più di loro poveri d'intendi mento, e ſcarſi di partito per
quanto facica vi duraſſero,ra de fiate han potuto dar paſſo ſenza la ſcorta
d'altri ſetteg gianti,l'opinioni de'quali tutto cheda loroſtravolte,abbia mo
noi a ſufficienza conſiderate,e riandate; e altri di loro, fra'quali il
Tacchenio,il Travagino,il Sualve,ilFlúdize'l Fo lio fon così groſſi, e
materiali ne'loro diviſamenti, che non fa huopo,che ſe ne abbia a far menzione
alcuna particola re: Adunque chiaramente conoſccſi, che da que primi tempi, che
ebbecominciamento la razional medicina lino a giorni noſtri,per quanta
induſtria, e diligenza, che da'fi lolofanti antichi, emoderni vi ſi fia
adoperata, e per qua te coſe per la morta, e per la vital notomia liaoſi nelle
ani. mali, nelle minerali, e nelle vegetali ſoſtanze novellamen te ſcoverte, e
per quantepruove, e ſperienze da'ſaggi, u avveduti medicanti in sì lungo
proceſſo dicempo nelle cus te delle malattic fieno adoperace, non ſe n'è potuto
giam mai rierar nulla di ſaldo a ſtabilir per cercano conoſcimer to, e per vera
ragione dottrina niuna. Ma non dee ciò re car maraviglia a cui tanto, o quanto
alle ragioni pongas mente; per le quali, s’Io pur non vado errato,apercamen-,
te conoſceſi quanto ad huom’malagevole, anzi impoffibile affatto riefca lo
ftabilir luftema alcuno di razionalmedicin na; e ſe pure dalle preterite.coſe
giudicar delli di quelle, che debbono avvenire, per tanti,e canti, che
infelicemente, vi ſon naufragaci non mai ſi vedrà capitarne a ſalvamento
ſeggettante alcuno; e ficome... Chi folca il lido perde l'opra, e'l tempo, così
avverrà certamente a ciaſcun' altro, che tenterà una ſimile impreſa 3 ne
potrafli così nel filolofare in medicina, comenell'adoperarla prometter
ficuramente d'aggiugnere a ſaper la natura de'mali,e come, e perchè ne noftri
corpi s'ingenerino, e come riparar vi ſi polia. Anzi, o infeliciflia condizione
di noi mortali ! nel continuo ſu buglio, e rimeſcolamento dellamedicinaper
fatica, e di ligenza, che adoperata viſia, chi mai fin'ora avviſare ha potuto,
che coſa ſia un piccioliſſimo catarro, che ne mo-. leſti? e. venne queſta
veritàmolti, e molti ſecoli avanti co noſciuta per tacerdi Pitagora)da
Empedocle,da Acrone,da altri antichi filoſofáci:e da Platone, il quale della
incertezza della medicina favellado ebbe a dire ήν δε καλούσε μενΙατζικής
βοήθεια δε πε και αύτη χεδόν όσον ώρεψύχα καύμαπ ακαϊρα, και πάση τοίς
τοιούτοις ληίζονταιτην των ζώον φύσιν, ευδοκιμον δε ουδέν τούτων είς αφίαντην
αληθειάτην άμεσα γαρδόξοις φφάται τοπιζόμα. Venne altresìconoſciutaqueſta
verità, oltre a Seſto Empirico, da Cornelio Celſo:allorche diſſe della medicina
favellando: eft enim bęc ars conjecturalis,neq;ei refpondent,non folum có.
jecture ſed nec etiã experientię per; nulla diredel Cardi-: nal Cuſano, e
d'aleri moderni. E a ciò ſenza fallo riguar dádo i più ſaggi, e ſcienziati
popoli della Grecia, quali ve ramente fur gli Acenieſi: allor che maggiormente
in Aten ne fioriva la filoſofia, e le buone letterc, traſcurarono la medicina,
no facendone niun capitale, come ſi può vede re nel Pluto d'Ariſtofane Ούκούν
ιατρον εισαγωγών έχρήν τινο Tis dñi iarsós ész vũv šv tñ wóriet;.. Ούπ γας ο
μιθος ουδέν έσ', ούθ ' η τέχνη.. E dietro agli Atenieſi anche iRomani; i quali
avveduti, c ſagaci in yotar dalla Grecia il copioſo teſoro di tutte le buone
arti, e ſcienze, la medicina ſolamente d'imprender non curarono; anzi dice
Plinio: Populus Romanus neque 46-; cipiendis artibus lentus: medicinæ etiam
amicus: donec ex pertam damnavit; e dagli Eccleſiaſtici ſcrittori vien anco l'uſo
di sì fatto meſtiere ſommamente abborrito, e danna to; infra'quali il Balſamone
Patriarca d'Antiochia così dela; le manchevolezze di quello avveduto, ne
manifeſta: avve-, gnachè la medicina pur quella veramente fia, che produces ©
riſerba la ſalute ſecondo lo intendimento de laggi: non dimeno non può ella al
ſuo fine aggiugnere; ed Arnobio;, Medici curătanimal humi natū, ut confisú
fcientia veritate; fed in arte ſuſpicabilipofitum, conjecturarum eſtimationi
bus nutans; e'l medelimo ne ſcrive llidoro Pcluſiost: clo Nnn niin 1 406
Ragionamento Sesto migliantemente con molra vaghezza Stefano Veſcovo di Tornaja:
Hippocratisin ebo Galeni diſcipulos, ut mihi confu lant conſulo: incerta famper
ab iis oracula deportans, qui in vafevitreo coloris, & fubftantiæ peccata
diſcernunt. Perchè 9. Chieſa, come l'apportaro Patriarca Balfamone ne nar
ra,Puro, e'l meſtiet del medicare a fuoi Cherici interdiſſe: adunque, egli dice,
non è certamente ragionevole, che il Sacerdote, oʻI Diacono, o altro qualunque
Cherico tra fcurando un minifterio irrepréfibile, che già impreſe y oraw
s'impieghi ad er meſtice mutevole, edubbioſo, e alfai fo vente fallace. E S.
Bernardo volle, chei fuoi MonacidiS. Naftagia nelle loro malattie non fi
ſerviſler: punto de' me dici; al che riguardando per avventura Franceſco
Petrarca huom di ſaldo, e intero giudicio,ſcrivédo a un ſuo amicogli diede
queſto ſalutevol conſiglio: Nulla eft rectior ad falute via,quă medico caruifje.
E certamente, molto ben per mio avviſo venne conoſciuto al Petrarca,quel che
dopo lui avvi sò l'avvedutiſſimo Franceſco Berni, 2.4. La medicina como fue
erbe, e coſe diri Che fa? caccia carote a tutti mali..'.... Infin che l'huom
perſempre fa ripoſe. Queſtofece ella al figlio d'un gran Rede noftri tempi; il
qualeavvedutofi de vaneggiamentidella medicina, alla fine fece boto scomedarra
Giorgio Orni: Si Deus aliam prolem largiatur, nullo se ampliusmedico ufurum. E
per ciò oltremodo fu ſaggio l'avvifo diquel profodo cd ampio pelago d'ogni più
rara, ed antica doctrina Giuſeppe della Scála, il quale ricusò,come narra
Daniele Einlio,ognicoſi glio de'medicāti nell'ultima fua inferinità; ptaceredi
quel gran filoſofante Franceſe; il qualecoll'altezza del ſuo inté. dimentoporè
montar ſu la vetta del più belſapere; Io di co Michel diMontagna, che nelle ſue
infermità rifiutò sê premai l'operade’medicanti: defichepoſcia valevoliflime's
ragioni e' ci reca ne'ſuoibelliſſimi volumi. Neparmi qui da dovere trapaſſar
lottó filenzio quel convenente di Do menico Sala, celebre lector di medicina
nella famofiffima ſcuola di Padová; il quale canto non potè tenerli, che alla
fine, un giorno non apriffe a' fuoi fcolári quel che e' del la Del
Sig.LionardadiCapoa. 467 la medicina ſentiva, inqueſta difinizione: Medicina ef
ars * illudendimundum, &à qua totus mundusdelufus eft. La qual definizione
porſe cagione a Rafael Carrara di chiarir, ſi affatto della vanità d'effa, di
tralaſciarne l'eſercizio, e di cantare in quel ſuo giocoſo ſonetto Ben diſe
quel grand'huom lettor primero Nela Città d'Antenore fondata, La medicina deve
eſſer chiamaja Arte da mincbionar il mondo intero. Ma chealtrondegir
richiedendoteſtimonianze di colo ro, che a faccia ſcoverta abbia la medicina
guarata. Non folea Mario Zuccaro (a ciaſcun di noi ben conoſciuto ) no ſolea,
dico, ſovente dire a' ſuoi ſcolari: miferi, ed infer lici noi, félmondo
arrivale a faper maile,debolezze nofire, che ne meno ne poffiam promettere
colla noſtra médicina d'a yere a guarir un picciolo carbõcello,certamēte chene
cõverreh be apparar altro meſtiere? E quinciè avvenuto poi,c'huomi ni d'acuto
intédiméto, e di ſano giudicio, e di profondo fą. pere, e di nobil'animo
forniti,pulla abbian curato d’eſer citarla; infra i quali per tacer.canţi
antichi diligenti inve ſtigatoridelle coſe, ſavj interpetri della natura, ed
altri huomini inſigni dc'tempi noftri, lol faro menzione del no ſtro
Col’Antonio Stigliola, riſtoratore della Pitagorica filoſofia: e di Gio;
Alfonſo Borrelli chiaro, ed eccellente in ogni ſcienza. Anzi quinciè egli
avvenuto, che i medeſimi razionali medici,i quali moſtrano che più
diciaſcun'altro tengono a gran capitale la mcdicina, l'abbjan, nel maggior
hyopo mcNain son çalere. Intorno allaqual coſa miricorda d'un medico infra’più
venerandi di queſta noftra Città,ch'eſſen do non ha guari dell'ultimo ſuo male
infermato, e vani veg gédo riųſcire,e ſenza pro gli argométituttidella ſua medi
cina, diſperato alla fine miſeſi in mano d'un famoſo fpe -ziale; ed
eſſendoſicolui una volta rimaſodi viſitarlo, egli impaziente entro una carrozza
fattoſi, un picciolo in atc raſſo allogare, comepotè il, inen male; alla
bottega delo ſpeziale andollene a richiamarſi agram ente della graſcura tezza
dilui; cd avendogli par iſcurarſi colui detto: A voi Nnni non fa meſtieri la
mia opera, imperocchè quando vi foffe in grado porreſte avereil Sig. tale (così
un principaliffimo medico nominandogli, e di'lui amiciſimo) allora tutto
crucciato l'infermo ripigliollo dicendo, io vo'da voi ſola mente effer
medicato; e ſareiben folle, ſe volelli mettere in balia delle ciarle di lui la
cura di mia ſalute. E dalla medelima incertezza della medicina avvien,che P lo
più i medici, ſe'l vero avviſanomolti,e graviſſimi autori Sien così ingorda, e
sì crudelcanaglia; poichè non potêdo mercè della lor opera promettere alcu na
coſa dicerto, abbiſogna loro, che alle giunterie, e alle frodi abbian ricorſo
peraccattar lode,ed eſtimazione. Ne fon elleno mica nuove le loro aſtuzie: ma
fino a'tempi di Galieno, per tacer de’più antichi, eran ſommamente in vi gore.E
cui non è noto quel celebre diviſamento di Galicno, tolto per la più parte da
Ippocrate, ov'egli mette nella via chi che ſi voglia, acciocchè buon medico
divenga: in que. fta guiſa? In primad'ogni altra cofa è da diviſar delle viſi
tazioni de' medici; perciocchè alcuniinfermi rade, e altri ſpeſſe volte
deſiderano eſſer viſitati.Non dec egli il medico ove il malato riposādo dimora
étrar facédo romore co'pie di, ſicome fanno alcuni; o alzando di ſoverchio la
voce: acciocchè ſvegliato colui non abbia a lagnarli, che gli ſia rotto in
teſta il ſonno. Ma i ragionamenti de'medici in al cuni ſono ſciocchi, e ſenza
ſenno, ſicome per rapporto di Bacchio, d'un cotal Callinatte racconta Zeuſi: il
quale ef fendo da un infermo domandato,' ſe di ſua malattia morir doveffe,
rifpofe con quelle parole, ει μή σε λητωκαλλίταις γά yato, e ad un altro
infermo ſomigliantemente riſpoſe: Κατθανε και ΠάτροκλG- όπερ στο πολών αμάνων.
Morio Patroclo ancor di tepiù degno. Oltre a queſto dee effer il medico
affettatuzzo della per ſona, e grazioſo in entrando, e in ſedendoſi, acciocchè
nó gli ſiano fatte le ſcherne; ma non cotanto tronfio, e traco tato, ina
mezzanamente grave, ſe non ſe per avventura amaffe meglio l'infermo vederlo
alquanto modeſto, e umi le, o di ſoverchio altazzoſo. E ſomigliante dobbiam noi
dire de’veſtimenti del medico, i quali ancoramezzanamé te debbono eſſer
foggiati, ne cotanto ricchi, e nobili, che troppo tracorato il dimoftrino: ne
cotanto ofcuri, eruſti cani, che il facciano poco a capital tenere dove egli
ufaw; ſe non ſe ancora agli infermi, otroppo ornati otroppo vie li piaceffero.
Così anchela tonditura de'capelli eſfer dee a grado degliinferini, i quali egli
medica; perciocchè ins corte d'Antonino padredi Commodo,ciaſcun famiglio per
imitar la coſtuma dello Imperadore, fino alla cuticagnato, devafi; perchè Lucio
chiamavagli tutti Mimi; e per con trario i famigli di Lucio lūghe,e belle
chiome nudrivano. I medici ancora aver debbono l'unghie nette, e ben forbice; e
fe per avventura putiffe loro il fiato, o le dicella, o tutta la perſona,a modo
di becco, fpiacevole odore gittaſſe, fi debbon eglino d'odoriferi unguenti,
od’acque nanfe for nire, prima che ad altri medicar fi preparino. Ma purvoleſſe
Iddio, che queſti, e non altri foſſero i lo ro artificj; eglino di vantaggio
ricorrono alle frodi, alle in vidie, alle maladizionije ed altre illecite
ſtrade, acciocchè fopra gli altri avanzarfi poffano, e maggiormentein pre gio,
e ſtima ſorinontare. Così vedeli, che un medicobia fima; e danna i medicamenti
dell'altro; tutto che que'me deſimi ſiano, ch'egli appunto diviſati n'avrebbe,
s’a lui foffe toccata in prima la volta. Al quale, ed anche pega gior misfatto
non vergognoſli Aſclepiade di confortare i fuoi ſcolari, fe vogliam dar fede a
Celio Aureliano che'l rapportascosìdilui dicendo. Primo etenim invidiosè jubet
fi qua ante ipſum medicus adhibuit, repudianda. At fi non adbibuerit,tuncprobanda,
tanquamlegitimaputans ut hæc aliis adhibentibus noceant, ipfomedeantur. Earrab,
biato ſeguace & Afclepiade moſtrolli il famoſo Gabriel Zerbi, allor,
cheſcriffe: Medicus aliorum remedia ne lave det,utſupra vulgaresfapere videatur;
e l'aſtioſo Teſſalo fpinſe l'Imperador Nerone a diſpregiar tutt'altri: rabies
quadă,comenarra Plinio, in omnisævi medicos perorans. E d'un tal medico ne
narra il giuriſconſulto Alfeno: medicus libertus, quod pataret, fi libertiſui
medicinam nonfacerevt, multo plures imperansesſibi habiturum, poftulabat, ut
feques rentur fet; netie opus facereni, Ed'un altro medico narra Calliodoro,
che delbarbaro Tiranno Teodorico un sì fat, to privilegio iinpetraffe: inter
faburis magiftros folusbabea, ris eximius: & omnesjudicio quo cedant, qui
fe ambitiones maruzcontentionis.excruciant; eſto arbiterartis egregie,e04
rumquediſtingue confli& us, quos judicare folusfolebat affe Etus. Or li
potea penſarmai ſcimunitaggine maggiore di queſto maeſtro Scimmione? Egli aveva
a ſedere a ſcrannaa giudicar le più intratriate quiftionidella natura, come ſe
la medicina forſe arte da mattonar le ſtrade, a da far bambuc cj; o comeſemonna
Natura ſtata foſſe una maſſaja fante, ſcá, preſta a ſeguire icomandamenti del
Sere. Ne è da die favolofa affatto la novella di que’medici, che per uggia ze
mal talento guaſtarono, e atterrarono diſpetroſamente; bagni di Pozzuoli; e di
que'ribaldi ancora, che il mede fimo ferono alle pregiatiſime acque medicinali
della valle d'Anfánto, di cui ancor vive la famaappreſo que delpae ſe Irpino.
Perchè ragionevolmente forte l'avvedutiſfuno Pietro d'Aponamorde, e sfregia il
medico, chiamandolo talora: Invidie pelagus, derrationis organum, ambitionis
perforatam clepſydram;aliena veritatis contradictorem gar. rulum, propriæ
ignorantia conftantiffimum defenforem, & inexcufabilem ægrorü neglecturē:c
ancor faggiamente avvila il Magati colà ove fi lagna, che'l ſuo govello modo
dime dicare non avrebbe trovato gran fatto ricevitori: da che no- sébrava di
molto pro.aʼmedici,i qualimzi ſempre fono alla propia utilicà,e al vil guadagno
intefi;foggiugnédocgli: denociniis, atque affentationibus, ut potentium gratia
uti ad queftum poffint, facram medicinam fædare,c libiitfis æter nas infamiæ
notasinurere nihili faciunt. E Giulio Celules della Scala nella fua poetica,
de’medici parlando: turban, dice, videmus à primis literarü rudimentis continuo
ſe ipſam eo fenomine venditantem, invidam, maledicam; cbtrecta tricem; novam
ſpeciem cynicorum yavaram, temulentamus Supinam, ignavam fimul,asq; ignaram. E
GirolamoCar dano di finiſſimo giudicio; e più che altri del meſtier della
"incdicina intcndcnte, vuol; che da eſa neceflarianente 5 avvegna,che
taliticnoquei, chefeſercitaiio: medicina ! facit, ſono le ſue parole,nonreruin
memoris, fed verborü:1 callidos y verſatiles ingenio;inuidos avaros; idolofos,
las boriofos, non ingeniofos, de minime graves s opus enim coni rúm, d
exercitatio minusquam liberalis eft: e altrove pa rimente de medici avea detto:
funt autem improbi fermèi omnes noftra ætate, adeò ut nihil pejus excogitari
poffit. Perchè gli ftrolaghiallogando la medicina conſervatrices ſotto labalia
del Toro, e di Venere, onde huom fi consi dace, per quel che eſſi dicono,ad
ogni force d'impudicizitz e di diſonore: c la medicina curativa ſotto quella
diMarte, edello Scorpione, fer gran fenno a dovere sì fatti fregj in veſtire,
come ne diviſa il mentóvato Conciliatore; il qua-> le ſoggiúgne, chedalle
ſtelle medefime, onde venir ſuole l'eccellenza de’medici nel for meſtiere, vēga
anche loro la malvagità de'coſtumi; perchè finalmente ei conchiude,um",
eccellente, e perfetto médico nonpoter eſfere ſe non fer fcellerato huomo, e
malvagio; ed avvegáachè vani, efol li fien ſempremai da giudicare i
cicaleccj.delfa ftrologia: è nondimenodacredere, chegl’intendenti dell'arte,ciò
cut to a bella poſta fingeffero per adattár le coſtellazioni a quelle coſe,
chetuttogiorno nel meſtier della medicina', e ne’profeſſori diquella
s'offervano's Má chi mai ilmaltalento, e l'uggia demedicinarrar ba ftantemente
potrebbe, e come ſtizzoſamente l'un l'altro tutt'ora ſi carminano, efimalmenano.
Egli è coſa pur manifeſti a ciaſcuno l'avere gli aſtioſi medicidi Danimarca
tracollato dalla grazia del loro Rè it benigniffimo,e inge gnofifſimo Ticone
della perduta ftronomia famoſiſſimo ri. ſtoratore, intanto, chegliene fư tolta
l'Iſola, e la Rocca d'Vraniburgo, di cui egli era Signore: e sité tanto mara
vigliofe operazioni', é ordignidella ſtronómia, ele nobi lißime chimiche fucine
rovinarono, che appená oggi,non ſenza lagrime, fe neriſerba la memoria: E
l'ombra foldi si gran corpo appare. Ma ſcelleraggine così grande di tradir
nemichevolmente la patria, ſpogliandola di quello fplendentiffimo lume, non pur
delSettentrione,madel mondo tutto, onde foſſe sõi moſſa a commetterla la
cagneſcatabbia di que'ribaldi me dici, da cheIo non potrei ſenza lagrime
narrarlo, dicalo in mia vece Pier Gaſſendi: Erant in his medici quidam, qui
videntes non modo exDania, fed ex regionibus etiam cete ris maximam egrorum
turbam ad Tychonem confugere, cu Spagyrica illiusremedia, quę quibuslibet
gratis largiebatur expertifeliciter, ac morborumetiam valgo habitorum infa
nabilium levamen fentire, livore inſigni cxardefcebant, cu quapotenant apud
quoslibet,procereſquepotisſimum, quibus preftabant operam,ipfius nomen
traducebant, E o quanti ale tri eſempli della coſtoro invidia rapportar potrei,
ſe non che troppo ne ſarei per andare alla lunga. Apollo crudca liſſimamente
ucciſe il celebre medicante, e, pocta Lino, la qui inorte pianſero eziandio le
genti barbare; per lo che gli Egizi una flebile canzone ſopra tal convenente
com poſero, appellato in lor lingua Emaneco, ci Greci Lino, la chiamarono.
Ippocrate, comeſcrive Andrea antichiſe funo medico, inſidioſamente brụciò la
nobile, e ricchiffima Libreria diGnido; e quindi egli poi per tcina fuggiſli. A
Quinto, medico famofiffimo, dice Galicno, fu meſtieri gombcrar Roma di
prelente, per ceſſarele ribalderic d'al tri medici. E in Roina pure attoſſicato
da’rivali luentura.. tamente moriffi un grandisſimo medico, come narra Gin
lieno, ilquale anco di ſe narra, che egli fieramente perſe guitato yenne da
parteggiantimedici di quel tempo. E per nulla dir quì delle occulte inſidie, c
machinazioni, e delle trappole, e frodi ordinate dagli Arabi medicanti inverſo
Avicenna, Avanzavarre, e Raſi: quai vili trattamenti nó fi ferono poi a Raimodo
Lullio, ad Arnoldo da Villanova, a Pier d'Abbano, c ad altri molti letterati di
vaglia, perli maligni medici di que' tempi? il dicano pure le fughe, gli elilj,
le prigionie; per tacer delle ſatire, dell'invettive del le falſità, delle
tradigioni, onde que’valent huomini có punti oltremodo, e travagliati ne
vennero; imperocchè di sì fatto memorie per la tralcutaggine degli ſcrittori di
que tempi Debil aura di fama appena giugne. E laſciando da parte ftare, come
coſa dinon tanto rilie? vo, quanto i limiti dell'oneſtade oltre paſſafle in
favellan do, é in iſcrivendo Maeſtro Gio: della Penna, (chea 'di ſuoi con aura
di grido popolare in queſta noſtra Città eſer citar fi vide la medicina, contro
Maeſtro Frāceſco Zannel li; egli è ben certo, che più d'un buonno ſcienziato, e
il. luſtre trafſe già a fondo l'ardente, e peftifera invidia di Maeſtro Dino
dal Garbo medico Fiorentino. Ma quandº altri, e quanti nobili e illuſtri
medici, oltre al Veſalio a mal partito menòla velenoſarabbia, e le cupide
ambizioſe voglie di meſſer Giacomo Silvio ! collacui eſtrema aya rizia
ſcherzando quelgran Poeta Scozzeſe finſe, che ſcola piti foſſero nella lapida
della ſua ſepoltura i ſeguenti verke Sylvius bic fitus eft, gratis,qui nil
dedis unquam, Mortuus, & gratis quod legis ifta,doles. Ma quali onteper
Dio, o quali ingiurienon ſoftenner que! virtuoſi,che con eſfolui cócorrevano
alla cura degl'infermi, dallamaladizione, e dall'altezzola, e sfrenata
tracotanza delGalieniſta ineffer Frăceſco Rabalefio così reoze malva gio
huomo,che d'accordo col Marotto motteggevol Poeta egliosò di gittar le prime
födaméta dell'ercſia nella Frácia? e da Michel Servetto, la cuiempietà era
inteſa a rinovellar gli errori di Paolo da Samoſata, e di Marcello Ancirano: e
dall'empia, e ſopraſtante arroganza di Giorgio Biandra ti, e di Franceſco
Stancato pur esli Galieniſti;per opera di cui ribellando ſi fottraffe alla
cattolica fede il giovanetto Principe Giovanni Sepuſio, e quindi ſen? vennead
infeſtar dell'Arianeſimo colla più parte dell'Ongaria la nobilisſima Proviácia
tutta della Tranſilvania. E che non fe contro i poverimediciſuoi emoli la
barbara fierezza di Giacomo da Carpi; il quale rinovando la lagrimevol
carnificina d'E raſiſtrato, e d'Erofilo,osò, come narra Paolo Giovio, far
notomia, non già d'un reo alla morte condennato, come i già detti due Greci
facevano, ma vie più ſpietatamente d'un innocente infermo alla ſua cura
commeſſo. E per far omai paſſaggio a coſe più note, e men forſe moleſte: che
Ooo non oſarono, che non imprefero, che non machinarono a danni del Paracelſo i
Galieniſti medici della Germania? Necertamente è da credere il Paracelſo averſi
lui ſteſſo tal briga adoſſo recata perricredere, e rintuzzare il lor rives
ritisſimo Ser Galieno: conciosficcoſächè così fieramentes ancora eglino
perſeguitarono, e malmenarono Lionardo Fuſio, Giovan Cratone, e Andrea Mattioli;
il quale con meche Italiano, e di patria. Sanefe, con eſfo foro dimora. va; e
altri', e altrimedici,purGalieniftige della formede, fima banda parzionali; e
fomigliáte ferono i Galieniſti me dici Italiani a Gio: Battiſta Montano, a
Girolamo Fracaſto. ro, ea Matteo Curzio, comechè queſti tutti afpada tratta la
dottrina di Galieno difendeffero: e nel medeſimotempo eglino unitamente contro
Giovanni Argenterio diGalien nimicocongiurarono. Nedi coralrabbia innocenti ſi
ſer barono quegli altri pur Italianimedici,che ſtizzoſamente & 'avventarono
contro il dottiſſimo Girolamo Cardano. Ne dágli Italiani altresì, c
daʼFranceſimedici tralaſcioffi quá lunque ſtrada d'oſcurarc, e deſtinguere quel
chiariffimo lume dell'eloquenza e d'ognidottrina incendétifſimo Gilt, lio
Ceſare della Scala;'eche non tentarono imaeſtridella famoſt ſcuola diMöpelieri
per abbattere il celebraciſſimo Rondelezj, e'l Giuberti, la cuiimpareggiabile,
e non or dinaria dottrina ſopra tutt'altre ſcuole d'Europa di gran lunga
poggiar gli facea?Ne tono nuove le rabbioſe invidie, el'affrontarebattaglie
d'e’medici di Parigi controil Quer eetano ', il Torqueto, il Baucineto,
l'Arveto, il Libaviowe tiaſcun'altro Chimico di que'tempi, da noi in parteancor
più addietro accennate. È chinon falacruccioſa invetti va compoſta in Parigi da
Germano Cortin contro i Para eelliſti fornita dicalunnie'ye di fofiſmi tutti
fanciulleſchi, fenza fermezza:niuna didimoſtramento? Matroppo lungo ne
verreišs’Io diſtintamente narrar vo leffi le travaglie; e le noje;che nella
Lamagna,nella Dania, nella Franciada’rabbioſi rivali fofferirono Pier Severino,
Michel Tofſite, Bernardo Perotti, Girardo Dornei,Mar tino Rolando,, Oſualdo
Crollio, ealtri infinitimedici doro tiffimi, e avveduti affai; i quali ſempre,
o nella fama, a nell'avere, o nella perſonalungamente fur'oltraggiati. E fenza
andar mendicando eſempli di fuora, laſciando das parte ftare le non meritare
perſecuzioni del noſtro Antonio Altomari,abbiam purnoi con gli occhi, o congli
orecchi baſtantemente per addietro compreſo la rabbia de'medici nella noſtra Città
contro il Ferrillo, e lo Schipani, e'l For tunato, e'l Ricci, per tacer
d'altri, e malmenato da rabbio. filime trafitture d'invidia il Macaone delle
noſtre contrade Marc Aurelio Severini (le cui doctiflime opere in molte, varie
lingue traportate non mai per tempo diincaricate la ranno) così
egliperaccuſad'invidiofi rivali,ſenza riguardo alcuno averli a'meritidella fua
perſona, fu prima incarcerz to, e poſcia toltoglilo ſpedale ove eglia
cocantiſpacciati infermi già la ſalute maraviglioſamente avea riportata, alla
fine de' ſuoi beni ſpogliato, Ma delle malvagità de'. medici, quali coſe
tralaſcerò lo, o quali ne ridiro? E pero chè non fo lo côte ad una ad una le
ingiufte uccifioni, che medici innocentiffimi há per altio d'altri medici
miſcrevol mente patito: fra le quali mi rammenta prima di tutt'altre quella
ſpietatiſlimaal celebre Virsūgio data da quell'infa me medico Scozzeſe,nó
peraltra cagione, come ſcrive Giz no Leoniceno, ſe non ſe, per dirlo colle
parole di lui: ob con munem in praxi novatam operam, &à Virſungio non teme
re traduct am tăta in virum honeſtisſimum flagravitinvidia. Ma in paragone di
tutte queſte, lagrimevole oltremodo è la narrazione del gloriogfimo martire,
che ora beato gode nella preſenza di Dio,Pantaleonc: a cui tanto, e si fatta
-mente porè l'invidia de’mcdici, che accuſacolo all' Impe cradore di Roma
Maffimiano, non mai fi: rimaſero, finchè " non videro per man del
manigoldo dal buſto l'onorata te Ita ſpiccarſi. Mache dalla medicina medelma
avvenga, che i medici fian così,comeabbiam diviſato malvagi,polliam farne più
chiaro argométo,perciocchè eglino no pur nelle noſtre par ti, dove parch'abbiſogni
più d'un artificio ne'medici: ma anche la dove gli huomini ſon grosſige
materiali, anzi che Ooo 110, 1 2 no,
ufano altresìi medici malizie; ed inganni per accie ditarſi nelfor meſtiere. E
per tacer d'altre parti: nell'Ia die Orientali, come riferiſce Francefco Silvio,
Solent muka ti medici ad febrium variarum curationem acus aureas lone gas, ac
tenuisſimas in varias corporis partesintrudere, atq; ita putant febres
miraculofe curare; e nel Tapui danno a di vedere a' cattivelli infermi, che la
cagion di lor malattie fian certe pietre, o animali, o ſterpi, o coſe fimili,
le qua li e'dicon, che gliele traggon dicorpo a forza di medicine, e vomitivi;
e in tal guifa fi fanno a credere per grandiflimi bacalari; e in tanta
reputazione ne montano, che anche i Re loro invidiandofa, voglion effer diloro
ſchiera. Nel ta muova Francia poi, ficome teſtimonia il Padre Brel fani, i
medici danno ad intendere a que’popoli, che tutti i medicamenti infallibilmente
le infermità guariſcano: ed ove no’l facciano dicon'eſfer il mal ſovranaturale,
a cui ſovranatural rimediofaccia meſtiere; e tali aggiungono ef fere per la più
parte le vomitive medicine, e só quei volpo. ni sì deſtri, checol vomito vi
meſcolan di botto, ſenza che altri lor tolga in fallo, o ciocchetta di capelli,
o pietra, o legno, o altro ſimile; il qual ſenza durar molta fatica per fuadono
altrui eſler la malefica fættura, la quale anche ta tor fan veduta di cavarlz
fuori colla pūca d'un coltello, che tengono infra le dita, o altrove naſcofo; e
ſe poiavviens, che piggioril'infermo, cglino ſoggiugnendo, che il mal d' un
altro Demonio fifaccia, il rimedio replicano; e quando finalmente lo infermo fe
ne muoja, ſi fan loro ſcuſe, con dir, ch'il Demonio,che l'uccide, è del lor più
potente; c in cal guiſa quei ghiottoncelli queſte, e millalcre novelluzze da
ridere a quegli imboccano. Or ſe la medicina è tales, che da per fe delle frodi,
e degli ingamni abbiſogna, deb bonſi ſtimare certamente oltremodo felici
que'popoli, che cosi zorîchi, c barbarida noi vengon detti;.poichè a loro è
conceduto privilegio sì grande di non avere a provar l'o pera dicoſtoro.
Felicisſimi furono adunque i terreni del · la Libia y dell'Arcadia, e d'altre
fimili Regioni, in cui si dannofa gente allignar per alcun tempo non ſi vide:
felicisſimo per fei ſecoli il Popolo Romano, il cui fenno che pote da
debolisſimi iniz; ſollevare alla ſignoria del mondo la fua
Repubblica,faggiaméteper lo detto ſpazio di tempo vietò affatto l'uſo
de'medici. Felicisſima in ciò la gente del contado, che il lor conſiglio non
curando,della vita allus ga il dubbio corſo; onde dieron cagione ad Ercole
Bentis voglio di cantare in loro loda Però ſaggioilvillan, chiam'io,che quando
Égli ba la febbre,che più arde se bolle Non va cura di medico cercando; Ma
nelgran parafiſmo il fiaſco tolle De l'acqua,.e tanto bee chepoi diviens
Diſalubre ſudor fovente molle: Overa l'ombra de la viti amene Il Settembre o
l'Agofto a luva mezzo A fare il corpo lubrico fen ' viene; E la manna, el
Riobarbarodiſprezza, La piumangbiunti, il ſervizial, la curi, Che tolgon
l'appetito, e la fortezza, DifeLafcia diſporre a la natura: Che ſe dato è
diſopra,chetu mora, Non ti guarrà dieta,o lunga cura. E più avanti E narraci un
villan nofiro canutog Ch'altro nonmangia, cheformaggio,mentre Ha febbre; emai
non hamedico-auuto. E nonvoglio (foggiunse egbi) che m'entre Nojofo, e
diſpiacevoleGriflero, Neamara medicina in queſto ventre, Ede la febbre
nel'ardor più foera Votai fovente in vece di ſillopa Di moſto un capacisſimo
bicchiero. E forſe,che farà queſto qualchenovellar dipocca, o da orator
menſonieros Michel diMontagna filoſofante,un de più grandi', che peravventura
abbia avuto la Francia, o fommamente veridico,non cinarr'egli, che in un
villaggio, ove inai non vi bazzicavaalcun medico,conmiglior ſanità, ch'altrove
vivevafi? Maſenza entrare in alcie provincicis ciò non veggiamoa pruova rutto
dìnell'Italia echiepper Dio di noiche, non ſappia ciò, che molt'anni avveniffe
in quella terra, chenon avendo mai per addietro ravviſata faccia dimedicoil
Signor di effa immaginandofarle ungrá pro un ve n'introduſe, ilquale
co'falaslijpurgagioni, cve Icicanti, e altri rimedj, ivi non primanominati, non
che praticati, ſeppe sì ben pelarla, ch'eravicino ad eſſer vo ta d'abitatori:
ed avvedutiſene i vafſalli,a guiſa di cani mordenti ſi ferono a doffo al padrone,
e lo sforzarono ad mandarne via il medico. Manon ſo come caduto dalla. memoria
mi'era ciò che al noſtro propofita avviſano il fan moſisſimo Adriano Turnebo,
huomio di fingolar giudicio, e di chiara fede: Animadversi, ſctive, in
dyfenteriæ popu • larimorbo, in vicis de pagis, qui medicina non utuntur,
mortuos, aut nullos,aut paucos: in quibufdamurbibus plu. rimos elatus à medicis
maximofumptu:e Pier Gaffendi huo mo inſignede'tempi noftri: ex iis; qui medicas
adhibent, aliquiſanantur, aliqui moriuntur;pari modo aliqui Sanar jur, aliqui
moriunturex iis qui non adhiberi: avvegnachè eglipoinell'ultimaſua infermità
per non diſpiacere aʼme dicanti ſuoi amici ciò traſandandoſi facefle da loro
con re plicati ſalasſi uccidere; e quel celebre medicante Lazaro Meſfonieri
ache dice: multi fineullis auxiliis fpontè fanátur. in agris, & pauperes
medicis deftituti. Malaſciando que ſto ſtare al preſente, tra per la dubbiezza
dell'arte, tra per la varietà delle opinionidelle ſette; e per la nequizia; e
malvagità degli artefici fu egli ſempreragion di ſaggio, e avveduto governo il
non darloro orecchja determinar fol lemente coſa alcuna in medicina; e infra
tanti ſubugli di ſchiere, e fazioni non ſi yide mai faggio Principe, o ben,
ordinato reggimento vietar a mediconiuno, che con paro le, e con fattinon
paleſaſſe iſuoi liberi ſentimenti. Così con loro ragioni non poteronmai o
Erafiftrato ſommamé te caro al Re Antioco, o Aſclepiade amato aſſai, e tenuto
in pregio dal gran Pompeo, o Antonio Mofaonorato, e careggiato da Ottaviano
Ceſare, o Vezio valente adultero dell'Imperadrice Meſſalinamoglie di Claudio, o
l'am, inicislimo dell'Imperador Nerone, Teffalo, far sì, che a medici di
contrarie fette gi per comandamento de loro Principi foſſe il medicar vietato e
in lor diſpetto liberer fempremai fr tennero le fchierenemiche. Cosi fempremai
in Romàse in tutt'altre parti delmondo, nomeno i Razio nali, che i Metodici, e
gl'Impirici liberaméte il lormeſtie re eſercitavano, ciaſcun di loro ugualmente
il privilegio della cittadinanza di Romagodendo. E dopo le rovines dell'Impero
Romano noir ſi videinfragli Arabimedico vā caggiato ſopra altri: ne a'feguaci
d'Avicennafu maiper opera de ſeguaci diRaſi', o d Avenzoárre il medicarvieta4
to. Ne infra''noftri ancora, comeche cotanto l'Arabeſche dottrineper tutto
ſormontalfero, comeaddietro è narrato, non però di menonon poterono far sì, che
affatto abbats tutane foſſe la ſchiera de’lornimicisſimi Galieniſti;ned'al tra
parte poreron mai coſtoro dallor buornome pūto far gli cadere; e avvegnache con
ſátire, einvettive lungamen te piatifféro; nondiineno di nulla mai', o
reggimento, o maeſtrato, o Signoria vi s'inframmiſe, ne Principe', che faggio,
oavveduto foffe's colle maia parteggiarncalcunod Ein vero, non Sommo Pontefice,
o Re delle Spagne, o Imperadore;o Re della Francia, o dell'Inghilterra; o della
Suezia,o della Dania; o altro Principe;oRepubblica mai; ch," Io ſappia, ſi
legge nelle ſtorie, che voluto aveſſe prēder bri gadellegare; o
dellediffenzionide’medici. Ne il Re della Francia soi.parlamenti diquella ',e
ſpezialmente queldi Parigi, città in cui fivide lapiù lunga', e la piùfieracon
tefa infra i medici Chimici', e Galieniſti; avvegnachèmols to ſtimolato ne
foſſedalla ſcuola di Parigi, volle mai inan dare avanti i decreti diquella,
nulla curandole ciarle di PierGregorio da Tolofa (il qual ſe tanto nella
filoſofia,e negli altri buoni ſtudi del Lullio foſſefi innoltrato,quan to nella
Loica di lui s'avantaggiò, certamentenon aureb be egliuna sivergognoſa briga
impreſa ) diedeagio a ' Pas racelfifti di liberamente ſempremedicare;e ad
ontapure del Galieniſta Riolanoilvecchio, edi cute'altri nimici, tư di 480
Ragionamento Seſto di quel gran Principe ſempre in grazia il dottiffimo Giu
ſeppe Quercetano medico, e conſiglier dilui: e come egli certamente il valeva,
ne fu da lui ſommamente onorato; e quantunque perquella ſcuola infra l'altre
chimiche medi cine foffe affatto vietato il dover dare l'antimonio per en tro:
pure non che tal divieto aveſſe avuto effetto alcuno, a i Miniftri del
Parlaméto Paveſſer mai co' loro arrefti raffer maco, anzi l'ancimonio per
ciaſcun medico liberamente adoperavaſi,comechè nelle cure delle medeſime
perſones reali. Ei Miniftri, e ireggimenti tutti de’noftri Invitriffa mi
Redelle Spagne, così ne'paeſi balli, come in tuce'altres Provincie della loro
Monarchia ſempre hapermeſſo,le tur tavia permettono l'uſo libero del medicare
a' ſeguaci del Paracelfo, e dell'Elmonte, e del Silvione del Villifio, fen-) za
ritegno alcuno; ſpregiando ſempremai, e rifiutando de maladizioni, ei rapporti
de Galieniſti. Che ſe mai Prins cipe, o Maestrato inframmetter tałora s'ha
voluto, e por mano in affare pertinente alla medicina,e alcuna ſua cola,
comechè menoma a certa, e determinata legge ligare, bea fiè veduto perpruova,
che ogni loro ſtatuto, a ſconcio, e non laudevolefine ſempremai è riuſcito;
come ſi vide av venire, oltre a quel, che è detto, allor, che perconſiglio de
Napoletanimedici venne perla Prammatica del 15620 Puſo della manna sforzata,
qual dicono, come velenoſo vietato; la quale fa meſtiere rivocarla nel 1573.
con per metterſi çſprettamente l'uſo della manna dell’Orno, e del Fraſſino, che
poco prima era ſtata ſeveramente proibita. E no poffo no arroſsare in leggere
que'rimproveri fatti dal Clufio, e dalMattioli, il quale in cotalguiſa favella:
Er. rano non poco i medici Napoletani co’loro Protomedici; i qua li fanno
proibire ſotto graviſſime pene, che non ſi debba ven. der la manna, che riſuda
dalla ſcorza del frasſino, e dell'ora 10, la qual chiamanomanna sforzata,
immaginandofis cle nonſia buona acofaveruna, imperocchè queſta, oltre che pur
ga ſenzamoleftia alcuna, e daffi ficuramente alle donne gra videin ogni tempo
della gravidezza, è fantiffima, ed eccel, Lentisfima medicina nelle petecchie,
e febbri maligné, e pelli, lenzia DeSig. Lionardo di Capod 487:
Jenziali,eſſendo che il fraſſino ha manifeſta virtù controtua ti velewi; però
laſcimo omai iProtomedici Napoletani di peria reguitar coloro, che cavano
lamanna dalfrasſino, e non pris vino gli huomini dicosì prezioſo medicamento
non conoſciuto da loro, febene viforopiù propinqui di Noi. E ben ſi vede
altresì in quanti errori ſieno ircorſi alcuni Giudici in laſciandola guidare a'
ſentimenti d'alcuni medi ci: che ben lungo catalogo recar ne potrei. Macontente
rommi al preſente di mentovarne ſolamente un'eſemplo di non poca conſiderazione,
che facendoſi troppo ſemplice mente alcuni Dottori di legge a credere, i
bambini nati di otto meſi non potere naturalmente vivere, come avviſavali
Ippocrate, del quale il loro Bartolo portando opinione i diviſamenti della
natura cſfer non guari diffimili alle leggi umane, dice: ftandum eft libris
Hippocratis tanquam ad théticis: giudicarono quelle eſſere vere ſconciature, e
das dover eſſere d'ogni eredità incapaci; nel quale errore laſciaronſi
traportare l'Alciato, e'l Cujacio, e altri au tori di lieva in legge. Perchè il
noſtro Matteo degli Af flicti ne rapporta una deciſione; ove in modo
giudicoſlinel noſtro tribunale per haver data intera credenza a' medici, che
dal Caranza dottor di legge ſpagnuolo ne fu ripigliato con queſte parole: venit
improbandum judicium Protomedi ci Ferdinandi Regis primi Neapolis, &
aliorum quos Affli Etus decif. 236. num.4, valentisfimos Philofophos appellat:
eorumque ductu Sacrum Confilium Neapolitanum octavo mē fenatum materna
fucceffionis incapacem declaraffe afferit; ut meritò decifionem iftam, d
predictorum judicium impugna verit Boërius dec. 220.in fine,neque enim ita
magnifacien dum eft judicium illud Confiliis philofophorum, medicorü relatorum
ab Afflicto fup.ut ab eo quiſquam non malit diſce dere, quam à veritate. Maciò
ſopra tutto ſi ſcorge da quel,che narra quell'av veduto,e giudicioſo
ragguardator delle coſc Giacomo Tua no; dice egli, che d'ordine d'Errigo Quarto
Re di Frácia, il gran Lemoſiniere, e altri ſuoi famigliari, che co'i may giori
valent’hu onini di ciaſcun meſtiere tenner conſiglio ppp i dair 1 3 di dar compenſo agli abuli della famoſa
accademia di Pa. rigi, e che infra l'altre leggi, e ſtatuti diviſarono delle
bi. fogne della medicina: ordinando, che i medici di quella ſcuola doveſſero
legger l'opere d'Ippocrate, e ogni ſua opinione puntualmente ſeguire:medicos
ſono, parole del, to ſtatuto, rapportate dal Tuano, ut leges fibi prafcriptas
tee neant, divinum Hippocratem diligenter legant, præcepta ejus
religiosèfervent. Empiricam caveant, neque ea ullo modo utantur. Ma cotale
ſtatuto non potè giamınai eſſer poſto in opera; e in vero, ſeque’valent’huomini
aveſſero innan zi tratto conſiderata, e riandata cotal biſogna, e riguarda to
alla varietà delle ſette, e delle opinioni, e all'incertez za di tal
profeſſione, non avrebbono così ſciocco divieto mandaco fuora. E tanto più, che
que' inedici, che con figliarono una cal legge, ne prima, ne poi i diviſamen ti
d'Ippocrate oſſervarono; e in iſpezialità nel purgare, e nel ſegnare,come nel
ſecondo ragionamento avviſam mo; ſenzachè il non valerſi dell'empirica medicina
è contro l'ammaeſtramento del medeſimo Ippocrate; e an zi tutti medici vengono
di neceſſità aſtretti a yalerſi delle impirica, come da quel ch'è detto
agevolmente coglier fi puore; perchè gli ſteſſi riformatori convenne certamen
te, che alcuna fiato, per non dir altro, veniſſero con em piriche medicine
curati, ſpezialmente ſe furono morſi da can rabbioſo, o daſcorpioni, o da altri
velenoſi animali. E già parmi o Signori, ſe'l mio avviſo non m'ingannnas che
per quel che da noifin qui ragionato foſſe de tantidi vieri della medicina, che
ſaldinon nai ſono fungo tempo durati: delle diverle, e ſoventi fiate contrarie
guiſe di me dicare, e dalle si varic, e tante opinioni, che fra i medici di
tempo intépo ſono venute inſư, impoſſibili a porſi mai im alcun patto
d'accordo: dalla lunga incertezza disì dubbio fo, ed inviluppato meſtiere, il
quale non ha in ſe dottrina, o principj, ſui quali huomo unquemai poſta porre
alcun menomo fondamento: e dal maltalento demediciinvidio fise maligni, affai
manifefte fi pajano le grandi malagevo lezze, acui s'avvengono tutti coloro,che
d'ordinar lebis ſogne della medicinafi danno alcuna cura. E perciò lag. gio
ſembrami lavviſo di quella Città, o di que'Regni, ch' avendo forſe a pruova
legià dette verità conoſciute, non vogliono in alcun modo prenderfene briga,
ſeguendo in queſta guiſa la coſtuma dell'accorto poeta, il quale, coine Orazio
faggiamente avviſa, que Deſperat tractata nitefcere poffe, relinquit. Talfu il
fano conſiglio del Signor Duca diMedinaceliVi cerè nella Cicilia; il qual non
che andar voleſſe a ſeconda di coſtoro, anzi prendendole a gabbo, ſcheroù le
ambizio ſe,e avare bramedi Filippo Ingraſſia Protomedico di quell' Iſola; il
quale a diritto, ed a roveſcio volcva i maliſcalche ſoggetti alla ſua
giuriſdizion ridurre; perchè pubblicò unu libro, ove ingegnofli di far chiaro
(ne v'ebbe per avventura a durare la maggior fatica del modo) che la medicina
degli huomini,edelle beſtie in nulla foffero fra ello lor differéti, * e che
fra medico, e maliſcalco altro di divario non v'abbia, che ſolamente nel pome.
Ma lo finalmente non lo fe altri poſla più a propoſito metterci innnanzi agli
occhj l’infelice fine, a cui pervengono tutte le ordinazioni in affári di mc
dicina; e ſpezialmente quelle che fatte ſono a richieſta, o a conſiglio
de'inedici, quanto Trajano Boccalini: allor che narra, aver Apollo per ſecondar
le perſuaſioni d'Ippocrate tenuto a conſiglio alquantimedici,a cagion di voler
ripa rare ad alcuni diſordini ch'avvenivano nel medicare: ma per l'ordinazioni
di tali riformatori, non pure no iſcemaro no in alcun patto, ma vie più
moltiplicarono le malattie; e le morti giunſero a tale, ch'egli rimaſe forte
maravigliato: (ſon parole del Boccalini) ch'una diliberazione fatta con ze lo
di tăta carità aveſſe potuto fortire il fine infelice d'una tan to calamitofa
confuſione; onde bruttamente da Ippocrate chia mandoſi offeſo, eſchernito, che
ſotto zelo d'apparente carità verſo il benpubblico, con quel pernizioſoricordo
aveſſe volu to aprirſiſtrada all'eſercizio della ſua ambizione: inpubblica
udienza, con indignazionegrande disfece il collegio, con ani Ppp 2 mo dia 484
Ragionamento Sefta mo diliberatififimo di far contro Ippocrate qualche notabile
rifentimento". Orecco le riufcite di que'riſolvimenti, ches goglion
prenderſi d'un arte cosìfallace, e manchevole, Eche ix ſuobaso mai por ha
certezzha 1 RASr 220 Bbiam finora fufficientemente diviſato, o Signori; delle
dubbietà,.e incortezze del la medicina,malagevoliaffaiperhuomo, anzi
impoſſibili a ſuperare:'infra le quali ondeggiandociaſcuno continuo s'aggirai;
non altrimenti, che picciola, e malforni ta barca irr tempeſtoſo pelago dimare
da'fortunoſi ventije dalflottar dell'onde dibattuta', e percoffa'traballa; o
mal pratico viandante il qualecoleo da oſcura'norte,in folta, non conoſciuta
ſelva;per travolti-bronchi, e fterpi andan do, quafiin cófuſo-laberinto
s'aggiri, séza potermai riuſci re a dritto ſentiero, ch'a falvamento il
conduca'. Perchè non potendoſi in così intralciato meftiere via, o modo al
cunoavviſare, convienr'certamente, che'l tutto a poſta, e ad abitrio didifcreto,
e'ayveduto medico fi rimetta. Aduna que avendo ilmedicoperle maniun sì grave
affare, chento ſenzafallo è dagiudicar la vita, e la ſanitàdi ciaſcuno,dse
egliconogni ſollecitudine,e con ogniarte ingegnarſi di far:
giovamentoagl'infermi commeſt alla cura dilui, al mio gliormodo cheſi poſſa;
çfecondochè la condizione d'un tal meſtiere comporta. E (come a coloro,
cherompon per tempeſta in mare, i qualiad ogni picciol cravicello, o pan
chettirgi appigliano,così parimente dee il medico negl'ince: uob; maroſi della
ſua profeſſione valerſi di que’tutti i Jabuli argomenti, che gli li fanno
avanti; an corchè non ben ſicuro egli ſia,che con quelli sì degna im preſa
poſſa ridurre a quel fine, al quale l'avrà indirizzita. E quinci ſi è, che
quantunque poco,o niuna certanza recar poſlano al ſuo meſtiere le corezze,che
per le cofe,o vedute, olette, o perlo imperfetto, emāchevole umano modo dific
loſofare s'acqui &ano; egliimpertanto deein tutte quante Je coſe alla
medicina perrigenti eſerbene ſcorto, e cono ſciuto, chiunque voglia con qualche
profitto, e laudevol mente cſercitarla; perchè fa meſtiere, che lo attenendo le
promeſſe già fatte in ſu’l principio di queſti ragionamenti, vegga minutamente
chente, e quali coſe a fare un buon medico, e perfetto,in quanto ſi poſſa
umanamente, c quan to la condizione d'una tal biſogna comporti, ſi riclrieggia
no e per tutti diviſatamente diſcorra. Egli ſembra certamente che non vada err
ato Ippocra te, o chiunqueegli (i foſſe l'autor del libro dell'arte, quan do
dice, ch'a coloro, che vogliono all'altezza della medi cina mόrare faccia
meftieri φύσεG-, διδασκαλίας, τόσο ευφυές,
tendopatíns,Qinomovins,xpóvx,cioènatura acconciaze nobilize vira tuoficoſtumi,
e luogo allo ſtudiarconvenevole, e buon alleva mentoinfin da fanciullezza,
einduſtria, e tempo. Richiedeſi in prima natural genio, ſecondo lui; conciolo
fiecofachè mancando talvolta, vano affatto, e inutile ogni ftudio, e ogni
diligenza riuſcirebbe. Ne è vera l'opinione del vulgo, cheſolo alla poeſia
vuolch’abbiſogni quella na, turale inclinazione, dache alla medicina apparare,
e tute? altre ſcienze ancora convien favorevole averla; vero fem premai ciò che
dice il noſtro Dante ſperimentandoſi: Sempre natura,ſefortuna trova Diſcorde
aſe, cum'ogn'altra ſemente Fuor di ſua region fa mala prova; Eſe'l mondo la giù
ponce mente Al fondamento,che Natura pone, Seguen. Del Sig.Lionardodi Capoa.
487 Seguendo lui auria buona la gente. Ma voi torcete a la religione Tal chefu
natoa cignerſi la ſpada, E fare Re ditalcb'è dafermone Onde la traccia voſtra è
fuor di ſtrada. Ma più ch'a tutt'altri meſtieri, alla medicina natural ta lento
richiederſi, egli ſi porrà chiaro a chiunque badar vo glia,ch’afmedico talora
improvviſo, ſenza aver potuto in prima dello infermo, o della natura di lui
molto diſtinta contezza, o eſperimento, convenga diviſar me dicamentijanzi che
dal malore iľvigore almalato ſia colto, o le forze; eďove ancor queſte ſiano
all'ultimo ſcemo per venute,no perciò sbigottire allora, ma prendendo cuore, e
ardire a novelle cure lollevare lo intendimento. Alla qual coſa fare, chi non
avviſa, che fano giudicio, e ſpedito in gegno, e natural ſagacità v’abbiſogni,
c tale appunto qual fa meſtiere per avventura a'gra Capitani, e a'comandatori
diguerra. E mi ricorda a tal propoſito, che il Signor di Molluch chiariſſimo
capitano dir Tolea, ch ' ove il general della battaglia, iit veggendo rotte le
ſue ſquadre', e ſcon fitto l'eſercito,egli, o da vergognago da timore oppreſſo,
il ſenno, e l'ardir non perdeſſe ad'un ora, ſempremai buo na ſperanza gli
rimarrebbe da poter raccozzare i ſparpa gliati, e fuggitiviſoldati, e
incoraggiargli di bel nuovo a fronteggiar l'ofte vittorioſa. Ma potrebbealcun
dire,che natura perapparar medicina punto non abbia luogo; o che fe per
appararla vi pur biſogni, certamente cotale inchina. zione, eabilità ciaſcun di
noi egualmente l'abbia; impc rocchè, direbb’cgli, quantunque lo ſappia molti, e
molti eſſer coloro, che per naturaľripugnanza di genio, o d'ate titudine in
altre arti, appena aſſaggiatele, dalla impreſa fi fian riſtati: pur d'uno normi
ricorda', ch'avendo l'a nimo alla medicina rivolto, non ne fia medico poſciano
e'n buono ſtato divenuto. Eforſe ciò avviene, perchè eſ fendo la medicina al
mondo rominamente neceſſaria per riparare a cotante malattie', il
ſommoProvveditores n'ab bïaciaſcun baſtevolmente d'attitudine fornito per
apparar lized eſſerne da tanto; ma a ciò ſi riſponde i ſovrani conli gli
dell'eterno facitore dell'univerſo non eſſer dato di po tere ſpiare al corto
intender noftro, come temerariamente altri pur s'attenta di fare: ma ſe a
qualche conghiettura ne fi daiſe mai luogo, lo direi che anziperchèdi ſommo
pro, c di gran pregio èla medicina, perciò non eſſer peſo di tut tebraccia, ma
di pochisfime; ſicome avvien delle coſe più perfette, le quali ſono altresì più
rare. Maintorno abuonicoſtumi,che fiorir debbo in colui che d'eſſer medico
intéda, fu egli queſto sétiméto del méziona to autore,ſeguito comuneméteda
tutti;anziGalieno mede fimo in un luogo dice,cbe colui, ch'èxibaldo, e di mala
co ſciéza no puòmainegli Studi d'un tal meſtiere vataggiarſi. Ne lo ſtenderommi
al preſente in ragionar del.conoſci. mento delle lingue; imperocchè della
Greca, della Latina, e forfe acor dell'Arabeſca,e dcHa Tedeſca egli è allai
chia ro,che p iſtudiar ne’libri in quelle cópoſti,bone,e interame te delle
medeſimedobbiamo eſſere inteſe: anzi il dottiffimo Samuel Bocciardi porta
opinione chesõmaméteal medico ſia neceffaria la lingua Ebraica. Eforſe anche
con qualche ſoverchio di diligenza per lo riſchio, chedal non pienamen té
intenderle ne può ſeguire; il che avviſando l'avvedutiſ fimo Arnaldo da
Villanova ſtrettamente ne l'accomandò; cne lo diè per regola nell'apparar
medicina, con queſte parole: Notitia nominum prodeft ad doctrinam. Et nulla
profeéto ars, curiofius, cautius vigilantius homini diſcenda, traétanda,
meditanda eft, quammedicina, qua nulla eft pe riculofior: quippe quum in ea
verſetur falushominum, vi ta; per tacer della Loica, che richiede Galieno nel
medico; il troppo ſtudio della quale nuoce, non ch'altro, a chiun que veramente
approfittar ſi voglia nella filoſofia, eſpe zialmente nella medicina,poichè
eſſendo l'intelletto avvez zo a quelle coſe finte, non fa poſcia dipartirſene
allor, che delle vere, e ſenſibili ſoſtanze imprendea filoſofare; onde
faggiamente quella grand’alına del ſaggio Galileo folea paragonare i Loici agli
artefici degli ſtrumenti muſia cali, i quali tutto dimaneggiandogli, non ſanno
poi quan doloro biſogna, ſe non ſe rozzamente valerience Ma la norma ſicura
de'perferri, e dimoſtrativi fillogiſmi ſolamente dalla Geometria ci ſi porge: e
malamente al ſi curo fornito loico, e conſeguentemente buon medico ſarà colui,
a cui per le mani gcoinetriche dimoſtrazioni tutt'orx non ſono. E certamente
avea la ragione, l'autor della pi ftola a Teſſalo di tanto iſtantemente quello
confortare, e fpignere allo ſtudio della Geometria, e dell'Arilmetica: poichè
la notizia di cotali ſcienze, oltre agli altri concj,che arrecar ſuole, dice
egli: tlu fug'us o &uréple FE xxA THA Qvyesépleas a & ti tò év inagixí
óvño Jou răvő mi yeusercioè,apporta chiarezza, e fortigliezza nell'intendimento,
acciocchè poffa ben rintraca: ciar tutte quelle coſe, che all'uſo della
medicina abbiſognano. E diſtintamente poi va dimoſtrando di quanco pro fia ad
un medico faper Geometria, affermando ancora lommamen te giovevole, e
neceſſaria eſſere a ben comprendere le deslogate offa, e l'altre biſogno nella
medicina. Mamol to avanti avrebbe egli certaméte della Geometria detto: ſe
oltre a ciò ſaputo aveſſe,che séza quella, poco, o nulla inté der ſi può
delmovimento de'muſcoli, e de’mali della viſta, e d'altre belliſſime dottrine
molto alla notizia dell'ordina mento del corpo umano utili, e neceſſarie. Ma fe
(come più avanti dimoſtreremo) giammai non può eſſer medico, chifiloſofo in
priina non fia: c per apparar filoſofia, la Geo metria è ſommamente di
meſtiere;egli è pur manifeſto,che il medico debba efter Geometra. Ne può punto
dubitara ſi il convenir cotanto a ' filoſofila Geometria; concioſſicco ſachè
abbiamo nelle ſtorie, che gli antichi filoſofanti, tan to biſognevole
ſtimaſſero la Geometria nelle loro ſcuole, che no volcan,cheniuno in quelle
entraſſe,ſe prima inGeo metria ſtudiato pienamente non aveſſe. E'l gran Galileo
de’ Galilei, grandiſſimo maeſtro di coloro, ch’alla vera, e dalda filoſofix
attendono, diſſe; In un vaſto volume farfe ne'lafiloſofia tutta deſcritta: e
quello eſserne ſempreinnanzi agli occhi aperto, cioè a dir l'univerfo; ma non
mai poterviſe leggere, fc in prima la lingua, e i caratteri, co' quali egliè
Scritto, perfetiamente non s'apparino. Egli è ſcritto, dics in lingua
matematica, e i caratteri ſono triangoli, cerchi, - Q29 altre 1 >
altrefiguregeometriche,sēza i qualimezziè impoffibile adin të der
umanamenteparola: ſenza queſti, è un'aggirarſi vana. měte per un'ofcuro
laberinto. Comendaſi adunque oltremo do il ſaggio conſiglio dell'avvedutiſſimo
Cardano, il qual mi ricorda, ch'avrebbe voluto, che niuno in medicina non ſi
foſſe mai convertato, il quale, mathematicas perfecte no calleret, per dirlo
colle ſue parole; del che recandone la ragione, ſoggiugne: Nam his folum, nec
fallere, nec falli contingit; unde qui in illis peritusfuerit,non eſt
veriſimile in propria arte velle ſuperioribus, &fuis, ac fibi ipſi impo
were. Ma oltre alla Loica, e Geometria, la Stronomia, la Mu fica, e altri
nobili, e liberali ſtudj in un perfetto medico Galieno richiede; e della Muſica
favellando Tomaſſo Cá panella dice:medicusnon ignoret, qui foni, quos motus in (piritu,adquas
bonas operationes excitět,ut medicinales fint;i quali ſtudj,ſecodo lo ſteſſo
Galieno, il primo luogo appreſſo Mercurio ingombrano; e con molte, e ben
compoſte pa role l'utilità, che da quelli ſi trae, va egli ne'ſuoi ſcrit ti
diviſando, e quanto egli avanzato ſe ne foſſe; ſenzachè, dic'egli, ſe il medico,
non è di ſtronomia intendente, gran tratto ei ſi dilungherà da’ſentimenti
d'Ippocrate, il qual non pur conforta i medici tutti ad appararla, ma molte co
ſe ha egli ne'ſuoi libri ſcritte, le quali ſenza ſaper di ſtro nomia,
impoflibil certamente fie, che per huomo s'inten dano. Ma nel vero lo non
ſaprei mai comprendere, come ben ſi poſſa medicare, ſenza ſapere, il naſcimento,
e loco caſo delle ſtelle, e la varietà de climi,e altre ſomiglianti co le,
neceſſarie al meſtier della medicina, le quali tutte la ftronomia ne inſegna.
Eragionevolmente tutti coloro ch ' un tale ſtudio, come vano, e inutile
a'medici biaſimano, punge, e proverbia il buon Franceſco Vallefio, dicen do,
che la ſtronomia vien da alcuni giudicata coſa alla medicina affatto inutile,
non per altra cagione, ſe non per chè poſſano in cotal guiſa ſchifare lo
ſvergognamento, che dal non ſaperla gliene naſcerebbe. Perchè il non mai abaſtanza
lodato Ipparco aſſomigliava ilmedico ignorante di ſtronomia ad occhio privo
della viſiva potenza; e'l famo fiſſimo infra gli ArabiAlbumazar,dice chela
ſcienza delle ſtelle a quella della medicina, principio, eguida ſia. Ma fe la
Stronomia richiedefi a'medici, non men di quella certamente fa loro meſtieri il
ſaper le ſtorie delle coſe, che avvengono al mondo; concioffiecofachè oltre al
ſaper di quelle, i principi, egli avanzamenti delle piſto lenze, e d'altre
aſſai malattie, manifeftamente talvolta an che comprendonſi le cagioni
de’malije i rimedj, ch'a quel li talvolta hanno approdato, e ciò, che per
pruova ha noc.ciuto, e giovato agli huomini: e aſſai pienamente ſi com prende
quanto dalla lezion di Tucidide aveſſe Galieno tratto di profitto, e altri
aſſai medici di gran lieva, e malli manente da quello artificioſo narramento di
lui della fie ra, e lunga peſtilenza del Peloponneſo, traportato poi co tanta
eleganza, e così ben da Lucrezio nel luo natio idio mi. Ma ſopra tutto ſenza
dubbio la natural filoſofia al medico ſi richiede; imperciocchè, fe
perfettamente egli ſaper dee la natura, è l'economia tutta del corpo uma no, le
cagioni, così d'entro, come di fuora delle malat tie, le qualità, e le
coinpleſſioni dell'aria, delle acque,de' vegetali, degli animali,e de’minerali
turti: conſeguente méte egli ďee ſtudiare in filoſofia,nó come dicono, di primº
occhio, e diſcorrendo: ma in quella con ogni intendimen to, e ſtudio involgerſi,
e riconcentrarſi, e in apprenderla, pienamente con ogni sforzo, e con ogni
opera affaticarſi. Perchè il Paracello chiamar folea la filoſofia madre, e fon
damento della medicina; e Ariſtotele n'impone, che il me dico cominciar debba,
ove il filoſofo finiſca; che altro non vuol dir, per mio avviſo, che il medico
dal filoſofo non dif feriſca, ſalvo che nell'operare: e che la medicina altro
no fia, ch'una operatrice filoſofia. Folle adunque, e danne vole oltremodo è da
giudicar certamente il conſiglio d'A vicenna: che il medico ſenza più avanti
ricercare, appa gar ſi debba a' detti de filoſofiintorno alle coſe naturali;
Raq 2 ne logorar punto di tépo in abburattargli,e far pruova del la verità;
concioffiecoſachè il medico in eſaminandogli no che dall'arte ſua fi diparta giammai,
come ſcioccamente s'avviſa Avicenna, anzi allor maggiormente vi s'interna, e
profonda, e più maturamente l'apprende. E bene imma gino lo, che a ciò
riguardando eſfo Avicenna, avviſaffe pienamente il biaſimo grande, che di tal
conſiglio guada gnare egli medeſimo ſi poteva i perchè altro non te in tue to
il corſo della ſua vita ',' che attentamente ſpeculare, e contemplar le coſe
della natura. Miglior ſenza fallo fu l'avviſo di Galieno, il qual ſopra ciò
ben’un libro inte. ro compoſe con queſto titolo densos iarbós, og QorbootG.per
* chè e' medeſimo dille altrove, il medicare una piaga non, effer impreſa da
tutte braccia, ma di color ſolamente che le coſe tutte della natura hanno
davanti agli occhi. Ma dove lo traſandava il buono Ippocrate: il qual giudicò
fi loſofia, e medicina eſſer compagne ſtrette, e ſorelle,giua te, ed
avviticchiate; e ſimigliantemente Cornelio Celſo afferma, amendue coſtoro d'un
medeſimo parto eſſer nate, così ſcrivendo: Primomedendifcientia pars fapientia
habe batur; ut &morborum curatio, dow rerum nature contempla tio fub iiſdem
auctoribus nata fit;c di ciò ne apporta ragio ne: fcilicet his hanc maximè
requirentibus, qui corporum fuo rum robora inquieta cogitatione, nocturnaque
vigilia mi nuerant. Ideoque multos ex Sapientia profeſsoribus peritos ejus
fuiffe accepimus. E egli è pur troppo manifeſto,quan to Pittagora, Empedocle, e
Democrito, e Platonc, e altri grandiſſimi filoſofi più di qualunque altro Greco
nel le ſecrete coſe della natura innoltrati, più di tutt'altri me dici della
Grecia ancor s'avanzaſſero; ſenzachè i fonda tori, e i Principi di ciaſcuna
ſcuola di medicina, eziandio della Metodica, e della Impirica, eilor più
rinomati ſe guaci, tutti concordementenegliſtudi della natural filoſo fia
s'eſercitarono. Perchè il fimile certamente ciaſcun al tro mcdico de’tempi
noſtri dovrà fare; e di lor direbbeſi po ſcia con quelle voci d'Ippocrate
innsós gap Quómo, iostec, cioè a dire: il medico filoſofo è ſomigliante a un
Dio. E 1 1 quantunque,come ſopra abbiamodimoſtro, aſſai poco al baſſo, e loſco
intender noſtro nelle coſe naturali di ſaper ſia conceduto; nondimeno queſto
ſteſſo ci da a divedere effer neceſſario al medico lo ſtudio della filoſofia,
acciò egli pof fa agevolmente accorgerſi, non aver la medicina certezza alcuna;
e a queſto avendo certamente riguardo, diceva Cornelio Celfo: natura rerum
contemplativ, quamvis non faciat medicum aptiorem, tamen medicine reddit
perfectum. Oltre alla naturalfiloſofia, la morale ancora a'medici ſi conviene;
concioſGecofaché, ſe come di ſopra è detto per ſentimento d'Ippocrate, di buoni,
e laudevoli coſtumief ſer dee fregiato il medico, Io non ſaprei già, come a tal
pre gio mai aggiugner poteſſe colui, che coile natural filoſofia la
moraleancora non accoppj; ſenzachè la moral filoſofia è quella, cha per oggetto
Panino dell'huomo, e in quello ſuol riconoſcere i malori,e lecagioni,e gli
effetti di quelli,e darvi baſtante compenſo, ed efficace ajuto. Orcome po trà
il medico adoperando il ſuo meſtiere, con valevoli me dicamenti fanar gli
ammalati del corpo, ſe in prima le ma lattie dell'animo loro non toglie? cioè a
dire, ſe non fa di filoſofia morale a Imperciocchè i mali tutti del corpo, come
da prima, e principalcagione, da alcuna paſſion dell'ani mo ſovente naſcer
ſogliono, la qual certamente ne cono fcerc, ne rimuover potrà il medico giãmai,
fe dalla moral filoſofia no ſia fcorto. Tanta enim,dice Sinforiano Cãpegio, per
tacer altri, eſt animi, &corporis neceffitudo, ut ſua om nia bona, ac mala,
velint nolint, invicem communicent. Per chè della nostra anima facendo parole
cantò il Guarino. Qwell’immortal, che null'ha di terreno A terrenidifetti ancor
foggiace. E Platone nel Carmide lungaméte ciò va diviſando; la qual coſa ancora,
ficome teltimonia Ippocrate avea in coſtu me di fare Eſculapio s il quale
appreſa certamente l'a vea da Chirone ſuo maeſtro: e ſe pure dopo ſi è co
minciato a feparare l’un meſtier dall'altro, non èmara viglia, dice Malfmo
Tirio: perciocchè la medeſima artu di curare il corpo, così in fc ftella diviſa,
e lacera ſi vede,: chic 494 Ragionamento Settimo che altri ha cura dimedicar
ſolamente gli occhi, altri law veſcica, e altri altra parte del corpo. Ma con
quanto di fcadimento, c danno dell'arte, e de’maeſtri di quella, per nulla dir
de’poveri infermi, ciò avveniffe,che partite, e ſceverate queſte due
profeſſioni abbiano i medici, ſolamen te inteſi a curare il corpo, ſenza badar
punto alle malattie dentro, lo dicano tante, c tante malvagità, e ribalderie
operate daʼmedici, come di ſopra dicemmo; concieſlico fachè non ſon per altra
cagione i biaſimi tutti a' medici, e alla medicina medeſima proceduti,che
dall'aver clli traſcua rata l'arte dirender ſe medeſimi in prima, e poi gli
alţri tute si della verità, della giuſtizia, e dell'oneſtà lodeyoli ama, tori.
Ne per altro chiama Ippocrate, per mio avviſo, il medico filoſofo ſomigliante a
un Dio, fe non perchè dal medico filoſofo non ſia da ſcompagnar cotal parte
cotan 10 eziandio giovevole, e neceſſaria alla medicina. Per chè guardando a
tutto ciò Galieno, cercò di riparar ſe condo ſua poſla a tanto diſordinamento,
e di riunir di nuovo, e rannodar la medicina colla morale filoſofia: onde
compoſe quel libro, ove e' moſtra, comes’abbiano a cono ſcere,per doverſi
guarire,i difetti dell'animo; e quell'altro, del ravviſare, e del medicare
dell'anime le malattie. Ebé chiaramente ſi vede quanto in ciò, che inſegna
altrui e' me defimo profittaſle; concioſſiccoſachè, come di ſe medeſimo egli
narra, era egli avvezzo a ſoffrire, e a portarein pace i caſi.umani, e d'animo
grande, e immobile, ne ſi crolla va punto agli urti di rea fortuna: ne perdita
di beni, o altra maggiore ſventura era per farlo ſmagare:ne movealo onor di
gloria, o burbanza divana ambizione, o qualunqne altra coſa maggiormente al
mondo ſi pregia.. Mail medico avendo a guwar le malattie de' corpi uma ni, ea
provvedere a quelle, che ſono a venire,non ha dub bio alcuno, che ſopra tutto
egli della natura del corpo umano aſſai pienamente dee eſſere doctrinato, e di
quelle coſeancora, che riſtorare il poſſano dalle cagioni, ovale. volmente
ceſfarle. Or chiunque voglia,per quanto glifia dalla debolezza dell'umano
intendimento conceduto, per venire a qualcheconoſciméto della natura del corpo
uma no, gli conviene in prima il ſito, la figura, l'ordinamento, e la grandezza,e
l'uficio delic parti di quello diligétemente inveſtigare: alla qual coſa
manifeſto è, che ſenza l'ajuto della notomia egli aggiugner non poffa: perchè
della me dicina folea dir faggiamente Cello: incidere mortuorum corpora
difcentibus neceffarium. La qual neceſſità inolto bé gli antichi medici
conſiderando, come pienamente nete ſtimonia Galieno, a ufare i noromici
ſegamenti fin da fan ciullezza diligentemente s'avezzano. E oltre a ciò egli
dee bene inveſtigare, e con ogni ſtudio maggiore andar rintracciando la
propietà, o la natura dell'Erera,dell'aria, dell'acqua, della terra, della Luna,
del Sole, e di tutt'al tri Pianeti del Cielo; da'quali corpi tutti continuo
fotti liffime, e non vedute ſoſtanze ſgorgano, quali a pro, e qua li a
dannodell'umane vite. Quindi s'andrà egli pian piano innoltrando a ricercar le
naſcoſe virtù de'minerali, de've gerali, e degli animali tutti, oide il cibo, e
imedicamenti per gli huoinini ſi coinpongono. Cola,la quale cotanto al medico è
neceſſaria, che d'effa ſola ſi vanta Apollo preſſo l'ingegnoſo Poeta latino
Inventum medicina meum eſt: opifexque per orbem Dicor: &herbarum fubješta
potentia nobis. E'I Mantovano Omeroper unico fregio del ſuo lodato Medico
riconoſce Scire poteftates herbarum, ufumque medendi. E l'altiſſimo Toſcano
Poeta E già l'antico Erotimo, chenacque In riva al Pò, s'adopra in ſuaſalute:
Il qual de l'erbe, e de le nobil'acque Ben conoſceva ogniuſo, ogni virtute.
Intorno alla qual coſa folea ben dir Oribaſio, che fenza un tal conoſcimento
non fi poſſa dirittamente mádare ava ti la medicina έχ οίόν τε είναι χωρίς
ταύτης ιατρεύαν όρθώς. Ε gia molto prima di lui la notizia de'ſemplici in più
luoghi de' ſuoi libri affai avea accomādara Galieno, i quali paſſo pal ſo potrannoſi
da’curiofi ſcolari vedere: e ame baſterà al preſente per raccorciar la
lunghezza in così chiara materia d'apportare un ſolo, over'dice: chiunque nel
medicare vorrà da tutte parti eſſer ajutato,egli coviene in prima eſser molto
bene ſcorto, e auſato nelle piante, e negli aniinalise ne'metallize in
ciaſcun'altra cofa terreſtra, delle quali ſervir noi ci ſogliamo ad uſo di
medicamenti, e infra quelle, le più eſquiſite ſceglier ſappia;
concioffiecoſachè non eſſen do egli in sì fatte coſe dottrinato, ſe mai oferà
un talme Aiere imprendere, ſappiendo, ſolamente in ciarle la nor na del
medicare,non mai ſaprà adoperar coſa degna di me dico, Quinci ſi pare quanto
errino i medici, comequelli, che pongono queſta parte, cotanto alla medicina
necella ria,in mano degli ſpeziali; concioſſiccoſachè, come avvi fa il
doctiſſimo Fabio Colonna: in quo ille medebitur medi. cusiſilocis contingat
pharmacopolis carentibus, artem exerce re? an ne verbis? c più avanti trapaſſa
l'avvedutiſlimo Pier Caſtelli a minacciarne i mali, che di cotal traſcuraggine
agevoliſſimamente ne poſſono ſeguire: medicus, dice egli, neſcit quod agro
præfcribit: Pharmacopæus ignorat preſcri ptum medicementum: Rufficus herbarius,
qui fæpèlegere ne fcit, &à nemine doceripoteft, cafu colligit fimplicia:
&hoc modopreparatamedicine rarò fanitatem, fepiffimemortem afferunt,
ignorantiæ finem; e quàforſe egli li parrà ad alcu chc per troppo afpri, e
faticoſi ſentieri avendo il me dico condotto, omai delle tante, e tante
malagevolezzo, che noi diviſate gli abbiamo, ſenza altra fatica durare ſia per
venire a capo. Ma egli va alcrimenti la biſogna, rima nendo ancora dopo tanti
viaggi nuovi altri pachi lontani troppo, e non conoſciutia piè volgare: oye fra
bålzi, e di rupi, per iſcoſceſi, e avviluppati ſenticri con gran ſudore, e
biftento giugner ſi dee. Egli è il vero, che giunto poi quivi, trova ben cento,
e mille vaghezze allettaprici, luſinghiere. Già parę di udirvi dire
concordemente, che lo voglia favellar della Chimica, nella qual ſi comprende
tutto il bello, tutto il vago, tutto il maravi glioſo, che può mai operar la
natura,o l'ingegno umano. Ne 10, zia 2 Del Sig.Lionardo di Capoa. 497, Ne Io fe
cento bocche,, e lingue cento Avesſi, e ferrea lena, e ferrea voce, alcuna
menoma parte de' pregj di sì iluſtre, e glorioſo me ftiere potrei
narrare.Ditelo intáto voi in mia vece, o arti il luftrio, rare fcienze, o
nobilisſimi ſtudi di quella figliuoli'; voi dilettoſe, giovevoli, e neceſſarie
al gencre umano arti dell'agricoltura, del fabbricare, del navigare, della mili
della ſcultura, della pittura, della filoſofia, della me dicina: voi facendo
teſtimonianza della grandezza, e dellº eccellenza della Chimica,narrate pure,
come da effa -i vo ftri natali, il voſtro accreſcimento, ilvoſtro ſplendor trac
fte: dite come a'voſtri intendimentiporſe la materia, age volò l'opera:
Netacete pure, o ultime pruove' dell'uma na induſtria, gloriofiffime memorie
dell'antichità d'Egittor prezioſo nepente commendato dalla ſonora troba de gra
deOmero, che co’ſentimenti inſieme i dolori, e gli affan ni de’greci Campioni
potcſti aſſonnare; ricchiſſime coppes allanſonti; e voi cento,e cento altre
Egizie maraviglie, che tolte a noi dal teinpo, appena chi vi preſti fede ritro
vare interamente potere. Voi ſuperbe piramidi di Mem fi, voi effigiati
obeliſchi di Tebe,che all'eternità confc crati Roder non può del tempo
invidalima, fare pur chiara l'eccellenza della Chimica; e ne'metalli, e nelle
gemme, cnegli artificioſi ordigni da quella portivi raccotate i ſuoi pregj,e le
fue glorie eternaméte innalzate. Ne mé taccia il tépo quanto a capital tenuta
foſſe la chini ca dagli antichi,chegiudicando Diocleziano baftar quella ſola
agli Eğizj per frõteggiare, e mandar giù le glorietutte del Romano Imperio,
comenarra colui appo Suida,diedes alle fiame tutti i volumi di sì nobil
meſtiere, va reixnucios χρυσού, και αργύρε τους παλαιούς γεγραμμένα βιβλια
διερευνησαμG έκαυσε και προς το μηκέτι πλούτον Αίγυπλίοις, έκ τ τοιαύτης
προσγίνεσθαι τέχνης, μηδέ χρημάτων αυτουςβαρβούν ας πρεσία του λοιπού Ρωμαί oss
auliceiv. Ma quanto la Chimica faccia meſtieri alla medicina, da ciò pienamente
ſi può ravviſare, che ſenza quella non può Rrr valevolinente operare, ne è da
dir arte ſicuramente la mes dicina; perciocchè, fe come abbiamo di ſopra lunga
mentedivifaro, in cicchi, e confufilimi laberinti: invi luppata la medicina,
nulla mai dicerto fermamenteriſer ba, non v'ha più valevol lucerna, o più ſicura
guida da poter giugnere a qualche veriſimil conoſcenza delle coſe, che la vera,
echimicąſperienza. Enel vero, che giove rebbe mai al medico il ſapere ad una
ad'una le partitutte annoverare, e ſcernere del corpo umano, ſe.poi della nas
tura, e del miniſtero diquelle digiuno. ſi foffe..? certo, che nulla; licome
nulla ancor monterebbe, che notii fiini glifoſſero i ſemplici tutti, eivegetali,
e gli aniinali, ei minerali, ſenza ſapere lui la propietà', e l'efficacia di
quelli. Perchè a inveſtigar la propietà, e Puficio delle par ti del corpo umano
lungamente affaticandoſi gli antichi fi loſofanti, fenza la traccia della
chimica a poco felice fine le loro opere riuſcir fi videro: e ciò, tra perchè
iſegui,į le conghietture, onde di prenderle immaginarono, poco men che ſempre
fallaci, evane fi erano: e ancora perchè parecchj di coloro, il tutto a quelle,,
che chiaman prime qualità diridurre s'ingegnarono, dovēdoſi per loro più to fto
altre, edaltre qualità ſpiarc,dalle quali molto più,che dalle prime, le
operazionidelcorpo umano, come è detto, dipendono. Matroppo malagevoli alcune
di quelle fono, e ad intendimento umano moltonaſcoſe; così ayviluppatou fono, e
infra lor intralciate le particelle cutte, onde s'in generano:: 0 per la troppa
debilezza de'lor movimenti, o per la picciolezza;,.e cenuità di quelle, o per
altre fomi gliati cagioniagli organi de’noftri ſentiméti celandoſi,non ne
laſciano alla verità pienamente penetrare; Namneque pulueris interdum
ſentimusadhæfum Corpore, nec membris incuffam fidere cretam, Nec nebulam noctu,
neque araneitenuiafila Obvia fentimusquandoobretimur euntes. Così ancor
vanamente ſtudiandoſi gli antichi filoſofanti di comprender la natura, e la
propietà dell'aere, dell'ac que, della terra, delle piante, degli animali, e
de' mine rali, DelSig. Lionardo di Capoa 497 rali, in non pochi errori
inavvedutamente incorſero:; maw pur della loro dappocaggine ricreduti Ippocrate,
Teofra 1to,, Diofcoride, e altri famoſi antichi filoſofanti, sfidan doſi di
poter quella con piena, e perfetta ragionegiam mai ſcoprire, ſenza più addentro
vanamente innoltrarſi in fu la lola corteccia ſi riſtarono., quel ſolamente
ſcrivendo ne, che per lungapruova già ſperimentato:n'avevano. H che diè
cagiondi iclamare a quel gran lume della filoſofia, edell'eloquenza Romana:
mirari licet, quæ fint animad venfa à medicis herbarum genera, qua radicum ad
morſus beſtiarum, ad oculorum morbus, ad vulnera; quorun uim, aique naturam
ratio nuſquam explicavit: utilitate, con ars eft, &inuentor probatues,
&indi a poco ſoggiugne:quod ſcămone & radix ad purgandum,quod
ariſtolochia ad morfus ferpentum poffit, videmus, quod fatis eft; cur
posſit,nefcimus. E comeche altri filoſofanti, emedicidi grido, dallapore,
dall'odore, e daaltre ſimiglianti qualità d'inveſtigar ſi ſtu diaſſero, come, o
caldi, o freddi, o ſecchiidetti ſemplici foſſero, onde poila virtù di
radificare, o di ſtrignere, o di riſtorare, o d'altro argomentar poteſſero:
inutilenondime no,e vano ſempre da'brioni filofotanti il loro ſtudio fu giu
dicato; e'l medeſimo Galicno, non che altri dice, queſta eſſere una ſtrada,
oltre ad ogni creder dubbievole., c falla ce; ſenzachè ben rade voltc dal caldo,
dal freddo, dall'u ! mido, o dal ſecco -naíce: ma vifan la più parte l'amaro, e
l'acetofo, ed altre fomiglianti qualità, che ſeconde chia mano. Oltre a ciò,
v'ha parecchi de'ſemplici,chène odo re alcuno, ne ſaporc, ne altra manifeſta
qualità avendo, só poi di grandiſfime virtù, eziandio belzoardiche, e veleno ſe
dotati. E chi mai colla ſola guida de' ſenti potrebbe av viſar, che l'acqua
ftigia, che in niuna ſenſibil qualità dall acqua comunale differente fi ſcorge,
cosi peſtilenzioſa, en mortal poi ſia? Solola Chimica con ſue pruove faccendio
manifeſti i naſcoſi veleni di quella potrebbe avátiagli occhi di ciaſcuno
quegli acutiſſimi ſali porre,che già valevoli furo nel fior degli ani, e'nel
caldo delle vittorie a roder crudelmé te al grande Aleſſandro le viſcere ed
ogni altra coſa conſu R.15 2 mano, fuor ſolamente l'unghie degli aſimi, come
dice Plu tarco: e.de'cavalli avea detto Pauſania,, Trogo, e Curzio; ed Eliano
delle Corna degli aſini della Scitia; e di quelle delle muledice Plinio:ungulas
tătùmmularum repertas, ne que aliam materiā, quæ non proderetur à venena ſtygis
agudo E Vitruvio: conſervare antë eam, &continere nihil aliud po teſt nifi
mulina ungula. Machi potrebbe mai credere, cheſotto la dolcezza del miele, e
dei zucchero cotanto piacevoli alguſto,e ſoavi, a covino poi alcuni ſpiriti
pungenti, e roditori non molto dall'acqua forte, e dall'acqua.regia
diſſomiglianei? delle quali gli acutiſſimi ſpiriti net vitriolo, nel nitro,
nell' allu me, e nel ſal comune s'appiattano; e che nel ſolfo diqua, lunque
ſapore ignudo, c digiuno dimori un ſale oltremo do acecolo, c roditore; e che
nell'olio delle ulive due fali fi ragunino, uno acutiſſimo, c aſſai valovole a
rodere, e l'altro ſoprammodo piacevole, e ſoave; e che l'acqua pu ra, e
ſchietta, che continuo ſi beve, e ſembra al guſto co tanto inſipida, ritengi un
fale sì fattamenteacuto, e pene trevole, che ben balta egliſolo in minutiſſime
particelle a fminuzzare, e ſtricolare quel duriſſimo metallo, ch'alle fiąmme,
ed a'fuochi punto non cede; echenelle viole, nel ke lattughe, nelle roſe,
ne'papaveri,, e in altre ſimiglianti ierbe, e fiori, giudicati anzi freddi che
no dagli erranti medici, un cotalc ſpirito-affocato, ed ardente mícoſo li ftia,
dallo ſpirito del vino non punto diſſomigliante. Vanillimi adunque, e fallaci i
ſentieri ſono, ch’a ravviſar le qualità de'ſemplici gli antichimedici
s'impreſero: e per giugnere alyero conoſcimento delle coſe, cgliè di
meſtiere,che pré-. diamo ad avviarci Per ſentier nuovi a nullo anco dimoſtri:
cioè (viſcerando, e minutamente partendo ciaſcun corpo per opera della vitaf
notomia, la quale Sempre a vincer ſe beffa oprando intefa noi veggiamo oggidi a
sì bello ſtato eſſer condotta. E quanto sì nobilc,e glorioſo meſtiere per
aggiugnere a'no Itri intcadimenti aveſſe luogo, ben conobbelo il curiofiſla mo
Ga. for mo Galieno, allor che con ogni sforzo la natura dell'accto ftudiandoſi
d'inveſtigare, lungamente indarno diſiderando fi, così ebbe a dire: In queſta
coſa Io non ſon per tentar tutte le ſtrade, e tenterò di far ogni pruova,
acciocchè poftafi qualchearte, oqualche ingegnoritrovare, col qua le ſeparar ſi
poſſano le parti contrarie nell'aceto, ſicomeſuol farſi nel latte. Macertomala
pruova vi fe egli Galieno,na giugnendo a ciò, che per ogni menomo ſcolaretto
dell'ar te agevolisſimamente s'adopera. Or quat maraviglia fa rebbe
all'orgogliofoGalieno,c quáto da inenoora li ftime rebbe', fe nel meſtier della
medicina dopo tantiſtudj,e tan ti fudori daun giovane Chimico frvedeſſe a lungo
ſpazio avanzare? nonpur ſappiendo coſtoro in due diverſe ſoltan zel'aceto
partire, il che grandisſimo vantaggio reputave Galieno, main altre, ed altre
molte quello agevolmente freverare: le quali ſottopoſte poi al ſottile,e
profondo eſa minamento de filaſofi, con dar probabile,e verifimile con tezza
delle lor varie; e diverſe propietà, le tante, e tanto maraviglioſe
operazionidell'aceto ne vengono a manife ftare. Oltre a ciò lo immagino altresì,
che s'egli aveſſes mai il curioſisſimo Galieno qualchemenomacontezza del la
Chimica, comeche rozza; e imperfetta aver potut?, 11011 đì -ſarebbe certainéte
maieglimaravigliato, come ſotto una sì grande virtù di riſtrignere, quanta è
nel vitriolostanto, tanto calorc covar fr poteffc.- Imperocchè egli con far di
quello notomia agevolmente,el’una, e l'altra ſoſtanza ri. trovata v'avrebbe,
onde poi d'amendue gli effetcidi riſcal dare inſieme, e di riſtrignere
pienamente n’avrebbe la ca gion compreſa. Efeaveſſemaidiviſar voluto come il me
deſimo ſpirito del vitriolo dueeffetti in - fra le contrariope rar mai poteſſe,
ſciogliendo aleuni corpi caldiſſimi, e rap prendendo d'altra parte alcuni
liquidi, e fortili, e.volanti troppo, ch'a qualunque oſtinato ghiaccio ligar
non lila fciano: 0 como manchevole, e imperfetto il ſuo filoſofar..conoſciuto
avrebbe. Or di queſta nobilisſima arte non meno per avventura, che già ſi
ſtimaſſe anticamente il pe netrar la, dove F101 902 RagionamentoSettimo Fuor
d'incognito fonte il nila muove, tra per le tenebre folte disì antica età, e
maggiormente per la non poca cura, che ebbero ſempre i ſuoi maeſtri di ferbarla
a bello ſtudio naſcoſa a' più altiingegni;o punto no iſcrivendone, o ſcrivendone
purcon ritegno, e riguardo, accennandola con ignoti geroglifici,c.con
intralciati eniin. mi, e con oſcure allegorie, e favoloſi racconti inviluppan
dola:malagevolemolto,e confuſo per certo, e poco mē,che impoſſibile rendeſi a
volerne il ſuo primo incominciamento rapportare; cofa,la quale in tutt'altre
biſogne di conſidera zione avvenir fimigliāteméte ſi vede. Ma che che di ciò
Gia,.che di sì nobil ritrovato deali la gloria all'antica Paleſtina, o pure
alla Fenicia,o all'Egitto, o alla China, o a qualū quealtra parce forſe più
ragionevolmente la contraſta: egli è coſa ben certa,e ben da ſe medeſima appare
eller la Chi mica antichiſſima, e da’più rimoti tempi eller ritrovata nel mondo,
avvegnachè alcuni non affatto il concedano; e Sao muelBocciardi dica: novum
effe inventum della Chimica favellando, nec illius quenquam meminiffe ante
Iulium Firs micum; il che pienamente teſtimoniano Euſebio,e Zoſimo; e Suida, c
ſpezialmente il Firmico, il quale tutto che fio tilſe a'répi di Coſtantino,
pure traſſe le ſueſcritture, come ei medelimo ne narra, dall'opere antichiſſime
de'Caldei, es degli Egizj; onde dice il teſtè menzionato Euſebio, che aveffe la
Chimica apparata Democrito:Aquóxer Qu Abdueírris φύσικο- φιλόσοφG- ήκμασεν εν
Αιγύπου μυηθας υπο Οσάνς του Μήδε σαν λέντG- έν Αίγυπω πα αξε τών τηνικαύζ
Βαπλίων Περσών άρχων 7 εν Αι. γύπω ιερών εν τω ιερώτΜέμφεως συν άλοις ιερεύσι
και φιλοσόφους, εν οίς ήν και Μαρία της εβραία σοφή. Και Παμμένης συνέγραψε
περί χρυσού, αργύρα, και λίθων, και περφύρgς λοξώς'. ομοίως δε και Μαρία εσ
ηγέθε σαν παρ' ο'τανε, ως πολσίς και σοφούς αινίγμασι κρύψαντες την τέχνην. Μa
che Democrito ſapeſſe la chimica, ſi può apertamente ve dere in quel che dice
di luiSencca in una ſua piſtola: exce dit porro vobiseundem Democritum
invenifle, quemadmodūs decoétus calculus in fmaragdum converteretur, qua
hodieque coétura inventi lapides coctiles colorantur; le quali parole di Seneca
fan.conoſccre quanto vada.crrato Giuſeppe della Sca For conto Scala; in
facendoſi a credere non avere ſcritto altrimenti Euſebio, che Democrito
nell'Egitto foſſe ſtato in Chimie ca addourinato,ma aveſſe ne'libri d'Euſebio
un tal racco to, aggiunto, untal Pandoro monaco; e comcchè ſi conce deſſe a
Samuel Bocciardi, Oſtane non eſſere ſtato giammai in Egitto, e ch'eglimorto
{ifoffe gran pezza innanzi, che colà andaſſe Democrito; impertanto qualch'
altro di cotal nomepotrebbe effere ch’aveſſe qualche operazione chimi ca a
Democrito inſegnata. Ma ſe pure Euſebio errato aver ſenel nome, da ciò non
puòargomentarſi eflerturto il rac Ma ben l'antichità della chimica affai:
appieno dimoArano le fabbriche degli iſtrumenti dell'agricoltura, las qual
ſenza dubbio, niuno colmondo medeſimo nacque adi un'ora:: e'l modo di coporre
il pane, o dipremerdåll'uva, od'altre frutte il vino, e l'artificio veramente
maraviglioſo di fabbricare i vetri, e diformar le gemme, e'l meſtier del la
milizia, e d'altre antichisfimearti giovevoli non poco, e neceſſarie al genere
umano; le quali ſenza la Chimica non fi poteron mai certamente ritrovare..
Edella ſua antichif lima lega collamedicinaben ſi può ravviſar qualche veſti
gio appreſſo Teofraſto, ed altri antichi ſcrittori: e da qualche medicamento
ancora delle volgari botteghe ſi può co prendere non eſſer sì nuova cotal arte,
e da’moderni inge gni ritrovata. Mache che ſia di ciò: egliè certamente l'uo.
ficio, o'l meftier dell'arte chimica di ſciorre i corpi unici, e di congiugnere
inſieme i diviſi.. E quantunque ella ſia uns fpezial arte, che da ſe medeſima
reggafi, ne le faccia ne ftieri, o la medicina, o alcra arte, di cui dipender
debba; non però di meno per li molti, é diverſi fini, in cui gli ar tefici le
loro chimiche operazioni talora indirizzar ſoglio. no, ella infra varie altre
arti ſovente s'acconta;, ma in tre ſpezie principalınente è partita. La
primaſiè, che ſolve, ed uniſce tutti metalli imperfetti p condurgli a quellaper
fezione (come coloro s'avviſano j che l'oro in ſe contiene:e queſta vien
chiamata da’Greci aepurunanida, La ſeconda ſi è la filoſofia,per la quale sì
fatte operazioni s'indiţizzano a fin 1 dico di conoſcere, e ravviſare la natura,
e la propietà delle co fe a' ſenſi ſottopoſte. La terza- ſi è la medica, che il
mede fimoſimigliantemente adopera per iſpiare; e conoſcerpie namente la patura
de corpiumani, e- giudicar delle ſanità, e delle malattie, e dell'arie, e
dell'acque, e demedicamć ti, e di tutt'altre coſe schad huomo faccian meſtieri:
e an cora acciocchè i medicamenti per quella ſoavi, e grazioſi fi rendano, e di
maggior efficacia,e ſicurtà per noi ſi ſpe rimentino: e ſi poſſa ad un'ora più
felicemente il veroje conyenevole loro uſo inſegnare. Comunque però ſi dica no,
o ſi faccian gli artefici, egli è ben chiaro -effer la Chimi ca una cotal arte
da per ſe fola; colla quale tanto ha che far la medicina, quanto delle
matematiche, o d'altri ſtudij e virtù certamente s’inframinette; ſe non ſe per
avventura dobbiam dire,che maggiore, e più manifeſta utilità recau alla
medicinata Chimica, che tull'altri ſtudi di ſopra ac cennati unitiinſieme, e
rannodati ſi facciano. Perchè come medico Chimico -ſuolchiamarſi dal volgo
colui, che del la Chinica tanto quanto per lamedicina ſi ſerve, così ſo
migliantemente o ſtronomico, o geometra, o muſioo chia mar colui-fi vorrebbe,
che per maggior profitto inmedici na trarre, di sì fatti ſtudi picnamente fi
conoſce. Ma noi nondimeno del comuni favellare l'ulo ſeguendo, chimnico medico,
o chimico filoſofante-colui chiameremo, che del la chinica arte, o per medicare,
o per filoſofare quando meſtier gli faccia ſervir Si fuole. Madall'uficio, edal
fin della Chimica chiaro'fimiglia temente ſi comprende quanto quclla ne vaglia,
e n'ajusi,a1 ži ſicuramente détro alle ſecrete coſe della natura metter ne
poſſa. E ſe veriſſimo cgli mai ſeinpre ſi crede, ch'allej naſcoſe coſe Non
trova ingegno-umano aperto il varco: chi può mai porre in dubbio, che lo
ſcioglimento de'corpi naturali - il più ſcuro, e'l più agevol modofia da
pervenirea qualche conoſcimento dique’principj, onde compoſti, e formati i
naturali corpi ſono: come appunto dallo ſciogli incnto dc'corpi artificioſi,
comed'orioli; o d'altri ſimiglia. ti ingegni fi vengon toſto a ravviſar le
parti, che quei comº ponevano; il che ben conoſcédo i primi padri,e maeſtri del
la natural filoſofia, Pittagora, Parmenide, Anaſimandro, Democrito, e altri
ſaggj filoſofanti dalle continue conſide razioni, che attentamente ſempre
facevano nello ſciogli mento delle coſe, che daʼnoſtri ſentimentiſi comprendo
no le quali noi diciam corpi naturali,di quelle iprimi prin cipj inveſtigar mai
ſempre ſi ſtudiarono. Ne d'altro argo méto fervifli Ippocrate a forınar
l'opinione de'quattro pri mielementi, ſe non ſe di quello della reſoluziou del
corpo umano; nella qual coſa egli fu poi da Ariſtotele ſeguito: dicendo, nella
carne,nel legno, ed in altri ſimiglianti cor pi contenerſi virtualmente il
fuoco,e la terra, poichè aper tamente ſe ne ſeparano; ma nel fuoco poi
noneſſervi altri menti legno, ne carne, ne in atto, ne in potenza; imper
ciocchè le vi foffero, certamente ſe ne ſeparerebbono. E tal ſentimento dalla
torma tutta de’lor feguaci vić abbracó ciato; a'quali ſeinbra aver aſſai bene
ſtabiliti i quattro pri mi clementi, con dire, in bruciandoſi una pianta aver
vi, oltre al fuoco la cenere, che è terra, e'l fumino, che è aria: e la groinma,
la qual riſudando n’addita non mancar vi anche dell'acqua. Ma quanto ſpoſata, e
fievole una sì fatta pruova fia,ben pienaméte il coprede ogni meromo ſcolaretto
in chimnica, cui troppo ben ſi manifeſta il macaméto, e i difetti di cota le
ſcioglimento; concioſliecofachè in ardendoſi sì fatti corpi,molte, e varic
favoleſche, oltre a quelle, che per la picciolezza in conto verun çavviſar non
ſi poſſono, aperta mente per l'aria ſparpagliar-ne veggiamo: ne è da dire la
cenere, il fummo, la fiamma, e l'umidore eller corpi ſem plici, e non compoſti,
che queſti ancora ove più minu tainente fi folvano, e inſino a primi ſenſibili
componenti fi partano, ravviſanfi compoſti di particelle di natura, en
d'operazione diverſi, come quelle, che contengono un'ac qua ſemplice, ed
infipida, ſenza altra virtù, falvo che d'u mettare: e un'olio puro, ed
acceſibile,e uno ſpirito ſottile, e penetrante, e un ſal volante, che ha in ſe,
non micno il ſapo Sss re, che le che la
virtù tutta del legno: le ceneri altresì fon com poſte di ſoſtanze diſſimili,
ciò ſono un ſale fiffo acconcio a fonderſi nel fuoco, ed a ſcioglierſi
nell'umido, ed una ter ra priva di ſapore, e di efficacia. E corale
ſcioglimento no come il volgare degli antichi in pochi corpi ſi può dimo ſtrare,
ma col conſiglio della chimica, poco men, che in tutti corpinaturali adattar
puoſli; oltre a ciò poi più addé troil chimico facendoſi argomentar potrà i
ſapori di tutte coſe dal ſal venire in quelle contenuto, egli odori dal ſol, fo,
e dal mercurio la penetrazione; e per tacer d'altro,più oltre ancora procedendo
ritroverà, che i ſemi del liquido, e ſottiliſſimo fuoco nel ſolfo alberghino; o
che ſian quellia guiſa d'acutiſſime piramidette, o dipiccioliſfimi globi: e che
il ſolfo ſia d'uncinute particelle, e aggavignate com poſto. E così pian piano
ricercando la figura delle parti celle del fale, è degli altri chimici principj
trapaſſerà a {piegare con probabili conghietture tutte le operazioni di quelli.
Così pariinéte dalle chimiche oſſervazioni avviſato, po trà chiche ſia
inveſtigare,come far ſi poſſano le piovese i grā. dini: come s'ingenerinoi
tuoni,i lápise le ſaette:come dalla forza delle folgori fi dileguise fi föda il
ferro della ſpada,rie manédo illeſa la guaina: come piovano foventi fiate
pietre, ſangue, elatte, e come alla fine ſi formino le ſtelle caden o; le
cagionidelle qualicole, e altre molte, potemo ogo gi col giovamento della
chimica, non ſolo aſſai veriſimile mente conghietturare, ma coll'opere, e
coll'eſercizio prat tico imitare; imperocchè fifaccia dell'oro una polvere nel
la fornace chimica; che dagli effetti oro fulminante appel laſi, la quale
acceſa, fa non folo lo ſtrepito, e lo ſtroſcia del tuono, ma anche ilcolpo, e
la violenza della faeţea; il che fa altresì quella polvere da ' chimici
parimente ri trovata, la qual tonante chiamano. Così parimente raccoglieſi
dall'evaporazioni dell'acque piovane eſtives, un ſale, chemeſcolato con egaal
porzione di ſalnitro,e có una particella di ſolfo fa an coral meſcolamento, che
ac celo li fonde in pietra. Ma di troppo più tempo avrei bi fogno ſe voleffi Io
far parole ditutte altre maraviglie dela le quali le cagioni naſcoſe per
addietro, e inviluppare agli intendimenti de’noftrimaggiori ora per argomenro
delle chimiche ſperienze ne fi rendono in qualche maniera pia ne, e manifeſte.
Perchè non è forſe dadubitare, che ſe l'arte Chimica pervenuta foſſe a notizia
degli antichi greci filoſofanti, non avrebber certaméte coloro nelle loro ſcuo
le huom ricevuto, che prima in quella non foſſe alcun té po uſato, e ben lungo
vantaggio tratto n’aveſſe; e per mio avviſo con maggior ragionedi quella, onde
Platone, e se nocrate volean, che nel filoſofare non foffero ammelli com loro,
che della Geometria digiuni foffero, come teſtimo: niano Laerzio, Suida, ed
altri; perchè nella fronte dell'an drone dell'Accademia quelle famoſeparole
ſcolpite legge váli oudéis ayemjétentos sioitw. Concioffiecofachè la chimica
fola il più certo, e ſicuro fenticro lia,da condurre alla na tural filoſofia;
edella ſola porger ne fappia le chiavi, con cui quelle ſalde,e diamantine porte
differrar in qualche modo ſi poffano, ove i più cari, e ricchi tefori deita
natu ra fon riſerbati: perchè a ciò riguardando non ebbe il cor to certamente
il famoſiſſimo Meſue di chiamare per van. taggio, e per eccellenza floſofi, e
ſapienti coloro, che del la Chimicaconvenevolmente s'intendono. Ma per
diſcendere al più particolar giovamento, che della Chimica raccor fucle la
medicina: Io dico primiera mente, ch'a bene ſpiarla natura de’viventi, e
ſpezialmente delcorpo umano, e la ſua ben regolata economia,la chimi ca
lommamente abbia luogo, e la ſua vital notomia; im perciocchè ſiafi pure
coll’opere della morta notomia a mol te, emolte coſe aggiunto, le quali gli
antichi ſapicaci ravviſar non poterono; e lungo tratto vi crrarono: e ſap piaſi
pure per quella il vero movimento del cuore, e del ſangue: e che il ſangue non
s'ingeneri nel fegato, o nelle vene, fecondochè con molti altri, così antichi,
comemo derni porta opinion Galieno: ne men nel cuore,ſicome im » magina
Aristotele: c ſappiaſi anche, che il chilo tragittiſi non per le vene
miſeraiche, ficome vollono gli antichi me Sss dici; 508 RagionamentoStrimo
dici; maper le vene lattee al ſacco latteo; onde poi meſco laro col ſangue
trapaſſa al cuore: e ſappiaſi eziandio, che vi ha le vene acquofe: c come, e
per quali ſtrade l'orina per le reni trapelando alla veſcica s'ayvalli: ecento,
e mille altri moderni trovati degli ingegnofi notomiſti de’noftri tempi, de
qualierano affatto digiune Legentiantiche ne l'antico errore; anzi concedaſi
altresì volentieri (il che non mai sì di leg gieri conceder dovremmo ) che la
notomia già all'ultima mano ſia giunta; e che de'tempi noſtri ſe ne ſappia
quanto mai per tutti i ſecoli ſe ne potrà per innanzi ſcoprire, o fa pere:non
per tanto non potrà di tutto concio ſervire al me. dico per farlo a quella
perfezion ſormontare, che al ſuo meſtier.Sirichiede; anzidopo tante, e tante
fatiche ſaprà cgli ſolamente una vaga, c dilettevole ſtoria delle parti del
corpo umano: utiliſſima certamente, anzi neceſſaria a do ver ſapere; ma non
baſtevole già, ne meno a poter in par te fondare, e mandare avanti una
verifimile razionalme dicina: per la quale fa meſtieri ſaper le cagioni dentro,
ele probabili ragioni delle coſe, non già la ſola ſtoria, e'l ſem plice
racconto di quelle. Ne da dir egli è ſaper pienamen te l'economia del corpo
umano quel medico, il quale non potrà render ragione della natura della
generazione, del movimento delcuore, del ſangue, del chilo, degli umori
acquoſi, e d'altre parti così correnti, come ſaldodelcorpo umano, c della
propietà,e operazione di ciaſcuna di quel le; le quali coſe inveſtigare
impoffibile certamente è ſenza dovere a chimici ſcioglimenti ricorrere; per
virtù de'quali Avicenna d'inveſtigare ſtudiosſi l'umidore dell'oſſa, e de' peli:
ed affermò,cheavendo egli ſtillato nella boccia parti eguali d'offa, e di peli,
uſcì dell'offa maggiore abbon danza d'acqua, e d'olio, e minor di feccia:
perchè dic'egli, che l'oſſa più umide, c più ſuccoſe fieno. Ma no pure a ben
filoſofare i Chiinici dello ſcioglimēto de corpiſervir fi debbono,ma co
argométo ácora ditutt'al tre operazioni dell'arte,bé poſſono veriſimilmente
ſpiegare, come tanta varieti di cibi nella ſoſtanza, e nel colore dilli mili ſi
traſmuti ſoventi fiate in un bianchillimo, & unifor me licore, che chilo
appellaſı; come poſcia il candore del chilo in ſanguinoſa roffezza ſi
trasformi; e donde il cuore abbia il ſuo movimento, e'l ſuo calore, cioè
aſſomigliana do la concozion de'cibial diſcioglimento, over disfacimé to
decorpiſolidi, in virtù di convenienti liquori; la gene razione della
bianchezza nel chilo, e del roſſore nel fan gue, alla trasformazionedel colore
nel latte vergine, e nell'eſſenza del fatirione, e altre ſimili coſe; la
continua produzione del calore nel cuore, e nel ſangue: al fervore, che per la
formētazione s'ingenera ne’liquori de' corpi ve. getabili. E cotanto montano
per mio avviſo sì fatticono ſcimenti, che ſenza quelli nonſi può coſa del mondo
intor, no alle malattie, a’lor effetti, e cagionigiammai diviſare; ne in altre
faccendo delcorpo umano, coſa alcuna di con ſiderazione potrà per huom maidirſi,
fe minutamente les dette coſe, e molte, e molt'altre per virtù della Chimica in
prima diligentemente non s'inveftighino, le quali tutte lungo ſarebbe al
preſente volerle quìfil filo narrare. Ma non men utile, non men giovevole, e
neceſſaria cgli è certamente ancora al medico l'arte de Chimici,colla qua le
egliponendo ad una rigoroſa, e ſottile eſaminazione l'aria, le terre, l'acqua,
le piante, e gli animali, eimine rali corpi, attentamente poine ſpia, e ne
conghiettura la natura di ciaſcuna coſa; e di qualunque lor menoma parti cella
le propietà, elevirtù, ele maniere tutte dell'adope rare con probabili, e
ſimili conghietture ravviſa. E nel vc ro queſto, che ciaſcun di noi, e
tutt'altri corpi di quà giù ſempremai circonda, penctra, avviva, emantiene,
valtiſ fimo, e diſcorrente, e lieve, e ſereno, e ſottiliſſimo cor po dell' aria:
la quale l'acutiſfimno infra gli antichi Ita liani noſtri Timeo di ſgretolate,
e minucillime particel le di ben venti facce compone, non è egligià miga ſem,
plice corpo, come il volgo follemente s'avviſa;ma di varie, e diverſe ſoſtanze
compoſto inſieme, emeſcolato. Sorgo no queſte dalla baſſa terra talora,
edall'acque, che quella, irrigano, e forſe anche dalla luna, dal ſole, c da
altri corpi superiori vi piovono; per li qualil'aria, o più, o menoalla
reſpirazione, e agli altri biſogni degli animali acconcia fi rende, poichè
nelle cimedegli altiſimi monti, ove non giungono l'eſalazioni dell'acqua, e
della terra, gli animali fi foffogano; perchè poi in coloro in varie guiſe le
malattie naſcer veggiamo; perchè canrò Virgilio ſubito cùm tabida membris
Corrupto cæli tractu, miſerandaque venit Arboribufque,fatiſque
lues,lethiferannus. Ma tali particelle meſcolate inſieme, e nell'aria coufuſe
aſſai malagevolmente per certo, aozi in niun modo ravvi-, far ſi poſſono, ſe
non ſi partan prima', ſolvendoſi ciaſcu na di loro ne' ſuoi primi componenti.
Il che con ma raviglioſo artificio da alcun de'più eſercitati, e più intens
denti Chimici felicemente operar ſi ſuole: e ben ſi ſcorges omai a tal ſegno la
coſtoro induſtria avanzata, che per ope: ra del famoſo Drebellj,parche vi ſi
fia già ritrovato perre ftituirlo all'aere, qualora ne veniſſe egli privo,quelnobilif
ſimo eliſlire, che giuſta i ſentimenti di Paracello vita infó de a quanto Qui
nel mondotra noiſimuove, & fpira; che perciò egli vitale l'appellasper cui
l'aere non ſolamente agli animali,maalle piante cziandio oltremodo neceffaria
eller li conoſce; e ben di eſſo felicemente avvaler ſi vide to ſteſſo Drebelli,
allorche egliquella maraviglioſa bar chetta da lui fatta a richicſta del Re
Giacomo della Gran Brettagna con iftupor di tutti ſotto acquanel Tamigi fena
vigare; coméchè il detto eliſfire altro ancor faccia, cioè folvå, e precipiti
giù quelle ſoſtanze nell'aere, che'l ren dono mai atco alla relpirazione. Ma
l'acqua, la quale per bevanda, e per altri infiniti ug è cotanto biſognevole,
quantunque chiariſſima, e traſpa rente, c pura a tutta poffa fi ſcelga, eli
proccuri; e che al fapore, all'odore, e alla leggerezza, ea tutt'altri ſesnali
ſempliciſſimo corpo in prima neſembri; pur riandata poi, oltre a diverſe
foſtanze, che meſcolare vi ſi trovano, ſe ne cava ancora un tal ſaie sì
fattamente acuto, e pugnereccio, che JEI che di nulla ha che cedere in forza
aque'ſali,onde per l'ac qúa regia quel duriſſimo metallo fi ſcioglie,
comediſopra accennammo, che a qualunque violenza di fuoco, ſaldo, e
oftinatiſſimo mai ſempre contraſta; perchè è dacredere nó bene operar coloro,
che il diſtillar acqua per limbicchi di metallo, e maffimamente di piomboagli
ſpeziali permet tono; conciosſiecofachè roſicchiato alquanto dallamorda cità di
quel fale il piombo, e trameſtandoſi l'uno all'altro, vengonoinſieme a
corrompere,e meſcolare; e guaſtar ma lamente la ſoſtanza diquell'acqua, che
ftillaſi:e allora veg giamo coforarſi a poco a pocol'acqua, e a guiſa di latte
biancheggiare, quando diſtillata a campana di piombo có altra femplice, e non
diſtillara acqua ſimefcola; ilche fag giamente avvifarono già i dottiſſimi
Accademici del Cinně 80. Ma che che fia di ciò, oltre al ſale, il ſolfo altresì,
e'l mercurio, e la flemma, ela terra dannata ritrovò nell'ace qua il dottismo
medico, e chimico filoſofante Borricchio. E che diremonoi de ſemidi tantis e
tanti vegetali semine rali, e animali, cheper la glorioſisſima induſtria
d'alcunº altro Chimico nell'acqua ancor ſi avviſano: il che diede per avventura
cagione agli Egizzjdi giudicarla primera, e univerfal materia ditutte
coſecreate, da'quali tolſe Ome ro a dire: Ωκεανόν πθεών γίνεσαν και η μητέρα
τηθε ePautore di que' verſi attribuici ad Orfeo Ωκεανόόσπερ γένεσις παντεσσι
τέτυκάι. Ωκεανών πεώτG», καλιρρόσυ ήρξαι γάμοια oʻpos saoryvártee góptopýtoege
TyIwTHEY, E’I noſtro poeta, per tacer Virgilio, Catullo, ed altri, ſe. condo il
medeſimo ſentimento avendo egli al fuo Filagli teo fatto ragionare in prima
della terra, Pur non è ella il gran principio immenſo, Ilgranprincipiodele
coſeeterno, Benchèmadre fichiami, e velta: & vanti La reggia, ei figli
ſuoidivize giganti, fa poi, che coluiſoggiunga: Mafo degna di fede,èfama antica
L'Ocean de le coſe.è vecchio padre. Il qual ſentimento fu anche di Talerc
Mileſio, il qual ncl. la ſcuola de ſapienticosì preſſo Auſonio va dicendo Milefius
Thales, aquam qui principem Rebus creandis dixi. E ciò dal vedere egli, come
fasſi a credere Ariftotele, effer umido, così il ſeme, onde s'ingenera
l'animale, come il cibo del qual ſi nutrica: e dal credere, come riferiſce
Plutarco, il ſole, e le ſtelle da'vaporidell'acqua nutrirſi, o dall'avviſare
ch'ogni qualunque coſa dall'acqua nafca, ed in ella diffolvafi, comc racconta
Euſebio. Malo immagi. no, che Talete non già principio delle coſe abbia voluto
eſſer l'acqua, ma giudicato aveſſe aver d'acqua in primas avuta ſembianza e,
forma quella materia, onde poiſecon do il ſuo avviſo i corpi tutti ſenſibili
del mondo si formaro no; ciò parimente ravviſar ſi puote dallo ſcoliaſte
d'Efiodo, allor che dice, il caos d'Eliodo, altro non eſſere, che l'ac qua. Ma
non men dell'acqua, e dell'aria ſi dee ancora prender cura delle terre, c con
attentisſima eſaminazione conſide rarle, ove certamente infra tante, e
tant'altre ſoſtanze,che Vallignano foglion diverſe, e varie ſorti di minerali'
ritro varſidagli; aliti de'quali reſa talora peftilenzioſa, e corrot ta l'aria,
o l'acqua, o le piante, o le frutca, nuove, edi verfe guiſe di malattie ſovente
cagionano: ne altronde, per quel che già Io ini creda, quelle gravisſime
febbricomor tal riſchio degli ammalati in cotali ſtagioni dell'anno accé der fi
fogliono, che per cambiamento d'aria avvenir comu nemente fi giudicano, ſe non
ſe da sì fatti aliti, e ſuapora menti de'minerali, che pervenendo al noſtro
corpo, e dall' aria, ed all'acqua, e da' cibi quivi racchiuſi, e ingozzati,
ſcoppiano poi per la loro abbondanza, e ſoverchio vigore in ardentisſime
malattie; imperoccliè in quelle ſtagioni il fervor del fole facendo venir ſu
gli alitį arſenicali, vitrio lati., nitrofi, e ſulfurei dalle occulte miniere
della terra, rende l'aria dannoſa, e nociva alla unana ſalute; concioſ
fiecolachè in ponçido noi mente alle chimiche operazioni e 1 o ravvifarido,
come alcune ſoſtanze, le quali comechè ſc parate ſi prendano ſenza alcun nocumento
per la bocca, im pertanto confuſe formano un mortifero veleno, come nel
ſolimato ſi vede, del quale ogni qualunque menoma parti cella mortalmente
offende, potrasſi agevolmente conoſce re, come reſpirādofi ne'viaggi ora aliti
mercuriali, o a'mer curiali equivalenti, ed ora ſalini, pofſa produrſi nel cor.
po noſtro una ſoſtanza non guari disſimile al ſolimato ed indi poi quelle
mortali infermità di cambiamento da ria appellate agevolmente s'ingenerino. E
ciò vien conferinato dalla ſperienza, come quella, che ci dimoſtra, ivi avvenir
le malattie di cambiamenti d'aria, ove ravviſa fi maggior varietà diminerali,
ed ove il calor del ſole per cuota maggiormente; ne da altro, che da aliti
velenoli, e nocevoli de'minerali da crederè, che s'accendano ancora quell'altre
febbri non men malvagc, e non men peſtilenzio ſe delle prime, che avventandoſi
tratto tratto con lor vio lenza alle Città, e a' contadi, e a’villaggi tutti,
fogliono così infra breve ſpazio di tempo impoverir d'abitatori le contrade. Ed
abbiam noi pure con gli occhi proprivedu to quanti, e quanti da sì fatte
cagioni nella noſtra Città miſerabilmente morti ſiano, e ſpezialmente ne'meſi
addie tro, quando crudelmente diſcorrendo in alcuni luoghi la peſtilenzial
febbre, laſciò vuoto, e diſpopolato il Borgo Sant'Antonio, ed altre terre,non
ſolo della Campagna Fe lice, ma d'altre Provincie ancora del Regno noſtro. Ed è
egli neceſſaria ancora ſoprammodo a'mcdici la chi mica acciocchè eglino con
l'ajutodi quella valevoli a ſpiar la natura, e la propietà de'cibi, e
de'ſemplici medicamen ti render ſi poſſano; conciosſiecofachè quantunquc vero
egli foſſe ciò che Galieno medeſimo coſtantemente niega's c rifiuta;che i
ſapori, e gli odori, ed altre ſoiniglianti qua lità, certi, e ſicuri ſegnali
della natura de'cibije deʼmedica menti ſiano, pure perciocchè gli organi
de’noſtri ſentimen ti di sì ſottiltempera, c di sì acuto intendimento non ſono,
che poſlan ſempremzi ben comprendergli, egli ne fw certamente meſtieri per
iſcorta de'ſenſi rintuzzatil'Ermetica notomia, la quale partendo i corpi, ed
eſaltandone le qualità (per ſervirmi d'una voce dell'arte ) quelle poi ma
nifeſte a'curioſi, e ſenſibili maggiormente offerir poffa. E quale avviſo
potrebbe mai per huom' prenderfi dal ſolo fpiamento de ſenſi intorno a
que'cibi,e a que'medicaméti: che pur ven'hà molti: edanche intorno a
que'veleni, che privi affatto,e ignudi d'odore,e di ſapore,e d'altre ſimigliá
ți qualità, di tanto vigore, e di sì inaraviglioſa efficacia ſi conoſcon poiper
pruova, qualia danno, c quali a prode gli huomini, chc nulla più? E quale
argomento prenderem noi dal ſapor di quelle coſe, che di ſoave dolcezza maſche.
rate in prima, come già altra volta abbiam detto, ne lufin gano il palato, e la
lingua, e poi tranguggiate, nello lo maco formentandoſi, le viſcere,
cgl'inteſtini crudelmeute, n'offendono? Coſa,la quale nel zucchero, e nel mele,
e in ciaſcun'altra ſimigliante coſa manifeſtamente fi ſperiméra, Che dolce al
guſto, a la ſaluteè rea; perchè facendo le beffe a' volgari medici il
motteggevol Berni, così proverbioſamente ne favella: Il melperchèmangiato
altrui diſtempre, E’n collera ſi volti; a cui l'amaro Danno coſtor, che fan
tutte le tempre: Queſto ſecreto così degno, e raro Maſtro Simon ftudiandoil
Porcografo Scoperſe a Brun, che gli fu già si caro. Or fa tu l'argomento o
Babualo, Edì, fe'l mele in cullera ſi volta, Segno è, che d'amarezza non è
caſo. Ma comechè così alla ſcoperta n'ingannino i ſentimenti ilmele,
e'lzucchero con far veduta d'eſſer cotanto dolci, foavi; pure de’lor falli
agguati ne fan pienamente avveduti le chimiche machinazioni, con
darnemanifeſtamentea di vedere, nel zucchero, e nel mele un ſale acutiffimo naſcon
derſi, nonmolto a quel dell'acqua forte, e dello ſpirito del nitro dicimile:
Quis mellis dulcedinem nefcit? dice Pier Severino: nibilominusin tanta
dulcedine latent Spiritus illi acutisfimi, qui ubi exaltantur, & ad
extremitatem ducuntur,venenatā perniciē represētāt.Eprima dilui Baſilio Vale.
tini già detto aveva:jā vero ex illo fuavisfimiq;faporismeile Corroſivă
peffimü, atq; præfens venenum præpararipoteft. Or va medico ingannato, e
ſciocco, e giudica pur dalle qua lità, ch'a prima faccia viſcorgi,le cofe della
natura; con danna la rigidezza nel ſal comune per la rabbiofa ſete, ch '
accenderſi da quello sformatamente rimiri: ch'ad ontz pur della tua
mellonaggine han ſaputo i Chimici un fales aceroſo rinvenirvi ad attitare anche
agl'Idropici più ane lanti la fete. E che direm poi del pepe, che così mordace;
e pungente, puré un dolciſimo, e ſoaviffimo fale in ſe na fconde? E che d'altre,
e d'altre pruove infinite, che per interamente fpiegarle vi vorrebbono lunghi
volumi, non che piccoli diſcorſi di ragionamenti? Sarà dunque da con. chiudere,
che noi per quanto con tutta noftra poffa a ſpia: rei ſegreti delle coſe del
mondo ci adoperiamo, pur nonui ne poſſiamo fe nonſolamentele priincbucce
comprendere; perchè ſe chimica mano non le parge, c riſolve, e diſtinta mente
elaminandone le parti, le naſcoſe interiora di qucl le non ci addita, e le
operazioni, e'l convenevol modo di farlo, certamente chiunque ciò follemente intende
Ne l'onde folca, é ne l'arene femina. Eben di ciò fe manifeſta pruova il
Cardano,che col lim. bicco, e colla Chimica giunſe a ciò che comprender mai non
poterono, o Ariſtotele, o Galieno; e ciò fu, che nó fappiendo coſtoro la
cagione, perchè cotanto noccia il vi no,maſſimamente generoſo, e pretto a
colui, che paciſca di mal caduco,egli ſolamente colla ſcorta della Chimica potè
a fuo credere affai veriſimile ritrovarla:hoc verò dico (sõ ſue parole) nõ
cõvelli puerosà vini potu ob caliditatem;quum neq; pipere,neq;aliis aromatibus
id eveniat: neq;quod fithumidū; nă vel noeft, vel lac longè humidius, à quo
tamen non convel tuntur. Caufsa ergo eft aqua ardens, quæ in illo continetur:
que quum latuerit Ariftotelem; & Galenum, meritò in Aris fotele
admirationis cauffam præbuit, in Galeno multa perpe tam commentandi; eftautem
abundantior, quo vinum craf Ttt. 2 pius eft. Ma ſe'l Cardano ſtato e’li foffe
meglio inteſo nelle faccende della chimica, aurebbe certamente una aſſai più
veriſimile cagione di ciò nel vino ſcorta, e avviſata: im perocchè oltre allo
ſpirito ardente, che giova anzi che no al mal caduco, evvi un ſal fiffo acetoſo
nemiciſſimo delle parti tutte nervoſe, del qual aſſai più, che dello ſpirito
ardente egli è il vino groſſo abbondevole, e copioſo. Ma intorno alle fattezze,
così dentro, come fuori delle coſe, giovevoli oltremodo a raffigurarne anche le
vir tù dc'ſemplici, non comporta al preſente la ſtrettezza del tempo, ch’lo
tanto quanto ne ragioni;le quali per non dir d'altri vedeſi aver tolte dal
Paracelſo, e da altrichimici au tori, comechè di lor non faccia punto mézione,e
averle de ſcritte nella ſua Pitognomica il noſtro curiofiffino, emol to
de’ſegreti della natura intédente Gio: Battiſta dalla por, ta. Maniuno
certamente ha, che con maggior diligenzas per quel che me ne paja, e più
felicemente ne tratti (per ta cer del Crollio, e del Quercetano) quáto Federigo
Elvezio, E coinechè noi fin qui de'ſemplici medicaméti detto ab kiamo, non però
di meno è da credere la Chimica a'com poſti, clavoratimaggiormente abbiſognare.
Furon que fi ingegnoſi trovati del mondo già adulto; imperciocchè
negliannidell'oro, e nella felice etade, quando i pomi, e le ghiande Eran del
corpo umanlodevolpaſto: nelle ſemplici piante la germogliante medicina
ſolamentes confifteva; e allora non men che le ſchiette vivande, i me dicamenti
ancora Vſar le fortunate antichegenti; ma creſciuta poi oltremodo col tempo, e
comprenden doſi dagli huomini eſſer nclle piante qualche parte inutile per
avventura, c qualch'altra forſe nocevole, eglino di par tir l'une dall'altre
per lor biſogne avvedutamente propoſe ro; quindi tra perchè non ſi fapeva, o
non ſi potea purlaw parte nociva, è inutile dalla buona ſeparare, e anche per
chè così diviſe, debile molto, e sforzata la parte medicinal He rimaneva,
qualch'altra pianta forſe ſaggiamente v’ag 1 4 giunſero valevole ariſtorare i
mancamenti, e i difetti del la prima, é a far sì, che quella nulla, o poco
nocer potef fe; anzi ſe pur Pabbiſognaſſe, quindi la ſua virtù notabile mente
avanzar nedovefle. Così tratto tratto cominciaro no nel mondo a comporſiinſieme,
e meſcolarſi i medica menti; e ſarebbe pure aſſai bene potuta riſtare in tale fta
to la biſogna, ſe già tanti, e tanti indiſcreti, e ſmo dati medicinon aveſſer
quindi preſo agio di ſtrabocchevol mente ſcompigliare, e confonder la medicina
tota, con ac cozzare inſieme; e meſcolar cotanti medicamenti per ren der la
medicina, o più malagevole, o di maggiorpregio al mondo; e componendo inſieme
una lunga ſchiera di cento ſemplici medicamcnti, ne formarono talora uirconfuſo,
e inviluppatiſſimo guazzabuglio. Cofa, la quale ſommoſſe i più faggi, e
avveduti medici, ed inveſtigatori della natu ra a lūghisſime quercle,come
d'Erafiftrato narra Plutarco con quette parole: Ερgσίστρατοδιέλεγχε την
ατοπίαν, και περιεργίας με μεζλικα, και βοτανικα, και θηeμακα, και τα από γής,
και θαλάθης εις Te Quroovyzeegwúras oxandryce Citocécouvlas iv mitocrívy, og
díxua, και εν ύδρελαίω τηνιατζικην απολιπε. ΜαEragrafo biamo ol tremodo
l'indiſcrezione, e la curiofità di coloro, che i minera Li infieme, e le piante,
e gli animali, e ciò che mena laterra, o naſce in marein unomeſcolarono; che
più fennd af'ai avreb ber fatto, fe daparte laſciate cotantecoje folamente
co’farri, colle zucche, e coll'Idreleo aveſſer l'arte della medicina ter
minaia. E l'avvedutiffimo, e bé parlante Plinio.fraudes ho minum,&ingeniorum
capture officinas invenere ifas, in quibus ſua' cuique homini venalis
promittitur vita. E chi non maraviglierebbeſi di tante, e tante coſe, ch'a com
por la Triaca, o'l Mitridate, concorrer debbono, dan ftancare i ſpeziali,non
che a raccorle,maſolamente in leg. gendone le ricette/ Theriace, diſſe altrove
il medeſimo Pli nio, vocatur excogitara compofitio luxuriæ; fit ex rebus ex
ternis, quum tot remedia dederit natura, quę fingula ſuffi, cerent.
Mithridaticum antidotum ex rebus quinquaginta quatuor componitur, interin nullo
pondere equali, & qua. rundam rerum fexagefima denarii unjus imperata. Que
Deorumperfidiam iftammonftrante? hominum enim fubtilin tas tanta effe non
potuit. E avvegnachè cotali medicamen ti fiao poi nell'opera buoni, ed efficaci
riuſciti, non ne ſom però mai da troppo commendare i primilor ritrovatorizim
perciocchè nel comporgli da prima, e nel lavorargli non con avveduto, e ſano
giudicio certamente adoperarono, ma a riſchio, e a caſo alcune di quelle coſe
togliendo (che pure alcune vi ſon ſoverchie ſenza pro niuno, c viſi potreb.
bono anche dell'altre, e forſe con maggior ſenno, più ef ficaci aggiugnere)il
tutto e nella ſceltage nel povero,e nels la quantità di ciaſcuna ciecamente
alla ventura riniſero, non guardando minutamente comeſi richiedeva, al valor di
quelle, ne punto efaminandole. Impreſa per molti ca pi malagevol troppo, e
quaſi ad huom diſperata; ſenzachè nel meſcolarſi,nel diſporſi, e nel
formentarſi inſieme i sé plici,varj, ediverſi mutamenti ſovence avvenir ne
foglio 110; iqualicertamente non è da dire, ch'aveſſer mai que primi
ritrovatori di quelli pienamente avviſar potuto. Per chè comenell'incendio di
Corinto quel ricco metallo co tanto dalle ſtorie celebrato nella fortunofa
meſcolanza di altri metalli alla vçntura formofli, così nõ meno il caſo an cora
ha parimente portato, ch'il Mitridate, la Triaca, o s'altra v'ha fomigliante
compoſizione, giovevoli, ed effica ci rimedi per molte, e graviſſime malattie
fortunoſamente fian divenuti. Ma che che di ciò ſia, manifeſta coſa è poterſi
molto be De l'antico ufo rinovando, colle ſole piante medicare; la qual forte
di medicina, dirò con Adriano Turnebo,huom di varia, ed eſquiſita letteratura:
fortaffe ad morborum fani taiem efficacioreft,quam illa confuforum miſcellanea
compo fitis; magno mortalium, & difpendio, & damnointroducta. £ noi per
tacer de' bruti animali, che felicemente ad ogn ora l'adoperano il veggiamo pur
fare alla giornata a parec chj de'noſtri contadini, ne ha guari,cheil
Caritrero, famo filimo medico Tedeſco, con ufar medicando le ſemplici piante,
non ordinaria lodå guadagnoſli; e i popoli inge gnofillimi del Braſile,iſicome
riferilce Guglielmo Pifone, medi DelSig.Lionardo diCapoa. $19 medicamentis
fimplicibus utuntur, noftraque derident, quia compofira; e degli abitacori del
Mellico, Fra Martino Igna zio ne' ſuoi viaggj, così dice: los Indios fon grandesberbo-,
larios, ycuran fempre con ellas, demanera, che cafi non hay enfermedad para la
qual no ſepan remedio, y le den:ya eſtacaufa viven muyfanos, y cafi per
maravillamueron, que noſea quando el humido radical ſe conſuma: ed in quel va
ito, e quaſi immenſo tratto dipaefe della China, comete ſtimonia il Padre
Matteo Riccio, fi è medicato permolti, e molti ſecoli, e ſi medica tuttavia, ed
aſſai felicemente coll uſo delle folc erbe. E certamente come la natura delle
ſchiette, e non meſcolate vivandeoltreinodo ſi dilecta, Nam varieres Vt noceant
homini credas, memor illius eſcę, Que fimplex vlim tibi federit; at fimulaffis
Miſcueris elixa, fimulconchylia turdis; Dulciafe in bilem vertent,ftomacboque
tumultum Lenta feret pituita: vides ut pallidus omni Cæna deſurgat dubia? quin
corpus onuftum Heſternis vitiis animum quoque pregravatuna Atque affigit humo
divineparticulam aura. Così anche ſchietti, e non compoſti medicamenti per
riſtorarſi richiede; perchè Plinio: non fecit, diffe, ceraia, malagmata,
emplaftra, collyria, antidotaparens illa, ac di vina rerum artifex: officinarum
hæc, imo veriusavaritia commenta funt. Pure, poichè la coſtuma de’meſcolati, co
me de'ſemplici medicamenti, è tanto oggidà nel modo avā zata, che per legge è
quafi da ciaſcun ricevuta, e ſi veggo. no sì fatti rimedinelle botteghedegli
ſpezialicötinuamen te a calca difpenfare: convenevol cofa egli certamente, anzi
neceffaria mi pare, dovere il medico degli unis e degli altri piena, e ficura
contezza avere; e oltre a ciò nelle ma niere del lavorare i compoſti
medicamenti eſſer ottiinamé te ammaeſtrato. E certamente, o quanto farebbe
egliil migliore, ſe il medico medeſimo i rimedj, che diviſa, po • neſſe in
opera, e non ci foſſero ſpeziali, i quali tri per l'in gordigia del danajo, e
per la loro ignoranza il tutto traſcu rata:
1 1 ratamente abborracciaffero; o almeno lavoraffcro imedici qualche
medicamento dimaggior conſiderazione, laſcian-, do ſolamente in man degli
ſpeziali i più volgari, e meno vili: come già coſtumavano (ſecondo il narrar di
Galieno ) Archigene, Andromaco, Apollonio, Critone, Pacchio,e altri famoſiffimi
medici antichi; i quali non iſdegnarono ď. ufar ſovente un così giovevole, e
aobil meſtiere; an, zi lo ſteſſo Galieno vantaſi oltremodo d'aver lui mede
fimoa ſue mani la triaca lavorata; avyegnachè di que’tein pi, come e'medeſimo
ne fa teſtimonianza, e molto addie-: tro ancora, il meſtier delmedico da quello
dello ſpeziale diviſo anche trovaffefi,come avvifa infra gli altri Plinioidid
cEdo, che alcunimedici de'ſuoi tépi no li davan cura niuna dicoporre
imedicaméti,gefepropriú,ſono ſue parole,medie cine ſolebat:ene'répia noi più
vicini ebberoi medici ancora le lorbotteghe;avvegnachè conventati, e onorati
molto ſi foffero, e in quelle alcuni medicamenti ad uſo di vende re riſerbaroro:
come dal Decameron delBoccaccio nel la novella del Maeſtro Simone agevolmente
ſi può cópren dere; a cui Bruno dicea: e ſappiate, che quelle camere ſono
nonmenoodorifere che fienoi boffoli delleſpeziedella bottega voftra, quando voi
fate peftare il comino. El Fernelio, ed altri famofiffimi medicihan coſtumato
pure di comporno alcuno s perchè l'avvedutiſlimo Orazio Eugenj loda foin
mamente coloro, che imedicamenti pe’loro ammalatian ſue mani lavorano. Ne
dovrebbe ilmedico certamente vergognarſi a pur farlo 3 perciocchè,comedice
Primeroſio, remedia abfque medico curant,non autem medicus abſque re mediis;
præftantior igitur medico erit remediorum natura: quare ea præparare,
&componere medicum non dedecet, qui naturæ tantum miniſter eft. E nel vero
egli è queſo un meſtier sì nobile, e lodevole, che non che i filoſofi di mag
gior lieva, e ſpezialmente Ariſtotele l'abborriſſero, e l'a veſſero in
diſpregio, anzi i Principi d'alto affarc ſovente l'adoperarono, e'l tennero a
conto. Or ſe il medico medeſimo a pro de'ſuoi infermi lavorar dee ser
deeimedicamenti,e ſconvenevol coſa non è a ſalvamento degli huomini
l'adoperarviſi; come potrà giammai, quan tunque faggio, e avveduto egli ſia ',
porre in opera, e com porre i più malagevoli rimcdj, ſenza avere in prima bene,
uſate, e ſperimentate lungo tempo le maniere, e gli artifi cj, co’quali ſi
compongono? iinperciocchè l'efficacia, e'l valor di quelli dal niodo
dell'apparecchiargliin gran parte depende. O come potrà mai pienamente diviſar
de'ſempli ci, de'inodi, co'quali tra loro quelli accozzar ſi debbono, e
tramcſtare? perchè Giacomo Silvio intendentisſimo di cotali affari vuol, che
chiunque a bene imprender l'arte della medicina indirizzar ſi voglia,debba
alinen per lo ſpa zio di quattro anni avercontinuo in prima uſato, ebazzi cato
con gli ſpeziali nelle botteghe loro; & quidem exifti mo, dice anche Pier
Caſtelli, oprimum medicum hujus fu cultatis debere effe expertiſſimum: alioquin
fore, utfere fem. per in præfcribendis medicamentis compofitis erret. Mari
tornando, onde partiti eravamo: ch’al inedico faccia biſo gnola Chimica, quanto
al fatto delle compoſte medicine, egli non è da porre in forſe; poichè ſi
ſcorge omai di per; tutto eſſer in uſo le chimichemedicine; perchè ſe'l medico
non aurà piena corezza delle faccéde pertinenti a coral ar re, come potrà inai
quando meſtier glie ne ficcia, o colle fue propic manicomporle, o adoperarle, o
conoſcere al meno, c riparare aldanno, che quelle aveſſero per avven tura
cagionato; o ſe forſe da altri medici diviſati foffero, raffermare i loro
sériinéti, o rintuzzargli,ſecodo egligiudi chcrà, che ſi convegna per lo
miglior dell'ammalato. E nel vero come potrà mai adoperar medicinenti un medico,
ſe non ſe intendentistimo della natura, e delle propietà delle parti,
chic’lcompongono, e degli effetti ancora, e del mo do del loro operare? E come
potrà mai egli ſaggiamente ordinargli ad argomento d'una, o d'altra malattia; e
divi. farle ſtagioni, e itempi, in che fan da dire, c alle conj:
pleſſionidegl'infermi, e all'età ragionevolmente adattaro gli? o comcpotrà mai
loro ordinare il inodo di prenderglis e diviſarne la quantità: 0 temendo di
qualche riſchio rin Vuu tuiz Ragionamento Settimo tuzzarne, e attutarne la
troppa violenza, o contro quella agli ammalati di qualche yalevole ajuto di
preſente ſoccor rere; o toglier lenoje, ei fastidi, che ſovente ingenerar ſo
gliono? Non è certamente cosìagevole, ſecondo i ſenti menti del medeſimo
Galieno, il poter medicamenti adope rare a colui, cui conoſciuta in priina, e
manifeſta molto bé non ſia la virtù di quelli, e la forza per la quale gli
effetti n ' avvengono. Or che di grazia avrebbe detto Galieno, re: qualche
contezza pur delle chimiche medicine, comechè leggeriffima, gli foſſe
all'orecchio pervenuta? Certamente conſiderando egli le ſtrane maniere, e
malagevoli del loro operare, ayrebbe ne' medici ricercato ſtudio, cavvedia
mento maggiore; e non che piane,e facili, e ſenza trop po riguardo giudicate
l'avrebbe, ma pericoloſiſſime a ſpe rimentare, e da troppo più, ch'a popolar
medico non lico viene. Or vadano pure coteſti medici di cromba marina, e colla
ſola doctrina del lor macſtro Galieno a far pruova de'chimici medicamenti a
coſto della vita dc'inileri amma lati ſcioccaméte s'attentino,che vedran pure a
funeſto, e la grimeyol fine le loro mal ardite follie sépremai riuſcire;im,
perciocchè ne dalle ſcritture di Galieno, o d'Ippocrateme defimo, ne da altri
lor ſeguaci, che della chimica medici na nulla certamente s'inteſero,
comprender mai potranno coſa alcuna intorno a'chimici medicamenti; ne dalle
rego le, che già coloro ne laſciarono fi può trarre argomento 2 comporne
alcuno; ſo per quelle le propietà de'inedicamé timedefimi della lor comunal
medicina, nc anche avviſar fi poſſono: perciocchè, ficome è detto, in quelli
ancora il chiariſſimo lume della Chimica ne fa meſtieri.Ne quelno biliſſimo
pronipote del gran Re di Damaſco, Giovanni fi gliuol di Melue nella chimica
medicina, e in quella di Ga lieno, maſſimamente intorno alle purgagioni
eſercitato, n' avrebbe mai conſigliato, cſfer ſempre da leggere, e ſtudiar
ne’libri de'fapienti (cosìchiama egli per eccellenza i chi mici) s'aveſſe
giudicato averfi ciò potuto baſtevolmente in que' diGalieno, c dc ſuoi ſeguaci
apparare:netanti, etā ti valentillimi Galicniſti avrebber poi il conſiglio di
Meſue qual DelSig.Lionardo di Capoa. qual legge ſeguito c, con molta fatica
ne'volumi, e nelles fucinc de'Chimici lungamente ſudatinon ſarebbono. E licomc
ad huom poco giova l'eſſere nell'antico meſtier dell'armi baſtevolmére
eſercitato, ſe poi ad abbatter Roc che, e Caſtella,e ſorprender Città:dimine,
d'archibugj, di bombe, d'artiglierie, e d'altri nuovi, emoderni ſtru menti, ed
ordigrida guerra dalui per addietro nô mai più veduti, o ſperimentati, ſervir
ſi vuole; ma conviene in pri mache da nuovo maeſtro, e intendentiſiino di
quelli pic namente apprefi gli abbia,e come,e quando, o per offefa, periſcherno
da adoperar ſiano: così nulla ancora a'medici approda il ſaper coloro
compiutamente quanto mnai nell’: antica, e volgare fcuola diGalieno apparar ſi
poſſa, ſe mai chimici medicamenti uſar ſaggiamente intendono; ma egli fa di
meſtieri, che ben anche in prima da Chimico macſtro apprcli gli abbia, e la
maniera d'adoperargli, e l'arte di bé comporgli pienamente abbia apparata;
imperciocchè fe così sfornito dell'arte, e ſconſigliato ſi vorrà ad impreſa
çotanto matta, e malagevole arriſchiare, certo mala pruo va vi farà il ſuo
orgoglio; e rimettendo il medicamento al Izventura, e alla cieca andando, a
manifeſto, e certiſlimo pericolo la ſua fama iuliemc, e'l falvamento
dell'anmala to alla fuacura commeſſo porrà. Così quella famoſa ſci mitarra
diquell'invittillimo Eroe Georgio Caſtriota, la cúi memoria ancor teme, e trema
l'infedel popolo ſaracino, diceſi, che in man di Macometto Re de’Turchi le ſue
glo rioliflime pruove laſciate aveſſe: ita plerique medicine, dice a noltro
concio Teodoro Chercringio, chymice præſertim, aut mortue,aut (quod deplorandum
magis) mortisfæpè cauf ſefunt, quando non animantur periti Doétorismanu, qui no
verit eas tempore, &loco adminiſtrare. Così anche dopo l'infelici pruove
per lui fatte nella gioſtra, Colui ch'indoffo il non fuo cuojo haveva, Come
l'afino già queldel leone, il viliſfimo Martano, lo dico,ritornato in Damaſco
fu qui vilungamente ſcherno delle femmine, e de'fanciulli. Ma tanto più da
piangercè, comechèdirifi ancor degna ia,la Vull liioc ſciòcca tracotanza
dicoſtoro ', quanto in malamente uſan do le chimiche medicine, quantunquc
ſicure, e piacevoli quelle ſieno, pur n’ammazzano crudelmente gli ammalati.
Così il dotto Galieniſta per altro, e avveduto molto To waffo Eraſto collo
ſpirito del vitriolo un cattivello infer mo empiamente a morte conduſſe per no
aver lui nel fuo maeſtro Galieno la natura, e l'uſo di cotal medicamento
apparato; che ſe egli dal Severino, dal Penoto, dal Dor neo, o da altro
profeffor della Chimica medicina;da lui cos tanto biaſimatas appreſo aveſſe, e
pienamente conoſciuto come, o quando lo ſpirito del vitriolo da dar ſia,
certame tc eglicotanto misfatto comıneſſo non avrebbe. 's E forſe, che nel
medeſimo fallo appunto dell'Eraſto no ſi è quì bruttamente cader veduto non ha
guari un credu to, e molto ſtimato Galienifta, il qual collo ſpirito fimi
gliantemente del vitriolo un miſerabile infermo, cui, per troppo ghiottamente
eſſerſi riempiuto di freddi, e aceto ſi liquori, fi era riſerrato il perto,
infelicemente ſtrago Jandolo licciſe? E piaceſſe pure al Cielo, che per l'abuſo
di sì fatto mc dicamento non fi vedeſſero tutto giorno miſerabilmente molte, e
molte perſone morire. Egli è coſa troppo mani fefta, ſe pur merita fede la
ſtoria rapportata dal Checher manni, di quell'Elettor Paladino, cui per l'uſo
dello ſpirito del vitriolo l'interiora tutto guaſtc, e roſe ritrovaronfi. Ne
giova punto a cellare il pericolo de'ſuoi peftilenzioſi effet zi l'adoperarlo
con ritegno, e riguardo, e ſcarſamente uſar lo, teinperandolo anche talvolta
con acqua, o altriſomi glianti liquori; concioſiecoſachè dato più, e più volte
co minciapianamente ad operare, ea poco a poco rodendo, infin le tuniche del
ventricolo, ſpietatamente alla per fine conſuma, c divora. Così talvolta al
continuo ftillar d'ofti nata goccia mancano finalmente i duri macigni. Et
leviter quamvis quod crebro tunditur ietu, Vincitur in longo ſpacio tandem,
atque labafcit. E pur lo ſpirico del vitriolo per altro cosìbenigno,e pia
cevole ſi ſperimenta, che ben felicemente a'fanciulli anco:. ra da Del Sig.LionardodiCapoa
525 1 ra dacolui, che cautamente ſervir ſe ne ſappia fuol darli.? E ſe'l
vitriolo baltevole a guarir la quarta parte de'rnali da quel grand'huomo in
medicina Teofraſto Paracelſo vienu giudicato,ben da colui ancora il ſuo ſpirito
vien fomma mente lodato con chiamarlo quartampharmacopolii partēs & lapidem
angularem in officinis pharmacopoeorum; avve gnachè cotefto ſpirito, che
comunalmente nelle botteghe degli ſpeziali per ciaſcun fi diſpenſa, non fia
veramente quellofpiritodi vitriolo cotanto da Chimici commêdato na altro più
groffo, e di minor virtù, e giovamento di fuello.: ! is Ma per ritornare a'
grofliffimi errori, ne'qualiper nons aper di Chimica fogliono i medici, comechè
faggj, e av veduti, talvolta ſmucciare, egliè pur manifeſto a ciaſcun quanto
fcioccamente, e fanciulleſcamente dell'antimonio il dottiſſimo infra’ſeguaci di
Galieno, Mercuriale favelli. E chi non iſcoppierebbe delle rifa in conſiderando
la mel ionaggine di quel famoſiſſimo Gåſieniſta, e cotanto nella lottrina del
fuo maeſtro eſercitato, Aleſſandro Maffaria? vvegnachè più toſto da pianger
fiat, che da ridere la com fioro ignoranza per li ſconcj avvenimenti, e
funeſti, che ne fuguono. Egliadunque intorno al medeſimo antimonio dopo averne
cosìinfelicemente favellato, venendone all' lifo del darlo, e diviſando in che
quantità da dar fia,in und fua cotal ſciocca ricetta,cosi ragiona: Recipe
antimonii pre parati 8.3. Orchi Domine giammai il fentimento compré der ne
potrebbe ſenza andar dalle gabbolc a ricercar ſe de fiori, o del gruogo, o del
vetro, o d'altre, e d'altre molte medicine, che foglion farſi dell'antiinonio,
abbia intender voluto? Ecco appreſſo il nottro Antonio Santorelli nella volgar
dottrina de Greci, e degli Arabi maeſtri famoſifli moſcrittore, diviſar
dell'acqua arzente in una delle fue opere così ſcioccamente, che nulla più.
Ecco il dottiſſimo Galieniſta Giovanni Eurnio così traſcurato in favellar del
fale del vitriolo vomitivo, cheda piacevoliſſimo chequel, loè, facendolo
fomigliante nella violenza all'ariento vivo precipitato, ed al vetro
dell'antimonio, lo riftrigne, eris fpar ' 526 Ragionamento Settimo. ſparmia a
nôn darlo all’ammalatosſe non nella quantità ſo la di due minutiſſime granella
digrano. Ecco d'altra parte il più illuſtre, e famoſo medico de'ſuoi tempi
Guglielmo Rondelezji doftar forte, e temere, non la raſchiatura del dente del
Cignale rattenga talvolta nelmal della punta lo fputo;nel qualviluppo
certamente egli involto non fareb be, ſe nella maniera del filoſofar de chimici
in medicina baftevolmente avanzato fi foffe; concioffiecoſachè cota li rimedi
per lo loro Alcali volante mai ſempre operiuo; il qualpenetrando, e
trameſtandoſi colfale aceroſo, che nel le vene, e nella punta s'accoglie,
eſciogliendo le dutez ze dell'apoſtema, agevolmëte quindi per ogni via così
aper ta, come occulta,non che per quella ſola dello ſputo,ne fa ſpiccar fuora
la inateria tutta inſaccata. E ſe cotal via di filoſofare quell'altro
famoſiſſimo Medico Prevozio te nutå aveſſe,certamente, che ne anche eglicosì
ſcioccamé te temuito ayrebbe di dar nelle febbri maligne agli ainma
latiil.corno del cervio. Ma come, o in qual guiſa a sì no bilmente
filoſofar'nelle maraviglioſe operazioni della chi mica potrebbon mai indirizzarſi
i tondi, c goccioloniGa lieniſti, ſe nelle coſe più piane, e più manifeſte di
quellow, anche v'ha infra loro chi Come notturno augel nemico alſole cieco
affatto ', e rintuzzato d’intendimento vive? Egli non può narrarſi certamente
ſenza ſmaſcellar delle riſa la peco raggive di quel famoſo conventato
Galieniſta nell’Acade mia diGroninga, il qual troppo fanciulleſcamente giudica
va lo ſcoppio, c'l tuono dell'oro fulminante per opera de ' Diavoli avvenire: e
ciò turto pauroſo attendeva, non altri menti, che il Macſtro Simon fi faceſſe,
quando ſu la beſtia imperverſata, e nabiffante inyer la Conteſſa di Civillari
ini corſo andava. Nuper aurum fulminansracconta il Chippe ro, cujus fi granum
unum, aut duo carbone defuper lentè ac cendas, bombardam minorem fonitu
aquat,ſi non antecellit; ut meritoridenda fie Freitagii focordia;&contradicendi
ftu dium; dum tale quid fieripofle naturaliter denegat, ctſi oma ninò effectus
evidentia cuvincatur, ad Dæmones hujus cauſam refert: dignum certè hac patella
operculum, & hoc philos fopho hæcphilofophia., Egli è dunque da conchiudere
eſſer la chimica ſomma mente neceſſaria alla medicina tra per li medeſimi
volgari medicamenti de'Galienifti, e più aſſai per quelli, che di el fa Chimica
ſon propi, e che per opera diquella, e de' ſuoi ftrumenti ſolamente ſi
compongono; e maggiormente in quelli l'arte ſottiliſſima della Chimica fi
conviene; che co me è già detto, così pericoloſi ſono,e da temere inmaneg
giarſiper le ſtrane, e non ordinarie maniere del loro opera re. E
concioſliecoſachè v'abbia cotali rimedj non iſcorti alla lingua, e alle nare, e
d'ogni ſenſibile qualità affatto ignudi, che per regole d'ordinaria medicina
non può la lor natura agevolmente comprenderſi: egli è di ineſtieri certa mente
per non fallar nell'avviſargli, alla chinica notomia ſopratutto
ricorrere;ſenzachè havvi alcuni particolari me dicamenti, detti ſpecifici, i
quali convien fenza fallo, ch'a chiuſi occhi, e ſcioccamente lavori, e maneggi
chiunque del meſtiere, c del modo del filoſofar de Chimici non è bé dottrinato,
e intendente affui; perciocchè sì fatte ricettev: nella pratica della medicina,
così brevis ce ſecche, ecalor confule, e incerte ne'buoni ſcrittori ſi trovano,
che per im broccarnela quantità, o'l tempo, o la maniera d'uſarle, o le
malattie, nelle quali da adoperar ſono, malagevole cer tanente ſarà ad
intendimento umano; ed è ſolo de' Chi miciragionevolmente, e ſenza fofpetro
alcuno l'adoperar lc, e ſervirſenic calora, dove lor faccia meſtieri, con effer
in prima fotcilmente filoſofando nella lor natura ben penetra ti; e per quel
che permeſſo ad huom ſia, con aver le loro qualità baſtevolmente compreſc. Cofa,
la quale quanto monti a dover ceſare i riſchjge i danni, cheda sì fatti me
dicamenti naſcer poſſono, pur troppo è a ciaſcun manife fta. Ne è già punto
maraviglia, ſe gli arditi, e poco avve duti Galieniſti ſcioccamente
inframmertédoviſi,la lor par te ancor vifanno: ſe come è detto, anche
nell'adoperare i. Jor medeſimi medicamenci van carponi, e brancolando per
l'incertezza,quaſi ciechi al bujo; e in quelli maſſimamente, a’quali dan nomedi
virtù occulta, cioè a dire di ragion no conoſciuta, e non punto da lor compreſa,
credendo così la lor groffezza, e laloro ſciocca pecoraggine coprire. Ma
d'altra parte i chimici medici filoſofanti innoltrandoſi quá to per huon ſi
puote nella contezza demedicamenti,eco noſcendo aſſai veriſimilmére la natura
dc'mali, e le cagioni, onde avvengono, ſicome con avveduto, e probabile divi
famento fortilmente ragionar ne ſanno, così con loro no bili, ed efficaci
argomenti digran vantaggio riparando ſo-, vente al genere uinano, degni
d'immortal gloria, ed'eter na fama ſirendono..., mily Magià baſtevolmente
dimoſtrato quáto a color, che me. dicare intendono faccia meſtier: la Chimica:
a divilar de' chimici medicamenti, e quanto ſovente ne lian neceſſari.
trapaſſeremo. Ma comechè lo di ciò fivellar per comuns giovamento m'ingegnj, e
ne renda maggiormente avvedu-. ti gli huomini delmondo, pur dubito, non alcuni
dannā- ) do,ebiaſimando sì fatti rimedj inalgrado per avventura me ne fappiano.
Dunque dirà taluno, queſt' altra nuova ſorte dipeſtilenza all'uman genere
mancava? e non baſta va forſe a impoverir di gente le provincie, e i Regni, il
vuo tar di quel prezioſo liquore,a cui s'attiene la noſtra vita, per, ogni
menomacagion le vene; e co'duri cauterj, e con crui deli veſcicanti, e
altriricroyati di barbare, e ſtrane nazioni martoriar miſerabilmente le genti:e
a toglier alle parti più ſodedel corpo umano il debito nutrimento, e la virtù
di ravvivarlo, e di riſtorarlo alle liquide: uſar le ſcamonces, gli elaterj, le
colloquintide, ilatirj, i pepli, gli Elleborin, iTurbitti, iMezerj, le ſquame
del raine, le pietre lazule, e tante, e tant'altre forţi di nocevolislimi
veleoi più ches, di riſtorativi argomenti dell'antica volgar medicina, ſe non
vi congiuravano ancora a noſtro comun danno i potentiffi mi precipitati, i
mercurj divita, 0 Alcarotti, come altri gli chiama, i verri, i fiori, e altri
cento violentiffimi vomi tivi tratti dell'antimonio,del vitriolo, del mercurio,
o d'al tro qualunque più peſtilenzioſo minerale? Deh piaceſſo pure al grande
Iddio, che, o non mai uel mondo foſſeliin he trodotta la medicina; o almen, che
non inai ella ſtata ſi for ſe colla ſpagirica arte accoppiata, e delle nuove, e
ſtrane fortide'medicamentidiquella dannevolmente accreſciuta: che mé malcerto
ne farebbe dalle malattie medeſime inter venuto di quel, che tutto dì oggi per
mā de’medici miſera bilmente proviamo. Or s'accreſcano pure a ſtruggimento, e
ſterminio delle noſtre vite nuovi, e muovi ſtrumenti di mora te; e
gl'ingegniumani s'aſſottiglino,e s'affannino, e ſudina a gara per imprédere
un'eſercizio così in fauſtojcosì crudele, che nemeno a'ſuoimedeſimi artefici
ſuol perdonare, che im appreſsãdoſi ſolamëte a'fornelli no debban ſovente
correr manifeſto pericolo delle perſone. Così morifli ancor gio vane il Tedeſco
Teofraſto, non già da’maligni Galieniſtip invidia atroflicato,
ficomecomunemente per tutto allor buccinavaſi,ma al parer dell'Elmonte,buo
giudice in sì fata te coſe,da’medeſimi minerali; che continuamente e' manego
giava; dal cui nocevole, e peſtilezioſo fummo l'Elmon te medeſimo confeſla ſe
eſſere ſtato più fiate in grandiſſimi riſchj della vita condotto. Così anche a
' tempi noftrive duto abbiamo quel cattivello nella ſtrada delle Campane dagli
ſpiriti del nitro, e del vitriolo, e da altri minerali do po continuo tremore,
ch'e' n'apprefe, e dopo lunghe, e gravi malattie miſerabilmente alla fine
morirſi. Orqual danno dovrà egli intervenirne a colui, che quaſi cibi inno
centivolentier gliſi tracanna, fe cotanto nocevole, e dan noſo è l'avergli
ſolamente davanti Ripone tra' ſuoi egregi vanti la Chimica di ſapere oltremodo
i medicamenti delle parti inutili, e nocevoli ſpogliare, e di rendergli benigni
aſſai, ed efficaci; ma per tacere, che alcuni di quelli (e'l confeflano comechè
mal volétieri i loro artefici medeſimi) deboli, e ſpotſati, e di niun momento
dal ſuo maneggiar diventano, parecchi, e parecchj (coſa la quale certamé te è
peggio aſſai, e dura oltremodo a ſofferire ) di mezza Haméte nocevoli, che in
prima erano, o pur tali ſi dimoſtra vano, rendegli la chimica col preparargli
non altrimenti, che imedeſimipiù fieri toſſichi, crudeliffimi, e micidiali.
Dica pur queſta nobiliflima Città: quanti, e quanti nel tempo della paſſata
peſtilenza con dolori acerbiffimi di vi. ſcere n'aveſſe fatti morire quel
velenofiffimo ariento vivo precipitato, ch'angelica polvere allora chiamavano,
pro poſto allordal Protomedico di que'tépi a comun ſalvamé. to degli ammalati,e
co pubblico editto diyolgato colle ſtá pe. E ragionevolmente per avventura
dubitonne alcuno, ſe più huomini allora per la potentisſima violenza di quet
medicamento, o per la medeſima peſtilenza mancaliero. Edo quanti, e quanti alla
giornata veggonfi privi di vi ta, o cagionevoli reſi della perſona per opera di
chimici ri medj, de’quali la maggior parte conſiſte in lavorare i mine sali;i
quali dalla noſtra natura affatto rimosſi,altro mai, che dolori, noje, malattie,
e morti recarnon poſſono. Odafi per Dio ciò, che di coteſti Chimici, e della
loro ſcuola di dica ildoctisſimo Erafto, l'eloquentisſimo Cortino, il ſot
tilisſimo Riolano il padre, e la ſcuola famoſisſima tutta di Parigi. Odaſi come
con ſaldisſimeragioni nuovamente gli rintuzzi, e mandi giù l'acutisſimo
peripatetico filoſofo, e Galieniſta Ermanno Corringio; e ſopratutto ſi riguardi
a ciò, che dalle genti pe’mal capitati infermicontro a'chi ci medicamenti
tutt'or querelando ſi dica, e le beſtemmie atroci, che per tutto contro lor ſi
ſcagliano. Deh sbandi ſcafi per Dio da queſta Città, sì nocevole, c dannoſo me
ftiere, e con rigoroſisſimi divieti ſi mandin fuora delle bota teghe degli
ſpeziali, e da tutt'altri luoghi le chimiche me dicine. Ne già mé ſaggj nel
vero, e avveduti eſfer dobbiam noi de'medici Melaneli, che il dannevole uſo
dell'Alcarot to vietarono; e ſe ſono, e con ogniragione, da' noſtri fta tuti
proibiti gli uſi degli archibugetti e degli ſtili, e d'altre ſomiglianti
arme,come nocevoli algenere umano, quan. tunque tal volta a ſchermo dell'onore,
e della perſona pur buone fiano; perchè non ſaran da yietar poi medicine sì fie
re, emaligne,che ſe mai pure di recar qualche giovamento fan ſembiante, allor
più crudelmente inſidiar la vita fi fpe rimentano. Sono o Signori, sì fatte
querele, e rimproccj in grā par te per opera dc'malvagj Galieniſti contro la
Chimica, ei ſuoi DelSig.Lionardo di Capoa. 530 ſuoi medicamenti fovente
adoperari; i quali gittando la polvere innanzi agli occhi della balſa,minuta,e
troppo cre dula gēte, fan loro a vedere che ichimici medicamenti più ch’altri
ammazzar fogliano, e che tutto il malc, che nel cu rare altrui intervenir ſuole,
da color ſolamente avvegnavi perchè la ſciocca torma del popolo da for moſſa
lamente volmente gli biaſima; e con torti, evani giudizj ſovra i chimici, i
misfatti de'Galieniſti medeſimi, o le violenze del male empiamente riverla; E
parla più di quel, che meno intende. Ed è egli certamente cotal diſavventura a
tutt'altri me. dici ancor comune d'eſſer sépremai accagionati della mor te
degl'infermi: non moritur æger fine infamia medici: diſse Plinio e pural tépo
dilui, o no v'era, o no avea púto che fır nelle noſtre contrade, o in quelle de
Greci,colla medicina la Chimica. Così non giugnendo i medicamenti a rintúż zar
la violenza del inale, ed eſſendone diterminata alla per fine la meta della
noſtra vita', è certamente da dire có quel valent'huomo, che nella medicina
tutt'altro avvenir ſoglia, che in ciaſcun'altro meſtier ſi coſtumi; perocchè
dove i mã. camenti degli Artefici a'difetti dell'arte comunalméte s'im putano,
ſolamente in medicina il mancamento dell'arte aʼmedici cattivelli ſovente fi
riverſa; e fon talvolta inde gnamente accagionatidi ciò, che per argomento
umano imposſibile ad operare. Perchè certamente intorno a ' misfatti de’medici
da prudente huomo, e aſſennato non è da preſtare agevolmente fede a’rapportati
masſimamente da altri medici per malavoglienza, o per nimiſtà, ficome di ſopra
baſtantemente diviſato abbiamo con l'eſemplo d ' Aſclepiade; eſſendo pur troppo
vero quel detto di Curzio: iai diverſis rebus id folet fieri,ut alius in alium
culpam refe rat. Ne già è mio intendimento, che di cocal quereia al cun
de'noltri medici al preſente fi punga, come a ſe pro piamente inveſtita;
perciocchè lo quì in general ragionare intendo del cattivo coſtume d'alcuni
medici; cben ſo, che così quì, comealtrove v'ha de'medici dabbene, c onorati
affai, e di qualunque gran loda dignisſimi: avregnachè talvolta pur alcun di
loro daʼfalſi rapporti ingannato, NÓIL. già per altio, e permalayoglienza,
maper troppa ſua dab benaggine vi falli. Pur male a noſtr’huopo comincia tal
volta leggeriſſimavoce, non ſo donde, o falſa, o vera, ch' ella fiali, che
roſto per tutto ſi buccina, c s'accreſce:intan to, che agevoliſſimamente dalla
bafla plebe, e dalle troppo credulaperſone vi ſi preſta fede; i quali non che
vogliano ſottilmente caminar comela biſogna paſſata ſia, anzi tal volta ſenza
ſaper come, o quando, c da chi cominciata ſia, volentier la s'inghiottono:
& fepè etiam quod falſo creditu eft, veri vicem obtinuit. Perchè
poiveggiamo della mor te di taluno accagionarſene medico, che non che viſitato
giammai l'aveſſe; anzi ne men chi colui foffe, o dove ſi foſſe dimorato per
avventura fapeva; pure comechè a sì fatta diſavvetura ciaſcunmedico
ſoggiaccia,nó però di meno ſo pra tutt'altripar ch'a’miſerichimici
maggiorméteella con traſti, quantunque certamente maggiori, e più gravi dan ni
da'volgari medicamenti alla giornata avvenir veggiamo, che da’Chimici; e pure
quelli ſovente alla gravezza incon traftabile del male, non alla dappocaggine
del medico ac tribuir ſi fogliono: dove di queſtinel contrario, laſciata dw
parte qualunque altra cagione, folamente i chimici medi camenti s'infamano;
maſtimamente per coloro, i quali nul la fappiendone, come di nuove, e non
conoſciute coſe ſo ſpettando, ſempre ne temono; follemento mai ſempre,e in
tutte le faccéde vera ſtimado quella séréza di Cornelio Ta cito:fuper omnibus
negotiis melius,atq;rectius olim provisü:et quæ cuvertuntur in deterius mutari.
Ed è pur da aggiugnere a ciò quell'altra cagione che per opera de’malvagi, e
invi dioſi Galieniſti s'accrefcon mai ſempre i timori della ſcioc ca plebe,
intanto che ne men poſſono ficuramente i chimi ci medicide' più volgari, e
comunali medicamenti talor fer virſi; che pur diquelli il vulgo ignorante teme;
dove d'al tra parte fe dalla greggia de creduti Galieniſtichimiche medicine,
comechè violenti, e pericoloſe loro fien porte ', tantoſto alla cieca, e ſenza
tema alcuna le fi tracannano, volendo pertinacemente anzi che
a'chimici,ne'loromedeſig 1 mi medicaméti, ſtarſene agli ſtrani, e talora
ſciocchi Galie niſti, cui ne men per nomequelli conoſciutiſono: non che ne
ſapeſſer mai le qualità, e glieffetti, che ne'corpi umani quelli adoperar
ſogliono. Non niego però, che tal malavventura ne' Chimici di non eſſer
agevolmente creduti, eglino medeſimi talvolta la ſi procaccino, quando o per
ſoverchio dicompasſione, che han de’miſeri ammalati, o per vaghezza di dover
gưa rire gli abbandonati da'Galieniſti, ambizioſi s'inframmer tono di medicare
i diſperati, e voglion quaſi dall'orlo del feretro trarre i morci.È la ſciocca
géte n’aſpetta pur le ſtra vaganze, quaſi foſſe propio de Chimicil'adoperare i
mira coli; quando forfe i Galieniſti non han faputo per poco co figlio la
creſcente malattia attutare, con dar loro al tempo iconvenevoli medicamenti;
perciocchè Principiisobſta: ferò medicina paratur, Quum malaper longas
invaluere moras. Anzi con avere i Galieniſti medicati talvolta a roveſcio, e
alla cieca gli ammalati, malignamente poi, ea gran tor to ne vien ripreſo,e
cacciato il Chimico,e i fuoi rimedi bia fimati. E a tal fegno pure giugner
veggiamo la iniquitoſa malizia d'alcun medico, che di quel medeſimo infermo, cl
egli ſpacciato in prima, e già laſciato aveva, attribuiſce poi difpertoſamente
altruila morte, e i chimici medicamé te di colui empiamente n'accagiona. Così
non vergognof fi il Foreſto a ſcriver purc, che colgruogo di Marte un co
tal’Empirico ammazzato aveſſe un'ammalato tutto mar cio, e corrorto, e com'egli
medefimo narra, già moribon do, e fpirante. E piaceſſe pure a Iddio,che non
foſſe giūrå a tāto l'affocata malavogliéza di sì fatti ſquafimodei, che già
reputādofia vergogna il falvaméto,che allo infermo da loro ſpacciato avvenir
puore per cófiglio de'chimici, e già temédone gli avāzi,nó prédeſſero alcuna
briga di far pruo va delle loro bugie, con dar qualche ftorpio a’riſtoramenti
dello infermoze ſe pure in lor diſpetto neguariſce l'āmala to,nó folaméte
delmedico, che'l fanò, madi lui medeſimo capitali nimici rimangono; ficome di
quel Cote diffe quel motteggevol Satirico Italiano: Ha buon ز occhio, buon vifo;
buon parlare, Bella lingua, buon / puto, e buon toffire; Queſti fon ſegni, che
non vuol morire; Maimedici lo voglion 'ammazzare: Perchè non ci ſarebbe il loro
onore, S'egli ufciffe lor vivodalle mani, Avendo detto, egli è Spacciato, e
more. Ma come teftè ragionavamo con la lor ſoverchia pictà in voler curare
infermidiniuna ſperanza, danno agio i Chi mici a i ſoffiamenti degli invidiofi
Galieniſti, e cadono tal volta dal buo nomedivaléti medici. Ne certaméte p
altro Ippocrate vieta aʼmedicanti il dover por mano agli infermi difperati; e
quell'altro famoſo ſcrittore Arabo ne conſiglia a non doverci arriſchiare a
prender cura di malagevoli, sfidate malattie, ſe non vogliamo pure guadagnar
titolo di cattivi medici; e anche avviſa Cello, prudentis hominis eft, eum, qui
fervari nonpoteſt, non attingere: nec fubire.fufpia cionem ejus, ut occifi,
quem forsipfius peremit. E a ciò an che riguardado Galieno parimente ne
conſiglia a dover la fciare alſolo predicimento cotali infermi, ſenza dar loro
niuna ſorte dimedicaméto, per no logorare indarno.i rime. dj,e fargli infam uea
torto preſſo il vulgo, õde poi ſi laſcian via, quando forſe ad altri ammalati
di minor riſchio giove voli ſono. E nella medeſiına guiſa Aleſſandro de Benedet
ti: prudentis medici, dice, ef,inſanabiles, &defperatos mor bos nun curare;ne
hominem occidiſſe, quifua forte interitu rus erat, exiſtimetur. E che direm noi
di que'chimici medicamenti, che talor de perſone ſi lavorano, e ſi diſpenſano,
che dichimica, ne dimedicina ne ſan boccata? Enel vero eglitāto omai è cre
ſciuto l'abuſo delfabbricare malamente, anzi abborrare i rimedjchimici,
cheda'Ciurmadori, e da Cerretani, edas viliflime femminelle uſar pubblicamente
ſi veggono, e ven dong a macco in ſu le panche, e per le fiere abbondanteme te
li ſpacciano, e ben ſovente fi comprano anche dagli ſpe ziali, e da’medici per
diſpenſargli poi a 'loro ammalati;šć zachè da Galieniſti medeſimi calor
s'imprendono, e teme ruri. rariaméte dagli ſciocchiffimi uccelloni yeggőli
ordinare, e lavorare alla cieca. Navem agere ignarusnavis timer: abrotanum ager
Non audet,nifi quididicit dare.Quodmedicorum eft Promittuntmedici;tractant
fabrilia fabri. E s'attendono purecoteſti medici di tromba marina de' noſtri
tempi a maneggiar biſogne di cotanta conſiderazio ne, e di cotanto riſchio:
certamente ſe ad infelice fine poi rieſcono, e veggonfiatcriſtar le caſe, e le
famiglie, non gli innocenti rimedi biaſimar ſe ne vogliono, ma color ſola
doperano; non altrimenti, che ſe ſpada, o archibuſo daw furioſa mano moſſo fia,
non n'è lo ſtrumento da accagionas. re, ma la follia ſolamente dello ſcherano.
Ne ſan coſtoro quanto ſenno abbiſogni in medicare, e ſpezialmente con argomenti
chimici, a cuicertamente di maggiore avvedi mento e di più ſaldo giudicio fa
luogo; che le malamente s'adoperano, maſſimamente le purganti medicine, ove il
medico non abbia in dandole riguardo al tempo, lità del male, all'età dello
infermo, o alla natura di lui, o alla ſtagione dell'anno, certamente colui mal
ne capiterà: Temporibus medicina valet: data tempore profunt, Et data non apto
tempore vina nocent; Quin etiam accendas vitia, irriseſque vetando,
Temporibusfinon aggrediareſuis. E o quanti per Dio ſe neſon veduti e fe ne
veggono tut tavia correr pericolo, e morirne talvolta anche col medica mento in
corpo per traſeutaggine, e colpa de’ſoli medici ignorāti,e ſciocchi? Quante
volte per beſſaggine degli ſcé pj Galieniſti ſono ſtate biaſimate le manne, le
roſe, le caſ. fie, e anche l'aloé, di cui non ſi trova al comun parere mę.
dicamento più innocente, e benigno? E ſe alcun prende rebbe cura di guarire
ammalato, ſe egli nel cominciar d'in terna infiammagione, o nell'acerefciinento,
e nel vigor di quella deſſegli ſcioccamente a tracanar chimica purgagio ne,
qual colpa poi ſarebbe egli dell'arte, ſe coluimalamé te adoperandola
l'ammalato n'uccideffc? Certamente niu. najper. alla qua: 51 na;perciocchè come
Ippocrate medeſimo, e Galieno di viſano, anche le lor purgative medicine allora
ſon peſtilen zioſe, e da non uſarſi; perchè a' mali precipitoſi,e ftraboc
chevolmente imperverſiti non ha certamente la medicina più ſicuro conſiglio,
che il guadagnar tempo con iſchermi readagio, e tenere a bada la foga del male,
ſenza voler glili alla rincontra oſtinatamente opporre có purgative me dicine,
masſimamente gagliarde; che alla zuffa,che in un medeſimo tempo due si
oſtinati,esì poffenti nimici dentro dall'ammalato farebbono, certamente egli
n'andrebbe cof peggio:neq;ulla alia fpes,diffe avveducillimaméte Cello, ir
malis magnis eft,quã utimpetum morbi trahendo aliquis effum giat, porrigaturque
in id tempus, quod curationi locum pre Stet:così parlavano que'buoniantichi,
che ne'ſalafli, e nel le purgative medicineſolaméte credeano eſſer ripoſte le
cu re de'più gravi malori; ma i moderni da'chimici addottri nati bé fanno co'rimedj
valevoli, e generoſi,ına che non of fendono punto lo infermo, eche in ogni
tempo ſicuriffima mente ſi poſſono adoperare darvi compenſo, ſenza ſtarſe
neſcioperati, e neghittofi ad afpettare il ſoccorſo, che non è dalla natura
forſe per venir giammai. Ma ciò da parte laſciando noi pur troppo veduto
abbiamo nelle febbriche delpaſſato anno han malmenato, e quaſi abbattuto il Bor
go Sant'Antonio,e altri luoghi vicini, effer così malaméte riuſcite le
purgagioni, e altri ſomigliāti rimedi;perchè a grā ventura recaronſi poique'
poveri infermi, che non ebber agio di comperarſi la morte a contanti
ne'medicamenti,che uſavanſi; e ſtando alla bada ſolamente della natura,così sé.
za rimedj la lor vita ſerbaronſi. E per cacer d'altri, il me deſimo anche
eſſeravvenuto novellamente in Francia, rac conta l'Autor della giunta
all'oſſervazioni di Lazaro Ri yerj. - Éfe egli è dannevole oltremodo, e di
riſchio lo - Atuzzi cargli umori crudi, e non debitamente maturati, certamé te
il medico ne farebbe da biaſimare, non l'arte, ſe contro i giuftiffimi divieti
d'Ippocrate, e di Galieno s'inframmet. teſſe di purgare ammalato, in cui fian
crudi gli umori ſex 2:2 en za enfiamento alcuno: in morbis quoquenihil eft
magis peri culofum, quam immatura medicina,comechè non medican-. te, avviso
Seneca; perchè ſeguendo i ſentimenti de' ſuoi maeſtri avvedutiſſimaméte in
queſto capo Aleſſandro Maf ſaria, danna, e sbandiſcenelle febbril'uſo
dell'Antimonio, come nocevole oltremodo agli ammalati: e allora, egli di ce
maggiormente farſi a conoſcere il danno, che dalle purgagioni, oltre al
convencvol tempodate ne fiegue,qua do più gravoſo, e di maggior riſchio fiè il
male; concior fiecofachè nelle lievi malattie, che molto non piggiorano dal ſuo
naturale ſtato l'inferino, poco nocimento ricever, certo egli ne foglia;
perciocchè o ſe n'allunga il male,ficc me Ippocrate,e Galieno diviſano, o pursì
poco cagionevol della perſona coluinerimane, che nulla il medico quan tunque
accorto, ed eſercitato Gali, comprender mai ne puote. A torto anche vien
biaſimata la Chimica d'adoperar fo laniente i minerali; e ben detto è a
baſtanza contro la ſci munitaggine di alcuni,quanto ricca, e abbondevole di ine
dicamenti ella ſia; c nel vero, ne l’Ericina ebbe mai,o l'Ar denna, o s'altra
al mondo è più vaſta, e più folta ſelva,tã ti alberi, tante belve, quanto
ricca, e abbondante è la chi. mica di cofe a’luoi medicaméti accóce;e prédöli a
loro uſo, non ſolamente i minerali dalla terra,madagli animali anco ra, e dalle
piante abbondantemente i rimedi ſi formano; perchè troppo ſcarſa, e mendica pur
ſarebbe da dire la rapportata ſomiglianza; perciocchè quanto cuopre il Cies: lo,
abbraccia l'aerc, nutrica la terra, e'lmarchiude, tutto alla Chimica
giuridizion ſoggiace: e'l meno di che ella s'inframmette ſono i minerali;
concioſliecofachè non abbia ſolamente in fua balia i falnitriji ſalicomunisi
vitrioli, i fer ri, i rami, e gli argenti, c gli ori, e le gemme, comcchè di
queſt'ultime coſe ſolamente i perfettiſſini Chimici, o icat tivi, non già i
inczzani ſervir li fogliano;ma e radici anco ra, c tronchi, e frondi, e ſughi
di cento, e mille infra lo ro diverſiffime piante, e anche tutte parti ſalde, e
diſcor renti di tanti, e sì varj animali,di cui la Chimica i ſuoi me Yyy dica
538 RagionamentoSettimo dicamenti in sìvarie, e tante guife ordina, e lavora.:
Ne perchè la chimica medicina ne' minerali talora s'a doperi,e s'affarichi, è
per huom da tacciarne: anzi fom mamente da efferne commendata lo la giudico;
concioffie coſachè non ſono i minerali altrimenti, comealcun di loro follemente
ſognoſli, veleni, e toſſichi:anzi non poco in vero molti e molti diesſi
all'umangenere giovano,e approdano; e ciò a tutti buoni ſcrittori aſſai
manifeſto egli fi è, anche antichi, che liberamente, e fenza niun
ſoſpettomettevan gli in opera, e così fchietti, comecon altre coſe meſcolati
l'uſavano; il che ſenza troppa fatica durare agevolmente moſtrar potrei:
maſſimamente, cheper tutti manifeftamé te ſi ſa quanto Ippocrate della ſquama
del rame fovente fi ſerviſle; e Dioſcoride no conſiglia, e conforta a dar per
bocca liberamente il vitriolo: e ne'tempi antichi anche s'a doperava il
mercurio: e ancora a' dì noftri nella colica, e ne'vermi, e in altri
ſimiglianti mali ordinaſi da tutti medi ci, anche a'fanciulli del lactime,
ſenza ſofpetto dinocimé to alcuno;e ſe fra’minerali v'han di que', che velenofi
fo no, ve n'haparimente di queſti, ed in maggior copia fra' vegetabili. Maſe
egli avvien mai pure, che alquanti deʼnedicame ei de'Chimici,compoſti divengano
fpoffati, e debili, egli ciò non dee a colpa della chimica aſcriverſi:ma
de’poco av veduti artefici, e de’medici, i quali intendenti non ſono delle
chimiche preparazioni, e ravviſar non ſanno quai mea dicamenti ſenza alcun
preparamento fiano da porre in ope ra, e quali gli richicggano. E ſe
divantaggio i Chimici da'vclenofi, emicidiali ſemplici ſoglion trarre
ſalucevoliſ fimi antidoti, ciò loro a fomma gloria dee riputarſi, che ciaſcun
di loro fuor d'ogn’uſo Pieghi natura ad opre altere, e frane. E ſe'l
precipitato, e'l ſolimato, che potentiſſimi veleni ſono, cavanfi dalmercurio, e
da altri minerali, non ne ſon però quelli da biaſimare, ne i chimici medeſimi,
che gli compongono; concioffiecofachè anche l'oppio, e altres molte comunali
medicine, avvegnachè rieſcan poi vele nofc Del Sig.Lionardo di Capoa 539
noſeall'opera, pur da ſemplici non mica velenoſi compon ganſi, ne perciò tanto
quanto ilor fabbricatori ſe n'acca gionino: e ne balti ſolo al preſente fapere,
che ciò non, lia ſpezial biaſimo della Chimica; e ſe da quella i pre cipitati,
ci ſolimati fabbricaronſi al mondo, no fu già,per chè s'aveſſer quelli ad
operar mai ad uſo alcuno dimedici na, ma per altre, e altre biſogne; ne perſona
ſe non priva affatto d'intendimento per dover medicar giammai gli la vorò;perchè
ſe quel temerario Bacalare aveſſe púto in chi mica ſtudiato, non avrebbe egli
giammai ardito ad impor re agli infermi per coſa delmondo il precipitato, il
qual da tucci buoni ſcrittori vien daʼmedicaméti sbadito, come ma nifeftiſfimo
veleno;e ſpezialmére dal Quercctauo,có queſte parole:precipitatú in aqua furti
à nobis omninò improbatar: 0 có quell'altre,ch'e' ſoggiugne:hæc, & fimilia effe
Empiricorii fecreta, quæbuccinatorum inftar pro maximismyfteriis pro mulgant.
Ne perchè i minerali lian da noſtra natura citra: nci, e rimoſi, dovrà ciò
darne punto di briga; e ſe pur co tal ragione aveſſe luogo, dovrebbervi eſſer a
parte anche i Galiçniſti in rintuzzarla, i quali non men deChimicime defimila
pietra lazula,e l'oro, el’ematite, ci giacimi, e'l bolarmcnico, e le pietre
giudaichc, c altre, e altre ſomiglia. ti medicine lovente adoperano. Ma lo per
non darmene troppa briga ſervisõini al preſente di quelle parole del Tā.chio là
dove d'un cotal balordo, che con ſimiglianti fanfa luche ftuzzicavalo così cgli
al ſuo Oiſtio ſcrive: oppugnant, dice egli,medicamenta ex metallis parata, ideo
quia non iis alamurfed; nec cornu cervi nos alit,neque uniones, aliaque
pleraque. Quænos alunt impura ſuntimnia, do quefacilē mutationem ſuſcipiunt,fed
quotidie agunt in balſamum na turæ, cum corrumpendo in fenium; labefactatis
viribus noftri corporis facile illareficiuntur vegetabilibus; fed fixio illa in
fixa; mineralia figuntſpiritus, purificant, & exaltant. E prima di lui
Avdrea de'Mattioli, così del biſogno de’mi nerali ne ſcriſſe: ibi tum alibi, tã
in chronicis morbis eſt ani: madvertendum, ubi tota malafanguinea in univerſo
vena rum ambitu corrupta eft, & referta multorum morborum fe Yуу 2 minariis,
tunc ii inquam morbi citra metallica devinci vix pollunt; avvegnachè egli poi
faggiamente ne configli a non dovere i Chimici medicamenti adoperare colui che
di chi mica pienamente non ſi conoſca; il che noi baſtantemente altrove dicemmo.
At qui, dice egli, ejufmodi morbos ci tra ſcientiam res metallicas tractandi
aggrediuntur, ii ple rumque re infecta cummagno dedecore, & fui, &artis
me dicine defiftunt. Ma ſopratutto baſti recar qui le parole di
GiacomoPrimeroſio Galieniſta di primo grido: Cauffa eft, egli dice,cur plurimi
Chymica hec reformidēt;quia creduntur ſcilicet sti metallicis. Et fanè certum
eft plurimos Nebulones, qui hoc pallio technas ſuastegunt, metallicis fæpè,
&malè præparatis, & malèadhibitis uti; verum ut jamfupra dixi mus,
eadem eft materia, & fubjeétum uperationis Pharma copæi utriuſque tàm
Chimici, quàm vulgaris; neque minus vegetabilibus utitur Chymicus, quàm qui
dicitur Galenicusze non guari appreffo foggiugne. Nonne maximè probanda eft ars
illa, qua fi quandoiis utitur, variè, &eleganter pre parata,non integra
exhibet? Ne meno è da dire, che perchè i foro fummi ſian peſtile zioſi, e
nocevoli liano anch'eglino tali i minerali; percioc chè apertiffimamente
veggiamo ſenza punto di danno il falnitro, e'l vitriolo, elfal comune alla
giornata ufarli, e'l fal comune maſſimamente in tutte vivande da ciaſcun porſi;
i cui fumıni certamente, come que d'altri,e d'altri minerali, nocevolilfinni
fono. Pure non è coſa cotanto utile, e gio vevole al genere umano, che
nonnepoiſa talvolta anches nuoceren Nilprodeft, quod non læderepoffit idem.
Igne quid utilius? fi quis tamen urere tecta Cæperit, audaces inftruit igne
manus. Eripit interdum, modo dat medicina falutem. Le ragioni poi, e le
teſtimonianze dell'Eraſto, del Riola no, e d'altri sì fatti Galieniſti han
canto dello ſceno,che da lor medeſime a baſtanza ſi rifiutano; e comechè per
mani feſta, coftinata malavoglienza fianfi queſti ftudiati dimor der la Chimica,
e ſozzainente lacerarla, e quaſi metterla 1 in fon Del Sig.Lionardodi Capoa 541
1 in fondo; pure non han potuto far sì, che ſtretti talvolta dalla propia
coſciēza, o dalle nimiche ragioni abbattutis no l'abbianomanifeſtamente
approvata. Così l’Eraſto medelia mo, che moſtroffi più ch'altro Galieniſta
acerbo, e fiero ni mico della chimica, purnel proemio di quell'operc,ch'eico
tro il Paracelſo fcriffe,nó potè no commendarla;e la ſcuola tutta di Parigi pur
la permette,e l'adopera,ficome raccota il Riolano; il qual comechè nimico a ſpada
tratta le fi dimo ſtraſſe, pur delle chimiche medicine,comeãcorfece l'Eraſto,
ſerviſſzavvegnachè talora p loro ſcimunitaggine ad infeli cc fine gli uſciſſero.
Ma côtro a’piacitori, e a'maladicéti Ga lieniſti adoperarono gloriofaméte le
péne a ſchermo della chimica nelle loro dottisſime Apologie il regio Protomedi
co Torqueto, e l'Arueto, e'l Baucinero celebri e famoſiſſimi maeſtri in
medicina: e oltre ad infiniti altri il famoſo, e ben parlante Libavio nella ſua
Alchiinia trionfante,di cuicon ) aringa di lode diſſe il Caſtelli: Alchimie
dignitatem adeo re Kituit Libavius contra fcholă Parifiensë,ut nihil amplius
addi polje videatur; ma ſopra tutti imalzi, e difende la chimica il
ſottiliſſimo Borricchio, non men celebre, che dotto let tor di quella, nella
famoſa reale Accademia d’Afnia; il qual sì fattamente rimbeccale ciance del
Corringio, che nulla più. Ma quanto poco ſenno aveſſer facto i medici meſaneſi
in proibendo l'uſo dell'Alcarotto, apertamente ſi vede dalla poca ſtima in cui
vennetenuto il loro divieto; poichè non men,che prima in Melano, e altrove le
genti tutte l'adope rarono; e oltre alla gloria molte ricchezze guadagnoſſi
Vittorio Algoreto per sì fatto medicamento, il quale altro * non è, che il
mercurio di vita;comechè p naſcõder sì caro fegreto il nieghino gli eredi del
medeſimo Algoreti; e forte mi maraviglio, che alQuercetano, sì bene ſcorto
nelle chimiche operazioni, e che tutto dì l'avea fra le mani, non veniſſe fatto
ciò ravviſare. Ed è egli pregiato l’Alca. rotto, eziandio daʼmedici volgari, e
Galieniſti, e per buo na, e giovevol medicina per tutto ſtimato; ma pur ſi vuos
le in ufarlo aver riguardo a' tempi,alla quantità,e agli ama · malati; ne fi
dee prendere ſenza conſiglio di medici faggi in chimica, e conoſciuti affai;
perciocchè ſe da perſone dappocomallavorato folle, o foſſe pur ſenza riguardo
at cuno preſo, certamente nuocer potrebbe, e a riſchio della perſona talvolta
ancorcondurre; ſicome non ha guari, ava venne a un Barone d'alto affare, il
qual per conſiglio d'un corale ſciocco,e temerario Galienifta avendone
trangugis to ſoverchiamente, con acerbiffimi dolori, feno'l receva di preſente,
certamente nemoriva. Ma di ciò ſenza dubbio, non n'è dabiaſimare il
medicamento, ma la follia più coſto del medico, cheoltre al dover l'iinpone; e
più quella dell' ammalato, che alla cieca, e ſenza riguardo alcuno ſe'l tra
caima. E ben ſarebbe il migliore, ſe laſciando da parte i volgariGalicniſti sì
fatti medicamenti,non s'inframmettel ſero púto di ciò, che non ſanno; e come
cantò colui Velperfectèartem diſcant, vel non medeantur; Namfialiæ peccant
artes,tolerabile ceriè eft: Hæc vero nifi fit perfecta, eft plenapericli, Et
fævit,tanquam occulta, aique domeſtica peſtis. Ma noi luiluppati dasì fatte
conteſe, trapaſſereino intanto a far qualche parola dell'antimonio, come di
quello, ch'al noftro parlamento diede in prima cagione, L'ancimonio, che da
alcunicertamente non fuor d'ogni ragione chiamato viene colonna, e baſe della
medicina,egli sébra nel vero una corale ſtrana; e nuova ſorte di minerale di
variege fra loro diverſe parti copoſta, e si lazza,e acerba, che ragionevolmére
alle poma anzi che mature fiano è raf ſomigliata;imperciocchè tra per la troppo
meſcolanza, che in ſe ritiene, e per l'inegual proporzione delle parti,che'l co
pongono, non eſſendo potuto alla debita maturità, e per fezion di inccallo
pervenire, così trameltato, e inal com poſto ſe ne giace. La ſua ſtrana natura
', c le ſuc maravi gliole qualità malagevolmenteravviſar ſi poſſono, non che
per huom narrare; concioliecofachè quaſi Proteo de'minc rali in facendoſi dilui
notomia, in tante, e sì fatte guiſc fi ſcambi, e traſmutische inviluppativi i
più famoſi maeſtri della 1 Del Sig.Lionardodi Capos. 543, ikclla chimica, dopo
molci, e diverfi argomenti, e ſperien ze, ſtupidi alla per fine, e d'ogni loro
avviſo ricreduti ſi ri mangono. Ma perquanto col noſtro intendimento com
prender ne poſſiano, due forri di zolfo par che abbia nellº Antimonio: l’una
fiffa, e pura oltremodo, in cui le ţinture tutte,e i ſemi de'metalli e
ſpezialmente dell'oro ſi rinvégo ao: pchè daalcuni degli ſpagirici
filaſofati,matrice de'me talli vié chiamato l'Antimonio; l'altra fiè di zolfo
dalla sé biáza del comun zolfo poco o nulla diverſa; perciocchè no filla,
mainquieta y e volante, e oltremodo vaga ella è;per chè
potentiſſimage:ſoperchievole nelleſue operazioni viene da ciaſcun giudicara.
Havvioltre a ciò un cal mercurio me, tallico indigcfto, il qual corto più, che
ſe mercurio vivo non foſſe, della natura del piombo alquanto ritiene;e as
queſta parte, che certamente è la maggiore nell'ancimonio, alori la violenza
attribuiſcono, e'l poter, ch'egli ha nell'o perare; anche havvi alcune parti
arſenicali, in cui ſecondo. chè altri ne dicano, il ſuo veleno veramente ſi
ſerba; c per fine havvi nell'Antimonio una cotal ſoſtanza groffase terre ftra,
la qual della ſua matrice ſommamente participando, con quella inſieme,e con ſue
particelle congiugoc,emelco la le parti arſenicali, e quelle del primo zolfo, c
delmercu rio indigeſto, e del ſale ancora di natura vitriolato, che pur ven’ha:
a cuila malvagità tutta, e'l veleno altri aſſegnò, che tanto all'uſo, e
all'operazione ſconcio lo rende. Ma l'Antimonio crudo non inuove punto vomito,
ne tanco, o quanto a colui, che'l prenda offender ſuole; perchè ne Galieno
medeſimo, ne Dioſcoride, ne altri buoni Autori de'ſecoli addietro l'allogară
mai infra’veleni, o nel catalogo delle vomitive medicine l'ānoverarono anzi
Diofcoride medeſimo ne conſiglia, e conforta a toglier via la poſſanza vomitiva
dell'Elacerio, con meſcolarvi deutro dell’Antimonio,e così temperandolo
ammendarlo; percioc chè ſenza dubbio ha l'Elarerio più del veleno, che del me
dicamento, ſe violento, e rigoglioſo il ſenciamo, che se vorrai purgare, ſono
le parole di Dioſcoride, ove egli nar ra dell'Elaterio, meſcolavi altrettanto
di ſale ed'Antimonio, 444 - 544 Ragionamento Settimo 1 quanto farà meſtieri,laſciandoall'altrui
diſcrezione il divri Jarne la doſe: seisn &è mois diam vooõoty aj di autoữ
xabagors. ei pea ούν θέλεις κα το κοιλίαν καθαίρειν, διπλάσιον αλών, μίξας, και
είμ plaws over gewoon e Il che eglicertamentefatto non avrebbe, s'aveſſe mai,
comechè leggiermente, ſoſpettato, non forte velenoſo, enocevole l'antimonio.
Nicolò Mirelio poi, it qual con accuratezza non ordinaria accolſe inſieme le ri
cette più nobili de’medicamenti, ch'adoperaſſer mai ne’té pi antichi ipiù
famoſi medici Greci, annovera l'antimonio infra iſemplici dell’Antidoto,ch'egli
del Gengiovo chiana. E Baſilio Valentini narra, ch'a' ſuoi tempi dell’antimonio
ingraſſavanſi i porci: e nell’Efemeridi, o giornalieri dell'In ghilterra
abbiamo, che tutto dì oggi i porci, le vacche, ci cavalli ſe n'ingraſſano,al
peſo d'unadráma,e anche di mez za oncia per volta prendendone; e in molte
contrade del noſtro Regno coſtumaſ a prender l’Antimonio dalle donne gravide in
quantità d'unanocciuola, ſenza danno, o noci mento niuno, e'l chiamano
volgarmente allegra cuo ré; e nella inedeſima noſtra Città in molte malattie
uſali a ber l'acqua dell'antimonio con grandiſſimno gio vamento degli ammalati;
e nella Francia, e anche altrove, l'Antimonio crudo, ſicome per M. de la Febure
di ciò pie namente inteſo ſi racconta, fe donne tout les jours tout crud par la
bouche fansaucun accident, emeſmes aux enfans à la mammelle: e que de plus on
le met boüillir juſques au poids d'une demie livre dans les decoctions contre
la verolle, &qu'on le met de meſmes en infufion à froid dans de l'eau pour
ouvrir le ventre gepour ofter les obſtructions des viſce 1 5 Ma ſciolte da
quegli intoppi, c da'legami, chea freno, e a bada la lor violenza tenevano le
nocevoli particelle dell'antimonio, o ſaligne, o ſulfuree, o mercuriali, o arſe
nicali, ch'elle ſieno (perciocchè grandisſime quiſtioni, ei contefe intorno a
ciò infra'Chimici filoſofanti tutt'or vifo no ) non ſi può di leggier credere
quantenoje, e ſconcisſi mi danni quelle recar ſogliano,con fondere, e
diſtruggere, e liquefar non ſolamente le parti umide, ma le falde ancora del
corpo umano'; riſvegliando anche vomitiimpetuofif fimi, e purgando per baffo,finattanto,che
colvigor talvol ta lo ſpirito, e la vita miſeramente ne manchi. Ma tacer non fi
dee, che ritrovali talora in qualche miniera, Anti monio, cheſenza niuna
preparazione voiniti, e fluffi ſoglia cagionare; ſenzáchè'talora nello ſtomaco
di colui, che'l prende, può eſſer coſa, che ſciolga da’legami lalparte ve
Jenofa, perchè l'antimonio d'ogni miniera, parimente può ciò fare; e quel'è la
cagione, che ſpinge alcuni autori a fa vellar così variamente della facoltà
dell'antimonio crudo: Ma che che ſia di ciò, ſe per opera, e argomento d'avve
dutiffimo maeſtro reprimuto alquanto, e rintuzzato il loc nocevoliſſimo veleno
neſia, certamente allora valevole e Pantimonio a vincere, e ſgomberare ogni
peſtilenzioſo ma lore, ove a tempo, e acconciamente, e con riguardo per huom ſi
dea; concioffiecofachè non ſolamente egli ne pur ghi, cvuoti dentro, ma ſovente
ancora diſſolva, e miglio ri, e ſgomberi ciò che nel corpo di maligno, e
cattivo così nelle falde, come nelle diſcorrenti parti peravventura ritrova; il
che certamente a niuna altra forte di medicamé to, o purganre, o vomitivo,
ch'egli fia agevolmente ſi co cede. Nec conftat, dice il Zuelfero, ex
vegetabilibus unicũ emeticum, grad nainore cum periculoexhiberi pifit, quàm
aniimonium dextere, ac debitè præparatum; nunquam enim tormina ventris,
convulhones, hypercatharſin, fluxumque nimium colliquativumcauffabit, etiam fi
frigida ſuperbiba tur. E egli però quelta malagevoliſſima impreſa,e difficil
molto, p mio avviſo, anzi impoſſibile affatto ad artificio umano; perciocchè la
parte velenoſa nell’Antimonio ſi è quella, che muovelo ſtomaco a recere, e
ſcioglie il ventre: la qual certamente quantunque volte vi rimane, non ſi può
in modo alcuno accutare, che a qualche perſona alla fine,o in qualche tempo non
abbia gravemente a nuocere. Nej per altroʻi Chimici autori ora in biaſimo, or
in lode de'varj apparecchiamenti dell'antimonio purgante, o vomitivo fa vellar
ſempre ſogliono, ſe non fe per lo grare, e ftraboc chevol riſchio, che
agevolmente vi ſi corre. E quel ſapientiſſimo nuomo nella Chimicafiloſofia, e
nella medicina pas rimente ſublime, e ſingolare Giovan Battiſta Elinonte ſolea
dire: Antimonium,quandiu vomitum, aut fedes movet, mercurius revivificaripoteft,
venena funt: non boni virirea media. Soglioſi dell'antimonio ſublimare i
fiori;e ſi fôde egli an che in vetro, e in regolo; e'l mercurio di vita, e'l
gruogo ancor ſe ne forma: purganti inſieme, e vomitive me dicine. E per
cominciar dal vetro, il qual comechè in viſta di nulla ſi paja dall'ordinario
vetro differente; pure comunicar ſuole minutiſſime, e però inſenſibili, e
cieche particelle velenoſe al vino, o ad altro ſomigliante liquore, in cui per
qualche ſpazio di tempo ſia dimorato. Egli è il vetro dell'Antimonio commendato
aſſai da quel nobiliffi mo Vicerè dell'Olſazia Enrico Ranzovio, Strolago infie
me, e medico famofiflimo, e Guerriero, e Poeta; e dalGeri neri ſomigliantemente,
e dall'Andernachi, e dal Langio, e dal Mattioli è ſommamente lodato. Ma Pietro
Severini d'altra parte grandiſſimo maeſtro in Chimica, e in medici na, forte il
biaſima, e danna; dicendo, che avvegnachè in quello cotanto fuoco trapaſfato
ſia, non ſe n'è però il buon giamai dalcattivo potuto ſeparare.E de'ſuoi
ſentimenti an cora ſi fan feguaci altri, ed altri famoſi medici, e chimici con
apportarne molti eſempli d'infelicisſimi avvenimenti. Vitrum antimonii, dice
Giuſeppe Quercetani, quo bodie multi imperiti maximo cum damuo utuntur, perniciofum
eft medicamentum; quod ſwoarſenicali fpiritu facultatem irri tandoexpultricem,
perſuperiora, einferiora magna cum perturbatione ducat, evacuetque; quod ego
probare nullo mom do poffum. Dal che moſſo Duncano Borrero anch'egli ri
fiutandolo, affatto dalla medicina il bandiſce, dicendo: Vitrum hic antimonii
fciens omitto, tanquam pernicioſum medicamentum; e'l dortisſimo medico, e
Chimico Teodo ro Cherchringio parimente del vetro dell'antimonio dice, che
comechè alcun guarito pur ne ſia, non eft tanti ifta for. tuita quorundam
fanitas, ut propterea, vel unius hominis vita exponendafit periculo. Vidienim
quum ager tantùm femiun. DelSig.Lionardo diCapoa. $47 Jemiunciam fumpfiſjes
infafionis, eum poft ingenies vomitus, & fupercatharticasvacuationes,fubito
efflare animă. Ata binc ille lachryma, hinc clamoresifti contra Chymicos inſur
gunt; tanquamfiarti imputanda effet aliquorum Pſeudochya micorum impia
temeritas, quorum nihil refert quotfuneribus impleant domos; modo unus; alterve
fanatuseorum ebuccines fama, &illi audiant magni Doctorės, emungantque
rufticis pecuniam. Ma avvegnachè egli medeſimo una cotaltem pera, ecorrezione
del vetro dell'antimonio rapporti, la qualdice egliefſer ſicurisſima, e séza
riſchio alcuno in ado perarlı; purecomeegli biaſima ſommamente', e riprova
quella; che dal Ranzovio, e dal Mattioli, e da altri uſa vali, così verrà un
tempo chi da qualche finiftro avve nimento moffo, dannerà, e riproverà anche la
ſua. Mi Ιο quanto a me intorno a' vetri dell'antimonio non fa prei certamente
che dirmene; non avédo mai fatta pruo. va di quell'avvertimento del Rolfincio,
ove c'dice: quane do coctio inſtituitur, favellando del vetro dell'antimonio
col vino bollico, fupernatan'scuticula arſenicalis aufertur;" E foglion
certamente sì fatti veli naſcer da'ſali, comenel bollir del ranno
manifeftainente oiſervali; perchè ſomiglia temente potrebbe dall’Alcali
ingenerarſi il velo nel vetro dell'antimonio, e non dall'arſenico, ficome il
Rolfincios avviſa. Ma che che di ciò ſia, in biſogna dicotanta confi derazione,
lo conſiglierei i lavoranti ad eſſer anzi ſover chianente ſcrupololi, che no, e
a ſeguire il conſiglio del Rolfincio, e a dubitare non forſe così foſſe, come
cgli dices - Defiori dell'antimonio dal Zappata, e da altri cotanto commendati,così
il teſtèmentovato Quercetano favella: Antimonii vitrum idem ferociterpræfat,quod
ejus flos;idq; obe Spiritum quendam album, & arſenicalem ipfi infitum quě
nec à floribusego exulare exiſtimem; quippe quos adeo afro citer corpus
concutere, ac devexare foleant tìm vomitu, tùm dejectionibus, ut res non caréat
periculo. E con lui anche ac cordãdofi Baſilio Valentini,dice pariinente i
fiori dell'anti monio effer nacevolisſimi, e velenoſi. Z z z Mai Regolo anche
dagli antichimedici imperocchè coa hoſciuto, ne fáno ſpezialmézione
Dioſcoride,e Plinio (av, vegnachè vi fallaſſero no poco in giudicar, che quello
altro non foſſe, che Antimonio in piombo cambiato ) è da’buoni Chimici avviſato
per medicaméto violentisſimo ancora,ed oltremodo di riſchio. E ciò anche a'
Galieniſti medeſimi fu purtroppo conoſciuto; infra’quali il Priineroſio,così
dan nandolo nefavella; omnem retinet antimonii malignitatem, qua antea fub
terreo excremento sopita latebat: edindi ap preſſo: fed quum omnes pravas, e
horrendas antimonii vi res adhuc posfideat, poculum indè confeftum
perniciofiffi mum effe neceffe eft; ideo puriores Chymici hoc ab ufæ me dico
amninò ablegarunt. Ed un della ſcuola di Lazaro Ri verj parlando del Regolo,
così per ſentiméto del fuo mae ftro ne ragiona: Calix chymicus toties in
obſervationibus no Bris nominatus, communiterque adeo omnibus confectus non eft,
ut nonnulli arbitrabantur, & arbitrantur ex regulo An timonii vulgaris.
Exregulo quidem eft:fed tertii gradus, qui longè differt àvulgari; quamvis
etiam multi boc utan zur non finepericulo bibentium. Ma il gruogo de metalli,
col cui uſo cotanto avantaggiar fi potèl'imperial medico Martin Rollando, e in
tanto ono re, e ricchezze formontare, è così chiamato dal Querceta no, perchè
ſecondochè egli ne dica, dell'antimonio tutti metalli s'ingenerano, e fpezialmente
l'oro, l'argento, e'l piombo: egli è comunalmente da’buoni ſcrittori il mens
violento, e men pericoloſo infra le vomitive medicine an rimoniali giudicato.Ma
perocchè l'Alcali del nitro nőben? anche tutta la parte velenofa dell'antimonio
ha tolta e pur gata, o p me dirc legata:la qual certaméteè quella cheare. cer
muove, ben li può di eſſo dire, che comechè per ope ra d'eccellente, e
ſperimentata mano nel meſtier della chi mica temperato fi foffe, pure pofftan
dire che L'ira s'intiepidi, ma non s'eftinfo perchè ſoſpettar fempre dee
l'accorto, e prudentemedia co, non ne ll'adoperarfi,alcun ſiniſtro avvenimento
ne ſe gua; perci occhè pure, comechè di rado fortir ne fogliono, Ed havvi
un'altra malagevolezza nel gruogo, imposſibil quafi a ſuperare; perocchè
quantunque con la medeſimas proporzione del nitro, e dell'antiinonio diſpoſto
fia, c quá ¢unque con tutte le medeſime circonſtanze lavorato į pure, talvolta
più;o men vigoroſo ſortir ſuole, e sì da ſe mede fimo differente, che in dubbio
ſempre, e in timore delle ſue ſtrane qualità ne tiene, ne per accorto, e
ſperimentato che l'Artefice fia, potrà maicome, o perchè ciò avvegna
baſtantemente comprendere; ſenzachè cotalimedicamen ti recar fogliono talora
uſcite copioſisſimedi ſangue, o la egli, perchè fi rompa qualche apoſtema
dentro dall'huo mo,e con quello alcun vaſo grande ancora’del corpo: o che tra
per la violenza del vomito, e quella del medicamento alcun altro ſe n'apra, e
ſi roinpano, e ſquarcino l'interiora: oche partendofi dalle viſcere, e
dibucciandofi la mucilag gine, la quale infra gli altri ſuoi ufi, a guiſa di
veſte copré dole, difenderale dagli oltraggj de’ſali acuti, e pugnerec cj, o
d'altre ſoſtanze, quelle ignude,e ſcoperte rimanendo, dal medicamento
s'offendano: e rodanſi anche dalla me deſima violenza del medicaméto gli orli
de’vaſi delſangue; i quali aperti, eſquarciati, comechè picciolisſimi, pure
così numeroſi quivi ſono che ſgorgar oc può in ranta copia il fangue, quanto
n'uſcirebbe per avventura dal rompime to di qualche vaſo ben grande. E comechè
di ciò n'abbia parecchi eſempli; masſimamente nella noſtra Città; purs
baſterammi al presēte rapportarquì una ofſervazione dell' avvedutis ſimno
Vartone recata dal Gliffonio con queſte pa role: Huc referamus hiſtoriam, quam
mihi communicavit clarisfimus V varton, mulieris cujuſdam, quæ à fumptu pharm
macoafperiore in enormem fanguinis vomitum inciderat,cui, que ventriculum poft
obitum vocatusaperuerat. Nulla com paruit vena, fivèrupta, five exefa; cæterùm
in cavitate ventriculi adhuc nonnihil fanguinis reftitit; fiquidem multò
maximam ejus partem ante obitum rejecerat. Fortè dum mi ratur unde ea fanguinis
copia promanaret, dorfo.cultri inte riorem tunicam, ut penitiusreminfpiceret
deterfit: boc facto innumera fanguinis pūčtula in ſuperficie deterfafenfimcomo
pare Ragionamento Settimo parebant; ipfa quoque funica quaficutis derafa:
cuticules 1. E che diremo noi de'copiofiffimi ſudorifreddi, e viſcoſi, ch'uſcir
fogliono dagli ammalati per opera dell'antimonio sì fattamente lavorato i
Certamente cotali ſudori,che chia man diaforeticizangofce,e noje, e
ſvenimentirecar foglio no, e talora anche con toglier agl'infermi
miſerabilmente la vita; avvegnachè cotali effetti non dall' antimonio fo.
lamente, madalle manne ancora, e dalle roſe avvenir fo gliano, ed eziandio da
altremedicine, che per comun conſentimento più ſicure, e piacevoli, e innocenti
tenu te fono: memini non defuiffe, dice il Libavio, qui Caffia fumpta omnia
pateretur, que illi,qui venenum hauferuns. Nedi ciò è daprender maraviglia;
perciocchèil medeſimo veleno, che è nell'antimonio, è anche nella Callia, non
che nella manna, e nelle roſe, e in altre ſomiglianti media cine;
perchèſoverchiamente preſe, o fuor del convenevol temporecar ſogliono talora
gli effetti medeſimi dell' anti monio. Neq;enim,dice il medeſimoLibavio,in
favellando pur della Caſſià,parum acrem inde elicimus liquorem: tur batorem
nimirumillum alui. E finalmente il mercurio di vita è egli vero, e legitimo
parto dell'Antimonio, non men di quel, cheſiali il gruogo; comechè il
Billicchio vanamente li perſuada eſſer quello operadel mercurio, non
dell'antimonio. Ma egli è ſenza dubbio men temperato, emen gaſtigato del gruogo;
e fe guentemente maggiorinoje, e moleſtie recar ſuolea'corpi umani per la parte
maligna, e velenofa, che in eſſo preva le; perchè men certamente agli
ammalatidar ſe ne vuole; che non ſi dà del gruogo. Ecomechè be fi poſſa in eſſo
co tal vizio perarte.correggere, e ammendare, e più forfes chc da'volgari
maettri non ſi coſtuma; tuttavia per quanto diligentemente per huomo lavorato
ſia, temer fempre, e fofpettarne dobbiamo; ſenzachè il mercurio divita, come
Cutt'altre medicine d'antimonio vomitive, ſovente imediči da' loro avvifi
ingannar ſuole, o nulla, o ſoverchiamente operando. Ma non perchè dannoſi
talora, e pericoloſi ad uſare co tali medicamenti ſiano, ſi vuol perciò dalla
medicina l'uſo dell'antimonio affatto sbandire; conciofliecoſachè ben an che
fabbricar ſe ne potranno nobilisfini rimedj dadover darſi ſenza tema di
nocimento niuno anche a’vecehj e a'bā. bini, e alle donne groſſe, ficome
agevolmente compren der ſi può dall'opere del Valentini, delParacelfo, e dell?
Elinonte. E comechè non ſia impreſa da tutti il compor cotali poderoſi
medicamenti, ma innocenti però, e piace. voli e di qualunque veleno
difarmaci;non però di meno sér za troppafatica durarc potrannoſi agevolmentelavorarda
chiunque mezzanamente uſato ſia nella Chimica, que'po chi inedicamenti, che
vanno attorno; come il belzoardico minerale, l'antimonio diaforetico, e altre
ſomigliantime dicine, nelle quali comechè attutato affatto,e ſpento il ves Jen
ſia, pur sifattamente ligato ſe ne giace, Ch'a guiſa di leon quando fopofa: non
ſogliono, anzi non poffono perpoter ch'elle abbiano, colle lor pungentiffime
particelle offender giammai, ne ad huomonocimento alcuno apportare; non
altrimenti, che innocenti anche in alcuni legni, e nellolio, e nella pietra
focaja que piccioliſſimicorpicciuoli ſi giacciano,de'quali il concorſo, il
movimento, la figura, l'ordine, e'l ſito formano il fuoco. Eben diſs’Io non
effer anche nell'antimonio dia foretico eſtinta, e fmorzata affatto la ferocia;
concioffieco ſachè fondédoſi quello inkegolo,cagagliardiffima forza di fuoco
ſtaccadoſi allora gli alcali,o pur cábiádo sebianza, i quali il vigor del
veleno affrenavano,e'ltenevano a badari ſvegliaſi di nuovo, e riforge la fua
primiera,e natia fierezza. Quinci ſi vede,quanto dal ver fi diparta il Villiſio,
il qual vuole, che l'antimonio diaforetico, altro non ſia, ch'unw ſemplice
terra dannata, e che come tale ad altro e' non và glia, ch'ad aſforbire, ea dar
luogo nelle ſue vacuità a que' fali acuti,chefogliono travagliar le viſcere: e
che egli non abbia niuna facoltà diaforetica; ma ſe al Villifio foſſe ved nuto
fatto d'avviſare i maraviglioſi effetti dell'antimonio diaforetico, certamente
in altra maniera n'aurebbe favellato,comeche Pantimonio diaforetico ſi ſia
veduto nellofte: maco d'alcuno non men,che la polvere di Sicilia, detta del
Chiaramonte, e altre terre ſimiglianti,per la gran forza de faliivi dimorāti
talora impietrarſi; il che però da béiſcor to chimico ſcanfare aſſai bene ſi
puote. Maciò laſciando di parte ſtare: e'manifeſtamente fi comprende eſſer
nell'anti monio la parte velenola fiſſa; e forſe arſenicale,e non come altri
vanamenté s'avviſa, volante, e vaga. Ma ſe ciò è ve ro, potrebbono per
avventura ritrovarſi nelle viſcere delle ammalato ſughi così potenti, che colla
loro efficacia vale. voli foſſero ad operar quivi tutto ciò, che far ſuole
violen tiſfimo fuoco ne'fornelli, ſciogliendo nell'antimonio diafo retico gli
alcali, e riſvegliando la parte arſenicale ad ope rar dentro le viſcere la ſua
uſata peſtilenza: e allora chin? aflicurerà dell’acerbiffime noje, e dolori, e
ſtracciamenti di viſcere, che recar ſuol l’antimonio, non altrimenti che ad uſo
de'fiori, o di vetro lavorato ſia. Così ſperimentiamo talora,che lo ſchietto,
ed innoccnte mercurio, meſcolato dentro dall'huomo,coll'acetoſo ſale, che vi
ritrova, gua ftali agevolmente, es’aguzza, a guiſa di violentisſimo pre
cipitato; intanto chei medeſimi effetti di quello crudelmé te adopera; e ciò
manifeſtamente ſi può comprendere dal le pillole del Barbaroſſa,e da’fumi, e
dalle unzioni, e da al tre ſoinigliantimedicine. Ma poſto che lavorato per ogni
verſo l'antimonio sépre nocevole, e velepoſo all'uman genere rieſca, non ſono
però da biaſimare cento,e mille altri medicamenti chimici giovevoli affai, e
falutevoli ſommamente ſperimentati.Ma qualunque pur fieno i violenti rimedi
della Chimica medi cina, maggiori nondimeno, e più peſtilenzioſi aſſai ne ha
ſempre la volgar de Galieniſti, ſecondo il ſentimento cos mune di loro
medeſimi: Magis igitur familiare eſe medicis (dice il Primeroſio ) qui Galenici
dicuntur, ideft qui veterē Sequunturdiſciplinam,validisfimis. uti medicamentis,
quæ Chymici,aut raròin ufum adhibent, autſaltem melius pre parata. Nec verum
eft à Chymicis omnia valentisfimo ignis calore præparari; fapillimè mitiffimus
calor adhibetur. Sed præterea ipſe Galenus docet igne valido pharmaca plurimai
acrimoniam, mordacitatem omnem deponere. Etcertum eft, egli poi
ſopraggiugnc,arte hac fpagirica ditta, & fero ciſſima medicamenta edomari,
& plurima alias venenata ademptis deleteriis partibus evadere cardiaca.
Perchè an che ſecondo i ſentimenţi d'un sì nobile, e valoroſo Galie niſta, e
d'altri affai,ch'Io non rapporto pernon tediarvi, gli ellebori, le
colloquintide, gli elaterj, le ſcamionee, e al tri non pochi violentiſſimi
medicamêti diſegnatine dall'an tica gróffal medicina, i quali già ella più
forſe ad offende reinteſa, che a riparare all'umana ſalute,fin da barbaré có
trade a carisſimo prezzocomprando recati avea, ora incr cè ſolaméte della
Chimica raddolcito il natio amarore, e pofta giù l’nfata fierezza, Ambrofios
præbent fuccosoblita nocendi. Aft ego, dice quel fedeliſſimo ſegretario della
natura cotan te volte da noi, coniechè non mai a baſtanza commendato Gio:
Battiſta Elmonte: aft ego volens paterno animo corri gere furiofam medicaminum
vim, intelligo rerum vires pri ftinas manere debere, infui radicem introverti,
vel fub ſui fimplicitate transformari in dotes illas ibidem latitantes
clanculum fub cuftode veneno: vel de novo partas ratione additaperfectionis.
Quopacto colocynthislaxativam,atque deletericam qualitatem introvertit;
emergitque ex imo vis. reſolutiva, morborů chronicorum curatrix egregia. Id
enim Paracelſus in tintura Lilii antimonii cum laude attentavit; filuit tamen,
vel neſcivit fieri idimin omnibus prorſus anima tium, &vegetabilium venenis
per falem ſuum circulatums: Siquidem omne venenum ipforum perit,fi in entia
prima re dierint. E queſto è appunto quel veramente maraviglioſo artificio, di
cui favellando Giovan da Bagnolo una volta diſſe: Generata naturalia inferiora
loco durioris compaginis conflata, & alta magnifactione, propter duritiem
nequeant abhominum mentibus diruiabſque magnorum philofophorum artificio.
Perchè ritornando al propoſto di prima, è da co chiudere, utilisſime molto, e
neceſſaric al genere umano Аааа effor Ragionamento Settimo 1 eller lechimiche
medicine. E nel vero có quali valevoliar gometi poreron mai cotanti miracoli
operare, eguarir ma li giudicati per addietro indomabili, e sfidanzati, l'Elmon,
te, e'l Paracelſo, ſe non fe per opera delle chimiche loro medicine? Eglino
certamente con queſto meſtier poteronſi guadagnare il glorioſo titolo
de'inaggiori medici del mon do: e per queſto ſentiero in tanta altezza di
pregia monto il Paracelſo, che ragionevolmente meritonne il famoſo no
medimonarca della medicina. Ma oltre a ciò ſono i Chimici intendentiſlimi
de'ſempli, ci, e della lor natura: e ben ſanno ſciogliergli a tempo cô trarne
la parte inutile, e nocevole, e ſerbar folamente pus ra, e intera la
medicinale: ne loro punto naſcoſi ſono i gra. di, e le qualità del fuoco, e gli
ſtrumenti tutti, egli ordi gni acconci a lavorare, e'l tempo, e l'altre
circonſtanze a ciò confacenti oſſervano. Quindi dal loro faggio, e avve
durisſimo operare forgon poi tantiprezioſisſimi medicamé, ti: e fanno dal vino,
e di altri vegetabili, e viventi, e miş nerali corpicavar ricchisſimielisliri,
e olj,e tiņture, e fali, ed eſſenze, e ſpiriti ſottilisſiini oltremodo, e
ſommamente penetranti, e valevoli a riſtorare, eadar dipreſente ripa ro alla
mancante vita; e a richianare addietro i ſpirie ei vaghi, e fuggitivi negli
sfinimenti, e nelle ſincopi, e ne più gravi, e mortali malori; in cui convien
di preſente con prelto, c valevole argomento ſoccorrere. Nea ciò fare al tro
che la Chimica efficacisſimamedicina è valevole, cbi ftāte; perciocchè a’ınali
gravoli, e non agevoli ad effer vinci fembran certamente bazzicature i volgari,
e comunali rią medj; ne a tuto ſenzadubbio le più ſquiſite ricette di Ga, lieno
poſlono aggiugnere. Inde illa, gridaforte ſtupidito il principe degli
ſpagnuoliGalienilti LodovicoMercati,pro dierant miracula in diuturnis
malis,quaprofunda ele ſolens, diſtillatorum aque ardentis, quinie eflentia,
auripotabi. lis, fi ſcuſi nel Mercati, ignorante dell'arte, la follia del
preſtar credenza all'oro potabile: e la manchevole ragione, ch'egli reca
de’mąraviglioſi effetti delle chimiche medici, ne, così ſoggiugnendo, Chymica
enim arte fumma compan ratur Del Sig. Lionardodi Capoa. 555: ratur miſtis
tenuitas, quæ duplieiter malis peritioribus profi cit, quia cedit ad imum,
radiceſque mali penitus evellit, do quia cum toto affecto luco
penitusconverfatur, &mifcetur; ità ut facilealteret, &devincat. E
quindi ancor moſſo quel gran inaeſtro in divinità, e in ragion civile Martin
del Rio, comechè egli per altro non ſappiendo bé la coſa, creda col Mercati,
econ altri mal pratici del meſtiere; che ſia vera mente oro potabile quel
liquore che alcuni chimici ſoglio no chiamartale: ſommamentela Chimica loda, e
innalza, ei ſuoi valevoli medicamenti commenda. Quam ego arré, dice egli della
Chimica, qua medicine adminiculatur janë laudo, &venerur, ut phyſiologie
fatum præftantifimum, in ventricem auri porabilis, reinonminusutilis adſanandum,
quàm ad alendum, ac quoad fieripoteſvitam prorogardam. Ma che cerco lo co
raccor tutti quegli autori,chelodanole chimiche medicinezánoverar col
poetasqual degl'alti boſelti a terra caggia Numero delle ſparſe aride frodi?
trapaſſero dunque a diviſardell'altro capo propoſto, cioè a dire a clti
lavorare, e compor le chimiche medicine fi convenga. - E in prima dico, che
chiunquc lavorar chimici medica menti intenda, e meſtier di tuo riſchio, è di
tanta confi derazione imprender voglia, egli della chimica filofofia, è della
medicina ancora intendentisſiino eller debbà, eco noſcer appieno, e comprender
lanatura, e gli effetti di ciò che s'abbia a comporre; concioſliecoſachè
quantunque di tutto il chimico filoſofo aver piena contezza poſa', e cia ſcun
medicamento ottimamente comprendere, pure ſenza lungo, e avvedutiflimo
guatamento delle coſe,e ſenza ofat la medicina, mal fenza dubbio i ſuoi
medicamenti faprà fabbricare. E ciò bene avviſando il Valentini, e’l Para celſo,
e l'Elmõtese'l Quercetano, e'l Dornei, e'l Penoto; e'l Severini, e'l Crollio,
etutt'altri famoſimedici Chimici, no ofarono mai confidare, fe non ſe
allemedeſimelor manile compoſizione delle lor medicine; anzi que' due gran lumi
della Chimica medicina, il Paracelſo, e l'Elmonce foven te d'alcuni lor
famigliariforte fi biaſimano ', ch’ardiſſerò a comporre', e difpenfarc i
Chimici inedicamenticon gravey Аааа 2 dan 55.6 Ragionamento Settimo danno, e
riſchio deglinfermi, e con non poca taccia della Chimica. Ne per altro in vero
in tanta infainia,e ſcherno cadde cotal meſtiere, e tuttavia ſi biafima, e fi
vitupera dalle genti, quanto, che i ſuoi graviſſimimedicamentiin man tutt'ora
di ſciocchiſſime, e temerarie perſone ſon mal menari. Perchè meritainente
idetti valent'huomini, e altri Chimici aſſainon laſcian maidi continuo
conſigliare,econ fortare i medici a non commetter traſcuratamête all'altrui
cura, e talento i ragguardevoli lor medicamenti; dicendo alcuni di eſſo loro,
coluiſolamente effer vero medico, che a ſue propie mani le ſue medicine ſi
lavori. Quo circa illum demum cum Crollio, dice Criſtoforo Glucradt, verè genui
num elle medicum cenfemus, qui medicamenta debitè cogni ta, non ratione, ut
rationalesmedicifaciunt, fed propriaſua manupreparare, & à veneno, &
feculentiis ſuis feparares repurgare, &ad puram fimplicitatem reducere
didicit; eaque imperito non committere coguo; e prima di lui n'avea recata la
cagione il Penoto, facilius eſt, R. fcribere, do ad im peritum coquumablegare
agrotum, quàm in ipſa naturę pe netralia carbonibus, cineribuſque ſordidum
ingredi,& pro mereindè magno fudore, quod ipſe egro exhibeat. E ſe'l lavo
rio de' grandi antidoti licome, avviſa Galieno, propiamé tc al medico
s'appartiene: perchè narrali, ch’i Romani Im peradori nel comporla triaca il
ſervigio de’baſſi ſpeziali ri fiutando, a valorofi medici ſolamente il
commetteſſero:Io non lo comead altrui, chc a medico il lavorar le Chiniche
medicine impor ſi debba; perciocchè molte, e molte di quelle di maggior vigore,
ed efficacia fornite ſono; perchè certamente maggiore avvedutezza, e
intendiméto richieg gono, che la triaca medeſima,o qualunquealtro più famo jo
antidoto, che gliantichi medici componeffer inai; eres la lor compoſizione
malne ſortiſce, aſſai più certamente ne può di danno, e di nocimento avvenire;
imperciocchè molti, e molti de chimicimedicamenti ſon così dilicati, e
pericoloſi in lavorarſi, cheper ogni menomo fallo, o tra ſcutaggine, che vi ſi
commetta, graviſſima certamente, e mortal rovina ne può ſeguire. Perchè
l'incomparabile Resnato delle Carte così alla Principeffa Palatina ſua
diſcepola ſcrivendo ragiona: Caurè etiam fecit celfitudo ſua, quod non luerit
Chymicis remediis uti; nàm quantumvis longa expe rientia illorum vires
comprobatę fuerint, tamen, vel minima in eorum preparatione, etiam quum optimè
fieri creduntur, variatio, poteft illorum qualitates ità immutare, ut non re
media fint, fed venena; ſenzachè, ſe'l medico non vorrà pu re apparare a
fabbricare,e comporre le chimiche medicine, come egli potrà mai i diverſize iſtrani
mutamenti avviſare, che alcune di quelle, eziandio ottimamente compofte, e
apparecchiate far fogliono? come afficurarſi mai delle pe ricoloſe qualità
dell'antimonio diaforetico? il qual ſecondo gli avviſi dell'avvedutiſſimo
Zuelfero, quocunque modo fe và cum folo nitro, aut addito etiam tartaro
præparatum fit, traétu temporis aëri expoſirum pravam, da quaſ maligram induit
naturam, fumptumqueintrà corpus, cordis anguſtias, lipothymias, vomitufque,
& fimilia prava ſymptomata pro creat. Come potrà egli mai d'altri
medicamenti comedel gruogo del metallo, comprenderla vera, e giuſta quanti tà,
ch’ad ammalato ſia da dare? la qual certamente non da altro li miſura, e
conoſce, ſe non ſe dal ſaper l'operazione dell'Alcali, che in ſu le parti
arſenicali dell'Antimonio più, o meno è fatta: e quella ſenza dubbio comprender
non fi può, fuor ſolamente per iſperienza, e per pruova, con far ne ſaggio in
darlo ſcarſamente agli ammalati, e con rite gno in prim?: quindi a poco a poco
andarlo accreſcendo finattanto ch’alla ſua convenevol quantità giuſtamente ſi
pervéga: oltre a queſto havviancora alcune virtù di medi camenti, che come di
ſopradetto è, avvegnachè nella me deſimacompoſizione, e qualità de'ſemplici,
cnelmedeſi mo tempo,e gradidi fuoco lavorate ſiano, pur diverſame te o più, o
men vigoroſe, e valevoli ſortir ſogliono; in torno alla qual coſa non è tempo
ora acconcio a filoſo fare,comechè molto da dir vi ſarebbe; ma pur come potrà
egli tante, e sì fatte ſorti di lavorj comprendere,ſenza aver le in prima
ne'fornelli, e con fottiliſſimoocchio ſpiate? co me poi diviſarne agli ammalati
i medicamenti, lenza pun to conoſcergli? Ma 558 Ragionamento Settimo
Maperciocchè infinitirimcdj a'medici pur s'apparten gono, iquali eglino
nonpotrebbono certamente tutti fora nire feinza tralaſciar le viſite più
neceſſarie degli ammalati; o altre lor bifogne: dico, chenon haluogo al medico
cur ti rimedj a ſue man lavorare, ma que' ſolamente, che di maggior
conſiderazione, e di maggior riſchio agl'infermi fono; commettendo ſolainencei
medicamcnti piùmenovi li, e più ſicuria ' pubblici, e fedeliſpeziali, da lui
per pruo va già in primaconoſciuti dattanco; eſſendovi anche egli talvolta in
fu'llavorio per maggior ſicurezza, quando la biſogna peravventura il
richiedeſſe. Ma convienmiritor: nar addietro; imperocchè caduto dalla mente
miera di ri ferire a fuo luogo, quanto la Chimicas'appartenga fapere, a coloro,
che ben intender vogliano gli ſcritti demedici; certamente non che altri, ma i
libri medefimi de' Galieniſti la richieggono.E nel vero chi mai potrebbe séza
riſchio di groſiſſimi falli,malfornito a tal meſtiere,pormano a'volu: mi
d'Arnaldo, o d'altri antichi, e moderni Galieniſti? E ' no è peravvétura
purtroppo manifeſto,quáti falli preli abbia no i troppo séplici, e
feiocchiGalieniſti in iſpor l’opere di qualche autore per non eſſerſi da loro
laputo diChimica perchè ragionevolmente Giovani da Bagnuolo, Galieniſta medico,
e chimico eccellentisſimo, cosi querelandofi ſcla ma: Hoc voluit Ioannes
Damafcenus in herbarum decoctio nibus; diſtillationibus, quamvis corruptê, di
impiè intel bigatur abignorantibus diftillaturiam artem,nefciétibus evela
bereelementa à fimplicibus, tantum affumuns aquam endi: viæ primam,oprojiciunt
aërem, ignem; non fpretos à doctis medicis benèintelligentibus naturæ principia,
& fecres ta: à doctisſimo viro Ioannéa Rupe feiffa: hoc voluit in selligere
Ben Cene in tertio lib.fen. 20. cap. 18. de fingular. med. ad augendum coitum,
ubi toquitur de commiſtione falis Strucorum cum vitellis ovorum,
&patentiffimum eft falem no poffe confici, nifi perdiſtillationem; ducum
prima aqua dif folvere cinerem, abluere primam aquam, terram albifi cando, ut
docent fapientes. Ma prima di lui ciò ravviſato avea Antonio de Ferrariſuo
maeſtro, c compatriota'nelle fue chiofe ſopra la cantica d'Avicenna.
Vadiinoſtrando egli poi quanto lia meſtier la Chimica a 'medici per ben in
tender gli Autori, con produrre in mezzo molti, emol ci altriluoghid'Avicenna
male iſpoſtiso mal preſi daʼmedi ci, per non conoſcerli di chimica; e
centoaltri ne potreme míonoi quì ſomigliantemente annoverare, ſe dal tempo ne
foſſe permeſſo. Maperchè ho laſciato lo anche di rammo tare la Chimica
efferoltremodo neceſſaria aʼmediciper po ter ben conoſcere, e ravviſare tante,
e sì fatte guiſe dime dicamenti, che fabbricar tutto giorno, edifpenſar da mol
ti, e molti artefici fi fogliono / intorno aquali i ſemplici Galieniſti in
nulla fappiendoſi delle lor vircùconoſcere, ſom vente a' rapporti de’medeſimi
componitori diaeceſſità les ne ſtanno digiuni affatto, e privi ritrovandoſi di
qualunque contezza dichimica; ſenza la quale comporcocali medica, menti, ne in
quali forti di malattie, in qual' età, in quales ftagione convenevolmente da
uſar fieno, appieno compré der potráno:cõciofſiccofachè cotali ricette fovéte
appreſſo i buoni autori s'incontrino, i quali appena ſi pare,che l'ab. biano
ne'lor volumi groſſamente accennate, non che par. titamente ſpiegate, e
deſcritte, coprendo a bello ſtudio, e inviluppando imiſterjpiù pregiati, e più
profondi dellar te, per non logorargli yanamente infra le genti volgari,cu
dibaſſo intendimento. E quinci poi ingannati da’loro fal fi avviſi impongono
vapamente agli ammalati alcunisime dj, che chiaman prezioſi; facendoſi a
crederc, che fien tali, quando veramente fon viliffime bazzicature, e
fanfaluche di niun pregio; fe non vezzatamentele impongono per aver parte
poiall'ingordiffime baratterie degli ſpeziali. Ma coſtuma fu mai ſempre de'
medici il dar a divedereu effer di pregio grande i loro medicamenti; ficomc per
ta cer di Pallada, teſtimonia Sereno Samonico: Multos pratereamedici componere
fuccos Afuerunt; preciofa tamen quum veneris emptum. Falleris,fruftraque
immenſa numifmatafundeso E per non dir nulla del file dell'oro, che cotanto
alcuni ſopranmodo millantano: come potrà egli un buon medico diſpor 560
Ragionamento Settimo diſporſi mai ad ordinare al ſuo ámalato beveraggio di quel
che chiamāſale d'argēto,ſenza pūto le qualità diquello fa pere? Oh ſep chimica
conoſceſſero i Galieniſti giámai,che cofa ſia quel malvagio medicamento,
certamente non ne ſarebbono cotanto a'ſuoi infermiliberali, perciocchè non è
egli, ne eſſer può giammai ſal d'argento; ma sbriciolati, e ſottiliſſimi
ſcamuzzoli del medefimo metallo uniti inſie me, e rappreſi dalle particelle di
quegli eſaltati fali acuti, e peſtilenzioſi, onde già roſi, e ſgretolati
furono; perchè cer tamente la medeſima qualità riſerbar debbono di que' fali,
e'l'medeſimo effetto peravventura adopererebbono, che dal vitriol del rame far
fi ſuole; perchè Giuſeppe Don zelli nell'arte della Chimica conoſciuto aſſai,
così ne dice: Quanto al mioſentimentoſtimo vanità le virtù, cheſipredia canodel
ſald'argento; e credo, che abbia indebolite più bor fe, che corroborati
cervelli. Anzi tanto più velenoſo,e mal vagio cotal ſale fi è, quanto più del
vitriolo del rame, o ď altro peſtilenzioſo veleno rode,e morde le viſcere, e
ſpie tatamente ſtracciandole ſtrabocchevolmente ne muove a recere gli
inteſtini, e l'anima; perchè con dolori acerbillimi correr ne potremmo anche
mortal pericolo, ſe non che co tanto poco dar ſe ne ſuole, che agevolmente, o
la natura medeſima, o altri medicamentiviriparano. E’lmedeſimoancora da dir
ſarebbe dell'olio dell'oro, e dell'oro, che chiaman potabile, del qual
certamente niun mai ſervir dovrebbeſi, ſe non aveſſe egli in prima per più
d'una pruova baſtantemente compreſo non poterli quello in niun modo ne'primicri
ſembianti ritornare, e prender di nuovo forma di metallo,laſciato avēdo affatto
d'eſſer tale. La qual coſa da quel grā maeſtro dell'arte Elmõte ben con.
ſigliata ne fu allor, che diſſe: ne metallicum ullum arcanu intra corpus
accipiatis, nifi prius redditum fit volatile, din nullum metallum reduci
poffit. Eche direm noidelle tinture de coralli, delle perle,del le
quint'effenze, che millantar fogliono,degli ſmeraldi,de zaffiri, e de’rubini,
cd'altre ſomiglianti gemme, le quali veramente,ne filoſofiche tinture, nc
eſſenze non ſono con cior sor ciosfecofachè a farle tali, egli convenga in
prima ſcioglier filoſoficamente que'corpine'primicris loro principj collo pera,
e col conſiglio degli Alchaeft, e d'altri ſomiglianti li quori: le qualicoſe
altro veramente non ſono, ſecondo il ſentimento d'alcuni valent' huomini, che
Sogni d'infermi, e fole di Romanzi; e nõ men vane, e bugiarde, che l'eroiche
sbracciate del Rc Artù, e lemillanterie di Lancillotto, di Triſtano, ed'altri
crranti Cavalieri,che dimenzogneempion carte. E ſepur vere coſe, e non
vanisſime dicerie elle fono, ficome al quanti guari autori han voluto pur
credere, cgli però ſo 110 sì inviluppate; e cieche, e rimoſſe dal noſtro
intendi mento, chemalagevoliſſimamente per huom ſe ne potreb beorma rinvenire;
così, ſe pur lealmente ne diviſano i mae Itri, e Senatori della Chimica
Repubblica, come il Valen tini, il Paracelſo, l’Elmonte, e altri, l'han ſapute
co' loro riboboli, ed cninmisì bene avvolgere, e intralciare, che impoſſibile
omai ne ſembra l'impreſa. Perchè lo ſciogli incnto, che comunemente far pe
veggiamo, altro certa mente non è, ch'un minuto ſtrirolamento, o ſceveraniento
delle parti, fatto, come è detto,da’ſaliacuti elaltati,e per ciò ſoinmamente
velenoſi, i quali meſcolativi per entro, e forte appiccativi non ſe ne
potrebbono per tutte le bucate del mondo toglier giammai; ſenzachè i bricioli
dell'oro, o delle gemme,o d'altra ſomigliante coía dura, ſcioltije ſgre tolati,
e a que’ſali appiccati, ceſano, e fraſtornano l'ope razioni degli Alcali;
intanto che non potendogli quelli da tutre parti inſiemeunire, no rieſcono
valevoli ad iſpogliar glidella lor natia acrimonia,con rendergli ottuſi affatto,
e rintuzzati delle lor ſottiliſſime punte; ficoinenel tartaro vitriolato far
ſogliono, ove sì fatto intertenimento non hí 110. E ſe i fali pur non vi
rimancſſcro, ma per opera d'ec cellente, e ſaggio maeſtro già tutti interamente
ne goin beraſſero, certamente iminuzzoli dc'corpicciuoli ſciolti, c sbriciolati
non reggerebber pure a galla nuorando in ſu i pori delle umide ſoſtanze, ma
tantoſto in fondo al valo sõ. mergerebbonſi; ne meno ſcioglicrebbonſipunto per
gli Bbbb wwin 502 Ragionamento Settimo umidi aliti nel deliquio; come gli
intendenti del meſtier fa vellano. E di ciò ben fi può far manifeſta
pruova,conme ſcolarvi dentro l'Alcali del tartaro; concioffiecofachè bcn allor
di preſente fi vegga l'argento, e l'oro, e le gem me calar giù, e far
toſtofondaccio: comechè alcuni cotali paltonieri, e giuntatori de’noftriſecoli
pur ſi ſtudjno di di moftrarne il contrario: circumfuranei fallaces,come dice
il grand'Elmonte,qui aurum, & argentum furripientes aliud in borum locum
fuppofuere; incontro a’quali giuntatori al trove riſerberommia ragionare. Ma
de' lavoratori di sì fatti medicaméti,così dice lo ſteſ fo Elmonte, huomo per
univerſal conſentimento di tutti letterati intendentiffimo di ciò giudicato.
Pudendam pa riter deploro fimplicitatem illorum, qui foliatum aurum, gē
maſquecontufas hominibusmagnaſpepropinant,magno ven dentesfuam
ignorantiamfinondolum; quafi ftomachusinde, welminimum expectetfubfidium.
Subtilior, ideoque magis condolendus efterror eorum, quiaurum, argentum,coralia,
perlas, atque fimilia per liquores acidos corrodunt, atque dif folvere
videntur;putantque hoc pacto intra venas admiffum iri, verè ſuasproprietates
nobiſcum communicatura.Nefciät enim, ah neſciunt acidum venis hoſtile; ideoque
peregrina diſſolventiúfuperata, & tranſmutata aciditate,ejufmodi me talla,&
lapides pulveré effesatante; qui utcunquein tenuiffi mum pollinemfit
redaétus,nihil tamen à ſtomacho conficitur, aut nobisfuas vires partitur. Ed
Angelo Sala nel meſtier della Chimica ofercitato affai, e ferino, e veritiero
ſcritto Te: omnes illi, ſclama, qui talibus portentofis promifis, quo rum ne
minimum re ipfa præftare pofunt, multum gloriantur, Banquam.agyrta,
&impoftores babendi funt; licet ab aliqui bus, intendendo egli di coloro
appunto, de' quali noi ra gionato abbiamo: ſciocchi,e ignoranti della Chimica,
qui facilè vanis perſuafionibus ducuntur, tanquam profundi ar. canorum naturæ
fcrutatores fufcipiantur,magniquefiant, da contra ab iiſdem ingenuisfine
oſtentatione quantum in artis poteſtate eft exhibentes negligantur. E prima di
ciò avea egli detto: meritò fufpeéti habentur, qui primam dari materia philofophorum
tùm ad quorumcunque morborum curationem, tùmadmetallorum tranfmutationem,
multis, jiſque ad oſtë tationem, & fraudem comparanis rationibus probare
conan tur. Qui ex auro, quod necfummaignis violentia, autul lo corroſivo cogi
poteft, ut vim fuam metallicam exuat, se liquorempotabilemverum fine peregrina
miſtura conficere poffe jactitant. Qui non folùm colorem, innatam tin &tu
ram ex omnibus metallis, lapidibus presiofos, fed etiam fpi ritus, olea, &
ſales non minus, ac exvegetabilibus fe fepa rare poffe profitentur: Qui
ex.talco, corpore illu metallico, & incombuſtibili, balſamicum,
&temperatumliquorem ad per petuam faciei venuftatem promittunt. Qui veram
tincturam coraliurum ejufdem cumipfis coraliis coloris, faporis, &tem
peramenti, majoris tamen virtutis ad Epilepſie, & Melan cholie curationem
vendunt; du ex ipfis margaritis talē quin tamellentiam,quæ humidum radicale
confumptum meliusquá ullumaliud fimplex,aut compofitumreftituat. E quancunque
gli acuti lali ſoglian talor raddolcirli al quanto, o per me'dir mitigarhi
accozzádoſi in modo co'mi nuzzoli demetalliſciolti, che le lor
fottiliffimepunteaca biar fito ne vengano, come nel vitriolodel ferro agevolmé
te fi può vedere; non,però di meno il più delle volte il con trario n'avviene;
perciocchè le punte delle particelle, che compongono i fali, accozzandoſi
talvolta con gli sbricio latiminuzzi de’metalli, vengon si fartamente a
ſchierarſi, e comporſi, ch’a guiſa di pungentiſſime ricciaje, od’aſpri riccj
fieramente aguzzandoſi, ed arruffandoſinefquarcia no le viſcere ', e con
mortali punzecchiamenti talor n’ucci dono; ficomealla giornata nel ſoliinato, e
nel precipitato, e achenell'oro ſciolto p l'acqua regia avvenir veggiamo.
Perchè l'avvedutiflimo Chimico Ofualdo Crollio, dicoral oro favellando,
dannandone ſommamente l'uſo,non datur, dice, illo nocentius toxicum. Ed io
porto pur ferma opi nione, che da sì fatti medicamenti, ſe non ſi deſſero tanto
miſuratamente, e a ſpiluzzico, non nien gravi, e manifeſti danni ſeguirebbono,
che dal ſolimato, e dal precipitato avvenir ſogliono; perchè non ardirebbono
imedici ſcioc Bbbb 2 chi, c 564 RagionamentoSettimo chi, e ignoranti, ſe nella
chimica eſercitati foffero, cotali medicamenti, anzinocevoliſſimiveleni, a'loro
ammalati per cagion veruna imporre; e comprenderebbon pure che corali, che
chiaman riſtorativi, in luogo di dovere agli in fermi sfidati lc ſmarrite forze
ravvivare, inaggiormente gliele abbattono. E ſappiano pure, che ſecondochè nes
dicano i più veritieri Chimici, più agevole aſſai è a fabbri car di nuovo l'oro,
che'l già fatto diſtruggere. Ne è dacredere, che quell'olio d'oro tanto celebre,
e famoſo in Portogallo, curi, e ſaldi le ferite con altro, ches co'ſali
roditori, ed acuti dell'acqua regia, che if diffolve; perciocchè corrugando
quelli, e riſtrignendo i vaſi acquo fi del noſtro corpo, nó fanno alla ferita
umore alcuno trape lare; perchè gli ſpiriti de ſali frizzanti, e lazzi la virtù
dell' olio dell'oro, o ſia egli oro potabile, è certamente da attri buire; che
per altro, ficome diceva colui, l'oro sì fattamé. te ſciolto troppo ſpoſfato, e
di niun momento ſenza il fal roditore egli riuſcirebbe: ma affai a ingordo
pregio paghe rebbeſi quel poco d'utile, che rade volte ricever fe ne ſuo le, ſe
paragonafial riſchio, in cui la vita del malato mani feftamente incorre. Ne
altrimenti è da credere degli ap parecchiamentidelle perle, de’coralli, e dellc
gemme; perocchè, come di ſopra detto è, sì fattamente nel loro Atritolamento
gli acuti fali vi s’appiccano, che per quindi torgli vano affatto, e inutile
ogniſtudio riuſcirebbc.' Emi ricorda pure eſſer capitato una volta alle mani
del Donzel li un talmagiſtero di ſmeraldi, che manifeſtamente di que' ſali,
onde compoſto era, putiva; e quelvalent'huomoall? aperto riſchio della perfona
colui ſottraffe, che di preſente predere il doveva. Perchè i buoniChimicisépre
dal far co tali apparecchiamenti ſono ſtati oltremodo guardinghi; e'l
Gluctradio medeſimo ne'cométi, ch'ei fe in fu'l libro delſuo Beguino, forte gli
biaſima, e danna. Anzi quantunque il Cratone nel meſtier di cotali medicine
ragionevolméte da ſeguitar non fia; non però di meno in ciò, chcnarra delle
perle, egli ſenza dubbio ſembra dir vero. Acetum radi catum, ſon ſue parolefua,
acrimonia, & vi corroſiva, atq; cauſtica non modo margaritas, verum alia
etiam diſolvere; &in cinerem quafi redigere, atque quemadmodum Chymiſte
loquuntur, calcinare polje nemini dubium eft. Huc autem no eft fpiritum
margaritarum elicere, fed totam earumfubftan. tiam corrumpere. D.Vaoylelius
ſenior mihi narravit Epiſco pumn Vratislavienſem Gaſparem Logum, magiſterium
hocper larumperſuaſum à fratrefepèporrectum à Paracelfifta quo dam ebibife,
atque eo demortuo tunicas ventriculi nigras, egy corruptas apparuiſe. Eodem
eventu ufam effe Marchionis Iohannis conjugem, in qua ventriculi tunicæ planè fuerunt
erofa. E ciò certamente avvenir debbe dal non aver ſapu to il componitore di
quellavorjo qual cofa apprèffo'l Para cello ſia veramente l'aceto radicato, e
dall'averſi egli ſervi to in luogo di quello d'un cotal liquore minerale oltre
modo acuto, e roditore. E quantunque diciò per avven tura non ſi poſſa
ne'magiſterj delle perle, e decorallifac ti per opera d'alcuni piacevoli fali,
o liquori vegetabili dottare,tuttavia comechè ſi cõfacciaio a qualche āmalato,
pure in molte,e molte malattie comuneméte ſi dánano;per chè in luogo
d'abbeverarſi di quel ſale acetoſo, che nelle noſtre viſcere calor ritrovano,
accreſcendolo maggiormen te, le cagionidelle inalattie ne multiplicano. Ma chi
baſtevole ſarebbe giammai a raccontar le frodi, c le baratteric, che in sì
fatte materie tutto giorno com metter fi fogliono? Ed è egli recente ancor la
memoria in queſtaCittà di quel Polacco, chevedeva a carisſimo prez zo lo
ſpirito del nitro per l'Alcacſt; e di quel gran Barbar ſoro Ciciliano, ilquale
con ſue ciarle, e giunterie molti, e molti ne preſe faccendo Calandrini gli
huomini, e dando a diveder loro l'elitropia fu per lo mugnone, vendendo, e di
fpenſando la tintura del verderame per quella degli ſme raldi, c'l biſmuto
calcinato con acqua forte, e ſciolto, co me dicono, per deliquio, in luogo di
veraciſſimo latte di perle; e f quel che minor male certamente era ) Peliſſire
di propierà per balſamo di Criſto, e la cintura del Chermes per quella
de'coralli. Così bé ſapea falſeggiar sì fatte ma raviglie, come colui, cui fa dire
il noſtro Dante la giu nella: decima bolgia dello Inferno: Sì vedrai ch'Io fon
l'ombra di Capocchio, Che falfaili metalli con Alchimia: E ten deiricordar
ſeben, t'adocchio, Com'Iofui dinatura buona foimia. E non ha guari di tempo;
cheda qualche malvagio fpe? ziale comunemente vendevali (edimedici pur
l'imponeva no a'loro infermi ſotto nome d’eſtratto di caffia ) la caffia
medeſima, ineſcolatovi dentro gutgummi: e queſto mede fimo pure meſcolar ſoleva
nell'eſtratto del Rabarbaro per renderlo maggiormente efficace, e vigoroſo, con
quel dá no, e nocimento de’miſeri ammalati,che immaginar poſfia mo; e gli
ſcimuniti, e balordi medici ignoranti affatto dela la Chimica, ingaonacine
reſtavano,giudicando ſcioccamé te maggiorſempre, e più vigoroſa negli eſtratti
l'efficacia dellemedicine dover riuſcire. E ſomigliantemente dall'ignoranza
della chimica anco ra avviene, che i baccelloni, e ſemplici medici credendo di
foverchio agli Artefici, veggonfi tutto dì mandar fuora varie, e diverſe
moſtruoſe, e ridevoliricette di medicines, le quali o non inai fi videro al
mondo, o folamente ne’libri di poco pregio, o dalle bocche, o dalle penne di
chi trop po lor crede furono appreſe; ma quanti danni ne fian ſegui ti a’poveri
infermi, chi potràmairaccontare:Dirò lo fola mente, ch'un celebre Galieniſta
de'noftri tempi per aver lerro forle egli il Tirocinio delBeguino, o altro
ſomiglia te libro di Chimica, ftimandofi egli già gran maeſtro in quella, preſe
ardire d'ordinare a una cattivellainferma lo fpirito del nitro volgare fchietto;
e comechè lo ſpeziale tá to quanto intendente della biſogna a tutta ſua poſſa
il con traſtafle, pur colei preſolo, dopo acerbilliini dolori nabif fando, e
rabbiando fe ne morì. Ma di sì ſciocche, e irra gionevoli ricette ben ne potrei
Io un lungo catalogo qui diviſare, ſe non che per troppa modeſtia me ne taccio;
temendo non diciò ſe n'adiraſſe alcuno, come di fallo per avventura da ſe
maffimamente commeflo; ſenzachè v'ha perſona, ch’avendonc finora un lunghisſimo
ordine intel R 1 iuto, ne, futo, infra non lungo tempo forſe divolgandolo, farà
intors, no aciò la vaghezza de'curioſi interamente paga. E dall'ignoranza della
Chimica medefinamente avvic che tutto di daʼmedici il ſale del vitriolo ordinar
ſi co ftumi; il che certamente non avverrebbe, fe ſapeſſefi qua to
eglioltremodo malagevol fia il comporlo; e che gli ſpe ziali in vece del ſale
del vitriolo, dar fogliano il vitriolo medeſimo bianco, o pure il vitriolo
riprodotto dal capo: morto, ſicome dicono; il quale talvolta aſſai più del
vetro medeſiino, e de'fiori dell'Antimonio violento ſuol riuſcire; cagionando
acerbillimi dolori nelle viſcere, e talora anche manifeftamcnte uccidendo. Così
non ha guari di tempo per pochi granelli di cſſo moriſli in Caſtel
nuovomiſerabil mente rabbiando Gio:Battiſtade'Benedetti ftrolago di gra grido.
Ma i noſtri ſciocchi, e baccelloni medici immagi nando di porre in opera un
benigniſſimo, e piacevol medi camento, in luogo di quello un crudelifimo, c
micidial ve leno ne vengono talvolta ad ordinare. E ſon' anchei medicinegli
ſpiriti de'corpi vegetabili da? mueftridiſtillatori, ſommamente beffati;
perciocchè colo ro cavar gli ſogliono per limbicchi di rame con gravilli mo
danno di colui, che prender gli dec; conciolliecoſa chè la flemma di que' corpi
formentati, gravida di quel ſale acetoſo, che non mai partir ſe ne può, trae
ſoven te qualche nocevol particella della campana, e con la ſua mordacità tanto
quanto la rode, e la ſminuzza. Quinci poi a poco a poco, ne l’huom ſe nc può in
prima avvedere,[con volge, e morde le viſcere, e diſtempera il corpo, cagione
vole oltremodo, e difettoſa l'economia di quello renden do. Ma veggo Signori
che s’lo diſtintaméte narrar vi volei gli errori tutti ne' quali incorrono i
medici p nó ſaper pūto di chimica troppo lūgo, e ſtucchevole ne diverrebbe il
mio ragionaméto; perchè ritornando di nuovo ad avvercirglin confortargli, e
ſcongiurarglia non inframmetterſi d'impre ſa di tanto riſchio, fe pienamente
non ne fan riuſcire, dico di nuovo, che laſcjno da parte ſtare le
pericoloſisſime medicine della Chimica, e ſolo alle lor menovili, ccomunali
attendano: Ludere qui neſcit campeftribus abftinet armis; Indoctuſque pila,
diſcive, trochive quieſcit, Ne ſpiſſa riſum tollant impunècorona. E perchè dirò
lo non reſterà anche un medico della Chi mica ignorante
d'ordinarchimichemedicine?masſimamé re, che non ne fieguono le ſcherne di lui,
ma la morte de gli infermi; perchè a ragion lagnavaſi il Sennerti d'alcuni
maeſtriScimmionide'ſuoi tempi, i quali, com'egli dice, quum rerum Chymicarum
planè ignari fint,ne tamen Chymi cis aliqua ex parte inferiores videantur,
chymica medicame ta, quorum vires, & præparationis modum ignorant, fatis
periculosè ufurpant. Or che direbbe egli, s'ancor vivendo vedeſſe la tracotanza
del noſtro ſecolo, e ſcorgeſſe pures in queſta noftra Città, in queſto Regno
non eſſere ſpeziale anzi no eller barbiere, non eſſer cerrerano,non doniccico:
1a, che non componga Chimicimedicamenti:non effermc dico, che non gli ordini,
appena che ne ſappia il noine, o bene, o malc, in tutte ſortidimalattie? Anzi,
che direb be egli pure, ſe vedeſſe cotali Squaſimodei de'noftri tempi andar
tronfj, e pettoruti biaſimando la Chimica in cotali, che forſe ſaggiamente, e
con prudenza l'adoperano, quan do eglino ignoranti, e non punto intendenti di
quella più ch' alcun' altro poi follemente delle chimiche medicinc fi ſervono?
E comechècotalimaeſtri zucche al vento diſa per tutto miliantino; pur nulla
conoſcendoſidella vecchia, e della nuova medicina, abborrano, e meſcolano alla
groſ ſa il tutto, con danno, e rovina di chilor crede. Ma per favellare appunto
de'tempi noſtri, dice l'avve. dutisſimo, eingegnoſisſimo Roberto Boile,Obfervo
noviſ fimis annis Chymiam ceptam efe (uti meretur) à viris doctis, quiprius
eamfpreverant, excoli; ejuſquefcientiam à pluri bus, qui ipfam nunquam
coluerunt, arrogari,ne eam ignora. re exiſtimentur. Vndè faftum quodplures
Chymicorum de rebus philofophicis notiones fumptæ fint pro conceſis, atque in
uſum verſa; & fic ab eximiis admodum ſcriptoribus,tiim phyſicis, tùm
medicis adopsate. E finalmente anche ſe alla medicina non foſſe meſtier la
chimica, a che ragunarſi a giornate tāti parlamenti, e tante ſcuole di Chiinica
nella Germania, nellaFrácia, nell'Inghil terra, e in altri molti
famoſisſimiluoghi d'Europa? A che tanti valentisſimi medici (de'quali alquanti
più famoſi Ga dieniſti per brevità ſolamente rapporterò ) avrebber durate tante
fatiche, ſparſi tanti ſudori, vegghiate tante notti per imprenderla, per
appararla? E per racer d'Avicenna, di Rali, di Meſue, d'Abulcafi, e d'altri
famoſi medici Arabi, e ſomigliantemente di Ramondo Lulli, d’Arnaldo da Vil
lanova, e d'altri di que'barbari, e infelici tempi: quanto ſudor vi ſparſero
Giovanni da Bagnuolo,Gio:Battiſta Món tano: Giacomo Silvio grandiffimo
parteggiano diGalieno, Giovan Fernelio, Corrado Geſneri, Teodoro Zuingero,
Andrea de'Mattioli,Gio: Giacomo Veccheri, Gabriel Fal loppio, Felice de'
Platteri, Martin Rollando, Anſelmo Boezio, Girolamo Cardano, Giulio Cefare
della Scala, Gregorio, e Daniello Orftio, Pietro Caſtelli, Marco Aure lio
Severini, Daniel Sennerti, Girolamo de'Roſli, Andrea Cefalpini, e Giovanni
Eurnio, e Giovan Cratonc? il qual, come alcun'altro deʼmentovati, comeche con
ogni sforzo in prima ſtudiato li foſſe di contraſtare, e abbatter la Chi mica,
pure alla per fine tratto dalla verità volle appararla, e ſeguirla; e
introduſſe in Vienna, com ' egli narra, nel la Corte Imperiale molti ſalutevoli,
e nobili medicamē. ti; perchè poi ne fu da altri medici fieramente perſeguita
to, e biaſimato. Ed egli ſembra certamente ſventura ſin golar della Chimica, fe
pur egli non è anche di tutt' altre cofe grandi, e magnifiche: poichè non
s'arri fchia alcun giammai a tacciar coſa, di che pienamente non ſappia, e non
ne ſia in prima a baſtanza informato:ma folo la Chimica fi biaſima, e
s'accagiona da chi men n'in-. tende; e giugne a tanto l'invidia,e la
malavoglienza de'bef fardi, che con arrabbiati morſi fan lacerare empiamente un
meſtier,dicui appena fanno il nome.: Machi baſterebbe giammai ad annoverar
tutti coloro, Сccc chc 570 Ragionamento Settimo che le chimiche medicine
adoperano? certamente non è medico a'tempi noſtri, ch'abbia fior di ſenno, che
per be ne ciò fare, con ogni ſtudio diligenteméte nó appari la chi mica; e ſi è
ciò ſolaméte vantaggio della noſtra ctà, o della noftra fioritiffima Italia
nella quale anche a'tempiaddietro la Chimica da tutte genti,che tanto quáto
n’ebber contez za avidiſſimamente fu ricevuta. E Pier Caſtelli ad un co tal
meſtolone, che inutile, e ſoverchia a'medici giudicava fa, fciat,diſſe, in
Germaniamedicină exercere Chymiæ igna rum non poffe, &vixin Gallia, &
in Italia; e'l teſtè men tovato Daniello Orſtio: encomia Chymie non opus eft, ut
hic recenfeam: quia verum eft, quod habet alicubi Heur nius: ceſpitat, jam
profecto fine hacarte medicina. E prima dicoſtoro avea già detto il Mattioli:
medicum abſolutum effe non poſſe; immo nec mediocrem quidem, qui in Chymica non
fit exercitatus: nella qual ſentenza fu dopo ancora Da niel Sennerti, e in varj
altri luoghi l'accennato Caſtelli, tant'altri valenti ſcrittori, Ch'a nominar
perduta opra ſarebbe. Ho traſandato a bello ſtudio di avviſare quanto l'uſo
della Chimica ſi diſtenda nella maggior parte dell'arti più curio fe, e più
utili al genere umano: imperocchè l'acqueodori fere, gli olj, tanta varietà di
liſcj, che lavoranſi per orname to delle donne, le gioje artificiali, che dalla
Chimica, qua fi emula della natura produconſi, la varietà de'colori, che
formanſi per uſo della pittura, le paſte da indorare, e lac que da partire i
metalli, che continuamente adoperanſi dagli Orafi, tutti ſono effetti,
coperazionidella Chimica; delle quali la ſola operazione della menzionata acqua
da partire i metalli, diè cagione di tanta maraviglia a quel grā lume delle
buone lettere Budeo, che nel terzo libro de Af se, ebbe a dire: hujus eft id
artificium, ut vi aqua medicata, quam Chryſulcam appellant,quantulamcunqueauri
partem argento, aut cuivis metallo illitam, aut confufam,nullo di Spendio
abſtrabat, ita ut inauraturis nibil jam depereat mă do, niſi quod ufu
interteritur. Res omnino fupenda auri ar gentiquequotamcunque portionem ex ære
eximere, etiã, quod magis mireris manente vafculi forma quaſa interdum, a inani,
veluti quadam idea à materia abſtracta. E l’Alciato ammirò pariinente la
medeſima acqua in chiolando il teſto della legge Idem Pomponius, S. fed fi D.
de rei vind. nella quale ſi dice, che'l rame miſchiato con argento non può
ſepararſi,e però nõ vi può aver luogo la vindicazione, qual dicono: onde e'
ſcriſſe potuit hæc sētētia Vlpiani têpore obſer vari, hodie forte aliud erit,
etenim inventa eſt ars,qua Chry ſulcæ aqua viaurum à quocunque alio metallo
fepararipoteft, cujus rei quamvis pauci ſintartifices, vixque finguli in ma
gnis Civitatibus, cum tamen ſeparatio fieri poffit, apparèt non effe
fuprafcripta rationi hodie locum. Ma cotali brighe a'cervelli più ozioſi de'
noſtri laſciana do:poichè la chimica eſſer così giovevole, e oltremodo ne
cellaria alla medicina baltevolmente è detto, trapaſſeremo ora a diviſare delle
ſtrade, perle quali aggiugner ſi poſſa alla contezza di sì nobil meſtiere.
Primieramente colui che nel faticoſo meſtier della Chimica eſercitar ſi voglia,
conviene, che non ſolo, comc Teobaldo avviſa, ſia nel latino idioma ben
addottrinato: ma d'altri, e d'altri ancora egli abbia conoſcimento:concioffiecoſachè
in molte lingue del la Chimica i volumi ſiano ſcritti, e con tanti eniminio eri
boboli inviluppati, come altrovc dicemmo,che ben richie dono ſottiliſſimi,
c.alti cervelli per iſpiegargli: Ea fuit om nium hactenus invidia, dice di lor
querelandoli Geremia Bartio, idque præpofterum occultandi ftudium, ac labor, ut
non tantum à fe inventa artificia ſpagyrica, tanquam eleuf, na facra celarint:
ſed veterum etiam arcana, fimpliciori, apertiorique orationis genere propalata,
impofioria perplexi tate, do notarum hieroglyphicarum obſcuritate, in tenebras
ipfis Cimmeriis, & Ægyptiis denfiores conjecerint. E oltre a queſto deeil
Chimicoper lo ſciogliméto e per l'inneſtamé. to de’naturali corpi aver
diligentemente ſtudiato in fiſica, e conſeguentemente in Geometria, e in tutte
altre ſcienze ad imprender filica ſommamente neceſſarie; ſenza le qua li mal
certamente può egli il ſuo intendimento fornire,quáa tuinqueavveduto fit, e
valoroſo aſſai: così quel famolin C cc c 2 mo medico; e chimico Arnaldo da
Villanova: quicunque ad hancfcientiam vultpervenire, &non eſs philofophus,
fa tuus eft; per tacere il Morieno, e altri. Maconviene oltrº a ciò,che per
internarſi nelle cupe, e profonde ſpecula zioni della natura, ne' tre
vaftiffimi reami di quella con ra pidiffimo ingegno traſcorra, e molto in eſli
ſpii, molto co prenda, e avviſi tutte quelle coſe, ch'e' continuo aver dee tra
le mani, e vada pure per inveſtigare nuove coſe; cer cando per lande, e per
valli, e per colli, e per fiumi, e per nuovi mari Fior varj, e varie piante,
erbe diverſe, c oltr'a ciò augelli, e peſci, e altri infiniti animali, e minic
re, e gemme, e altre, e altre fatiche a sì lungo meſtiere appartenenti
volentieri imprenda, come già fecero que chiarisſimi lumi dell'arteRamondo
Lullio, e Teofraſto Pa racelſo. Oltr’a ciò egli è di meſtieri al chimico eſſer
otti mamente avviſato della natura, e delle qualità di tutti gli ordigni, e
ſtrumenti del meſtiere, e ſopratutto del fuoco; € fottilmente anche comprendere
checo’ſemi di quello sé premai ſi vengono ad accoppiarealquãte particelle, o
fali gne, o d'altre ſorte di quelle coſe, che ſi lavorano; perchè poi vengono
oltremodo a variarſene gli effetti, e l'opera zioni delle chimiche medicine.
Macertamente Nõ è pareggio da picciola barca, e troppo fuor dimiſura
n’allungherei il ragionamento,fee tutto ciò,ch'ad un perfetto Chimico abbiſogna
recar quà partitamente lo vi volesſi; ſolamente non laſcerò di nuovo d'avviſar
coſa importantisſima a mio credere a cal meſtie re: ed è, che il voler da’ſoli
libridegli autorila chimica ap parare, è impreſa oltremodo malagevole,e dura
affai,mal ſimamente a colui,cheper la filoſofia, e per la medicina ſervir ſe ne
yuole. La qualcoſa, ſicome dicemmo,ſopra tutto naſce dall'aver quella gli
avveduti ſcrittori a bello Audio con enimmi,e viluppi intralciata; e ciò fanno
per. non manifeſtare a tutta gente i ſegreti più profondi dell'ar te; nella
qual cofa adoperano certamente gran ſenno, ſe guitando i conſigli degli
antichisſimi padri dell'arte gli Ege. Del Sig.Lionardodi Capoa. 573 Egéziaci
ſapientiperciocchè;, come cancò quel giocondo ſatirico Fiorentino nel ſuo
Orlando rifatto, Le cofe belle prezioſe, e care, Saporite, foavi, e delicate
Scoverie in man non fi debbon portare, Perchè da'porci non ſiano imbrattate.
Perchè poi molti, e molti, che ſi ſono affaticati, e s'af fatican tuttavia di
ſpiegare gli aſcoſi ſentimenti de’Chimi ci maeſtri, ne rimangono certamente di
gran lunga ingan nati, e ſovente ancora ne' loro errori traggonnon volendo
coloro, che creduli troppo preſtan lor fede; masſimamen te nelle bifogne di
maggior conſiderazione della medicina, come fon quelle intorno alle qualiora
noi ragioniamo. E quel, che maggiorméte accreſce la malagevolezza fiè,che
fpesſiſlime fiate, quandofan ſembianza di parlar manife ſtamente, e alla
ſcoperta ſenza aggiramenti di parole, al lor maggiormente n’inviluppano. Omnium
rerum, avvi fa il gran Claudio Salmaſio, quæ ad hanc fcientiam perti nent
vocabula, ab ufu, & confuetudine communifubmoveritt auctores fui,
&peculiarem fibi dialectum vindicarunt, fa lis myſtis tanti arcani intelle
&tam. Fornaculam fortem, ve caminum, in quo argentum,& aurum
fundebatur,quod ore hiāti, &patulo effet.E fu ancora conoſciuto dal
ſapiêtisſimo Boile,dicédo egli quelle parole.Hæcpropterea adjicio, quod qui vel
ullatenus in rebus Chymicis eft verfatus, non poteft no ex obſcuro corum
ambiguo, & ferè ænigmatico tradendi, que docere præſe ferunt,modo percipere;
ipfis. confilium non effe, st intelligantur,nifi à filiis artis (utvocant, nec
vel ab iis quidemfine difficultate, & incerti ſucceffusexperimentis;adeo ut
eorum nonnulli vix unquam tàm candide loquantur, quă guando trita inter ipforum
fententia utuntnr: ubi palàm la quuti fumus, ibi nihil diximus. E’l dottiſſimo
Samuel Boc ciardi in favellado della chimica, ars enim ipſa tam eft abdi ta, ut
in ejus cognitione adipiſcenda oleum, & operam miſe rè perdant
pleriquemortalium. Et qui adeptos ſe putāt quaſ cæteris hanc gloriã
inviderët,tot verborü involucris,atq; am bagibus artis arcana obtegunt;ut
videant, ideo folü fcripfiffe ut nõ intelligerent? E peraddurre di ciò un ſolo
efemplo, chi non crederebbe interamente al Beguino, ea tant'altri moderni
autori eſſere lo ſpirito del nitro diſtillato coi bo lo, quelmedeſimoappunto,
che gli antichi Chimiciin, molte malattie di darper bocca uſavano? Epur la
biſogna non va così; perciocchè quel degli antichi d'altra,e più sé plice
maniera componevali; e lo ſpirito rapportato dal Be guino, non ſolamentenon
giova, anzi n'offende notabil mente le viſcere; perchè molti della lor perſona
mal capi tati ne ſono, per avere i medici ſoverchiamente al Beguino preſtato
credenza; come dicemmo teſtè di quella cattivel. la inferma: ecento, e mille
altri eſempli addur ſe ne po trebbono. E quinci avvien poi, che non ſi veggono
a’dì noſtri quelle maraviglioſe cure, che ſi leggono già per iná degli antichi
Chimici eſſer fatte;avvegna pure,che que'me deſimi lor medicamenti ne’loro
ſcritti ſi ritrovino, ma sì in viluppati, e alla groſſa diſegnati, che inal
certamente per huom ſi poſſono adoperare. E a ciò ben dovea riguarda re Pier
Caſtelli, che troppo mal conſigliato, il libro de mendaciis Chymicorum, con ſua
poca loda compoſe. Or veggali di grazia chente, e quali fian le malage volezze;
le quali intorno a un sì faticoſo meſtier s'in contrano, e come ſe ne poffa in
ſoli due meſi huom mai ſuis luppare, ficome non meno ſciocco, che malizioſo fi
ſtudia di darnea divedere, il Billicchio; quando egli ſotto gli ann
maeſtramenti di Angelo Sala per imprender quel poco, ch' ei ne feppe, tanto
tempo infelicemente logorovvi. E concioſliecoſachè cotalarte più operativa, che
ſpecu lativa fia: egli è di meſtieri all'avveduto Chimico,anzi coll' uſo, e
colla ſperienza, che col rivolger de’libri appararla; perchè poco
ragionevolmente colui i ſuoi ſcolari confor taya, dicendo Vos exemplaria Gebri
Nocturna verſate manu, verfate diurna; perciocchè quantunque in ſui libri
diGebro, e d'altri fa. moſi Chimici molto li poffa apparare, non però di meno
ſe non ſi pruova col fuoco: econ altri chimici ſtrumenti,ciò, che Del Sig.
Lionardo di Capoa che ne'libri ' de’valét'huomini ſi legge indarno di pienamen
te ſaperlo vantar huom puore; perchè il Chimico prudéte, e avveduto è da dir,
che più co'carboni, e co'fornelli che coʻlibri uſar debbia; ne per altro
certamente detto viene il chimico, filoſofo pe'l fuocò. E comechè dura oltremo,
do, e malagevole talcoſaneſembri, pure chiunque d'in tendere a sì glorioſo
ſtudio preſume, ſappia innanzi tratto, ché Της δ' αρετής ιδρώG θεοί πτοπίροιθεν
έθηκαν Α'θάνατοι, μακρος δε και όρθιG- ομG-επ' αυτίω, Και τζηχυς το πρώτον:επήν
δ' εις άκρονίκητα, Ρηϊδίη δ'ήπατοι πέλα χαλεπήπτε εούσα. Innanzi a la virtù
poſto i ſudori Hannoglieterni, & immortali Dü: Aleiper lungo, ed erto calle
vaſſi, Che duro inprima appar, ma quando alfommo Si giugne, agevol èquel,
ch'aſpro apparve; ma per paſſar ad altro non fa certamente meſtiere, ch'Io
avvili, potendofi agevolmente da quel ch'è detto cogliere, che dee colui, che
pretende avanzarſi in medicina ſtudiar in tutte le ſette di quella; ne in
meſtier di tanta conſide. razione, quant'è la ſalute, e la vita degli huomini
haw egli a riſparmiar fatica in rivoltar qualunque libro, ne ar roffarfi di
ſpiarne da qualunque perſona, per appararne co ſa di comun giovamento, e di
qualche pro-alla inedicina; perciocchè ſicome avviſa l'intendentiſſimo Plinio:
nullus adeò malus liber eft, ex quo non quidpiam utilitatis erui pof fit. E
Giuſeppe della Scala: ego ſum is, qui ab omnibus di Scere volo,neque tam malum
librumeffeputo, ex quo non alia quem fruitum colligere poffim. Ne è perſona
cotanto ſcioca ca, e balorda, da cui talvolta non poſſaſi apparare qualche coſa,
eſſendo vero il detto d'Eſchilo πελάκι του και μωρος ανήρ κα @ καίρον είπε, che
per tacere altri, il Padre della giocoſa poeſia toſcana nell'Orlando rifatto,
così gentilmente cantando ſpiegò Haqualche volta un Ortolanparlato, Cofe molto
a propoſito a la gente. Ma particolarmente de’medici favellando ſcriſſe a tal
pro, poſito Conſalvodi Toledo famoſo medico de'ſuoi tempi, e Arciveſcovo di
Lione: prudens le&tor, vel auditor, omnes libenter audit, omnia legit: non
fcripturam, non perfonam, non doctrinam Spernit:ab omnibus indifferenter, quod
fibi deeffe videtur querit, non quantum fciat,fed quantum igno ret, confiderat.
E'l Quercetano anch'egli dice, ch'un co tale ſconoſciuto contadino tolſe
d'addoſſo d'un gran per ſonaggio la ſeccaggine d'un moleftiffimo capogirlo, cui
no aveapotuto porre alcun compenſo, e vani erano riuſcitii molti, e varj
conſigli de' valentiſſimimedici. E fenza dia partirſi da queſta noſtra Città,
egli è gran tempo, ch'ado perar folevanſi dalla gente volgare efficaciffimi
rimedi per li bozzoli della gola, e perle ſcrofole; e al mal della pun ta
guarire alcuniuſavanocon feliciſſime riuſcite,aftenendo ſi da’ falafli, l'olio
del lino, l'olio dell'olive, il ſangue del becco, il ſalnitro, l'incenſo, la
pece, la raſchiatura delde te del Cinghiale, i fiori del papavere roſli, la
calce, il gen giovo, e'l zafferano; nella colica la cenere d'alcuni legni,
nella riſipola il ſangue della lepre, il ranno, e l'acqua del vitriolo, e della
calce, e altrimolti medicamenti, che non fa meſtieri, ch'lo quì rapporti;il
perchè ſembra degno, an zi di commendazione, che no l'avviſo del Paracelſo, il
qua le vuole, che'l medico non ſempre debba uſare co'letterati, e bazzicar
nelle ſcuole, come ſe da lor ſolamente, e non altronde ancora s'apparaſſe tutto
ciò, ch’alla medicina ri chiedefi; ma gli convenga anche girne dalle
vecchiarelle, dalle zingane,da'ciurmadori, e da’vecchj, e ſperimentati
contadini; dalle cui ſcuole talvolta apprenderanne aſſai più, ch’altrove per
avventura non farebbe; e quinci fi coglie, the'l medico, non menche del chimico
è detto, debba an dar ſe poſſibil fia,per dirla co'verſi del poeta Peregrinando
da'piùfreddi cerchi Del noſtro mondo a gli Etiopi acceſi. E queſto ancora,
acciocchè egli avviſar poſſa la varietà, o la natura delle terre, delle
minicre,dell’acque, degliani mali, dell'aria, delle ſtagioni, de'coſtumi,
de'cibi, delle bevande, delle medicine, delle malattie, e delle maniere di
ciaſchedun paeſe. Ma con tutto, che tanto, e tanto af faticato egli s'abbia il
medico per apprender le contezze già dette,no dee ftimar già ſe eſſere al fommo
grado della medicina pervenuto: concioffiecofachè ne men vero ſia ciò che
l'Elmonte dice, che in tutta l'Europa appena un ſolo medico ſi trovi:imperocchè
queſto ſteſſo ne'maggiori bi ſogni troveraſſi dal ſuo ſaper ingannato; come ſi
vide, per tacer del Paracelſo, nell'Elmonte medeſimo, che forſe quell'uno ſi
era, il quale non potè ſe medeſimo del mal del la punta guarire;e pure di
queſto male,e de'ſuoirimedj egli più d'ogn'altro medico ragionevolmente
filoſofaro avea. Ma laſciando ciò daparte ſtare, mi par tempo omai, che
veggiamo, quali efſer debbano i maeſtri, i quali introdur poſlano lo ſcolare al
conoſcimento di táte ſcienze, quali ab biamo avviſato ellerneceſſarie alla
medicina. E conciofi ſiecoſachè di ſopra ſia per noi detto, infra l'altre coſe
al medico la notizia dell'erbc ſommamente abbiſognare; conveniente coſa mi
parrebbe, acciocchè gli ſcolari in ciò avanzar ſi poteſſero, d'un compiuto,
eperfetto giardin de femplici lenoſtre ſcuole ornare, e quivi un'eſpertiſimo er
bolajo ritenere, il quale gliele doveſſe ad una ad una ad ditare, con iſpiegar
loro la natura, i nomi, e gli effetti di quelle; acciocchè avveduramente poi
ciaſcuno uſar le do velle. E ciò tanto monta al comun deila medicina, che
ragionevolmére il Caſtellicosì ne ſcriſſe: ficutmedicus fim plicium ignarus non
eft bonus medicus, ita Academia, quæ horto fimplicium publico caret, non eft
perfecta Academiae. E poco addietro egli medeſimo avea molti, e molti danni
annoverati, che per non eſſer nelle ſcuole della medicina il giardino
de'ſemplici, avvenirnefogliono. E certamente niun maiſaprebbe, comechè ſagace,
cavveduto molto ſi foffe, giugner al vero conoſcimento de ſemplici alla me
dicina appartenenti, ſenza aver huom, che d'efli affai pie namente informato
innanzi tratto diligentemente gliele inſegnale. La qual coſa fu da Galieno
avviſata, allorche dilic, parlando de'ſemplici: Convien certamente, che non
Dddd nina, una, o due, o tre volte,ma tratto tratto gli vada minutame te
offervando con qualche'maeſtro, il qualgliele additi,come bocca gliele inſegni.
E altrove: Quinci immagino i giovani valorofi eller non pocoſpronatia
comprender la materia de medicamenti; eglino medeſimi non una, o due, e tre
fiates ma ſoventi volte ravviſandola; concioficofachè la vera co tezza delle
coſe apparenti coldiligente gratamento de ſenfi ap prender fi foglia. Ed
altrove ancora biaſimando coloro, i quali di ſapere per veduta le coſe
lordiſegnate non curano: diſſe:Sonocoſtoro fomigliantiffimi a Banditori, i
qualii ſe gnali tutti, e i marchi d'unoſchiavofuggitivo, comeche mai non
l'abbian veduto, a ſuon di tromba vanpubblicando; im perciocchè apparando ciò
eglino daaltrui, comecanzone il vă per tutto poirecitando; che ſe per avventura
intervenije, cbe il pubblicato a bando loro dinanzi capitale, eglino certa
menteper tutto ciò no'lravviſerebbono. E ciò tanto mag giormente avviene,
quanto,che da’libri ſolamente degli Icrittori non ſi poſſono agevofmente
apprendere, tra perlaz traſcuraggine di coloro nel dipignergli, e diſegnargli,e
per le contele, ch'intorno a quelli ſovente infra ſe hanno go anche pe’molti, e
moltinomi, che i ſemplici hanno, chia mandoſi diverſamente da ciafcuno. Coſa,
la qual cotanto fe ſudare, e affaticare il doctiſſimo Ruellj; perciocchè, co mc
egli dice: in berbulæ cujufdam facie repreſentanda, no tas tam variè delineant,
utquidvisaliud potius, quam ſtir pemipfam demonftrare videantur: aut cerie
eandem multi plici prorſus effigie: quæ antalis ufquam effe poffit pleriqaw
omnes dubitant. Quare me tantorum impulit virorumdift fidium, per vaftas ire
regionum multarum ſolitudines, invia montium juga peragrare, lacus inacceffos
Inftrare, abditas terra fibras fcrutari, hiantes vallium ſequi ſpecus, vel cum
corpufculi bajus periculo præcipitia nonnunquam tentare, ut inſpectu eriam, ne
dum cognitione res ipfas comprehenderem. E ciò certamente fu non poca fatica
d'un tanto valenthuo mo, e convenevole a ciaſcuno, ch'a sì fatro meſtiere in
tender preſuma.Se non ſe noi in ciò riſparmiar ne potrem ino, con apparar quì
in un ben fornito giardino tutte l'era be da ! be da confarſi ad ulo di
medicina, ſenza andarle raccoglie do con tanto ſconcio, e riſchio delle noſtre
perſone. Ag. giungafi a ciò, ch'abbiamo detto che l'orto de'ſemplici tão to più
nelle noſtre ſcuole, ed entro queſta medeſima noſtra Città biſognevoi ne fia,
quanto che, come ben Dioſcorido avviſa ad acquiſtar pienamente cotali
conoſcenze ne con vegna, e nel tempo,che germogliano, e nel tempo, che creſcono,
e nel tempo, che languiſcono le piante diligen temente confiderare: τον δε
βελόμενον εν τούτοις εμπειρίαν έχεις deti na to ye try agtsQuñ Erasnov ix tūs
gãsexuá(over, aig ade Ogexedeafso παρτυγχάνειν • ούτεγαν ότι βλάση εν πτυχηχώς
μόνον δύναται το ακ μαζον γνωρίσει ούτε έωes κως το ακμάζονα και το αρτοφυές
επιγνώναι.. Perchè a ciò riguardādo ilComū di Piſa,di Perugia, di Bo. logna, di
Mompelicri, di Parigi, e d'altre molte Città d'Eu ropa,hánocógrádiſſima loda
nelle loro ſcuole i séplicitut tiin ragguardevoli giardini piātati.Maſopra
tutti in ciò s'a váza il famoſiflimo, e comendevole Orto di Padova find a
ducento anni addietro di tutti i più ſtrani, e ſconoſciuti sé plici, ch'a
medicina ficcian meſtieri compiutamente forni to; del qual mai ſempre han
tenuto cura huomini in tal meſtiere, e in tutt'altre parti di medicina
intendentiflimi: ficome certamente fu Luigi Mondelli, Luigi dell' Anguil Jara,
Melchior Guilandini, Giacomo Antonio Cortufio, Proſpero Alpino, Giovan Prevozi,
il Cavalier Veslinci Giovanni Rodio, ed altri molti per le lor famoſe opere in
iſtampa pubblicate almondo chiariſſimi. Ne certamente con táto ſtudio ciò fatto
avrebbono que fapientiflimi huomini, cotanta ſpeſa, e tempo logorandovi, fe a
più d'una pruova il grá biſogno di sì fatto giardino pie namente avviſato non
aveſſero; il qual ſenzadubbio più, ch'altrove, in queſta noſtra Città, in queſte
noſtre ſcuole apertamente ſi ſcorge, non avendovi ne pur uno mezzana mente
inteſo de’ſemplici, a cui per una, comechè non mol to ſtrana, e ſconoſciuta
pianta ricorrer ſi poſſa; da poi che la paffata piſtolenza tutti gliene tolſe.
Intanto, che l'av vedutiſlimo Giuſeppe Donzelli, che in ciò pochi ebbe a ſc
pari, infra i ſemplici, de'quali in una cotal bottegaalai fi Dddd 2 1 -mofaa
compor s’avea la Triaca, fei, o ſette adulterini un giorno riconobbene. Or che
della noſtra Città, e delle no ftre ſcuole quel famofo ſcrittor direbbe, che sì
ebbe a ſcla mare? Conveniens in omnibus V niverſitatibushurtus fimpli
ciumpublicus non folum ad warięweden perfectionem Academia, &ut
diſeantjuniores medici, atque Pharmacopei,feu ad ur bis ornamentum, decus, fed
quod maximum, quod optă dum, ad civium ſalutem neceſſarius omninò eft. Quot
nãq; quafo errata à pharmacopæis in fimplicium delectu committi tur? quot agri
indè necantur? E cócioſliecoſachè ſia dimoſtro ſopra più,e più altre con tezze
a un medico abbiſognare; e ſpezialméte lo ſtudio del le lingue, farebbe
meſtiere introdurre ne'noſtri ftudj, mae Ari di lingua greca; perciocchè séza
quella malagevolmére potrà ne’libri degli antichi huom vātaggiarſi;eſlendo quel
li in greca favella compoſti; e comechè nel latino traporta ti già tutti or ne
ſiano; non però di meno molte fiate i vol garizzatori non a baſtanza eſſendo, o
della materia, o del la lingua intendenti, in non pochi errori ſono incorſi; e
per tacer d'altri, o quante, e quante fiatc vien ripigliato da' Galieniſti, e
tolto in fallo ſconciamente Avicenna peraver Jui troppo di leggieri preftato
fede a coloro, che nell'ara beſco idioma avevano i greci autori traslatati.E
certamen te qual inai Xi!rem noi per ficuro, e fedel traslatatore,ſe an che
Plinio, anzi il inedefino Cicerone,che così pratico fu della greca favella, pur
malamente alcune delle greche pa role nel latino trafportando,da molti
avvedutiſſimi ſcritto ri ne vien forte accagionato? Ma meſtier anche farebbe ri
ſtorar la vuota ſcuola della filoſofia, ein man de'medici ri porla, come già
prima coſtumavaſi. Ma della notomia lo non ſo che dir mi debba; certiſtima coſa
eſſendo, che do po Marco Aurelio Severini le noſtre ſcuole mai non abbia no
Notomiſta avuto; ſenzachè il medeſimo Marc Aurelio, o perchè di fcco cotal
biſogna le riſpondeffe,o che gli fta tuti, no’l richiedefſono, pochiſſima cura
ei ſe ne dava. Egli, silo non vado errato, una faccenda di tanta conſiderazio
ne, e di tanta lieva si dovrebbe eſſer ordinata, che un di ligen Del Sig.
Lionardo di Capoa 181 ligéte notomiſta alle ſcuole s'introducefle, e facédofi
ada giare di tutto ciò che biſogno a lui fia,un giorno alınen pec ogni
ſettimana la notomia diqualche particolar membro d'animal faceffe; perciocchè
in sì fatta guiſa non ha dub bio, che a'giovani, perchè perfetti notomiſti
diveniſſero, agevole ſtrada fi ſcoprirebbe. Non fo poi lo fe ben fitro vino
inſieme unite le due cattedre della notomia, e della cirugia, e come di due
peſi cotanto gravi un medeſimo let tore acconciamente ſcaricar fi poſſa; perchè
loderei, che queſte due ſcuole amendue di ſomma conſiderazione, e d' igual
fatica ſi partiſsero, e dibuona ragione da due valen ti maeſtri ſi reggeffero.
E fomigliantemete anche direi del. le matematiche, le quali cotanto biſognevoli
fono al co mune, che non ſolamente per la medicina, e per la filoſofia fan
meſtieri, ma per l'arti della guerra ancora, c per la na vigazione, e per le
mercatanzic, e per tutto il civil con mercio. Ma oltre a tutte queſte ſcuole,
che noi abbiamo dovrebbeſila ſcuola della Chiinica imporre; la quale per
quel,chie già ne fia baſtantemente per noidetto, così gio vevole, e neceffaria
è al genere umano, ne da'folilibriſen za la guida d'un buono, & cccellente
maeſtro apparar mai baſtantemente ſi puote; e non ha il torto l'avvedutisſimo,
ed aſſai ben conoſciuto di sì fatte coſe Monſignor Giovan ni Cianpoli, a
vituperare, e biaſimare la dappocaggine delle ſcuole p no avervi la chimica
introdotta; ma ſpezial méte al noſtro ſtudio la ſcuola della chimica fa
meſtiere: avédoſi a far notomia dell'acquc minerali di Pozzuoli, e d ' Iſchia,
alle quali i noſtri medici ſenza eſſer della lor natura conoſciuti grå novero
d'ammalati poco faggiamente códá nano; quátúque talvolta non pocx ſciagura
necoglieſſe ad alcuno; alcheanche por mére dovea il noſtro Capaccio, quãdo
diſſe: Medici hoc têpore (Sed quis medicus? quiGaleni tantum methodum
legerit?qui impunè homines occidit? ) cum mihil reliqui habeant medendis
corporibus, vel cum re ipfa. ignorent, quo morbigenere ægri fins affecti, ad
aquas Baja. nas eos rejiciunt, quas nemini unquam prodeffe cognovi. No. vi
tamen ftolidos noftræ ætatis homines, quificaci eò profici Scan ' 582
RagionamentoSettimo fcantur, jam ſe videre, caciores indè reverſicontendunt. E
certamente una cotal biſogna a comun giovamento fornir fi dovrebbe; perciocchè
non abbiam noi fin'ora ſcrittor di lieva avuto, ilqualdiſtintamente eſaminate
l'abbia, come chè il Iaſolino ſcriva eſſerſi valuto dell'opera d'un certo
Chimico per eſaminare i bagni d'Iſchia; dal quale ingan nato, follemente
credette eſſer non ſo quali miniere di fo le, e diluna in quelle acque. Ma per
accennar qualche coſa dell'altre parti della mea dicina: Io richiederei, che i
Lettori di ella, oltre alle yolgari opinioni d'Ippocrate, e diGalieno ſpiegar
dover fero tutt'altre ſentenze degli antichi, e moderni autori,ac ciocchè gli
ſcolari, ſicomeGalieno, c altri famoſi valend huominigià ferono, di tutto ciò
chenella medicina ſi trat: ta,appieno inforınar ſi poſſano; e ſe bene sì fatte
contezze di poco, o niun momento fieno alla medicina, avendo noi a fufficienza
dimoſtrato eſſer quella per ſe ſteſſa incerta, e fallace, e che niuna ſetta di
quella abbia in ſe dottrina, che vi ſi poſſa per huom alcuno ſtabile fondamento
porre, ne coſa di certo mai determinare; impertanto potranno agevolmente
ayviſare i giovani in ponendo mente alla va rietà delle ſecte, e dell'opinioni,
e alle varie, e ſoventi fia te contrarie maniere di medicare, che fra i medici
ditem ро in tempo ſono venyte in ſu, qual via nel meſtier del me 'dicare debban
genere, Ne in queſta guiſa alcun contraſto allo ſtatuto del noſtro Regno mai fi
farebbe, ficome alcuni daquelle parole: li bros authenticos tam Hippocratis,
quamGaleni in fcholis da Geant: vorrebbono argomentare, c ftabilire; e che
altro, che la dottrina d'Ippocrate,e di Galieno nons’avelſe a inſegna: re;
cócioſliecofachè col dipartirli talvolta da Galicno,i sé timenti di Galieno
medeſimomaggiormente fifoguano; ne potrà a buona ragionechiamarli ſeguace di
Galieno colui, il quale non faccia, come Galieno adoperò, ſcegliendo datutti
libri il migliore, ſicome a ciò fare egli i ſuoi ſcola. w inſtantemente
conforta. Solo - nó laſcerò d'avvertire ſo pra l'accennato ſtatuto, ſecondo le
fpoſizioni d'alcuni, che sion vietò la legge per quelle parole,il ſeguire,
einſegnare; ancoraaltri nonininori autori; coſtumando le leggi, qua do vogliono
riſerbare, e vietar tutt'altre coſe, diſegnarle con quelle particelle duntaxat,
tantummodo, folum, che i Dottori chiamano taſſative; ſenzachè, ſe colla mente
del Legislatore vogliam noi ſporre la legge, come ragio, nevolmente è da fare,
certamente non che lo ſpiegare an, che altri nomen famoſi autori vietato ne fia,
anzi egli n'è apertamente conceſſo, o per medire impoſto; conciollie cofachè
l'intendimento del legislatore in ordinando una si fatta legge,, altro
certainente ſtato non ſia, ſecondo che da quella ſi puòcomprendere, ſe non ſe
di formare un, perfetto ge valentemedico; il quale, conte già abbiam di
moſtrato,cal divenir non potrebbe, s'egli di tutto ciò che fin'ora in medicina
è ſcritto piena contezza non abbia. E. certamente ſe l'Imperador
Federicoamici!limo, e bene in formato delle buone lettere', che fe lo ſtatuto,
e Pier delle Vigne,per quanto cõportaffer que'barbari tempi, ſciéziato huomo,
che ſcriſfelo, econrpilollo, aveſſer mai potuto di tantie sinobili ritrovati, e
dottrine de" novelli medici, e filoſofanti alcuna concezza avere, eglino
ſenza dubbio non pure permeſſo,ma commendato anche avrebbono,che nelle ſcuole a
pro del Comune ſpoſti, einſegnati ſi foffero. E tanto più del noſtro avviſo ora
noici rendiam ſicuri, qua to che riguardando alla volgar coſtuma di quel
barbaro, e rozzo ſecolo, veggiamo apertamente, che corale ſtatuto, o no
mandolfi mai di que’tempiad effetto;o pur ſe andò avā ti, fu preſo ſempre in
quelmedeſimo ſentimento, nel quale ora noi lo ſpiegamo; inperciocchè in Padova,
e altrove la dottrina degli Arabiallor pubblicamente ſi ſponeva; e ab biamo,
chepiù che d'Ippocrate,e di Galieno,i medicaméti di Ralis,d'Avicena,c di
Meſueallor ſi coſtumavano; anzi in queſte noſtre ſcuole medeſime,laſciati da
parce i Greci maeſtri, con comandamento đe’noftri maeſtrati il trattato delle
febbri d'Avicenna allor leggevaſi,per racer del nono di Rafi: cum publico bujus
almeCivitatis juſu ordinariams Avicennale &turam de febribushoc anno
interpretarer, fcrifle già 584 Ragionamento Settimo 1 gia Paolo Tucca, famoſo
maeſtro in medicina di queſta noſtra Città. Ne altre doitrine in vero, o
diviſamenti,ſe nó que'degliArabi,quà sépre ſono ſtati ſeguitati in medicá do,
licome già baſtantemente per noi ſi diffe; e tuttaviade' noftri cempi ancor
ſeglionfi; ſegnal certiſſimo, che i me deſimi ancora ne ſiano ſtati ſempre
nelle ſcuole de maeſtri inſegnati. Ne Giovanni degli Argentieri, oftinatiſlimo
nimico di Galicno, e de'Galieniſti tucci,havrebbe quì midi potuto liberamente
mandar giù le loro doterine, aper tamente cozzandovi, ſe per legge ne foſſe
ſtato impo ſto a dover āzi Ippocrate, c Galieno,che la verità medeli ma, e la
ſperienza ſeguire. E che direm noi di cotanti al tri autori, che da ſentimenti
di Galieno traſandando, ove la verità il richiedeva apertamente il
contraſtarono? certa mére male a lor huopo táta tracotáza impreſſa avrebbono,
ſe contro i divieti imperiali altronde, che da Ippocrate, e da Galieno raccolta
l'arte faticoſisſima della medicina nel - le ſcuole inſegnata aveſſero.E lo mi
fo a credere,che tāto ito doposì fatto ſtatuto,comeche foſſer preſi a leggerfi
i di ſegnati autori, pur tutt'altro chequelli ſpiegar dovevanſi;ne in modo
alcuno da’ſentiméti di coloro la medicina tutta di pēder poteva: poichè allora
pochisſime opere d'Ippocratese di Galieno dall'arabeſco nel latin linguaggio
ſconce,e gua íte, e tutte piene di barbarie erano traportate: e l'opere
d'Ippocrate poco certamente a capital tenute furono dagli Arabi; de'quali la
doctrina allora per tutto trionfando fio riva; intanto, che Avicenna per comun
yoce era principe della medicina chiamaco. E tanto parmial preſente della
traccia, che tener debbano nell'inſegnare i pubblici mae ſtri della medicina
aver baſtantemente accennato. Ma lo ben m'accorgo, che alpreſente ne verrebbe a
huopo, chu attenédo le promeſſe già fatte, diviſar de’mnaeſtri della filo Cofia,
comeanch'esſidebbiano eſſer liberi, e non appiccar-, fi all'altrui autorità
nell'inſegnare; ma di ciò nel ſeguente ragionamento farem parole, Rai più
illuftri, è più glorioſi pregidi que ſta oltre ad ogn'altra
d'Italia,belliſſima,e amena Città,è da giudicare: p mio avviſo laver ella
ſempremai, o prodotti, o al tronde a lei venuti corteſeinente accolti, % 9 e
albergati pellegrini ingegni, e ſaggi, ſcorti, e liberi nello inveſtigare i
ripoſti, e profondimiſte rj della natura. E nel vero per non far parole de' più
anti chi tempi, chi è di voi, che non ſappia, che quìBernardi no Teleſio, cui
diede ilcuore innanzi ad ogn'altro di fron teggiare i maggiori tiranni della
filoſofia, che quella avea no a vile, e duriſſimo fervaggio miſeramente
condotta, co poſe, e diè fuora que ſuoipregiatiſſimilibri della natura delle
coſe? Chi è di voi che non ſappia, che quì pariméte poi Sertorio Quattrománi,
Aſcanio Perfio, L.atino Tácredi, Tomaſo Cápanella,Vincézo,c Giovan Battiſta
della Por ta, Col’Antonio Stigliola,Frāceſco Muti,e altri, e altri egre gj
filoſofanti ſcosſero virilmente il giogo impoſto alle ſcuo. le dell'autorità
degli antichi mnaeſtri, della quale dubitar Еесс punto non che farle
alcuncontraſto avrebbe il coinune cõ lentimento delle genti a ſomma ſcempiezza
recato? Vlti mamente, chi è divoi, che non ſappia, e che non abbia co’propi
occhjveduto, che quì cbbe cominciamentoquel la nonmai baftevolmente commendata
accademia, che de. gl'inveſtiganti appellofli, ſol perchè era intendiméto di
lei, poftergata ogni qualunque autorità d'huomo mortale, alla ſcorta della
ſperienza ſolamente, e del ragionevol diſcorſo andar dictro per iſpiar le
cagioni de'naturali avvenimentia Echi giammai potrebbe colle dovute lodi tutti
i nobili fpi riti, che in tal famoſa aſſemblea felicemente filoſofar fi vi dero
rammentare? Ella ricoveroſſi, come voi ben ſapete, ſotto la protezion di D.
Andrea Concubletti già Marche fe d'Arena, ch'ebbe l'animo intefo a vincer la
virtù de’luoi maggiori, i quali fur ſempremai larghiſſimi favoreggiato ri delle
lettere più eſquiſite; e annoverò ella fra'ſuoipiù ca si un Monfignor Caramuele,
un Daniello Spinola,un Frá ceſco, e Gennaro d’Andrea, un Gio: Battiſta Capucci,
un Luc' Antonio Porzio, un D.Michele Gentile, un To maffo Cornelio, e altri, e
altri curiofi, e ſagaci interpreti della natura, che collor fenno, e ftadio,e
gloriofe fatiche generoſamente s'oppofero all'impetuofo torrente delPabu fo,
chegià ſtabilito, e accreſciuto diforze dal conſentimen to deglihuomini,e
dallautorità che gli avea data il tempo, alvero, e alla ragione ſovraftar
avviſavanſi; huomini vera mente d’immortal gloria degni, e certamente da commen
dare, e da avere in pregio vie più di que' primi, che alla fi Jofofia diedero
operá, ecominciamento; conciofficcoíachè; fe eglino difcorrendo regolatamente,
e oſſervando con dili genza saperfono la ftrada alla contezza delle coſe
naturali, altro veramente noh fecero, ſaluo chc fecondare quef rego lamento,
per lo quale caminar fogliono l'arti, e le fcienze, e l'altre coſe tutte di
quaggiù, le quali cominciando da roz zi, e baffi principi, dal cattivo, e men
buono, al buono, indi al migliore e alla fine a qualche ſtato di perfezione
aggiuo gono; ne a queſta opera fare altra malagevolezza s’incontra di quella
dell'applicazione,e della fatica,ſenza le quali non è dato agli huomini
acquiſtare utile, o onore veruno. Ma ove p rammendare ciò che p fatal legge
delle coſe umane, o per altro accidente fia venuto una fiata in dichinamento, e
corruttura, primieramente hanſi a ſuperare i gravi impedi menti del mal abito
già fatto per lo conſentimento della moltitudine, e per la lunghezza del tempo
fortemente ra: dicato negli animi; e dopoauer ciò operato durar fi debbom no
parimente le medeſime fatiche, ſe non maggiori, che durarono que'primi autori,
e padri della filoſofia; perchè non è lingua,non è penna,che gli poſſa a
baſtanzacommen dare. Maio perchè tante volte pazientemente avete degna to
d'aſcoltarmi,o Signori,in queſto ultimo mio ragionamen to, che dovrò fare, ſe
non ſe incoraggiarviad una sì bella impreſa di liberamente filoſofare, e
diviſarvi altresì quanto di liberi filoſofanti, e maeſtri le noſtre ſcuole
abbiſognino; ne a ciò fare veruna induſtria, veruno ſtudio, veruna fati ca
reputerò vana, e inutile: imperocchè ove ſia ſeguito il mio avviſo., ſpero, che
a voi ſomma gloria alcomun ſom mo pro, camefelice termine di queſte poche
fatiche, che per altrui utilità ho durate, ſia per ſeguirnezeper dare omai
comincianento,dico, ch'egli ſembrerebbe ad alcuni ben fatto aſſai, che s'aveſſe
a rinovellare l'antico, e ormai per lungo ſpazio in tralaſciato uſo di ſporre a
parola p parola il teſto d'Ariſtotele. E quancunque il miglior partito ſareb
be,intorno a ciò imitando le più famoſe ſcuole d'Europa,ri pigliare
l'antichiſfima traccia già tenuta da’ Greci nello in ſegnare, Oye poi queſta
non li voleſſe ſeguire, certamente giudicherei il men male, che ſi faceſſer le
chioſe in ſu'l già detto teſto d'Ariſtotele; imperocchè in sì fatta maniera
grande ſcemo ne verrebbe il numero innumerabile di quel le quiſtioni, in cui,
e'l tempo,e'l cervello, non men de’mac ſtri,vilogorano tutto di milerevolmente
gli ſcolari; sì ve ramente, che poi i maeſtri a quella guila, e con quella li
bertà l'opere d’Ariſtotele aveſſero a trattare, colla quales cgli quelle di
Platone, e d'altri antichi trattar ſolea. E co me a ſuo eſemplo fecero poi
delle ſue mcdefime Tcofraſto, Ermia, Filopono, caltri, e altri ſuoi più nobili
ſeguacije Ессе 2 clio 588 Ragionamento Ottavô chioſatori, cioè a dir, ch'egli
s'aveſſe minutamente a cri vellare ogni fuo detto, diſaininar a fpiluzzico ogni
ſua ra gione, econ nuovi,ė nuovi ſaggi provare, e riprovare ogni fperienza,
ch'egli aver fatto teſtimonia nelle coſe della na tura; e ficomene'miſterjdalla
Divina eterna fapienza, che ne ingannar ſi plote, ne ingannare altrui a noi già
rivelati, nő dobbiamo più oltre inveſtigare; così nelle dottrine in. fegnatene
da’šiloſofi,e particolarmente dallo Stagirita,egli fi dee ſempreinai ſtare in
ſu l'avviſo,ed aprir, come fuol dir fi, mille occhi, e mille, per veder ſe ciò,che
egli nel ſuo indice ne ſcriſſe ficonformi coll'ampio, e immenſo volun
medell'Vniverfo. Ma perchè chiaro appaja, e ſi poſſa quaſi diſli toccar cô mani
quáto mal ſicurain quallivoglia materia ſia la dottri na d'Ariſtotele,ne daremo
ora, comechè breve, qualche faggio; e primieramente in que ſentimenti, che da
criſtia no orecchio fenz'orrore no potrebbongiammai udirſizcioè, che l'eterno
Dio non ſia il gran fattore dell'Vniverſo, e de gli huomini: ne di noi punto fi
brighi, ne con noi voglia, o poſſa uſare in alcunaguiſa, ne in ſonno, ne in
vegghia: e ch'egli non ſia colui, ond'ogni bene avvenga. Che la per
fertabeatitudine fol nella preſente vita neli conceda, ſen za alcun godimento
nellaltra poterfi ſperare. Che la det ta beatitudine nella fola virtù non
confifta: ma le fac cia meſtiere de'beni della fortuna: dipartendoſi dal parcr
del ſuo Macſtro Platone (cotanto commendato dal gran Padre Agoſtino ) colà ove
diſſe, cſſere la perfetta beatitu dine non altrocheil godimento di Dio. Che
buona ſia l'é pia legge di Minoffe,il quale volca, chelecito foffe il pec car
cótra a natura, acciocchè nó creſceffe oltre al cõvene vole il numero
de'cittadini. Che gli huomini abbian la vera fapienza: burlandoſi di Simonide,
che detto avea effer Dio folamente il ſapiente; e ftizzandoſi contro Platone,
ches ſcriſſe eſſere l'umana ſapienza vile, e bazzeſca. Che igio, vani debbano
fraftornarhi, comcincapaci, dalle morali dio fcipline. Che la modeſtia non fia
virtù: nc virtù di fortez za ſia il ſofferir pazientemente le ingiuric, la
povertà, gli 1 efilj, la morte, o altri infortunj: le quali coſe, come em pie
la medefima gentilità condannerebbe, che fortiſſimi sé, za contraſto ſtimò
Meltiade nel ſoſtener la prigionia,Temi ftocle l'eſilio, Socrate la morte. Ma
che direm poi di quel ſuo ſentimento dietro all'eters nità del mondo,tante, e
tante volte da lui ridetto, e pro varo, facendo contro il vero arme i
ſofiſmi?Che dell'empie fuc beſtemmie intorno alla natura del grande Iddio, il
qua le ſcioccamente egli chiama (wor, cioè a dire animale. E a lui di vantaggio
egli l'onnipotenza, ela providenza, elas libertà dell'operare empiamente toglie;
oltre a ciò non potendo talor la fuafolle, e pertinace miſcredenza celare,
apertamente dice eſſere la religione un politico ritrovato da tener a freno le
genti, e che la dignità del Sacerdozio debba compartirli a' ſoldati veterani. E
che diremo intor no alle pene, e premj, che dila ſi danno ſecondo l'operes che
di quà per noi fatte fono: E che direm’anche dello in ferno, il qual egli dice
effer certamente novella da vegliar de; morendocon noi l'anime ancora, ne altra
coſa di noi reſtando dopo morte, fe non ſe il freddo cadavero, ſenza,
fentimento niuno? e tali alla per finc Ariſtotele ne trattadig come Se fate
foſſim’anime di ferpi. Ma non verrei mai a fine, ſe tutte quì diſtintamente re
car lo voleſſi le fue empie, e peſtilenzioſe doctrine, dalle quali contaminato
il miſcredente Arabo chioſacore in's prima; e poi altristolſero l'occaſione di
comporre, e di co pilare quell'infame libro,de'tre ſeduttori del mondo. Quin ci
apertamente fi pare con qualita ragione detto aveſſe già Lattanzio Firmiano:
Deum non colit, nec curat omninò Ari Hoteles: e prima di lui il grande Origene
nel libro, cli’ei ſcriſſe cótro Celſo Epicureo,avea già detto eſſere Ariſtote
le piggiore aſſai d'Epicuro; e dipiù biaſima Origene mole? altre malvagità,e
ſcelleratezze inAriſtotele,e la peripateti ci ſcuola tutta ne taccia; e'l beato
Serafino da Fermo, e S. Vincenzo Ferreri abboininando, e maladicendo la dottri
na d'Ariſtotele, e quella d'Averroe ſuo ſeguace ſoleva.gri dareeffer
quellephialas ire Dei projectas fuper aquasfapië tiæ chriſtiane, unde facte
furtamare, ficut abfynthium; per chè anche la venerabile ſua ordine avca
ſeveramente proi. bito a’ſuoi frati il leggere l'opere d'Ariſtotele. E ben ſi
paa re, cometeſtimoniano Laerzio Diogene, Ammonio, Cle mente d’Aleſſandria, e
altri, ch'Ariſtotele rivolto fi foſſes agli ſtudidella filoſofia per
ordinazione di quel Diavolo, che ſotto il mérito nome d'Apolline già dar ſoleya
le riſpo Ite in Delfo;ne altra cagione ritrova San Girolamo alla Arriana ereſia,
che dottrine d'Ariſtotele: Arriana berefis argumentationum rivos, de
Ariſtotelæo forte mutuatur: fic enim Arrianos inperfidiam iviſse cognovimus,dum
Chri Si generationem putant ufufaculialligandam, relinquunt Apoftolum,
fequuntur Ariſtotelem, E S. Baſilio il magno ſchermendo, e vituperando
oltremodo l'Ereſiarca Euno mio dice, che coll'armi d'Ariſtarele tentava egli
d'abbat tere, e diſtruggere Criſto; e ſpezialmente in un luogo, ov? egli dice:
deh laſcia forſennato il malvagio, e danneyole gærrir d'Ariſcotele: laſcia io
c'avverto quel velenoſo, e pe ſtilenzial ſuo favellare intorno alla natura
dell'anima: è in tutto caccia via da te quelle ſue mondane ſentenze, copi nioni.
Or ſe nelle coſe, che abbiam noi di certo, come loni quelle della noſtra ſanta
Fede, così manifeſtamente Ari ſtotele graſandò; certamente dovremmo noi anche
nell'al tre tenerlo ſoſpetto, e dubitarne continuo degli uſati ſuoi crrorijanzi
dovremmo pure giudicar falſo apertamente tut te quelle ſue premeſſe, dalle
quali egli pervia di neceffarie cõſeguéze ſuol cavare gli ſciocchiſſimi ſuoi
falli intorno alla noftra sáta Fede.E veraméte il ſiſtema in ſu'l quale egli
ap. poggia, o tutta, o la maggior parte della ſua vana filoſo fia,egliè
l'eternità della materia, del movimento, del mon do, delle intelligenze: la
neceſſità di Dio nell'operarc,e la virtù finita di lui: e altri, e altri
ſentimenti a queſti fomi glianti. Ma che dire noi di quelle coſe
d’Ariſtotele,le quali quã tunque per la noſtra S. Fede non fi determinino,pur
la Ipe 1 ricn DelSig. Lionardo di Capoa اور rienza così manifeftamente ora a
noile dimoſtra, che nulla più èda dubitarne? O forſe negando noi fede agli
occhi noſtri medeſimi, e dimentendone i ſentimenti, e le dimo ſtranze, crederem
noi oſtinatamente ad Ariſtotele, e non ne prenderem pure faggio da altri più
avveduti, e men cre. duli ſcrittori i quali in buona verità affermino ſe avere
fpe rimentato tutt'altro di ciò, cheAriſtotele nefcrive: Adun que perchè
credere noi,che l'arco celeſte nó poffa maggior d'un mezzo cerchio apparere,
quando contro l'avviſo d'A: riftotele, Franceſco Pico della Mirandola, il
Campanella, il Gaſſendi, il Blancani, ed altri molti maggiore affai l'of
ſervarono? Anzi Io l'ho purriguardato, che non ſol mag giore, del mezzo cerchio
apparir foglia, ma talvolta anco ra in un cerchio compiuto, e intero, dove il
Sol fia alto, e l'huom da qualche monte aſſai rilevato ilriguardi. E dell' arco
celeſte lunare,perchè'giudicherem noi eſſer quello co tanto malagevole
aformarſi, che ne' plenilunj ſolamente apparer radiſfime volte ne foglia: anzi
le egh è pur vero (perciocchè vien comunemente giudicato, maffimamente da
Alberto Magno per una delle più favolofe novelle d'A riſtotele ) cgli dovrebbe
pur più ſovente apparere, che non Polervòcolui in due fole volte per lo
lunghiffimo ſpazio di cinquant'anni; quafi egli in ciaſcuna notte dicotanto tem
po ſenza prender mai ſonno foſſe ſtato ſempre a bada al ſe reno per riguardarlo;
non altrimenti che Fra Puccio ftayaſi digiuno orádo alle ſtelle, mentre la fua
donna rinchiuſa có colui troppo alla ſcapeſtrata ruzz.ava. Ma degli errori d'A
riſtorelein si fatte materie ne diſcorrono appieno il Tele fio, il Campanella,
ed altri eccellenti autori. Ma che direm noi della proporzione, e
convenenza,che infra fe hanno nel mondo peripatetico quaſi in ben librata
bilancia in andar ſu le coſe leggiere, e giù le gravi? E la fciando per ora ad
Ariſtotcle il creder, ch'ei fa fuor d'ogni ragione effere la leggerezza non men
che la gravezza me delima, qualità delle coſe: e come poi per ſua dappocag gine
lafciando di ſpiegare d'amédue la natura ad altro tra paſli: dirò ſolamente
della ſua fciocchilimatracotanza il non volere far pruova di ciò, che ſogna,
che una pietra di mille libre fcenda mille volte più preſto, ch'un altra d'una
libra; potendo con durar poca fatica,ravviſare, che que due mobili, tutto che
tanto diſuguali di peſo, diſcendano però eguali in velocità. E chedirem noi
intorno aciò, che Ariſtotele vaneggia do ne vuol dare a divedere delle coſe,
che poſte in acqua, o ſcendano giù, o galleggino? e come egli tratto dalla
ſuaſciocca maniera del filoſofare, vuol,che peropera della larghezza, o
ſtrettezza della figura, o fendan l'acqua,o nuo tino a galla coſe più gravi
aſſai dell'acqua medeſima, non riguardando egli punto alle vere cagioni, che in
ciò con venir poſſano. Intorno alla qualcoſa così ſmentito, eri creduto ne fu
egli dal noſtro ſottiliſſimo Galilei, che nutta più ne ſarebbe il favellarne.
Ma che direm noi dell'acque del mare? onde egli appre. ſe il noſtro Ariſtotele
eſſer quelle più dolci aſſai, e men fan late nel fondo,che di ſopra li ſieno?
Ahi quanto cauti gli huomini efer denno Preſso a color,che non veggon pur
l'opra; Ma per entro i penfier miran col fenno. Così traſcurati, e bambi ſi ſon
laſciati trarre a ' ſuoi ſco cj, e difettoſi fillogiſmi i poco avveduti,e
troppo creduli ſuoi ſeguaci, che nulla curandodi vederlo per pruova,giu rano,
ch'egli ſia infallibile verità: quum hoc, dice Giulio Ceſare dalla Scala, pro
comperto,veroque habeatur, in fun do maris aquas dulces effe. Ma Franceſco
Patrizio huomo di maraviglioſo ſapere, e di non ordinario avvedimento così
operando pur con tutte diligêze diviſarene dallo Sca ligero, ritrovando alla
per fine il contrario, ne ſcrive: quñi mare ftaretplacidiffimum, nec itineris
tantillum navis confi ceret, nullo Spirante vento experiri libuit, vafe
cattitering ejufmodi, quale ipſe deſcribit, funi longiffimo alligato, quem
nautæ fcandalium vocant, & altero leviore funiculo operculo accommodato,
ita ut attractus illud aperire poſſet. Itaques manibus propriis utrumquefunem
in mare demifimus: vas cafu plumbo pilotico fenfim ad fundumpervenit altiffimum,
ſcilicet CXLVII.: quum fenfiterramtenere, minorem funem traxi, operculum
referavi. Extraximus opertum mari ple. num, falfo, amaroque, baud
majorefalfedine, vel minore quàmquod in ſuperficie pofitum vafe alio
guftabamuscompa rando. Ma finalmēte intorno a ciò n'ha rimoſſa ogni dub biezza
il chiariſſimo Boile, il qual dice, che non ſolo i tuf fatori moderni inghileſi
han fempremai aſſaggiata l'ac qua nel fondo del mare ſalſa, non men, che quella
diſopra; anzi dipiù in cerci luoghi della zona corrida ritrovato no una fiata
nel fondo del mare pezzolinidiſale, e ſe ne ſervirono a lor agio per condir le
vivande i peſcatori. Nó diffimile altresì da queſto dell'acqua ſalſa è quel,
che Ari {totele apporta ne’libri delle ſue metcore, intorno al vino; affermando
con franchezza grande, che i vapori del vino ſi vengano a cambiare in acqua
toſto che ſi riſtringano. Ne men groffa di queſta è quell'altra ridevol
balordag gine del noſtro natural filoſofante,intorno al rame; la qual parimente
nelle ſue meteore volle, che ſi leggeſſe;cioè, che'l ramenon ſi poſſa per coſa
del inondo įn altro color tignere. E quinci veggafi pure quanto male a lor
huopo i filoſofi nan turali non ſappian di Chimica. E che direm noi intorno
a’mari, i quali dice Ariſtotele eſſer molti, e molti, che non ſi congiungano inſieme,
trat tone ſolamente il mar roſſo; il qualſecondo il ſuo avviſe, p piccioliſſime
focinell'Oceano Atlático entrar ſi vede Nar ra ancora egli, e follemente
giudica i Beti, e la Dannoja naſcer da’monti Pirenei; e nel Parapamiffo l.2 lor
prima fő te avere il Battro, el Coaſpe, e l'Indo, e l’Araſle, cche da queſto
poi li venga eglia diramareil Tapai. Coſe tutte manifeſtamente falle, e
impoſſibili;concioſliecoſachè fap pia ben ciaſcuno tanto quãto di ciò
intendente, che'l Coal pe per la Perſia diſcorra, e di la dalla Perſia il
Battro allin Battriana Provincia dea nome, e l'Indo naſca nell'Indiwi perchè
non è da credere, che fiumi diſcorrenti in Provin cie cotanto infra fé lontane,
e rimoſſe, in un modelimo luogo tutti, e da una medeſiına fonte ſorgano; c'l
Tanai ſa ben ciaſcuno, che naſca ne'inonti Rifci. Ma di più dice Ffff
Ariſtotele, che nella Liguria un fiume grandiflimo; e non minor del Po
s'inghiotta tutto, e fi divori dalla terra, e quindi dinuovo poi rinaſcendo
diſcorra altrove. Ma in corno al primo naſcimento de'fiumitutti,egli molto
ſcioc camente parlando dice, che ciaſcun fi formi, es’ingeneri negli altiſſimi
monti dal vaporoſo aere per virtù del freddo a viva forza riſtretto, e condenſo,
e diſtillante continuo in acqua nelle naſcoſe caverne, e nelle picciole buche
della terra; e quindi poi fa che prendano perpetuo movimento con una cotal
gravezza, la quale perrocce, e per burrati, eper lande, e pervalli faccendo
l'acqua diſcorrere, eca dere La fa inquieta, inftabile, e vagante. Nel qual
modo follemente filoſofando fa egli nafcer non folamente piccioli fiumicelli, e
fonti, e poveri rivi, ma no ne ferba anche i più ſuperbi, e vaſti fiumi del
mondo. La qual coſa quanto ſia ſciocca, e da ridere, ben può comprenderlo
chiunque ha favilfuzza d'intendiinento, fen za ch’lo più ne dica. Eche direm
noi di quella così ſmiſu. sata, e incredibile altezza del monte Caucaſos Baja,
ch'avanza inver quante novelle, Quante mai differ favole, ecarote Stando
alfuoco a filar le vecchiarelle. Eglimillantando delle cime di quello dice, che
fino alla terza parte della notte ſian dalfole illuminate; che fatta ne la
ragione ſecondochène ſcrive il ſottiliſſimo Peripate tico filofofante Giacomo
Mazzoni, farebbe il monte dal tezza almen di ſettant'otto miglia noſtre
Italiane per linea perpendicolare; c quì non può non gridar eoli: papa in quos
aculeos imprudens me conjeci! rident enim hoc Ariſtotelis dictum Mathematici;
putant enim eum pueriliter lapfum efle. Cæterum ego dico eum ſequutum effe
famam. La quale ſču fa del Mazzoni Io non lo ſe maggiormente debba fcagio nare,
o tacciare il noſtro veritiero, e accortiſſimo Filoſofo. Ma d'altra parte
Giuſeppe Blancani famoſifſimo Matema tico, cercando a biftento di menomar
cotanta altezza del Mazzoni, la riſtrigne ſolamente a miglia cinquantadue; qua
DelSig.Lionardo di Capoa. 509 quia tamen, ſoggiugne poi, adhuo omnem veritatem
nimium exfuperat; e biaſimandoſi forte della ſcuſa del Mazzonifa piertiores
judicent, dice, num recte philofophus, cujus eſiree condita, &abditadocere,
excufetur,fedicatur eum popula. rem famamfequutum effe. Ma fe falla così
ſconciamente Ariſtotele in narrando con ſe falſe per vere, non meno errar ſuole
egli talora in rifiu. tar come mentite, e falſe quelle, che manifeftamente ſon
vere. Così egli nega efſer il vero ciò che cutto dà ſperimé €2 avvenire nelle
contrade della Paleſtina, e propriamente in quel miſerabil luogo, in cui già
cadde Fiamma dal Cielo in dilatate faldea E di natura vendicò t'offeſe Sovra le
genti, in maloprar sì falde. Fu già terra feconda,almopaeſe; Hor acque for
bituminofe, e calde, E fteril lago, e quanto ei volge, e gira, Compreſs'èl'aria,
egrave il lezzo fpira. Di quel fetidohumorgiammainon beve L'affaticato
peregrina, e laſo, Non greggia, non armento:e cofa greve, (Benchefia gravepur,
qual ferro;of affo,) Sornuota quaſi abete,od orno leve: L'huom non s'attuffa
mai, ne giugneal baſſo. Cosìagevole egli è Ariſtotele a negare, e ad affermare
a fuo talento tutto ciò, ch'e' vuole, fenza aver riguardo niuno alla verità. E
volle Ariſtotele anche oſtinaramente contendere, e negare contro l'avviſo di
molti valent'huo mini, fotto la torrida Zona la terra eſſer abitabile. Ma che
direm Noi della Galaſſia, o vogliam dire cerchio di lat te, il quale fecondo
Ariſtotele è un incendio perpetuo bruciate nella region dell'aria per
l'eſalazioni, che dal le baſſe valli, e dagli alci monti vi manda continuo la
cerra; errore così grande, che anche i più cari ſeguaci di lui ſe n'avvidero, e
apertamente ne'l ripigliarono; in torno alla qual coſa, ſon veramente degne da
notar quel le parole d'Olimpiodoro avvedutiſſimo ſuo interpetre, colle Ffff 2
quali 1 596 Ragionamento Ottava quali egli comincia a chioſar quel luogo: il
Reo (dic' egli, fervendoſi del volgar detto ) è di miglior condizione dell
attore; concioffiecoſachè allegando tutti gli antichi filoſo fanti nel ciel la
Galaffia, ſolamente Ariſtotele portando falſa opinione, nell'aria ła pone;
perchè il Campanella eb be a dire:hancfententiam nemo fequacum ſectatur, nifi
ftul si quidam:fra' quali non vergognoſli di porre il ſuo nome
CeſareCremonini:mathematica,et rationis expertes;e Aver roe, il quale così a
capital tiene la reverenda autorità del ſuo caro Ariſtotele, che tranguggiar
volentieri fi fuole tutte ſuc bagatelle, e ſue bugie, quantunque groſſe,e fmi
ſurate elle fieno, pur ciò non potè a niun inodo inghiottire. Ma che direbbono
a’giorni noſtri il Cremonini, e gli altri oſtinati fuoi ſeguaci, fe mercè del
Teleſcopio guataſfero quelle tanto picciole ſtellucce, ch’ammucchiare inſieme,
e riſtrette laſsù formano la Galaſſia, edi quà ne fembrano per la lor
picciolezza una confufa liſta appena di mal di ſtinto ſplendore; il chefenza
conſiglio del Teleſcopio be conobbe il fottiliſſimo Democrito, allor che, come
Plu tarco, e Macrobio teſtimoniano,difſe eſfer la faſcia del latte non
altro,che moltitudine di ſtelle fiffe in quella parte tan to picciole,e non
vedute diſtintamente a noi per la lor pic ciolezza, non già perchè allumate non
fian dal ſole per lo tramezzamento della terra, come falſamyente ne vuol dar a
diveder Ariſtotele ch'abbia detto Democrito, per avval lare il buon nome di
quello, con accagionarlo d'un mani feftisſimo errore. Ma chi non fa quanto egli
fiafi apertaméte aggirato Aristotele intorno al luogo, e alla generazion delle
stelle comete, e quanto fanciulleſcamente e'ne diviſi; e già n'è prie troppo a
ciaſcun manifefta la verità, avendone sì ben fa vellato il noſtro Ipparco (che
tal meritamente dal Gaſſer di vien chiamato Ticone ) e l'ingegnofisſimo
Chepleri, e cotant'altri moderni Aſtronomi, e filoſofanti, i quali n’hā così
dimentito, e ricreduto Ariſtotele, chenulla più. E che direm noi intorno
all'incorruttibiltà,come dicono del Cie lo, intorno alla natura del ſole, e
dell'altre ſtelle? E che direm noi della favoloſa novella della sfera del
fuoco? Ne. mi farò ora a voler dir della Terra, la qual ne’libri del Cie lo
avendo Ariſtotele poſta ritonda, pure ſpagato, dice ne’ libri delle
meteore,ch'ella inverſo Settentrione, alquanto più rilevata, e alta filia. Nedi
ciò anche contento, ne’li bri medeſimi delle meteore, come ſe caduto gli foffe
della memoria, ciò, che non guari addietro n'avea ſcritto, portas opinione
eſſer la terra, non già ritonda,ma da due lati pia na a guiſa ditamburo,o di
cilindro, o dirottame di colom na: ftando ella, ſon ſue parole, non
altrimenti,che tamburo; perciocchètale è lafigura della terra: equantunque ſi
paja ch'eifavelli della terra abitabile, di queſta anche aveans favellato gli
antichi filoſofi, i quali egli biaſima travolgen do i lor ſentiméti;mache che
ſia di ciò, falfo pariméte ſi è, la terra abitabile efſer a guiſa di tamburo;
ondeebbe a di re il Tallo, comechè peripatetico e' fi foffe: Tal che nonſembra
l'habitata terra Timpano più,come affermando inſegna Il gran Maeſtro di color,chefanno.
Ma delle contradizioni, e mutamenti d'Ariſtotele,i que. li quafi in ogni carta
delle ſue opere s’incontrano, lun gofarebbe ora a dire; le quali così manifeſte,
e così ſpeſ fe ne'ſuoi libri ſono, chei inedeſimiſuoi parziali non oſan negarle.
E conciosſiecofachè molti famoſi ſcrittori s'ab biano preſo briga di
fcoprirgliele, tralaſcerò lo al preſen te di più divifarne. Solamente non vo
lafciar di trarne a noſtro concio, cheAriſtotele avvegnachè tutt'altro inoſtrar
volefle,filoſofar folea non meno incerto e dubbioſo, che il luo maeſtro Platone,
e Socrate ſi aveſſer già fatto; e feco dochè più in concio gli rendevali
ſerviva delle opinioni al trui; e quelle, e queſte, or abbracciando, or
rifiutan do a ſuo talento, non altrimenti che noi nelle varie ſta gioni
dell'anno de' noſtri veſtimenti facciamo. E certa mente lo direi co'l
dottisſimo Ramo,la filoſofia d'Ariſtotele da quelle vane ciance in fuora, che
dir ſi poſſono propia mente ſue, eſfer una confufa meſcolanza de ſentimene ti
degli antichi ſoventemente da lui non troppo bene capi 598 Ragionamento Ottavo
1 2 4. 4 capiti, e malamente ſpiegati; ficome in più luoghi delle ſue opere
manifeſtamente fi fcorge. Collecta femel iftafunt, dite l'accennato Ramo, de
multis, magnis infinitorum authorum; & operum vigiliis; recognita nufquam
funt. E piaceſſe pureal Cielo, ch’a’tempi noftridurati pur foſſero imalandati
libri di quegli antichivalent'huomini,che più agevolmente ſenza fallo ne
ſarebbe creduta cotanta verità, E quinciſi pare, con quanta ragione detto
aveſſe l'iſtorico Timeo appo Suida, eſſer Ariſtotele ditardo, ed ottuſo in
tendimero: Tίμαι φησιν κατ ' Αριστοτέλες,είναι αυτονευσχερή,θρα συν,
πιοπιτή,αλ' ου σοφισών,όψιμαθή.μισον υπάρχοντας το πολυήμητου ιαπιείον
αποκεκλεικόG, και στις πασαν αυλήν, και σκηνήν έμπισηδηκόα. Timeo diſse
contr’Ariftotele, efser lui impronto, orgoglioſo, rintuzzato d'intendimēto,eda
ciaſcuno odiato: il qual con ſue maladizionifi fe ftrada in tutte le corti, e
per ogni ſcena pro verbiava; che che ſi dica il Cauſabono: il qualpoco, o nul
la inteſo di sì fatte faccende dice, in favellando di Timeo, falfifima enim
omniaquæcunq; dedivino viro epitimæus ifte nugatuseft. E le inai ſidee dar
alcun luogo alle conghiet ture, più balordo, e ſciocco eſſer veramente ſtaro di
quel, chc Timco, ed Eliano ancora ne raccontano e ſembra cer tamente Ariſtotele;perciocchèegli
ben vent'anni conſumo nella feuola di Platone,e periſtudio,e ſudor, ch'e'vi
logo raffe,nó potè mai avāzarne più che forſe ſi ſarebbe approfit tato il più
minutoícolaretto. E ciò maggiormente ſilaſcia credere dall'aver lui molto
ſcioccaméte apprefe alcune sé téze del ſuo maeſtro, e molto ſtorpiatele, e
malmenatelei. Ma di ciò forte altrove più agiatamente diremo. E ritor: nando
ora a ciò, che propoſto avevamo, cioè a rapportar come ſconciamente Ariſtotele
cerca talora di contraſtare, ed abbattere gli altrui veri ſentimenti:
maraviglioſo certa mente, e degno aſſai da notarſi e' miſembra qucl, che egli
dice del ragnolo: ed è,che avendo già detto in prima De mocrito, che le
ſottiliſſime fila, onde ilragnatelo con arti icioſo lavorio teſſer ſuole
maraviglioſamente le fuc tele, egli dentro le ſue viſcere le ingenerise per lo fondo
le trag ga per quella parte ch'è bello il tacere;levofli incótanente fuſo
Ariſtotele, e opponendoli orgogliolamente a un tan to huomo, diſſe, che
Democrito in ciò manifeftamente fal lava, e che le fila forminſi dal ragnatelo
per tutte parti del ſuo corpo, a guiſa di corteccia, o di lanugine, chetut ta
gli vadano coprendo la buccia; o non altrimenti che s? avventino le penne
dell'Itrice: ου διμύανται δ ' αφιέναι οι αράχναι το αράχνιον, ευθύς γεννώμενον,
ουδ' έσωθεν, ως αν περιθωμα, καθάπερ φησί ΔημόκριτGάλ ’ από του σώματG- οίον
φλοιόν, ή του βάλον τοίς Dertiv,oi'or ai uspiges: cioè i ragnateli nati appena
mādan fuq ri le fila,non già dalleparti dentro aguiſa di fecce d'anima li, come
falfamente immagina Democrito, madalleparti di fuori, aguiſa d'una ſcorza, opur
di quegli animali, che ſono gliano, Jaettano i peli, come è l'Iſtrice, Ma quì
non ſi può ſenza maraviglia coſiderare la traſcu raggine,e lentezza de’poco
curioſi peripateticisi quali se zabadar puntoalla verità del fatto,confarne
pruova han cosìvergognoſamente ſeguito il parere d’Ariſtotele, laſcia do
daparte quello di Democrico;ilquale tutto il corſo del la ſua vita, che fu
affai ben lungo, in far eſperienze avea logorato; e tanto più degni di biafimo
ſi rendono, quanto che l'impreſa non richiedeva cotanto fenno, e avvedimen to,
o fatica per venirne a capo: che ben ancora le feminel le delcontado, e
imuratori, e gli ſpazzacamini avveder ſe ne poſſuno, allor, che ne’lor piccioli
abituri veggono fa re il tombo agl'induſtriofi ragnuoli, per inteſſer le ragne
alle moſche. Ma fu egli certaméte cagioned'un sì folle errore l' aver eſli dato
intera credenza ad Ariſtotele.E nel vero, chi mai ſoſpettar avrebbe potuto,
eſſere ſtato Ariſtotele così fciocco, e ardimentoſo nel ſuo lcrivere, che
manifeſtame te aveffe voluto contraddire al divino Democrito ſenza aver lui in
prima ſottilmente conſiderata la biſogna, e ſpe rimentata per più d'una pruova
co’propi occhj. la ſua ragio ne; maſſimamente,che a doverne far ſaggio non gli
era me ftieri inviar mefli ad Aleſsandro, e farli venir dalla Media, o
dall'Ircania, c dalle più rimoſſe contrade dell'Indie nuo ve, e non più
conoſciute belve; che ben poteva egli nella camminata della ſua caſa propia
veder ne*cáconi i ragnuoli filare; Coo Ragionamento Ottaud; filare;pchèvalſe
tátol'autorità d'Ariſtotele,che in coſa co tāto manifeſta ſe ne ſarebbe per
avvétura ancoroggi ſepol tala verità, avédo ad Ariſtotelecreduto l'Aldovrádi,e
cota. ti altri famoſi ſcrittori,ſe la ſperienza nõ aveſſe nõ ha guari moſtro
pienamente aver Democrito la ragione, peropera del curiofiflimo Giuſeppe
Blancani in prima, e poi di Tom maſo Moufeto: acceptomanu bacillo Araneum
quendam:dia ce il Blancani: ex iis, quicirculares telas, quas nonnulli, &
quidem aptè labyrinthos appellant, ingenio utique mathe matico contexunt,fic
adii, ut Araneuspro arbitrio ſuper bar cillum liberè inambularet; dum ipſe
interim curiofius illums obfervarem quanam videlicet ex parte filum foras
ederet: cum ecce tibiaraneus experienti mibi ultro favensfefe exba culo
demiſit, ita tamen ut ex filo fuoin aëre fufpenfus rema neret: cum primum
obferuo ipſum inverſum, hoc eſt capice deorſum, ventre ſurſum pendere; ut autem
acutius cerne rem eum opacecuidam rei oppofui, ne pre nimia luce tenuiffi mum
aranei filum aciem oculorum effugeret; quo facto cla riſfimè videbam filum
ſeceſſu Aranei prodire. Mamolti ſe coli prima del Blancani avea ciò parimente
ravviſato il ſa gaciſſimo Plinio; mane a Plinio, ne al Blancani volle pre ítar
credenza il Vosſio padre: così poco acconcio egli eb be l'intendimento a
diviſar delle cole della natura. Ma poichè deʼragnateli facciam parole,non
tralaſcerò di conſi derare quanto dietro al partorire di quegli il noſtro
Ariſto tele vanamente anco s'aggiri, dicendo partorire i ragnoli cotali
vermicelli vivi, e non già le uova, come alcuni im maginano; ma quanto ciò ſia
dalvero lontano, dicalo in miz vece il diligentisſimo Redi; il quale narra, che
per tut te diligenze, ch'egli ulate v’aveſſe, non avea mai veder po tuto
ne’ragnateli ſe non l'ovare, e dalle lor uova poi nalce. re i piccioli
ragnolini; Ma non meno è da notare ilgravif fimo fallo d'Ariſtotele intorno al
Canclo in dicendo efferli ingannati coloro, tra'quali fu Erodoto, che diceano
il Ca melo aver più di quattro ginocchjie pur chiaramente ſcor geli, il Camelo,
comc Erodoto dicea,aver ſei ginocchji e le cotāto intorno a coinunali e ben
conoſciuti aniinali ſcioc chinen camente Ariftotele travede che dovrem noi
credere di que's più rimoſſi alle noſtre contrade, e meno uſati,de quali egli
nátrâ cotante ſtrane, e incredibili novelle, e più affai, che me diceffe mai
fra Cipolla a que’ſemplicicontadini da Cero taldo? Narra egli del Lione
Ariſtotele, che non abbia mi dolle alcune nell'offa maggiori del ſuo corpo; ma
che ſola mente in alcune delle picciole, cioè delle gambe ne abbia, avvegnachè
sì ſottili, e poche quelle ſiano, che par,che af fatto eglinon ne aveſſe; onde
egli avviſa poi naſcere l'in vincibil fortezza del Lione. Ma quanto ciò falfo
fia, non pure per Ateneo, che forte ne ’ ripiglia, ne ſi fa chiaro;ma dopo lui
ancora più apertamente fu dimoſtrato dal chiarif fimo Borricchio; il quale
aperti due gran lioni in Afnias, reggia di Danimarca,vide egli avere in molte
delle loroof ſa copia grandiſſima di midollc; e prima del Borricchio fu
ravviſato in queſta noftra patria in un Lione del Signor D.Tiberio Carrafa,
Principe di Biſignano: il quale fu tro vato parimente pieno di midolle; e
quinci apertamente fcorgeſi, quanto a torto ſiano accagionati, e biaſimati da’
critici ſeguaci d'Ariſtotele il noſtro dotiſfimo Stazio,paver lui poſto in
bocca ad Achillo que'verli nec ullis Vberius fatiaffe famem, sedſpiſſa Leonum Viſcera
ſemianimefque libens traxiffe medullas: et gran Lodovico Arioſto, quando fa
egli, che la maga Melilla affacciandoti nella forma d'Atlante, all'effeminato
Ruggicri così dica: Dimidolle già d'Orſi, e di Lioni Ti porſi.io dunque li
primi aiimenti; perciocchè dicono non aver midolle i Lioni; il che an che
credendo ad Ariſtotele il Mazzoni, ricorre per difen der l'Arioſto, giuſta il
ſuo coſtumein quella ſua infelice di feſa di Dante, a ſottigliezze così vane, e
puerili, ch' egli ſteſſo vien aſtretto a chiamarle altrove ſofiſtiche, e
cavillo fe: Ma non meno ſciocco è quell'altro crror d'Ariſtotele, diccndo egli
aver i Lioni così dure, e falde l'offa, che fre gandoſi inſieme, agevolmente ſe
ne tragga il fuoco; non altri oli 12 ull Do le Gggg 602 Ragionamento Ottavo
altrimenti, che avvenir loglia nella pictra focaja. Ma ciò manifeſtamente
fperimentoſli falſo in que' menzionatiLio ni d'Afnia, i quali comechè fortis e
gagliarde l'offa avelle ro, non però di meno per diligenza, chevi fi adoperaffe,
non ſe ne potè trar mai picciolisluna ſcintilla di fuoco;, fen zachèſe ciò pur
foſſe vero,non ne dovea però cavare Aria ftotele per via d'argomento
l'invincibil durezza di cotali offa; concioſliecofachè anco in fregandoſi due
tron molto dure, e pieghevoli canne d'India, o due molliflimc ferole, o altri
simili legniaccender ſi foglia il fuoco anzicorpi, che fian talmente duri,che
in fregandoſi no li roinpano in qual che parte, non poſſono accender in niuna
maniera il fuoco. Dice oltre a ciò Ariſtotele, eſfer l'olla del collo del
Lione, comeanche quelle del Lupo non rotte, e partite, ficome tutt'altri
animali le hanno, e poi per opera de’nodi con giunte; ma tutte intere, e
diſtefe in ſu lo ſchenale sì fat taméte, che in niun modo ſi poffan piegare; ma
in ciò, oltre a Giulio Ceſare dellaScala ritrovollo in fallo ed apertame. te lo
convinſe di bugiardo, il Borricchio; dicendo, per ve duta fermamente di
que’Lioni,quorum colla vertebris ſuis, & articulis pulcherrimè diſtincta
erant. Finalmente afferma Ariſtotele eller l'orina del Lione di ſconcio, e
ſpiacevolisſimo'odore; ondeavvien poi, dice egli, che i cani fiutar fogliono
gli alberi, perciocchè il Lio AC, come il cane appoggia una delle coſce al
pedal dell'al bero, quando e' vuole ſtallare; c più appreffo ſoggiugne: e
lafcia il Lionegrave, e iníopportabil puzzo negli avan zi de cibi, ch'egli
divorar ſuole; e ciò avvenir Ariſtore Je ſoggiugne dal peſſimofiato, che il
Lione fpira; percioc che, come e narra, le interiora oltremodo putono al Lio ne.
Coſa, la quale manifeſtamente da a divedere nõ aver mai Ariſtotele alcũ Lione
aperto, o teſtè occiſo,veduto.Ma troppo lúgo ne diverrei, fe tutt'altre novelle
d'Ariſtotele in torno alLionerecarlo què voleſli; pchè tacerò acheciò, che:
Ariſtotele fognò del Camclo; immaginado egli ſu'l dolfo di quello ungrá gobbo;non
avvisādo, il Camelo no averlo maggiore deporci,e de'canize che quella
eminéza,la quale nel DelSig.Lionardo di Capoa. 603 nel Camelo ſi ſcorge fia
formata da'peli; c ciò, che e' fogaz del Camaleõte,dicédo no averil Camaleõte
ſangue, ſe no ſe vicino al cuore; ed eſſerdi carne prive le ſuemaſcello; e'l
principio della coda. Ne addurrò per la medeſima ra gione i ſuoi ragionamenti
dietro al Coccodrillo alle Aqui le, e ad altri molti animali, che
manifeftamente per prud va ora falſiffimi eſſere fi ſcorgono;e tuttavia
da'famoſi ſcrit tori de’tempi noftri ne fon notati; me ſolamente è qucftas
ventura del noſtro ſecolo; imperocchè nc'traſandati tempi ancora v’hebbe degli
affennati, e diligenti ſcrittori, i quali de'ſuoi groſi, e infiniti falli
intorno alla ſtoria degli animali manifeſtamente Ariſtotele dimentirono; ed
Afinio Pollione, quel famofiffimo, e ſaggio oratore rivale di Mar co Tullio
Cicerone, incontro a’lunghi volumi d'Ariſtotele ben diece libri compoſe della
natura degli animali; il qual fe pur egli affatto non era ſenza giudicio, e
ſcimunito, ben è da credere, che con chiare, ſalde, e ragionevoli fpcricn že
n’aveſſe fgannati, e ricreduti de' grandisſimi crrori prefi in quc'libri per
Ariſtotcle: c più veritieramente narrata la natura, o le factezze di corali
animalida lui ben conoſciu ti; ma la rubberia del tempo netolle cotali fatiche.
Ebé s'avvide ancheAteneo dell'infinite bugie narrate da Ari ftotele; ond’ebbe a
dire; con qual cura, ö diligenza, potè mai egligiugnere a fapere, che coſa fi
facciano i peſci nel ma re, come dormano, e qual ſia il lor vitto,o qual Proteo,
o qual Nereo uſcito fuori del pelago alla riva andò araggua. gliargliene. Come
gli porè effer noto lo spazio della vitae dell' Api, e delle Moſche; ove mai
potè vedere un' edere nata da corni d'un cervio; e dopo aver narrato queſte, e
cent'altre novelluzze da ridere, e da tenere a bada la bruz zaglia deʼlettori,
dette da Ariſtorele in fu la ſtoria degli animali, riſtucco alla per fine di
più annoverarne, trala fcio 1o, dic'egli, di narrar molte coſe,e multe,nelle
quali ma nifeftamente lo fpeziale, cioè Ariftotele fi vede avere ſconcia mente
delirato. Ma quanto al fatto della ſtoria degli ani mali, Io porto fermislima
opinione, non effer vero ciò che narran dilui alcuni, e che buccinavaſigià (ficome
riferiſce Gggg 2 Atenco) nella ſua patria Stagira; cioè, ch'egli avuto aveſſe
Ariſtotele dalla liberalità del Magno Aleſſandro, per po refla più
acconciamente fornire ottocento talenti, che ſo condo la ragion del dottisſimo
Budeo giungono alla ſom ma di quattrocento ottantamila ſcudi de’noftri tempi: e
che per una sì glorioſa, e mirabil opera gli foſſer deſtinati, co me narra
Plinio:aliquot millia hominum in totius Afic,Gree ciæque tractu parere
juffa,omnium,quos venatus,piſcatuſque slebant,quibufque vivaria, armenta,
piſcine, aviaria in cura erant, ne quid ufquam gentium ignoraretur ab ea
quospercontando quinquaginta fermèvolumina de animali bus condidit. E’n queſto
parer ini conferma in prima la va rietà degli ſcrittori in narrar queſto fatto;
imperocchè Elia no ſagaciffimo ſcrittore, e raro nell'inveſtigar le greche an
tichità, dice, che la ſomma de’danari, non già da Alellar dro, ma da Filippo ad
Ariſtotele foſſe ſtata donata. Co fazla quale affatto inverifimil ſi pare;
conciosliecoſachè a Filippo tra per le continue guerre, ch'e' fece in Grecia, e
perle grandi impreſe, ch'e' diſegnava contro la poderoſif kima Monarchia
Perſiana, gli faceva meſtiere, anzi d'accu mudar danari, che di ſpendergli,e
ſcialacquargli in peſchie rejo vivaj, in uccellami, in cacciagioni, o
ſomiglianci co fe. Aleſſandro poi,priina d'incominciar la guerra contro Dario,
ad altro certamente dovette badar, ch'a ſomigliã ti ſcacciapenſieri; fcozachè
non avea sì gran dominio daw poter ſeguire ciò,chc Plinio millanta; manel tempo
della guerra, oltrechè la cura dell'armi era valevole a fraſtornar gli
ogn'altra impreſa egli di più era allor divenuto si nimi co d'Ariftotele, che
per fargli onta, e diſpetto,mnādò Am baſciadori, e doni a Senocrate ſucceſſor
di Platone, e fie ro emulo d'Ariftotele. E dirò ancora, che ſe mai Ariſto tele
ebbe parte ne’teſorid Aleffudro, in tutto altro certa mente l'aveffe inveſtico,
che in acquiſtar notizia, e contez za delle coſe della natura. Neglimancò agio
da farlozim perocchè egli era, come ne da teſtimonianza Tineo:760578
γαςείμαργον, έψαρτυτήν, επ σάμα φερόμενον εν πάσιν: cioè gram paraſito, e
divorator delle più ghiotte vivande, ne fi ritene va di gos va difvögliarſi di
qualunque cibo. E in oltre non gli mann cò quel pizzicore, per cuii giovani
male il loro avere ſpé, dendo, le più fiate miſeramente ne capitano; e tinto
s'in veſchiò nella pania, che per amor venne in furore, e matto; e come narra
Laerzio,sì fortemente innamoroſli della con cubina d'Ermia, che a leicosì
immolò, come a Cerere Eleuſina folean già fare gli Atenieſi; e per tali
cagionia tal ſegno di miſeria pervenne, che alla fine riduſſeli vergo,
gnoſamente a tradir la patria a’Macedoni: poi tolſe a fare il foldato,ove ne
meno eſſendoviſi niente avantaggiato, vode le far borrega di ſpeziale; e anche
per civanzarſi nonver gognavafi di vender quell'olio, ove in prima bagnandoſi
avea depoſto le ſozzure tutte del corpo; e con fimili ſtiti. chezze s’avvisò di
dar compenfo per avventura agli ſcia facquamenti di quella prodigalità, con cui
difperfe,e con fumò tutto il paterno retaggio. Io adunque mi fo a cres dere,
ch'egli non nai vedefle notomie di morti, non ches di vivi animali; e che
folamente ne ſcriveſſe per udito yes per ciò, che ne’libri degli antichi
fconciaméte forſe appre lo n'aveva, o immaginato. Perchèpoi così alla rimpazza
ta confonde, é meſcola il tutto, ragionando de' nervi, es delle vene, cheben'a
lui fi potrebbe adattare quel verſo di Orazio Delphinum ſylvis
appingit,fluctibus apram. Così cgli follemente immagina naſcer i nervi,e le
venej tutte dalcuore; il qual dice ſolamente eſſer quello, onde il ſenſo, ei
movimenti negli animali fi facciano; ne ad al tro fervire il cervello, fuor
folamente, che ad alleggiare, e temperare l'abbondevol caldo del cuore. E
ſomiglianti altre balordaggini, e fcipitezze narra: anzi maggiori affaiz in
ſomma intorno alla fabbrica, diſpoſizione, ed ufici del le parti del corpo
umano tanti,e tanti falli commiſe,che ben potè dir Ateneo: coſe tali ſcriffe
Ariftotele, parlando della ſtoria degli animali, 'che come dice il Comico,
daglá ufcempiati,e pecoroni quaſi a fravaganza,quaſi a miracoloſ gredoro. E ben
fi parc, che Galicno medeſimo foffeſi con lui portato modeftamente, anzi che
no, allor che diſſe po + 1 CO Ariſtotele conotcerti di notomia. E ben’a
noftr'huopo di que' ſettanta libri, i quali, ſecondochè Antigono ne ſcriva,
Ariſtotele intorno agli animali compoſe, ſolamen te que’pochi ſe ne leggono,
che il tempone laſciò; per ciocchè maggiori cagioni di fallare i ſuoi
favorevoli avrebbono; fi enim,dice ſaggiamente il Borrichio,compen dii peccata
numerari vix poffunt, illa operis totius modo ex tarent, effent fortaſſis
innumerabilia. E queſte adunque só ic gran pruove dell'ingegno maraviglioſo del
divino Ari ftotcle queſte le riuſcite delle tante ſpeſe, del tanto aju
to,ch'egli ebbedalla liberalità del grand'Aleſſandro? que Ite le ripoſte
notizie, ch'egli acquiſtò dalle tante fatiches da lui durare? Ma ſenza venir
tinto buccinato, fenza tan ti ſoccorſi, e ajuti, o quant'oltre, non dirò
Democrito, no dirò Eraſiſtrato,non dirò Erofilo,non dirò altri antichi, ma un
folo Arveo ne'confini d'un Iſola riſtrerto, o quant'oltre avanzoſli, sì
chemeritevolmente, e ne ſtupiſce l'aman ſa pere, e l'amira il preſente ſecolo,
el celebrerà il futuro, Ma che direi noi intorno all'altre coſe della natura,
cu gencralınére in tutta la filoſofia naturale? Eglicosì ſciocco, e gocciolonc
fu Ariſtotele, che diffidandoſi di parteggiar lo in ogni ſuo fallo,iſuoi
medefimi ſeguaci,talor vergogno ſamente l'abbandonarono. E per nulla dir de'
Greci; o d' Avicenna, d’Algazele, e d'altri Arabi filoſofanti,qualno ftro buon
peripatetico per Dio fu così teſo, e oſtinato,che talor da lui apertamente non
fi partiſſe? cper tacer d'altri, ilBeato Alberto, lume della Criſtiana ſapienza,
e della venerabile Ordine de'Domenicani, avendo l'opere d'Ari ftotele ſpiegate,
niuna delle ſueopinioni approvar volle; anzi così proteftando i ſuoi ſentimenti
alla per fin conchiu de: in his nihil dixi ſecundum opinionem meam propriam,
fed juxta pofitiones peripateticorum; & ideo illos laudet, velre prehendat,
non me.E quel gran maeſtro in divinità e in peri patetica filoſofia Benedetto
Pereira della Compagnia di Giesù, il quale in quel ſuo libro de rerum
naturaliums, principiis, dopoaver largamente conſiderati i poco fermi
argomenti, c fillogiſmi, con cui le coſe dubbic, e incertes. fievolinente egli
tratta, cosi:della ſua natural filoſofia dice: doctrinam rerum naturalium, quam
nobis fcriptam reliquit Ariſtoteles, fi quis velitbeneſentire, propriè loqui,
nous poteft dici abfolutè,din totum ſcientia; perciocchè riguar dando alle
fondamenta di quella, e ravviſandole,che falſe, e che dubbie, e malamente con
falde, c naturali ragioni raf fermate, ficome il medeſimo Ariſtotele teſtimonia,
dicendo eſſer quelle ſolamente dialettiche: ragionevolmente poi e': ne tragge,
e conchiude alla fine: quum igitur phyſica Arifto telis fit falfa pars, pars
autem topica tantum probabilia.. contineat, non poteft dici abfolutè, & in
totum fcientia. Ma acciocchè perciaſcuno ſcorger (ipoffa, quanto inu tile,
quanto vana, quáto priva d'ogni falda dottrina egli ſi fia la filofofia
d'Ariſtotele, conviene innanzi tratto da più alto principio imprender la cola.
Dico adunque, che per due ſtrade ayviar fi foleano coloro, che agognavano alla
ſublime altezza della natural filoſofia pervenire; una, ches quantunque falli,
è nondimeno agevole, e piana, echiun que per quella prende il camino, non fida
cura veruna di cſaminare, e riandare minutamente le coſe naturali, ma sē.
preinai fe ne ſta fu l'univerſalità de'termini, e de' vocaboli, quali a
ragionar di tutte apparenze della natura ſenza du rar molta fatica adattar ſi
poſſono; e comechèſembri, che tutto dicano, che tutto ſpianino:impertanto,
altro non ſo no veramente eglino,ſalvo che vanillime ciance,fra le qua li non
altrimenti che ſi faceffero un tempo, ſe'l ver dice l' Arioſto, que’franceſchi,
e faraceni cavalieri nel palagio in cantato d'Atlute aggirar tutto dì veggiamo
confuſi gl'in cauti, e poco avveduti, fenza mai venir a capo d'alcuna ve rità;
ma l'altra ſtrada, quanto più erta,ſtraripevole,e ardua, altrettanto nel vero è
più nobile, e più gloriofa. Queſtas calcar generofamente li videro i diligenti
inveſtigatori del le coſc, ei ſavj interpetridella natura; i quali diſcorrendo
regolatamente, ed offervando con diligenza, guatavano quaſi a ſpiluzzico le
coſe naturali. Dopo queſti incomin ciarono a poco a poco ne'tempi ſeguenti gli
altri a traviac da queſto diritto ſenticro, ed a tenere la falfa ſtrada;o che
ſe'l faceſſero perdebolezza d'ingegno, o per non durar fiatica,o p vana
ambizione di farſi capi più tolto in quel cores rotto modo, che eſſer ſeguaci
degli altri nella vera, c legit tima maniera di filoſofare. E fu tanta
certamente loro ſchiera, e sì copioſa, che ben pochi ne rimaſero nell' arin go
del buono filoſofare; di cui potrebbe ben dirdi Pochi fon, perchè rara è vera
gloria: i quali per quelche già da quelle ſcarle memorie, che noi rabbiamo
comprender fi poffa, furono Anafſagora,Empe docle, Leucippo, cd altri pochi,
Che colle dita annoverar fi ponno; perchè ragionevolmente ebbe a dire quel
ſatirico: Rari philofophi: numerus vix efttotidem,quod Thebarum porta, vel
divitis oftia Nili. Ma ſopra tutti l'incomparabile Democrito adeguando il tutto
col ſuo vaftiliſimo ingegno (ini giova dirlo colle pa role di Petronio Arbitro
) etatem inter experimenta con fumpfit; e con principj veramente naturali, cioè
a dir ſenli bili,così maraviglioſamente ragionò di ciaſcuna coświ ch’alla
natura appartener fi poffe, che a gran ragione nel vero Seneca dopo averlo
detto antiquorum omnium fubtilif fimum,antiſtitem literarum.ſapientiæ caput: a
chiamar l'ebbe lingua della natura; perchè non guari dopo venendo Pla tone, e
diffidandoſi di poterlo col ſuo ingegno ragguaglia re, per uggia, e per invidia
volle rabbioſamente dareallo fiamme tutte le divine opere di lui; poſe in non
calere co tal vero, e lodevol modo diſpecular diritcamente le coſe della
natura, e con univerſali, c apparenti ragioni avvilup pò il cutto. La qual
maniera difiloſofare, concioffiecofa chè agevol foffe, fu poi ſeguita,e
abbracciata da ciaſcuno, rimanendo quaſi morta,e ſpenta la natural filoſofia;
ſe non ſe dopo la morte d'Ariſtotele levoſſi ſuſo il ſaggio Epi curo, ecol ſuo
avvedutiſſimo ingegno ripreſe, e riſtorò la morta filoſofia, e la fece di nuovo
fiorir ne' ſuoi doctiſſimi orti, ove rinaſcendo viffe, e morio. Perchè non ebbe
il torto per avventura Dionigi d'Alicarnaſſo in chiamando il filoſofofar di
quei tempi un vano berlingare, e cinguettar di vegliardi ozioſi, e ſcioperati,
a ' giovani ignoranți. E Cleante ancora faggiamente ebbe a dire, che gli
antichi aveſſero nelle coſe filoſofato,ei moderni ſolamente in pa role.
Qualdunquefia maraviglia, ſe così mal concia, malmenata la filoſofia, non potea
vantaggiarli nella Grecia. Perchè ragionevolmente diſſe quell'Egeziaco San
cerdote nel Timeo, chei Greci eran ſempre giovaniſlimi,e fanciulli: emlwes del
muides is ', gépur di enlew oux iso, certè ha bent, dice Franceſco Baccone, id
quod puerorum eft, ut ad garriendum prompti fint; generare autem nonpoffint.
Così perduta, e ſpenta la buona filoſofia, poco a capi tal tenendoſi i libri
diquella, nc punto per huom riſerban doſi, o traſcrivendoſi, avvennc, che infra
breve ſpazio di tempo con comune ſcoſcio delle buone lettere, affatto fi
perderono; rimanendo ſolamente que’libri de' yani çiarla tori, che al guaſto, e
corrotto ſecolo erano in pregio; ne? quali poteſe ben paſcerfi,e nutricar
l'ambizioſa vanità de Greci. Ea tanta caduta della buona filoſofia s'aggiunſes
poi l'allagamento de'Barbari nell' Imperio Romano, nel quale andandone a ruba
ogni coſa, que'pochi libri, che pur v'erano rimaſi, fi perderonſi,; e come dice
il teſtè rap porcaco Bacconc, doctrina humana velut naufragium per. pefa eft;
& philofophia Ariftotelis, o Platonis tanquam, tabula ex materia leviori,
minus ſolida per fluctus tem porum fervatæ ſunt. I qualilibri dapoi imbolati,
lo non ſo come, dagli Arabi ſi tramandarono inſiemecolla ſerya, e apparente
filoſofia, come altra volta fu detto alle noſtre contrade; e queſta è quella
filoſofia,che infino a' dì noftri con tanta loda è ſtata ſempremai ſeguita, e
tuttavia nelle Icuole comunemente s'inſegna: e a cui dicevam, che già poneſſe
le prime fondamenta Platone; il quale avvegna chè ravviſaſle il yero, e diritto
modo difiloſofare: percioc chè difficil molto, e malagevole gli ſembrava a
ſeguirlo, lalciofſi talora anch'egli portare alla corrente de' ſofiſmi Ma non
però di meno non laſciò talvolta il vero modo di filoſofare; comeagevolmente
egli ravviſar fi puote ne'ſuoi Dialoghi, e malimamente in quello, ch'egli
intitola il Ti Hhhh.. meo, o della natura. Perchè ben ſi pare, ch'egli ſaggia
mente foſſeli attentato di gir anche per quel medeſimo sé tiero, per cui già
Democrito, e gli altri primipadri, e ve rije ſovrani maeſtri della filoſofia
avviatiſi erano;ma come sébra ad Ariſtotele, no ſegui egli troppo felicemente
l'im preſo aringo, e di gran lunga a Democrito addietro reſtoffi. Πλάτων μεν,
fono parole d'Ariftotele, περί γενέσεως έσκέψατο,28 φθοράς όπως υπάρχει τοϊς
πάγμαστεκαι σερί γενέσεως ού πάσης, αλλα της ή στοιχείων πώςδε σάρκες, ή όσα
και η άλων και των τοιούτων, ουδεν·έτι, ουδε. περι αλοιώσεως, ουδε περί
αυξήσεως, ένα τρόπον υπάρχει τους πράγμα στν · όλο- δε παρα τα έπιπολής περί
ουδενός ουδείς επίσησεν, έξω Δημα reíte;cioè Platone cöfiderò la fula
generazione e'l corrõpimēta delle coſe;ne già di tutte,ma degli
elemêtifolamēte; trabaſcia doariguardare, come formifla carne, el'offa, e gli
altrifo miglianti corpi; ne demutamenti, o come s'accreſcano,o pig giorino
cotai corpi feceparola alcuna. Finalmëte nonfu niuno, fe non ſe alla rimpazzata,e
lentaměte, che ragionaſſe mai de' mutamēti delle coſe,da Democrito in fuora.Ecomechè
que Ito riprédiméto fatto da Ariſtotele al ſuo maeſtro egli sébrë
all'intendentiſſimo Patrizio un manifeſto, e falfſſimo appo ſtamento, e
maladizione dell'invidia dilui; pur non ha tut to il corto Ariſtotele in così
fattamente ragionare; imper ciocchè quantūque Platone in molti luoghi delle ſue
ope re baſtantemento favellato aveſſe della generazion delle pictre, de'venti,
delle gragnuole, de’nuvoli,del criſtallo, della neve, della rugiada,delvino,
dell'olio, e d'altri fi ghi: e ſomigliantemente filoſofato de ſapori, degli
odoris e de'colori delle coſe, e detto altresì de’mutamenti e degli
accreſcimenti di quelle; e quantunque anche ſpezial mé. zione aveſſe fatta
della carne, e dell’oſsa, ecome quelles s'ingenerino; pur no così addētro
innoltroſi ne'ſuoi ragio namenti,che toccato aveſse diſtintamente, come con
que? ſuoi quattro corpi fi doveſſono mai formar cotante coſe;
perchèparve,ch'egliaveſse cominciato a filoſofar colmo do vero, che ſi
conveniva; ma poifmagato a mezzo corſo foſſe ricoverato all'apparente. E queſto
è quel, che vuole dir di lui Ariſtotele, biafimatone a torto dal Patrizio nella
difeſa del ſuo Platone. Ma fu egli anche Platone traſcu rato a ſpiegar comeſi
doveſſero partire, o accozzar que fuoi primi corpi, pereffer valevoli a
produrre negli organi de' noftriſentimenti gli odori, e i ſapori, e i colori
delle coſe; perchè ragionevolmente ſoggiugne Ariſtotele, niun maeſtro in
filoſofia, fuor ſolamente Democrito, aver ad dentro ſpiato fino agli ultimi
fondi i principj delle coſe. E ciò agevolmente fi può comprendere dallemedeſime
paro le di Platone; il qual così nel ſuo Timeo dice: To dº osoīvowle φησιν ώδε
γίώ διατρήσας καθαρgν, και λείαν ανεφύρgσε, και έδευσε μυε λώ, και μετα τούτη
άς πύρ αυτο εν τίθησι μετ' εκείνο δε εις ύδωρ βάλει και πα Αιν δε εις σύρ,αύθις
τι εις ύδωρ"μεταφέρον δ ' ούτως πολάκις εις εκάτερονυπ ' se je Dowăsnutev
dzepyáo mo. L'offo vēne formato in queſta guiſa; minuzzădo in prima la terra pura,
é netta,meſcolalla, e inu midilla colle midolla;quindila poſe nel
fuoco;quindiattuffolla nell'acqua;quindidinuovo la poſe nel fuoco;e
cosìriponendola molte frate or nel fuoco, or nell'acqua, sì, e tanto fece, che
dell'acqua, e del fuocoquello alla per fin venne a ingene. rarfi. Or chi domine,
non direbbe con Ariſtotele, eſſer que. Ito filoſofare alla groſſa colle fole
parole, ſenza veder più in là, che la ſola buccia delle coſe perciocchè ſe la
terra, come vuol Platone, era pura, e ſchietta, non era, meſtier certamente di
sbriciarla; che ſe i cubi, de' quali, ſecondo lui, ella è formata, così
ammaſſati, e riſtretti ſta vano, che ſegnale alcun di partiinento non avevano,
già quelli veritieramente non eran mica da dir cubi; e ſeguen temcntc non era
dadir terra quella, ma una cotal maſſa, che tritata, e minuzzata così ſe ne
poteva formar terra, come acqua, comeanche qualunque altra coſa del mondo,
ſecondo le particelle,in cui partir ſi poteva. Perchè me ftier certamente non
era d'accattare altronde fuoco, o ac qua per lavorar quaſi in fucina,
temperando l'oſſo,ſe tutto abbondevolmente in ſe aveva. E ſe i cubi eran
partiti, e affacciati nella lor debita figura, che coſa mai potea cosi divili,
e sbriciolati tenergli non il vuoto,che perlui coſta - tcinente ſi niega; non
altra diſcorrente ſoſtanza, e irrego Hhla h 2 lar un 0121 Ragionamento Ottavo
Jarmente figurata; imperocchè ne diquattro foli corpiscos meegli vuole
verrebbono a comporſi le coſe cutte del mo. do; ne la terra pura farebbe, e da
niun'altra coſa non tra meſtata. O forſe i già detti cubi poteva il ſolo moto
tener diviſi? nia dovendo ciaſcun di loromuoverſi,ed eſſer d'ogni banda
ſceverato oltre molte altre inconvenienze, n'occor re queſta, che non già un
corpo ſaldo, ficomeè la terra: main diſcorrente verrebbero a comporre. E
lomigliāte anchea queſta maniera di filoſofare fu quel diviſamento del medeſimo
Placone intorno alla generazion. della carne, e de' nervi;ch'egli narra nel
medeſimo Dialo go del Timeo; il qualccrtamente non è altro, che una va ga, e
ben compoſta diceria; che con vane parole allettan do i ſemplici, e poco
intendenti delle coſe naturali, fa, ch egli faccia ritratto di gran filoſofante
Al vulgo ignaro, & a l'inferme menti. Perchè non haegli il torto Ariftotele
in dir,che il ſuo mae ftro non trapalli più, che la prima buccia delle coſe in
filo fofando, e nons'immerga troppo ne'naſcondigli più ſco noſciuti della
natura. Di più, dice Ariftotele, e libera mente confeffa, che ſciogliere i
corpi fino alla lor ſuperfi cie, come fa Placone, ſia coſa affatto ſconvenevole;
per ciocchè dalle ſuperficie non ſi poffono generar qualità, altra cofa, ſe non
folamente corpi faldi; il chepuò ben far Democrito co’fuoi acomi. E non molto
dopo ſoggiugne: Democrito fembra aver certamente ſpecolata con propia, e
convenevol ragione la natura delle coſe. E comechè in parte ingannaſſefi
Ariſtotele in ciò dicendo; perciocchè bé fi ſpiega nelTimeo, come talora il
caldo s'ingeneri ſenza ricorrere alla ſuperficie: non però di meno ha egli per
al tro non poca ragione in biaſimarne il ſuo maeſtro, ſembraa do a ciaſcun '
ch’abbia ſenno, ſoverchio alfai, e ſconvene vole quello ſcioglimento de
corpiinfino alla ſuperficie. E noi, le il tempo ce'l concedeffe, ne
ragioneremmo per av, ventura più alfai, e forſe altrove ne diremo; ma non è al
preſente da traſandar, che ſei quattro corpi di Platone poſſono più ſottilmente
ſtricolarli, e minuzzarſi in altre fi gure, come ſi pare,ch'egli in qualche
fuogo de'ſuoi ſcritti accennar voglia; vano certamente, e foverchio è a dire,
che que'cotali corpicciuoli colle lor figure, e facce dean cominciamento alle
coſe tutte del mondo; e non più tolto un ſolo corpo, il qual poi in molti
corpicciuoli di moka te, e varie figure partito foſſe. Ma fe pur vogliams
contendere, che ne ftritolar, ne partire in modo niu no que' corpi li poſſano,
lo.non fo come quattro cor pi ſolamente a formar tante, e tante diverſe coſe,
che noi ci veggiamo, baſtanti pur ſiano. Ne meno fo lo certa mente comprendere,
come poffan que'quattro corpi cial cun luogo affatto ingombrare. Il che anche
avvisò Ariſto tele; comechè egli troppo fanciullefcamente in ciò fallaffe,
portando opinione, che le piramidi foffer valevoli a riem piere ciaſcuno ſpazio;
nel qual manifefto errore ſmuccian do poi incorfero dietro a luituttiſuoi
interpetri, e feguaci; e ne fur forte biaſimati dal P. Giuſeppe Blancani, e
prima di lui da Gio: Battiſta de' Benedetti e dall'impareggiabil Geometra
Franceſco Maurolico. Ma in cotanti fdruccioli, e malagevolezze abbattendo fi
l'avvedutisſimo Platone, riſtando in fu le primeormes del ſuo ſpeculare,non
ebbe ardimento d'innoltrarſi d'avā. taggio ne'maraviglioſi ſegreti della
natura;e quaſi nocchier rotto per tempeſta in mare, che lentamente vada ridendo
i più ſicuri lidi, non s'arriſchio d'ingaggiarſimaggiormen te nell'aſprezze del
filoſofare, e folo andò pian piano, e có ritegno palpando le prime facce delle
coſe. Ne ciò ba Stando a renderlo ſicuro da' pericoli, non volendo ne ans che
affermare alcuna, comechè leggeriffima cofa, feces quaſi in iſcena comparir
perſonaggi a favellar diverfaméter ciaſcú ſecodo il ſuo ſentiméto, delle coſe
del mondo,e for mò Dialoghi,e ragionamenti in nome altrui per ceſſare i m
ordimenti delle varie ſcuole della filoſofia. Ma lo ſcal trito, e fagace
Ariſtotele all' apparence filoſofia con ogni sforzo, e con tutto lo ſtudio del
ſuo ingegno riyol gendoſi, cercò artificioſamente la coſa naſcondere: e tanto
operò, che venne in grado di primo filoſofante del mon 614 Ragionamento Ottauo
mondo appreſſo il vulgo;ma qualeſi foffe il ſuoartificio lo brevemente vi
dimoſtrerò. Compofe egli quel libro cotão to pregiato da' ſuoiparziali, nel
quale delle ſole cores aſtratte impreſe a favellare: e ad eſemplo degli
antichi, or di Teologia, or di ſapienza, or diprima filoſofia altiera mente
chiamollo; i quali titoli fur tutti poi da' ſuoi inter petri nel ſolo titolo
della Metafiſica cambiati. Intorno al qual libro ſarebbe molto da dire;ma chi
pur n'è vago di qualche contezza, vegga Franceſco Patrizio, e MarioNi zolio, e
Pietro Ramo ilquale con l'uſata ſua libertà,e di ligenza eſaminandolo, trovollo
alla fine non eſſer altro, che la medeſima loica d'Ariſtotele, con diverſe
parole, e nuovo ordine travolta: e una ſconcia, emalcompoſta me ſcolanza, e
guazzabuglio di ſoli vocaboli; perchè manifc ftamente avvedutofene Nicolò da
Damaſco, il cui faggio intendimento iguale a quel di Teofraſto, o d'Ariſtotele
medeſimo fureputato, comechèegli de'parteggianti d'A riſtotele, c Peripatetico
ſi foffe: pur giudicollo inucile af fatto alconoſcimento delle coſe; e
de'medeſimi ſenti menti fu anche Plutarco. Ma che che di ciò ſia, immagi nò
Ariſtotele aver baſtantemente con cotal libro dato a divedere, ch'egli aveſſe
diſtintainente diviſato delle coſe univerſali, e ſtratte, per non doverle poi
meſcolar colle fi fiche, come avean fatto gli antichi,i quali perciò ne furda
lui gravemente biaſimati,e ripreſi: comechè a torto, fico mei medeſimi ſuoi
peripatetici confeſſano. Ma poco cer tamente in ciò approdogli la ſua
ſcalterita avvedutezza; perciocchè non è huomo tanto quanto intendente delle
coſe del mondo,ch'abbattendoſi ne' libri della ſua natural filoſofia non
s'avviſi tantoſto a’primi foglieffer quella tutta apparente, e ideale, ne
ſerbare in fe coſa alcuna di ſaldo. Pur piacque oltremodo a no pochi sì fatto
modo di ſchera zar filoſofando, parendo egli vago aſsai, e ingegnoſoallas
ſembraglia de'giovani; i quali s'avviſavano concotali va ni, e folli
diviſamenti, e millanterie già pienamente ſaper tutto, quando per avventura non
ſapevan nulla.E la ſcioc ca torma del popolo vi pur correva, maravigliando ſommamente
di cotanti termini ſtratti, e fantaſtichi, comes nuovi, e non ancor comprehi
dagli ſcolari di baſſo inten dimento, e da dover richieder più profonda, e
ſottil dot trina, checoloro non aveano; Semper enimſtolidi magis admirantur,
amantq; Inverfis qua fub verbis latitantia cernunt. E per maggiormente farci
veder la luna, come ſuoldir fi, nel pozzo, cominciò eglimalizioſamente a voler
ragio nare di coſe naturali; e in ogni ſuo capo imprende a dir có qualche
menoma faldezza di vera filoſofia; ma toſto ricor re agli uſati fofifmi,non
iſpiegando mai nulla di vero,ne manifeſtando qual foffe la natura delle coſe,
di cui egli fa vella; ne come di nuovo naſcano, o yengan meno, ne co me
patiſcano, o operino nel mondo. Al che riguardando infra gli altri Plutarco,
comechè egli non fofse cotanto ſao gace, pur delle vane ciace di lui avveduto;
l'allogò di gran lunga dietro al divino Democritose co-maggior ragione in vero
di quella pla qualeAriſtotele al fuo maeſtro Platone medeſimaméte Democrito átepofto
avea. Ne in ciò cota to teneri,.e parzionali d'Ariſtotele i moderni filoſofanti
fono, che reſi talvolta avveduri de'ſuoi trafandamentisan che i pià cari
ſeguaci di lui, forte non l'accagionino: e infra gli altri quell'avvedutisſimo
fuo Chioſatore, il Padre Ni colò Cabbei; il quale,comechè peripatetico di gran
rino meanpur volle apertamétemanifeſtarlo in chiosådo le me teore del
ſuomaeſtro.Quia iſte Philofophus (dice ) maximè pollebat ingenio metaphyfico,
edapprimè ei arridebatphilofo pbariper metapbyficasabſtractiones: ubi adres
phyſicas de venitur, quia ad hos ingenio fuo nonferebatur, ingenii vires
nonacuit; ed in un altro luogo: Ariſtoteles magismetaphy ficis obſervationibus
affuetus, quam phyficis obfervatur. E finalmente egli conchiude: fed fenties in
rebusphyſicis Ari Stotelem non potuiſje metamſapientiæ attingere. Enelvero chi
ſarà maicolui, che riſtucco forte, e faſtie dito delle ſue vane dicerie no'l
biaſimi, e rimproveri, rin venendo in lui più, e maggiori tacce affai', che non
vi rava viſa il Cabbei? Egli primieramente togliendo ad imitazio ne d'O 616
Ragionamento Ottavo ned'Ocello Lucano(ſe pur egli è l'autore di quel libro,che
gli viene attribuito ) e diPlatone, oſia di Timeo, a fabbri. car la grandiſſima
maſſa dell’Vniverſo tutta fantaſtica, tut ta metafiſica, e apparente, prele per
principi delle coſe sé. fibili, e vere, terminitutticonfuli, e generali, e da'
noftri sétiméti affatto rimoſſi;del che forteegli è da accagionare;
mallimamente, ch'egli medeſimo avvisò pur una fiata, do ver delle coſe
ſenſibili effer ſenſibili parimente i principj; e ciò cotanto egli giudicò vero,
che preſene ſconciamente a carminare gli antichifiloſofapti. Egli ſono i
principi, onde Ariſtocele vuole, che forma te le coſe tutte ſenſibili ſi
foſſero, così larghi, e lontani, che ben yi ſi poſſono agevolmente ricoverare
curci que'fiſici principi, che varic, e diverſe ſchiere de'filoſofanti,così an
tiche, comemoderne alle coſe naturali impongono. E ciò ben ne diedea conoſcere
il famoſo ChenelmoDigbinobi lillimo filoſofante del noſtro ſecolo, allor che
con lodevo le artificio volendo prender gli oſtinati; e provani peripa terici,
fece ſembiante d'effer anch'cgli cocale. Il qual arti ficio dopo il Digbi,
molci valenc'huomini d'uſare anche ſi Audiarono. Ma laſciando ciò al preſente
ſtare, non iſpie gando mai Ariſtotele ciò, che in fiſica ſia quello, a cuive
ramente poſſa adattarſi quella generale, e confuſa ſua difi zione della materia,
e della forma:nulla certamente ad in ſegnare e' viene. E nel vero, chemonta per
Dio a ſapere, che ciò che di nuovo in queſto vaſto teatro del mondo ap pariſce,
e s'ingenera, e li forma, non era in prima tale, po tendo eſservi? ed ecco la
gran maraviglia, naſcoſa in prima a tutt'altri antichi filoſofanti, che egli
con tante bel faggini millantando innalza, chiamandola privazione; più
ragionevolinente forſe da Platone detta occaſione, e non principio delle coſe.
Ma che direm noi degli altri due non men ridevoli principi delle coſe, cioè a
dir materia, e forma, ſopra le quali fondamenta egli la generazion tutta
dell'univerſo va fabbricando? Poveri filoſofanti antichi; voi per iftudio, e
ſudori non ſapeſte trovar diviſamenti sì bclli; Ariſtotele ſolo ſeppela nateria
delle coſe cſser po 1 tel tenza, overo
in potenza a divenir tali coſe, e la forma alla per fineeſſer un cotal-atto,
che dandoalla materia perfe zione, la mandi avanti, e la faccia eſfer
propiamente tale. E queſto è quel, che con tanti riboboli, e aggiramenti, e
lunghe dicerie eglide’principj delle coſe ragiona. Ma per Dio, ſe non fi fa in
che conſiſta la fiſica natura della mate ria, cioè a dire iti cui cada cal
potenza a divenir quefta, o quell'altra coſa., come potrà mai ſaperſi poi la
fiſica natura della forma, e ciò che abbia afarſi, acciocchè la materia
imprender poffa o queſta, o quell'altra diterminata coro per informarſi? e ſe
queſte pur non ſi fanno, comepotrā. mai ſaperſi le qualità, l'opere, e le
paſſioni delle coſe., come, e che, c perchè l'operazioni ſortiſcano? Se a
giovane, il quale apparar voleſſe a fabbricar glio riuoli,dopo molte, e molte
vaneciance e' diceffe per fine il maeſtro: attendi figlio, e nota ben tutte mie
parole, ch' Jo brievemente ora intendo di manifeftarti il maraviglioſo modo da
compor gli oriuoli: egli primieramente convienu ſapere., che l'oriuolo
fabbricaſ d'una cotal coſa, che non è mica già oriuolo; perchè ſe oriuolo ella
già foſse, non potrebbe divenir oriuolo;ma agevolmente ella può venir oriuolo
per.coſa acconcia a farla co effetto coral divenire: certamente,che udédo
cotali novelle lo ſcolare, e avveden doſi d'eſler uccellato, Goaffe direbbe,
maeſtro voi dite bene; ina quel che lo volea ſapere Io,era qual coſa è quel 12
cotal materia, che voi dite non eſser mica oriuolo, ina agevole a venir tale; e
quali ſono quelle coſe, per le qua lidivien tale; ma non ritraendone alla fin
riſpoſta, fe pri mieramente di faſso, o di legno,o di ferro,od'altro l'oriuol
fi debba comporre; e poi con quai mezzi, e lavorj ſi fac ciz, ſchernito, ed
ingannato il ' laſcerebbe colla ſua mala ventura. Or così appunto ſcherniſce, e
beffil Ariſtotcle. i luoi peripatetici. Ma Eudemo un de’più cari, e più famoſi
ſcolari d'Aristotele, ponendo in non cale l'autorità del maeſtro, çome in altre
coſe già fatto aveva, diſse la materia delle natura li coſe eſser vero, c
propiamente corpo; la qual ſentenzas fu poifermamenteabbracciata da quel famoſo,
e ſortii pe Iiii 018 Ragionamento Ottavo 1 ripatetico noſtro ItalianoAndrea
Ceſalpini.Ma comechè il Cefalpini in ciò moltoſi ſtudiaſſe, pur non
ritrovandolive Itigio alcuno dell'opere d'Eudemo, ove appiccar fi potef fe,
reſtò di farſi più avanti, e l'impreſa in ſu'l buono abbadono. Nemenopotè ſeguirſi
il diviſo d'Averroe intorno a cotal biſogna; il qual diſſe doverſi aſſegnare
alla materia, comeaccidentile dimenſioniincerte, e indeterminate; per chè non
potendoſi a niun partito ſcufare ciò, che dice Ariſtotele intorno alla materia
', ne men riparando in par te gli errori di lui, con iſtorcere, e piegar le fue
parole in altri, e diverſi ſentimenti, ragionevolmente il bialima, e'l
proverbia il dottiſſimo greco Padre S. Baſilio Magno,dice do: ſe la materia
d'Ariſtotele eſsendo incorporea non è, ne: che, ne qualc, ne quanto, ſarà
certamente ella, come S.. Giuſtino parimente conchiudc, unacoſa.finta: cioè a
dire: una fantaſima, una chimera. Ma avviſando pure Ariſtotele, che in sì fatta
maniera fia. fofofandode primiprincipjdelle coſe; perdeva affatto il no me di
natural filoſofante, ricorre finalmente', ma troppo tardi a coſe ſenſibili; e
pone egli i quattro volgari elemen ti, come ſecondi principj decorpidiquaggiù;
ma non ave do ſpiegata la fiſica natura della materia, e della forma,on de
fecondo lui compoſtivengono gli elementi, no può ſpie gare (come avea fatto in
prima Empedoclc, Tinco;e Plizo tone, componendogli dipicciolillimi
corpicciuoli) natu ralmente procedendo, la vera eſſenza diquelli; perchè gli va
diſegnando', e deſcrivendo colle lor qualità; maegli poi, come a natural
filoſofo conveniva fare, le nature del le qualità non infegna; anzinepure dar
briga ſi vuole d'in veſtigarle; ed appenadeſcrive, rozzamente narrando al
cunipochi loro effetti aperti, e manifeſtiad ognuno; ed'in quegli anche talora
sì ſconciamente e'fallar ſuole', che nul fa più; ficomeallor, che francamente
egli afferma, che'l freddo uniſca tutte le coſe diqualunque genere elle ſi lie
no; e pur dovea egli avviſare, che'l freddo ralora coniſce. mare il movimento
all' acqua, chenon le facea calare a fondo, ſepara quelle coſe, che non
convengono nella gravità, e.che di diverſo genere ſono. Così parimente erra
Ariſtotele allor chedice, il caldo fceverar le coſe, che di diverſo genere
ſono,, da quelle, che convengono inſieme nel genere medeſiino; imperocchè
uficio del fuoco ſia col fuo rapidiſſimomovimento di ſceverar l'unedall'altre,
cut te le coſe,, che ſiano di qualunque genere, comechè talo ra (il che
ingannòAriſtotele )ritrovandoſi rimoſſo il cal do, non vieri, che le coſe più
gravi calando più giù ſi ſepa rino dalle men gravi. Manon meno fallar {i vede
Ariſto tele allor che egli imprendendo a narrar la natura dell'us mido,
definiſce contro a'ſuoimedeſiınidiviſamenti la ſpe zie colla definizione del
genere; dicendo: ma l'umido è quello, che dileggieri ricevendol'altrui termini,
non può in ſe ſteſso.contenerſi: uygóv dè, tè dóessevoixdin õp.com evőeisov or.
E no ha dubbio, che una coral definizione non avvegua al di fcorrente, di
cuiegli è ſpezie l'umido.; poichè il diſcorren te altro non ſignifica, ſe non
ſe quel.corpo, il quale diſcor re, s'inſinua, e penetra agevolmente, compreſo
cede's e non fa reſiſtenza; perchè non eſſendo da ſe terminato prende
dileggieril'altrui termine. Ma l'umido, oltre a queſto s'avviticchia in sì
fatta guiſa a ' corpi ſaldi,che:ſi ré de ſenſibile; laonde altro.nonè, ſe non
che una ſpecie di diſcorrente. E fe l'umido pure è tale, quale il ci.deſcrive
Ariſtotele, certamente egli non dovrebbeſi poſcia dirſi fec,.co.il fuoco.con
Ariſtotele, maumido; anzi umidiflimo con Bernardino Teleſio, ed Antonio Perſio
converrebbe chia marſi. Ne vale a pro d'Ariſtotele ciò che dice Giacomo
Zabarella, l'umido convenire in qualche guiſa al fuoco, no già per ſe, eſſendo
il fuoco ſecco per fe, ma per accidente: cioè ricevere agevolméte il fuoco il
termine altrui,non già per la ſiccità: non convenendo il ciò fare a tutti i
corpi fece chi: ma per la tenuità delle parti di quello; anzi contra ſtando la
ficcità del fuoco a quel corpo, che terminar lo yo leſſe, avvien, ch'egli non
riceva così agevolmente, come i corpi umidi far fogliono, il termine altrui. Ma
ſc noi il contrario ſperimentiamo di ciò, che dice il Zabarella, adattandoſi
aſſai più dell'acqua, cdell'aere il Iiii fuoco a quel termine, che da altri
corpi preſcritto'gli vie ne: oltre ad ogn'altro elemento umido dovrà dirſi il
fuoco; che non per altro nel vero Ariſtotele, e i ſuoi ſeguaci affer inano
cfler aſſai più dell'acqua, e fominaméte umida l'aria, perchè ſe la ſomma
umidità conviene al fuoco, egli non aurà certamente parte niuna in quello la
ſiccità; laonde ne anche per accidente il fuoco potrà ſecco mai dirſi. Enel
vero la narrazione del fecco da Ariſtotele rapportata,in cui egli in vece del
ſecco par che deſcriva il corpo ſaldo, in di cendo, il ſecco eſſer quello, che
ſi contiene agevolmente da ſe ſteffo, c malagevolmente prende l'altrui termine:
Engordà, no evóerson pèr cireiw opw, duodessor dè, egli non può con venire in
modo veruno al fuoco. Or come adunque il Za barella oſa affermare, che'l fuoco
fia per ſe ſecco? Oltre a ciò,ſe'l fuoco è per ſe tenue, ſarà anche per fe
umido i e ſe il tenue, per quel, che ne dica Ariſtotele,è ſpecie dell'u mido,
e’l fuoco non ſolamente da per ſe è tenue, ma nella tenuità l'aria, non che gli
altri elementi,vince d'aſſai; con verrà ſenza fallo confeſſare giuſta la
dottrina d'Ariſtotele, per fe,e vie più d'ogn'altro elemento eſſer umido il
fuoco. Ma vorrei faper quì da Giacomo Zabarella, e da Ar cangeloMercenario, che
volle darſi ſpezialmente una si fatta briga: onde, e come potraſli giugnere mai
a ſaperes che'l fuoco fia ſecco forſe daglieffetti? ma ond'è, che il folc, per
tacer d'altri, giuſta il ſentimento d'Ariſtotele non è altrimenti caldo,
comechè produca calore? ſenzachè il fuoco, come afferma Ariſtotele
medeſimo,ſovente ingenc rar ſuole l'umidità; come nel ghiaccio, ne'metalli,
einu altre coſe molte ſcorger e' li puote; e ſe ogni qualunque corpo, o pure i
più di eſſi,fi poſſono fondere in vetro, chi ardirà di dire, che'l fuoco non
ſia valevole a inge nerar l'umidità > E fe mai tutte le coſe, o la maggior
parte di eſſe in vetro per ſua opera fi cambiaffcro, non di rebbe ciaſcheduno,
che'l fuoco le rendeſſe umide primadi fermarle in vetro? oltre a ciò allora
quando l'acqua, ſecon, do Ariſtotele immagina, vien dal fuoco cambiata in aria,
certamente quella maggior umidi à, per cui aria l'acqua divie Del Sig.Lionardo
di Capoa. 621 diviene, in lei s'ingenera dal fuoco. Ma forſe ſarà ſecco il
fuoco, perchè, come fcioccamente ſi da egli ad intendere un barbaro autore, ſi
ſente da noi ſecco? Ma dal noſtro sé. ſo apertamente ſi ſcorge, che il fuoco ha
tutte le propietà agli umidicorpi da Ariſtotele attribuito. Ma forſe per fi
nirla argomentar fi potrà la ſiccità del fuoco dal ſuo calo re; ma eſſendo
propio del calore, comc Ariſtotele dice, il rarificare, certamente da ciò umido
più coſto, che fecco dovrebbe il fuoco argomentarfi. Dice altri, Ariſtotele non
l'umido, ma il diſcorrente aver definito; e che fi legge umido nelle fue opere,
per colpa di coloro che dallaGreca nella Latina favella trasla tarono i ſuoi
libri; poichè eſſendoſi valuto e’della parola sygov nella menzionata
definizione, che appo iGreci ora ſignificar vuole qualſifia corpo difcorrére,
or fi riſtrigne ad aſprinier ſolo quel, che tra corpi diſcorrenti tien vigore
do umidire, e chehumidum, vien detto da’latini. Eglino non bene intendendo i
ſentimenti d'Ariſtotele, immaginaro no aver fui l'umido definito;perchè
foggiūgono poi: a torto anche vien accagionato Ariftorele d'incoſtanza, e di co
traddizione; perchè d' talora dica,Pacqua eſfer più umida dell'aere, e talora
affermi (il che una fiata ſembrò pazzia a Galieno ) l'aria eſſer più umida
dell'acqua. Ma quanto poco, anzi nulla rilievi a pro d'Ariſtotete ciò, che
fingono coſtoro, chiarainente ſi conofce; imperocchè Ariſtotele in coſa
appartenente a' fondamenti della ſua filoſofia non dovea ſervirfi di vocaboli
ambigui, e dubbiofi; e ſe non v'erano i propj nella fua lingua, il che appena
mi ſi laſcia credere, che aveſſe potuto avvenire, eſſendo ella così ric ca, e
copiofa divoci, non gli avrebbon mancati modi, e vie di chiaramente fpiegare
ciò che cgli dovea dire. Ne li può Ariftotele ſcufaredelle contraddizioni;impe
rocchè, per tacer d'altro, dice egli una volta, che la tera ra ſi trovi in
tutti i miſti, perchè i corpimiſti, fpezialmen te i più grandiper lo più nel
luogo propio della terra ſi tro vano; ma Pacqua, perchè fa ellameſticre a
terminare i cor pi compofti, effere lei ſola di que’ſemplici corpi, che
terminare dileggieri dale poſſonoyn rifugão ivendéggumasaza έκαςον είναι
μάλιστακαι και πλείστον έντων οικείων τόπω·ύδωρ δε δια το δείν μεν δελζεται το
σύνθε % και μόνον δε είναι των απλών ευόμισαν το ύδως. Dal le quali parole
chiaramente fi coglie., che o abbia Ariſtote. le definir voluto l'umido, o pure
il diſcorrente; attribuen-. do egli all'acqua, come propia dote, e non comunea
verun altro elemento il potere agevolmēte da ſe terminare; il che certaméte
contro quel,ch'altre volte detto egli avea, viene a determinare l'acqua ſola,
eſcludendone l'aria, eller o umida, o diſcorrente, M,a nella ragione, che
Ariftotele di ciò indi a poco rapporta, ſi vale ſenzafallo della parola vypov a
denotar l'umido; e dice eſſer quello, il quale ha, forza dicontenere,
riſtrignere, e coaglutinare la terra,la quale ſenza l'acqua verrebbe a
diſſiparl.; perchè eſſer:cgli.conchiude, l'acqua parimente neceſſaria alla
compoſizio. ne de'miſti, con queſte parole: én dè ry Tosningav ávev Tš vggs μη
δύναθα συμμένειν. άλα τούτ' είναι τοσυνέχον ή γαρ εξαιρεθείη - λέως εξ αυτής το
υγρόν διαπίστοι αν• Ovc fcοrgerfi puote, che alla terra ancora convenga la
definizione dell'umido data per Ariſtotele; nell'opinione del quale ſi pare,
che a niuno degli elementi convenga la definizione,ch'egli del ſecco rapporta;
ma di ciò ad altri laſciando il diviſare, es Jaſciando ad altri eziádio la
briga di moſtrare, ch'Ariſtore le dagli effetti ſtelli,comechè pochi ch'egli
rapporta nelles incnzionate definizioni,potca agevolmente cogliere la na tura
di ciò ch'egli dice freddo, e umido: caldo, e ſecco: e così poi far anco di
que', che chiama lor differenze; accen però ſolamente ch’Ariſtotele alior che
fa parole del tenue, in dicendo, che il tenue compoſto fia di picciolo
parti,per che ricampie το δε λεπον αναπληρικόν(λεπτομερές γαρ και το μικρομε.
pès avænangıxóv.)noſtra ſeguir l'opinione di Democrito e che nella guiſa, che
detto abbiamo,filoſofare, comechè rozza mente e ſi vede del tenue; il che dovea
certamente c'fare, anche dell'altre qualità. Ma vediamo ora come Ariſtotcle a
ſpiegar infelicemen te imprenda la natura del movimento, in cui non ha dub bio,
che conllte cutta la nzural filoſofia. Primieramente cyli cgligiúdica eſfer
ilmovimento un cotal genere,il qualej comprenda l'alterazione, l'accreſcimento,
la diminuzione, la generazione, e’Imovimento, che chiaman locale. In di
diſegna, e definiſce ilmovimento nel primo, e nel ſeco do capitolo della fiſica,
in cotal guila: rov Suv áués.Övr. ÉVTE. dexaci, ģTovorov, cioè endelechia di
quella coſa, la quale è inpotenza, in quanto ella è tale; ed altrove: aivos,
évtené.. geta toī XIVSTOU, xuvytor, cioè, il movimento egli ſi è endelechia
della coſa, la quale tien potenza a muoverſi, in quanto ella tien la detta
potenza. Orchi domine non comprende ſe eſ ſer beffato, e uccellato da:
Ariſtotele?maſſimamente, che: egli medeſimo inſegna dover eſſerela definizione
più mani feſta, e più conoſciuta affiidella coſa, che ſi definiſce;per chè
diceGiovanniMagiro, famoſo peripatetico, eſſere cotal definizione biafimevole',
e vizioſa: atque ob eam.cau-. fäm in nonnullorum reprehenfiones incurrit. Ma.
Simplicio nondimeno dice', effer quella ſommamente artificioſa, e quaſi divina;
ſpiegandoli, emanifeſtandoſi con eſlå in una certa maniera maravigliofamente la
natura del movimen to. MaCicerone, e Porfirio affermano ', effer quella voce
ŁYTENÉXAtjun vago, e artificioſo ritrovato d'Ariſforele, per uccellar le genti;
e nel vero di cotal voce ſoven ti fiate ſervisſi Ariſtotele, non ſolamente per
ifpiegare il moviinento, ma l'anima ancora, e quella ſua nuova mtura: anzi
ilmedeſimoIddio (coſe ſenza fillo fra eſfo lo ro aſſai diverfe ) con talnomee'
ſcioccamente chiama. Per chè ben diffe l'avvedutisſimo Ramo: Entelechiæ fue
Ariſtoteles nimium conceſſit nimium indulſit. Ma ſu conceda fiad Ariſtotele
così bel diviſo, ne s'atté ti aſcun di privarlo della ſua endelechia; e reſti a
quellas comedice motteggevolmente il medeſimo autore, inveſti to in dore il
rcametutto della filoſofia; e che più? 'perdonili anche a lui ', che contro le
regole della dialettica con voci equivocoſe, e oſcure le definizioni formar fi
poſſano:'ela vocc iv terémax",prendaſi pure nella definizion del moto,non
già per perfezione acquiſtata, e compita, mache tuttavia fi vadi acquiſtando,
comepar che e' voglia: o per me”di re, per la ſtrada p la quale la perfezione
s'acquiſti; la qua le ſtrada certamente anch'ella in qualche modo è perfezio ne;
perchè meritevolmente è da chiamar con nome di at to della coſa, comechè
imperfetto; la qual li è in poten za a mandarſi all'atto perfetto, cioè a dir
alla forma, in quanto alla materia la coſa è in potenza,cioè a dire in qua to
può ella effettualmente imprenderla. Or dove eglino ſono, dove conſiſtono
quelle tante, e sì ſtrane maraviglie, millantate da Simplicio? Quid dignum
tanto feretbic promiffor hiatu? Parturient montes, naſcetur ridiculus mus.
Apporta Ariſtotele per ifpiegar maggiormente la coſa, l'eſemplo dei rame, il
quale comechè poffa divenire ſtatua, nondiincno quel movimento, col quale egli
poi vienead acquiſtar la perfezione, e la forma di {tatua, non appartic ne
punto al rame, in quanto, ch'egli è rame, ina folame te in quanto egli può
divenire, o eflere ftatua xaaxos, dice egli,κίνησίς έσιν ου γαρ το αυτό το
χαλκώείναι, και διωάμει τινί κινητώ, έπει & αυτον ω απλώς, και κατα τον
λόγον, ω αν και του χαλκού, και ganzes, ÉV TERÉNHO, xívyos, Mache montano alla
filoſofia si fatri ravvolgimentidiyaneparole, echiè per Dio, cheno ravviſi,e
non ſappia, appartener propriamente al muro, che può eſſer bianco, la
ſtrada,o'l mezzo di dover eſſer tale, in quanto cgli eſſer vi poſſa > Chi
ciò mai ardà a negare? Ma dell'atto, e della potenza, non ſolamente ſervir ſi
voller Ariſtotele per iſporre, e ſpiegare la nariua del movimento; anzi in
molte, emolte altre opportunità egli sì fattamente gli ripete,che
ragionevolmente infaſtidito Bernardino Te. lelio ebbe a dire: Magnos mehercule
Ariſtoteles, ut ingenuè fatetur ipſe, actus potentiave diſtinctioni gratias
debet;cu jus nimirum upe ex anguftiis quibuſvis evadere nibildefpe rat; il che
parimente venne avviſato da Antonio Perfio. E nel vero Ariſtotele ſpelle volte
ſi ſerve dell'atto, e della potenza per rattoppare, e rabberciar le ſue
Idruſcite does trine; e certamente quelle duc voci il traggono da’più ma
lagevoli,e intralciati laberinti della națural filoſofia. Ma ſe finalmente
definir mai voleſs Ariſtotele quel movimento, che chiaman locale, certamente
egli converreba be ricorrere alla general definizione del moviméto, có giu
gnervi d'avantaggio qualche diviſamēto proprio del moto locale. La qual coſa:
ſecondo lui,non ſarebbe molto ma lagevole a fornire; comeeper raffermar la ſua
ingegnoſif lima definizione del movimento ne fa pruova nell'altera zione, così
definendola: l'alterazione, è atto di quella coſa, la quale ſi può alterare, in
quanto ch'ella alterar fi puote: αλλοίωσης μεν γαρ, και του αυλοιωτού ή
αλοιωτών, εντελέχω. Adunque così ancora andrebbe, ſecondo Ariſtotele,nelmo
vimento del luogo la definizione: egli è il movimento del luogo, endelechia,
cioè atto della coſa, che ſi può lotal méte muovere, in quáto ella ſi può
localmente muovere; la qual definizione,ſe accóciaméte ſpiegherebbe la natura
del movimento locale, dicalo in mia vece il medeſimo Ariſto tele, che in
trattando del moto locale, a valer non ſe n'ebe be. Matacer non fi dee
certamente quì, che Pier Ramo avviſando non dovere effer il genere d'una coſa,
genere anche delle ſpecie di quella, perciocchè troppo rimoſſo, e lontano le
ſarebbe: preſe agio di gravemente punger Ari ftotele collarori di lui medeſimo,
così dicendo: Hic ende lechia rurſusnon imperfecta,fed abfoluta exprimitur;
&ta mrenfo genus effet motus, non poſsetefseproximum genus cui libet
motusfpeciei. Ma chi poi voleſſe eſaminare, e riandare le altre definizioni
d'Ariſtotele, rinverrebbe veriſſimo sé. za fallo l'avviſo di Lodovico Vives; il
quale, comechè non fi vegga mai pago di lodarlo, impertanto ebbe a dire: Ari
Stoteles eſt in definiendo vafer, occultus adeo, ut pleraquefine idcircò in
ejus philofophia incerta, da perplexa, parum etiam vera; dum magis curat quem
in modum reprehenfionem ex cludat, quàm ut afserat verum. E perciò funneanche
da Attico, eda Temiſtio alla ſeppia aſſomigliato. Ma tanto e tanto Ariſtotele
dell'oſcurezzaſi compiacque, e così ſo vente in iſcrivendo uſolla, ch’ebbe a
dir di lui ragionevol mente nel vero il P. Elizzaldi: Summa laus Ariſtotelis ob
fcuritas fuit. E quantunque Ammonio s'attenti di ſcuſa re Ariſtotele, dicendo
Ariſtotele eſsere ſtato oſcuro a bel Kkkk lo ſtu 626 Ragionamento Ottavo rezza,
lo ſtudio, non per altro, ſe non ſe per iſpaventar coll'oſcu ed eſcludere
dagliſtudi della filoſofia, e dalla lezio de'ſuoi libri gli huomini d'ottuſo, e
baſſo intendimento; il che ſi pare, che'l medeſimo Ariſtotele dir voleſle in
quel la lettera, fe pur fu ſua, e non da' ſuoi ſeguaci finta, ch'e gli ſcritta
l'aveſſe ad Aleſſandro, che da Aulo Gellio venne nella latina lingua traslatata
s'ngoja nixovs libros, quos edi tos quereris, non perinde, ut arcana
abfcondiros,neque editos ſcito effe, neque non editos; quoniam iis ſolis, qui
nos au diunt, cognobiles erunt; impertanto sì malamente venne fatto ad
Ariſtotele d'aſcădere la vera cagione del ſuo ſcri yere così oſcuramente, che
fu ravviſata da ognuno in gui ſa, che non poſſon far dimeno i medeſimi
peripatetici ta Jora di non confeſſarla apertamente; e per tacer di Simplią cio,
diTemiſtio, e d'altri molti: l'autor della cenſura de'libri d'Ariſtotele dopo
averlo ſtrabocchevolmente commenda to, alla fine purdice in facendo parole
delle ſue oſcurez ze: Accedebatad hæc ingenium viri te&tum, &
callidums, &metuens reprehenfionis, quod inhibebat eum ne proferret
interdum aperte, quæ fentiret; inde tam multa per ejus ope ra obſcura, &
ambigua. Ma laſciando ciò ſtare alpreſente, nomeno che nella definitione,egliſi
ſcorge eſſer Ariſtotele infelice nella diviſione del moto.Vuolegli,comeè detto,ſei
eſſere le ſpezie del moto: cioè generazione, corruttura,al
terazione,accreſcimento,diminuimiento, e moto locale; ma a chiunque bene, e
ſottilmente la coſa ragguarda, niuna altra forte di movimento ſi fu avanti
nella natura, ſe non ſe locale; e nel vero tutte le ſpecie
addotteperperAriſtotele, altro non ſono,ſalvo che movimenti locali; e ſi pare,che'l
medeſimo Ariſtotele ciò anche confelli; concioſliecoſachè dica egli una volta,
che'l moto locale ſia il primo de’moti, eche niuna delle p lui mézionate ſpezie
del moto ſi poſſa no ritrovar " inquemai diſcopagnate dalmoto locale; ed
uną altra fiata apertamente affermi, che il ſolo moto locale ſia quello, che
dir ſidebba propriamente moto. Divide Ari ſtotele primieramente ilmoto locale
in ſemplice, e miſto; ſemplice chiama egli quel movimento, il quale è ſempre
mai uniforme,e fimile a ſe medeſimo. Il moto semplice è di due maniere, retto,e
circolare;cöcioffiecoſache di due mas niere ſiano le grádezze séplicirerte
pariméte,e circolari; la qual ragione,quáto frivola,quanro yana fazlaſciù a voi
a conſiderare, Il moto çircolare, il quale ſolamentegiuſta il ſuo avvilo, è
perfetto, e regolare; vuole Ariſtotele eller quello, che fi få intorno almezzo;
ma il retto allo incon tro eſſer quello, che faffi in ſuſo, ed alla in giù,
Mataçé do, che avviſar dovea Ariſtotele que’movimenti, ch'egli immagina farſi
intorno al çētro della terra, non eſſer altra mente circolari ', ma ellittici,
follemente nel yero egli fi da ad intendere avermoto ſemplice nell'univerſo,
che retto non ſia; imperocchè qualunque corpo, cheſi muove convien certamente,
che ſe'n vada ad occupare il luogo a ſe più vicino; perchè ſarà mai ſempre ogni
ſuo moto ret to, e formerà mai ſempre col muoverſi linee rette; laonde i moti
obbliqui tutti,cácora que’che circolari ſi chiamano, altro non ſono, che
moltiſſimi, e poço men chę infinitimo vimenti retri; i quali ad ogn' ora
facendo angoli, a formar vengono moltiſlime, e poco men, che infinite linee
rette; laonde niun moto del mondo farà circolare; imperciocchè niun moto, che
in giro fi faccia mantener il corpo maiſemi pre potrà dal centro ugualmente
lontano; il che richiede Ariſtotels nel inoto circolare. E quinci
ſcorgeragevolme. te li puorc, quanto dal ver ſi diparta ciò che appreſo Ari
ftorelc diviſa, poço faggiamente, confondendo i membri della diviſione,
dicendoil moto ſemplice eller di tre ma niere: l'una di quello, che ſi fa
intorno al mezzo, o lia centro: l'altra diquello, che ſi fa dal mezzo; e
l'altra di quel, che ſi fa almezzo; ma degna ſenza fallo è d'aſcol tarſi con
grandiſſime riſa la cagion,che di sì fatta diviſio ne cgli reca,françamëte
affermando tre eſſer i ſemplici mos vimenti; concioſliecofachè abbiano i corpi
tre dimenſioni, Quinci li coglie eller falſa, e vana del pari la menzionata
diviſione del moto d'Ariſtotele; enon aver moto veruno nell'univerſo, che
compoſto eſſendo del retto, e del circo Jare, miſto con Ariſtotele dir
veramente ſi poſſa. Ma trapaſſando a quella diviſione del moto, così cele bre
ne’libri d'Ariſtotele, in naturale, e violento:veramen te in iſpiegare i membri
di quella oltremodo vario, ed in conſtante e ' li moſtra; perciocchè una fiara
dice, il moto violento eſſer quello ch'altrõde vien comunicato; il che ſe vero
fofſe, vana ſarebbe la fua diviſione; imperocchè ogni moto, giuſta Ariſtotele,
altronde procede; e un'altra vole ta poi, no badado a ciò che prima avea
detto,egli afferming comechè da altri cagionato effer poffa, trondimeno alcun
movimento eſſer naturale. Vltimamente Ariſtotele vuole, che quel moto djr ſi
debba violento, il quale venga cagio nato da eſterna cagione in un corpo, che
il ripugni; maſe il moto altro veramente egli non è, fe non cambiamento di
luogo, e al corpo non meno è natural queſto, che quell altro luogo: certamente
al corpo niun moto ſarà mai vio lento; e ogni qualunquemoto, che nell'univerſo
ſi faccia, dovrà dirfi naturale. Ne la terra, o altro corpo dique'che chiamanli
gravi da ſe, comeinſieme col vulgo immagina Ariſtotele gripugna il ſalir in
alto, quantunque ſi paja a noi, che non veggiamo que' corpi, che la ſpingono
giù, e fan ch'ella ripugni il ſalire. Non ſembra finalmente conforme a quel ſuo
famofo detto, ch'ogni coſa, che ſi muove, per alrri ſi muova, la
diviſione,ch’Ariſtotele reca del movime to, in quel, che vien fatto da fe, e
propio chiamato, e in quel, che da altri faſli, e per accidenteè detto. Ma una
cotal diviſione mi fa ſovvenir, come ſconciamente fallò Ariſtotele nel dire,
che'l generante muova ancor quando è lontano; anzi ancor quando più non è; e
che le ſue intel ligenze muovano moralmente; il che ancora di colui che'l tutto
muove empiaméte oſa egli affermare; che tanto egli è nel vero, quanto dire, che
le intelligenze muovano non movendo le ſpere celeſti dalui ſognate. Ma dovea
Ariſto tele avviſare, chela maniera dell'operare del Sovrano Mo narca
dell’Vniverſo è molto lontana, e differéte da quella, che'l più acuto umano
intendimento poſſa vnquemai im-, maginare;e comeegli già traſſe dal nulla le
corporee ſoftá ze colla fola volőtà, colla quale potè dar loro il moro anzi
gliele diede ſenza fargli puntomeſtier di toccamento veru no; e che Iddio
ancora fa, che gli Angioli parimentes. comeche inviſibili
fpiriti,pofanomuovere, avvegnachè nă tocchino le corporee ſoftanze; e laſciando
di riferire, che dican di ciò Guglielmo da Parigi, l’Aureolo, e altrimae Ari in
divinità, iquali non fi prendon briga più che tanto di venir a' particolari: Io
vado conghietturando, che: dar poſſano il moviméto gli Angioli a ' corpi,in
quella gui ſa per avventura, colla quale fuole l'anima ragionevolea allor che
muove il ſuo corpo; la quale certamente altro nā fa allorche muove qualche
membro, ſalvo che dar altra determinazione per opera della volontà a que'
rapidiffimi movimenti di que’minutiſſimicorpicciuoli, che continuo dal fangue
vengon per l'arterie a'nervi compartiti. Argo mentali eſser vero ciò
dall'oſservare, che ficome ſcema, o creſce in cotalicorpicciuoli il movimento,
così più o me no all'anima di muovere le mébra del noſtro corpo vié per meſso;
non altriméti forſe l'Angelo, comechè non ſia lor forma, come è l'anima del
corpo, muoveicorpi determi nando altrimentii moti de'piccioliſſimi
corpicciuoli,ch'en tro lor fono, o pure que' dell'aria, o dell'etere, che gli
penetra,e gli circonda; e'n quella guiſa, che'l vento soľ acqua muover logliono
le piume, e le frondi, faccian ancor cglino cambiar luogo a queſto, e a quel
corpo; ed eſsen do il moto delle particelle, che l'etere compongono, rapi
diſſimo:può l’Angela determinandolo condurre in brevif fimo tempo da un luogo a
un'altro,comechè lontaniffimos icorpi. Ma laſciando queſta curioſa digreſſione
a ' facri Teologi, e al noſtro Ariſtotele ritornando, lo dico,che no men, che
s'aveſse fatto del moto, ſcioccamente falla in di viſando del luogo: imperocchè
egli dice eſsere il luogo quella immaginata ſuperficie delcorpo, ove la coſa
allo gata ſia; la quale opinione, comechè egli la toglieſse di peſo comealcun
giudica daPlatone, o da Archita,dal quale tolſe anche quella fconcia diviſione
dell'ente cotanto da Lorenzo della Valle, e da altri deriſa, pure egli sì
disfor mata la ci reca, che nel vero ſembra, che più toſto egli ab. + bia 630
Ragionamento Ottavo bia ſecondarvoluto l'opinionedelvulgo, il quale non fa
diſtinguere il vaſo dal luogo: che adombrar i ſentimenti di que'valent'huomini;
e sì ſciocca, c irragionevole parves una sì fatta opinione a Filopono, per
tacer d'altri Peripa tetici, che acerbamente ne ripigliò il maeſtro; e nel yero
ſe'l luogo, comeragion perſuade, e Ariſtotele medelimo inſegna, appartiene a
qualſifia minima particella del corpo locato, dovrà ſenza fallo il luogo aver
parimente riſpetto a qualunquc minima particella del corpo locato,e farli da
quella ingombrare dimaniera; che a tutto il corpo locato corriſponda tutto il
luogo, ea qualunque minima particel la del corpo corriſponda ugual
minimaparticella di luogó. Conie potrà mai dunque conſiſtere la natura delluogo
nels la ſuperficie più vicina del corpo contiguo, la quale a cir condare, e ad
abbracciar viene il corpo locato, ed è affat to fuora di tutte le particelle di
eſſo corpo; perchène ſegui rebbe, chemoyendoſi un corpo, non ſi moverebbono tut
te le parti di eſſo, per tacer d'altre; e d'altre ſconvenevo lezze
a'peripatetici medefimimolto ben conoſciute. Ma per nulla dir di ciò, che dice
Ariſtotele del tempo, il qual ſe la mente noftra non ſi deſfe brigadi partire,
e di numerar il movimento; in niun modo ſecondo lui ci ſarebbe: chen ti,per Dio
ſono i diviſamenci d'Ariſtotele, dietro allana tura, e alla propietà del corpo?
E laſciando ciò ad altri cô ſiderare, accennerò ſolo quanto egli vanamente
s'aggiri in yolendo filoſofar, oltre alle qualità menzionate, della ra rità, e
della denfità prime, comedicç'una volta ditutte ale tre qualità del corpo,Si fa
egli follemente a credere, mora ſo da leggeriſſime ragioni, poter un corpo
rarificandoſi in grandire, e ſenza giunta d'altro corpo ingombrare mag gior
luogo, di quel che prima egli ingombrava, e maggior di fe divenire;e allo
incontro poi ſenza eſſer in nulla ſcema 10, e ſenza entrar l'une delle ſue
particelle entro l'altre,po tercondéſandoſiingombrar il corpo minore ſpazio di
quel, che prima egli ingombrava, e divenir minore di quel ches prima egliera,
Machi potrà mai ridire, come ſconciamē. te egli poi favelli della luce, come
de' colori, come de? (1 pori, come degli odori, comedell'altre ſenſibili
qualità.: Ma non è mio intendimento di volervi quì ad uno ad uno tutti i
fallimenti d'Ariſtotele narrare; che ſe un tal filo pré delli di ragionare,
certamente non ne verrei mai a capo; c nel vero ov'egli follemente non
aggiroffi in filoſofando di que'corpi,ch'egli chiamaſemplicide’miſti, edelle
lor qua lità? E quanto ſpiacevoli in verità ad udire ſon que’lunghi, e fuor di
propoſito diviſamenti, ch'egli fa del Cielo, dell'a. nima, e delle ſue
operazioni, dell' aere, de' venti, delle piove, de'fulmini, dellaneve, del
tremuoto, dell'altera zione, dell'accreſcimento, della diminuzione delmeſcola
mento, della generazione, della corruttura, c d'altre coſe naturali non
iſpiegate certamente da lui naturalmente, fi come facea meſtieri: chenti, ſono
le diviſioni, chenti, gli argomenti, in che fu egli sì infelice, che ne meno eb
be ventura di poter le più vere propoſizioni provare. Ma ſopratutto in
Ariſtotele mi par da notare, ch'egli in tutte le ſue opere ſi ſtudia colla ſua
loica d'avviluppar mai ſem pre la verità, e di crollare, e mandar a terra i
buoni, e veri ſentimenti de' più celebrifiloſofanti; perchè da Santo Am brogio
venn'egli chiamato:ftudiofus impugnāde veritatis;ç molto avātidi lui per le
medeſime ragioni l'antichiſſimoPa dre Tertulliano avea detto la dialettica
d'Ariſtotele:artificē Aruendi, &deftruendi verfipellem in fcientiis coactam
in co jecturis duram, in argumentis operatoriam contentionum ', moleftam etiam
fibi ipfiomnia tractantem, ne quid omnino tractaverit. Ma non ſo come fuggito
mi era dalla memoria ciò che Io avea determinato di dirvi del bel diviſamento,
ch ' Ari ſtocele fa delmondo. Afferma egli il mondo di neceſſità eſſer perfetto,
avendo egli larghezza, lunghezza, eſpel ſezza;dalle quali dimenſioni in fuora,
altra grandezzaw, non v'abbia, dache queſte tre ſole ſon tutte le coſe; e ove
fiano due, allora non diciamo tutti,ma ambodue,& aggiu gnendo a tre, allora
in prima diciam tutti; il che effer di sì fatta maniera, la natura il ci
inſegni, ece l'additi: c.chę per tal cagione,ci ſoggiugne cotal numero uſavali
ne'ſacri ficj; nel che Ariſtotele fra tantiaggiramenti avviluppofli, non per
altro, ſalvo che per iſpiegar alcuni ſencimenti de Pittagorici, da lui
malamente inteſi. Quindi apertamé te appare, quantograndefata ſi dia la
cracotanza di quel miſcredente Arabo Vano immaginator d'ombre, e di fole:
d'Averroe in dico, il quale privo affatto d'intendimento ärdì a dire eſſer
Ariſtotele la norma, el'idea a noi prepoſta dalla naturaper maraviglia di tutti
iſecoli, e per addicar ne l'ultimo sforzo, e l'intero compimento d'ogni umanaj
perfezione: e che egli venne a noi conceduto dall'eterna providenza per noſtro
ajuto; nelle cuiopere non s'è potu to per lo travalicamento di quindici ſecoli
error alcuno ri trovare; e in fine ch'a miracolo Natura il fece, e poi ruppe la
ſtampa; anzi tanto s'avanzò oltre la follia d'Averroe, che diffe, fe ad
Ariftotele folo voler dare intera credenza infra tutti gli altri huomini del
mondo; e ne meno eccettuonne il fantili. mo Profeta Moisè, qualor difle aver
Moisè dette molte coſe, ma niuna provata; al che aggiugner volle, per tacer
d'altro, quell'altra beſtemmia; che coloro, i quali affer mano Iddio ritrovarſi
per tutto, ſian fanciulli, e che di ſtruggano, e mandino a terra l'ordine tntto
delle cagioni naturali. MacomechèAverroe foſſe di sì ottuſo, e ballo
intendimento: impertanto valſe tanto la ſua autorità appo gli Arabi, che
vennero a gara da tutti abbracciare, e come verità infallibili credute furono
le dottrine d'Ariſtotele; laõde cõvēnè aʼnoſtri Teologi, p.poter cõvincere i
ſeguaci di Macometto,quella dottrina,che appo loro era in pregio, ed iſtima
apparare; e introdurre nelle ſcuole la filoſofia di Ariſtotele, o pure quella,
che ſi contiene ne' libri, che ſi leggon ſotto il ſuo nome; căcioffiecoſachè
dietro a tal con venente gran piari fieno infra gli ſcrittori. E veramente
alcune di quelle non pajono d'Ariſtotele, come p teſtimo niāze di Tullio,di
Laerzio, di Suida, e d'altri antichi ſcrit tori,e di Mario Nizolio, e di
Frāceſco Patrizi, e d'altri mo derni autori fi può affermare; nondimeno però
nei, co une que me que', cheveggiamo concordevolmente in tutte quell opere, che
portano in fronte il nome d'Ariſtotele, da libri neobanuárwv in fuori,
l'iſteſſo modo di filoſofare: portiai moopinionceſfer tutte d'Ariſtotele, o
pure da qualche ſuo ſcolare ſcritte ſecondo i diviſamenti del maeſtro: Mala
ſciando ciò ſtare al preſente, chiaro da quel che ſi è fin'o ra detto fivede,
non eſſere conſentimento comune degli huomini in eleggere Ariftotele per
primicro filoſofante; perciocchè nel lungo travalicamento di cotanti anni, dopo
le prime voci del ſuo nome, forte vanamente infra gli Araa bi per dappocagine,
e ſciempiezza del loro intendimento, gli altri tutti corſero lor dietro
Qualcapra all'altra perſentiero alpeftro: non con fermo, e ragionevole avviſo,
perchè non eſſendo vi elezione d'animo faggio, e avveduto, è da dir con Bac
cone, coitio, non confenfus; e come dice il Ciampoli, copia comune, non già
opinione comune. E nel vero ponendo in no cale l'originale, ad altro non
badarono le ſcuole, ſe non ſe a far copie continue di quelle ſconce; e mat
fatte copie del lor primiero maeſtro Ariſtotele: cd a ciò anche fare i
ſemplici,e rozzi ſcolari coſtrignendo;perchè non ſenza ca gione fu detto dc'
peripatetici da Lorenzo della Valle, il quale veramente fu ilprimo, che liberò
la filoſofia da quel cieco,e miſero fervaggio,in cui miſerevolmére giaceva fot
topoſta:Pudet referre apud quofdam elle morem initiandi di fcipulos,
&jurejurando adigendi, nunquam ſe Ariſtoteli re pugnaturos: genus hominum
fuperftitiofum, atque vecors, defe ipfo malè meritum; cum ſe facultate fraudent
indagă då veritatis; quos fi reprehendere jure optimo poſſumus, quod hanc ſibi
legem impofuerunt, qua tandem infectatione caſti. gare debemus, fi hanc legem
in alios transferunt; ſenzachèno dee giudicarſi opinion comune in filoſofia
quella, che nella fchiera de volgari filoſofi ſoli, avvegnachè innumerabi le,
alligna; ma più dalla qualità degli avveduti ragguarda tori delle coſe, che
dalla copioſa ſembraglia del popolo è da ſtimare; perciocchè, come teſtimonia
il Romino Ora tore, la filoſofia, dipochigiudicatori s'appaga, cabello L111
ftudio ſchifa la moltitudine a lei ſoſpetta, e odioſa: eft phia lofophia paucis
contenta judicibus, multitudinemque conful ty fugiens, eique ipfi, & fufpe
ta, & invifa; eragionevol mente in verità; imperocchè, come ſaggiamente
avviſa il Baccone: nihil multis placet, nifi imaginationem feriat, auf
intelleétum vulgarium rationum nodis adftringat;perchè dir ſoleva Ariſtotele
folamente in favellando la parte maggio re, ma nel giudicar poi la minor parte
doverfimai ſempre {eguire. Ma ciò, che de' Peripatetici abbiam noi ſin ora
diviſato, deſli ſenza fallo anche dire degli altri parteggian çi; de'quali
tutti ebbe a dire quel valent'huomo, noneſſer credenza infra’filoſofi così
ſtrana, e rimoſſa dalla ragione, che non abbia ritrovati i ſuoi difenſori. E sì
abbondevole fu nel vero la greca filoſofia di sì fatte ſconce, e inveriſi mili
opinioni, che non ſenza cagione fu detto da Varrone nemo ægrotus
quicquamfomniat Tam infandum, quod nonaliquis dicat philofophus. ma prima
potrei col Poetacotar nella diſerta piaggia l'are nege nel mar turbato
l'onde,che gire ad uno ad uno anno verando degli antichi filoſofi i fallimenti;
de quali più forſe ne ſarebbon conoſciuti, ſe a noi foſſero pervenute
tutt'altre opere di coloro, dicui Già lunga notte involve i nomi, e l'opre.
Maavendovi, come di ſopra avviſammo, infra' greci me. dici alcunivalentiſſimi
maeſtri, i quali ſi valſero dell'opi nioni di Zenone, e d'Epicuro in
filoſofando delle coſedel la medicina, nõ farà per avventura fuor del noſtro
propo fito il brievemente accennare i miei ſentimenti intorno al la ſtoica, ed
epicurea filoſofia. E per cominciar dalla ſtoi ca: grande certamente ſi fu la
follia di Zenonedella ſetta ſtoica primo maeſtro, e fondatore, il quale avendo
ben potuto fcorgere quanto ſi foffe oltre avanzato ſopra tutti i greci
filoſofantiDemocrito nella vera ſtrada del filoſofa re, volle nondimeno più
coſto gir dietro alla traccia di co loro, che apertamente avean da quella
traviato; e Com? mechè men vaneggiante affai d'Ariſtotele Zenon fi mo Atri in
iſpiegar le coſe della natura, non però di meno egli ancora nelle maggiori
ſtrette fuolentrar nel pecoreci cio, ſenza divifar nulla di ſaldo. Così in
ragionando delo la mareria la delcrive largaméte con termini (tratti e genes
rali,come appūto diviſato in prima n'avea Pittagora, e Pla. tone,e Ariſtotele;
della qual coſa ragionevolmēte ne fu egli force biaſimato da Seſto Empirico;
eavvegnapure,ch'egli cófesſaſſe eſſer vero corpo la materia, e chiamaſſe la
forma nõ cagione, ma parte delle coſe:nondimeno non iſpiegando appreſſo, che
coſa veramente la formalia, e in che conſi ſta la natura del corpo, e come
formar variamente fi poffa, e ne meno ſcendendo poialparticolar delle qualità,
mani feſtando, e dichiarando chente fia la lor natura, ecomes ingenerino: è da
dir, che neile medeſime ſconvenevolezze egli ancorcada, nelle quali già in
prima detto abbiamo eſ. ſer Platone, e Ariſtotele vergognoſamente caduci. Ma
non ſembra vero ciò che Cicerone, e altri fcrittori riferiſcono di Zenone, che
egli aveſſe per efficiente cagio. ne conoſciuto il ſolo fuoco; imperocchè egli
coinpone le coſe de’quattro volgari elementi; e alle loro qualità attri buiſce,
o tutte, olamaggior parte dell'operazioni natura. li, comech'egli in ciò poco
felicemente s'adoperi, per nốt aver inveſtigato in prima, come certamente
conveniva, la propietà diquelli; e quinci avvien poi;che Zenone di quel le, che
ſeconde qualità chiamanſi, così confuſamente an che favelli, comeſipuò vedere
allor ch'egli dice, eſſer i colori le primediſpoſizioni della materia. Dice ben
egli Zenone, che ſon due i primi principi delle coſe: paſ ſivo l'uno, cioè la
materia, ſoſtanza ſecondo lui priva di qualità: Paltro attivo, quale ingenera
ogni coſa, e vienda lui col nome d'Iddio, e di natura chiamato; e queſto vuol
Zenone, ch'altro non fia, ſe nõ ſe un ſottiliffimo fuoco do. tato di ragione, e
di ſapienza, il quale per tutto diſcorra, il tutto abbraccj,il tutto penetri; e
che dalle varie, c varie materie in cui egli ſi trovi,varj,e varj nomi poſcia
egli rice va.Ma quanto ciò ſia lõtano dalla ragione, nofa certamen. te
meſtieri, ch' lo duri fatica per darlovi a divedere. E Lill 2 nel vero ſe mai
Zenone argomentato ſi foffe d'inveſtigar, comeché rozzamente la natura del
fuoco,non avrebbe po tutomai concepirnella ſua mente così folle, e pazza opi
nione; anzi ne men avrebbe egli detto eſſer l'anime noſtre, caldi, e
ſottiliſſimi fpiriti, tratti, come rapporta Seneca: ex illisfempiternis ignibus,quæſidera,
acflellas vocamus,, veluti ſcintillas quafdam afrorum interris defiliiffe,
atque alieno loco exiife. Concioffiecofachè il fuoco, il quale al cro non è ſe
non fe un'adunamento di piccioliffimi corpic ciuoli, o sferici, o
piramidali,non pofſa ne ſentire, ne in tendere, ne far niun'altra operazione,
che l'anima far ſuo. le; perchè non avrebbe poi anco detto Zenone l'anime ef
fer mortali, e quelle dappoco, e baffe, qualieſſere giudica l'animne degli
ſciocchi, e ignoranti Cbe viſſer fenza fama, e ſenza lodo col corpo infieme
attutarſi, emorire; e quelle de’dotti fo lamente che, fon più vigoroſe, dover
durare ciaſcuna ſe condo il fuo potere, come fiaccole acceſe in tenacemate ria
fino all'ultimo ſcoſcio del mondo: fi ut fapientibus pla cet, dicea Tacito di
Zenone, e degli ſtoici, non cam corpo re extinguuntur magnæ animæ; il qual
luogo chioſando il dottiſſimo Lipfio: nota, dice, magnas arimas;minutæ igitur,
& fatuæ pereunt,aut non diu manent. La quale opinione motteggiando
l'eloquentiſfimo Romano: Stoici, dice, uſu ram nobis largiuntar tanquam
cornicibus: dia manſuros ajūt animos, ſemper negant. E quinci follemente
temevano gli Stoici ilmorir ſommerfi neĪPacque; imperocchè ſtimava no, che
l'aniine, come quelle, ch'eran di fuoco,veniſſero cſtinte dall'acque. Ma cotal
crcdenza ella mi ſembra, che molto più antica di Zenone ſtata fi foſſe;
imperocchè non per altro certamente quel grand'Eroe, d'Aſia ter rore, e'l
fagace Vliſe, e'l fortiffimo Duca Trojano moſtra no aver cotanto in orrore il
morir affogati nell'acque: ingemit Æneas, dice Servio, non propter mortem, fed
pro ptermortisgenus; grave eft enim fecundum Homerum perire naufragio, quia
anima eft ignea &, extingui videtur in ma ri contrario elemento.Ma
piacevole è nel vero a udire il di viſamento's ch'eglifa Zenone, intorno alla
generazion del mondo; dice egli, che Iddio ſtava primieramente in ſe ſtel ſo
raccolto, il che non ſo lo, come poſſa dirſi mai del fuo € 0; e che indi poi la
materia tutta in aria prima, e l'aria ape preffo in acqua cambiafle; e che
ficomenel ventre della femmina fi contiene il ſeme, così ſteſſe parimente
nell'ae: qua una materia abile a ingenerar tutte le coſe; e che pri mieramente
ingeneraſſe Iddio diquella materia i quattro elementi, cioè il fuoco, l'acqua,
l'aria, e la terra; e poidi queſti,tuttii corpi miſti formati veniffero. Il
fuoco ſecon do Zenone è caldo, e l'acqua è liquida, l'aria è fredda, e la terra
è arida; ma l'ordine col quale, c lic ſtelle, e gli altri ragguardevolicorpi
dell'univerſo s’ingeneraſſero; vie ne ſpiegato da Zenone in sì fatta guiſa.
Afferma egli, che nel ſupremo luogo foſſe collocato quelfuoco, il quale per la
gran fua: ſottigliezza vien detto ctere; e che in lui pri micramente naſceſfero
le ſtelle fiſſe; indi appreſſo l'ervanti, indi appreſſo l'aria., indi appreffo
l'acqua; e ultimamente la terra, la quale ſta in mezzo collocata; mafolte ben
fa rei Io a logorar il tempo nel racconto di queſte, e altre sì fatte empiezze,
che ci vuol dare ad intendere Zenone. Ma non meno ſtoltamente erra Zenolie in
ſecondando i fentimenti d'Omero', togliendo non ſolo la libertà dell’o perare
agli huomini; ına ſottoponendo alla violenza delFa to il: mcdeſimo Iddio;
perchè cantò Lucano, per tacer Se neca, Fileinone, e Manilio: Sive parensrerum,
quum primum informia regna, Materiamq; rudem flamma cedente recepit Tinxit in
æternum caufsas, quæcunéta coërcent; Se quoque Lege tenens, & fecula jufa
ferentem Fatorum immoto divifit limite mundum. E prima di Lucano, quel greco
poeta, così traslatato da Cicerone: Quod fore paratum eft,id fummum exfuperat
lovem; perchè dicono non poter nulla Iddio contro la violenza del Fato; ne lui
medeſimo poter iftorcere; o piegar l'opere de gli eterni provvedimenti; laonde
ſccodo i ſentimenti di Ze none 638 Ragionamento Ottavo 1 nonediſse Seneca,o
qualūquefi ful'autor di quella tragedia Non illa Deovertiſe, licet Que nexa
ſuis currunt cauſſis. E a ciò ponendo mente Luciano, piacevolmente deriden
do,come è fua usāza, gli Stoici, fa,che l'orgoglioſo Ciniſco ſeguace di
Zenone,tratto da cotali ſentiměti, temerariamć. te diſpregjGiove, e gli Dii
tutti, non temendo punto del le ſue folgori, ſe dal fato non gli erano
deſtinate; poichè gli Diitutti, e Giovemedeſimo erano al fato ſoggetti; u che
così gli Dii come gli huomini erano ſervi delleParche; ne potere far coſa del
mondogli Dii, per menoma,ch'ella ſi foſſe, che dalle Parche non foſſe in prima
ordinata, e lun gamente compoſta. Perchè altro gli Dii non effer, che mi niſtri,
e ſergentidelle Parche, o per mc' dire ſtrumenti di quelle, come la ſcure, e'l
trivello. E con queſte ſtoiche beſtemmie fa ch'egli ſi rida di Giove; il quale
oleremodo fi vanta di quella famoſa catena delle coſe del modo appreſ ſo Omero.
Il medeſimo Stoico poi giudica appo lo fteſſo Luciano eſſer anzile
Parchemedeſime, che Giove da pre gare, ſe lc Parche per prieghi pur ſi
moveſſero; poichè al le Parche, e non a Giove l'imperio tutto del mondo, c'1
primo reggimento de' fatiè da attribuire. Mano è da in tralaſciar,ch'avviſando
anche l'aſtutiſlimo Macometto,per nulla dir di Lutero, e di Calvino, eſſer
corale opinione molto in concio a'ſuoi fatti, preſela, ed inſegnolla nel ſuo
Alcorano, acciocchè preſti maiſempre, e arditi i ſuoi po. poli, ponendo giù
ogni timor della morte, a magnanime,e pericoloſe impreſe prontamente
s’eſponeſſero; perchè a co tal credenza riguardando il Taffo, pole in bocca al
valo roſo Rede'Turchi, Solimano, Giriſ pur Fortuna O buona, orea, com'è laſsù
preſcritto. Ma non meno ſciocca èquell'altra credenza di Zenone intorno a '
peccati, ch'egli follemente vuole, che tutti ſiano uguali, e che ne più, ne
meno falli colui, che ſpogli cru delmente della vita il ſuo propio padre, di
colui, che allor, che ciò far non convenga ammazzi un bruto anima le.
Equell'altra intorùo al ſuo ſapiente;il qual'eglivuole, chenon altrimenti, che
ſe la filoſofia l'aveſſe dell'umana natura poſto in bando,no’l muova amore,non
ira,non odio, non timore, ne qualúque altra più violéta paſſione. Senti menti
in verità, per dirla coll'Arioſto, Convenientia un huomfatto diſtucco; ed Io
per me non ſo come s'aveſſe giammai potuto fognar - Zenone una sì fatta novella,
ch'un huomopoffa viver nel mondo libero, e Sciolto da tutte qualitati umane.
Manon queſti ſolamente ſono,ma altri, e altri i falli che Zenone, e iſuoi
Stoici prendono, alla noſtra fede, ed alla natura ſteſſa ripugnanti; perchè non
pocomimaraviglio, come cotato preſſo alcuno ſiano commendate, e in pregio
tenute quelle memorie,chedi loro rimágono; e ſpezialmé te l'opere di Seneca;
imperciocchè non è punto, com 'egli follemente s'avviſano le genti, quell’
aſtuto Stoico, re ligioſo, e dabbene; concioffiecoſâche, ſe ben fifamente vi
fibadi, in altro non s'argomentiSeneca ne'ſuoi libri, ch'a toglier dal mondo
ogni coſtuma dipietà, e direligione; comechè faccia ſembiante nelle ſue
dottrine, di'rigorofilli mo Anacoreta, e poco men, che di perfettiſſimo Criſtia
no; e a prima faccia appaja, qual farſi vedervolle anche il fuo maeſtro Zenone,
Virtutis verd cuſtos, rigidus que ſatelles. Ma ritornando a Zenone, egliſi
parve, che talora Ze. none fi foſſe avvicinato al ſegno in filofofando delle
coſe naturali; come quando egli per iſpiegar la maniera, nella quale faſli la
viſta, diſſe l'occhio valerſi della aria teſa, co med'un baſtoneper conoſcer le
coſe viſibili; del quale esé. plo fi valſe poi così a propofito Renato delle
Carte. Com nobbe ancora Zenone, comeche a durar non viaveffe mols ta fatica,,
effer il ſole più grande della terra. Argomentò al. tresì egli da' ſuoi effetti
non eſser altro il ſole, ſe non le fuoco; ma da quelli certamente avviſar non
ſi puote, come egli immagina', eſser quel fuoco, ond' è forma to il ſole,ſincero,
e puriſſimo. Ma non ha dubbio,che Zeno 640 Ragionamento Ottavo. Zenone
s'ingannò grandemente, immaginando participar la luna aſsai più dell'altre
erranti ſtelle, della natura della terra: per eſserella più di eſso loro alla
terra vicina; im perciocchè non ha che far con ciò punto la vicinanza, e nó
v'ha ragion alcuna, la quale perſuader ci poſsa, che la lu na differiſca púto
dagli altri pianeti; e oltre a ciò mal inten dendo Zenone la ſentenza degli
antichi filoſofi, i quali di cevano comunicarfra di eſso loro inſieme p via di
piccio liſſimi corpicciuoli dall'une all'altre continuo mandati, le ſtelle
erranti, e fiſse, e la terra: afferma, che le ftelle, co me quelle,
ch'animaliſono, dal mondodi quaggiù riceva no il loro alimento; e venir il ſole
nutricato dal mare, la luña dall'acque dolci, e l'altre Atelle dalla terra; m2
perta cer d'altri difetti della filoſofia di Zenone, in ciò ſopra tut to fu
egli oltremodo manchevole, checoltivò molto più di quel, che certamente a
natural filofofo fi conveniva, gli ftudi della Loica, onde conveme, che i
ſeguacidilui, for ſe aſsai più di que'priini peripatetici,nelle inutili
fortigliez ze dialettiche intrigati, vennero ragionevolmente da Ga lieno
contenzioſi chiamati; e quinciavvenne, ch'eglino no poterono gran fatto
vantaggiarſi nello ſpecular le coſe della natura; onde ebbe a dire il medeſimo
Galieno, che gli Stoici nelle inutili coſe erano alsai eſercitati, ma rozzi poi
allo incontro in quelle di momento,e poco eſperti ſi dimo Atravano. Malaſciando
Zenone, trapaſseremo a ragionar d'Epicuro.. Primieramente per mio avviſo mai fi
par certaméte, che convengano ad Epicuro quelle ſtrabocchevoli lodi, che, da
pallionati luoi ſeguaci, c ſpezialmente da Lucrezio gli vengono attribuite icon
dire jufra l'altre millanterie, ch' Epicuro non huom mortale, ma Iddio ſi
foſse;e ch'egli pri ma di tutt'altri rinveniſse la vera ſapienza; e chc Epicuro
anche fi foſse Quel, che i termini tolfe al vaſto mondo, Le fiammeggiantimura a
terraſparſe, E'l vano immenfo col penſier traſcorſe. Imperocchè, per tralaſciar
ch’Epicuro altro in verità nõ faceffe, che traſcrivere le ſentenze di Democrito:
i falli menti del quale non maiegli diſcoverſe, non che rammen daſſe: anzi ſe
mai egli da’ſentiméti di Democrito ſi diparti, incorſe in graviſfimi falli. E
gliporrò opinione Epicuro, che da una infinita, ed immenſa corporea ſoſtanza,
qual ſecondo lui altro non è, ſe non ſe un radunamento d'infiniti corpicciuoli
di varie, ¢ varie grandezze, e figure, e da uno ſpazio parimente im menfo,
qual'egli vuoro d'ogni corpo eſſer crede,fia copoſte l'univerfose che fenza
regolaméto d'intelligenza veruna, a caſo, ed a ventura, dalmoto,
dall'accozzaméto,e dall'or dinamento, ſolo di que'corpicciuoline fian nati,non
ſola mente queſto, in cuinoiabitiamo, ma più, e più mondi, Aggiunſe egli al
diritto movimento de corpicciuoli (che apparò da Democrito) di ſuo altresi
quell'altro moto pie gato,ed obbliquo, acciocchè dalle varie maniere di quello
poteſſero cotante coſe ingenerarſene: e cocal movimento torto, eglidiffe naſcer
dalla chinacura de' corpicciuoli, quali movendo per diritto, ed in altri
corpiceiuoli incop pando, neceflariamente doveſſero in iftrigando piegarlize
non men dell'altre coſe del mondo empiamente eſtimò Epicuro eſſer compoſte le
noſtre anime, come dice Lu crezio Corporibus parvis, do levibus,atq; ratundis.
Ma fe noi riguardiamo, non ſolaméte alla diverſità del le coſe del mondo, ma
anche alla lor vaghezzase perfezio ne, e come nulla non vi ſtia a bada, ma
all'acconcio fine venga mai ſempre convenevolmente dirizzata: non può in niun
modo da ciaſcun comprenderli, come a riſchio, per caſo, ſenza ſottiliffima
macaria di gran maeſtro debba effer formata; e per non trarre argomenti dalle
ſtelle, dad ſole, dall'huomo e da altre,e altre opere maggiori d'Iddio, mi
contenterò ſolo di far parole di alcuni piccioli animales ti, come ſono le
moíche, le zanzare, le formiche, l'Api, gli Acari, c altei afſai cotanto
menomi, e ſottili, ch’appe col microſcopio, tanto quanto, cavviſar li poſſono;
e pu re fono in loro da ammirar, ſomipamente quelle picciolilli M in m in me
par 642 Ragionamento Ottavo 1 me particelle, così ben compoſto, e formate, come
nella notomia degli huomini medeſimi, e d'altri animali più grā di fi veggono.
Sono que'corpicciuoli anch'eglino forniti de’lor membri; ne mancan lornella
teſta i piccioliſſimi oc chiolini, e negli occhi le palpebre, e le tuniche, e
tutto ciò, ch’ad occhio ben compoſto per rimirar fi conviene; e nel capo è
anche loro il cervello, le glandole, le membrane ', ei ſottiliſſiminerbolini;
da' quali il poco ſugo nutritivo al rimanente del corpicciuolo ti dirama, e
comparte. E che dirò lo dello ſtomaco, delcuore, e d'altri fomiglianti me
bricelli? che dell'offa, e delle vene, e dell'arterie, e del facco latteo, e
de'vaſi acquoſi, e di cotante altre menomif fime particelle, chente, e quali a
ben fornito corpo ſi ri chieggiono? e che delle loro piccioliſſime anime, le
quali anch'elle nel reggimento tutto del corpo dimorano, e ri fvegliano i
ſentimenti, e fá chc muovano i membriceili alle fue opazioni:e céto, emillaltri
maraviglioſi effetti in quel lo adoperano?Ma ſopra tutto è da por menteal loro
indu ftrioro ingegno; e per non dire al preſente dell'api, è da maravigliar
ſommamente dell'induſtre, e faticoſa formica, Che'l vitto onde fi pafca
alfreddo verno Ripon la ſtate, ebenchè lunge ancora Sian difagion moleſta i
giorni algenti, Neghittofa non ceffa,e non s'allenta La negra turba,, anzi ſe
freſsa avvezza Ne le fatiche, e per gli adufti campi Fervel'opra nonmen, che
l'ore,e'lgiorno, Fin ch’abbia ne fuoi ſpecchiil gran ripoſto. E avendo forſe
quella per pruova appreſo effer la ſementa, onde poſcia germoglian le piáte, no
altro, che le piáteme de lime dentro della buccia raccolte, e riſtrette, per
ceſſar l'aſprezza del verno: come apertamente col microſcopio noiveggiamo:
avvedutamente per non farle ſorgere a più piacevol ftagione Ela con l'unghie
propie, incide, eſega I carifratti, e inumiditi al ſole Gli aſciuga, e ſecca,
el bel tempo fereno Spiando già prevede i lieti giorni. Talche quand'ella i
grani a'raggi eſpone Pioggia nonſtilla da lofcure nubi, Ediſerenità l'indicio è
certo. Quinci ripor ne le ſuecelle anguſte L'aſciutta meffe, e poi la ſerba, e
parte Cuſtode, e diſpenziera. E’ntenta a l'opre E nonfol mentre ilſoleaccende
icampi, Ma le fatiche ſuenotturne ancora Dal Ciel rimira la rotonda luna: E
quelle più ſerene, e calde nutti Tolte al dolce ripoſo, al queto ſonno
Aggiugneal travagliar continuo, e lungo. Ne è da traſandare ciò che delle
formiche oervò Clea te. Vide egli un giorno alquáte formichetrar dal lor for
micajo il cadavero d'una formica, e portarlo a un'altro vi cin formicajo; e
quivi giunte uſcirne;come chiamate,alerc formiche, e andar loro incontro, e
accontarſi quaſi ragio nando di lor bifogne; e indi a poco ritornarſene quelle
ch? erano uſcite nella lor buca, e di nuovo quindiriuſcire,e ri trovar le
foreſtiere,come rientrate foffero nella buca a re car l'imbaſciata di quelle
alle lor compagne; è conſiglia teſi del cadavere della lor compagna foſfer poi
ritornate a patteggiarne la riſcoſſa: e ciò due, o tre fiate facendo, alla fine
dopo cotante aggirare, quaſi eſſendo di convegna de loro piaci, andaronoalla
buca, e fi recarono loro un verme per taglia della morta fórmica, il qual
prendendoli quelle di fuora, e laſciando il patteggiato cadavere, n'andar via;
ed elle raddoſsãdoſi il cadavere ritornarono nella lor tana, quaſi per dover
quello ſotterrare. Néminormaraviglia è ciò che Io un giorno fattomi per diporto
ad una fineſtra di mia cafi oſſervai. Era in quella una formica, la qual
ripoſtali in guato, non altrimenti, chei'ragnuoli ſi faccia no, preſe per lo
piede unamoſca, la qual forte dibatten dofi, e ſcooendoſi, indarno di fuggir
slargomentava; ma pur la piccioliſſima formica non potendo portarſela, o uc
ciderlai, ſtrettamente fiffa la riteneva, fiache giuntavi a ca Mmmm 2 ſo
un'altra formica partiffi.di preſente, e ricornò con alire formiche a condurli
a forza la prcda dentro dal lor formi cajo. Ma perchène G faccia maggiorméte
manifeſto,qua to ſtolta fia ', cd'irragionevole la menzionata opinione d'E
picuro,e quanto fia grave l'ingiuria, che per quella vien fatta all'autore
dellanatura, egli ne fameâiere,che alqua to più di ciò, che per avventura
abbiſognerebbe in diſami narla c'intertegniamo. Dico adunque, che una ſoſtanza
fia quella, onde cotanti aſpetti, e sì diverſe ſembianze di coſe n'appajono in
queſto gran Teatro dell'univerſo, eſle re egli ſtato parere, in cui non pur
Democrico ed Epicu ro:mailmedeſimo Ariſtotele (il qual più,.chalari fa ve duta
diportarne contrariaopinione,dicomun conſentimé to convengono. E tanto par che
coſtui voleſse dire colà: nell'ottavo libro della metafiſica: ove feriſse
eſsere una, medefima coſa l'ultima materia, e laforma; e fimilmente non eſser
differenci nelfubbietto la materiais e la privazio. ne(del chc.a torto altrove
egliavevaripigliato Platone ) e che ſolo l'incelletto fra:cſso lor le
diſtinguaje nel ſecondo della fiſica; ſcrivendo, che la forma non maipoſsa
dalla, materia fceverarfi, ſe non ſe in mente noftra,ficome a niū modo può
fepararſi la ſchiacciatura dal naſo;:e nel ſecon do dell'anima: ove avvifa vano
eſsere l'inveſtigar, ſe l'ani ma ſia altra cofa dakcorpo diverſa;ſicome non è
da elami. nare, fe la figura, che imprende la cera, fia da quella di itinaa. E
finalıncnte il medeſimo par che confermis quan do ſpeſso ſpeſso va affermando,
la forma eſser quiddità della coſa; che a ſua favella vuol dire la formaeſser
perfe zione dellamateria,la qualiove capace diperfezione,mām. deria s'appella:ovegià
perfetta conſideriſi,forma:fi-dice. Ne altriméti in verità creder poteva: chiin
Dio, nelibertà, ne cnnipotenza riconoſceva;ondepotuto aveſse dal niente criando
le forme (le quali ſe-veramente altro foſser, che ka materia, folla
creationepotrebbe dar loro Peſsere, che che in contrario nedicano i
peripatetici ) e afuo talento la materia informarne. -Mache queſta ſoſtanza, di
cui ragioniamo,altro,non ſia che corpo inminutisme particelle di grandezza,
difigura; di fito, di moto, e d'ordine diverſe,sbriciolaco', e diviſo,
fuinſegnamêto che da Fenicjappreſero i primi Greci filor fofanti scomechè
Democrico, più ch'altri, in primachia ramente diviſato l'aveſse. Maqueſta
ſentenza medefima ne fa vedere eſserci ne ceſsario un'infinita onnipotenza, e
ſapienza valevole a dir ſporre, e ordinare in tante guiſe, e comunicare ivarſ
mo vimenti alla già dettämateria. E ciò ben conobbe da pri ma, per quel ch’lo
ſappia, il fapientiflimo Greco Filolo. fante Talete Milefio; e confeſsollo
manifeftamente, di cendo appreſso Cicerone: Aquam efse initium rerum:Derim
autem eam mentem, quæ ex aqua cuneta fingerei. E da lui l'appreſero poi Ippone,
e Ippia,.e cotant'altri antichi filo fofi, i quali tutti concordevolmente
giudicarono eſserci unamentc,o una fapienza infinitajlaqualpartédo,e fceve
rando queſta maſsa comune, e ordinandola, c movendola, doveſse cambiarla in
cotante guiſe, quali noiveggiamo.E cotalmente vollè anche il grande Anafsagora,
che dalla materia lua ſimilare, comedicono g.componcise ciaſcunai coſa del
mondo: comcchè a torto poinefoſse egliprover biato, e biaſimato oltremodo da
Ariſtotele, cola ove diſ ſe, ch’Anaſsagora d'un sè fatto ritrovato ſi foſse
voluto: ſcioccamente ſervire, per dar ragione dell'apparenze nas turali: non
altrimenti, che ſervir fi fogliono i tragici Poc tidelle loro machine piſciorre
i nodi più inviluppati del le favole; edelimedeſimo ſentimento di Talete
furonoan che Platone, o Timeo'; ed è da credere pure, che dal fon datore
dell'Italiana filoſofia, Pittagora, e damolt’altri fa * mofi,.e ſaggj
filoſofanti ſtata foſse in prima inſegnata. Ma però tutti i sì fatti
filoſofanti ad un tratto ſtrabocchevol mente fallarono in negando oftinatamente
eſser cotal fox ftanza uſcita dalle mani onnipotenti dell'Eterno Fattore,
dicendo eſser quella ſempremaiſtata ererna. E forſe non guari illoro errore fu
avāzato da quel d'Epicuro,o di De mocrito;i quali ciò checoloro alla mente
operatrice afcrifo ſero, attribuirono al caſo; imperocchè la divina, ed eter 1
li e ne be 12 2 na onnipotenza eltimarono deboliífimo artefice cheſol yao leſſe
della già eliftéte materia varie machinazioni formar ne; e così attribuendole
il poco: ilmolto, anzi il tutto negaronle, com'è il poter criare dal niente;
perchè dicono follemente, che'l ſovrano Facitore in fabbricando il mon do,
tutta la materia nell'opera conſumaſſe; e quinci avve niſſe poi, che un ſolo
e'ne formafle. Ma ritornando ad Epicuro: non ci dee rucar maraviglia, s'egli sì
ſconciarné te dell'onnipotenzadel grande Iddio favellaffe; imperoc chè egli
nonmeno ſciocco, che empio, immagino Iddio eſſer un'animale di ſembiante umano,
come quello, ch'è più bello di tutt'altri;ma nondimeno ſtimò noneſſer Iddio
corpo altrimenti, ina quafi corpo: ne aver Iddio ſangue, maquaſiſangue: Dice
Epicuro,oltre a ciò, che gli Dii ſian vaghi, adorni, e riſplendenti, e che le
membra fieno umane; ma chenon abbian però uficio niuno; e che l'al bergo degli
Diilia in quello ſpazio, che vuoto rimane in fra que’tanti, e tantimondi per
luifognati. Toglie affat to Epicuro empiainente poi la giuſtizia,e la
provedenza di vina; e afferma, che Iddio non cura punto di Noi, Nec bene pro
meritis capitur,nec tangitur.ira; i ! e riinettendo Epicuro il tutto nelle mani
della volubile, ei cieca fortuna,con iſcioccaggine, e ſcempiezza eſtrema le
attribuiſce De la terra, e del Ciel lo ſcettro,e'l regno. Ma'laſciando di più
diviſar di queſte, e d'altre fimili em piczze d'Epicuro, ad ogn’un conoſciute:
Io non ſo per me. come difender mai fi poſſa di’kuoi ſeguaci ciò che Epicuro
dice de'ſuoi atoini, chenon poffin dividerſi'; imperocchè, quantunqué
menomiſfimi; oltre adogni umana credenzali concepiſcano, ben potranno dividerſi
da uno, o da più ato mi, ch'a guiſa di piramide acuti, meno di loro piccioli
fia no; ne fa punto luogo il dire, che non avendo nell'atomo vuoto alcuno,
110'l poſſan penetrare altri atomi, ne fender lo, ne dividerlo in
parti;concioſliecofachè:ben potrà quell atomo, chefendere, e partire ilvoglia,
con replicati colpi a poco a poco penetrarlo, e dividerlo, ma ſi può creder 1 1
1 1 impertanto, che ſia queſta una quiſtione vana, e che o no mai; o rariſſime
fiate avvenir poffa, che un'atomo per al tro ſi fenda, e ſi divida;
concioſſiecoſachè quantunque li tenti di fare la diviſione di qualche atomo,
che in corpo faldo ſi trovi, non potendo'effer maiqueiľatomoaffatto có gli
altri atomi avviticchiato, e congiunto, ſicome a chiun quedirittamente
ragguarda la cofa, egli è manifeſto: gli riuſcirà aſſai più agevole in
ricevendo i colpi cedere, e diſ giugnerſi dagli altri atomi compagni, a fe
vicini, che'l romperhi.S'argomenta eſſer vero ciò che lo immagino,dal vedere,
che alcuni corpi faldiſfimi ſi ritrovano, i quali per qualunque forza, che
l'arte, o la natura viadoperi, non ſi pofſon giammai in altri cambiare; il che
altronde certamé te naſcer eglinon puote, fe no ſe dall'eſſer que’corpicciuo li
tutti, che gli compongono nella figura, e'nella grandez Za non guari diſſimili
infra effo loro, e dal non venir que gli mai rotti, e in particelle diviſi. Ma
non mi par, che lo clebba logorar il tempo in rifiutar l'opinione del Vacuod
Epicuro, apertamente perognuno ifcorgendofi falfa; co mechè valentiſſimi
filoſofi cerchino pure farla apparer vera; poichè per tacer altri imbratti,
concedendoſi ilva. cuo,converrebbe, cheli toccaſſero, e non fi toccaſſero l'u
nos e Paltro di que'corpi,infra’quali fi fingeffe inframmeſ fo il vuoto. Oltre
a queſto, fe infiniti gli atomiſono, ſe condo Epicuro: faran ſenza fallo
ripieni di corpi tutti gli fpazj;ne vi avrà ſpazio vuoto alcuno nell'univerſo;
in cui, comechè iinmenfo egli il faccia: Io non veggio lo, come infiniti corpi,
e ſpazio vuoto infinito immaginar mai poteſ fe Epicuro. Ma non in ciò ſolamente
fallar ſi vede Epicuro: maal tri, e altri errori ancor egli commettc;infra i
quali mi par certamente degno oltremodo da ridere quel, ch'egli,non già per
aver troppo creduto a’ſeñfi, come Cartefio crede, maperfuafo da troppo fievoli
argomenti, afferma,poter ef ſere il ſole o tanto, o poco più, o poco meno
grande di quel, ch'a noi ſi faccia vedere; ne men certamente rideyo le ſi è ciò,
che Epicuro immagina della figura della terra, del -0 vo 1 i 648 Ragionamento
Ottavo - del naſcimento, e aell'occaſo dellole, della luna, e dell'al tre
erranti, e fiſſe ſtelle:: degli Idoli, o ſian ſimulacri, che ci s'appreſentan,
ſecondo egli penſa, allorche noi veggia mo, e immaginiamo, le coſe;matroppo.tedioſo
diverrei, s'ogni fallimento d'Epicuro voleffi lo quì riferire: maſſi
mamentequei, ne qualierrò egli inſiemecon gli altri filo fofanti della Grecia;
perchè ragionevolmente forſe dir di tutti fi potrebbe ciò che d’Ariftotele, e
di Platone dicea S. Giuſtino, con quelle parole: ſe l'invenzione della veri sà,
come d'accordo ciaſcua vuole, è ilfine della filoſofia, Io non lo come coſtoro,
i quali nonebber niuna-contezza della verità, fi debban veramente
chiamarfiloſofi.E ragio nevolmente ancora S. Clemente d'Aleſſandria afferma che
la greca filoſofia, a riſchio, e per ventura, come alcuni vogliono, ſuole
rinvenir la verità; e ſe pur talvolta la ritro va:allora pur la prende
lievemente, e alla sfuggita,ſenza troppo minutamenteconſiderarla; e come altri
poicredo no, crae ella ſua origine dal Diavolo; edopo altri biafimi, conchiude
egli alla fine, efſer tutti rubaidi,e huomini ſcel leratiſſimi coloro, i quali
appo i Grecicol nome di filoſo fanti ſi chiamavano. Ma certamente troppo a
lungo, e più diquel,che al fi 1o del noſtro ragionamento forſe conveniva ſon
traſcorſo a favellar dell'antiche filoſofie;ma non ſi dee impertanto pe rò
inutile, e ſoverchio ciò reputare; poichè un de' più ma lagevoli,e de'meno
forſe conoſciuti impedimenti,ch’abbia arreſtato il corſo della filoſofia, Ga
ſtato quello dell'averſe fatto a credere gli huomini, chei greci
filoſofiaveſſero fco perto, e compreſo tutto ciò, chenel vaſtiſlimo reame del
la natura ſcoprire, ecomprender li yola per intendimento umano; ne per aloro
certa.nente, che per una tal folle cre denza egli è avvenuto,che quel
tempo,checertaméte ſpé dercucco di dovea in inveſtigar con eſperienze, e con
ragio ni le coſe naturali, fi fia vanamente ſpeſoin andar cercan do quali ſiano
ſtati iveri ſentimenci, o di queſto,o di quel to zuore; perchè dicea il Signor
di Montagna: car les opin mions des bommes font, recevesà la fuitte des
creances an ciennes, par authoritè, &à credit, commeſi c'eſtoit religion
Lloy.On reçoit comme unjargon ce qui eneſtcommunement tenu:on reçoit cette
veritè, avec tout for baſtiment, de ato telage d'arguments, odepreuves, comme
un corps ferme; ſolide, qu'on n'esbranle plus, qu'on ne juge plus. Au
contraire, chacun à qui mieuxmieux, va plaſtrani, &con fortant cette
creance receuë, de tout ce que peut fa raiſon in qui eft un útilſoupple,
contournable, & accommodableà tous te figure. Ainf je remplit le monde,
feconfit enfadeze; den menfogne. Ce qui faict qu'on ne doubte de guere des
choſes, c'eſt que les comunes impreſſions onne les efl ayeja mais, on n ' en fondepoint
lepied, où gitlafaute, älafois bleſſe: on ne debat, que ſur les branches: onne
demande pas fi cela eſt vray, mais s'il a eſte cinſin ou ainfin entendu E
quinci derivar anche ſuole quella gran malagevolez za avviſata da Galieno, la
quale ſi ſperimenta da chiun que vuoi ritrarre i ciechi parteggianti dal torto
loro, e fal hace camino; e nel vero cotanto danno apportar fogliono le falſe
apprefe opinioni, che eziandio a coloro, che mene daci han ſcoverti, e
ravviſati gli autori di quelle,non per mettontalora, che fiyantaggin nella
buona filoſofia s co me apertamente ſcorger ſi puote in Pier Ramo, ed in al tri
molti si quali, quantunque aveſsero ben conoſciute le ſconvenevolezze della
filoſofia d'Ariſtotele, non poterono alla buona ſtrada giammai pervenire: ne in
cotonjuno for trarſi dalla maniera del filoſofare d'Ariſtotele;ę ciò perche,
çome avviſa Renato: opinionibus ejus jam imbuti fuerant in juventute, quia ea
fola infcholis docentur; adeoq; illis præoc cupatusfuit ipforum animus, ut ad
verorum principiorumid Hotitiam pervenire non potuerint. Anzi Ariſtotele
medeſimo, leggendo i volumidegli an tichi filoſofi, concepctie alcuno di
que'ſentimenti onde, inavvedutamente poi traſcorſe in cotanti crrori. Così logo
gendo egli in Ocello Lucano il melc cffer dolcc,perché ca gioni in noi
ſentimenti di dolcezza, tratto anch'egli dall' altrui errore, !! c a ciò punto
badando, non dubitò di fer mamcareil medelino narrare, giudicando la
dolcezza,co Nnnn me rute 1 650 Ragionamento Ottavo me tutt'altre qualità
veramente nelle coſe, e non ne’ſenti menti confiftere. Che fe egliaveffe:
avvilato, il medeſimo cibo ſenza punto dimutamento ad un palato, dolce,e foa ve:
a un'altro poi amaro, e diſpiacevole parere, come la colloquintida amariſſima a
noi,dolce oltremodo a’topi, e ſoave li fa ſentire: certamente egli non così
improvviſo avrebbe raffermata cofa non vera; e avrebbepur dubitato, non forſe
ne' cibi foſſer corali particelle, dital forma, e così ordinate, e moſſe,, che
in diverſi palati, or di dol cezza, or d'amarezza faceſſer ſeinbiante. Enella
medeli, ma maniera cento, e mille altre ſciocchiſſime opinionid'A. riſtotele
potrei lo quì rapportare, le quali appreſe egli da. gli antichi filoſofanti. Ne
ciò è maraviglia; perciocchè p iſtudio, e fatica, che vi ſi logori', non ſi
poſſono così affac to sbarbicare dalla mentei già allignati ſentimenti,e ban
deggiargli affatto che non ritornino talvolta, quando men ſi temano. Cosi
avvien appunto ad una botte, o altro va ſo guaſto putente di vin ravvolto', o
-inagrito, la quale av vegnachè forte fi’rada, eſilavi: non però dimeno non ſi
puòella cotanto per diligenza purgare', che non ne prenda anche il nuovo
vin',che vi ſi pone, e dibreve anch'egli non dia la volta, concioſliecoſachè
quantunque bennetto, e forbito fipaja ilvalo', pur ne'ſuoi pori minutiſſime
particel te ancora ſi naſcondono, le quali ſpiccatene da quelle del nuovo vino,
o altro ſomigliante liquore, che vi ſi pone, trameſtandofi loro, agevolmente vi
nuotano per entro, per opera della fermentazione poi creſcono",intanto,
che infra brieve ſpazio di tempo tutto il corrompono. Così avvenir ſuole
nell'anima,la quale priva, e ſpogliata affat to delle antiche notizic,da ſe
medeliina in filoſofído nuo ve notizie proccuri in luogo dell'antiche
introdurre; eri porre; poichè le nuove ſpezialmente, ſea ciò ſpinte ſono da
quelmovimento, chenello ſpeculare neceſſariamente ſi fa, eccitano, per qualche
ſomiglianza, che è tra loro, alcuna dell'antiche, che a caſo rimaſta, ma celata
viftia; dalla quale poi sēzamolta malagevolezza infecte elle ne riman gono. E
comechè ciò baſtantemente, per quel ch'Io micredaj a ciaſcun lia manifeſto, pur
d'avantaggio ne può eſſer chiar ro per ciò, che nella memoria artificiale
fortir ne ſuole Sogliono coloro, che all'arte,veramente maraviglioſa del
ricordarſi ſtudioſamente intédono,d'alcuniſpeziali luoghi valerſi quali ſiá
loro sépre ſenza fatica niuna nella memo ria, come uſati, e domeſticiaffai, e oltre
a ciò ſiano in qualche guiſa ſomiglianti, o uguali alle coſe che ſi voglio no
ricordare; acciocchè quando poi fia meſtieri, nel fuo proprio luogociaſcuna
coſa appiccata, dipreſente rinven gano; e le coſe già alla memoria
preſenti,loro facciano ve nire avanti le lontane. Delche certamente ne fa
manifeſta pruovà ciò che ſovente noi ſperimentiamo; che in ragio nando d'arca,
o di forziere, che in noſtra caſa ſia, ne fov viene tolto di libro, o di
veſtimento,o d'altra coſa ripoſtavi; eda divifamenti de palagj,o delle terre,
ſubito ne ſi rap preſentan coloro, ch’ividimorano, o che da prima gli fab
bricarono, o che un tempo ancor vi ſono dimorati: Cosi anche un'amico né fa
rimcmbrar d'altro amico: e anche de nimici di ciaſcuno, io nominandolo ne
ſovviene. Perchè al noſtro amorofo M.Franceſco Petrarca, il ſolomovimé. to
dell'aura, dolcemente faceva venire avanti madonna Laura, eltempo ch'e' da
primamirandola ſe n'innamoro: L'aura ferens, che fra verdi fronde Mormorando a
ferir nel volto viemme Fammiriſouvenirquard'amor diemme Le prime piaghe sì
dolci je profonde; E'l bel viſo veder, ch'altri m'aſconde, Che ſdeguo, o
geloſia celato temme. Ma veggio, e per avventura con qualchevoftra noja eſ.
fermi troppo dilungato in ragionando, e affai più certamë te di quel, cheaveva
lo già propoſto di fare; non per tan to prima d'imporre a’miei ragionamenti
fine, mi convienu tirar la coſa un poco più avanti. Dico adunque, che non giová
punto,cheſieno ben inteſi gli fcolariin filoſofia » in chimica, in medicina, e
in tutte altre coſe, che diſopra diviſammo al medico far meltieri, ſe finiti i
loro ſtudi egli Nnnn: 2 no per 052 Ragionamento Ottavo ao per convenevole
ſpazio di tempo non ufino qualche ſpedale, con por mente ivi alle malattie, e
alle maniere, che vengon tenute nel medicarle; e qual pro,e qual danno ricevan
daʼmedicamentiglinfermi; ed egli è coſa nel vero queſta così rilevante, che non
ſi dovrebbe certamente co ventar mai fcolare, il quale con fedi autentiche, e
con te ſtimonj non provaſſe aver lui in ciò fare tutta la ſua indu ftria, e
diligenza adoperata. Sidovrebbe oltre a ciò prima di conventarlo ftrettaméte
eſaminar lo ſcolare per limae ftri delle ſcuole, a ciò deſtinati, in tutte le
coſe all'arte ap partenenti, e ſpezialmente nella chimica; la qual cotanto
dicemmo effer a' medici neceſſaria, e di tanto riſchio a co loro, chepienamente
non la poſſeggono; e a ciò certamen te con ogni rigore, ligati con facramenti,
econ pene do vrebbono intendere imaeſtri,oltrea queſto de coſtumian cora dello
fcolare converrebbe, che minutamente fi ricer caſſe, acciò per ogni capo
s'eleggeſſero medici, quali gli abbiam noi giuſta ogninoſtra pofſa al prefente
diviſati; e sì forfe per innanzi cefferebbono, quanto l'incertezza di co tal
meſtiere comporta, i fallimenti de'medici: e'l co mune in qualche parte ſe ne
riſtorerebbe; ne da altro cer tamente naſce, ſe non fe dal non uſarhi queſte
diligenze nell'accademie, allor che vi ficonventáno gli ſcolari, che così
fortemente vengano elleno talora biaſimate:approba jiones,dice il Primeroſio,
fapienterà majoribus inftitutæ,ele gantes ſunt quidem, & neceffaria, fed
deberent diligentius obſervari. At jam omnia negliguntur, nam quibuslibet
guantumvis ſeiolis gradus exbibetur doctoratus unde ft, utex quibuſdam
Academiisredeant ductores parum da fti, nihil minus, quam apti ad medicinam,
aut docendam, aut faciendam. Ne perciò giudico lo convenevole, come alcuni
vogliono, che i medici giovani, ſpezialmente que', che in Salerno furono
conventati, fian di nuovo daeſami nare; imperciocchè baſtar dee
quell'eſaminazione, allas quale eſli foggiacquero prima d'eſser conventati,
accioc chè fenz'altra pruova tare del lor ſapere poſsano per innan zi
liberamente medicare. Nealoriinenti volle il Re Rug gieci Normanno, ove per
legge comandò non poterſi il pericoloſo meſtier della medicina uſare ſenza
ſpezial lice za de' regjminiſtri a ciò deſtinati; e l'Imperador Federi go pur
v'aggiunfo, chei medici del ragguirdevol Colle gio diSalerno doveſſero effer
teſtiinong, che colui, che aw medicare inprenda, da tanto ſia; perciocchè
parlando de gli Impirici, folamente i conventati manifeſtamente ne ri ferbarono;
ne vollono eſſere da eſaminar coloro, a’quali la cura d'efaninare altrui era
per lor commeſſa. Così An drea d'Iſernia ſpiegando que’capitoli dice delle
bollettes delle licenze: Doctor medicinæ practicabitfine literis, quia
fuitexaminatus, quando fuit doctoratus, &approbatus; for cut ibi diximus de
Advocatis.. E Matteo degli Afflitti. pa. rimente dice efferſi ciò mai fempre
oſſervato, che iconvé tati di Napoli, o di Salerno fenz'altra bolletta, per
tutto il noſtro Regno, poſlan liberamente andarmedicando:ne altrimenti effer
mai avvenuto: eft fciendum,dice l’Afflitti, quod à tanto tempore, in cujus
contrarium memoria hominio non-exiſtit,nunquam fuit fervatum, quod magiftri
medicine approbati in Collegio medicorum Salerni, vel Neapolis ha beat quarere
literas Officialium Regis, vellicentiam à Rege, vel vicerege medieandi in
Regno. Perchè ſarebbe molto ſco cio il mādarſi ciò avanti; e larebbe certamente
un togliere l'autorità a'noftri Collegj di più conventar perſona in me dicina;
cioè a dire, di dar licenza di liberamente me dicare; ſenzachè non ſapreiIo
certamente, quali medici farebbon da eſaminare; perciocchè egualmente i giovani,
ei vecchi, anzi maggiormente nel vero i vecchj ne han data cagione di farne
richiedere a parlamento. Ma come potrebbon le ſecrete eſaminazioni a buó fine
giammai riu. fcire, fe per averle conoſciute ſcempie ', e manchevoli, i
Principi, e le Comunità ne’loro reggimenti han,, per mio avviſo le pubbliche
eſaminazioniinſtituite. Sogliono re carſi per eſemplo coloro, che queſta
novella eſaminazione de’mediciintrodur vogliono, i legiſti; i quali da non mol
to tempo in qua ſogliono eſſer eſaminati, quantunque co ventati:maben
dovrebbono avvertire, che gli Avvocati non mai vollono ſoggiacere atale
eſaminamento: eleggendo anzi d'abbadonare il meſtiere, quátūquel'eſaminazione
aveſse a farſi da'ſupremi miniſtri, e in alfai orrevol maniera; e fol
rimaſe,che coloro ragionevolméte nel vero vi foggia ceffero, a'quali, o alcun
governo, o altro onore s’aggiu gneſſc. Ne mégiudico Io ragionevole quel diviſo
di dover eſa minarſi almeno i noſtri medici in Chiinica; da che la Chi mica
cotanto neceſſaria alla medicina eſfer narramıno;per ciocchè da cotali
eſaminazioni grandi ſconcj certamen te al noſtro comun ne feguirebbono, per
molte, e mol te cagioni, le quali lo taccio al preſente per eſſer ciò ba
ftantemente, a ciaſcun manifeſto; ſenzachè i vecchj anco ra, anzi con maggior
ragione, che i giovani, farebbon da eſaminare; richiedendoſi.comunemente a
ciaſcun medico la chimica, ed eſsendo aſſai meglio i giovani, che i vecchi
medici inteſi di quella. Ma de’volgari impirici farebbe da prendere, ſe pur si
potesse, strettiſſima cura, acciocchè per lordappocaggine al cun nocimento al
noſtro comune non ſiegua; e comechè intorno a coſtoro baſtantemente di ſopra la
detto, pure fi dee por mente a ciò ch'avviſa Galieno, allor ch'eglidice, che il
curar qualunque, avvegnachè leggeriſſimomale, d' altri non ſia, ſe non ſe
ſolamente di coloro, i quali di tutta la medicina pienamente fian inteſi;
concioſliecorachè uns male foglia ſovente con altro male eſſer congiunto; e ſo
glian talora, o per.cagion delle medicine, o peraltro sì fat to accidente
ſopragiugnere: cheda colui, ch'un ſol medi camento ſappia, non ſi poſſa dar
compenſo. Oltre a que fto, nel conoſcerſi delle malattie, aſai ſovente
glimpirici s'ingannano: togliendo in cambio ſcioccamente una per al tra, e
contrarj rimed, talora imponiendo; nella qual mala ventura, comedicemmo, cadono
talora, anche i più ſcie ziati medici per la dubbiezzade'ſegnali. Perchè
ſarebbe certamente il migliore victar a coteſti volgari Empirici il medicare;e
miglior séza fallo ſarebbe ſtato il provvedime to del Senato di Parigi, fe del
tutto aveſſe agli Empirici il medicar proibito, e non permeſſo loro il farlo
lol coll'ap prova poter mc provagione,e licenza de’dotti medici;ed ebbe il
torto di la gnarſi di loro Anneo Roberto dicendo, che all’onta di tut te le
proibizioni eglino il capo alzaſſero; imperciocchè no mai aſſolutaméte allo
incotro furon: proibiti,ſë ſotto condi. zion ſi permiſero,perchè
daʼmedicijnõoſtante il gran male, ch'ei fanno di leggieri ottengono la licenza
del dicarc. Ma tacer non fi dec ciò, che degl'impirici racconta Giacomo Silvio:
in montepeſſulano's clarifima, & antia quiſſima medicinæ academia, fi quis
borum nebulonum feme: dicummentiatur, mox raptus in afinumftrigofum, fiin
venitur fcabidum, ſublimistollitur, averfus, urbe tota cir.
cumducitur,Scommatisundique incefitur, conſpuitur,pulfa; tur, laceratur, fordibusomnis
generis conſpurcatur; ceu olim Sacra illa mafilienfium vittima:poftremo expiata
urbe ejici tur, illuc nunquam rediturus, niſi malo ſuomaximo. Magià baſtantemente
ſecondo noſtra possa avendo de medici ragionato, trapaſſeremo a diviſare al
preſente de gli Speziali,i quali debbon lavorare i medicamenti; maffia mamente
chimici; il quale fu il ſecondo capo, onde mofle il noſtro ragionamento.
Veggiam dunque brevemente, quali coſe, e quante abbiſognino a colui che voglia
van taggiarſi in sìnobilmeſtiere. Immagina il volgo, che age volitima faccenda
fia a ſaper fabbricare imedicaméti; per chè in man di perſone di poco ſapere,
edipoca licva ado perar ſi rimira. Mio quanto di lungo certamente coſtoro
ingannati ci vivono! imperciocchè atal meſtier richiedonſi poco men, che tutte
altre códizioni,ch'a coloro ſon d'huo po ) che il rimanente tutto della
medicina apparar bene, e lodevolmente intendono; e ciò ſenza, che lo troppa
fati ca vi duri, agevolmente ſi può comprendere per coloro che alle biſogne
tutte d'una cotalarte fiſamente riguardano. Ma concioſliecolachè i guaſti, e
biaſimevoli coſtumi del ſe colo ciò non comportino ', dovrebbe almen chi
deſidera una tanta impreſa leguire,oltre alla ſua natura, e a'genero fi, c
lodevolicoſtumi,eſſer mezzanamente, per tacer dell' Araba, almeno della latina,
c della greca lingua inteſo, per dover poi intendere i varj, e diverſi
ſcrittori, che nell' una, e nell'altra lingua materie a ciò appartenenti deſcri
vono. Appresso egliè dimeſtieri aver continuo tra le ma ni pronta, e
apparecchiata la conoſcenza, non folamente di que’vegetabili,o minerali, o
animali, che maneggiar fo vente coſtuma, ma di quelli ancora, che nelle ſtrane,
enon ordinarie compoſizioni de’medicamenti gli poteſſero tale ra dal medico
venirimpofte. Dovrebbe oltre a ciò eſler pienamente informato degli ſtrumenti
tutti, e ordigni dell' arte, e delle convenenze, e proporzioni ancora, che alcu
ni di quelli han co’ſemplici, de' quali egli nel ſuo lavorio ſervir li dee. Ma
ſopra tutto convien, che la propietà, e la natura del fuoco egli perfettamente
ſappia; acciocchè poi comprender appieno,e ravviſar poſſa quelle alterazio ni,
che indi le medicinali compoſizioni ricever fogliano; alla qual coſa certamente
aggiugner non potrà colui, che non prenderà per guida, e per iſcorta la Chimica;
ſenza la quale Io non veggio, come bene, e lodevolmente per huố li poſſa un sì
malagevole meſticre adoperare; ſenzachè migliore aſſai, e di maggior giovamento
all'uman genere farebbe, ficome altrove abbiam detro, ſe da ſoli medici i
medicamenti li lavoraffero; perciocchè, quanto a me, lo non ſo a niyn modo
comprendere, comemai perfettamen te fabbricargli colui poſsa, il qual non abbia
in prima le manicre tutte del loro operare con gli occhj propi piena mente
conoſciure. Perchè dovrebbono finalmente gli ſpe ziali, oltre alle ſopradetre
coſe, avere in prima tanto qua to ſtudiato in medicina, ed in qualche ſpedale
co ' pro pj occhj all' operazioni de’medicamenti riguardato. E ſcorgendofi omai
in tutte botteghe di ſpeziali aver non poca quantità di chimici medicamenti,
non ſi dovrà più avanti dubitare, convenir lo ſpeziale almen per queſto ca po
eſser della Chimiea baftevolmente inteſo, e ſperto, In quanto alle Chimiche
medicine poi, comcchè per noi fia ſtato di ſopra baſtantemente raffermato, che
il fabbri. carle propiamente appartenga a medici; non però di meno da
cheimedici, o non vogliono per lor tracoranza, o non fanno, o non poſsono
invilupparvili,lo aſsai ben giudiche ici, rei, ch' a' ſoli speziali, e a tali,
quali noi diviſamino ſe ne commetteſse ſtrettamente la cura; ne altra privata
perſoni s'inframmetteſse di lavorarne alcuna; male compoſizioni de'più
pericoloſi, e rilevanti medicamenti, o da medici lo li, come dicemmo lavorar ſi
dovrebbero, o almen dagli ſpeziali in preſenza de'medici. Ne è da dir con
alcuni, po terſi alle ſconvenevolezze tutte ripararare colla ſola eſa
minazione, che delle medicine chimiche fi' faceſse allor che ſiviſitano, come
dir ſi ſuole, le ſpezierie; concioffie coſachè vana ſenza dubbio, e inutile
cotal eſaminazione riuſcircbhe: per non poterſi mai, per ſogno niuno, lorvir tù,
e lor forza baſtantemente avviſare. Echi mai ne' bof foli delle botteghe, la
bontà, e finezza del mercurio di vi ta, dell'antimonio diaforetico,
delbelzoardico minerale, e d'altri, e d'altri sì fatti medicamenti d'odore, e
di ſapore affatto privi,per pruova de’ſentimenti avviſar mai ſapreb be, e
l'eccellenza, e la perfezione ridirne, ſenza eſsey irl prima cgli ſtato
preſente al lor lavorio E tanto queſta ma iagevolezza dell'indovinare i chimici
medicamenti anche per li macſtri di quelli è grande, che cziandio de'più me
nomi,e comunalinon ſi può nulla di certo fovétemente di viſare; ſicome
que'ſali, che fiffi diconſi ci danno apertamen te a divedere; imperocchè i fali
fiſi, per nulla dire del fa pore, che in tutti il medeſinio appare,ne alle
varie manie re, chcin criſtallizandofi, per valermi d'una parola dell' arte,
ſoglion figurarſi: ne a' varj colori,de'quali veſtono il precipitato colcotare,
ne ad altro ſegnale può niuno macſtro, comęchè ſperto, e ſaggio in chimica,
certamente ravviſare, e ſicuramente de terminare di qual pianta, di qual
animale ſieno; conciofficcofachè parecchj ſali di diverliſt me piante fra eſſo
loro,prender ſogliano in criſtallizandoſi la medeſima figura, e del color
medeſimo veſtir anche ſo gliano il colcotare; ma onde ciò avvegna, non fa iuogo
ora, che lo imprenda ad inveſtigare, eſſendo oltre traſcor ſo tanto co’miei
ragionamenti, che mi convien riſerbare, più d'una coſa al nostro proposito
appartenente, ad altra, Oooo più agiata opportunità; la quale ſe miverrà mai,
come pero, diviferonne forſe pienamente, e di vantaggio in uno ſpezial libro,
il quale lo ora ſto intero a comporre. DI
CAPUA, Leonardo Nacque a Bagnoli Irpino (prov. Avellino) il 10 ag.
1617, da famiglia agiata. Nella sua Vita di Lionardo di Capoa, l'Amenta ci dice
che il D. si dedicò agli studi con passione, tanto da esibire all'età di undici
anni una appropriata conoscenza dei fondamenti della fede, un retto uso della
retorica e dello scrivere in latino. Seguì una sua sorella a Napoli, dove
frequentò la scuola dei padri della Compagnia di Gesù, studiando per sette anni
filosofia e teologia. A diciotto anni si dedicò agli studi giuridici e quindi
alla medicina, dei cui fondamenti classici si mostrerà critico precoce. A
ventidue anni, carico di libri e di progetti di ricerca, fece ritorno a
Bagnoli, con l'intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali e
anatomiche. Negli anni seguenti prende forma il suo pensiero critico intorno al
giudizio dei sensi, all'incertezza delle cose e alla fallacia delle apparenze e
quindi alla inadeguatezza del giudizio secondo ragione. Degli anni di ritiro a
Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. L'Amenta ci riferisce di una
certa attività letteraria: duemila sonetti amorosi in stile petrarchesco,
composti nell'arco di tre anni; due tragedie alla maniera di G. Della Porta, Il
martirio di s. Tecla e Ilmartirio di s. Caterina; alcune commedie; una favola
boschereccia; infine, innumerevoli scritti in prosa, tutti andati perduti a causa
di un assalto di banditi, subito dal D. in viaggio per Napoli. Non
sappiamo quando si stabilì definitivamente a Napoli. Poiché, comunque, ciò non
accadde anteriormente ai primi degli anni Quaranta, si può ragionevolmente
ritenere che la sua venuta a Napoli fosse incentivata dal ritorno di Tommaso
Cornelio, di cui era amico, reduce da un lungo viaggio a Firenze, Bologna e
Roma, dopo una lunga preparazione alla scuola galileiana e un contatto col
Torricelli nonché con un ambiente favorevole al libertinismo e alla nuova
scienza. Dal Cornelio, che nel '53 otterrà una cattedra di matematica e poi di
medicina teoretica, il D. viene indirizzato alla ricerca scientifica nella
linea segnata dal Galilei e da Cartesio. L'opzione era senz'altro a favore di
quel nuovo mondo che la filosofia sperimentale sembrava introdurre all'interno
di una cultura legata al passato e organizzata politicamente. Ai primi degli
anni Sessanta, gli animi già possono dirsi divisi da controversie e da uno
spirito polemicistico per nulla produttivo. Particolarmente ostile la medicina
ufficiale nei confronti dei "moderni", essa arriverà a far sopprimere
la divulgazione di un libro di S. Bartoli così come osteggerà le lezioni di
chimica e la difesa di essa quale scienza fondamentale per il rinnovamento
della medicina. È il periodo della lettura dei grandi filosofi
contemporanei di Europa, da Bacone a Galilei, a Hobbes e Cartesio. La volontà
di emulare quei grandi e di fondare anche a Napoli la "nuova
filosofia" condusse il D., con il Cornelio, F. D'Andrea, P. Lizzardi, G.
A. Borelli ed altri, a dar vita all'Accademia degli Investiganti. Di ritorno
nel 1649 da un viaggio a Roma, il Cornelio aveva portato con sé a Napoli, anche
per esplicita richiesta del D., quanti più libri possibile sui nuovi orizzonti
filosofico-scientifici. L'Accademia veniva fondata l'anno successivo; fu poi
disciolta nel 1657 a causa della peste e poi ricostituita nel 1662 sotto la
protezione di Andrea Concublet marchese d'Arena. Essa ebbe un ruolo specifico
nella vita intellettuale e civile napoletana, orientata negli anni Cinquanta ad
un risveglio culturale. Si tenevano rapporti letterari e scientifici con
sodalizi d'Oltralpe, in particolare con la Società reale di Londra e con
l'Accademia delle scienze di Parigi. Si tenevano salotti, alcuni dei quali
specializzati nelle singole discipline. La casa del D. era frequentata in
particolar modo da medici antigalenisti. Lo stesso Vico, da giovane, frequentò
la casa del D., tanto da essere ascritto al novero degli appartenenti al partito
capuistico, durante la polemica iniziata verso il 1680 intorno alla natura
dell'iride tra il D. e Domenico Aulisio. Uno degli scritti che contribuì a
caratterizzare l'ambito della ricerca scientifica e il clima delle controversie
tra l'Accademia e la cultura tradizionale fu il Parere. L'opera è del
1681. Con essa, affrontando il problema della filosofia naturale e razionale,
il D. si proponeva di dimostrare "quanto vana, quanto priva d'ogni salda
dottrina fosse la filosofia di Aristotele" (p. 94). Questo è il punto
centrale della disamina critica del D., nonché il motivo primo delle future
polemiche. Di esse parlò anche il Vico nella sua Autobiografia. Il Parere
manifesta la esigenza di un nuovo orientamento di pensiero. Vi si dichiara di
condividere le idee dei "modemi nostri filosofanti", quali Copernico
e Keplero, Bruno e Galilei, Bacone, Cartesio, Gassendi, Boyle, nonché il
"dottissimo Obbes". Tutti questi filosofi, stimati per la loro
opposizione agli aristotelici, i quali opprimono lo spirito e la ricerca
scientifica, insegnano a "sostener la filosofica verità" e a
"far mostra in ogni luogo d'esser libero" (pp. 57, 59, 61). E queste
rivendicazioni, peraltro giuste, sembrano essere per gli Investiganti la cosa
più importante, prioritaria anche rispetto alla necessità di far luce sulla
incompatibilità di pensiero tra filosofi così lontani e così entusiasticamente
accolti quali un Cartesio e un Hobbes. Il che può gettare il sospetto sulle
reali possibilità degli Investiganti di andare oltre una senz'altro positiva,
ma poco costruttiva, operazione di rinnovamento culturale di tipo
sincretistico. Nella Napoli degli anni Ottanta, quella libertà dell'indagare,
aprendo la possibilità di una riflessione generale sulla vita, si traduceva,
invero, anche sul piano civile, in una critica degli eccessi nell'uso del
potere politico, amministrativo e culturale delle varie classi dominanti. In
breve si assiste ad una radicale politicizzazione della cultura, da cui lo
stesso Parere non rimase esente. L'Amenta ci riferisce che la
pubblicazione del Parere fu proibita per il suo spirito di opposizione alla
corte pontificia (p. 46). In questo contesto vanno lette le Lettere
apologetiche che il gesuita G. B. De Benedictis aveva scritto per confutare il
Parere. La polemica avrà notevoli ripercussioni, indirettamente anche durante
il "processo agli ateisti", e coinvolgerà un Valletta e un Gravina.
Il D. fu difeso dalle Lettere da uno dei più rinomati e colti avvocati
dell'ambiente anticurialistico e antiaristotelico: Francesco D'Andrea. Il
De Benedictis rappresentava la parte più attiva della Accademia dei
Discordanti, seguaci di Aristotele. Il gesuita, nelle sue Lettere pubblicate
nel 1694 con lo pseudonimo di Benedetto Aletino (il processo agli ateisti
durava già da sei anni), tacciava di "libertini" e
"ateisti" i seguaci della nuova filosofia con i suoi due
allettamenti: la "novità" dell'opinione e la "libertà"
dell'opinare (Benedetto Aletino, Lettere apologetiche in difesa della teologia
scolastica e della filosofia peripatetica dedicate al Sig. D. Carlo Francesco
Spinelli principe di Tarsia, Napoli 1694, pp. 256, 258, 267). Egli presentava
il D. e i suoi amici, quali il D'Andrea e il Grimaldi, come giansenisti,
sebbene quelli avversassero il giansenismo ed ogni rigorismo morale, oltre al
fatto che solo dopo la morte del Vico il giansenismo fa la sua comparsa a
Napoli, e più nella forma dell'atteggiamento antigesuitico e regalista che come
dottrina teologica. Tuttavia questi erano i principali capi d'accusa rivolti al
D. e ai capuisti, colpiti indirettamente attraverso i loro allievi o
simpatizzanti nel processo svoltosi a Napoli tra il 1688 e il 1697 per volere
della Curia di Roma. Già nel 1671 la congregazione dell'Inquisizione
aveva scritto al cardinale I. Caracciolo, arcivescovo di Napoli, per metterlo
in guardia dai pericoli derivanti dalla propagazione delle idee di Cartesio.
Veniva consigliato di stroncare la diffusione di quelle idee e di comunicare
alla congregazione il loro apparire. Alla lettera del cardinale fece seguito a
Napoli la dispersione degli Investiganti e l'isolamento di quanti sembravano
aderire alle nuove idee. Sappiamo anche che nel 1685, al tempo della visita di
G. Burnet a Napoli, erano rivolte al D. e ai capuisti quelle stesse accuse che,
a detta del Burnet, venivano rivolte al Valletta e ai suoi seguaci, i quali
erano "vus de mauvais oeil par le clergé, qui les traite d'athées et de
disciples de Pomponatius" (cfr. F. Nicolini, Aspetti della vita
italo-spagnuola..., Napoli 1934, p. 202). Il processo agli ateisti fu visto da
molti come un processo alle stesse idee propagatesi a Napoli in favore
dell'atomismo, del gassendismo, del cartesianesimo. In tal senso lo intese il
Valletta, il quale vide nella opposizione al pensiero aristotelico e in una
nuova riappropriazione della tradizione platonica, non esclusi Pitagora e
Democrito, il mantenimento della integrità della fede stessa. Il Valletta
arriverà a sostenere che la filosofia aristotelica è l'unica causa e origine di
tutte le eresie, opinione che venne sostenuta anche dal Vico nella sua Historia
filosofica del 1714. Le affermazioni del Valletta facevano invero da eco a
quanto scriveva D. nel suo Parere: e cioè che non si vuole negare l'autorità di
Aristotele, ma si esige che essa sia convalidata e suffragata
dall'esperienza. Sullo stesso piano si manterrà la Risposta del D'Andrea
alle Lettere del De Benedictis: essa, infatti, difendendo il pensiero del D.,
si profila nell'orizzonte di una polemica intesa in senso antiscolastico e non
in senso antimetafisico. Il che equivale a dire che il vero oggetto della
controversia era il "metodo" dell'indagine scientifica e non i
fondamenti metafisici del conoscere umano. In aperto conflitto erano non
singole dottrine ma due modi di vedere opposti, inconciliabili. Ne è prova la
polemica sorta, immediatamente dopo la pubblicazione del Parere, tra il D. e
l'Aulisio. Il Cotugno ritiene che la polemica, tra i fautori del naturalismo e
i conciliatori del meccanicismo con la teologia, indicasse in realtà un atteggiamento
orientato nel senso di un moderatismo. Ad ogni modo, non si andò, nei confronti
del D., oltre le confutazioni dottrinali e gli attacchi polemici; per quanto
riguarda il processo agli ateisti, poi, il D. non fu coinvolto personalmente,
sebbene imputati, quali un Giannelli e un De Cristofaro, sostenessero di aver
appreso da lui le prime nozioni della nuova filosofia. Né gli atti conclusivi
del processo intaccarono la memoria del D., morto ormai da due anni. Il
D. aveva superato già i quarant'anni di età, quando si sposò con la giovane
Annamaria Orilia. Abitarono nel rione di S. Gennaro all'Olmo, nei cui libri
battesimali fu registrata nel 1673 una loro figlia, morta appena nata. Nella
loro casa si discuteva anche di letteratura. Il Vico, nella sua Autobiografia,
confermando il giudizio dell'Amenta, ebbe a scrivere del D.:
"L'eruditissinio signor Lionardo da Capova aveva rimessa la buona favella
toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria" (p. 21).
Invero, il D. diede il suo contributo per il superamento delle forme
parossistiche del marinismo esasperato, che a Napoli aveva assunto la forma di
un "secentismo del secentismo". Il D. darà egli stesso il modello
d'una teoria letteraria con la sua biografia storica su Andrea Cantelmo, che ben
presto fu assunta come manifesto letterario dai capuisti: ritorno all'aureo
toscano del Trecento e del Cinquecento, quale necessità basilare d'un retto
formarsi in prosa della lingua e dello stile di uno scrittore. Il
processo agli ateisti era ancora aperto e le polemiche di certo non mitigate,
quando il 17 giugno 1695, a Napoli, il D. venne a mancare. Fu sepolto nella
chiesa di S. Pietro a Maiella e sulla sua tomba fu tenuto un "elogio
funebre", che ne esaltò non solo la figura morale e cristiana, ma anche la
statura intellettuale di maestro e di guida. La prima e più complessa
opera è senz'altro ilParere del Sig. Lionardo di Capua. Divisato in otto
ragionamenti, nei quali partitamente narrandosi l'origine e il progresso della
medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si manifesta, pubblicato a
Napoli nel 1681; ristampato nel 1689 a Napoli, dove vide una terza ristampa nel
1695. L'ultima edizione, accresciuta delle Lezioni intorno alla natura delle
mofete, in tre tomi, in 80, fu pubblicata a Bologna nel 1714. Esso ebbe molta
risonanza nella cultura del tempo; contro di esso scrisse il già ricordato De
Benedictis. Muovendo dalla tesi secondo cui Aristotele ha ignorato la prova
sperimentale, il D. intuisce la necessità di orientarsi verso una nuova
filosofia della "mente". Invero, il D. pensa la mente come realtà
connessa con il processo della natura, non allontanandosi con ciò dai
ragionamenti svolti dal Cornelio nei suoi Progymnasmata physica del 1663 circa
la teoria dell'etere-mente. Fondamentale è per il D. il discorso intorno agli
aspetti chimici della materia e ad una implicita metafisica, inerente alla
originaria forza interna alla materia, ripresa ed ampliata nelle Lezioni sulle
mofete. Il punto di partenza è la questione dell'"aria", sviluppata
secondo la teoria dei corpi eterei. Questa è pensata come condizione di
possibili attività implicite in ogni punto dell'universo così che la stessa
cartesiana "res cogitans" conosce solo in quanto sollecitata dalle
"sensazioni" provocate dal movimento materiale delle cose,
necessariamente ordinato in senso teleologico. Bisogna dire che il D. non
riesce a separarsi del tutto dalla tradizione sensistica e vitalistica del
Rinascimento. Sebbene egli affermi di affidarsi, in ultima sede, alla "prova
sperimentale", la sua teoria dell'etere-mente, che soprattutto gli
impedisce una piena accoglienza e comprensione di Cartesio, è profondamente
radicata nella tradizione di un Telesio e d'un Bruno. Consentaneamente al
modello proposto dal Cornelio, il D. ascrive molta importanza alla chimica,
alle scienze sperimentali e mette al primo posto la matematica. Nel Parere egli
asserisce che per essere medico bisogna prima essere filosofo, ma per essere
filosofo bisogna in primo luogo sapere di "geometria" (Parere..., Bologna
1714, II, p. 73). Ilmedico, dunque, deve essere ricercatore e teorico della
scienza; a causa delle incertezze della medicina, cui fa riscontro la
"oscurità" della filosofia, il medico deve prepararsi in tutte le
scienze. E l'"eruditissimo" D. (il Vico mise in rilievo più la sua
crudizione che una qualche originalità di pensiero) rimanda alla sapienza degli
antichi, i quali si accontentavano del "solo probabile" nello
spiegare le cause delle realtà naturali. Invero tutto il Parere è teso a
dimostrare perché la medicina debba mantenersi entro i limiti dell'esperienza e
della "debole" ragione. Tuttavia il pensiero del D. trova le maggiori
difficoltà proprio in ciò che costituisce il rapporto tra esperienza e
ragione. Nel 1683 il D. stampa a Napoli le Lezioni intorno alla
naturadelle mofete. L'opera è introdotta da una specie di filosofia della
storia, in cui è sviluppato il rapporto tra storia e scienza. Nel 1689,
obbedendo ad una richiesta della regina Cristina di Svezia, il D. aggiunge al
Parere i Tre ragionamenti intorno all'incertezza deimedicamenti, pubblicato a
Napoli. L'opera fu ristampata con l'aggiunta di una presentazione di T.
Donzelli, a Napoli, nel 1695. Del 1693 è la Vita di Andrea Cantelmo, edita a
Napoli. L'opera è legata al tema dell'individuo. Vengono descritti i rapporti
tra virtù e fortuna, tra storia individuale e storia naturale, tra ragione e
natura. Fonti e Bibl.: N. Amenta, Vita di Lionardo di Capoa, Venezia; G.
B. Vico, Autobiografia, a cura di B. Croce, Bari, Riccio, Cenno stor. delle
Accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. stor. per le prov. nap.,
Cotugno, La sorte di G. B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie, Bari,
Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico, Bari, Badaloni, Introd. a G. B. Vico, Milano, Mastellone,
Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento,
Messina-Firenze 1965, pp. 90, 157- 176; A. Quondam, Minima dandreiana: prima
ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto
Aletino, in Riv. stor. ital., Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli
ateisti, Roma, Alcesto Cilleneo (arcade). Lionardo di Capoa. Leonardo di Capua.
Keywords: filosofia romana, Aristotele, filosofia, ragione debole, La Crusca,
comunicazione, platone. Incertezza, investigare, gl’investigante, vestigia
lustrat. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capua” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carabellese – l’arena e la
pietra -- la sabbia e la roccia – il segno – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Molfetta).
Filosofo italiano. Grice: “I love Carabellese; his masterpiece is ‘the rock and
the sand,’ which reminds me of Tuke’s Cornwall! – Tuke captured some dialectic
on the sand and rocks, which I’m sure were common in Ostia, too, back in the
day! Carabellese speaks of a ‘semiotic scandal’ so it all connects with my
pragmatics of dialectics or conversation.” Studia a Napoli e Roma. Insegna a
Palermo e a Roma.A partire da una critica ferrata alla dottrina cartesiana (Le
obbiezioni al cartesianesimo; il metodo, l’idea, la dualita; Il circolo vizioso
in Cartesio) porta a compimento studi critici su diversi autori, tra i quali
spiccano Kant e Rosmini. Elabora la
dottrina dell'ontologismo critico, in cui l'essere non è mero oggetto della
coscienza ma è a essa intrinseco come fondamento irriducibile, cioè
essere-di-coscienza, che in ultima istanza altri non è che Dio (che, come già
asseriva Vico, "è" e non "esiste"). Difese l'oggettività essenziale dell'essere e
la filosofia, non come sapere specialistico trincerato, ma come operatrice per
l'umanità tutta così che la coscienza filosofica esplica quella teoria che nel
diversificarsi concreto della spiritualità risulta necessariamente implicita. E
allora lo sforzo della filosofia non potrà mai, quindi, essere compiuto atto
seppure la teoria si attui sempre in una pratica, che è l'altro termine del
concreto. Insomma Carabellese difese la filosofia come ascesa
teoretico-razionale a realtà teologiche, o come sentiero che volge al
fondamento comune della vita politica e che alla politica rimane irriducibile. Altre
opere: Critica del concreto; Il problema della filosofia da Kant a Fichte; Il
problema teologico come filosofia; L'idealismo italiano; L'idea politica
d'Italia; Da Cartesio a Rosmini. Fondazione storica dell'ontologismo critico.
L'essere e la manifestazione. L'essere e la manifestazione: Dialettica della Forme.
L'essere. Filosofo della coscienza concreta, Ravenna, Edizioni del Girasole. La
sabbia e la roccia: l'ontologia critica di Pantaleo Carabellese. Il problema
dell'io in Carabellese. Metafisica in Pantaleo Carabellese. Kant e Carabellese.
Dizionario Biografico degli Italiani. Autolimitazione
della metafisica critica? Momenti della recezione italiana di Fichte con
particolare riferimento all'ontologismo critico di Carabellese. E anche per lui lo gnoseologismo era il fraintendimento
della vera scoperta di Kant, ed era all ' origine della moderna... intesa come
« scoperta » deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il
Semerari chiama « lo scandalo...seDalla filosofia intesa come « scoperta »
deriva quell ' approfondimento dei concetti tradizionali che il Semerari chiama
“lo scandalo linguistico,” cioè la terminologia dell ' Ontocoscienzialismo, a
prima vista sconcertante. See also the important chapter " Lo scandalo
linguistico, " in G. Semerari, La sabbia e la roccia. Merleau - Ponty,
Sens et non - sens, Paris, Nagel, 1948; It. trans. by P. Caruso, Senso e non senso,
Milan, Il Saggiatore. La ontologia di
Carabellese, così, si prospetta come una ontologia della coscienza assiologica
e semantica, ossia come una critica antinaturalistica e antipsiscologistica dei
valori e dei significati dell’essere»42. L’importanza del lavoro filosofico carabellesiano,
secondo Semerari, consiste nell’esigenza radicale di lavorare alle radici del
linguaggio filosofico, di andare al di là della storia già fatta, come scrive
Semerari citando Carabellese43, scendendo sino ai suoi presupposti: ciò
significa portandosi al grado zero della parola per reinventare il linguaggio
filosofico e le connessioni che in esso si sono stabilite lungo la sua storia,
a partire dalla cosa stessa, ossia dall’essere in cui la coscienza è già
implicata. Scrive Semerari: «Sotto questo riguardo non si può trascurare la
convergenza con la ontologia critica di quella parte della filosofia
linguistica contemporanea per la quale, al limite tra fenomenologia,
esistenzialismo e analitica, porre la questione del linguaggio è portarsi al
grado zero della parola, al silenzio come radice di ogni possibilità
linguistica, fare giudice della critica del linguaggio, com’è stato
suggestivamente detto, la ‘coscienza silenziosa’. singolari di Coscienza si
costituiscono come soggetti pensanti in comunicazione tra loro. L’alterità
dell’altro io presuppone l’identità dell’io che lo esperisce come altro.
Reciprocamente la coscienza della propria identità egologica richiede il
rapporto di alterità come intrinseco all’essere stesso dell’io. L’alterità
sempre afferma chi dice io, il quale ciò dicendo, anche trascendentalmente si
distingue, senza per questo separarsi assolutamente, da un chi che riconosce di
fronte a sé. Con questo chi egli afferma una relazione reciproca con la quale
attua l’egoità. Soggettività ed egoità pura sono sempre pura alterità»19. L’alterità
di ciascun io è, come scrive Carabellese, «l’insondabile residuo di meità
intraducibile in esperienza dell’altro. Ma questa intraducibilità, che è il
limite che la meità ha nell’esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto
di esperienza e non pura, ma prova, precisamente, il contrario, e cioè che, a
fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità»42.
Alterità e non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la
compattezza non la relazione fra Oggetto universale, Dio, e soggettività
molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente,
implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea il
Carabellese. Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza,
identificandosi con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta così
l’io nella sua solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare.
L’io fichtiano, nell’interpretazione del Carabellese, elimina gli altri io
dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando
all’Unico, che egli vede come una nuova forma di eleatismo8. Il Carabellese
sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io con la
coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità; invece,
pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non
assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me
costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma
proprio partendo dal me, per il Carabellese si giunge agli altri come altri
“di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me. Il
me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla il
Carabellese, in primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto
quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra
cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non
sono affatto corpo. pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno
esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può
trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io
non trovo, se non voglio cadere nell’assurdo di ritenere me il mio corpo» Carabellese
rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo
non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo.
Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la
radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione
in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli
altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si
porrebbe contraddittoriamente come l’essere. Anche la concezione
spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come esito la
riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito implica
sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha
evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità
identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è
sostanzialmente ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se
stesso. In Hegel, poi, ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto.
L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per il Carabellese che
venga eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che
vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo
italiano «togliere il limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti,
per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri, «bisogna prima ammettere
– osserva il Carabellese – che gli altri, in quanto tali, escludano l’uno di
tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare proprio con
l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e
cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò
siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la
empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella identificazione di me
col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e gli altri, che col
loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza». Già ne Il problema teologico
come filosofia il Carabellese afferma, polemizzando con Fichte, che la
molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione
trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma
relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio. L’io
esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro. «Il
singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno,
unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno. E, ancora più incisivamente:
«Io sono altro: solo così “sum qui sum”» L’altro, spirito infinito come l’io,
per il Carabellese non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si
risolve in una identificazione con l’oggetto realisticamente inteso.
Nell’ultimo sistema il Carabellese sostiene l’“identità” dei soggetti pensanti,
portando alle estreme conseguenze la determinazione dell’omogeneità, senza però
indicare come possano differenziarsi i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio
dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto, è evidente; infatti per
spiegare il darsi della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione, come
moltiplicazione infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma
all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la
moltiplicazionealterazione è riferita dal Carabellese all’Unico, non all’uno:
allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile
altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i
soggetti? In realtà possiamo muovere anche al Carabellese l’osservazione di
involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è
la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione,
nello stesso tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti
pensanti. L’uno di cui parla il Carabellese è l’io che immediatamente si
intuisce singolare, e che altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno
che non sia ciascuno, non è uno», afferma eloquentemente. Egli sente il
pericolo di ricondurre e ridurre la meità ad una ciascunità di identici,
perdendo l’originalità e l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli
altri. Tuttavia per il Carabellese invece proprio il recupero dell’altro consente
la realizzazione di sé. Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me
spirituale, che è, o dovrebbe essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a
cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una
positività a questa negazione del “non tu”, se non voglio divenire un puro e
semplice “non” devo considerare me come uno tale che possa e debba riversare
l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè devo riconoscere
l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che non voglia essere
soltanto amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro. L’amor proprio
spirituale non mi costringe alla assolutezza (unicità e incondizionatezza)
della mia unità, ma proprio alla sua alterità: l’amore è sempre amore di altro:
è la grande scoperta di Cristo»15. La struttura dell’essere di coscienza
apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri. termini, l’uno molteplice e
l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a dare fondamento alla
carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si afferma e realizza nella
relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io facendo dagli altri riconoscere
me tra essi, e riconoscendo me come altro, non tolgo ma affermo la mia
originalità». Per il Carabellese l’amor di sé ha insita l’esigenza della
relazione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come l’Unico chiuso in se
stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di offesa dell’amor
proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più nemmeno soggetto.
Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro identico rischia di
essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera relazione, più una
sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che il faticoso cammino
del riconoscersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per cui sono infinitamente
penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è già data
immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e gli
scontri a livello empirico. L’altro per il Carabellese è un altro me, non la
negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e
all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per il Carabellese, sulla
base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà; alla domanda del
Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia, si può
rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri
“me”. Il Carabellese individua la causa della “cacciata” degli altri dalla
coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per
tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è
individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità”
pura, restando il solo, che cade nell’assurdo di non essere né soggetto, né
oggetto. L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se
nell’essenziale relazione, di cui parla il Carabellese è apriori, non si
identifica con il singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo:
essere condizionato e limitata persona dell’esperienza, presuppone essere
soggetto incondizionato e illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra
presentarsi una scissione fra il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente
spazio-temporalmente, fra “miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per
utilizzare in chiave euristica espressioni del giovane Schopenhauer, che
riflette sulla duplicità della coscienza, non facendo ancora riferimento alla
volontà come principio metafisico. Però proprio il pensare, da lui inteso in
senso ampio come intendere, sentire e volere che si esplicano nell’attività
spirituale umana, esige il livello della purezza coscienziale. Come abbiamo
visto in precedenza, per il Carabellese l’assolutizzazione della. Cfr. A.
Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di E. Mirri, Armando,
Roma. dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe
all’annullamento dell’attività spirituale umana. Il Carabellese non intende
semplicemente opporre la propria concezione a quella fichtiana, ma intende
condurne all’estremo le conseguenze, ipotizzando una sorta di esperimento
mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si arrogasse il diritto di
sopprimere il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza, allora «rimarrebbe sì,
solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi anche l’esperienza,
che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere
soltanto io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or
senza i tu (altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per il Carabellese
c’è un'unica soluzione, che esclude la fine tragica della disputa: «Non c’è
dunque altra via d’uscita da esso, se non quella che io non mi contenti di
ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un
tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità,
che egli non mi riconosce, gli contesto il diritto di trasformarsi in Io
assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se stesso come io, e nega
l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io»19. Dio, ossia l’Unico, non
è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce l’essenza di cui i molti
soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con tutti i problemi che ne
conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano. Secondo il Carabellese
si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo due»: se fosse
eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza, sarebbe eliminato
anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza. Non solo
l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il pensare, che
è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non
è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione intersoggettiva, comunitaria,
è essenziale a tutte le forma dell’attività spirituale umana. «Ci sarà –
afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio, quella empirica alterità,
nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un insondabile residuo di meità
intraducibile in esperienza dell’altro, ma questa intraducibilità, che è il
limite che la meità ha nella esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto
di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il contrario, e cioè che, a
fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità,
prova che il limite empirico, che separa me da te, persone viventi, non è la
stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno singolare; io, alterazione
pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è immesso nell’altro uno, Cfr.
F. Valori, Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese. Cfr. in proposito P.
Carabellese, La coscienza. immissione, senza della quale è assurdo non solo
l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra;
consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti
soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti»22. La differenza fra le
egoità si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale e metafisico i
soggetti sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente
penetrativi24. Carabellese contrasted the rock of concrete, temporal,
plural, relational being in the light of which the problem of the origin, of
the foundation, of validity cannot be given up, with the sand of historicist
becoming, of the historicist succession of the facts in which law and value
coincide with the succession itself. The metaphor of sand and rock used by the
same Carabellese in his later writings is taken up by Semerari in the title of
a book of 1982 dedicated to critical ontologism. This metaphor gives us a good
idea of the fundamental theoretical instance relating to the problem of
history. Such a theoretical instance is asserted by Carabellesian ontology in
its opposition to historicism through the ontological recovery of time and of
existence and by contrast as well with the interpretation, traceable in
Heidegger, of time and existence as the outside, as the not of meta–temporal
and meta–existential Being, that is, as its decayed phenomena21.”La
responsabilita profonda, grave, se una se ne vuol trovare, e questo aver
SCAMBIATA LA SABBIA DELL’IERI, OGGI, E DOMANI, SEPARATI, AVER SCAMBIATA LA
SABBIA DEL “FUI” PER LA ROCCIA DELL’ “ESSERE”
-- l’eterno – nell’eterno -- nella roccia, l’ieri, l’oggi, e il domani
non sono separati ne successivi – la copula S EST P – non S FUI P --. La
responsabilita profonda e di questa coscienza storicista, che si resolve
appunto nel credere che tutta la CASA umana sia FATTA SU SABBIA [on sand, not
on rock]– e DI SABBIA. Abbandoniamo questa coscienza storicista di Croce, che
spessso si nasconde, forse piu intransigente anche nel dommatismo ultramondano
degl’ANTI-STORICI, che pur soltanto UNA SABBIOSA STORIA (la storia della
semiotica, la storia di Vitruvio) concedeno all’umana attivita consapevole.
CERCHIAMO LA ROCCIA al di sotto di questo SGRETOLAMENTE (la greta), che sono i
successive e separati ieri, oggi, e domani. CI riuscira forse cosi di ritrovare
il fondamento e di trarre anche dallo SCAVO DI FONDAZIONE, PER LA COSTRUZIONE
DELLA NOSTRA CASA, materiale piu atto che non sia quello datoci dal SABBISO
SUCCEDERSI DI ETA UMANE E COSMICHE. Certo nessuna costruzione noi uomini
pensanti possiame fare SULLA ROCCIA se queso nostro PENSARE NON TOCCA LA
ROCCIA. Nessuna costruzione possiamo fare se nostro pensare no ha LA ROCCIA A
SUO INTIMO FONDAMENTO. Ma tanto meno potremo alcuna costruzione fare SE
INTENDIAMO FARLA CON POLVERE di idee che si facciano sorgere o tramonatre con
la storia. Su Polvere e di polvere non si costruisce. Si COSTRIUCE SOLO CON
PIETRA [stone] DURA [hardened – D. Paul] SULLA ROCCIA. ROCCIA E L’ESSERE
SPIRITUALE CHE *dura* -- durazione, duro – ETERNO.” 24 Omnis ergo, qui audit verba mea haec et
facit ea, assimilabitur viro sapienti, qui aedificavit domum suam supra
petram. 25 Et descendit pluvia, et venerunt flumina, et flaverunt venti
et irruerunt in domum illam, et non cecidit; fundata enim erat supra petram. 26
Et omnis, qui audit verba mea haec et non facit ea, similis erit viro stulto,
qui aedificavit domum suam supra arenam. 27 Et descendit pluvia, et
venerunt flumina, et flaverunt venti et irruerunt in domum illam, et cecidit,
et fuit ruina eius magna ”.Pantaleo Carbellese. Keywords: la sabbia e la
roccia – il segno, lo scandalo del significato, io/tu, Husserl,
intersoggetivita, intersoggetivo, interpersonal, interattivo – interazione,
azione sociale – orientazione all’altro, razionalita strategica, razionalita
comunicativa, complessita intensionale, il significato, i significati,
l’nsieme, la comunita, il noi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carabellese” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Caracciolo – il colloquio –
filosofia italiana – Luigi Speranza (San Pietro di Morubio). Filosofo
italiano. Grice: “I like Caracciolo – at Harvard, I joked on Schlipp, and
stated that Heidegger was then the greatest (grossest, in German) living
philosopher – as he then was, living --. Caracciolo has dedicated his life to
translate Heidegger’s ‘Dutch’ mannerism into the ‘volgare’: and now I have
concluded that Heidegger is perhaps the grossest dead philosopher – “in cammino
verso il linguaggio: il dire originario” –“.
Grice: “Note that Caracciolo’s ‘cammino’ translates Heidegger’s ‘weg’ –
my ‘way’ of words – but for Heidegger is ‘way to’ (weg zur) – as it should!”
cf. Speranza, “in cammino verso la conversazione” – versus “il cammino della
convresazione’ –“ Grice: “Note that in Italian, unlike German, you drop the
otiose ‘the’ of ‘way – “Nel cammino” is o-kay, but “in cammino” is the choice
by Caracciolo!” – cf. Aligheri, ‘nel cammino’ OF his life, towards heaven, or
paradise, that is.” Studia a Verona e Pavia. Fa la conoscenza di Olivelli, con
il quale collaborò alla stesura dei Quaderni del ribelle. Olivelli divenne uno
dei più noti martiri della Resistenza e a lui Caracciolo dedica un saggio,
“Teresio Olivelli: biografia di un martire” (Brescia). Insegna a Pavia, Lodi,
Brescia, e Genova. La sua filosofia si sviluppa inizialmente all'interno della tradizione
crociana, ma poi acquisisce tratti più originali a contatto con Jaspers, Löwith
e Heidegger. In cammino verso il Linguaggio. Di particolare interesse e
importanza sono i suoi studi sul nichilismo a partire da Leopardi e sulla
dimensione religiosa dell'esistenza. Nella sua riflessione egli ha pure
mostrato una forte attenzione per il rapporto tra pensiero e poesia, tra
pensiero e musica. Altre opere: “L'estetica di Benedetto Croce nel suo
svolgimento e nei suoi limiti (Torino); L'estetica e la religione di Croce
(Arona); Estetica (Brescia); Etica e trascendenza, Brescia); Arte e pensiero
nelle loro istanze metafisiche. I problemi della "Critica del giudizio",
Milano); Studi kantiani, Napoli); La persona e il tempo, Arona; Saggi
filosofici, Genova); Studi jaspersiani, Milano); La religione come struttura e
come modo autonomo della coscienza, Milano); Arte e linguaggio, Milano); Religione
ed eticità, Napoli); Löwith, Napoli); Nichilismo, Napoli); Nichilismo ed etica,
Genova); Studi heideggeriani, Genova); Nulla religioso e imperativo
dell'eterno, Genova); Politica e autobiografia, Brescia); Leopardi e il
nichilismo, Milano); La virtù e il corso del mondo (Alessandria); L'assolutezza
del Cristianesimo e la storia delle religioni, Napoli); Filosofia della
religione; In cammino verso il Linguaggio; Theophania. Lo spirito della religione
antica. Filosofia umana. Esistenza e Trascendenza. Lo spazio della
trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa. Caracciolo. Sentieri
del suo filosofare. Unterwegs zur Sprache. In cammino
verso il linguaggio. F.-W. von Herrmann, Die Sprache. Il Linguaggio. Die
Sprache im Gedicht. Il linguaggio nella poesia. Eine Erörterung von Georg
Trakls Gedicht. Aus einem Gespräch von der Sprache. Zwischen einem Japaner und
einem Fragenden. Das Wesen der Sprache. L’essenza del linguaggio. Das Wort. La
parola. Il verbo. Der Weg zur Sprache. In cammino verso il linguaggio. Essere e
tempo. La riflessione esplicita sul linguaggio. ζῷον λόγον ἔχον. Ermeneutica e
metodo storico-ermeneutico. Il ‘non’ come fondamento. Più in alto della realtà
sta la possibilità. La Kehre. L’essere: un problema che rimane problema.
Poesia. L'arte come messa in opera della verità. Hӧlderlin. Il tempo della
povertà. Il pensiero come Kehre. In cammino verso il silenzio. La differenza e
il fondamento. In cammino verso il linguaggio: il dire originario. In cammino
verso il linguaggio: il suono del silenzio. “Heidegger is the greatest
living philosopher”. Martin Heidegger In
cammino verso il linguaggio Curatore: A. Caracciolo Mursia Editore 2014 Pagine:
222 13 maggio 2015 Nel 1959 Heidegger scrisse In cammino verso il linguaggio.
Ci sono alcune cose interessanti e volevo proporvele questa sera. Innanzi tutto
l’esordio in cui è molto chiaro e molto deciso dice: L’uomo parla, noi parliamo
nella veglia e nel sonno, parliamo sempre anche quando non proferiamo parola ma
ascoltiamo o leggiamo soltanto perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo ma
ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio, in un modo o nell’altro
parliamo ininterrottamente, parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il
parlare non nasce da un particolare atto di volontà, si dice che l’uomo è per
natura parlante, e vale per acquisito, che l’uomo a differenza della pianta e
dell’animale è l’essere vivente capace di parola, dicendo questo non si intende
affermare soltanto che l’uomo possiede accanto ad altre capacità anche quella
del parlare, si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo
quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla,
è la lezione di Wilhelm Von Humboldt, resta però da riflettere che cosa
significhi “l’Uomo”. Ora considera una poesia di Carl Kraus: Quando la neve
cade alla finestra a lungo risuona la campana della sera, per molti la tavola è
pronta, la casa è tutta in ordine. Alcuni nel loro errare giungono alla porta
per oscuri sentieri, aureo fiorisce l’albero delle grazie, la fresca linfa
della terra, silenzioso entra il viandante, il dolore ha pietrificato la
soglia, là risplende in pura luce, sopra la tavola, pane e vino. La sua ferita
piena di grazie lenisce la dolce forza dell’amore “o nuda sofferenza dell’uomo”
colui che muto ha lottato con gli angeli. Ve l’ho letta visto che ne parla, che
cosa “chiama” la prima strofa? Perché lui dice che il linguaggio è qualcosa che
“chiama” le cose letteralmente dice “il linguaggio parla” ma come parla? Dove
ci è dato cogliere questo suo parlare? questo già è interessante perché non è
l’uomo, ma è il linguaggio che parla, dice: innanzi tutto in una parola già
detta, in questa infatti il parlare si è già realizzato, il parlare non finisce
in ciò che è stato detto. Qui sentirete a breve echeggiare anche molte cose di
Lacan e di altri. In ciò che è stato detto il parlare resta custodito, in ciò
che è stato detto il parlare riunisce il modo del suo perdurare, è ciò che
grazie ad esso perdura, il suo perdurare, la sua essenza, ma per lo più, e
troppo spesso, ciò che è stato detto noi lo incontriamo soltanto come il
passato del parlare. // Lui considera la prima strofa e dice: che cosa “chiama”
la prima strofa? Chiama cose, dice loro di venire, dove? Non certo qui, nel
senso di farsi presenti fra ciò che è presente, sicché per esempio la tavola di
cui parla Kraus venga a collocarsi fra le file di poltrone da loro occupate, il
luogo 2 dell’arrivo che è con-chiamato nella chiamata, è una presenza
serbata intatta nella sua natura di assenza, è questo il luogo in cui quel
nominante chiamare dice alle cose di venire, in una assenza, poi preciserà fra
breve il chiamare è un invitare tenete conto che sta dicendo della parola è
l’invito alle cose ad essere veramente tali per gli uomini, la “caduta della
neve” (qui cita un’altra strofa di Kraus) porta gli uomini sotto il cielo che
si oscura inoltrandosi nella notte, il suonare della “campana della sera” li
porta come mortali di fronte al divino, “casa” e “tavola” vincolano i mortali
alla terra, le cose che la poesia nomina in tal modo “chiamate”, adunano presso
di sé cielo e terra, i mortali e i divini, i quattro “cielo, terra, i mortali e
i divini” costituiscono nel loro relazionarsi una unità originaria, le cose
trattengono presso di sé il quadrato dei “quattro”, in questo adunare e
trattenere consiste l’esser cosa delle cose, l’unitario quadrato di cielo e
terra, mortali e divini, immanente all’essenza delle cose in quanto cose, noi
lo chiamiamo “il mondo”. La poesia nominando le cose le chiama in tale loro
essenza, queste nel loro essere e operare come cose dispiegano il mondo, nel
mondo esse stanno e in questo loro stare nel mondo è la realtà e la loro
durata, le cose in quanto sono e operano come tali portano a compimento il
mondo. Nel tedesco antico “portare a compimento” si dice “bern, bären” donde i
termini “gebären” “generare” e “Gebärde” “gesto”, quanto mettono in atto la
loro essenza le cose sono cose, in quanto mettono in atto la loro essenza esse
generano il mondo. La prima strofa chiama le cose al loro esser tali, dice loro
di venire, tal dire chiamando le cose le chiama presso, le invita, al tempo
stesso sospinge verso le cose, affida queste al mondo da cui si manifestano,
per questo la prima strofa nomina non soltanto cose ma insieme il mondo, chiama
i molti che come mortali fanno parte del quadrato del mondo, le cose
condizionano i mortali ciò a questo punto significa: le cose visitano di volta
in volta i mortali sempre e solo insieme col mondo. La prima strofa parla
nell’atto che dice alle cose di venire, la seconda strofa parla in modo diverso
dalla prima eccetera … qual è la questione qui? Importante perché ci sta
dicendo che c’è il mondo che è fatto di che cosa? “dei, mortali, cielo, terra”,
il mondo è ciò per cui le cose sono quelle che sono, adesso ve la dico in modo
molto più semplice e capirete subito: “le cose” sono gli enti, il “mondo” è
l’Essere. In questa posizione sta dicendo che senza il mondo cioè senza
l’“Essere”, che poi questo mondo, lui è preciso qui quando dice “la caduta
della neve” per esempio nel verso “porta gli uomini sotto il cielo che si
oscura inoltrandosi nella notte e il suonare della campana della sera li porta
come mortali di fronte al divino” cioè queste parole costruiscono la scena
entro la quale la “cosa” può apparire, come se fosse, adesso preciseremo
meglio, come se la “cosa” fosse una sorta di significante, adesso sto un po’
stravolgendo ma per farvi capire, il “mondo” il significato, senza significante
non c’è significato e viceversa, il significato cioè ciò che questa “cosa”,
questa parola produce, se lui nomina il “suonare della campana” è chiaro che
questo suonare della campana evoca qualcosa, evoca il divino, evoca la
religione, evoca tantissime cose, adesso lui ne cita solo una, ma potrebbero
essere sterminate ed è all’interno di questo che l’ente compare, Intervento:
come se le cose potessero apparire solo in questa scena che è il “mondo”. Esattamente,
però senza gli enti il mondo non c’è. Intervento: il mondo è la totalità degli
enti? Sì, esattamente, poi: Come il chiamare che nomina la cose chiama presso e
rimanda lontano, così il dire che nomina il “mondo” è invito a questo a farsi
vicino e al tempo stesso lontano. Cosa vuole dire che “chiama presso e rimanda
lontano” questo “chiamare”? le chiama le cose parlando, io chiamo le cose
quindi è come se me le avvicinassi ma mentre avvicino queste cose, queste cose
si allontanano anche, si allontanano perché di cosa sono fatte? Intervento: c’è
sempre quell’assenza di prima. Sì, queste parole sono assenti, nel senso che
non sono lì in quanto tali, sono lì sempre in quanto riferite al mondo ecco:
esso, il chiamare, affida il mondo alle cose e insieme accoglie e custodisce le
cose nello splendore del mondo, il mondo concede alle cose la loro essenza.
Quindi è questo mondo, questa scena, io adesso uso dei termini che lui non usa
ma solo per rendere le cose più semplici, è questo “mondo” che dà alle cose la
loro essenza, qui sembra essere ancora platonico, questo mondo 3 potrebbe
essere pensato come il mondo delle idee ed è questo mondo delle idee che da
alle cose, agli aggeggi la loro essenza. Le cose d’altra parte fanno essere il
mondo, il mondo consente le cose. Il parlare delle prime due strofe parla
nell’atto che sollecita le cose a venire verso il mondo e il mondo verso le
cose- tenete sempre conto che sta descrivendo cosa fa il linguaggio: neppure
però costituiscono soltanto una coppia, mondo e cose non sono infatti realtà
che stiano l’una accanto all’altra, esse si compenetrano vicendevolmente,
compenetrandosi i due passano attraverso una linea mediana, in questo si
costituisce la loro unità, per tale unità sono intimi linea mediana e
l’intimità, per indicare tale linea la lingua tedesca usa il termine “das …” il
“fra” “fra mezzo” la lingua latina dice “inter”, all’“inter” latino corrisponde
il tedesco “unter”. Intimità di mondo e cosa non è fusione - ora cominciate a
pensare a queste due cose “mondo e cosa” come significato e significante e
adesso vi dirò perché non è una fusione fra le due cose, pensate a De Saussure,
L’intimità di mondo e cosa regna soltanto dove mondo e cosa nettamente si
distinguono e restano distinti, nella linea che è a mezzo tra i due, nel fra
mezzo di mondo e cosa, nel loro “inter”, questo “unter, domina lo stacco. ora
adesso non so se è già il caso di dire qua, ecco qui comincia con la questione
della “differenza”: L’intimità di mondo e cosa è nello stacco, “Schied” “del
frammezzo” e nella “dif-ferenza” “Unter Schied”, il termine “differenza” è qui
sottratto all’uso corrente e consueto non indica un concetto generico nella cui
area rientrino molteplici specie di differenza, la “dif-ferenza” di cui qui si
parla esiste solo come quest’una e unica, la dif-ferenza regge, non però con
essa identificandosi, quella linea mediana nel modo e nella relazione alla
quale, e grazie alla quale, mondo e cose trovano la loro unità, l’intimità
della dif-ferenza è l’elemento unificante della diafora, di ciò che
differenziando porta e compone, la dif-ferenza porta il mondo al suo esser
mondo, porta le cose al suo esser cose, portandoli a compimento li porta l’un
verso l’altro. Il termine “dif-ferenza” non indica per ciò più una distinzione
posta tra oggetti del pensiero presentativo – Oggetti del pensiero presentativo
sono quelli che il pensiero mostra, presenta – né la differenza è solo una
relazione oggettivamente esistente tra mondo e cosa, che il pensiero
presentativo venendovisi a imbattere possa constatare, né la differenza è
comunque relazione tra mondo e cosa destinata ad essere in un ulteriore momento
negata e trascesa – cioè non può togliersi – la differenza di mondo e cosa fa
che le cose emergano come quelle che generano il mondo, fa che il mondo emerga
come quello che consente le cose. La dif-ferenza è la dimensione in quanto
misura nella sua interezza facendo essere nella sua propria essenza lo spazio
di mondo e cosa, la differenza come linea mediana di mondo e cose rappresenta
generandola la misura in cui mondo e cosa realizzano la loro essenza, nel
nominare che chiama “cosa” e “mondo” quel che è propriamente nominato è la
dif-ferenza. A questo punto è ovvio che ciascuno di voi ha pensato necessariamente
a Derrida, il quale Derrida ha preso a man bassa da Heidegger ma tra breve sarà
ancora più evidente, lui, Derrida ha preso Heidegger e lo ha riletto con De
Saussure dice: “Questo chiamare” ricordate prima ha detto del chiamare: Questo
chiamare è l’essenza del parlare, la dif-ferenza è la chiamata dalla quale
soltanto ogni “chiamare” è esso stesso chiamato, alla quale pertanto ogni
possibile “chiamare” appartiene. // Il linguaggio parla in quanto suono nella
“quiete” (adesso dirà che cosa intende) la quiete acquieta, (ovviamente)
portando mondo e cose alla loro essenza, il fondare e comporre mondo e cose nel
modo dell’acquietamento è l’evento della dif-ferenza, il linguaggio, il suono
della quiete è in quanto “la dif-ferenza”, è come farsi evento, l’essere del
linguaggio è l’evenire della dif-ferenza. Il suono della quiete non è nulla di
umano, certo l’uomo è nella sua essenza parlante, il termine “parlante”
significa qui che emerge ed è fatto se stesso dal parlare del linguaggio. (lui
è preciso su questo cioè non è l’uomo che parla, è il linguaggio che parla, e
il linguaggio non è un ente, non è un oggetto al pari degli altri, infatti
quando la logica parla di “linguaggio oggetto” compie un abominio per
Heidegger, perché il linguaggio non è un oggetto, mai può essere oggetto
dunque: In forza di tale evenire l’uomo nell’atto che è dalla lingua portato a
se stesso, alla sua propria essenza continua ad appartenere all’essenza del
linguaggio, al suono della quiete (cioè è l’uomo che appartiene all’essenza del
linguaggio non viceversa) tale evento (il suono della quiete) si realizza in
quanto l’essenza del linguaggio (il suono della quiete) si avvale del parlare
dei mortali per essere dai mortali percepita come appunto “suono della quiete”,
solo in quanto 4 gli uomini rientrano nel dominio del suono della quiete,
i mortali sono a loro modo capaci di un parlare attuantesi in suoni. Il parlare
dei mortali è un “nominante chiamare”, (questo è fondamentale in Heidegger lo
ripeto “il parlare è un nominante chiamare”) è invito alle cose e al mondo
farsi presso muovendo dalla semplicità della differenza. La pura del parlare
mortale è la parola della poesia, l’autentica poesia non è mai un modo più
elevato della lingua quotidiana vero è piuttosto il contrario, che cioè il
parlare quotidiano è una poesia dimenticata come logorata nella quale a stento
è dato ancora percepire il suono di un autentico chiamare. Ecco la questione
che sta ponendo è esattamente quella che pone Derrida, questo suono, questo
suono silenzioso che non si sente ma che tuttavia è ciò che costituisce la
condizione della parola che chiama, beh è ciò che Derrida ha elaborato come
“differance”, lui usa per indicare questo suono che non c’è, usa questo
esempio, lui scrive in francese “difference” in francese si scrive così, però a
“difference” sostituisce alla e una a, scrivendo quindi “differance” che in
francese è scorretto perché si scrive “difference”, però dice anche cambiando
la e con la a, il suono della parola in francese “differance” non cambia, è esattamente
lo stesso cioè questa e non si sente, che metta la e o metta la a, è uguale,
non si sente, cioè quella cosa che lui chiama la “differance” è esattamente
questo suono muto, che tuttavia è quella cosa che consente alla parola di
essere tale e cioè di, mettiamola così, lui, forse dovrei aggiungere qualcosa,
lui, Derrida muove a queste considerazioni partendo da De Saussure, dal segno
di De Saussure “significante/significato” e quindi ciò che dice è che questa
barra è quella che divide il significante dal significato ma è quella che
compone il segno, senza questa barra che distingue il significante dal
significato il segno non c’è, però questa barra si scrive, si mette il
trattino, come faceva De Saussure, ma non c’è, non suona né nel significante né
nel significato ecco questa barra è la “dif-ferance”, è quella cosa che non
compare, che non ha suono però è la condizione perché il segno sia segno, cioè
perché la parola sia la parola è indeterminabile cioè questo suono di cui parla
qui Heidegger il “suono della quiete” è questo suono, senza questo “cosa e
mondo”, adesso la dico in modo molto rozzo ma si sovrapporrebbero l’uno altro,
l’ente, cesserebbe di essere tale perché l’ente è tale perché inserito
all’interno del mondo, e il mondo è tale perché esiste un ente che lo pone in
essere, esattamente come il significante e il significato. Heidegger non parla
né di significante né di significato, non gliene importa assolutamente nulla,
per lui il mondo è l’essere, è l’esserci “Dasein”. Ciò che a noi interessa
invece è intendere come anche in Heidegger si siano poste delle questioni molto
precise intorno al linguaggio, soprattutto rispetto al fatto che il linguaggio
non è un oggetto, non è una proprietà dell’uomo, non è una sua facoltà tra
altre, ma è il linguaggio che parla, ricordate la famosa asserzione di Lacan
quando dice “ça parle” cioè qualcosa parla, viene da qui ovviamente, è stato
Heidegger a porre la questione in termini precisi, tali per cui ha preso atto
del fatto che il linguaggio non è una proprietà, è questo che dice, non è una
proprietà, non è un ente, non è qualcosa di cui gli umani dispongano ma è il
linguaggio che parla. Che significa questo per quanto ci riguarda? Significa
una cosa importante: è il linguaggio a parlare e a costruire l’uomo, e anche le
cose, perché Heidegger dice che le chiama, le chiama alla presenza, però di
fatto il linguaggio è quella struttura, come andiamo dicendo da tempo, senza la
quale non sarebbe possibile per gli umani il dirsi tali, non sarebbe possibile
costruire nessun pensiero, nulla. Quindi lui dice che il linguaggio “chiama le
cose”, sì, le chiama nel senso che le crea, le produce letteralmente, e in
effetti non lo dice, forse lo usa da qualche parte, non usa la parola
“costruire” ma in ogni caso ciò che sta dicendo è che il linguaggio è quella
cosa che in un certo senso, adesso permettetemi di dire questa cosa che ad
Heidegger non piacerebbe, ma “preesiste” l’uomo in un certo senso, “preesiste”
tra virgolette, perché è come se il linguaggio fosse da sempre lì, è questo
mondo all’interno del quale qualche cosa può apparire. Ed è una posizione molto
interessante che per altro moltissimi hanno ripreso, tutti coloro che si sono
minimamente interrogati intorno al linguaggio in qualche modo hanno tenuto
conto di queste asserzioni di Heidegger, questo testo è celeberrimo “In cammino
verso il linguaggio” 5 Intervento: scusi, dicendo appunto dell’uomo e del
linguaggio, non dice che il linguaggio “costruisce” o “inventa” l’uomo, ma dice
che il linguaggio fa qualsiasi cosa, però non è giunto a dire che l’uomo non
esisterebbe in quanto uomo, se non ci fosse il linguaggio? Nel senso che
mantiene l’uomo un’entità che parla, che dice delle cose, o no? Dice in modo
molto chiaro: Il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in
quanto uomo, Dice ancora: La parola è cenno e non segno, nel senso di semplice
denotazione la logica ma anche la linguistica ha sempre considerato la parola
come un segno denotante qualche cosa, un segno linguistico che denota un
aggeggio qualunque, lui dice che la parola è cenno, accennare a qualche cosa,
alludere a qualche cosa, riferirsi indirettamente a qualche cosa, come dire
lasciare che questa cosa appaia senza una determinazione precisa, cioè senza
una denotazione, la denotazione appunto “de nota”, la denotazione dice qual è
il significato di una cosa, ricordate la differenza fra denotazione e
connotazione? Dicendo che la parola è cenno, qua nella parte in cui fa questo
dialogo ipotetico con un giapponese, è come dire che la parola indica qualche
cosa ma che è al di là della parola, la parola è un cenno in quanto indica il
mondo all’interno del quale questa parola è inserita, ma lo accenna, non lo
determina, non lo può determinare. Intervento: lo potrebbe determinare
l’esserci, “Dasein”? è l’“esserci” nel mondo che determina la cosa, ovviamente
di volta in volta. Sì, Heidegger oscilla però in genere tende a considerare che
l’essere non può stare senza l’ente, altre volte invece sembra dire che, così
notava Severino, che l’Essere possa darsi senza l’ente, cosa abbastanza
improbabile, è come dire “un significante senza un significato” che cos’è? È
niente. Intervento: non ho capito: che l’ente possa esserci senza l’essere,
significante senza significato? Heidegger dice che l’ente e l’essere non
possono darsi l’uno senza l’altro, così come, stavo dicendo, allo stesso modo
come il significante e il significato non possono darsi l’uno senza l’altro. In
questo senso dicevo, allora qui si riferisce a “Sein und Zeit”: Si trattava e
si tratta, era ed è, di evidenziare l’essere dell’essente, certamente non più
alla maniera della metafisica ma in modo che l’essere stesso si manifesti,
l’essere stesso, ciò significa la presenza di ciò che può farsi presente, (la
“presenza di ciò che può farsi presente”) vale a dire la differenza dei due
momenti sulla base dell’unità, è questa differenza che esige l’uomo per la sua
propria essenza … che è come dire cioè l’essere stesso, a questo punto se lui
lo pone come la differenza dei due momenti “cosa/mondo” sulla base dell’unità,
sulla base del fatto che sono inscindibili, dice che allora: è questa
differenza che esige l’uomo per la sua propria essenza cioè questa differenza
tra il fatto che mondo e cosa pur essendo assolutamente inscindibili sono
tuttavia separati, è da lì che l’uomo trae la sua essenza, dal fatto che il
significante e il significato cioè ogni parola che dice mostra si presentifica
qualche cosa, nel senso che chiama qualche cosa ma mentre chiama la cosa,
chiama anche il mondo all’interno del quale questa cosa è inserita e senza il
quale mondo non esisterebbe neppure … Intervento: è molto vicino alla
semiotica, in fondo parla di connessioni … Tutti coloro che si sono addentrati
in queste questioni, e questa è un’altra cosa che forse compare in ciò che vado
dicendo ultimamente, si sono trovati a interrogare questioni molto simili,
perché quando si incomincia a riflettere sul modo in cui funziona il linguaggio
è inevitabile accorgersi che la parola è all’interno di qualche cosa, per
Heidegger è il mondo, per Greimas non è più il mondo ma un contesto di segni
all’interno del quale il nucleo segnico acquista un significato, per la
psicanalisi è la parola che non si può intendere se a questa parola non vengono
associati tramite associazioni libere le connessioni alle quali è agganciata.
Modi di interrogare una questione che sono sì differenti però incontrano molto
spesso quasi una stessa direzione da seguire, quasi gli stessi elementi
Intervento: però l’uomo incontrando il mondo lo simbolizza nella parola? Può accadere
certo, siamo però già verso Lacan (lo evoca) sì evocandolo può anche
simbolizzarlo, se vuole, non è proibito. Ecco qui parla del “non pensato”
sempre riferendosi indirettamente alla differenza perché è l’impensato, non si
può pensare la differenza in quanto tale, così come non può 6 neanche
dirsi perché non c’è ma pur non essendoci in quanto ente costituisce, come dice
Heidegger quel suono muto che tuttavia è ciò che consente a questi due elementi
la cosa e il mondo di stare distinti ma al tempo stesso uniti. Intervento: non
avevo conosciuto Heidegger su questo aspetto. All’Università … Su alcune cosa
ha riflettuto attentamente, soprattutto intorno al linguaggio qui incomincia a
parlarne in modo abbastanza esplicito già nel suo primo scritto “Essere e
tempo” poi mano a mano riflettendo intorno all’Essere si accorge che una
riflessione intorno all’Essere comporta una riflessione intorno al linguaggio
necessariamente. Il parlare inteso nella sua pienezza significante trascende
sempre la dimensione puramente fisico sensibile del suono ovviamente il parlare
non è soltanto il suono ma il linguaggio come significato fattosi suono o segno
scritto è qualcosa di essenzialmente soprasensibile, qualcosa che perennemente
oltrepassa il puramente sensibile, il linguaggio così inteso è per sua
costitutiva natura metafisico.) È la metafisica che rappresenta, badate bene:
si parla, si rappresenta, se si rappresenta si compie un’operazione metafisica.
Poi sul volere sapere: Il voler sapere e l’avida richiesta di spiegazioni non
portano mai a un interrogare pensante, nel volere sapere si cela già sempre la
presunzione di un auto coscienza che si appella a una ragione auto fondata e
alla sua razionalità, il volere sapere non vuole che si stia in ascolto di
fronte a ciò che è degno di essere pensato. Intervento: è una forma di
controllo Esattamente, e poi c’è la seconda parte di cui ci occuperemo nel
prosieguo perché ciò che stiamo facendo è straordinariamente vicino a ciò che
qui Heidegger ci sta dicendo, lui non ha dubbi sul fatto che l’uomo è quello
che è, perché c’è il linguaggio, non ha nessun dubbio lo pone proprio nelle
prime pagine il che comporta ovviamente delle implicazioni, perché se l’uomo
non è se non nel linguaggio allora, dice lui giustamente, occorre porsi in
ascolto del linguaggio, che non significa ascoltare quello che qualcuno dice,
ma porsi in ascolto del linguaggio e porsi in ascolto della domanda che c’è nel
linguaggio, nella chiamata che il linguaggio è, il linguaggio è un chiamare le
cose e fra le cose, chiama anche l’uomo nonostante che sia l’uomo la condizione
perché ci sia questa chiamata. Questa è una questione sempre presente in
Heidegger, infatti è stato accusato di “umanismo”, “accusato” tra virgolette,
mentre lui si è sempre difeso da questo, la sua non è una posizione
esistenzialista, ha dovuto attraversare l’esistenzialismo perché l’unico
esistente è l’uomo, questo accendisigari per Heidegger non esiste, c’è, ma non
esiste, solo gli umani esistono cioè soltanto coloro che sono in condizioni di
porre la domanda, questo aggeggio, questo accendino non fa nessuna domanda. Per
Heidegger l’uomo è il portatore in un certo senso del linguaggio, forse non
necessariamente l’unico, però a quanto ci consta per il momento si, e questo,
sempre per Heidegger, è fondamentale perché l’uomo può trarre la verità, cioè
la verità sull’essere e quindi il fatto che l’essere non sia nient’altro che
l’esserci dell’uomo in quanto progetto ciascuna volta, solamente nel dialogo.
Nel dialogo tra umani ovviamente, ma un dialogo dove le cose si interrogano,
dove si mantiene aperta la domanda non la chicchera, il parlare per il sentito
dire, il sentito dire vuole dire anche averlo letto da qualche parte, ma non
averlo interrogato in modo autentico. Interrogare in modo autentico e lasciarsi
interrogare dalla cosa: una qualunque cosa pone delle questioni, per esempio
“che cos’è?” o quando mi trovo all’interno di un progetto su come posso
utilizzare quella certa cosa, pone comunque sempre delle domande, l’uomo è
sempre all’interno di questo domandare, continuamente. Questo è il domandare
autentico, quello che si lascia interrogare da ciò che sta dicendo, da ciò che
sta facendo, le cose che sta incontrando, non da colui che invece si precipita
a dare la risposta o come dicevo prima ha la fretta di sapere tutto
dimenticandosi della domanda. Nella parte successiva ci saranno delle cose
molto interessanti da dire. per esempio sulla poesia che per lui è importante
perché la poesia accenna, e in questo accennare lascia che la parola chiami le
cose, senza fermarle, senza bloccarle, senza mortificarle ma le lascia essere,
lasciar essere questo è sempre stato fondamentale per Heidegger. 7 20
maggio 2015 Heidegger prosegue: La ricerca scientifica e filosofica mira da
qualche tempo (siamo nel ‘59) in modo sempre più deciso a costruire ciò che
viene chiamato “metalinguaggio” (qui ce l’ha con i filosofi analitici)
giustamente pertanto la filosofia scientifica che si prefigge di costruire tale
super linguaggio, intende se stessa come metalinguistica. Metalinguistica suona
come metafisica, non soltanto suona “come” ma è, la metalinguistica è infatti
la metafisica della totale trasformazione tecnica di ogni lingua in semplice
strumento interplanetario di informazione, metalinguaggio e sputnik, metalinguistica
e tecnica missilistica sono la stessa cosa. // (Poi cita una poesia, una poesia
di Stefan George, il titolo è Das Wort (la parola). Meraviglia di lontano o
sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia
Norna (Norna è la dea del fato, del destino) il nome trovò nella sua fonte,
meraviglia o sogno potei allora afferrare consistente e forte ed ora fiorisce e
splende per tutta la marca. (la marca è un territorio di confine) Un giorno
giunsi colà dopo un viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a
lungo e al fine mi annunciò “qui nulla di eguale dorme sul fondo”, al che esso
sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi
triste la rinuncia: “nessuna cosa è dove la parola manca”. Un numero infinito
di persone considera non di meno anche questa cosa dello sputnik un prodigio,
questa “cosa” che gira vertiginosamente in uno spazio del mondo ove non è
mondo, e per molti essa era ed è tutt’ora un sogno, prodigio e sogno della
tecnica moderna, la quale dovrebbe essere la meno disposta a riconoscere valido
il pensiero che sia la parola a procurare alle cose la loro esistenza, non le
parole ma le azioni contano nei calcoli dell’ossessivo calcolare planetario,
lasciamo la fretta del pensare, non è proprio anche questa “cosa” quel che essa
è, e così come essa è, in nome del suo nome? Certamente. Se l’affrettare nel
senso del massimo potenziamento tecnico della velocità, di quella velocità nel
cui spazio temporale soltanto le macchine e i congegni moderni possono essere
quello che sono, (questi marchingegni sono quelli che sono perché esiste la velocità
cioè esiste il concetto di velocità) se l’affrettare dunque, non avesse parlato
all’uomo e non l’avesse posto sotto il suo comando, (sta parlando della tecnica
ovviamente) questo comando non avesse spinto e disposto l’uomo alla fretta, se
la parola di un tale disporre non avesse parlato non ci sarebbe nessuno
sputnik, nessuna cosa è là dove la parola manca. La parola del linguaggio e il
suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è sotto il riguardo
dell’essere e il modo di essere della cosa stessa resta un enigma. (l’enigma
sarebbe il rapporto fra la parola e la cosa, ecco già questo dice delle cose
perché nessuna cosa è dove la parola manca, beh la dice già lunga sul fatto che
se non c’è la parola, se manca la parola non c’è nessuna cosa, non c’è nulla.
Questo Heidegger l’aveva inteso molto bene ovviamente, non è un caso che
riprenda questa poesia di Stefan George) Dice poi: l’ultimo verso infatti
appunto “nessuna cosa è dove la parola manca” in tedesco “Kein ding ist wo das
Wort gebricht” l’ultimo verso potrebbe allora avere anche un significato
diverso da quello di un asserzione e costatazione volta nella forma del
discorso indiretto che dice “nessuna cosa è dove la parola manca”, quel che
segue i due punti, dopo la parola “rinuncia” (perché ci sono due punti dopo
“così io presi triste la rinuncia: nessuna cosa è dove la parola manca”) non
indica ciò cui si rinuncia, ma indica l’ambito entro cui la rinuncia deve
immettersi, indica il comando a consentire e accordarsi al rapporto fra parola
e cosa ora esperito, (“ora” esperito nel momento in cui si dice allora si
esperisce la cosa, allora c’è la cosa, e la cosa è quello che è) ciò di cui il
poeta ha preso la rinuncia è la sua precedente opinione nei riguardi del
rapporto fra cosa e parola, rinuncia concerne il rapporto poetico con la parola
a lui fino a quel momento consueto, la rinuncia è la disposizione a un rapporto
diverso, nel verso “Kein ding sei wo das Wort gebricht” “sai” non sarebbe
allora sul piano grammaticale un congiuntivo (“sai” vuol dire “sia”,
l’indicativo è “ist”) al posto dell’indicativo “ist” bensì una forma
dell’imperativo, un ordine cui il poeta obbedisce per rispettarlo anche in
futuro, nel verso “nessuna cosa “sia” laddove la parola manca”, il “sia”
significherebbe allora “non considerare d’ora in poi una cosa come esistente
dove la parola manca” (è un imperativo categorico” e non so per quale via mi ha
evocato le parole di Parmenide “sulla via del non essere non ti ci
incamminerai, ma seguirai la via dell’Essere.” Con quel “sia” inteso come
8 comando, il poeta si dispone ad accettare quella rinuncia per cui egli
abbandona la convinzione che qualcosa esista, già esista, anche quando la
parola manca. (Non c’è già la cosa) Che significa rinuncia? La parola
“Verzicht” Rientra nell’aria del verbo “verzeihen”; una locuzione antica dice
“Sich eines Dinges verzeihen”, e significa “abbandonare qualcosa”
“rinunciarvi”. Zeihen corrisponde al latino dicere, all’antico alto tedesco
“sagan” (il sagen del tedesco moderno), da cui “saga”. La rinuncia è un
Entsagen, letteralmente un “disdire”. Nella sua rinuncia il poeta dice “no” al
suo precedente rapporto con la parola, questo soltanto? No. Nell’atto in cui
rifiuta qualcosa, già gli è stato destinata una chiamata alla quale egli non si
sottrae più. (nella sua rinuncia, dice, rinuncia soltanto all’idea che qualcosa
ci sia anche senza la parola? già questa è una bella rinuncia. Rinuncia di fronte
a ciò che incontro, a pensare che questa cosa che incontro sia già lì prima che
io la dica, prima della parola, non che io la dica propriamente, però aggiunge
no, non è proprio così, ciò a cui non si sottrae è ciò che gli è stato
destinato “una chiamata alla quale egli non si sottrae più”. Chi lo chiama a
quella maniera, se non la parola?) In termini più chiari il poeta ha capito che
solo la parola fa sì che la parola appaia e sia pertanto presente come quella
cosa che è, la rinuncia che il poeta apprende è della natura di quella compiuta
rinuncia alla quale soltanto è dato attingere ciò che da lungo nascosto è
propriamente già destinato. Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come
una chiamata alla parola, ma cosa raggiunge il poeta? Non una semplice nozione,
seguendo questa chiamata, egli giunge nel rapporto della parola con la cosa,
questo rapporto non è però una relazione fra la cosa da una parte e la parola
dall’altra (qui c’è la parola e lì c’è l’ente e la relazione è in mezzo) la
parola stessa è il rapporto che via via incorpora e trattiene in sé la cosa, in
modo che essa è una cosa. Sulle prime e per lungo tratto pare che alla fonte
del linguaggio (poi dirà che è la parola la fonte dell’Essere) il poeta abbia
bisogno di portare soltanto le meraviglie che lo incantano (qui sta sempre
commentando la poesia di George) e i sogni che lo estasiano, pare che le parole
che a quella fonte egli va, con non incrinata fiducia, a cercare siano solo
quelle che convengono a quanto di meraviglia e sogno ha preso corpo nella sua
fantasia, prima di allora il poeta, confermato in questo dalla felice riuscita
delle sue precedenti composizioni poetiche, era dell’opinione (qui sta parlando
di George) dell’opinione che le cose poetiche meraviglia e sogni avessero già,
da e per sé, garanzia di esistenza (come ciascuno pensa) e che tutto
consistesse poi nel saper trovare per esse anche la parola atta ad esprimerle e
rappresentarle. (non è questo il pensiero comune?) Sulle prime e a lungo è
parso che le parole fossero come pigli che afferrano ciò che già esiste, ed è
per sé esistente considerato, e ad esso danno consistenza ed espressione
portandolo così a bellezza. (qui ripete ancora una parte della poesia): Qui
meraviglia e sogni, là nomi che afferrano gli uni e gli altri fusi in uno e la
poesia era nata, tutto fuso insieme, bastava essa a quello che è il compito del
poeta dar vita a ciò che permane, perché duri e sia? Ad un certo punto giunge
però Stefan, per Stefan George il momento nel quale il poetare che fino allora
gli era stato consueto, quel poetare sicuro di sé viene bruscamente meno
riportandogli alla mente la parola di Hölderlin, ma ciò che permane fondano i
poeti, infatti un giorno il poeta arriva il viaggio per di più è stato buono e
anche per questo egli è pieno di speranza, dalla dea del destino carica d’anni
e chiede il nome per il gioiello ricco e fine che porta sulla mano (questo
gioiello ricco e fine è la parola) solo che lei chiede il nome della parola (e
questo crea qualche problema) questo non è meraviglia di lontano e neppure
sogno, la dea cerca a lungo ma invano, alla fine gli annuncia “nulla d’eguale
dorme qui sul fondo” (non c’è la parola per dire la parola, “nulla d’eguale”
cioè nulla che sia come il gioiello ricco e fine che gli sta sulla mano) la
parola capace di far essere quel gioiello che sta semplicemente lì sulla mano
quello che esso è, una tale parola dovrebbe scaturire da quella sicura custodia
che riposa nella quiete di un sonno profondo, soltanto una parola veniente di
lì potrebbe portare e fermare il gioiello nella ricchezza e gentilezza del suo
semplice essere. (Ripete le parole del poeta) “Nulla di eguale dorme qui sul
fondo” a tal dire esso sfuggì alla mia mano (questo gioiello) e mai più la mia
terra ebbe il tesoro. Il fine ricco gioiello che era lì sulla mano non giunge
all’essere di una cosa, non diventa tesoro cioè ricchezza custodita nella
poesia di quella terra, il poeta non precisa la natura del gioiello che non
poté divenire tesoro della sua terra ma che gli donò tuttavia l’esperienza
del 9 linguaggio, l’occasione di apprendere quella rinuncia nella quale
l’abdicazione corrisponde, da parte del rapporto fra parola e cosa, l’assenso a
un disvelamento, l’oggetto ricco e fine è cosa diversa dalla meraviglia di
lontano oppure sogno, se poi la parola canta il cammino poetico proposto
proprio di Stefan George è lecito pensare che nel gioiello sia adombrata la
delicata ricchezza della semplicità che nell’ultimo periodo della sua attività
si presenta al poeta come ciò che deve essere detto “la parola della parola”.
Qui Heidegger affronta una questione, poi diremo mano a mano, e se la porta
appresso perché ovviamente non ha soluzione cioè quella parola che è
all’origine della parola, e la Norna, la dea del destino, del fato glielo dice
qui “sul fondo non giace nulla di simile”, non c’è, non c’è il fine, il limite
del linguaggio, il punto da cui comincia. Certo che non c’è, Heidegger poi lo
allude, lo allude nel dire autentico del poeta e il dire autentico del poeta è
quello che ovviamente nel pensiero di Heidegger è quello che lascia dire
l’Essere, lo lascia apparire, lo disvela, l’ἀλήθεια. Però ciò che qui il poeta
cerca di fatto è la parola della parola, cioè l’essenza propriamente della
parola, ma qui si scontra contro un qualche cosa che non c’è perché è la parola
che dà l’essenza alle cose, dà l’Essere alle cose, e quindi ci vorrebbe un
altro Essere che dia Essere all’Essere della parola, la cosa non avrebbe più
senso. Heidegger lo pone come una sorta di enigma, però di fatto non possiamo
parlare di enigma quanto piuttosto del tentativo di dare anche alla parola o
meglio di trasformare la parola in ente, lui dirà tra un po’ che la parola non
è un ente al pari di qualunque altro, è un'altra cosa, è ciò che da l’accesso
all’ente, infatti lo dice utilizzando la poesia “nulla è là dove la parola
manca”, se nulla è là dove la parola manca è ovvio che anche la parola potrebbe
essere intesa come ente, ma a questo punto la cosa non funziona più. L’apparire
di qualche cosa che è il λόγος, lo vedremo più avanti, λόγος non inteso come il
discorso, il racconto, la ragione, nulla di tutto ciò, il λόγος è una delle
forme dell’Essere per Heidegger, è questo logos che consente l’apertura cioè il
linguaggio consente l’aprirsi della parola che nomina qualche cosa, nel momento
in cui nomina qualche cosa questa cosa è. C’è. Intervento: la parola è ciò che
differenzia l’istinto dalla pulsione. Intervento: l’uomo, diciamo, arrivando a
possedere la parola nominando gli oggetti, qualificandosi come possessore della
parola, identificandosi come ciò che padroneggia la realtà, come il bambino che
si distacca dall’uniforme primordiale sia come essere sociale, essere sociale
organizza la società che si differenzia dal gruppo indistinto dall’orda
primitiva, o comunque dai gruppi degli animali. Intervento: dal branco degli
animali, esattamente grazie, ecco possedendo la parola ecco io la intenderei
così … Heidegger ha un’opinione differente, perché dice: “quando poniamo una
domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve
esserci stato fatto dono, non possiamo chiederci qualcosa sul linguaggio se già
non possediamo il linguaggio, se vogliamo porre una domanda sull’essenza,
sull’essenza cioè del linguaggio allora anche del significato di “essenza” ci
deve essere già stato fatto dono, domanda “a” e domanda “su” presuppongono qui,
come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la
parola sollecitatrice, ogni posizione di domanda è possibile solo in quanto ciò
che si fa problema ha già iniziato a parlare e a dire di se stesso. // (cita
ancora la frase: nessuna cosa è dove la parola manca) Accenna al rapporto tra
parola e cosa prospettando il modo che la parola stessa risulti il rapporto, in
quanto essa trae all’essere (la parola) e mantiene nell’essere ogni cosa
(qualunque essa sia), senza la parola che si identifica con la forza del
rapporto, il complesso delle cose, il mondo, sprofonda nel buio insieme all’io
che porta all’estremo lembo della propria terra, alla fonte dei nomi ciò che ha
incontrato di meraviglia e di sogno. Perché quel che ci interessa è
un’esperienza, un essere in cammino, noi oggi in questa lezione che segna il
passaggio tra la prima e la terza conferenza (in genere la seconda fa questo,
il passaggio fra la prima e la terza) rifletteremo sul cammino, è necessaria al
riguardo un’osservazione preliminare dato che la maggior parte di loro si
occupa in prevalenza di ricerca scientifica, (il pubblico che aveva)nelle
scienze la via al sapere va sotto il nome di metodo, “metodo” “μετα ὁδός”
“attraverso il cammino” “lungo il cammino”, il metodo non è specie nella
scienza moderna un puro strumento al servizio della scienza 10 anzi al
contrario è il metodo che ha assunto a proprio servizio la scienza. Questo
fatto è stato visto in tutta la sua portata per la prima volta da Nietzsche,
che così ne parla nelle annotazioni che seguono, queste fanno parte del corpus
degli inediti pubblicato postumo dal titolo “Der Wille zur Macht” “La volontà
di potenza”. La prima dice “ciò che caratterizza il nostro XIX secolo non è la
vittoria della scienza ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza”.
L’altra notazione incomincia con la proposizione “Le idee più importanti furono
trovate per ultime, ma le idee più importanti sono i metodi” in realtà anche
Nietzsche è giunto assai tardi a scoprire questo rapporto tra metodo e scienza
e precisamente l’ultimo anno della sua lucidità mentale nel 1888 a Torino.
Nelle scienze non solo il tema viene posto dal metodo ma viene immesso nel metodo
e vi resta sottoposto, la corsa folle, che oggi trascina le scienze verso mete
che esse stesse ignorano, ha la sua forza propulsiva nel potenziamento e nel
progressivo assoggettamento alla tecnica del metodo e delle possibilità a
questo intrinseche, nel metodo è tutta la potenza del sapere, il tema rientra
nel metodo. Bene vi lascio riflettere su queste questioni, mercoledì prossimo
riprendiamo questo testo. 27 maggio 2015 Vi rileggo la poesia di Stefan George
perché la riprende si chiama “La parola”, Das Wort: Meraviglia di lontano o
sogno io portai al lembo estremo della mia terra e attesi fino a che la grigia
Norna il nome trovò nella sua fonte, meraviglia o sogno potei allora afferrare
consistente e forte ed ora fiorisce e splende per tutta la marca. Un giorno
giunsi colà dopo viaggio felice con un gioiello ricco e fine, ella cercò a
lungo e alfine mi annunciò “qui nulla d’eguale dorme sul fondo”. Al che esso
sfuggì alla mia mano e mai più la mia terra ebbe il tesoro, così io appresi
triste la rinuncia “nessuna cosa è dove la parola manca”. C’è da dire qui che
la questione che sta ponendo questa poesia è interessante perché di fatto sta
chiedendo alla Norna di fornirgli, dicevamo l’altra volta, la parola della
parola, e cioè un qualche cosa che è fuori della parola e che dovrebbe
garantire l’essere della parola. Ovviamente cercare la parola fuori dalla
parola è un problema, tant’è che la Norna, saggia, dice “qui nulla d’eguale
dorme sul fondo” e allora lui ha appreso la rinuncia: non troverà mai qualche
cosa che da fuori della parola possa garantire la parola… Intervento: sarebbe
il significato del significato? Non esattamente, perché il significato del
significato è ancora un altro significato, quindi un altro termine, un altro
elemento linguistico, qui cerca invece proprio la garanzia, cioè il qualche
cosa che è fuori dal linguaggio e che dia alla parola la sua consistenza.
“Nessuna cosa è dove la parola manca” accenna al rapporto tra parola e cosa,
prospettandolo in modo che la parola stessa risulti il rapporto, in quanto essa
trae all’essere e mantiene nell’essere ogni cosa, qualunque essa sia. //
Infatti fra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale rientra
il rapporto tra cosa e parola e precisamente nella figura del rapporto tra essere
e dire, questo rapporto sorprende il pensiero in modo così subitaneo e
sconvolgente da dirsi in una sola parola, esso suona “λόγος”, ma ancora più
sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza
pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso in base a quel
rapporto giunga propriamente a dirsi. Cioè sta dicendo che il linguaggio non
“si dice” nel senso che non c’è modo di aggirare il linguaggio, di uscire dal
linguaggio e poi di lì parlare del linguaggio sapendo di che cosa si sta
parlando, non c’è uscita dal linguaggio Se sempre il linguaggio ricusa, in
questo senso, la sua essenza (cioè non dice mai che cosa realmente è, perché
appunto dovrebbe uscire fuori dalla parola) allora questo rifiuto fa parte dell’essenza
del linguaggio (il rifiuto della Norna). Il linguaggio non solo si trattiene
così in se stesso nel nostro corrente parlarlo, ma trattenendosi esso in sé,
con la sua origine nega la sua essenza a quel pensiero presentativo nel quale
comunemente ci muoviamo, per questo non possiamo nemmeno più dire che l’essenza
del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza (come diceva prima) a meno che la
parola “linguaggio” non indichi nel secondo caso qualcosa d’altro che cioè quel
rifiuto dell’essenza del linguaggio a dirsi, proprio esso, parla. (In altri
termini sta dicendo che il linguaggio non dice se 11 stesso, si trattiene
dal dire di se stesso nell’accezione che indicavo prima, e cioè come se volesse
parlare da fuori il linguaggio per dire che cos’è esattamente il linguaggio, si
trattiene dal fare questo. Heidegger dice che non possiamo nemmeno più dire che
l’“essenza del linguaggio sia il linguaggio dell’essenza” come diceva prima e
cioè che l’essenza del linguaggio, ciò che è più proprio al linguaggio è il
linguaggio dell’essenza, il linguaggio dell’essenza è quel linguaggio che parla
di ciò che è proprio, a meno che, dice, questo linguaggio non lo si intenda
nelle due cose in modo differente e cioè nel secondo caso intendendo che è
proprio lui che parla e cioè il linguaggio dell’essenza è ciò che parla
continuamente, il linguaggio dell’essenza vale a dire sarebbe, per dirla con
Heidegger, il “dire originario”, quel dire cioè che muove nel momento in cui è
qualcosa, qualcosa appare e questo dire lascia che ciò che appare interroghi,
ciò che si dice, a questo punto, il “λόγος” ciò che fa esistere le cose, a
questo punto è lui, è soltanto lui che parla. Qui c’è adesso forse qualcosa che
è ancora più chiaro, dice:) “Nessuna cosa è (sia) dove la parola manca”. Così
suona la rinuncia del poeta e noi abbiamo aggiunto che qui viene in evidenza il
rapporto fra cosa e parola. (Il rapporto tra cosa e parola è importante perché
è ciò che la metafisica ha sempre cercato di stabilire con certezza, lì c’è la
parola e lì c’è la cosa, però è un problema come dicevamo la volta scorsa, è la
questione tipica della metafisica e cioè il problema del “terzo uomo” come
diceva già Aristotele, cioè c’è un terzo elemento che deve fare da tramite tra
i due, il problema è che questo terzo elemento che deve consentire il bloccarsi
di questa relazione tra cosa e parola, anziché compiere questo rinvia la cosa
all’infinito, perché poi dopo il “terzo uomo” c’è il quarto, c’è il quinto c’è
il sesto e così via all’infinito e quindi non raggiungerà mai la cosa): Abbiamo
anche detto che “cosa” (lui lo mette tra virgolette) indica qui ogni possibile
essente quale ne sia il modo d’essere. (cioè qualunque cosa) Abbiamo detto
ancora riguardo alla parola, che questa non solo sta in rapporto con la cosa ma
porta la cosa che di volta in volta nomina, la cosa in quanto essente che è e
tale, “è”(tra virgolette) in questo reggendola, trattenendola, dandole per così
dire il sostentamento a essere cosa, questo sarebbe il parlare autentico (la
parola che fa essere ciò che dice, nel momento in cui dice le cose è in quel
momento che esistono, che sono quello che sono. È questo che sta dicendo.
Conseguentemente abbiamo detto che la parola non si limita ad essere in
rapporto con la cosa ma che la parola stessa è ciò che porta e serba la cosa
come cosa. (che è ancora di più che “la parola stessa è la cosa”, perché la
parola è ciò che porta e “mantiene” e fa perdurare la cosa in quanto cosa, dice
che la “parola in quanto ciò che porta e serba è il rapporto stesso”. Qui badate
bene che dice “è il rapporto stesso” anzi l’ha già detto varie volte, come dire
che questo rapporto tra parola e cosa è la parola stessa, quindi non c’è più la
parola e la cosa ma c’è una relazione tra parola e cosa, nel senso che la
parola rende la cosa quella che è, e solo la parola può farlo, cioè il λόγος, e
questo è la parola. Qui si potrebbe anche fare un accenno alla questione della
metafisica, così come trascorre da Platone fino a Heidegger, non è altro che lo
spostare una cosa presente a una cosa che presente non è, e che deve dare il
senso, il significato a ciò che è presente, da qui tutte le distinzioni dalle
più antiche alle più recenti: “sensibile – ultrasensibile”, “immanente –
trascendente”, “significante – significato”, “enunciazione – enunciato”,
l’ultimo in ordine di tempo: “conscio – inconscio”. Per questo dico che tutta
questa struttura è metafisica, è metafisica sempre in questa accezione
ovviamente, cioè ciò che questo significato di “metafisica” che, come dicevo,
trascorre da Platone fino ad Heidegger, indica che ciascuna volta in cui
qualche cosa deve la sua esistenza, la sua essenza, il suo significato, a
qualche cos’altro, questa è una struttura metafisica. Che ha degli effetti
ovviamente, perché comporta la supposizione che una certa cosa sia quello che è
in base a quell’altra, quindi quell’altra dà alla prima il suo significato, lo
ferma, lo blocca e che quindi questo secondo elemento costituisca l’essenza,
potremmo quasi dire, del primo, bloccandolo nel significato, ciò che potrebbe,
dico “potrebbe”, consentire un passo fuori, ammesso che sia possibile, dalla
metafisica. È da considerare che invece ciò che dà il significato al primo
elemento costituisca anche questo un elemento che trae il proprio significato
da altro, poi da altro, poi da altro ancora e così via all’infinito, a questo
punto non c’è la possibilità di bloccare un significato 12 ovviamente, ma
questo significato, come ci dice la semiotica, non è altro che un rinvio
continuo, infatti, a quella serie di contrapposizioni potremmo anche aggiungere
quella di Greimas, cioè i sememi danno un senso ai semi nucleari ché da solo,
di per sé, il sema nucleare non significa niente. Ora è chiaro che è il
linguaggio che è strutturato così, per questo da tempo sto dicendo che la metafisica
illustra il modo in cui il linguaggio funziona, né più né meno, per cui non
hanno neanche tutti i torti i metafisici a dire che non c’è uscita dalla
metafisica. Posta in questi termini in effetti non c’è uscita dalla metafisica,
e neanche attraverso la via immaginata da Heidegger ovviamente): La “parola per
la parola” non è dato trovarla là dove il destino dona il linguaggio (cioè se
c’è il linguaggio allora la parola per la parola non c’è, una parola che dica
la parola in modo definitivo, l’ultima parola sulla parola, non c’è, non si
trova perché c’è il linguaggio, il linguaggio che nomina e fa essere, quindi
non c’è), linguaggio che nomina e fa essere per l’essente, non c’è la parola
che dica l’essenza del linguaggio, perché questa sia e come essente splenda e
fiorisca la parola per la parola un tesoro certamente ma un tesoro non
conquistabile per la terra del poeta, e per il pensiero? Può il pensiero?
Quando il pensiero cerca di meditare la parola poetica (cioè la parola
autentica per Heidegger) questo si rivela: la parola, il dire non ha essere. Il
nostro modo corrente di concepire si ribella quando gli si propone un pensiero
così audace. Scritte o parlate ognuno pur vede e sente delle parole, esse sono.
Possono essere come cose, realtà afferrabili dai nostri sensi, basta solo per
far l’esempio più banale aprire un dizionario è pieno di “cose” stampate,
certamente puri vocaboli, non una sola parola, poiché la parola grazie alla
quale i vocaboli si fanno parola, un dizionario non è in grado né di captarla
né di custodirla, dove dobbiamo andare a cercare la parola? dove il dire?
Dall’esperienza poetica della parola ci viene un cenno che può essere di grande
aiuto: la parola non è cosa, nulla di essente, invece noi abbiamo cognizione
delle cose quando per esse c’è a disposizione la parola allora la cosa è. Ma
qual è la natura di questo “è”, “la cosa è”? e questo “è” è anch’esso una cosa
sovrapposta a un’altra, messale su come un cappuccio, noi non troviamo mai
questo “è” come cosa sopra altra cosa, per questo “è” la situazione è la stessa
che per la parola, questo “è” non fa parte delle cose che sono più di quanto
non lo faccia la parola. (sta dicendo che la parola non è, nel senso
dell’Essere, cioè come lo intende la filosofia comunemente, e cioè come ente,
qui allude al fatto che la parola non sia determinabile, così come lo è per
esempio un vocabolo, un lessema, quindi intende con parola ovviamente un’altra
cosa.) Improvvisamente ci risvegliamo dalla sonnolenza di un pensare
frettoloso, e scorgiamo qualcosa di diverso in ciò che l’esperienza del
linguaggio dice, riguardo alla parola gioca il rapporto fra questo “è” che per
sé non è, e la parola che si trova nella stessa situazione che cioè non è nulla
che sia, (qui sta cercando di complicare le cose, adesso vediamo se) né l’“è”
nella parola hanno l’essenza della cosa, (l’abbiamo detto prima: non sono enti)
l’Essere né ha il rapporto con l’“è” la parola al quale è affidato il compito
di concedere via, via un “è”, (sta dicendo che né questo è, quando diciamo che
“la parola è qualcosa”, questo “è” per lui costituisce un problema, diciamo “la
parola è”, “è” cosa? infatti né l’“è” né la parola in questa frase hanno
l’essenza della cosa, cioè non hanno l’Essere) né ha (soggetto l’Essere) il
rapporto fra l’“è” e la parola, ciò non di meno, né l’“è”, né la parola e il
dire di questa, possono venire cacciati nel vuoto del niente (non sono niente,
qualcosa pur sono) Che indica l’esperienza poetica della parola quando il
pensiero riflette su di essa? Essa rimanda a quel degno d’essere pensato,
pensare il quale si pone al pensiero fino dai tempi più antichi e anche se in
modo velato come suo proprio compito, esso rimanda a quello di cui in tedesco
può dirsi “es gibt senza che possa dirsi “ist” cioè è, “gibt” “esso dà” “si
offre”, di ciò di cui può dirsi “est gibt” fa parte anche la parola (adesso
incomincia a intravedersi che cosa intende con quello che sta dicendo “la
parola non è, propriamente, ma è ciò che si dà, ciò che si offre”.)forse non
solo anche, ma prima di ogni altra cosa, in modo tale che nella parola e nella
sua essenza si cela quello che “gibt” appunto “dà”, nella parola si cela quello
che essa stessa da. Della parola pensando con rigore non dovremmo mai dire “es
ist” cioè “essa è” ma “es gibt”, ciò non nel senso di quando si dice “es gibt
Worte” “qualcosa dà la parola” ma nel senso che la parola stessa dà, non è
qualcosa che dà la parola ma è la parola che dà, la parola: la datrice. Ma che
dà la parola? 13 secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica
del pensiero la parola dà: l’Essere (ecco perché prima diceva che la parola non
è l’Essere, la parola dà l’Essere) Ma se così stanno le cose allora in quel
“es, das gibt” “esso, il dare” noi dovremmo pensando cercare la parola come ciò
stesso che dà e mai è dato. La parola “es gibt” si trova in tedesco usata in
molteplici modi, si dice per esempio “es gibt an der sonningen Halde Erdbeeren”
“ci sono fragole sul pendio soleggiato”, “là ci sono le fragole”, nella nostra
riflessione “es gibt” è usato diversamente non “des gibt …” “si dà la parola”
ma “es das Word gibt…” cioè “essa la parola dà”. Quando Freud dice “Wo es war,
soll Ich werden” questo “es” può essere inteso benissimo come “qualcosa” “là
dove qualcosa era occorre che io avvenga” è una delle traduzioni che sono state
fatte di questa frase. Così dilegua completamente lo spettro dell’“es” davanti
al quale molti e a ragione trovano sconcerto, ma ciò che è degno di essere
pensato resta, si fa anzi evidente, questa realtà semplice e inafferrabile che
noi indichiamo con l’espressione “es, das word, gibt” si rivela come ciò che
propriamente è degno di essere pensato e cioè che “essa” la parola da, per la
determinazione di questo mancano ancora da per tutto i termini di misura forse
il poeta li conosce ma il suo poetare ha appreso la rinuncia e tuttavia con la
rinuncia nulla ha perduto (la rinuncia era quella del poeta di avere quella
parola che dice la parola stessa, a questo rinuncia perché la Norna dice che
non ce l’ha) il gioiello però gli sfugge certamente ma sfugge nella forma
comportata dall’esser per esso negata la parola (questo gioiello sfugge, ma
sfugge in che senso? Sfugge perché gli sfugge la parola per dirlo) Negare è
trattenere ma qui appunto si rivela l’aspetto sorprendente del potere proprio
della parola, il gioiello (che è la parola) non si dissolve affatto nell’inerte
insignificanza del niente, (qui si riferisce a quando prima diceva, che la
parola non è Essere, non ha l’Essere) la parola non sprofonda nella banale
incapacità di dire (non è che la parola non può dirsi perché non siamo capaci a
dirla, dice:) no, il poeta non abdica alla parola tuttavia il gioiello si
sottrae nel mistero che riempie di stupore … per questo il poeta come dicono i
versi introduttivi al canto medita anche più di prima, compone ancora, compone
cioè un dire e in forma anche diversa da quella di prima. (ecco qui dicendo che
non è la parola che si dà, ma è la parola che dà, ovviamente pone la parola
come già aveva fatto in precedenza come λόγος in quanto Essere, nell’accezione
che indica Heidegger ovviamente, cioè di “Dasein” “esserci”) Se però l’affinità
tra poetare e pensare è quella del dire, allora siamo portati a supporre che
l’evento domini come quel dire originario con il quale il linguaggio ci dice
della sua essenza, il suo dire non si perde nel vuoto esso ha già sempre
raggiunto il segno, che altro è questo segno se non l’uomo? Che l’uomo è uomo
solo se ha risposto affermativamente alla parola del linguaggio, se è assunto
nel linguaggio perché lo parli (ovviamente, questo dicevo è importante perché
la presenza dell’uomo è ciò che fa, per Heidegger, la possibilità stessa
dell’esserci, “esserci” riguarda l’esistente, l’esistente è l’uomo. Per questo
si trova a dire molto spesso che l’Essere è il dialogo da uomo a uomo, perché
la parola abita l’uomo. Anche le nuove teorie cioè i metodi della misurazione
dello spazio e del tempo, la teoria della relatività e dei quanti e la fisica
nucleare, non hanno cambiato in nulla il carattere parametrico di spazio e tempo
(in tutte queste discipline i concetti di spazio e tempo sono sempre
esattamente gli stessi, quelli per esempio di Anassagora) e nemmeno sono in
grado di produrre un simile cambiamento, se ne fossero capaci ne verrebbe a
crollare l’intero apparato della moderna scienza tecnica della natura. (perché
non avrebbe più questi parametri sui quali è stata costruita ogni cosa) Tutto
parla contro, in primo luogo la caccia alla formula fisica capace di
interpretare il cosmo in termini matematici, la famosa teoria del “Tutto”,
sennonché ciò che spinge al perseguimento affannoso di tale formula non è
primariamente la passione personale dei ricercatori, ché questi si trovano ad
essere quel che sono in forza di un esigenza prepotente che coinvolge e domina
il pensiero moderno nella sua globalità, fisica e responsabilità, “bello!” e
nella difficile situazione di oggi importante, ma resta una partita doppia
dietro la quale si cela un passivo che non può essere sanato né da parte della
scienza, né da parte della morale, sempre poi che sanabile sia. (Naturalmente
poi qual è questo passivo che rimane? La dico così brutalmente “è il non sapere
ciò che stanno facendo”, con tutto ciò che questo comporta ovviamente, poi ecco
l’ultimo capitoletto si chiama “la parola”. Qui fa delle domande, tre domande):
(Ripete di nuovo il verso 14 finale “Nessuna cosa è (sia) dove la parola
manca) Si è tentati di trasformare il verso finale in un’asserzione “Nessuna
cosa è dove la parola manca” dove qualcosa “es gebrit” “manca” cioè c’è una
frattura, un danno, “recar danno a una cosa” vuol dire sottrarle qualcosa,
farle mancare qualcosa, non c’è cosa dove la parola manca, solo quando c’è la
parola per dirla la cosa è, (allora ecco le tre domande): 1) Che è la parola
per avere tale potere? 2) Che è la cosa per avere bisogno della parola per
essere? 3) Che significa qui “essere”, dal momento che appare come un dono
conferito alla cosa dalla parola? (qui riassume in una parola tutto ciò che ha
detto nel libro praticamente. Cioè l’Essere stesso appare come “un dono
conferito alla cosa dalla parola”, qui è chiarissimo … Intervento: risponde
alle domande poi, perché qui è un po’ antropocentrico? Si può dire anche di
Heidegger che sia antropocentrico, anche se a lui non sarebbe piaciuto, infatti
per lui l’uomo è oggetto di interesse, cioè l’esistenzialismo, solo perché si
accorge che l’esistenza dell’uomo è la condizione per potere fare un discorso
sull’Essere, cioè dice che non c’è l’Essere senza l’uomo, cioè senza colui che
parla, senza colui che fa essere le cose.) Il primo verso della poesia dà la
risposta “meraviglia di lontano o sogno” “nomi” per quello di cui al poeta
giunge notizia di lontano come di cosa meravigliosa o per quello che lo visita
nel sogno, l’uno e l’altro sono considerati dal poeta senza ombra di dubbio
come realtà reali, come qualcosa che è, realtà che egli tuttavia non vuole
tenere per sé ma vuole rappresentare, per questo occorrono i nomi. Tali nomi
sono parole per mezzo delle quali ciò che già è e per tale è tenuto, assume
così consistente concretezza che da quel momento splende e fiorisce e così
facendo esercita tutta la regione e il dominio che è proprio della bellezza … i
“nomi” sono le parole che rappresentano (Qui si può intendere in due modi,
perché “i nomi sono le parole che rappresentano” può intendersi sia in questo
modo e cioè che i nomi sono parole che rappresentano qualche cos’altro, ma
anche che “i nomi rappresentano altre parole”. I nomi sono le parole che
rappresentano parole rappresentanti altre cose, oppure i nomi sono le parole
che rappresentano, sono le parole stesse che rappresentano i nomi,) Essi (i
nomi) propongono all’immaginazione ciò che già è, grazie alla loro virtù
rappresentativa i nomi testimoniano il loro decisivo dominio sulle cose, è
l’esigenza stessa dei nomi che porta il poeta a poetare, per raggiungerli egli
deve prima giungere con i viaggi là dove … Sono due casi, nel primo caso
potremmo dire che “nomina sunt consequentia rerum” nel secondo “nomina non sunt
consequentia rerum” “i nomi sono la conseguenza delle cose” nel secondo “i nomi
non sono la conseguenza delle cose”. I nomi che la fonte custodisce (qui si
riferisce sempre alla poesia di Stefan George) sono come qualcosa che dorme,
che ha bisogno solo di essere destato per servire come rappresentazione delle
cose, nomi e parole sono come un solido patrimonio finalizzato alle cose, che
poi viene utilizzato per rappresentarle, sennonché la fonte, alla quale fino a
quel momento il dire poetico ha attinto le parole cioè i nomi che rappresentano
la realtà, non dona più nulla. Quale esperienza fa qui il poeta? Soltanto
quella che quando si tratta del gioiello portato sulla mano il nome non si
trova? (il gioiello è sempre la parola) soltanto quella che ora il gioiello
deve sì restare senza nome, ma può tuttavia restare sulla mano del poeta? No,
altro accade e ha dello sconcertante, ma sconcertante non è né il fatto che
manca il nome, né il fatto che il gioiello scompare con il mancare della
parola, è quindi la parola che trattiene il gioiello nel suo essere presente:
(cioè la parola trattiene se stessa) la parola, nient’altro che la parola lo
prende e lo porta a tale esser presente e in questo lo serba, la parola
presenta improvvisamente un altro più alto potere, non è più solo la presa
sulla realtà, come presenza già colta dall’immaginazione, quella presa che
consiste nel dare un nome, non è soltanto mezzo per rappresentare ciò che sta
dinnanzi, al contrario (qui veniamo alla questione) è la parola che conferisce
la presenza cioè l’Essere, nel quale qualcosa si manifesta come essente,
quest’altro potere della parola trae su di sé l’attenzione del poeta in modo
brusco e improvviso, al tempo stesso però la parola che ha quel potere manca,
perciò il gioiello dilegua, non per questo si dissolve nel nulla, resta un tesoro
che poi il poeta non potrà mai custodire nella sua terra, (che cosa si dilegua,
che cosa manca? Qui non siamo nella questione della “mancanza a essere”, siamo
al fatto che ciò che manca è quella parola che da fuori del linguaggio
finalmente dica che cos’è veramente la parola. Il nome che si dà alla parola è
un’altra parola, non è qualcosa che da fuori 15 dovrebbe garantire che
sia esattamente quella cosa. E qui insiste sul fatto che la parola fa sì che la
cosa sia, cosa tutt’altro che irrilevante) Il tesoro e la terra del poeta mai
giunge a possedere, è la parola per l’essenza del linguaggio, la potenza e la
vita della parola scorta d’improvviso (qual è la potenza della parola? il fatto
di fare essere le cose) il suo essere e operare vorrebbe pervenire alla parola,
alla sua propria parola ma la parola, per l’essenza della parola, non viene
concessa. La parola che dica che cosa veramente è, è questo che non viene
concesso, è questo che manca, in questo senso diceva. L’ultimo capitoletto “In
cammino verso il linguaggio” che poi dà il nome al testo. Ecco qui parla
dell’¡λήθεια: il testo di Aristotele evidenzia con un dire chiaro e sobrio
quella classica struttura in cui si cela l’essenza del linguaggio inteso come
parlare, le lettere indicano i suoni, i suoni indicano le affezioni dell’anima,
le affezioni indicano le cose che colpiscono l’anima, il “mostrare” “das
Zeigen” è quello che costituisce e regge l’intera impalcatura, in modo vario,
velando e disvelando, esso il mostrare, porta qualcosa ad apparire, fa che ciò
che appare sia avvertito e ciò che viene avvertito sia considerato (cioè
esista) quando riflettiamo sul linguaggio in quanto linguaggio già abbiamo
abbandonato il modo di procedere rimasto finora consueto nella riflessione sul
linguaggio. Non possiamo più andare alla ricerca di concetti generali come
“energia” “attività” “lavoro” “forza spirituale” “visione del mondo”,
espressione sotto i quali condurre il linguaggio come un caso particolare di
tale generalità. Anziché spiegare il linguaggio come questa o quest’altra cosa
fuggendone in tal modo lontano, il cammino verso il linguaggio vorrebbe fare
esperire il linguaggio come linguaggio, nell’essenza del linguaggio, il
linguaggio è sì compreso, ma afferrato per mezzo di altro da esso è il famoso
metalinguaggio (di cui diceva prima il metalinguaggio come metafisica) se
volgiamo invece l’attenzione unicamente al linguaggio come linguaggio, questo
pretende allora da noi che mettiamo finalmente in evidenza tutto quello che fa
parte del linguaggio in quanto linguaggio (è quello che ho cercato di fare in
questi anni intendendo che cosa fa funzionare il linguaggio) Nel parlare
rientrano i parlanti, ma il rapporto tra parlanti e parlare non è riducibile a
quello tra causa ed effetto (se no sarebbe come dire che qualcosa dà la parola,
mentre lui è stato preciso, “è la parola che dà”, ma cosa dà? Le cose,
l’Essere.) I parlanti trovano piuttosto nel parlare il loro essere presenti,
presenti a che? A ciò con cui parlano, presso cui dimorano in quanto realtà che
sempre già li riguarda, è quanto dire “gli altri, le cose, tutto ciò che fa che
queste siano cose, queste precise cose e quelli gli altri quei concreti altri”
(questo fa la parola, fa esistere tutte queste cose qui) A tutto questo ora in
un modo, ora in un altro già sempre è andato l’appello del parlare. // Ma come
sono pensati il parlare e il “parlato”, nel breve racconto che si è
precedentemente fatto del linguaggio? Essi si rivelano già come ciò per cui e
in cui qualcosa si fa parola, giunge a farsi evidente in quanto qualcosa è
detto. Dire e parlare non sono la stessa cosa, uno può parlare, parla senza
fine, e tutto quel parlare non dice nulla, un altro invece tace, non parla e
può col suo non parlare dire molto, ma che significa dire, “sagen” in tedesco?
Per esperire questo è necessario attenersi a ciò che la lingua tedesca già
costringe a pensare con la parola “sagen”. “Sagan” significa “mostrare” “far
che qualcosa appaia” “si veda” “si senta” // Ciò che fa essere il linguaggio
come linguaggio è il dire originario “die saghe” in quanto “mostrare” “die
Zeige”, il mostrare proprio di questo non si basa su un qualche segno ma tutti
i segni traggono origine da un mostrare nel cui ambito e per i cui fini
soltanto acquistano la possibilità di essere segni. (Ma non sta proprio in
questo mostrare, nel fatto che tutti i segni traggono origine da un mostrare
che si impianta la metafisica stessa, la sua stessa possibilità? Ma ne
riparleremo perché è una questione tutt’altro che semplice) // (siamo alla fine
volevo riprendere le tre domande che faceva prima, adesso possiamo rispondere a
ciò che si è domandato): Il dire originario è mostrare, in tutto ciò
(ricordate: il dire originario è mostrare. Questo è il dire originario per
Heidegger) in tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di
parola o parola, che ci si partecipa, che in quanto non detto è in attesa di
noi, non solo ma in quello stesso parlare, che noi veniamo mettendo in atto,
che è operante il mostrare sempre e comunque, in virtù di questo che ciò che è
presente appare, ciò che è assente dispare. Questo (è sempre il dire originario
il soggetto) dischiude ciò che è presente nel suo esser presente (che sembra
una ripetizione inutile “dischiude il suo essere presente nel suo
essere presente” ma il fatto che qualcosa sia presente per Heidegger non è
così automatico, occorre qualcosa che dischiuda, apra l’orizzonte entro il
quale qualche cosa può essere presente, non basta che sia presente perché che
sia presente da sé non significa niente se non c’è il linguaggio che fa essere
presente.) il dire originario domina compone in unità la libera distesa di
quella radura … da dove viene il mostrare? La domanda vuol sapere troppo e
troppo in fretta (non è che possiamo sapere tutto subito) gioverà accontentarsi
di osservare la natura e l’origine del moto presente nel mostrare, non è
necessaria qui una lunga ricerca è sufficiente l’intuizione repentina, non
obliabile e perciò sempre nuova, di ciò che, sì, è a noi familiare, ma che noi
tuttavia lungi dal riconoscere nel modo che ci conviene neppure cerchiamo di
conoscere, questa realtà sconosciuta e non di meno familiare da cui ogni
mostrare del dire originario trae il proprio moto, è per ogni essere presente
ed essere assente l’alba di quel mattino nel quale soltanto può trovare inizio
la vicenda del giorno e della notte. Alba che insieme l’ora prima e l’ora più
remota tale realtà appena ci è dato nominarla, essa è l’“ort” che non tollera
“Er-örterung”. Il tempo che non concede di essere raggiunto perché è luogo di
tutti i luoghi e di tutti gli spazi del gioco del tempo, noi la chiameremo con
una parola antica e diremo: ciò che muove nel mostrare del dire originario è lo
“Eignen”. Lo Eignen adduce ciò che è presente e assente in quello che gli è
proprio, cosicché emergendone la cosa presente e assente, si rivela nella sua
vera identità e resta se stessa. // Il linguaggio non si irrigidisce in se
stesso nel senso di un narcisismo di tutto dimentico tranne che di sé, come
sarebbe potuto apparire, (eventualmente) come dire originario il linguaggio è
il mostrare appropriante, che appunto prescinde da sé per dischiudere così per
mostrare la possibilità di rilevarsi nella figura che gli è propria, (cioè il
linguaggio consente alla cosa di mostrarsi e permette anche alla cosa di
mostrarsi per quello che è. Il linguaggio è questa possibilità delle cose di
essere quelle che sono. Ma non toglie alle cose il fatto che sono quelle che
sono.) Il linguaggio che parla dicendosi cura che il nostro parlare, ascoltare
il dire che non ha suono, corrisponda a quel che esso (linguaggio) viene
dicendo, in tal modo anche il silenzio che non di rado si pone a fondamento del
linguaggio, come sua scaturigine, è già un corrispondere (corrispondere alla
chiamata del dire, ovviamente, cioè del λόγος. La conclusione sarà a questo
punto la risposta a quelle tre domande.) Poiché noi uomini, per essere quelli
che siamo, restiamo immessi nel linguaggio, né mai possiamo uscirne e posarci a
un punto da cui ci sia dato circoscriverlo con lo sguardo, noi vediamo il
linguaggio sempre solo in quanto il linguaggio stesso già si è affissato su di
noi (appoggiato su di noi, fissato su di noi) ci ha appropriato a sé, il fatto
che del linguaggio ci è precluso il sapere, (perché per sapere sul linguaggio
bisognerebbe uscire dal linguaggio e tutte queste storie) il sapere inteso
secondo la concezione tradizionale fondata sull’idea che conoscere sia
rappresentare, non è certamente un difetto bensì il privilegio grazie al quale
siamo eletti e attratti in una sfera superiore, in quella in cui noi assunti a
portare a parole il linguaggio dimoriamo come immortali insomma siamo fortunati
ad essere parlanti. Allora le tre domande alle quali potete, a questo punto,
rispondere voi stessi: Che è la parola per avere tanto potere? È l’Essere è il
logos. Perché la parola ha tanto potere? Perché è ciò che in quanto Essere è
ciò che consente alle cose di apparire, ma che è la cosa per avere bisogno
della parola per essere? La parola ha bisogno della parola per essere la cosa,
e quindi è quella cosa che diventa cosa soltanto se la parola la fa essere
cosa. Terza domanda: che significa qui Essere dal momento che appare come un
dono conferito alla cosa dalla parola? che significa qui Essere? Λόγος,
nient’altro che λόγος e bell’è fatto. Ecco, io vi ho fatto considerare queste
cose perché non è tanto il fatto del contenuto delle affermazioni di Heidegger
quanto il modo in cui approccia la questione del linguaggio, in un modo che lui
direbbe “non presentativo” cioè non mostra, non dice che cos’è il linguaggio
come fa la linguistica, come fa la filosofia del linguaggio, come fa la
filosofia in generale approcciando il linguaggio come ente, perché sta qui la
differenza ontologica: ente/Essere. Il linguaggio è Essere non è ente. Sono
considerazioni interessanti che possono portare ad altre considerazioni,
possono aprire altre vie, per questo motivo vi ho letto alcune cose di questo
testo di Martin Heidegger. The uttered speech of private life is fluctuating
and variable. In every period it varies according to the age, class,
education, and habits of the speaker. His social experience, traditions
and general background, his ordinary tastes and pursuits, his
intellectual and moral cultivation are all reflected in each man’s
conversation. These factors determine and modify a man’s mode of speech
in innumerable ways. They may affect his pronunciation, the speed of his
utterance, his choice of vocabulary, the shade of meaning he attaches to
particular words, or turns of phrase, the character of such similes and
metaphors as occur in his speech, his word order and the structure of his
sentences. But the individual speaker is also affected by the
character of those to whom he speaks. He adjusts himself in a hundred subtle
ways to the age, status, and mental attitude of the company in which he
finds himself. His own state of mind, and the mode of its expression are
unconsciously modified by and attuned to the varying degree of intimacy,
agreement, and community of experience in which he may stand with his
companions of the moment. Thus an accomplished man of the
world, in reality, speaks not one but many slightly different idioms, and
passes easily and instinc- tively, often perhaps unknown to himself, from
one to another, according to the exigence of circumstances. The man who
does not possess, to some extent at least, this power of adjustment, is
of necessity a stranger in eveuy company but that of one particular type.
No man who is not a fool will consider it proper to address a bevy of
Bishops in precisely the same way as would be perfectly natural and
suitable among a party of fox-hunting country gentlemen. A
learned man, accustomed to choose his own topics of conversation and
dilate upon them at leisure in his College common room where he can count
upon the civil forbearance of other people like himself, would be thought
a tedious bore, and a dull one at that, if he carried his pompous
verbiage into the Officers’ Mess of a smart regiment. 'A meere scholler
is but a woefull creature says Sir Edmund Verney, in a letter in which he
discusses a proposal that his son should be sent to Leyden, and observes
concerning this— ‘ 'tis too private for a youth of his yeares that must
see company at convenient times, and studdy men as well as bookes, or
else his bearing may make him rather ridiculous then esteemed ^
There is naturally a large body of colloquial expression which is
common to all classes, scholars, sportsmen, officers, clerics, and the
rest, but each class and interest has its own special way of expressing
itself, which is more or less foreign to those outside it. The average
colloquial speech of any age is at best a compromise between a variety of
different jargons, each evolved in and current among the members of a
particular section of the community, and each, within certain social
limits, affects and is affected by the others. Most men belong by their
ciicumstanccs or inclinations to several speech-communities, and have
little difficulty in maintaining Ihhmsclvcs creditably in all of these.
The wider the social opportunities and experience of the individual, and
the keener his lin- guistic instinct, the more readily does he adapt
himself to the company in which he finds himself, and the more easily
docs he fall into line with its accepted traditions of speech and
bc aiing. But if so much variety in the details of colloquial
usage exists in a single age, with such well-marked differences between
the conventions of each, how much greater will be the gulf which
separates the types of familiar conversation in different ages. Do we
realize that if we could, by the workings of some Time Machine, be
suddenly transported back into the seventeenth century, most of us would
find it extremely difficult to carry on, even among the kind of people
most nearly corresponding with those with whom we are habitually
associated in our present age, the simplest kind of decent social
intercourse? Even if the pronunciation of the sixteenth century offered
no difficulty, almost every other element which goes to make up the
medium of communication with our fellows would do so. We
should not know how to greet or take leave of those we met, how to
express our thanks in an acceptable manner, how to ask a favour, pay a
compliment, or send a polite message to a gentleman's wife. We should be
at a loss how to begin and end the simplest note, whether to an intimate
friend, a near relative, or to a stranger. We could not scold a footman,
commend a child, express in appropriate terms admiration for a woman’s
beauty, or aversion to the opposite quality. We should hesitate every
moment how to address the person we were talking to, and should be
embarassed for the equivalent of such instinctive phrases as — look here,
old man ; my dear chap ; my dear Sir ; excuse me ; I beg your pardon
; I’m awfully sorry; Oh, not at all; that 's too bad ; that ’s most
amusing ; you see ; don't you know ; and a hundred other trivial and
meaningless expressions with which most men fill out their sentences. Our
innocent impulses of pleasure, approval, dislike, anger, disgust, and so
on, would be nipped in the bud for want of words to express them. How
should we say, on the spur of the moment — what a pretty girl 1 ; what an
amusing play I ; how clever and witty Mr. Jones is ! ; poor woman ;
that's a perfectly rotten book ; I hate the way she dresses ; look here,
Sir, you had better lake care what you say ; Oh, shut up ; I'm hanged if
I'll do that ; I’m very much obliged to you. I'm sure ? It is
very probable that we perfectly grasp the equivalents of all these and a
thousand others when we read them in the pages of Congreve and his
contemporaries, but it is equally certain that the right expressions
would not rise naturally to our lips as we required them, were we
suddenly called upon to speak with My Lady Froth, or Mr. Brisk. The
fact is that we should feel thoroughly at sea in such company, and should
soon discover that we had to learn a new language of polite society. In
illustrating the colloquial style of the fifteenth century we have to be
content, either with the account of conversations given in letters, or
with such other passages from letters of the period as appear to be
nearest to the speech of everyday life. The following
passages are from the Shillingford Letters, to which reference is
repeatedly made in this book (see p. 65, &c.}, and are extracted from
the accounts given by the stout and genial Mayor of Exeter, in letters to
his friends, of his conversations with the Chancellor during his visit to
London. Shillingford begins by referring to himself as ‘ the Mayer
but suddenly changes to the first person— in describing the actual
meeting, again returning for a moment to the impersonal phrase.
Jolm Shillingford* ‘The Saterdey next (28 Oct. 1447)
tberafter the mayer came to West- minster sone apon ix. atte belle, and
ther mette w* my lorde Chanceller atte brode dore a litell fro the steire
fote comyng fro the Sterrechamber, y yn the courte and by the dore
knellyng and salutyng hym yn the moste godely wyse that y cowde and
recommended yn to his gode and gracious lordship my feloship and all the
comminalte, his awne peeple and bedmen of the Cite of Exceter. He seyde
to the mayer ij tymes “ Well come ’’ and the tyme “Right well come
Mayer'’ and helde the Mayer a grete while faste by the honde, and so went
forth to his barge and w* hym grete presse, lordis and other, &c. and
yn especiall the tresorer of the kynges housholde, w* wham he was at
right grete pryvy communication. And therfor y, mayer, drowe me apart,
and mette w* hym at his goyng yn to his barge, and ther toke my leve of
hym, seyyng these wordis, “ My lord, y wolle awayte apon youre gode
lordship and youre better leyser at another tyme He seyde to me ayen,
“Mayer, y pray yow hertely that ye do so, and that ye speke w* the Chief
Justyse and what that ever he will y woll be all redy”. And thus
departed. A little later : — * Nerthelez y awayted my tyme and put
me yn presse and went right to my lorde Chaunccller and seide, “My lorde
y am come at your coinmaundc- ment, but y se youre grete bysynesse is
suchc that ye may not attencle ”, He seide “Noo, by his trauthe and that
y myght right well se”. Y scide “Yee, and that y was sory and hadde pyty
of his grete vexacion”. He seide “ Mayer, y moste to morun ride by tyme
to the Kyng, and come ayen this wyke : ye most awayte apon my comyng, and
then y wol speke the justise and attende for yow ” &c. — p. 7.
* He seyde “ Come the morun Monedey ” (the Chancellor was speaking
on Sunday) . . . “the love of God ” Y seyde the tyme was to shorte, and
prayed hym of Wendysdey ; y enfourmed hym (of t)he grete malice and venym
that they have spatte to me yn theire answeris as hit appercth yn a copy
that y sende to yow of. My lorde seide, “ Alagge alagge, why wolde they
do so ? y woll sey right sbarpely to ham therfor and y nogh
Margery Brews* The following brief extracts from the letters
of Margery Brews, the affianced wife of Jolm Fasten (junior) are like a
ray of sunlight in the dreary wilderness of business and litigation,
which are the chief subjects of correspondence between the Pa&tons.
Even this Iove*letter is not wholly free from the taint, but the girl's
gentle affection for her lover is the prevailing note* * Yf
that ye cowde be content with that good and my por persone I wold be the
meryest mayclen on grounde, and yf ye thynke not your selffe soe
satysfyed or that ye myght hafe much mor good, as I hafe ujtidyrstonde be
youe afor ; good trewe and iovyng volentyne, that ye take no such labur
iippon yowe, as to come more for that matter, but let it passe, and never
more to be spokyn of, as I may be your trewe lover and bedewoman during
my lyfe .’ — Pas ton Letters^ hi, A few years later Mrs. Fasten writes to her
'trewe and Iovyng volentyne ' : ' My mother in lawe thynketh longe
she here no word from you. She is in goode heaie, blissed be God, and al
yowr babees also. I marvel I here no word from you, weche greveth me ful
evele. I sent you a letter be Basiour sone of Norwiche, wher of I have no
word.’ To this the young wife adds the touching postscript : — ' Sir I
pray yow if ye tary longe at London that it wii plese to sende for me,
for I thynke longe sen I lay in your armes.’ — Paston Letie?-Sj iii, p.
293 (1482). Sir Thomas More. No figure in the eaily
part of Henry VIII’s reign is more distin- guished and at the same time
more engaging than that of Sir Thomas More* A few typical records of his
conversation, as preserved by his devoted biographer and son-in-law
Roper, are chosen to illustrate the English of this time. The context is
given so that the extracts may appear in Roper's own setting.
'Not long after this the Watter baylife of London (sonietyme his
servaunte) liereing, where he had beene at dinner, certayne Marchauntes^
liberally to rayle against his ould Master, waxed so discontented
therwith, that he hastily came to him, and tould him what he had hard:
"and were I Sir” (quoth he) " in such favour and authoritie
with my Prince as you are, such men surely should not be suffered so
villanously and falsly to misreport and slander me. Wherefore 1 would
wish you to call them before you, and to there shame, for there lewde malice
to punnish them.” Who smilinge upon him sayde, " Watter Baylie,
would you have me punnish them by whome 1 reccave more benefit! then by
you all that be my frendes ? Let them a Gods name speakc as lewdly as
they list of me, and shoote never soe many airowcs at me, so long as they
do not hitt me, what am I the worse? But if the should once hitt me, then
would it a little trouble me : howbeit, I trust, by Gods helpe, (here
shall none of them all be able to touch me. I have more cause, Water
Bayly (I assure thee) to pittie them, then to be angrie with them.” Such
frutfiill communication had he often tymes with his familiar frendes. Soe
on a tyme walking a long the Thames syde with me at Chelsey, in talkinge
of other thinges he sayd to me, " Now, would to God, Sonne Roger,
upon condition three things are well estab- lished in Christendome, I
were put in a sacke, and here presently cast into the Thames.” "
What great thinges be these, Sir ” quoth I, " that should move you
$0 to wish?” "Wouldest thou know, sonne Roper, what they be” quoth
he? “Yea marry, Sir, with a good will if it please you”, quoth I, “ I
faith, they be these Sonne ”, quoth he. The first is, that where as the
most part of Christian princes be at mortall warrs, they weare at
universal peace. The second, that wheare the Church of Christ is at this
present soare afflicted witli many heresies and errors, it were well
settled in an uniformity. The third, that where the Kinges matter of his
marriage is now come into question, it were to the glory of God and
quietnesse of all parties brought to a good conclusion : ’’ where by, as
I could gather, he judged, that otherwise it would be a disturbance to a
great part of Christ endome/ ‘ When Sir Thomas Moore had continued
a good while in the Tower, my Ladye his wife obtayned license to see him,
who at her first comminge like a simple woman, and somewhat worldlie too,
with this manner of salutations bluntly saluted him, ‘‘What the good
yeai'e, Moore” quoth shee, I marvell that you, that have beene
allwayes hitherimto taken for soe wise a man, will now soe playe the
foole to lye here in this close filthie prison, and be content to be
shutt upp amonge myse and rattes, when you might be abroad at your libertie,
and with the favour and good will both of the King and his Councell, if
you would but doe as all the Bushopps and best learned of this Realme
have done. And seeing you have at Chelsey a right fayre house, your
librarie, your books, your gallerie, your garden, your orchards, and all
other necessaries soe handsomely about you, where you might, in the
companie of me your wife, your children, and houshould be merrie, I muse
what a Gods name you meane here still thus fondlye to tarry.’' After he
had a while quietly hard her, “ I pray thee good Alice, tell me, tell me
one thinge.” “ What is that ? ” (quoth shee). “ Is not this house as
nighe heaven as myne owne?” To whome shee, after her accustomed fashion,
not likeinge such talke, answeared, “ Tilh valie, Tille valle ” “How say
you, Alice, is it not soe?” quoth he. Bone deus, bone Deusy man, will
this geare never be left?” quoth shee. “Well then Alice, if it be soe, it
is verie well. For I see noe great cause whie I should soe much joye of
my gaie house, or of any thinge belonginge thereunto, when, if I should
but seaven yeares lye buried under ground, and then arise, and come
thither againe, I should not fayle to finde some Iherin that would bidd
me gett out of the doores, and tell me that weare none of myne. What cause
have I then to like such an house as would soe soone forgett his master?”
Soe her perswasions moved him but a little.* The last days of this
good man on earth, and some of his sayings just before his death, are
told with great simplicity by Roper. We cannot forbear to quote the
affecting passage which tells of Sir Thomas More’s last parting from his
daughter, the writer’s wife. ‘When Sir Tho. Moore came from
Westminster to the Towreward againe, his daughter my wife, desireous to
see her father, whome shee thought shee should never see in this world
after, and alsoe to have his finall blessinge, gave attendaunce aboutes
the Towre wharfe, where shee knewe he should passe by, eVe he could enter
into the Towre. There tarriinge for his coininge home, as soone as shee
sawe him, after his blessinges on her knees reverentlie receaved, shoe
hastinge towards, without consideration and care of her selfe, pressinge
in amongest the midst of the thronge and the Companie of the Guard, that
with Hollbards and Billes weare round about him, hastily ranne to him,
and then openlye in the sight of all them embraced and tooke him about
the necke, and kissed him, whoe well likeing her most daughterlye love
and affection towards him, gave her his fatherlie blessinge, and manye
goodlie words of comfort besides, from whome after shee was departed,
shee not satisfied with the former sight of her deare father, havinge
respecte neither to her self, nor to the presse of the people and
multitude that were about him, suddenlye turned backe againe, and rann to
him as before, tqoke him about the necke, and divers tymes togeather most
lovinglay kissed him, and at last with a full heavie harte was fayne to
departe from him; the behouldinge whereof was to manye of them that
were present thereat soe lamentablcj that it made them for very
sorrow to mourne and weepe.’ In his last letter to his ' dearely
beloved daughter, written with a Cole Sir Thomas More refers to this
incident :' And I never liked your manners better, then when you kissed
me last. For* I like when daughterlie Love, and deare Charitie hath noe
leasure to looke to worldlie Curtesie Next morning ‘ Sir
Thomas even, and the Utas of St. Peeter in the yeare of our Lord God,
earlie in the morninge, came to him Sir Thomas Pope, his singular trend,
on messedge from the Kinge and his Councell, that hee should before nyne
of the clocke in the same morninge suffer death, and that therefore
fourthwith he should prepare himselfe thereto. Pope sayth he, for
your good tydinges I most hartily thankyou. I have beene allwayes^
bounden much to the Kinges Highnes for the benehtts and honors which he
hath still from tyme to tyme most bounti- fully heaped upon mee, and yete
more bounden I ame to his Grace for putting me into this place, where I
have had convenient tyme and space to have remembraunce of my end, and
soe helpe me God most of all Pope, am I bound to his Highnes, that it
pleased him so shortlie to ridd me of the miseries of this wretched
world. And therefore will I not fayle most earnestlye to praye for his
Grace both here, and alsoe in another world, .And I beseech you, good Pope, to
be a meane unto his Highnes, that my daughter Margarette may be present
at my buriall.’’ “ The King is well contented allreadie*' (quoth M^’
Pope) ‘‘that your Wife, Children and other frendes shall have free
libertie to be present thereat “O how much be- hoiilden” then said Sir
Thomas Moore “am I to his Grace, that unto my poore buriall vouchsafeth
to have so gratious Consideration.*’ Wherewithal! Pope takeinge his
leave of him could not refrayne from weepinge, which Sir Tho. Moore
perceavinge, comforted him in this wise, “ Quiete yourselfe good M^ Pope,
and be not discomforted. For I trust that we shall once in heaven see each
other full merily, where we shall bee sure to live and love togeather in
joyfull blisse eternally.Wolsey. The Ij/e of Wolsey, by George
Cavendish, a faithful and devoted servant of the Cardinal, who was with
him on his death-bed, gives a wonderfully interesting picture of this
remarkable man, in affluence and in adversity, and records a number of
conversations which have a convincing air of verisimilitude. The
following specimens are taken from the Kelmscott Press edition of 1893,
which follows the spelling of the author's MS. in the British
Museum. ‘ After ther departyng^ my lord came to the sayd howsse of
Eston to his lodgyng, where he had to supper with hyme dyvers of his
frends of the court. And syttyng at supper, in came to hyme Doctor
Stephyns, the secretary, late ambassitor unto Rome ; but to what entent
he came I know not ; howbeit my lord toke it that he came bothe to
dissembell a certeyn obedyence and love towards hyme, or ells to espie
hys behaviour, and to here his commynycacion at supper. Not withstandyng
my lord bade hyme well come, and commaundyd hyme to sytt down at the
table to supper; with whome my lord had thys commynycacion with hyme
under thys maner. Mayster Secretary, quod my lord, ye be-welcome home owt
of Rally; whan came ye frome Rome? Forsothe, quod he, I came home
allmost a monethe agoo ; and where quod my lord have you byn ever sence?
Forsothe, quod he, folowyng the court this progresse. Than have ye hunted
and had good game and pastyme. Forsothe, Syr, quod he, and so I have, I
thanke the kyngs Majestie, What good greyhounds have ye? quod my lord. I
have some syr quod he. And thus in huntyng, and in lyke disports, ,
passed they all ther commynycacion at supper. And after supper my lord
and he talked secretly together until it was mydnyght or they departed.’
Than all thyng beyng ordered as it is before reherced, my lord prepared
hyme to depart by water. ^ And before his departyng he com- maundyd Syr
William Gascoyne, his treasorer, to se these thyngs byfore remembred,
delyverd safely to the kyng at his repayer. That don, the seyd Syr
William seyd unto my lord. Syr I ame sorry for your grace, for I
understand ye shall goo strayt way to the tower. Ys this the good comfort
and councell, quod my lord, that ye can geve your mayster in adversitie?
Yt hathe byn allwayes your naturall inclynacion to be very light of
credytt, and mych more lighter in reporting of false newes, I wold ye
shold knowe, Syr William, and all other suche blasphemers, that it is nothyng
more false than that, for I never, thanks be to god, deserved by no wayes
to come there under any arrest, allthoughe it hathe pleased the kyng to
take my howse redy furnysshed for his pleasyr at this tyme. I wold all
the world knewe, and so I confesse to have no thyng, other riches,
honour, or dignyty, that hathe not growen of hyme and by hyme ; therefore
it is my verie dewtie to surrender the same to hyme agayn as his very
owen, with al my hart, or ells I ware and onkynd servaunt. Therefore goo
your wayes, and geve good attendaunce unto your charge, that no thyng be
embeselled.’ ‘And the next day we removed to Sheffeld Parke, where therle of
Shrews- bury lay within the loge, and all the way thetherward the people
cried and lamented, as they dyd in all places as we rode byfore. And whan
we came in to the parke of Sheffeld, nyghe to the logge, my lord of
Shrewesbury, with my lady his wyfe, a trayn of gentillwomen, and all my
lords gentilmen, and yomen, standyng without the gatts of the logge
to attend my lords commy ng, to receyve hyme with myche honor ; whome
therle embraced, sayeng these words. My lord quod he, your grace is most
hartely welcome unto me, and glade to se you in my poore loge ; the
whiche I have often desired ; and myche more gladder if you had come
after another sort. Ah, my gentill lord of Shrewesbury quod my lord, I
hartely thanke you ; and allthoughe I have no cause to rejoyce, yet as a
sorowe full hart may joye, I rejoyce my chaunce, which is so good to come
into the hands and custody of so noble a persone, whose approved honor
and wysdome hathe byn allwayes right well knowen to all nobell estats.
And Sir, howe soever my ongentill accusers hathe used ther accusations
agenst me, yet I assure you, and so byfore your lordshipe and all the
world do I protest, that my demeanor and procedyngs hathe byn just and
loyall towards my soverayn and liege lord ; of whose behaviour and doyngs
your lordshipe hathe had good experyence ; and evyn accordyng to my
trowthe and faythfulnes, so I bescche god helpe me in this my calamytie.
I dought nothyng of your Irouthe, quod therle, tlierfore my lorde I
beseche you be of good chere and feare not, for I have receyved letters
from the kyng of his owen hand in your favour and entertaynyng the whiche
you shall se. Sir, I ame nothyng sory but that I have not wherwith
worthely to receyve you, and to entertayn you accordyng to your honour
and my good wyll ; but suche as I have ye are most hartely welcome
therto, desiryng you to accept my good wyll accordyngly, for I wol not
receyve you as a prisoner, but as my good lord, and the kyngs trewe
faythfull subjecte ; and here is my wyfe come to salute you. Whome my
lord kyst barehedyd, and all hir gentilwomen ; and toke my lords
servaunts by the hands, as well gentilmen and yomen as other. Then these
two lords went arme in arme into the logge, conductyng my lord into a
fayer chamber at thend of a goodly gallery within a newe tower, and here
my lord was lodged.’ Here are some short portions of dialogue between Wolsey
and his friends, just before his death : * Uppon Monday in
the mornyng, as I stode by his bedds' side, abought viii of the clocke,
the wyndowes beyng cloose shett, havyng wake lights burnyng uppon the
cupbord, I behyld hyme, as me seemed, drawyng fast to his end. He
perceyved my shadowe uppon the wall by his bedds side, asked who was
there. Sir I ame here, quod I. Howe do you ? quod he to me. Very well
Sir, if I myght se your grace well. What is it of the clocke ? quod he to
me. Forsothe Sir, quod I, it is past viii. of the clocke in the mornyng.
Eight of the clocke, quod he, that cannot be, rehersing dyvers times
eight of the clocke, eight of the clocke. Nay, nay, quod he at the last,
it cannot be viii of the clocke, for by viii of the clocke ye shal loose
your mayster ; for my tyme drawyth nere that I must depart out of this
world.’‘ Mayster Kyngston farewell. I can no moore, but why she all thyngs
to have good successe. My tyme drawyth on fast. I may not tary with
you. And forget not I pray you, what I have seyd and charged you with all
: for whan I ame deade, ye shall peradventure remember my words myche
better. And even with these words he began to drawe his speche at lengthe
and his tong to fayle, his eyes beyng set in his hed, whos sight faylled
hyme ; than we began to put hyme in rembraunce of Christs passion, and
sent for the Abbott of the place to annele hyme ; who came with all spede
and mynestred unto hyme all the servyce to the same belongyng ; and
caused also the gard to stand by, bothe to here hyme talk byfore his
deathe, and also to here wytnes of the same ; and incontinent the clocke
strake viii, at whiche tyme he gave uppe the gost, and thus departed he
this present lyfe.’Latimer. The Sermons of Bp. Latimer present good
examples^ of colloquial oratory, and the style is but little removed from
the colloquial style of the period. The following are from the Sermon of
the Ploughers, preached. ' For they that be lordes vyll yll go to plough.
It is no mete office for them. It is not semyng for their state. Thus
came up lordyng loiterers. Thus crept in vnprechinge prelates, and so
haue they longe continued. ‘ For how many vnlearned prelates haue
we now at this day ? And no maruel. For if ye plough men yat now be, were
made lordes they woulde cleane gyue ouer ploughinge, they woulde leaue of
theyr labour and fall to lordyng outright, and let the plough stand. And
then bothe ploughes nor walkyng nothyng shoulde be in the common weale
but honger. For euer sence the Prelates were made Loordes and nobles, the
ploughe standeth, there is no worke done, the people starue.
‘ Thei hauke, thei hunt, thei card, they dyce, they pastyme m theyr
pre- lacies with galaunte gentlemen, with theyr daunsmge mmyons, and
with theyr freshe companions, so that ploughinge is set a syde. And by
tne lordinge and loytryng, preachynge and ploughinge is cleane gone .
. ^^‘But^iiowe for the defaulte of vnpreaching prelates me thinke I
coulde gesse what myghte be sayed for excusynge of them : They are so
troubeled wyth Lordelye lyuynge, they be so placed in palacies, couched m
courte^ ruffelynge in theyr rentes, daunceyng in theyr dominions,
burdened with ambassages, pamperynge of theyr paunches lyke a monke that
maketh his jubilie, moundiynge in their maungers, and moylynge in their
gaye manoures and mansions, and so troubeled wyth loy terynge in theyr
Lordeshyppes : that they canne not attende it. They are other wyse occupyed,
some in the kynges matters, some are ambassadoures, some of the pryuie
counsell, some to furnyslie the courte, some are Lordes of the
Parliamente, some are presidentes, and some comptroleres of myntes. Well,
well. Is thys theyr duetye? Is thys theyr offyee? Is thys theyr
callyng? Should we haue ministers of the church to be comptrollers of the
myntes ? Is thys a meete office for a prieste that hath cure of soules ?
Is this hys charge ? I woulde here aske one question : I would fayne
knowe who comp- trolleth the deuyll at home at his parishe, whyle he
comptrolleth the mynte ? If the Apostles mighte not ieaue the office of
preaching to be deacons, shall one Ieaue it for myntyng ? ’
Wilson’s Ar^e of Rhetorique (1560) has a section 'Of deliting the hearers,
and stirring them to laughter ’ in which are enumerated ' What are the
kindes of sporting, or mouing to laughter'. The subject is illustrated by
various ' pleasant ' stories, which if few of them would now make us
laugh, are at least couched in a very easy and colloquial style and
enlivened by scraps of actual conversation. The most amusing element in
the whole chapter is the attitude of the writer to the subject, and the
combination of seriousness and scurrility with which it is handled.
' The occasion of laughter’ says Wilson, 'and themeane that maketh us
mery ... is the fondnes, the filthines, the deformitie, and all such
euill be- hauiour as we see to be in other? ... Now when we would abashe
a man for some words that he hath spoken, and can take none aduauntage
of his person, or making of his bodie, we either doubt him at the first,
and make him beleeue that he is no wiser then a Goose : or els we confute
wholy his sayings with some pleasaunt iest, or els we extenuate and
diminish his doings by some pretie meanes, or els we cast the like in his
dish, and with some other devise, dash hym out of countenance : or last
of all, we laugh him to scorne out right, and sometimes speake almost
neuer a word, but only in continuaunce, shewe our selues pleasaunt’. — ^p.
136. ‘ A frend of mine, and a good fellowe, more honest then
wealthie, yea and more pleasant then thriftie, liauing need of a nagge
for his iourney that he had in hande, and being in the countrey, minded
to go to Parlnaie faire in Lincolnshire, not farre from the place where
he then laie, and meeting by the way one of his acquaintaunce, told him
his arrande, and asked him how horses went at the Faire. The other
aunswered merely and saidc, some trot sir, and some amble, as farre as I
can see. If their paces be altered, I praye you tell me at our next
meeting. And so rid away as fast as his horse could cary him, without
saying any word more, whereat he then being alone, fel a laughing hartely
to him self, and looked after a good while, vntil the other was out of
sight.’ — p. 140. 'A Gentleman hauing heard a Sermon at Panics, and
being come home, was asked what the preacher said. The Gentleman answered
he would first heare what his man could saie, who then waited vpon him,
with his hatte and cloake, and calling his man to him, sayd, nowe sir,
whate haue you brought from the Sermon. Forsothe good Maister, sayd the
seruaunt your cloake and your hatte- A honest true dealing seruaunt out
of doubt, piaine as a packsadclle, bauing a better soule to God, though
his witte was simple, then those haue, that vnder the colour of hearing,
giuc them selues to priuie picking, and so bring other mens purses home
in their bosomes, in the steade of other mens Sermons.’— pp. 14X-2.
These two stories are intended to illustrate the point that ' We
shall delite the hearers, when they looke for one ansvvere, and we make
them a cleane contrary, as though we would not seeme to vnderstand what
they would haue ^Churlish aunsweres like the hearers
sometimes very well. When the father was cast in judgement, the Sonne
seeing him weepe : why weepe you Father? (quoth he) To whom his Father
aunswered. ^What? Shall I sing I pray thee seeing by Lawe I am condemned
to "dye. Socrates likewise bieing^ mooued of his wife, because he
should dye an innocent and guiltlesse in the Law: Why for shame woman
(quoth he) wilt thou haue me to dye giltic and deseruing. When one had
falne into a ditch, an other pitying his fall, asked him and saied : Alas
how got you into that pit ? Why Gods mother, quoth the other, doest thou
aske me how I got in, nay tell me rather in the mischiefe, how I shall
get out.’ The nearest approach to the colloquial style in Bacon is
to be found in the Apophthegms, in which are scraps of conversation. A
few may be quoted, if only on account of the author. ‘ Master
Mason of Trinity College, sent his pupil to an other of the fellows, to
borrow a book of him, who told him, I am loth to lend my books out of my
chamber, but if it please thy tutor to come and read upon it in my
chamber, he shall as long as he will.” It was winter, and some days after
the same fellow sent to M^‘ Mason to borrow his bellows ; but M^’ Mason
said to his pupil, ‘‘ I am loth to lend my bellows out of my chamber, but
if thy tutor would come and blow the fire in my chamber, he shall as long
as he will.” —ApophtJi. There were fishermen drawing the river at
Chelsea: M^* Bacon came thither by chance in the afternoon, and offered
to buy their draught : they were willing. He askcvl them what they would
take ? They asked thirty shillings. M^ Bacon offered them ten. They
refused it. Why then said M^* Bacon, I will be only a looker on. They
drew and catched nothing. Saith M^ Bacon, Are not you mad fellows now,
that might have had an angel in your purse, to have made merry withal,
and to have warmed you thoroughly, and now you must go home with nothing.
Ay but, saith the fishermen, we had hope then to make a better gain of
it. Saith M^’ Bacon, ‘‘ Well my master, then I will tell you, hope is a
good breakfast, but it is a bad supper.” — p, 136. Otway^s
Comedies have all the coarseness and raciness of dialogue of the latter
half of the seventeenth century, and a pretty vein of genuine comicality.
They are packed with the familiar slang and colloquialisms of the period.
A few passages from Friendship in Fashion illustrate at once the speech
and the manners of the day. Enter Lady SQUEAMISH at the
Door, Sir Noble Clmnsey, Hah, my Lady Cousin ! —Faith Madam you see
I am at it. Malagene, The Devil’s wit, I think ; we could no
sooner talk of wh — but she must come in, with a pox to her. Madam, your
Ladyship’s most humble Servant. Ldy Squ. Oh, odious !
insufferable ! who would have thought Cousin, you would have serv’d me
so— fough, how he stinks of wine, I can smell him hither. — How have you
the Patience to hear the Noise of Fiddles, and spend your time in nasty
drinking ? Sir Noble, Hum ! ’tis a good Creature : Lovely Lady,
thou shalt take thy Glass. Ldy Sgu, Uh gud ; murder 1 I had
rather you had offered me a toad. B b Sir N, Then
Malagene, here’s a Health to my Lady Cousin’s Pelion upon Ossa. [Drinks
and breaks the Ldy Squ, Lord, dear Malagene what ’s that ?
MaL A certain Place Madam, in Greece, much talk’t of by the Ancients
; the noble Gentleman is well read. Ldy Squ. 'Nay he’s an
ingenious Person I’ll assure you. Sir N. Now Lady bright, I am
wholly thy Slave: Give me thy Hand, I’ll go straight and begin my
Grandmother’s Kissing Dance ; but first deign me the private Honour of
thy Lip. Ldy Squ. Nay, fie Sir Noble 1 how I hate you now ! for
shame be not so rude : I swear you are quite spoiled. Get you gone you
good-natur’d Toad you. [Exetmti\ Malagene, . . . I’m a very
good Mimick ; I can act Punchinello, Scara- mouchir, Harlequin, Prince
Prettyman or anything. 1 can act the rumbling of a Wheel -barrow.
Valentine, The rumbling of a Wheel-barrow ! MaL Ay, the
rumbling of a Wheel-barrow, so I say — Nay more than that, I can act a
Sow and Pigs, Saussages a broiling, a Shoulder of Mutton a roasting : I
can act a fly in a Honey-pot, Truman, That indeed must be the
Effect of very curious Observation. MaL No, hang it, I never make
it my business to observe anything, that is Mechanicke. But all this I
do, you shall see me if you will : But here comes her Ladyship and Sir
Noble. Ldy Squ, Oh, dear M^ Truman, rescue me. Nay Sir Noble for
Heav’n’s sake. Sir N, I tell thee Lady, I must embrace thee :
Sir, do you know me ! I am Sir Noble Clumsey : I am a Rogue of an Estate,
and I live— Do you want any money ? I have fifty pounds. VaL
Nay good Sir Noble, none of your Generosity we beseech you. The Lady, the
Lady, Sir Noble. Sir N. Nay, ’tis all one to me if you won’t take
ft, there it is. — Hang Money, my Father was an Alderman. MaL
’Tis pity good Guineas should be spoil’d, Sir Noble, by your leave.
[Picks up the Guineasl\ Sir N. But, Sir, you will not keep my
Money ? MaL Oh, hang Money, Sir, your Father was an Alderman.
Sir N, Well, get thee gone for an Arch-Wag — I do but sham all this
while i — ^but by Dad he ’s pure Company. Lady, once more I say be civil, and
come kiss me. VaL Well done Sir Noble, to her, never spare.
Ldy Squ, I may be even with you tho for all this, Valentine : Nay
dear Sir Noble : M^ Truman, I’ll swear he’ll put me into Fits. Sir
N, No, but let me salute the Hem of thy Garment, Wilt thou marry me?
[LTneels.] MaL Faith Madam do, let me make the Match.
Ldy Squ, Let me die Malagene, you are a strange Man, and Fll swear
have a great deal of Wit. Lord, why don’t you write ? MaL Write? I
thank your Ladyship for that with all my Heart. No I have a Finger in a
Lampoon or so sometimes, that ’s all. Truman, But he can act.
Ldy Squ, I’ll swear, and so he does better than any one upon our
Theatres; I have seen him. Oh the English Comedians are nothing, not
comparable to the French or Italian: Besides we want Poets. SirN,
Poets! Why I am a Poet; I have written three Acts of a Play, and have
nam’d it already. ’Tis to be a Tragedy. Ldy Squ. Oh Cousin, if you
undertake to write a Tragedy, take my Counsel : Be sure to say soft
melting tender things in it that may be moving, and make your Lady’s
Characters virtuous whatever you do. Sir N. Moving I Why, I can
never read it myself but it makes me laugh : well, ’tis the pretty’st
Plot, and so full of Waggery. Ldy Sgti, Oh ridiculous I
Mai But Knight, the Title ; Knight, the Title. Sir N, Why let
me see ; ’tis to be called The Merry Conceits of Love ; or the Life and
Death of the Emperor Charles the Fifth, with the Humours of his Dog
Boabdillo. Mai PI a, ha, ha. . Ldy Squ, But dear Malagene, won’t
you let us see you act a little something of Harlequin? I’ll swear you do
it so naturally, it makes me think Fm at the Louvre or Whitehall all the
time. [Mai acis.] O Lord, don’t, don’t neither ; I’ll swear you’ll make
me burst. Was there ever any- thing so pleasant ? Trwn, Was
ever anything so affected and ridiculous ? Her whole Life sure is a
continued Scene of Impertinence. What a damn’d Creature is a decay’d
Woman, with all the exquisite Silliness and Vanity of her Sex, yet none
of the Charms ! [Mai s^peaks in PunchinelMs voicei\ Ldy Squ, O
Lord, that, that ; that is a Pleasure intolerable. Well, let me die if I
can hold out any longer. A Comparison between the Stages, wiih an
Examen of the Generous Conqueror^ printed in 1702, is a dialogue between
^ Two Gentlemen’, Sullen and Ramble (see below), and ^a Critick’,upon the
plays of the day and others of an earlier date. The style is that of easy
and natural familiar con- versation, with little or no artificiality, and
incidentally, the tract throws light upon contemporary manners and social
habits. The following examples are designed to illustrate the colloquial
handling of indifferent topics, and the small-talk of the early
eighteenth century, as well as the treatment of the immediate subject of
the essay. Sullen. They may talk of the Country and what they will,
but the Park for my money. Ramble. In its proper Season I
grant you, when the Mall is pav’d with lac’d shoes ; when the Air is
perfum’d with the rosie Breath of so many fine Ladies ; when from one end
to the other the Sight is entertain’d with nothing but Beauty, and the
whole Prospect looks like an Opera. Sull And when is it out of
Season Ramble ? Ram. When the Beauties desert it ; when the absence
of this charming Company makes it a Solitude : Then Sullen, the Park is to
me no more than a Wilderness, a very Common ; and a Grove in a country
Garden with a pretty Lady is by much the pleasanter Landscape.
Sull To a Man of your Quicksilver Constitution it may be so, and
the Cuckoo in May may be Music t’ee a hundred Miles off, when all the
Masters in Town can’t divert you. Ram. I love everything as
Nature and the Nature of Pleasure has con- triv’d it ; I love the
Town in Winter, because then the Country looks aged and deform’d ;
and I hate the Town in Summer, because then the Country is in its Glory,
and looks like a Mistress just drest out for enjoyment. Sull Very
well distinguish’d : Not like a Bride, but like a Mistress. Ram. I
distinguish ’em by that comparison because I love nothing well enough to
be wedded to ’t : I’m a Proteus in my Appetite, and love to change my
Abode with my Inclination, Sull I differ from you for the very
Reason you give for your change ; the Town is evermore the same to me ;
and tho* the Season makes it look after another manner, yet still it has
a Face to please me one way or other, and both Winter and Summer make it
agreeable, —pp. 1-3* B b 2 Here is a conversation
during dinner at the ' Blew Posts \ Critik, What have you order’d ?
Ramh. A Brace of Carp stew’d, a piece of Lamb, and a Sallet ; d’ee
like it ? Crit, I like, anything in the World that will indure
Cutting : Prithee Cook make haste or expect I shall Storm thy
Kitchin. SulL Why thou’rt as hungry as if thou hadst been keeping
Garrison in Mantua : I don’t know whether Flesh and Blood is safe in thy
Company. CriL I wish with all my Heart thou wert there, that thou
mightst under- stand what it is to fast as 1 have done : Come, to our
Places • . . the blessed hour is come. . . . Sit, sit . . . fall to,
Graces are out of Fashion. Ramb. I wish the Charming Madam Subligny
were here. CriL Gad so don’t 1 : I had rather her P'eet were pegg’d
down to the Stage; at present my Appetite stands another way : Waiter,
some Wine . , . or I shall choak. . Suit, This Fellow eats like an
Ostrich, the Bones of these great Fish are no more to him than the Bones
of an Anchovy ; they melt upon his Tongue like marrow Puddings.
Crit Ay, you may talk, but I’m sure I find ’em not so gentle ; here
’s one yet in my Throat will be my death ; the Flask . . . the Flask . .
. , Ramb. But Critick, how did you like the Play last Night ?
Crit. I’ll tell you by and by, Lord Sir, you won’t give a Man time to
break his Fast: This Fish is such washy Meat ... a Man can’t fix his knife
in ’t, it runs away from him as if it were still alive, and was afraid of
the Hook : Put the Lamb this way. SulL The Rogue quarrels
with the Fish, and yet you cou’d eat up the whole Pond ; the late Whale
at Cuckold’s point, with all its oderiferous Gar- badge, wou’d ha’ been
but a Meal to him : Well, how do you like the Lamb ? does that feel your
knife? Crit. A little more substantial, and not much : Well, I
shou’d certainly be starv’d if I were to feed with the French, I hate
their thin slops, their Pot- tages, Frigaces, and Ragous, where a Man may
bury his Hand in the Sauce, and dine upon Steam : No, no, commend me to
King Jemmy’s English Surloin, in whose gentle Flesh a Man may plunge a
Case-knife to the tip of the Handle, and then draw out a Slice that will
surfeit half a Score Yeoman of the Guard. Some Wine ye Dog . . . there .
, . now I have slain the Giant ; and now to your Question . . . what was
it you askt me ? Ramb. Won’t you stay the Desert ? Some Tarts and
Cheese ? Crit I abominate Tarts and Cheese, they’re like a faint
After-kiss, when a Man is sated with better Sport ; there ’s no more
Nourishment in ’em, than in the paring of an Apple. Here Waiter take
away. . . . Ramb. Then remove every Thing but the Table-cloth.’ ,
. Ramb. Here Waiter — send to the Booksellers in Pell mell for the
Generous Conqueror and make haste . . , you say you know the Author
Critick. Crit. By sight I do, but no further ; he ’s a Gentleman of
good Extraction, and for ought I know, of good Sense. Ramb.
Surely that’s not to be questioned; I take it for granted that a Man that
can write a Play, must be a Man of good Sense. Crit That is not
always a consequence, I have known many a singing Master have a worse voice
than a Parish Clerk, and I know two dancing Masters at this time, that
are directly Cripples : . . . A Ship-builder may fit up a Man of War for
the West Indies, and perhaps not know his Compas : Or a great Trpelier,
with Heylin, that writ the Geography of the whole World, may, like him,
not know the way from the next Village to his own House.
Ramb. Your Comparisons are remote M*^ Critick. Cfit. Not so
remote as some successful Authors are from good sense ; Wit and Sense are
no more the same than Wit and Humour; nay there is even in Wit an uncertain
Mode, a variable Fashion, that is as unstable as the Fashion of our
Cloaths : This may be proved by their Works who writ a hundred Years ago,
compar’d with some of the modern ; Sir Philip Sidney, Don, Overbury, nay
Ben himself took singular delight in playing with their Words : Sir
Philip is everywhere in his Arcadia jugling, which certainly by the
example of so great a Man, proves that sort of Wit then in Fashion ; now
that kind of Wit is call’d Punning and Quibbling, and is become too low
for the Stage, nay even for ordinary Converse ; so that when we find a
Man who still loves that old fashion’d Custom, we make him remarkable, as
who is more remarkable than Capt. Swan. Ramb. Nay, your
Quibble does well now a Days, your best Comedies tast of ’em ; the Old
Batchelor is rank. Crit. But ’tis every Day decreasing, and Queen
Betty’s Ruff and Fardin- gale are not more exploded ; But Sense
Gentlemen, is and will be the same to the World’s end. SulL
And Nonsense is infinite, for England never had such a Stock and such
Variety. Ramb. Yet I have heard the Poets that flourish’d in the
last Reign but two, complain of the same Calamity, and before that Reign
the thing was the same : All Ages have produced Murmurers ; and in the
best of times you shall hear the Trades-man cry — Alas Neighbour ! sad
Times, very hard Times .. , not a Penny of Money stirring . . . Trade is
quite dead, and nothing but War . . . War and Taxes . . . when to my
knowledge the gluttonous Rogue shall drink his two Bottles at Dinner, and
his Wife have half a Score of rich Suits, a purse of Gold for the
Gallant, and fifty Pounds worth of Gold and Silver Lace on her under
Petticoats. Sail, Nay certainly, this that Ramble now speaks of is
a great Truth; those hypocritical Rogues are always grumbling; and tho’
our Nation never had such a Trade, or so much Money, yet ’tis all too
little for their voracious Appetites : As I live — says he, I can’t
afford this Silk one Penny cheaper — d’ee mind the Rogues Equivocation ?
as I live — ^that is, he lives like a Gen- tleman — but let him live like
a Tradesman and be hang’d ; let him wear a Frock, and his Wife a blew
Apron. Ramb, See, the Book ’s here : go Waiter and shut the Door. —
pp. 76-9. The dialogue of Hichardson, ' sounynge in moral vertu ^
devoid of all the lighter touches, is typical of the age that was
beginning, the age of reaction against the levities and negligences in
speech and conduct of the seventeenth and early eighteenth
centuries. The following conversation of rather an agitated
character, between a mother and daughter, is from Letter XVI, in Clarissa
Ifarlozue{i*j4S): * • * • My mother came up to me. I love, she was
pleased to say, to come into this appartment.— No emotions child I No
flutters ! — Am I not your mother F—Am I not your fond, your indulgent
mother P-— Do not discompose me by discomposixig Do not occasion me
uneasiness, when I would glveyau nothing but pleasure. Come my
dear, we will go into your closet. . . . PI ear me out and then speak ;
for I was going to expostulate. You are no stranger to the end of M^
Solmes’s visits — O Madam! — Hear me out; and then speak. — He is not
indeed everything I wish him to be : but he is a man of probity and has
no vices — No vices Madam ! — Hear me out child. — You have not behaved
much amiss to him : we have seen with pleasur *. that you have not — O
Madam, must I not now speak ! I shall have done pre.‘ fently, —A young
creature of your virtuous and pious turn, she was pleased ! say, cannot
surely love a predicate ; you love your brother too well, to wish p see
any one who had like to have killed him, and who threatened youri incles
and defies us all You have had your own way six or seven times : v|? |
w^nt to secure you against a man so vile. Tell me (I have a right to
know) whether you prefer this man to all others ? — Yet God forbid that I
should know you do ; for such a declaration would make us all miserable.
Yet tell me, a.re your affections engaged to this man ? I
know what the inference would be if I had said they were not You hesitate
— You answer me not — You cannot answer me — Rising — Nevermore will I
look upon you with an eye of favour — O Madam, Madam ! Kill me not with
your displeasure — I would not, I need not, hesitate one moment, did I
not dread the inference, if I answer you as you wish. — Yet be that
inference what it will, your threatened displeasure will make me speak.
And I declare to you, that I know not my own heart if it be not
absolutely free. And pray, let me ask my dearest Mamma, in what has my
conduct been faulty, that like a giddy creature, I must be forced to
marr^r, to save me from— from what ? Let me beseech you Madam to be the
Guardian of my reputation \ Let not your Clarissa be precipitated into a
stale she wishes not to enter into with any man ! And this upon a
supposition that otherwise she shall marry herself, and disgrace her
whole family. When then, Clary [passing over the force of my plea]
if your heart be free — O my beloved Mamma, let the usual generosity of
your dear heart operate in my favour.^ Urge not upon me the inference
that made me hesitate. I won’t be interrupted, Clary — You have
seen in my behaviour to you, on this occasion, a truly maternal
tenderness ; you have observed that I have undertaken the task with some
reluctance, because the man is not everything ; and because I know you
carry your notions of perfection in a man too high. — Dearest Madam, this
one time excuse me ! Is there then any danger that I should be guilty of
an imprudent thing for the man’s sake you hint at ? Again interrupted! Am
I to be questioned, and argued with? You know this won’t do somewhere
else. You know it won’t. What reason then, ungenerous girl, can you have
for arguing with me thus, but because you think from my indulgence to you
you may ? What can I say ? What can I do ? What must that cause be
that will not bear being argued upon ? Again ! Clary Harlowe
— Dearest Madam forgive me : it was always my pride and my pleasure
to obey you. But look upon that man — see but the disagreeableness of
his person — Now, Clary, do I see whose pei'son you have in your eye ! —
Now is M^’ Solmes, I see, but coinparatively disagreeable ; disagreeable
only as an« other man has a much more specious person. But,
Madam, are not his manners equally so 1 — Is not his person the true
representation of his mind ? — That other man is not, shall not be,
anything to me, release me from this one man, whom my heart, unbidden,
resists. Condition thus with your father. Will he bear, do you
think, to be thus dialogued with? Have I not conjured you, as you value
my peace — What is it that / do not give up ?*~-This very task, because I
apprehended you would not be easily persuaded, is a task indeed upon me.
And will you give up nothing ? Have you not refused as many as have been
offered to you ? If you would not have us guess for whom, comply ; for
comply you must, or be looked upon as in a state of defiance with your
whole family. And saying thus she arose, and went from me.’
Miss AusteiL. The following examples of Miss Austen’s
dialogue are not selected because they are the most sparkling
conversations in her works, but rather because they appear to be typical
of the way of speech of the period, and further they illustrate Miss
Austeff s incomparable art. The first passage is ixomEmma^ which was
written between i8ii and 3^5 i8i6. Mr. Woodhouse and his
daughter have just received an invitation to dine with the Coles,
enriched tradespeople who had settled in the neighbourhood. Emma's view
of them was that they were ' very respect- able in their way, but they
ought to be taught that it was not for them to arrange the times on which
the superior families would visit them On the present occasion, however,
‘ she was not absolutely w^ithout inclina- tion for the party. The Coles
expressed themselves so properly — there was so much real attention in
the manner of it — so much consideration for her father/ Emma having
decided in her own mind to accept the invitation — some of her intimate
friends were going — it remained to explain to her father, the ailing and
fussy Mr. Woodhouse, that he would be left alone without his daughter s
company for the evening, as it was out of the question that he should
accompany her. ‘ He was soon pretty well resigned.’ ‘ I am
not fond of dinner-visiting ” said he ; “I never was. No more is Emma.
Late hours do not agree with us. I am sorry and Cole should have done it.
I think it would be much better if they would come in one afternoon next
summer and take their tea with us ; take us in their afternoon walk,
which they might do, as our hours are so reasonable, and yet get home
without being out in the damp of the evening. The dews of a summer
evening are what I would not expose anybody to. However as they are so
very desirous to have dear Emma dine with them, and as you will both be
there [this refers to his friend Weston and his wife], and Knightley too,
to take care of her I cannot wish to prevent it, provided the weather be
what it ought, neither damp, nor cold, nor windy.” Then turning to Weston
with a look of gentle reproach — “Ah, Miss Taylor, if you had not
married, you would have staled at home with me.” “ Well, Sir ”,
cried Weston, as I took Miss Taylor away, it is incumbent upon me to
supply her place, if I can ; and I will step to M^’® Goddard in a moment
if you wish it.” . . . With this treatment M^ Woodhouse was soon composed
enough for talking as usual. “ He should be happy to see M^*® Goddard. He
had a great regard for Goddard; and Emma should write a line and invite
her. James could take the note. But first there must be an answer written
to M’^® Cole.” “ You will make my excuses, my dear, as civilly as
possible. You will say that I am quite an invalid, and go nowhere, and
therefore must decline their obliging invitation ; beginning with my
comj^limentsy of course. But you will do everything right. I need not
tell you what is to be done. We must remember to let James know that the
carriage will be wanted on Tuesday. I shall have no fears for you with
him. We have never been there above once since the new approach was made
; but still I have no doubt that James will take you very safely ; and
when you gel there you must tell him at what time you would have him come
for you again ; and you had better name an early hour. You will not like
staying late. You will get tired when tea is over.” “ But you would
not wish me to come away before I am tired, papa ? ” Oh no my love
; but you will soon be tired. There will be a great many people talking
at once. You will not like the noise.” “But my dear Sir,” cried M^’
Weston, “if Emma comes away early, it will be breaking up the party.”
“ And no great harm if it does ” said Woodhouse. “ The sooner every
party breaks up the better.” “ But you do not consider how it may
appear to the Coles. Emma’s going away directly after tea might be giving
offense. They are good-natured people, and think little of their own
claims ; but still they must feel that anybody’s hurrying away is no
great compliment ; and Miss Woodhouse’s doing it would be more thought of than
any other personas in the room. You would not wish to disappoint and
mortify the Coles, I am sure, sir; friendly, good sort of people as ever
lived, and who have been your neighbours these /en years.”
‘^No, upon no account in the world, Weston, I am much obliged to
you for reminding me. I should be extremely sorry to be giving them any
pain. I know what worthy people they are. Peny tells me that Cole never
touches malt liquor. You would not think it to look at him, but he is
bilious — M^' Cole is very bilious. No, I would not be the means of
giving them any pain. My dear Emma we must consider this. I am sure
rather than run any risk of hurting and Cole you would stay a little
longer than you might wish. You will not regard being tired. You will be
perfectly safe, you know, among your friends.” Oh 5^es, papa.
I have no fears at all for myself ; and I should have no scruples of
staying as late as Weston, but on your account. I am only afraid of your
silting up for me. I am not afraid of your not being ex- ceedingly
comfortable with Goddard. ^ She loves piquet, you know ; but when she is
gone home I am afraid you will be sitting up by youiself, instead of
going to bed at your usual time ; and the idea of that would entirely
destroy my comfort. You must promise me not to sit up.” * The next
example is in a very different vein. It is from Sense and Sensibility
(chap, xxi) and records the mode of conversation of the Miss Steeles.
These two ladies are among Miss Austen's vulgar characters, and their
speech lacks the restraint and decorum which her better-bred personages invariably
exhibit. While the Miss Steeles’ con- versation is in sharp contrast with
that of the Miss Dashwoods, with whom they are here engaged, both in
substance and manner, it evidently passed muster among many of the
associates of the latter, especially with their cousin Sir John
Middleton, in whose house, as relations of his wife's, the Miss Steeles
are staying. Apart from the vulgarity of thought, the diction appears low
when compared with that of most of Miss Austen's characters. As a matter
of fact it is largely the way of speech of the better society of an
earlier age, which has come down in the world, and survives among a
pretentious provincial bourgeoisie. ‘ ‘^What a sweet woman Lady
Middleton is” said Lucy Steele . . . '‘And Sir John too ” cried the elder
sistei', “ what a charming man he is ! ” . . . And what a charming
little family they have ! I never saw such fine children in my life. I
declare I quite doat upon them already, and indeed I am always
destractedly fond of children.” "I should guess so” said Elinor with
a smile “from what I witnessed this morning.” “I have a notion”
said Lucy, “you think the little Middletons rather too much indulged ;
perhaps they may be the outside of enough ; but it is natural in Lady
Middleton; and for my part I love to see children full of life and
spirits ; I cannot bear them if they are tame and quiet” “I confess
” replied Elinor, “that while I am at Barton Park, I never think of tame
and quiet children with any abhorrence.” * “ And how do you like
Devonshire, Miss Dashwood ? (said Miss Steele) I suppose you were very
sorry to leave Sussex.” In some suiyrise at the familiarity of this
question, or at least in the manner in which it was spoken, Elinor
replied that she was. “Norland is a prodigious beautiful place, is
not it?” added Miss Steele, “We have heard Sir John admire it
excessively,” said Lucy, who seemed to think some apology necessary for
the freedom of her sister. “ I think MISS LUCY STEELE
B11 every one admire it ’'replied Elinor, “who ever saw the
place; though it is not to be supposed that any one can estimate its
beauties as we do." “ And had you many smart beaux there ? I
suppose you have not so many in this part of the world ; for my part I
think they are a vast addition always." “ But why should
you think " said Lucy, looking ashamec^ of her sister, “that there
are not as many genteel young men in Devonshire as Sussex." “
Nay, my dear, Fm sure I don’t pretend to say that there an’t. Fm sure
there ’s a vast many smart beaux in Exeter ; but you know, how could I
tell what smart beaux there might be about Norland? and I was only afraid
the Miss Dashwoods might find it dull at Barton ; if they had not so many
as they used to have. But perhaps you young ladies may not care about
beaux, and had as lief be without them as with them. For my part, I think
they are vastly agreeable, provided they dress smart and behave civil.
But I can’t bear to see them dirty and nasty. Now, there’s Rose at
Exeter, a pro- digious smart young man, quite a beau, clerk to Simpson,
you know, and yet if you do but meet him of a morning, he is not fit to
be seen. I sup- pose your brother was quite a beau, Miss Dashwood, before
he married, as he was so rich ? " “ Upon my word,"
replied Elinor, “I cannot tell you, for I do not per- fectly comprehend
the meaning of the word. But this I can say, that if he ever was a beau
before he married, he is one still, for there is not the smallest
alteration in him." “ Oh ! dear 1 one never thinks of married
men’s being beaux — they have something else to do."
“Lord! Anne", cried her sister, “you can talk of nothing but beaux;
— you will make Miss Dashwood believe you think of nothing
else."’ It is not surprising that ‘ “ this specimen of the
Miss Steeles’" was enough. The vulgar freedom and folly of the
eldest left her no recommendation and as Elinor was not blinded by the
beauty, or the shrewd look of the youngest, to her want of real elegance
and artlessness, she left the house without any wish of knowing them
better Greetings and Farewells. Only the slightest
indication can be given of the various modes of greet- ing and bidding
farewell These seem to have been very numerous, and less stereotyped in
the fifteenth and sixteenth centuries than at present. It is not easy to
be sure how soon the formulas which we now employ, or their ancestral
forms, came into current use. The same form often serves both at meeting
and parting. In 1451, Agnes Paston records, in a letter, that
"after evynsonge, Angnes Ball com to me to my closett and dad me
good evyn \ In the account, quoted above, p. 362, given by Shillingford
of his meetings with the Chancellor, about 1447, he speaks of "saluting
hym yn the moste godely wyse that y coude ' but does not tell us the form
he used. The Chancellor, however, replies " Welcome^ ij times, and
the tyme Right met come Mayer'% and helde the Mayer a grete while
faste by the honde I In the sixteenth century a great deal of
ceremonial embracing and kissing was in vogue. Wolsey and the King of
France, according to Cavendish, rode forward to meet each other, and they
embraced each other on horseback. Cavendish himself when he visits the
castle of the Lord of Cr^pin, a great nobleman, in order to prepare a
lodging for the Cardinal, is met by this great personage, who ^ at his
first coming embraced me, saying I was right heartily welcome'. Henry
VIII was wont to walk with Sir Thomas More, ' with his arm about his neck
\ The actual formula used in greeting and leave-taking is too often
un- recorded. When the French Embassy departs from England, whom
Wolsey has sb splendidly entertained, Cavendish says — ' My lord, after
humble commendations had to the French King bade them adieu'. The Earl of
Shrewsbury greets the Cardinal thus — ‘ My Lord, your Grace is most
heartily welcome unto me', and Wolsey replies ‘Ah my gentle Lord of
Shrewsbury, I heartily thank you '. It is not until the appearance
of plays that we find the actual forms of greeting recorded with
frequency. In Roister Doister, there are a fair number: — God heepe thee
worshipful Master Roister Doister; Welcome my good wenche ; God you saue
and see Nourse ; and the reply to this — Welcome friend Merrygreeke; Good
flight Roger old farewell Roger old knaue ; well mef^ I bid you
right welcome, A very favourite greeting is God he with you,
God continue your Lordship is a form of farewell in Chapman's
Monsieur D'Olive, and God-den ‘ good evening occurs in Middleton's Chaste
Maid in Cheapside. Sir Walter Whorehoimd in the same play makes use of
the formula ‘ I embrace your acquaintance Sir \ to which the reply is
vows your service Str\ Massinger's New Way to pay old Debts contains
various formulas of greeting. I ain still your creature^ says Allworth to
his step-mother Lady A. on taking leave ; of two old domestics he takes
leave with ‘ rny service to both \ and they reply ‘ ours waits on you In
reply to the simple Farewell Tom, of a friend, All worth answers ^ All
joy stay with you \ Sir Giles Overreach greets Lord Lovel with ‘ Good day
to My Lord ' ; and the prototype of the modern how are you is seen in
Lady Allworth's ‘ Hoiv dost thou Marrall P ' A graceful greeting in this
play is ‘ Fou are happily encountered'. The later
seventeenth-century comedies exhibit the characteristic urbanity of the
age in their formulas of greeting and leave-taking. ‘ A happy day
to you Madam is Victoria's morning compliment to Mrs. Goodvile in Otway's
Friendship in Fashion, and that lady replies— ‘ Dear Cousin, your humble
servant'. Sir Wilfull Witwoud in Congreve's Way of the World, says ‘ Save
you Gentleman and Lady ' on entering a room. His younger brother, on
meeting him, greets him with ‘ Four servant Brother", and the knight
replies ‘ servant! Why yours Sir, Four servant again ; "s heart, and
your Friend and Servant to that \ Tm everlastingly your humble servant,
deuce take me Madam, says Mr. Brisk to Lady Froth, in the Double
Dealer. Your servant is a very usual formula at this period, on
joining or leaving company. In Vanbrugh's Journey to London, Colonel
Courtly on entering is greeted by Lady Headpiece — Colonel your servant;
her daughter Miss Betty varies it with^ — Four servant Colonel, and the
visitor replies to both — Ladies, your most ohedienL Mr.
Trim, the formal coxcomb in ShadwelFs Bury Fair, parts thus from his
friends — Sir, I kiss your hands ; Mr, Wildish— -S’/r your most humble
servant; Trim — Oldwii I am your most faithful servant; Mr. Oldwit — Four
servant sweet il/'* Trim, Four servant, madam good morrow to you, is Lady
Arabella's greeting to Lady Headpiece, who replies — to you Madam
(Vanbrugh's Journey to London). The early eighteenth century appears not
to differ materially from the preceding in its usage. Lord Formal
in Fielding's Love in Several Masques, says Ladies your most humble
servafit, and Sir Apish in the same play — Four Ladyships everlasting
creature^ Epistolary Formulas. The writing of letters,
both familiar and formal, is such an inevitable part of everyday life,
that it seems legitimate to include here some examples of the various
methods of beginning and ending private letters from the early fifteenth
century onwards. A proper and exhaustive treatment of the subject would
demand a rather elaborate classification, according to the rank and
status of both the writer and the recipient, and the relation in which
they stood to each other — whether master and servant, or dependant,
friend, subject, child, spouse, and so on. In the comparatively few
examples here given, out of many thousands, nothing is attempted beyond a
chronological arrangement The status and relationship of the parties is,
however, given as far as possible. We note that the formula employed is
frequently a conventional and more or less fixed phrase which recurs,
with slight variants, again and again. At other times the opening and
closing phrases are of a more personal and individual character.
1418. Archbp* Chichele to Hen. V, Signs simply: your preest and
bede- man. — Ellis, i. i. 5. 142 5. IVilL Fasten to . Right
worthy and worshepfull Sir. I recom- maunde me to you, &c. Ends
: Almyghty God have you in his governaunce. Your frend unknowen. — Past.
Letters, i. 19-20. 1440. Agnes to Will. Fasten. Inscribed: To my
worshepful housbond W. Paston be this letter takyn. Dere housbond I
reccommaunde me to yow. Ends : The Holy Trinite have you in governaunce.
— P. L. i. 38-9. 1442-5. Dtike of Buckingham to Lord Beau 7 nont, Ryght
worshipful and with all my herte right enterly beloved brother, I
recomaunde me to you, thenking right hastili your good brotherhode for
your gode and gentill letters. I beseche the blissid Trinite preserve you
in honor and prosperite. Your trewe and feithfull broder H. Bukingham. —
P. L- i. 61-2. 1443. Margaret to John Paston. Ryth worchipful
husbon, I reccomande me to yow desyryng her tel y to her of your wilfar.
Almyth God have you in his kepyn and sendo yow helth, Yorys M. Paston. —
P. L. i. 48-9. 1444. James Gresham to Will. Fasten. Please it your
good Lordship to wete, &c. Ends : Wretyn right simply the Wednesday
next to fore the Fest. By your laiost symple servaunt — P. L. i,
50. 1444, Duchess of Norfolk to J. Past 07 i. Ryght tmsty and
entirely wel- bclovcd we grete you wel hertily as we kan , . . and siche
agrement as, &c. ... we shall duely performe yt with the myght of
Jesu who haff you in his blissed keping. — P. L. i. 57, 1444.
Sir R. Ckamberlayn to Agn. Paston. Ryght worchepful cosyn, I comand me to
you. And I beseche almyty God kepe you. Your Cosyn Sir Roger
Chamberlain. 1445. Agnes to Edm. Fasten. To myn welbelovid sone. I
grete you wel. Be your Modre Angnes Paston.— i, 58, 59.
380 COLLOQUIAL IDIOM 1449, Marg, to John Paston. Wretyn at
Norwych in hast, Be your gronyng Wyfr.-~i. 76“7- 1449. Same
to sa 7 ne. No mor I wryte to ^ow atte this tyme* Your Mar- karyte
Paston. — i. 42-3. 1449. John Paston, Ends : Be ^owre pore
Broder* 1449. E Its. ^ Clare to J, Paston, No raore I wrighte to 50
w at this tyme, but Holy Cost have 50W in kepyng. Wretyn in haste on
Scynt Peterys day be candel lyght, Be your Cosyn E. C. — P. L. i.
89-90. 1450. Duke of Suffolk to his son. My dear and only
welbeloved sone. Your trewe and lovynge fader Suffolk. — P. L. i. 12
1-2. 1450, IVilL Lomme to J, Paston, I prey you this bille may
recomaunde me to mastrases your moder and wyfe. Wretyn yn gret hast at
London. — P.L. i. 126. 1450. y. Gresham to ^ my Mats ter Whyte
Esguyer\ After due recomen- dacion I recomaund me to yow.
1450. J, Paston to above, James Gresham, I pray you labour for the,
&c. — i. 145* 1450. Justice Yelverton to Sir J, Fastolf,
By your old Servaunt William Yelverton Justice. — P, L. i. 166.
1453. Agnes toJ, Paston, Sone I grete you well and send you Godys
blessyng and myn. Wretyn at Norwych ... in gret hast, Be your moder A.
Paston. — P. L. i. 259. 1454. J, Paston to Earl of Oxford* Youre
servaunte to his powr John Paston. — P. L. i. 276, 1454. Lord
Scales to J, Paston, Our Lord have you in governaunce. Your frend The
Lord Scales. — P. L. i. 289. 1454, Thomas Howes to J, Paston, I
pray God kepe yow. Wiyt at Castr hastly ij day of September, Your owne T.
Howes. — P. L. i. 301. 1454. The same. Your chapleyn and bedeman
Thomas Howes.— *i. 31 8. 1455. /• PoLstolf to Duke of Norfolk,
Writen at my pore place of Castre, Your humble man and servaunt. — P. L.
i. 324. 1455. /. Cudworth, Bp. of Lmcoln^ to J, Patton, And Jesu
preserve you, J. Bysshopp of Lincoln. — P.L. i. 350. 1456.
Archbp, Bourchier to Sir J, Fastolf, The blissid Trinitee have you
everlastingly in His keping, Written in my manoir of Lamehith, Your
feith- full and trew Th, Cant. — P. L. i. 382. 1456 (Nephew
to uncle). H, Fylinglay to Sir J, Fastolf Ryght wor- shipful unkell and
my ryght good master, I recomniaund me to yow wyth all my servys. And
Sir, my brother Paston and I have, &c. . . . Your nevew and servaunt
— P. L. i. 397. 1458. John Jerningham to Marg, Paston. Nomor I
wryte unto you at this tyme. . . . Your owne umhle servant and cosyn J.
J.— P, L. i. 429. 1458 (Daughter to her mother). Elh, Poynings to
Agn, Paston, Right worshipful and my most entierly belovde moder, in the
most lowly maner I recomaund me unto your gode moderhode. . . . And Jesu
for his grete mercy save yow. By your humble daughter. — P. L. i,
434-5. 1469. Chancellor and University of Oxford to Sir John Say,
Ryght wor- shipful our trusty and entierly welbeloued, after harty
commendacyon. . . . Ends : yo’-' trew and harty louers The Chancelir and
Thuniversite of Oxon- ford. — Ellis. 1477. John Paston to Ms
mother* Your sone and humbyll servaunt P. — P. L. iii. 176.
1481-4. Edm, Paston to Ms mother, umble son and servant. — P.
L. iii, 280. 1482. J, Paston to Ms mother. Your sone and trwest
servaunt — P. h* iii. 290. 1482. Margery Paston to her
hushaftd. No more to you at this tyme, Be your servaunt and bede woman.—
iii. 293, 1485. Duke of Norfolk to J, Faston. Welbelovyd frend I cummaund
me to yow. . . . I shall content you at your metyng with me, Yower lover
J. Nor- folk.— iii. 320, 1485. Eliz, Browne to J. Paston.
Your loving awnte E. B. 1485. Duke of Suffolk to f Paston, Ryght
welbeloved we grete you well. . , . Suffolk, yor frende. — iii.
324-5. 1490. Bp* of Durham to Sir fohn Paston* IH2, Xps*. Rygiit
wortchipful sire, and myne especial and of long tyme apprevyd, trusty and
feythful frende, I in myne hertyeste wyse recommaunde me un to you. . . ,
Scribyllyd in the moste haste, at my castel or manoir of Aucland the
xxvij of Januay. Your own trewe luffer and frende John Duresme. — iii.
363. 1490. Lumen H ary son to Sir f Past on. Onerabyll and well be
lov^^'d Knythe, I commend me on to 5our masterchepe and to my lady 5owyr
wyffe. . , . No mor than God be wyth 50W, L. H. at ^ouyr
comawndment. 1503. Q. Margaret of Scotland to her father Hen. VII.
My moste dere iorde and fader in the most humble wyse that I can thynke I
recommaunde me unto your Grace besechyng you off your dayly blessyngys. .
. . Wrytyn wyt the hand of your humble douter Margaret. — Ellis i. i.
43. Hen. VI J to his Mother.^ the Countess of Richmond. Madam, my
most enterely wilbeloved Lady and Moder . . . with the hande of youre
most humble and lovynge sone. — Ellis, i. i. 43-5. Margaret
to Hen. VI 1 . My oune suet and most deare kynge and all my worldly joy,
yn as humble manner as y can thynke I recommand me to your Grace ... by
your feythful and trewe bedewoman, and humble modyr Mar- garet R, —
Ellis, i. I. 46. 1513. Q. Margaret oj Scotland to Hen. VI IL Richt
excellent, richt hie and mithy Prince, our derrist and best belovit
Brothir. . . . Your louyn systar Margaret. — Ellis, i. i. 65. (The Queen
evidently employed a Scottish Secre- tary.) 1515. Margaret to
Wolsey. Yours Margaret R. — Ellis, i. i. 131. 1515. Thos. Lord
Howard, Lord Admiral, to Wolsey. My owne gode Master Awlmosner. . . .
Scrybeled in gret hast in the Mary Rose at Plymouth half o^' after xj at
night . . . y^ own Thomas Howard. c. 1515. West Bp. of Ely to
Wolsey. Myne especiall good Lorde in my most humble wise I recommaund me
to your Grace besechyng you to con- tynue my gode Lorde, and I schall
euer be as I am bounden your dayly bedeman. . . . Y^ chapelayn and bedman
N 1 . Elien. c. 1520. Archbp. Warham to Wolsey. Please ityo^ moost
honorable Grace to understand. ... At your Graces commaundement, Willm.
Cantuar. — Ellis, iii. I. 230. Also : Euer, your own Willm.
Cantuar. Langland Bp. of Lincoln to Wolsey. My bownden duety mooste
lowly remembrede unto Your good Grace. . . . Yo^ moste humble bedisman
John Lincoln.— Ellis, iii. l. 248. Cath, of Aragon to
Princess Mary. Doughter, I pray you thinke not, &c. —Ellis, i, 2. 19,
• . . Your lovyng mother Katherine the Queue. Archibald, E. of
Angus. Addresses letter to Wolsey : To my lord Car- dinallis grace of
Ingland. — Ellis, iii. i. 291. 1521. Bp. Tunstal to Wolsey.
Addresses letter :— to the most reverend fader in God and his most
singler good Lorde Cardinal. — Ellis, iii. i* 273. Ends a letter :
By your Gracys most humble bedeman Cuthbert TunstalL —Ellis, iii. I. 332
- 1515 or 1521. Duke of Buckingham to Wolsey, Yorys to my
power E. Bukyngham. Gccvin Douglas, Bp. of Dunkeld, to
Wolsey. ZgI chaplan wy^ his lawfull seruyse Gavin bischop of Dunkeld.—
Ellis, iii. i. 294- Zo^ humble servytor and Chaplein of Dunkeld.— Ellis,
iii. i. 296. Zo^ humble seruytor and dolorous Chaplan of Dunkeld.— Ellis,
iii. i. 303- Wolsey to Gardiner {afterwards Bp. of Winchester)*
Ends : Your assurjd lover and bedysman T. Car^s Ebor.— Ellis, i. 2. 6.
Again : Wryttyn hastely at Asher with the rude and shackyng hand of your
dayly bedysman and assuryd frende T. Car^^® Ebor. 1532.
T/ios, AudUy {Lord Keeper) to CromwelL Yo^' assured to his litell Thomas
Audeley Gustos Sigiili. Edw. E, of Hertford {afterwards Lord
Protector). Thus I comit you to God hoo send yo^‘ lordshep as well to far
as I would mi selfe . . . w^ the hand of yo^ lordshepis assured E. Hertford.
Hen. VI 11 to Catherine Parr. No more to you at thys tyme swethart
both for lacke off tyme and gret occupation off bysynes, savyng we pray
you in our name our harte blessyngs to all our chyldren, and
recommendations to our cousin Marget and the rest off the laddis and
gentyll women and to our Consell alsoo. Wryttyn with the hand off your
lovyng howsbande Henry R. — Ellis, i. 2. 130. Princess Mary
to CromwelL Marye Princesse. Maister Cromwell I commende me to you. —
Ellis, i. 2. 24, Prince Edward to Catherine Parr. Most honorable
and entirely beloued mother. . . . Your Grace, whom God have ever in his
most blessed keping. Your louing sonne, E. Prince. — Ellis, i. 2. 13
1. 1547. Henry Radclyf E. of Sussex, to his wife. Madame with
most lovyng and hertie commendations. — Ellis, i. 2. 137.
Princess Elizabeth to Ediv. VI. Your Maiesties humble sistar to
com- maundement Elizabeth. — Ellis, i. 2. 146 ; Your Maiesties most
humble sistar Elizabeth. — Ellis, i. 1. 148. Princess Elizabeth
to Lord Protector. Your assured frende to my litel power Elizabeth. —
Ellis, i. 2. 158. Edward VI to Lord Protector Somerset. Derest
Uncle. . . • Your good neuew Edward. — Ellis, ii. i. 148.
Q.Mary to Lord Admiral Seymour. Your assured frende to my power
Marye. — Ellis, i. 2. 153. Princess Elizabeth to Q. Mary (on being
ordered to the Tower). Your Highnes most faithful subjec that hath bine
from the begining and wyl be to my ende, Elizabeth. (Transcr. of 1732). —
Ellis, ii. 2. 257. 1553, Princess Elizabeth to the Lords of the
Council. Your verye lovinge frende, Elizabeth- — Ellis, ii. 2. 213.
1554, Henry Darnley to Q. Mary of England. Your Maiesties moste
bounden and obedient subjecte and servant Henry Darnley. Queen
Dowager to Lord Admiral Seymour. By her ys and schalbe your humble true
and lovyng wyffe duryng her lyf Kateryn the Quenc. — Ellis, i. 2.
152. Q. Mary to Marquis of Winchester, Your Mystresse assured Marye
the Queue. -—Ellis, ii. 2. 252. Sir John Grey of Pyrgo to Sir
William Cecil. It is a great while me thinkethe, Cowsine Cecill, since I
sent unto you. ... By your lovyng cousin and assured frynd John Grey. —
Ellis, ii, 2. 73-4; Good cowsyne Cecil!. . , . By yo^ lovyng Cousine and
assured pouer frynd dowring lyfe John Grey. — Ellis, ii. 2. 276.
Lady Catherine Grey, Cmmtess of Hertford, to Sir W, Cecil. Good
cosyne Cecill . . . Your assured frend and cosyne to my small power
Katheryne Hartford. — Ellis, ii. 2. 278 ; Your poore cousyne and assured
frend to my small power Katheryne Hartford. — Ellis, ii. 2. 287.
1564. Sir W. Cecil to Sir Thos. Smith. Your assured for ever W.
Cecill. — Ellis, ii. 2. 295 ; Yours assured W. Cecill— Ellis, ii, 2. 297
; Your assured to command W, Cecill — Ellis, ii. 2, 300. 1
566. Duchess of Somerset to Sir W. Cecil. Good M^ Secretary, yf I have
let you alone all thys whyle I pray you to thynke yt was to tary for my L,
of Leycesters assistans. ... I can nomore . . , and so do leave you to
God Yo’^ assured lovyng frynd Anne Somerset,— Ellis, ii.
288. Christopher Jonson, Master of Winchester^ to Sir W, CeciL Right
honourable my duetie with all humblenesse consydered. . . . Your honoures
most due to commando, Christopher Jonson. — Ellis, ii. 2. 313.
1569. Lacfy Stanhope to Sir W, CeciL Right honorable, my humble
dewtie premised. . . . Your honors most humblie bound Anne Stanhope. —
Ellis, il 2. 324. _ ^ ^ ^ , 1574. Sir Philip Sidney to the E. of
Leicester, Righte Honorable and my singular good Lorde and Uncle. . . .
Your L. most obedi. . . , Philip Sidney. —Works, p. 345.
1576. Sir Philip Sidney to Sir Francis Walsingham, Righte Honorable
... I most humbly recommende my selfe unto yow, and leaue yow to the
Eternals most happy protection, . , . Yours humbly at commawndement
Philipp Sidney. 1578. Sir Philip Sidney to Edward Molineux^ Esq.
(Secretary to Sir H. Sidney), Molineux, Few words are best My letters to
my father have come to the eyes of some. Neither can I condemn any but
you. . . . (The writer assures M. that if he reads any letter of his to
his father ^ without his commandment or my consent, I will thrust my
dagger into you. And trust to it, for I speak it in earnest’. . . .) In
the meantime farewell. From court this last of May 1 578, By me Philip Sidney.—
p. 328. 1580. Sir Philip Sidney to his brother Robert. My dear
Brother . . . God bless you sweet boy and accomplish the joyful hope I
conceive of you. , . . Lord I how I have babbled : once again farewell
dearest brother. Your most loving and careful brother Philip
Sidney. 1582. Thomas Watson ^ To the frendly Reader^ (in Passionate
Centurie of Love). Courteous Reader , . . and so, for breuitie sake (I)
aprubtlie make and end ; committing the to God, and my worke to thy
fauour. Thine as thou art his, Thomas Watson. Anne of Denmark
to James L Sir ... So kissing your handes I remain she that will ever
love Yow best, Anna R. — Ellis, i. 3. 97. c. 1585. Sir Philip to
Walsingham. Sir , . . your louing cosin and frend. In several letters to
Walsingham Sidney signs *your humble Son’. ^ 1586. Wm. Webbe to Ma.
(= ^ Master ’) Edward Sulyard Esquire (Dedi- catory Epistle to the
Discourse of English Poetrie). May it please you Syr, thys once more to
beare with my rudenes, &c. ... I rest, Your worshippes faithfull
Seruant W. W. 1593. Edward Alleyn to his wife. My good sweete mouse
. . . and so swett mouse farwell. — Mem. of Edw. Alleyn, L 36; my good
sweetharte and loving mouse . . . thyn ever and no bodies else by god of
heaven. — ibid. 1596, Thos., Lord Buckhurst, afterwards Earl of
Dorset^ to Sir Robert CeciL Sir . . . Your very lo: frend T.
Buckhurst. 1 597, Sir W. Raleigh to Cecil. S*^ I humblie thanke yow
for your letter . , . S^ I pray love vs in your element and wee will love
and honor yow in ours and every wher. And remayne to be comanded by yow
for evermore W Ralegh. 1602. Same to same. Good Secretary. .
. . Thus I rest, your very loving and assured frend T, Buckhurst,— Works,
xxxiv-xi. 1603. Same to same. My very good Lord. . ♦ . So I rest as
you know, Ever yours T. Buckurst 1605, Same to same. ... I
pray God for your health and for mine own and so rest Ever yours
... 1607. Same to the University of Oxford. Your very loving friend
and Chancellor T. Dorset— xlvi. cr. 1608. Sir Menry Wotton to
Henry Prince of Wales. Youre zealous pooie servant H. W. — Ellis, i. 3*
loo. Q. Anne of Denmark to Sir George Villiers (afterwards Duke of
Buc- kingham). My kind Dog. # • . So wishing you all happiness Anna
R. Ellis, i. 3, ICO. Charles Duke of York to Prince Heniy. Most
loving Brother I long to see you, . . . Your H. most loving brother and
obedient servant, Charles. — Ellis, i. 3. 96. 1612. Prince
Charles to James L Your most humble and most obedient sone and
servant Charles. — Ellis, i. 3. 102. Same to Viljiers. Steenie,
There is none that knowes me so well as your- self. . , . Your treu and
constant loving frend Charles P. — Ellis, i. 3. 104. King Jaynes to
Buckingham or to Prince Charles, My onlie sweete and deare chylde I pray
thee haiste thee home to thy deare dade by sunne setting at the furthest.
— Ellis, i. 3. 120. Sa 7 ne to Buckingham, My Steenie. . . . Your
clear dade, gosseppe and stewarde. — Ellis, i. 3, 159. Same
to both. Sweet Boyes. . . . God blesse you both my sweete babes, and
sende you a safe and happie returne, James R. — Ellis, i. 3 121.
Prmce Charles a?id Buckingham to James, Y’our Majesties most humble
and obedient sone and servant Charles, and your humble slave and doge
Steenie.—Ellis, i. 3. 122. 1623. Buckingham to James. Dere Dad,
Gossope and Steward. . . • Your Majestyes most humble slave and doge
Steenie. — Ellis, i, 3. 146-7. 1623. Lord Herbert to James, Your
Sacred Majesties most obedient, most loyal, and most affectionate
subjecte and servant, E. Herbert The letters of Sir John Suckling
(Works, ii, Reeves & Turner) are mostly undated, but one to Davenant
has the date 1629, and another to Sir Henry Vane that of 1632.
The general style is more modern in tone than those of any of the
letters so far referred to. (See on Suckling’s style, pp. 152-3.) The
beginnings and endings, too, closely resemble and are sometimes identical
with those of our own time. To Davenant, Vane, and several other
persons of both sexes, Suckling signs simply — ^ Your humble servant J.
S.’, or 'J. Suckling’. At least two, to a lady, end * Your humblest
servant The letter to Davenant begins ‘WilL; that to Vane — ‘Right
Honorable’. Several letters begin ‘ Madam ‘ My Lord one begins ‘ My noble
friend another ‘ My Noble Lord several simply ‘ Sir The more fanciful
letters, to Aglaura, begin ‘ Dear Princess ’, ‘ Fair Princess ’, ‘ My
clear Dear ‘ When I consider, my dear Princess ’, &c. One to a cousin
begins ‘ Honest Charles The habit of rounding off the
concluding sentence of a letter so that the valedictory formula and the
writer’s name form an organic part of it, a habit very common in the
eighteenth century — in Miss Burney, for instance — is found in
Suckling’s letters. For example : ‘ I am still the humble servant
of my Lord that 1 was, and when I cease to be so, I must cease to
be John Suckling’; ‘yet could never think myself unfortunate, while I can
write myself Aglaura her humble servant ’ ; ‘ and should you leave that
lodging, more wretched than Montferrat needs must be your humble servant
J. S.’, and so on. The longwindedness and prolixity wiiich
generally distinguish the openings and closings of letters of the
fifteenth and the greater part of the sixteenth century, begin to
disappear before the end of the latter period. Suckling is as neat and
concise as the letter-writers of the eighteenth century. ‘Madam, your
most humble and faithful servant' might serve for Dr. Johnson. Most
of our modern formulas were in use before the end of the first half of
the seventeenth century, though some of the older phrases still survive.
But we no longer find " I commend me unto your good master- ship,
beseeching the Blessed Trinity to have you in his governance and
such-like lengthy introductions. The Correspondence of Dr. Basire (see
pp. 163-4) is very instructive, as it covers the period from 1634 to
1675, by which latter date letters have practically reached their modern
form. Dr. Basire writes in 1635-6 to Miss Frances Corbet, his fiancee,
'Deare Fanny ^ Deare Love ^ ^ Love and ends ' Your most faithfuil frend
J. B.', 'Thy faithful frend and loving servaunt J. B.", 'Your
assured frend and loving well-wisher J. B/, 'Your ever iouing frend J.
B.' When Miss Corbet has become his wife, he constantly writes to her in
his exile which lasted from 1640 to 1661, letters which apart from our
present purpose possess great human and historical interest. These
letters generally begin ' My Dearest', and ' My deare Heart', and he
signs himself ' Your very Iouing husband', 'Yours, more than ever', 'Your
faithful husband', ' My dearest. Your faithful friend ', ' Yours till
death ' Meanewhile assure your selfe of the constant love of— My dearest
— ^Your loyall husband The lady to whom these affectionate letters
were addressed, bore with wonderful patience and cheerfulness the
anxieties and sufferings incident upon a state bordering on absolute want
caused by her husband's depriva- tion of his living under the Commonwealth,
his prolonged absence, together with the cares of a family of young
children, and very indifferent health. She was a woman of great piety,
and in her letters ‘ many a holy text around she strews ' in reply to the
religious soliloquies of her husband. Her letters all begin ' My dearest
’, and they often begin and close with pious exclamations and phrases —
'Yours as much as euer in the Lord, No, more thene euer ' ; ' My dearest,
I shall not faile to looke thos plases in the criptur, and pray for you
as becometh your obedient wife and serunt in the Lord F. B. ’ ; another
letter is headed ' Jesu 1 and ends — ' I pray God send vs all a happy
meting, I ham your faithful in the Lord, F. B.' Many of the letters are
headed with the Sacred Name. Others of Mrs. Basire's letters end —
'Farwall my dearest, I ham yours faithful for euer'; 'I euer remine Yours
faithfuil in the Lord'; 'So with my dayly prayers to God for you, I
desire to remene your faithfuil loveing and obedient wif '.
It may be worth while to give a few examples of beginnings and ends
of letters from other persons in the Basire Correspondence, to illustrate
the usage of the latter part of the seventeenth century. These
letters mostly bear, in the nature of an address, long superscrip- tions
such as 'To the Reverend and ever Honoured Doctour Basire, Prebendary of
the Cathedral Church in Durham. To be recommended to the Postmaster of
Darneton' (p. 213, dated 1662). This letter, from Prebendary Wrench
of Durham, begins ' Sir and ends — ' Sir, Your faithfuil and unfeigned
humble Servant R. W.' In the same year the Bishop of St. David's
begins a letter to Dr. Basire — ' Sir and ends — ' Sir, youre uerie
sincere friend and seruant, Wil. St, David's p. 219, The
Doctor's son begins — ' Reverend Sir, and most loving Father ' and ends
with the same formula, adding — ' Your very obedient Son, P. B ^ p. 221. To his Bishop (of Durham) Dr. Basire
begins 'Right Rev. Father in God, and my very good Lord ending ' I am
still, My L<i, Your Lp 3 . faithfull Servant Isaac Basire’. In 1666
the Bishop of Carlisle, Dr. Rainbow, evidently an old friend of Dr. B/s,
begins 'Good Mr. Archdeacon and ends ' I commend you and yours to God’s
grace and remaine,'Your very faithfull frend Edw, Carlioi’, p. 254.
In 1668 the Bishop of Durham begins ' M^ Archdeacon ’ and ends ' In
the interim I shall not be wanting at this distance to doe all I can, who
am, Sir, Your very loving ffriend and servant TJo. Duresme', p. 273. Dr.
Barlow, Provost of Queen’s, begins 'My Reverend Friend’, and ends ‘Your
prayers are desired for, Sir, Your affectionate friend and Seruant, Tho.
Barlow’, p. 302 (1673). Dr. Basire begins a letter to this gentleman — ‘
Rev. Sir and my Dear Friend ’ . . , ending ' I remain, Reverend Sir, Your
affectionate frend, and faithful servant To his son Isaac, he writes in
1664 — 'Beloved Son’, ending — ‘So prays your very lovinge and painfull
Father, Isaac Basire ’. Having now brought our examples of the
various types of epistolary formulas down to within measurable distance
of our own practice, we must leave this branch of our subject. Space
forbids us to examine and illus- trate here the letters of the eighteenth
century, but this is the less necessary as these are very generally
accessible. The letters of that age, formal or intimate, but always so
courteous in their formulas, are known to most readers. Some allusion has
already been made (pp. 20-1) to the tinge of ceremoniousness in address,
even among friends, which survives far into the eighteenth century, and
may *be seen in the letters of Lady Mary Montagu, of Gray, and Horace
Walpole, while as late as the end of the century we find in the letters
of Cowper, unsurpassed perhaps among this kind of literature for grace
and charm, that combination of stateliness with intimacy which has now
long passed away. Exclamations, Expletives, Oaths, &e.
Under these heads comes a wide range of expressions, from such as
are mere exclamations with little or no meaning for him who utters or for
him who hears them, or words and phrases added, by way of emphasis, to an
assertion, to others of a more formidable character which are
deliberately uttered as an expression of spleen, disappointment, or rage,
with a definitely blasphemous or injurious intention. In an age like
ours, where good breeding, as a rule, permits only exclamations of the
mildest and most meaningless kind, to express temporary annoyance,
disgust, surprise, or pleasure, the more full-blooded utterances of a former
age are apt to strike u$ as excessive. Exclamations which to those who
used them meant no more than ' By Jove ’ or ' my word ’ do to us, would
now, if they were revived appear almost like rather blasphemous irreve-
rence. It must be recognized, however, that swearing, from its mildest to
its most outrageous forms, has its own fashions. These vary from age to
age and from class to class. In every age there are expressions which are
permissible among well-bred people, and others which are not. In certain
circles an expression may be regarded with dislike, not so much because of
any intrinsic wickedness attributed to it, as merely because it is
vulgar. Thus there are many sections of society at the present time where
such an expression as ‘ O Crikey * is not in use. No one would now
pretend that in its present form, whatever may underlie it, this
exclamation is peculiarly blasphemous, but many persons would regard it
with disfavour as being merely rather silly and distinctly vulgar. It is
not a gentleman’s expression. On the other hand, ^ Good Heavens \ or ^
Good Gracious \ while equally innocuous in meaning and intention, would
pass muster perhaps, except among those who object, as many do, to
anything more forcible than ‘ dear me \ Human nature, even when
most restrained, seems occasionally to require some meaningless phrase to
relieve its sudden emotions, and the more devoid of all association with
the cause of the emotion the better will the exclamation serve its
purpose. Thus some find solace in such a formula as ‘ O liitle haiC which
has the advantage of being neither particularly funny nor of overstepping
the limits of the nicest decorum, unless indeed these be passed by the
mere act of expressing any emotion at all. It is really quite beside the
mark to point out that utterances of this kind are senseless. It is of
the very essence of such outbursts — the mere bubbles on the fountain of
feeling — ^that they are quite unrelated to any definite situation. There
is a certain adjective, most offensive to polite ears, which plays
apparently the chief r 61 e in the vocabulary of large sections of the
community. It seems to argue a certain poverty of linguistic resource
when we find that this word is used by the same speakers both to mean
absolutely nothing — being placed before every noun, and often
adverbially before all adjectives — and also to mean a great deal —
everything indeed that is unpleasant in the highest degree. It is rather
a curious fact that the word in question while always impos- sible, except
perhaps when used as it were in inverted commas, in such a way that the
speaker dissociates himself from all responsibility for, or
proprietorship in it, would be felt to be father more than ordinarily
intolerable, if it were used by an otherwise polite speaker as an
absolutely meaningless adjective prefixed at random to most of the nouns
in a sen- tence, and worse than if it were used deliberately, with a
settled and full intent. There is something very terrible in an oath torn
from its proper home and suddenly implanted in the wrong social
atmosphere. In these circumstances the alien form is endowed by the
hearers with mysterious and uncanny meanings ; it chills the blood and
raises gooseflesh. We do not propose here to penetrate into the
sombre history of blasphemy proper, nor to exhibit the development
through the last few centuries of the ever-changing fashions of
profanity. At every period there has been, as Chaucer knew —
a companye Of yonge folk, that haunteden folye,
As ryot, hasard, stewes and tavemes, Wher-as with harpes,
lutes and gitemes, ^ They daunce and pleye at dees both day and
night, And ete also and drinken over hit might, Thurgh
which they doon the devel sacrifyse Within the develes tempel in cursed
wyse, By superfiuitee abhominable; c c 2
Hir othes been so grete and so dampnable^ That it is grisly
for to here hem swere ; Our blissed lordes body they to-tere;
Hem though te Jewes rent him noght y-nough. We are concerned,
for the most part, with the milder sort of expres- sions which serve to
decorate discourse, without symbolizing any strong feeling on the part of
those who utter them. Some of the expletives which in former ages were
used upon the slightest occasion, would certainly appear unnecessarily
forcible for mere exclamations at the present day, and the fact that such
expressions were formerly used so lightly, and with no blasphemous
intention, shows how frequent must have been their employment for
familiarity to have robbed them of all meaning. So saintly a
person as Sir Thomas More was accustomed, according to the reports given
of his conversation by his son-in-law, to make use of such formulas as a
Gods name^ p. xvi ; would to God, ibid. ; in good faith, xxviii, but
compared with some of the other personages mentioned in his Life, he is
very sparing of such phrases. The Duke of Norfolk, ‘his singular deare
friend*, coming to dine with Sir Thomas on one occasion, ‘ fortuned to
find him at Church singinge in the quiere with a surplas on his backe ;
to whome after service, as the(y) went home togither arme in arme, the
duke said, “ God body, God body, My lord Chauncellor, a parish Clark, a
parish Clarke ! ” ' On another occasion the same Duke said to him ^
By the Masse, Moore, it is perillous strivinge with Princes ... for
Gode's body, Moore, Indignatio principis mors est *, p. xxxix. In the
conversation in prison, with his wife, quoted above, p. 364, we find that
the good gentlewoman ‘ after her accustomed fashion * gives vent to such
exclama- tions as ‘ What the goody ear e Moore ' : ‘ Tille mile, tille
vallc ' ; ^ Bone deus, hone Deus man \ ‘ I muse what a Gods name
you meane here thus fondly to tarry*. At the trial of Sir Thomas More,
the Lord Chief Justice swears by St, Julian — ‘ that was ever his oath p.
li. ‘ Tilly folly, Sir John, ne’er tell me and ‘ What the good year
! ' are both also said by Mrs. Quickly in Henry IV, Pt. II, ii. 4. Marry,
which means no more than ‘ indeed *, was a universally used expletive in
the sixteenth century, Roper uses it in speaking to More, Wolsey uses
it, according to Cavendish ; it is frequent in Roister Doister, and is
con- stantly in the mouths of Sir John Falstaff and his merry
companions. By sweete Sanct Anne, by cocke, by gog, by cocks precious
potsiick, kocks nownes, by the armes of Caleys, and the more formidable
by the passion of God Sir do not so, all occur in Roister Doister, and
further such exclama- tions as O Lords, hoigh dagh !, I dare sweare, I
shall so God me saue, I make God a vow (also written avow), would Christ
I had, &c. Meaning- less imprecations like the Devil take me, a
mischiefe take his token and him and thee too are sprinkled about the
dialogue of this play. The later plays of the great period offer a mine
of material of this kind, but only a few can be mentioned here. What a
Devil (instead of the Devil), what a pox, hfr lady, bounds, d blood, Gods
body, by the mass, a plague on thee, are among the expressions in the
First Part of Henry IV, In the Second Part Mr. Justice Shallow swears by
cock and pie. By the side of these are mild formulas such as Tm a Jew
else^ Tm a rogue if I drink today. In Chapman’s comedies there is a
rich sprinkling both of the slighter forms of exclamatory phrases, as
well as of the more serious kind. Of the former we may note j/ faitk^ Ur
lord^ Ur lady, by the Lord, How the divell (instead of how a devil), all
in A Humorous Day's Mirth ; He he sworne, All Fooles; of the latter kind
of expression Gods precious soles., H. D. M. ; sjoot, shodie, God^s my
life, Mons. D'Olive ; Gods my passion, H. D. M. ; swounds, zwoundes,
Gentleman Usher. Massinger's New Way to pay old Debts has 'slight,
'sdeath, and a fore- shadowing of the form of asseveration so common in
the later seventeenth century in the phrase — ‘ If I know the mystery . .
. may I perish ii. 2, It is to the dramatists of the later
seventeenth and early eighteenth century that the curious inquirer will
go for expletives and exclamatory expressions of the greatest variety.
Otway, Congreve, and Vanbrugh appear to excel all their predecessors and
contemporaries in the fertility of their invention in this respect. It is
indeed probable that while some of the sayings of Mr. Caper, my Lady
Squeamish, my Lady Plyant, my Lord Foppington, and others of their
kidney, are the creations of the writers who call these ' strange
pleasant creatures ' into existence, many others were actually current
coin among the fops and fine ladies of the period. Even if many phrases
used by these characters are artificial con- coctions of the dramatists
they nevertheless are in keeping with, and express the spirit and manners
of the age. If Mr. Galsworthy or Mr. Bernard Shaw were to invent
corresponding slang at the present day, it would be very different from
that of the so-called Restoration Dramatists. The bulk of the following
selection of expletives and oaths is taken from the plays of Otway,
Congreve, Wycherley, Mrs. Aphra Behn, Vanbrugh, and Farquhar. A few occur
in Shadwell, and many more are common to all writers of comedies. These
are undoubtedly genuine current expressions some of which survive.
Among the more racy and amusing are : — Ld me die : ‘ Let me
die your Ladyship obliges me beyond expression* (Mr. Saunter in Otway's
Friendship in Fashion) ; ^ Let me die, you have a great deal of wit'
(Lady Froth, Congreve's Double Dealer); also much used by Melantha, an
affected lady in Dryden's Marriage \ la Mode. . . 1 Ld
me perish — ‘ I'm your humble servant let me perish ' (Brisk, Double
Dealer) ; also used by Wycherley, Love in a Wood. ^le
(Vanbrugh's Relapse), Death and eternal iartures Sir, I vow the
packet's (= pocket) too high (Lord Foppington), Burn me if I
do (Farquhar, Way to win him). Mai me, ^ rat my packet handkerchief
(Lord Foppington). Never Never stir if it did not' (Caper, Otway,
Friendship in Love) ; * Thou shalt enjoy me always, dear, dear
friend, never stir '• BU take my death you're handsomer ' (Mrs.
Millamont, Congreve, Way of the World). , Bm a Person
(Lady Wishfort, Way of the World). Stap my vitals (Lord Foppington ; very
frequent). Split my wmdpipe — Lord Foppington gives his brother his
blessing, on finding that the latter has married by a trick the lady he
had designed for himself— 'You have married a woman beautiful in her
person, charming in her airs, prudent in her canduct, canstant in her
inclina- tions, and of a nice marality split my windpipe As I
hope to breathe (Lady Lurewell, Farquhar, Sir Harry Wildair), Tm a
Dog if do (Wittmore in Mrs. Behn’s Sir Patient Fancy). By the
Universe (Wycherley, Country Wife). I swear and declare (Lady
Plyant) ; / swear and vow (Sir Paul Plyant, Double Dealer) ; I do protest
and vow (Sir Credulous Easy, Aphra Behn’s Sir Patient Fancy) ; I protest
I swoon at ceremony (Lady Fancyfull, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; 1 profess
ingenuously a very discreet young man (Mrs, Aphra Behn, Sir Patient
Fancy). Gads my hfe (Lady Plyant). O Crimine (Lady
Plyant). O Jeminy (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife).
Gad take me, between you and I, I was deaf on both ears for three
weeks after (Sir Humphrey, Shadwell, Bury Fair). ril lay my Life he
deserves your assistance (Mrs. Sullen, Farquhar, Beaux' Strategem).
By the Lord Harry (Sir Jos. Wittol, Congreve, Old Bachelor). the
universe (Wycherley, Mrs. Pinchwife, Country Wife). Gadzooks
(Heartfree, Vanbrugh, Provok'd Wife) ; Gadt s Bud (Sir Paul Plyant,
Double Dealer) ; Gud soons (Lady Arabella, Vanbrugh, Journey to London) ;
Marry-gep (Widow Blackacre, Wycherley, Plain Dealer) ; ^sheart (Sir
Wilful, Congreve, Way of the World) ; Eh Gud, eh Gud (Mrs. Fantast,
Shadwell, Bury Fair); Zoz I was a modest fool; ads^- zoz (Sir Credulous
Easy, Devonshire Knight, Aphra Behn, Sir Petulant Fancy); 'D's diggers
Sir (a groom in Sir Petulant Fancy); ^sheart (Sir Wilf. Witwoud,
Congreve, Way of the World); odsheart (Sir Noble Clumsey, Otway,
Friendship in Fashion); Adsheart (fkx Jos, Wittol, Congreve, Old Bachelor)
; Gadswouns (Oldfox, Plain Dealer). By the side of marry, frequent in the
sixteenth and seventeenth centuries, the curious expression Marry come up
my dirty cousin occurs in Swift's Polite Conversations (said by the young
lady), and again in Fielding's Tom Jones — said by the lady's maid Mrs.
Honor. With this compare marry gep above, which probably stands for ' go
up Such expressions as Lard are frequent in the
seventeenth-century comedies, and the very modern-sounding as sure as a
gun is said by Sir Paul Plyant in the Double Dealer. The
comedies of Dryden contain but few of the more or less mild, and
fashionable, semi-bantering exclamatory expressions which enliven the
pages of many of his contemporaries ; he sticks on the whole to the more
permanent oaths — 'sdeath, ^sblood, &c. It must be allowed that the
dialogue of Dry den's comedies is inferior to that of Otway or Congreve
in brilliancy and natural ease, and that it probably does not reflect the
familiar colloquial English of the period so faithfully as the
conversation in the works of these writers. Dryden himself says, in the
Defense of the Essay of Dramatic Poesy, ' I know I am not so fitted by
Nature to write Comedy : 1 want that Gaiety of Flumour which is required
to it. My Conversation is slow and dull, my Humour Saturnine and reserv’d
: In sliortj I am none of those who endeavour to break all Jests in
Com- pmy, or make Repartees It may be noted that the frequent
use — almost in ever;^ sentence — of such phrases as A/ me perish, hum
me, and other meaningless interjec- tions of this order, is attributed by
the dramatists only to the most frivolous fops and the most affected
women of fashion. The more serious characters, so far as such exist in
the later seventeenth-century comedies, aie addicted rather to the
weightier and more sober sort of swearing. It is perhaps unnecessary to
pursue this subject beyond the* first third of the eighteenth century.
Farquhar has many of the manner- isms of his slightly older contemporaries,
and some stronger expressions, e. g. ‘ There was a neighbour's daughter I
had a woundy kindness for Truman, in Twin Rivals ; but Fielding in his
numerous comedies has but few of the objurgatory catchwords of the
earlier generation. Swearing, both of the lighter kind as well as of the
deliberately profane variety, appears to have diminished in intensity,
apart from the stage country squire, suc h as Squire Badger in Don
Quixote, who says ^ShodUkins and ecod, and Squire Western, whose artless profanity
is notorious. Ladies in these plays, and in Swift's Polite Conversations,
still say lard, O Ltid, and la, and mercy, ^shuhs, God bless my eyesight,
but the rich variety of expression which we find in Lady Squeamish and
her friends has vanished. Some few of the old mouth-filling oaths, such
as zounds, ^sdeath, and so on, still linger in Goldsmith and Sheridan,
but the number of these available for a gentleman was very limited by the
end of the century. From the beginning of the nineteenth century it would
seem that nearly all the old oaths died out in good society, as having
come to be considered, from unfamiliarity, either too profane or else too
devoid of content to serve any purpose. It seems to be the case that the
serious oaths survive longest, or at any rate die hardest, while each age
produces its own ephemersil formulas of mere light expletive and
asseveration. Hyperbole ; Compliments ; Approval ; Disapproval ;
Abuse, Very characteristic of a particular age is the language of
hyperbole and exaggeration as found in phrases expressive on the one hand
of compliments, pleasure, approval, amusement, and so on, and of
disgust, dislike, anger, and kindred emotions, on the other.
Incidentally, the study of the different modes of expressing such
feelings as these leads us also to observe the varying fashion in
intensives, corresponding to the present-day awfully, frightfully, and
the rest, and in exaggeration generally, especially in paying compliments.
The following illustrations are chiefly drawn from the seventeenth
century, which offers a considerable wealth of material. It is
wonderful what a variety of expressions have been in use, more or less
transitorily, at different periods, as intensives, meaning no more than
i>iry, very much, &c. Rarely in Chapman^s Gentleman Usher — ^How
did you like me aunt? 0 rarely, rarely \ ^Oh lord, that, that is a
pleasure intolerahU \ Lady Squeamish in Otway’s Friendship in Love ; ‘Let
me die if that was not extravaganily pleasant vtry amusing), ibid. ; ^ I
vow he himself sings a tune extreme prettily \ ibid. : ‘ I love dancing
immoderately \ ibid. ; ‘ O dear ’tis violent hot \ ibid. ; ‘ Deuce take
me if your Ladyship has not the art of surprising the most naturally in
the world — I hope you'll make me happy in communicating the Poem Brisk
in Congreve's Double Dealer ; ‘With the reserve of my Honour, I aSvSure
you Careless, I don't know anything in the World I would refuse to a
Person so meritorious — You’ll pardon my want of expression', Lady Plyant
in Double Dealer; to which Careless replies — ‘O your “Xadyship is
abounding in all Excellence^ particularly that of Phrase ; My Lady Froth
is very well in her Accomplishments — But it is when my Lady Plyant is
not thought of— if that can ever be ' ; Lady Plyant : — ‘O you overcome
me — That is so excessive' ; Brisk, asked to write notes to Lady Froth's
Poems, cries ‘ With all my Heart and Soul, and proud of the vast Honour
let me perish ‘ I swear Careless you are very alluring^ and say so many
fine Things, and nothing is so moving as a fine Thing. . , . Well, sure
if I escape your Importunities, I shall value myself as long as I live, I
swear ; Lady Plyant. The following bit of dialogue between Lady Froth and
Mr. Brisk illustrates the fashionable mode of bandying exaggerated, but
i*ather hollow compliments. ‘ Ldy P. Ah Gallantry to the last
degree — Brisk was ever anything so well bred as My Lord ? Brisk — Never
anything but your Ladyship let me perish. Ldy F, O prettily turned again
; let me die but you have a great deal of Wit. Mellefont don^t you think
Brisk has a World of Wit ? MeUefont — O yes Madam. Brisk — O dear Madam —
Ldy F» An mfinite deal! Brisk, O Heaven Madam. ■'Ldy F. More Wit — than
Body. Brisk — Pm everlastingly your humble Servant^ deuce take me
Madam. Lady Fancyful in Vanbrugh’s Provok'd Wife contrives to pay
herself a pretty compliment in lamenting the ravages of her beauty and
the con- sequent pretended annoyance to herself — ‘ To confess the truth
to you, Fm so everlastingly fatigued with the addresses of unfortunate
gentlemen that were it not for the extravagancy of the example, I should
e'en tear out these wicked eyes with my own fingers, to make both myself
and mankind easy Swift's Polite Conversations consist of a
wonderful string of slang words, phrases, and clicMs^ all of which we may
suppose to have been current in the conversation of the more frivolous
part of Society in the early eighteenth century. The word pure is used
for very — ‘ this almond pudden is pure good ’ ; also as an Adj., in the
sense of excellent^ as in ‘ by Dad he's pure Company \ Sir Noble
Clumsey's summing-up of the 'Arch- Wag' Malagene. To divert in the
characteristic sense of ‘amuse', and instead of this — ‘ Well ladies and
gentlemen, you are pleased to divert yourselves'. Lady Wentworth in 1706
speaks of her ‘munckey' as ‘ full of devertin tricks and twenty years
earlier Cary Stewkley (Verney), taxed by her brother with a propensity
for gambling, writes ‘ whot dus becom a gentilwoman as plays only for
divariion I hope I know The idiomatic use of obliging is shown in
the Polite Conversations, by Lady Smart, who remarks, in answer to rather
excessive praise of her house — ‘ My lord, your lordship is always very
obliging ' ; in the same sense Lady Squeamish says 'I sweai*e Mr. Malagene
you are a very obliging person \ Extreme amusement, and
approval of the persons who provoke it, are frequently expressed with
considerable exaggeration of phrase. Some instances are quoted above, but
a few more may be added^. ‘ A you mad slave you, you are a ticUing Acior\
says Vincentio to Pogio in Chapman’s Gentleman Usher. Mr.
Oldwit, in Shadwelbs Bury Fair, professes great delight at the buffoonery
of Sir Humphrey : — ‘ Forbear, pray forbear ; you'll be the death of me ;
1 shall break a vein if I keep you company, you arch Wag you, . . . Well
Sir Humphrey Noddy, go thy ways, thou art the ar«hesT Wit and Wag. I must
forswear thy Company, thou'lt kill me elsei' The arch wag asks ' What is
the World worth without Wit and Waggery and Mirth ? and describing some
prank he had played before an admiring friend, remarks — Mf you’d seen
his Lordship laugh! I thought my Lord would have killed himself. He
desired me at last to forbear ; he was not able to endure it! 'Why what a
notable Wag^s this" is said sarcastically in Mrs. Aphra Behn’s Sir
Patient Fancy. The passages quoted above, pp. 369-71, from Otway’s
Friendship in Love illustrate the modes of expressing an appreciation of
' Waggery In the tract Reasons of Mr. Bays for changing his
religion (1688), Mr. Bays (Dryden) remarks a propos of something he
intends to write — ^you 'll half kill yourselves with laughing at the
conceit and again ' I protest Ml’ Crites you are enough to make anybody
split with laugh- ing', Similarly 'Miss’ in Polite Conversation declares
— 'Well, I swear you'll make one die with laughing The
language of abuse, disparagement, contempt, and disapproval, whether real
or in the nature of banter, is equally characteristic. The
following is uttered with genuine anger, by Malagene Goodvile in Otway’s
Friendship in Love, to the njusicians who are entertaining the company —
' Hold, hold, what insufferable rascals are these ? Why you scurvy
thrashing scraping mongrels, ye make a worse noise than crampt hedgehogs.
’Sdeath ye dogs, can’t you play more as a gentleman sings ? ’
The seventeenth-century beaux and fine ladies were adepts in the
art of backbiting, and of conveying in a few words a most unpleasant
picture of an absent friend — 'O my Lady Toothless’ cries Mr. Brisk in
the Double Dealer, ' O she ’s a mortifying spectacle, she "s always
chewing the cud like an old Ewe ’ ; ' Fie M*^ Brisk, Eringos for her
cough ’ pro- tests Cynthia ; Lady Froth : — ' Then that t’other great
strapping Lady— I can't hit of her name ; the old fat fool that paints so
exorbitantly ’ ; Brisk : — ' I know whom you mean — But deuce take me I
can't hit of her Name neither— Paints d’ye say ? Why she lays it on with
a trowel’ Mr. Brisk knows well how to 'just hint a fault ' Don't
you apprehend me My Lord? Careless is a very honest fellow, but harkee —
^you under- stand me — somewhat heavy, a little shallow or so Lady
Froth has a picturesque vocabulary to express disapproval— '0 Filthy M**
Sneer? he's a nauseous figure, a most fulsamic Fop . Nauseous and filthy
are favourite words in this period, but are often used so as to convey
little or no specific meaning, or in a tone of rather affectionate banter.
^ He ’s one of those nauseous offerers at wit Wycherley’s Country Wife ;
^ A man must endeavour to look wholesome ’ says Lord Foppington in
Vanbrugh's Relapse, ‘lest he make so nauseous a figure in the side box,
the ladies should be compelled to turn their eyes upon the Play ’ ; again
the same nobleman remarks ‘ While I was but a Knight I was a very
nauseous fellow ’ ; and, speaking to his tailor — I shall never be
reconciled to this nauseous packet A remarkable use of the verb, to express
a simple aversion, is found in Mrs. Millamont’s ^ I nauseate walking ;
'tis a country divertion ' (Congreve, Way of the World). In the Old
Bachelor, Belinda, speaking of Belmour with whom she is Th In^e, cries
out, at the suggestion of such a possibility — ‘ Filthy Fellow I ... Oh I
love your hideous fancy I Ha, ha, ha, love a Man 1 ' In the same play
Lucy the maid calls her lover, Setter, ‘ Beast, filthy toad ’ during an
exchange of civilities. ‘ Foh, you filthy toad I nay, now IVe done jesting
’ says Mrs. Squeamish in the Country Wife, when Horner kisses her. ‘Out
upon you for a filthy creature' cries ‘Miss^ in the Polite Conversations,
in reply to the graceful banter of Neverout. Toad is a term of
endearment among these ladies ; ‘ I love to torment the confounded toad'
says Lady Fidget, speaking of Mr. Horner for whom she has a very
pronounced weakness. ‘ Get you gone you good- natur’d toad you ' is Lady
Squeamish's reply to the rather outre compli- ments of Sir Noble.
Plague (Vb.), plaguy^ plaguily are favourite expressions in Polite
Con- versations. Lord Sparkish complains to his host — ‘ My Lord, this
venison is plaguily peppered ' ; ' 'Sbubs, Madam, I have burnt my hand
with your plaguy kettle ' says Neverout, and the Colonel observes, with
satisfaction, that ‘ her Ladyship was plaguily bamb'd ‘ Don't be so
teizing ; you plague a body so ! can't you keep your filthy hands to
yourself? ' is a playful rap administered by ‘ Miss ' to Neverout.
Strange is another word used very indefinitely but suggesting mild
disapproval — ‘ I vow you'll make me hate you if you talk so strangely,
but let me die, I can't last longer ' says Lady Squeamish, implying a
certain degree of impropriety, which nevertheless makes her laugh ;
again, she says, ‘I'll vow and swear my cousin Sir Noble is a strange
pleasant creature We have an example above of exorbitantly in
the sense of ‘out- rageously', and the adjective is also used in the same
sense — ^‘Most exorbitant and amazing' is Lady Fantast’s comment, in Bury
Fair, upon her husband's outburst against her airs and graces. We may
close this series of illustrations, which might be extended almost
indefinitely, with two from the Verney Memoirs, which contain idiomatic
uses that have long since disappeared. Susan Verney, wishing to say that
her sister's husband is a bad-tempered disagreeble fellow, writes ‘poore
peg has married a very humersome cros boy as ever I see' (Mem. ii. 361,
1:647). Edmund Verney, Sir Ralph's heir, having had a quarrel with a
neigh* bouring squire concerning boundaries and rights of way, describes
him as ‘very malicious and stomachfull' (Mem. iv. 3:77, 1682). The
phrase ‘as ever I see' is common in the Verney letters, and also in the
Went- worth Papers. Preciosity, &c. We close this
chapter with some examples of seventeenth-century preciosity and
euphemism. The most characteristic specimens of this kind of affected
speech are put by the writers into the mopths of female characters, and
of these we select Shadwell's Lady Fantast and her daughter (Bury Fair),
Otway's Lady Squeamish, Congreve's Lady Wishfort, and Vanbrugh's Lady
Fancyful in the Provok'd Wife. Some of the sayings of a few minor
characters may be added ; the waiting- maids of these characters are
nearly as elegant, and only less absurd than their mistresses.
Luce, Lady Fantast's woman, summons the latter's stepdaughter as
follows : — ^ Madam, my Lady Madam Fantast, having attir'd herself in her
morning habiliments, is ambitious of the honour of your Ladyship's
Company to survey the Fair ' ; and she thus announces to her mistress the
coming of Mrs. Gertrude the stepdaughter : — ‘ Madame, M^s Gatty ' will
kiss your Ladyship's hands here incontinently '. The ladies Fan- tast,
highly respectable as they are in conduct, are as arrant, pretentious,
and affected minxes as can be found, in manner and speech, given to
interlarding their conversation with sham French, and still more dubious
Latin. Says the daughter — ‘To all that which the World calls Wit and
Breeding, I have always had a natural Tendency, a penchen^ derived, as
the learned say, ex traduce, from your Ladyship : besides the great
Prevalence of your Ladyship's most shining Example has perpetually
stimulated me, to the sacrificing all my Endeavours towards the attaining
of those inestimable Jewels ; than which, nothing in the Universe can be
so much a mon gre, as the French say. And for Beauty, Madam, the stock I
am enrich'd with, comes by Emanation from your Ladyship, who has been
long held a Paragon of Perfection : most Charmanf, most Tuant! ‘Ah my
dear Child' replies the old lady, ‘II alas, alas 1 Time has been, and yet
I am not quite gone . When Gertrude her stepsister, an attractive and
sensible girl, comes in Mrs. Fantast greets her with ‘ Sweet Madam Gatty,
I have some minutes impatiently expected your Arrival, that I might do
myself the Great Honour to kiss your hands and enjoy the Favour of your
Company into the Fair ; which I see out of my Window, begins to fill
apace.' To this piece of afifectation Gatty replies very sensibly,
‘ I got ready as soon as e'er I could, and am now come to wait on you ',
but old Lady Fantast takes her to task, with ‘ Oh, fie, Daughter ! will
you never attain to mine, and my dear Daughter's Examples, to a more
polite way of Expression, and a nicer form of Breeding ? Fie, fie ; I
come to wait on you! You should have said; I assure you Madam the Honour
is all on my side ; and I cannot be ambitious of a greater, than the
sweet Society of so excellent a Person. This is Breeding/
‘Breeding!' exclaims Gatty, ‘ Why this had been a Flam, a meer Flam And
with this judgement, we may leave My Lady Fantast. We pass
next to Lady Squeamish, who is rather ironically described by Goodvile as
‘the most exact Observer of Decorums and Decency alive Her manner of
greeting the ladies on entering, along with her cousin Sir Noble Clumsey,
if it has the polish, has also the insincerity of her age—' Dear Madam
Goodvile, ten thousand Happinesses wait on you ! Fair Madam Victoria,
sweet charming Camilla, which way shall I express my Service to you ? —
Cousin your honour, your honour to the Ladies. — Sir Noble : — Ladies as
low as Knee can bend, or Head can bow, I salute you all : And Gallants, I
am your most humble, most obliged, and most devoted Servant/
The character of this charming lady, as well as her taste in
language, is well exhibited in the following dialogue between her and
Victoria. ^ Oh my dear Victoria ! the most unlock’d for Happiness !
the pleasantest Wlc^ent ! the strangest Discovery ! the very thought of
it were enough to cure Melancholy. Valentine and Camilla, Camilla and
Valentine, ha, ha, ha, Viet, Dear Madam, what is ’t so transports
you ? Ldy Sqti, Nay ’tis too precious to be communicated : Hold me,
hold me, or I shall die with laughter — ha, ha, ha, Camilla and
Valentine, Valentine and Camilla, ha, ha, ha — 0 dear, my Heart’s
broke. Viet, Good Madam refrain your Mirth a little, and let me
know the Story, that I may have a share in it. Ldy Squ, An
Assignation, an Assignation tonight in the lower Garden ; — by strong
good Fortune I overheard it all just now — but to think of the pleasant
Consequences that will happen, drives me into an Excess of Joy beyond all
sufferance. Viet, Madame in all probability the pleasantest
Consequence is like to be theirs, if any body’s ; and I cannot guess how
it should touch your Ladyship in the least. Ldy Squ, O Lord,
how can you be so dull ? Why, at the very Hour and Place appointed will I
greet Valentine in Camilla’s stead, before she can be there herself ;
then when she comes, expose her Infamy to the World, till I have thorowly
revenged my self for all the base Injuries her Lover has done me.
Viet But Madam, can you endure to be so malicious ? Ldy Squ,
That, that ’s the dear Pleasure of the thing ; for I vow I’d sooner die
ten thousand Deaths, if I thought I should hazard the least Temptation to
the prejudice of my Honour. Viet, But why should your Ladyship run
into the mouth of Danger? Who knows what scurvy lurking Devil may stand
in readiness, and seize your Virtue before you are aware of him ?
Ldy Squ, Temptation? No, I’d have you know I scorn Temptation: I
durst trust myself in a Convent amongst a Kennel of cramm’d Friers:
Besides, that ungrateful ill-bred fellow Valentine is iny mortal
Aversion, more odious to me than foul weather on a May-day, or ill smell
in a Morning. ... No, were I inclined to entertain Addresses, I assure
you I need not want for Servants ; for I swear I am so perplexed with
Billet-Doux^ every day, I know not which way to turn myself: Besides
there’s no Fidelity, no Honour in Mankind. O dear Victoria I whatever you
do, never let Love come near your Heart : Tho really 1 think true Love is
the greatest Pleasure in the World.’ And so we let Lady
Squeamish go her ways for a brazen jilt, and an affected, humoursome
baggage. If any one wishes to know whither her ways led her, let him read
the play. Only one more example of foppish refinement of speech
from this play — the remarks of the whimsical Mr. Caper to Sir Noble
Clumsey, who coming in drunk, takes him for a dandng-master — ^ I thought
you had known me’ says he, rather ruefully, but adds, brightening— 'I
doubt you may be a little overtaken. Faith, dear Heart, Fm glad to see you
so merry I ’ The character of Lady Wishfort in the Way of the
World is perhaps one of the best that Congreve has drawn; her
conversation in spite of the deliberate affectation ir^ phrase is vivid
and racy, and for all its preciosity has a naturalness which puts it
among the triumphs of Con- greve’s art. He contrives to bring out to the
full the absurdity of the lady’s mannerisms, in feeling and expression,
to combine these with vigour and ease of diction, and to give to the
whole that polish of which he is the unquestioned master in his own age
and for long after. The position of Lady Wishfort is that of an
elderly lady of great ouii ward propriety of conduct, and a steadfast observer
of decorum, in sjl^ch no less than in manners. Her equanimity is
considerably upset by the news that an elderly knight has fallen in love
with her portrait, and wishes to press his suit with the original. The
pretended knight is really a valet in disguise, and the whole intrigue
has been planned, for reasons into which we need not enter here, by a
rascally nephew of Lady Wishfort’s. This, however, is not discovered
until the lover has had an interview with the sighing fair. The first
extract reveals the lady discussing the coming visit with Foible her maid
(who is in the plot). ‘ I shall never recompose my Features to
receive Sir Rowland with any Oeconomy of Face Fm absolutely decayed.
Look, F oible. Foible, Your Ladyship has frown’d a little too
rashly, indeed Madam. There are some Cracks discernible in the white
Varnish. Ldy W, Let me see the Glass— Cracks say’st thou ? Why I am
arrantly flead (e. g. flayed) — I look like an old peel’d Wall. Thou must
repair me Foible before Sir Rowland comes, or I shall never keep up to my
picture. F, I warrant you, Madam ; a little Art once made your
picture like you ; and now a little of the same Art must make you like
your Picture. Your Picture must sit for you, Madam. Ldy W,
But art thou sure Sir Rowland will not fail to come ? Or will he not fail
when he does come? Will he be importunate, Foible, and push? For if he
should not be importunate ... I shall never break Decorums — I shall
die with Confusion ; if I am forc’d to advance— O no, I can never
advance. ... I shall swoon if he should expect Advances. No, I hope Sir
Rowland is better bred than to j)ut a Lady to the Necessity of breaking
her Forms. I won’t be too coy neither.— I won’t give him Despair— But a little
Disdain is not amiss ; a little Scorn is 2X\mm%,--Foible.--h little Scorn
becomes your Ladyship . — Ldy IV. Yes, but Tendeimess becomes me best— A
Sort of a Dyingness— You see that Picture has a Sort of a — Ha Foible !—
A Swimmingness in the Eyes— Yes, I’ll look so— My Neice affects it but
she wants Features. Is Sir Rowland handsom ? Let my Toilet be remov’d—
I’ll dress above. I’ll receive Sir Rowland here. Is he handsom ? Don’t
answer me. I won’t know : I’ll be surpris’d ; He’ll be taken by Sm-
prise.— By Storm Madam. Sir Rowland’s a brisk Man.— TV. —Is he ! O then
he’ll importune, if he ’s a brisk Man. I shall save Decorums if Sir
Rowland importunes. I have a mortal Terror at the Apprehension of
offending against Decorums. O Pm glad he ’s a brisk Man. Let my things be
remov’d good Foible*’ The next passage reveals the lady ready
dressed, and expectant of Sir Rowlands arrival. — ‘Well, and
how do I look Foible! — Z; Most killing well, Madam. Ldy IV, Well, and
how shall I receive him ? In what Figure shall I give 39S
colloquial IDIOM his Heart the first Impression ? There is a great
deal in the first Impression, Shall I sit? — No, I won’t sit — I’ll walk—
ay I’ll walk from the door upon his Entrance; and then turn full upon him
— No, that will be too sudden. I’ll lie, ay Ell lie down — I’ll receive
him in my little Dressing-Room. There *s a Couch — Yes, yes, I’ll give
the first Impression on a Couch — I won’t lie neither, but loll, and lean
upon one Elbow; with one Foot a little dangling off, jogging in ^
thoughtful Way — Yes— Yes — and then as soon as he appears, start, ay,
start and be surpris’d, and rise to meet him in a pretty Disorder — Yes —
O, nothing is more alluring than a Levee from a Couch in some Con-
fusion— It shews the Foot to Advantage, and furnishes with Blushes and
recomposing Airs beyond Comparison. Hark ! there ’s a Coach.’ .^t
it is when theure du Berger draws near, as she supposes, that Lady
Wishfort rises to the subiimest heights of expression : — ‘Well,
Sir Rowland, you have the Way, — you are no Novice in the Labyrinth of
Love— You have the Clue — But as I’m a Person, Sir Rowland, you must not
attribute my yielding to any sinister Appetite, or Indigestion of Widow-
hood ; nor impute my Complacency to any Lethar^ of Continence — I hope
you don’t think me prone to any iteration of Nuptials — If you do, I
protest I must recede — or think that I have made a Prostitution of
Decorums, but in the Vehemence of Compassion, or to save the Life of a
Person of so much Importance — Or else you wrong my Condescension — If
you think the least Scruple of Carnality was an Ingredient, or that
— Here Foible enters and announces that the Dancers are ready, and
thus puts an end to the scene at its supreme moment of beauty — and
absurdity. Even Congreve could not remain at that level any longer.
It is worth while to record that in this play, a maid, well called
Mincings announces — ‘ Mem, I am come to acquaint your Laship that Dinner
is impatient The hostess invites her guests to go into dinner with
the phrase — ‘ Gentlemen, will you walk ? ' This chapter and
book cannot better conclude than with a typical piece of
seventeenth-century formality. May it symbolize at once the author's
leave-taking of the reader and the eagerness of the latter to pursue the
subject for himself. The passage is from the Provok’d Wife :
— ‘ Lady FancyfuL Madam, your humble servant, I must take my
leave. Lady Brute. What, going already madam ? Ldy F. I
must beg you’ll excuse me this once ; for really 1 have eighteen visits
this afternoon. . . . {Goin^ Nay, you shan’t go one step out of the
room. Ldy B. Indeed I’ll wait upon you down. Ldy F. No,
sweet Lady Brute, you know I swoon at ceremony. Ldy B, Pray give me
leave — Ldy F. You know I won’t — I^dy B. — You know I must. — Ldy F. —
Indeed you shan’t — Indeed I will — Indeed you shan’t — Ldy B. — ^Indeed
I will. Ldy F. Indeed you shan’t. Indeed, indeed, indeed, you
shan’t’ [Exit running. They follow.\ Alberto
Caracciolo. Keywords: il colloquio, in cammino verso il linguaggio. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Caramella – gl’eroi di Vico
– filosofia italiana – Caritone e Melanippo -- Luigi Speranza (Genova).
Filosofo italiano. Grice:”I like Caramella – like me, he is into the
metaphysics of conversation! And he reminds me that I should re-read Vico!”
-- Grice: “I like Caramella; he prefaced
Fichte’s influential tract on ‘la filosofia della massoneria’ – but also wrote
on more orthodox subjects like Kant, Cartesio, Bergson, and most of them!” –
Grice: “Like me, he thought truth is found in conversation!” Ancora al liceo,
comincia a collaborare con Gobetti, il quale gli affida la trattazione della
filosofia su “Energie Nove”. Dopo un primo contatto con PGobetti e La
Rivoluzione liberale, su segnalazione di questi, entra in collaborazione con Radice,
da cui apprese le dottrine del neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la
laurea, insegna a Genova. Per le sue idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso
prima nelle carceri di Marassi a Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a
Milano; fu scarcerato, ma venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera
docenza. Ottenne, per intercessione di Croce, l'incarico di filosofia a Messina.
Vinse la cattedra a Catania. Prese parte ai convegni organizzati dalla Scuola di
mistica fascista Insegna a Palermo,
ereditando la cattedra che era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che
ne cura il lascito, è Armetta, docente alla Pontifica Facoltà Teologica di
Sicilia. La sua vasta cultura, gli
permise di vedere la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito
della filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente
dello spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico
della filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e
gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia
supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si
esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione
e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato
alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché
risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il
progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello
spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta
funzione teoretica. Altre opere: “Problemi
e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica
e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania);
Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia
dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei,
M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello
Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e
metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce.
Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica
vichiana" di Caramella, in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di
Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di Caramella.Lo spirito nella
filosofia di Caramella.Caramella. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario
biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 S. Caramella, La cultura ligure nell’alto Medioevo, in II
Comune di Genova, La recente V ita d i Bruno, con documenti e
inediti 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente sintetizzare oltre
vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce l’opportunità di un breve eenno
sul soggiorno del filosofo nella n o s tra regione, così sulla base di quanto
lo Spampanato ha messo novamente in luce come su quella delle antiche notizie
da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione dei fatti che stiamo
per narrare era, prima delle dotte pagine dello Spampanato, nella biografia del
Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti rispetti. Arrivò il Bruno in Genova
poco prima della domenica delle Palme, nell’anno in cui la festa cadeva il 15
aprile? Cont raria m en te al parere del Berti, il quale sostiene non essere
capace di prova che il filosofo sia entrato nella nostra città, dobb iam o
infatti tener presente una scena del Candelaio dove tino dei protagonisti
giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda dell’asino, che adorano i
Genoesi’3 », e il passo correlativo dello Spaccio d e lla B e stia trio n fa n
te, che dice proprio così: « Ho visto io i religiosi di Castello in Genova
mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda, dicendo: non toccate,
baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta asina che fu fatta
degna di portar il nostro Dio dal monte Oliveto a Jerosolina. Adoratela,
baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita aeternam
possidebitis». I « religiosi di Castello» sono, è evidente, i Domenicani di
Santa Maria di Castello, dove uffiziavano: e la preziosa reliquia doveva certo
esser mostrata 1 Messina, Principato, Vedi, per l’argomento di questa com
unicazione, Torino, Paravia, ed. Spampanato (Bari, Laterza), ed. Gentile (Dial.
morali di G. B.), Quetifet Echard, S c rip t. ord. praed., t. il, p. in.
Società Ligure di Storia Patria - al p opolo nella precisa circostanza della
commemorazione del giorno in cui Gesù discese trionfante su ll’asina a
Gerusalemme 1. Il Bruno veniva da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a avu to
notizia che il processo istruttorio p endente presso l’inquisizione, per i
sospetti di erodossia avanzati contro di lui, non annunziava buon esito: e
così, deposto l’ abito, si diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò
egli stesso, ai giudici di V enezia, di essere andato subito a N oli. Ma è prob
abile c h e la peste, da cui quella plaga fu proprio in quel torno di rem po
violentemente aiflitta, lo abbia genericam ente con sigliato a v o lgersi verto
la Liguria, contrada m eno infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a
fermarsi alm eno qualche giorno a Genova. Le sarcastiche espressioni dello
Spaccio ci fanno im m aginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della
vetusta ch iesa romanica, pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla
caratteristica facciata o per gli ornamenti molteplici dell’ interno, eh’ è
tutto un m usaico di con q uiste orientali, - e tanto meno di interesse
psicologico e religioso per la folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di
cruccio e disdegno: lui da poco a ccostatosi alle nuove idee dei riformatori
oltremontani, lui per questo costretto a fuggire di patria e dall’ am ato co n
v e n to napoletano di San Domenico Maggiore, dove gli allievi p endevano dalla
sua parola, dottamente teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito,
anche a Genova; a Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già
n o tizia tre giorni dapo il 15 aprile, il m ercoledì santo 2. E allora il
Bruno, com e ci attestano, questa volta, più veracem ente, le sue note
dichiarazioni ai giudici veneti, se ne andò a N oli. Forse il ricordo dantesco,
che per lui u m anista p oteva con tar qualche cosa, e la simiglianza del nom e
con quello della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola
repubblica, e anche, chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche c o n
siglio di amico lo spinsero in quel tranquillo rifugio, l’ unico veramente
tranquillo per lui nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a
Noli, territorio genoese, d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a
insegnar la gram m atica a’ putti ». « Io 1 Per la storia d ella re liqu ia v.
Imbriani, Natanar II in Propu gnatore, Vili, M utin elli, Storia arcana ed
aneddotica d’Italia, Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale -
stetti in Noli circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica a’
figliuoli e leggendo la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spampanato, per
ragioni di coerenza con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia
durato un po’ più di quattro mesi. Comunque, le occupazioni del Nolano a Noli
sono ben chiare: l’ esule cercava di trar qualche mezzo di vita con lezioncine
private. Ma anche « leggeva la Sfera a certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il
famoso trattato di Giovanni da Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco
domenicano quasi contemporaneo di Dante: che si soleva considerare come
perfetta e sintetica esposizione di una teoria fisico-geometrica fondamentale
per l’astronomia tolemaica, (la teoria delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi
dell’ ipotesi copernicana aveva, nella seconda metà del Cinquecento, rimesso in
gran voga2. Persino a Noli era d u n q u e penetrato il novello interesse del
secolo per i problemi astronomici; perfino a Noli alcuni giovani signori
sentivano il bisogn o di stipendiare un povero erudito piovuto di lontano
perchè spiegasse loro il sistema del mondo. E il Bruno cominciava di quia
occuparsi direttamente di quelle indagini che fur o n o oggetto delle polemiche
da lui sostenute in Inghilterra e che formano l’argomento della Cena delle
Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te sapere (a meno che venissero fuori i
quaderni di queste sue legioni liguri) s’ egli già a Noli professasse la
dottrina copernicana, servendosi della Sfera per criticare il sistema tolem
aico: o invece, come il Galilei ne’ suoi corsi allo Studio di Padova, si
limitasse all’illustrazione del classico libretto. Un sacerdote napoletano,
anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis, che p otè consultare gli atti del
Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia del Bruno che a questi fu
intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il quarto dopo i primi due di
Napoli 1 D occ. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO). Vedi A. Pellizzar i, Il
quadrivio nel Rinascimento (Genova, Perrella). Bruno (Napoli). Ma cfr. Amabile,
in Atti Acc. Scienze mor. e politiche di Napoli n.; espampanato (e anche Tocco
in Arch. fiir Gesch. der P h ilo s., Bonghi, ne La Cultura, Gentile, Bruno e il
pensiero del Rinascimento, [Firenze, Vallecchi Società Ligure di Storia Patria
- e il terzo di Roma) « dalla
Inquisizione dello Repubblica g e n o vese»: ma dell’asserzione
importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno
palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De
Martinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia
non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo
genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur
dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse
soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di
perseguirvelo). « Eppoi me partii de là [da Noli] ed andai prima a Savona, dove
stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino, dove non trovando
trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il Po1 ». Da Venezia, di
lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo, Milano. Qui rivestì l’
abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso, Torino, Susa arrivò
alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in Francia, oltre monti,
lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. Troverà onori, trionfi
accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la queta pace di Noli,
mai più. S antino C aramella 1 Docc. veti., c. 8La Logica di Porto Reale. Con
Prefazione del Prof. Santino... Storia del pensiero e del gusto letterario in
Italia ad uso dei licei. La scuola di mistica fascista e la discoperta
del vero Vico L'azione combinata della storiografia al bianchetto e della
credulità strisciante fra le righe del conformismo teologico, ha fatto sparire
la notizia della sfida al neoidealismo, che fu lanciata dalle avanguardie
cattoliche inquadrate nella scuola milanese di mistica fascista. In tal modo la
memoria storica degli italiani è stata privata della nozione necessaria a
contrastare seriamente l'ideologia totalitaria e ad avviare gli studi
filosofici su un cammino di ricerca opposto a quello tracciato dall'intossicante
influsso del gramscismo. Un percorso, quella anticipato dalla scuola di mistica
fascista, che avrebbe messo capo ad un'evoluzione del Novecento - un'autentica
rivoluzione italiana - di segno contrario al coatto e calamitoso trasferimento
(narrato da Ruggero Zangrandi) degli intellettuali fascisti nel partito di
Palmiro Togliatti. L'accertata esistenza di una forte opposizione cattolica
alla filosofia di matrice hegeliana, comunque, fa crollare i due pilastri della
mistificazione comunista: la leggenda della complicità cattolica con
l'ideologia anticomunista prevalente in Germania - leggenda sintetizzata dal
calunnioso slogan «Pio XII papa di Hitler» - e la rappresentazione degli
intellettuali italiani nella figura di un coacervo nazifascista, redento in
extremis dalla longanimità del partito staliniano. La vicenda degli
oppositori italiani all'idealismo rivela, invece, l'autonomia, la straordinaria
vitalità e l'attitudine del pensiero cattolico ad entusiasmare ed orientare i
giovani studiosi, che avevano aderito al fascismo senza separarsi dalla radice
religiosa della patria italiana. Curiosamente, l'autorità del pensiero
cattolico si rafforzò nella prima fase della II guerra mondiale, quando la
Germania nazionalsocialista sembrava avviata a vincere la guerra. Dopo che il
governo italiano ebbe sottoscritto l'alleanza con la Germania, il dubbio si
era, infatti, diffuso fra i giovani, causando la divisione dell'area fascista
in due opposte scuole di pensiero: una corrente maggioritaria, intesa a metter fine
al dominio della cultura tedesca e perciò risoluta a percorrere la via d'uscita
indicata dalla tradizione cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele
ai princìpi dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche
sulla via del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del
fermento in atto durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Nino
Tripodi, interprete delle novità introdotte nella scuola milanese di mistica
fascista dal cardinale Ildefonso Schuster e dal fondatore dell'Università
cattolica del Sacro Cuore, il francescano Agostino Gemelli (confronta «Il
pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Milani). Tripodi, grazie
ad una profonda conoscenza della filosofia italiana tentò un audace confronto
tra lo storicismo cristiano di Giambattista Vico e la dottrina politica di Mussolini. L'affinità
del fascismo e della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è
causata dalle letture (Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune
tendenza a riconoscere che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che
razionalmente pone un principio, ma la storia delle attività di tutti gli
uomini che si svolgono come debbono svolgersi perché provvidenzialmente si
compia la socialità che ad esse è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su
Vico poiché «fu perenne nel suo spirito la distinzione tra la sostanza divina e
quella delle creature, tra l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle
cose create, come fu perenne ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se
ricercata nel mondo bruto della natura anziché in quello della storia, nella
quale la Provvidenza si manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della
divinità». Pubblicato e presto rimosso dalla censura di sinistra e dall'indifferenza
di destra, il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle
ricerche iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Emilio
Chiocchetti, Giorgio Del Vecchio, Francesco Amerio, Agostino Gemelli, Francesco
Olgiati, Santino Caramella, Francesco Orestano, Armando Carlini e Balbino
Giuliano) che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla
filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su Vico precursore
dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per
quanto concerne l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano,
riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano
non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di
sfondare quella parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il
monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli
inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa». Di qui il ribaltamento
della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di Vico quale
orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli apparenti
successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in nome della
genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo
all'idealismo. Né Gentile, né Croce, anche se il primo ha la camicia nera e
cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi
indica in Vico l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti
nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua filosofia
impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine,
costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana,
inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei
fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato
o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale
definita dal pensiero che l'aveva posta. La coscienza delle proprie virtù
creatrici della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa
prima di esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori
perché affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e
rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina
provvidenza». L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle
chimere del razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e
dell'amor fati, non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle
penetranti tesi formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema
della strategia culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori
dell'avanguardia cattolica (Giorgio Del Vecchio, Nicola Petruzzellis, Michele
Federico Sciacca, Augusto Del Noce, Francisco Elias de Tejada, Rocco Montano,
Francesco Grisi, Giovanni Torti) che nella filosofia di Vico vedranno lo
strumento adatto a contrastare e battere i poteri dell'astrazione hegeliana
trasferita, intanto, nella parodia inscenata dal gramscismo. La posta in gioco
era la corretta impostazione della dottrina del diritto naturale, in ultima
analisi la soluzione del problema riguardante il rapporto tra la giustizia
ideale e le cangianti leggi che i popoli producono nel corso della loro storia.
Dagli scritti giuridici di Vico, Tripodi trasse una indicazione che gli permise
di risolvere il problema senza nulla concedere alle dottrine storicistiche
contemplanti un pensiero dell'assoluto che evolve nel tempo: «esiste non una
separazione ma una diversa gradazione d'intensità etica tra giustizia e
diritto. La prima è un diritto naturale soprastorico, che è patrimonio
universale e depositario del sommo vero. Il secondo è dato dall'insieme delle
norme che il mondo delle nazioni partitamente elabora nel suo progressivo
avvicinamento alla giustizia». Di qui l'indicazione di due altri motivi del
consenso fascista alla scienza nuova: il fermo rifiuto delle astrazioni
suggerite dal contrattualismo e la confutazione delle teorie utilitaristiche,
che ritengono l'interesse materiale unica molla delle azioni umane. Nella
definizione del comune fondamento della teoria dello Stato, Tripodi sostiene,
pertanto, che nel pensiero di Vico come in quello di Mussolini la Provvidenza
fa prevalere la solidarietà sull'istinto egoistico: «la provvidenza ha il suo
più alto attributo nel senso della socialità che perennemente richiama agli
uomini, facendo loro vincere il senso egoistico per cui vorrebbero tutto
l'utile per se e niuna parte per lo compagno». Tripodi conclude il suo
ragionamento affermando che «l'unitario ordine di idee nel quale relativamente
alla concezione dello Stato si muovono la dottrina vichiana e quella fascista»
è dimostrato dalla condivisione del fine soprannaturale: «l'uomo trova nello
Stato l'organizzazione storica che gli consente di realizzare quei principi
morali conferitigli dalla divinità e con ciò di assolvere alla sua stessa
funzione trascendente di uomo». E' evidente che l'identificazione della
dottrina fascista con la filosofia vichiana era, per Tripodi, un mezzo usato al
fine rafforzare la convinzione sulla necessità, imposta dai dubbi destati
dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere con la cultura prevalente
in Germania e di condurre all'approdo cattolico le vere ragioni dell'ideologia
fascista. E' però incontestabile che le tesi di Tripodi erano un ottimo
strumento per estinguere l'ipoteca che la filosofia tedesca aveva acceso sulla
cultura italiana. Non a caso, nel dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima
fila nel gruppo degli intellettuali dell'INSPE (Vecchio, Costamagna, Ottaviano,
Marzio, Teodorani, Volpe, Sottochiesa, Tricoli, Siena, Grammatico, Rasi)
l'istituto che progettava la trasformazione del MSI di Arturo Michelini in
avanguardia di una moderna e rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata
da Pio XII all'evoluzione del MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano
le porte del futuro alla destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a
Genova nel luglio del 1960, doveva, infatti, approvare in via definitiva la
lungimirante linea culturale e politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti
dell'oligarchia favorevole all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai
democristiani) violenza della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel
congresso, respingendo il MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e
nelle magiche grotte del tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area
dell'indigenza filosofica impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando
la discesa in campo di Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento
nella politica di governo, la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica
almirantiana ed espropriata dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro
che le esangui e rachitiche tesi di Fiuggi. Nato a Genova il 22 giugno
1902 da Eleucadio e da Francesca Delfò, segui gli studi classici nella città
natale. Ancora liceale, cominciò a collaborare a Energie nuove di P. Gobetti,
con il quale aveva preso contatto epistolare, dicendosi lettore entusiasta del
periodico e seguace della dottrina filosofica crociana. Il Gobetti, ormai
orientato verso interessi più specificamente politici, affidò al giovane C. la
trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Su segnalazione del Gobetti,
Giuseppe Lombardo Radice cominciò ad accogliere i suoi scritti su L'Educazione
nazionale. In linea con l'orientamento pedagogico idealistico del
Lombardo Radice, fin dall'inizio degli anni Venti il C. prese le distanze dal
positivismo pedagogico con un contributo (Studi sul positivismo pedagogico,
Firenze 1921), nato proprio da un suggerimento del pedagogista siciliano che
nel dicembre 1919 glielo aveva proposto come tema di studio. È qui
osteggiato un pensiero ispirato agli schemi dell'evoluzionismo deterministico e
del positivismo scientifico; in particolare e avversato il meccanicismo
naturalistico biologicoevolutivo (Spencer e Ardigò), cui viene opposta la
concezione umanistica dell'educazione di un Angiulli, di un Siciliani, di un
Gabelli. Un'idea di fondo anima le critiche del C.: è inutile ogni speculazione
teoretica che non sappia apportare nuove indicazioni pedagogiche per il
miglioramento delle condizioni di vita umana, sociale e pratica. Nello
stesso orizzonte critico degli Studi si muovono Le scuole di Lenin (Firenze),
La pedagogia di Vincenzo Gioberti e la Guida bibliografica della pedagogia,
specialmente italiana e recente (ibid. 1923), che faceva seguito alla
Bibliografia ragionata della pedagogia (Milano) scritta in collaborazione con
il Lombardo Radice. Nutrito di idee democratiche, che gli facevano
ritenere inadeguato per l'obiettivo della costruzione di una "nuova
Italia" il vecchio quadro politico postunitario, il C. si impegnò
politicamente partecipando alla costituzione a Genova di un gruppo democratico di
sinistra, che aveva tra i leader Arturo Codignola. Collaborò sia all'Arduo, sia
al quotidiano socialriformista Il Lavoro. In particolare, tipico dei
gruppo di pedagogisti che, in certo qual modo, si ponevano nell'ambito del
pensiero gentiliano (verso cui anche il C. veniva avvicinandosi sulla scia del
Lombardo Radice, sia pure su posizioni autonome), è il tema dell'educazione
come strumento di realizzazione di una coscienza democratico-nazionale. Da qui,
anche per l'influsso delle idee gobettiane, l'attenta considerazione di quanto
veniva fatto in quel campo in Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione
bolscevica. In Le scuole di Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano
scolastico educativo diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla
considerazione che si trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia
dell'umanitàl tesa all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare
alla guida della società; la critica più forte, propria della formazione
laico-democratica del C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle
idee del Lunačarskij, quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non
era disgiungibile dal sistema sociale comunista e dal controllo politico del
partito. Conseguita la laurea in filosofia, ottenne presso l'università di
Genova la libera docenza in storia della filosofia e vinse il concorso per le
grandi sedi per la cattedra di filosofia, pedagogia ed economia negli istituti
magistrali, ottenendo come sede Genova. Frattanto la collaborazione con il
Gobetti, che più che un sodalizio intellettuale aveva costituito un formativo
comune impegno politico-sociale all'insegna del programma di democrazia
liberale, lo portò in breve tempo allo scontro con il fascismo ormai
trionfante. è la diffida dei prefetto di
Torino contro la Rivoluzione liberale (alla quale il C. collabora) e i suoi
redattori. La conferma di questo impegno politico e intellettuale, il C. la
offrì ulteriormente curando la pubblicazione postuma di Risorgimento senza eroi
(Torino) del Gobetti e continuando a far uscire IlBaretti, pur orientando la
rivista sempre più verso temi letterari e filosofici onde evitare scontri
ancora più aspri con il regime. Nel 1926, grazie al Croce, che ormai era
divenuto per lui - come per tanti altri antifascisti - "maestro di
libertà", assunse la direzione della collana "Scrittori
d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno fu costretto a
rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui era stato
invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di regime.
Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto il 21 apr. 1928;
rinchiuso prima nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi trasferito a S.
Vittore a Milano, fu scarcerato il 6 luglio dello stesso anno. Venne sospeso
dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le accuse - come si legge in una
lettera al Croce (in Il Dialogo, 1980) - erano tra l'altro di aver collaborato
"al giornale socialistoide-democratico Il Lavoro" di Genova e di aver
avuto rapporti con l'associazione antifascista Giovane Italia, insomma di
essere "in una condizione di incompatibilità con le direttive generali del
governo". Scagionato anche grazie all'intervento del Croce, il C. fu
riammesso all'insegnamento il 9 aprile e la libera docenza gli fu restituita
con d. m. Venne però destinato all'istituto magistrale di Messina, dove prese
servizio dal 16 settembre. Dall'ottobre di quell'anno ottenne l'incarico
di filosofia e storia della filosofia e di pedagogia presso il magistero dell'università
di Messina. Mantenne questi incarichi finché, nel 1933, vincitore di più
concorsi, fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia nell'università di
Catania. Passò alla cattedra di filosofia teoretica, conseguendo
l'ordinariato. Furono questi anni di studio intenso. Pur nel crocianesimo
di base, si intravvede in Religione, teosofia, filosofia (Messina) e in Senso
comune. Teoria e pratica (Bari) lo sforzo di plasmare un proprio e originale
impianto teoretico. In dialogo con i principali pensatori dell'idealismo tedesco
e italiano, il C. si misura particolarmente con la crociana logica dei
distinti. L'indagine si muove sul terreno dell'attività teoretico-pratica dello
Spirito. Particolarmente Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo
tentativo compiuto dal C. per una revisione del sistema idealistico: vi è fatta
emergere l'esigenza di un pensiero spirituale più attento da una parte alla
concretezza dell'uomo e dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale
assunto, nella ricerca di un ordine della verità oltre la logica e la nozione
di storia del Croce, il C. ripercorre in Senso comune le tappe storiche del
pensiero occidentale, ricostruendo la genesi della dualità dello Spirito nella
filosofia greca e poi seguendola nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi
nel pensiero moderno. La concezione della filosofia come educazione e storia,
la stretta connessione tra la filosofia e la sua storia pongono il C.
medianamente tra il Croce e il Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura
indipendenza dal loro pensiero. La sua posizione teoretica può essere così
schematizzata: la teoresi è fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica
dei distinti, mentre la prassi genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi
dei distinti non è un tertium quid da essi distinto, ma consiste nella loro
stessa inscindibile relazione. La loro circolarità consente, come riaffermerà
in Ideologia (Catania), di guardare alla pratica come alla realizzazione della
teoria, così che si può parlare e di un finalismo teoretico della pratica e di
un finalismo pratico della teoria. All'approfondimento critico dei
neoidealismo italiano, il C. affianca l'approfondimento del rapporto tra
ricerca filosofica e fede religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra
filosofia, scienza e fede nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia
(Catania), Metalogica: filosofia dell'esperienza, Metafisica vichiana
(Palermo), in cui è auspicata la possibilità della sopravvivenza del problema
metafisico nell'orizzonte di una metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica.
In quest'ultima opera è affrontato il rapporto verità-conoscere, con l'intento
di delimitare i confini del sapere scientifico e di affermare razionalmente la
capacità di intelligere la realtà della rivelazione. Qui la religione, anziché
risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il
progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione della
religione ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferita una distinta
funzione teoretica. La piena adesione del C. allo spiritualismo cristiano,
dunque, fa si che sia elusa la riduzione della filosofia a metodologia, senza
dover rinunciare alla fondamentale esigenza di criticità, e che l'interesse si
concentri su quelle istanze spiritualistiche, invero in lui presenti dagli anni
giovanili sia come atteggiamento di vita - lo si evince dalle Lettere dal
carcere - sia come ricerca originale di pensiero. In tal senso, l'adesione allo
spiritualismo cristiano va dunque letta più nella prospettiva della continuità,
dinamica e perciò trasformantesi e trasformante, che in quella della
svolta. Durante la sua lunga e proficua attività accademica, il C.
ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside della facoltà di lettere e
filosofia dell'università di Catania; fu presidente di sezione del British
Council di Catania e presidente di sezione della Società filosofica italiana a
Catania e a Palermo; fu anche presidente di sezione dell'Associazione
pedagogica italiana. A Palermo si era stabilito definitivamente allorché venne
chiamato prima alla cattedra di pedagogia e poi a quella di filosofia teoretica
presso la facoltà di lettere e filosofia. Il C. morì a Palermo. Opere:
Per un elenco completo si rinvia a Bibliografia degli scritti di S. C., a cura
di T. Caramella, in Miscellanea di studi filosofici in memoria di S. C. (suppl.
n. 7 degli Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo), Palermo. Oltre
alle opere citate ci limitiamo a ricordare qui: E. Bergson, Milano 1925;
Antologia vichiana, Messina, Breve storia della pedagogia, La filosofia di
Plotino e il neoplatonismo, Catania; Autocritica, in Filosofi italiani
contemporanei, a cura di Sciacca, Milano L'Enciclopedia di Hegel, Padova; La
filosofia dello Stato nel Risorgimento, Napoli; Introduzione a Kant, Palermo La
pedagogia tedesca in Italia, Roma; Pedagogia. Saggio di voci nuove, Fonti e
Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Casellario politico centrale, Per
l'epistolario del C. contributi in: Lettere dal carcere di S. C., in Giornale di
metafisica, Carteggio con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, Carteggio Lombardo
Radice-S. C., a cura di T. Caramella, Genova. Vedi inoltre: M.F. Sciacca,
Profilo di S. C., in Annali della facoltà di magistero della università di
Palermo, Di Vona, Religione e filosofia
nel pensiero giovanile di S. C., Conigliaro, Verità e dialogo nel pensiero di
S. C., in Il Dialogo, Guzzo, S. C., in Filosofia, Sciacca, Il pensiero di S.
C., in Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo, Sofia, Il dialogo
di S. C. con gli uomini d'oggi, in Labor, Cafaro, Commemoraz. di S. C., in
Nuova Riv. pedagogica, Piovani, La dialettica del vero e del certo nella
"metafisica vichiana" di S. C., in Miscellanea di scritti filosofici
in memoria di S. C., Palermo Ganci, S. C., Raschini, Commemoraz. del prof. S.
C., in Giornale di metafisica, Brancato, S. C.: senso fine e significato della
storia, Trapani 1974; V. Mathieu, Filosofia contemporanea, Firenze 1978, pp.
8-10; P. Prini, La ontologia storico-dialettica di S. C., in Theorein,
Pareyson, Inizi e caratteri del pensiero di S. C., in Giornale di metafisica,
Corselli, La vita dello spirito nella filosofia di S. C., in Labor, Raschini,
Storiografia e metafisica nella interpretazione vichiana di S. C., in Filosofia
oggi, V (1982), pp. 267-278; M. Corselli, La figura di S. C., in Labor,
Sciacca, S. C. filosofo, pedagogista, educatore, in Pegaso. Annali della
facoltà di magistero della università di Palermo. δικά , ώς φησιν
Ηρακλείδης ο Ποντικός εν τω περί Ερωτικών. ούτοι Φανέντες επιβουλεύοντες
Φαλάριδί,Chariton& Melanippus και βασανιζόμενοι αναγκαζόμενοί τε λέγειν
τους συν- confpirant . ειδότας,ουμόνονουκατείπον, αλλά καιτονΦάλα- adν.Ρhala
ριν αυτόν είς έλεον ' των βασάνων ήγαγον , ως α π ο λύσαι αυτουςπολλά
επαινέσαντα. διοκαιοΑπόλ. λων, ησθείς επί τούτοις, αναβολην του θανάτου το
Φαλάριδίέχαρίσατο, τούτοέμφήναςτουςπυνθανομέ νουςτηςΠυθίαςόπωςαυτόεπιθώνται
έχρησέτεκαι cπερί των αμφί τον Χαρίτωνα , προτάξας του εξαμέ τρου το
πεντάμετρον, καθάπερ ύστερον και Διονύσιος 'Αθηναίος εποίησεν, ο επικληθεις
Χαλκους, εν τοις Έλεγείοις. έστιδεοχρησμόςόδε ετε -- Ευδαίμων Χαρίτων και
Μελάνιππος έφυ , θείαςαγητηρες έφαμερίοιςφιλότατος. 1 Perperamέλαιονms.Εp.&
moxαπολαύσαι1ns.A.proαπολύσαι. α > 737 Σ 2 Alibi άγητήρες. 2 amasius, ut ait
Heraclides Ponticus in libro de A m a toriis. Hi igitur deprehensi insidias
ftruxisse Phalaridi & tormentis subiecti quo coniuratos denunciare coge
rentur, non modo non denunciarunt, fed etiam Phala rin ipsum ad misericordiam
tormentorum commoverunt , ut plurimum collaudatos dimitteret. Quare etiam Apol
lo,delectatusfacto,moram mortisindullitPhalaridi,hoc ipsum declarans his qui
ipsum de ratione, qua tyran num adgrederentur,consuluerunt:atqueetiamdeCha
ritone & Melanippo oraculum edidit, in quo pentame ter praepofitus hexametro
erat; quemadmodum etiam pofteaDionysiusAthenienfis, isquiAeneuseftcognomi natus
, in Elegiis fecit. Erat autem oraculum hocce : > Felix & Chariton &
Melanippus erat, mortalium genti auctores coeleftis amoris. Santino
Caramella. Keywords: il culto dell’eroe, gl’eroi, il culto degl’eroi, Niso ed
Eurialo, Nicodemo, gl’eroi di Vico, “la verita in dialogo”, soggetto,
intersoggetivita, lo spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi, Apollo su
Nicodemo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramella” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Caramello – interpretare –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo Italiano. Grice:
“I love Caramello – he exemplifies all that I say about latitudinal and
longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and Caramello has
dedicated his life to him!” Studia al prestigioso
liceo classico Gioberti di Torino, entra in seminario e riceve l'ordinazione
presbiteriale con una speciale dispensa papale dovuta alla giovane età a cui aveva
completato gli studi. Si laurea a Torino. Insegna a Torino, e Chieri. Studia e
cura Aquino. Praemittit autem huic operi philosophus
prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et
quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem
compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de
enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet
constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco
habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes
definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones.
Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia
ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis autem quaerat, cum in libro
praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum
de nomine et verbo determinaretur; ad hoc dicendum quod simplicium dictionum
triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute
significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum
praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes
enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub
ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum
tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem
dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur
secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de
eis sub ratione terminorum in libro priorum. Potest iterum dubitari
quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo
determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione
determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet,
ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et
verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his;
et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola
nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim
comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen
determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod
consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero
sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad
aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes
navis, sed partium navis coniunctiones. His igitur praemissis quasi
principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem,
dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes:
non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem
enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes
subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem
manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam
et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et
negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis
componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel
potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam
veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste
principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione:
quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam
veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum
de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio,
quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus
enunciationis. Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius
mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad
considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in
ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus,
sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad
constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse
praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est
enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum
quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum.
Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit
affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad
partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum
quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse,
prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat
affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul
natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus
accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum,
sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum
de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de
quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit
significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum
complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum;
secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex
impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera. Est ergo
considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur
quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus
intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic
passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset
naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis
rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt
diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo
uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris
animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo
conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt
in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia
logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est
immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce,
notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum
praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi.
Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione
intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione
litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba
et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes
voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter,
quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut
appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in
voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est
quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana,
quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad
designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce,
ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod
dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones
animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira,
gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod
huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus
infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est
de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones
animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et
orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim
potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi
apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a
singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem
singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis
separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter
secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit
Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et
eis mediantibus res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones
intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum
non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones
animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus
passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod
non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de
anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem
receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est,
ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam
intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel
odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum
etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum
quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.
Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione Scripturae:
et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per
modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce sunt signa
passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per
sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi
signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per
hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae.
Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in
voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam in prolatione et
Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur
litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed
quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam
narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod
Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam
enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce, sunt signa eorum quae
sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa
sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde cum dicit: et
quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum
significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum
naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam
signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant.
Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem
litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc
quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum
ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per
artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit,
utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine
litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde
manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter
significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter
significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud
omnes. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae
naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde
dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum
primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae,
idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad
secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae
passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum
rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est
quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae
similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo,
quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem
vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces
passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio
institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In
passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas
res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem
quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas
significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas
sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae
passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones
animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius
conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non
intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod
componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest
essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices
intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem
apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud
aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem
simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde
dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et
ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad
primas conceptiones a vocibus primo significatas. Sed adhuc obiiciunt
aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio,
quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo,
qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert;
et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur,
se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est
quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per
comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces
sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum
animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.
Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum
consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem
significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam
significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo,
praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim
et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae
vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine
differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa
significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili,
sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo considerandum quod,
sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in
III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem
invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine
vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia
voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad
hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum
significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam
autem cum vero et falso. Deinde cum dicit: circa compositionem etc.,
manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu;
secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi:
nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus
quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo
quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet
intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium
intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei
quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel
quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod
huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac
secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur
veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut
etiam traditur in III de anima. Sed circa hoc primo videtur esse dubium:
quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur
quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione.
Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt
similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum;
in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si
consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio,
ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc
quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad
rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio
quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens
coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem,
quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et
per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum
coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum
significat rerum separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in
compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res
dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam
quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio
intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate.
Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et
summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et
divisionem. Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas
in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio
modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in
eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente
vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem.
Quod quidem sic patet. Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum,
est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit
per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem
sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines.
Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno
quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad
intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum
quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem
naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut
posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in
hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent
simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur
tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum,
non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt
facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum
verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut
mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum.
Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis;
falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Et quia omnia etiam
naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem,
consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam
formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum
aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res
naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I
physicae, formam nominat quoddam divinum. Et sicut res dicitur vera per
comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius
mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam
conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii
sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est
absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima.
Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non
tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem
conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest
huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus
potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod
veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere
autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita
esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus
non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et
intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est
absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster
intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu,
consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur
intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album
dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed
postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est
instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem
factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam
intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se
positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est
instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis:
quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita
compositio, licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc.,
inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex
hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus,
et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam
conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel
falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium
intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus,
quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel
secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed
secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem
utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo
statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit
verum vel falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine
significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus
significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est
subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia
subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa
enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo
facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis,
scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale,
scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine,
quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat
actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod
consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen;
secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.;
tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non
homo vero non est nomen. Circa primum considerandum est quod definitio
ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil
rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid
aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. Et ideo
quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per
quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus
ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima.
Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam
quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata,
sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo
factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex
praemissis concludit quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit
quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus
institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex
natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est
signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret
quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in
vas. Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex
parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae
artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut
concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni
subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant
quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum
autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi.
Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione
ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut
cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium
significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus,
convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus,
ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox
significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi
significantia ipsas formas artificiales in abstracto. Tertio, ponit
secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum
institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt
nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et
voces brutorum animalium. Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet
sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia
hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria
possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam,
et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest
considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod
primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et
passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum
tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen
et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum
secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo
verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen.
Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod
significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto,
ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa
separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis
secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma
nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab
homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione,
cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum
dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et
primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi:
secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex
praemissis; tertia autem particula, scilicet sine temporeit, manifestabitur
in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat
propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter
nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera. Manifestat
ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita,
in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars
ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus
ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum
simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad
significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a
laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum
conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur
ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis
compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam
conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis
compositae. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc
differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se
habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus
pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum
apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet
significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus.
Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad
significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab
aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita
conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. Deinde
cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae
definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum
placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod
significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est
quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id
enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc
significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris
significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam
animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis
proprias passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est
nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat
naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam
opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant:
nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina
omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines
rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad
hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit;
quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit
naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus
significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex
diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est
autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium
non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus
leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum
est. Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis
ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem
vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim
nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam
determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod
dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat.
Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non
ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum
natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum
natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a
privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a
negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt.
Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari,
requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum
tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est
oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus
compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia
huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et
ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter
indeterminationem significationis, ut dictum est. Deinde cum dicit:
Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis
vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur
principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid
significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi
cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo
quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici
sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et
dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum
stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur. Deinde cum dicit: ratio
autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad
nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis,
scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum
hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non
contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo:
quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis
significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus
verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet
Socratem. Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina,
inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed
dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero
significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod
praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil
determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum
placitum instituentis, ut dictum est. Postquam philosophus determinavit de
nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit
verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et
non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa
quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit
definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat
et cetera. Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens,
non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia,
relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis.
Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum
a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim
in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero
particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur:
cuius pars nihil extra significat. Sed cum hoc etiam positum sit in
definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum
est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in
definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae
componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam
quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est
moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi
iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in
qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam
videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam
nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo
oportuit iterari. Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum
non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde
dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum:
quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et
praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur
habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte
subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba
infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in
Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut
et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam
quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel
passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in
abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio,
passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut
scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic
significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia
etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu
et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae
significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba,
ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.
Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando
in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in
tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius
significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam
vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis
partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum
dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et
primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum
ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit:
et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars
extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis.
Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia
videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per
modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro
vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium
est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum
est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore
mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam,
quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non
convenit nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit
aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis
significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum
actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte
praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut
dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero:
tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni
praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua
praedicatum componitur subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut
eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de
subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto
autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo
verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est
ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur
in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem
pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed
quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare.
Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota
eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi
significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur
magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur,
magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper
est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum
ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive
accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc.,
excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba
praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit
ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est
enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod
praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius
quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non
proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper
ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio
reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem
vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae
dictiones significant remotionem actionis vel passionis. Si quis autem
obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba;
dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto.
Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta
ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a
verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis
conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba
infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter
potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio
apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim
supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis
negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero
negativa in vi duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem curret
etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut
verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri
temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt
casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens
tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem
signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur
praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec
actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem,
quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae
consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta:
cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie
verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati
simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum
quid. Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter
casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum
dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens,
futurum autem quod erit praesens. Cum autem declinatio verbi varietur per
modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam
non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed
ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam
actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel
optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis.
Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque
sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit
convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et
cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a
quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive
sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi;
ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis,
quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est
quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem
impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est
quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant
agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem,
prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet
potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari.
Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per
hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non
significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et
cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in
quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces
significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est
quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum
quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum,
constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod
ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio
perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se
dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere
velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum
est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui
dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam
operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit
audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius
prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam
operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel
nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. Et
ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum
significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi.
Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa
verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet
ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum
neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde
multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis.
Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc
consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non
esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet
esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non
esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat
hoc totum, scilicet rem esse vel non esse. Et hoc consequenter probat per
id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum
quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum
nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non
significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius
esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit),
quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per
se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius
significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non
est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur
proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur
de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil
significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam
accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem
praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat
naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat
quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem,
quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur
dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset
neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo
aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest
non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit:
consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit,
consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed
consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem
significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc
commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse
secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam
speciale. Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod
ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum
ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest
non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens:
quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per
hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens
significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul
dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in
hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in
quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis
non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit
veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent,
planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse,
probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid
esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam,
et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare
compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa
compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine
componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non
apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse
verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat
enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam
est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum
verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est
communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis,
inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter
inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter
vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid
autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat
compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae
sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc
determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus
eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem
orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit
errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera. Circa primum
considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud
in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox
significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo
quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat
ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem
frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio
orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum
significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et
verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra
enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed
solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius
pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est
significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se
non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed
quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum
compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio
competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde
subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid,
ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc definitionem
Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt
enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut
puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc
respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius,
debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei,
puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est
in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde
est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici,
secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde
debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et
compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit
soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum
dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et
compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc
non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit
affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod
significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem
redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper
differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne
dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut
dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii,
non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus
autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis
daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi
alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo
secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur,
quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam
tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et
membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus
quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi
autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et
huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad
orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet
partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam
imperfectae. Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit
propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo,
excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera.
Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut
hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat
ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico
non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius
additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum.
Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et
posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit
affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis
syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur
ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid
partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius
dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem
pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate
constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis
vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis
est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba.
Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se
significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se
significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis
sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim
quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet
simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in
quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem
est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid
significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus,
idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione
nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum
quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt
huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est. Deinde cum
dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui
dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum.
Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse
naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem
interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia.
Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa
interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens
operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana
significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod
omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet
naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et
pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio
significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et
voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex
humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam
non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed
supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis,
sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem
corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur
ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo
ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis
non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis
enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars
haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de
diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi
adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio
et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit
enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc.,
in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est
enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem
enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio
ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit
quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem
relinquantur. Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit
instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum
rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo
fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis
significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est:
duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et
falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem
enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis
oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est
quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc
quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in
hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit
definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum
est. Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo
intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in
mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut
dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera
vel falsa est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod
per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de
orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum,
quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod
perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum.
His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet
sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa,
interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen
vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis
significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum
provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est
vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum
autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia
ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel
falsum. Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso
veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum
conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per
enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent
aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia
diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo
quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad
respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad
exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non
significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed
quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur
verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de
rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur
verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam
vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et
optativa ad deprecativam. Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur
etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae
quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem
intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae
scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio
est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod
intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones
audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur
provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et
ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem
audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae,
ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout
consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit
enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit
divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et
cetera. Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio enunciationis est quod si
enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem
affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra
posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est
signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa,
quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam
particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae
significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat
divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam
non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex
parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est
negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est
privatione. Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est
affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima,
subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa,
ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit
quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. Ex
hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in
affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio
nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de
novem generibus accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod
commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem
generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per
unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter
hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione
entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis,
quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam
rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem
enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua
verum vel falsum est. Deinde cum dicit: necesse est autem etc.,
manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod
enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat
secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel
negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum;
secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.
Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet
constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est
praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in
enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc,
quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam
enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam
est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est,
quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid
huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio
enunciativa. Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex
nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod
tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa
invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine
nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur,
currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est
nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars
enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur
apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a
forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de
parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica
dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel
negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod
affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et
adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel
verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit
tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una
simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod
illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit
per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat
compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum
est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens
intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi:
quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem
propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est
definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis
definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii.
Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius
assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per
se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per
formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex
forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia.
Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut
scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae,
idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non
interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si
interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret
primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur
interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem
definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et
interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit
medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad
unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis
servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam,
homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod
absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam
importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et
est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad
materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad
manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis
unitatem manifestat per modos pluralitatis. Dicit ergo primo quod
enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel
una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est
intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant
et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione
proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis. Circa quod
considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis
refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas
voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine
et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est
etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed
tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale
mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae
quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione
est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen
multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia
plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est
pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in
praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta
si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures
enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam,
Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod
enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex,
sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur
quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio,
vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si
vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura
significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia
ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum;
ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit. Sed haec expositio
non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per
disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum
significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra
dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem
est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo
melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam
enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae
sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum,
sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda
una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura
nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa
significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc,
haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi
coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum
significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit
quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est,
quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem
aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est
sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen
haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius
est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat
quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis.
Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura
significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus
pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod
secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae
non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae
est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et
non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam
quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est
simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in
quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque
significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles
quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia
plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen
multa significans. Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit
ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est,
quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum
significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum
subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non
enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad
significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola
manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid
significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum
innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad
interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus,
magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut
cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum
nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo
interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante,
sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel
verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum
significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel
verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in
interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister,
subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo
non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut
nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra
praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi.
Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam
divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae
unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem
huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et
compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus
dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel
quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet
unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel
verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum
compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex
his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam
composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo
praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum. Deinde
cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem
enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et
negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex
consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum
rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox
significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non
est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum
praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc
habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti. Alexander autem
existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in
definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat
hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia
species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce
praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum
commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur.
Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed
per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum
unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et
negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod
enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis
speciebus. Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter
utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et
negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet
per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet
per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad
notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo
breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod
dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem
enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis
non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa,
sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium,
quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod
non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio
in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet
significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius
enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos
utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et
negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis
non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur
significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit
proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non
definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum
dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua
quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione.
Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non
in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis,
hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et
negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel
falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo,
movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo
quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una
opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in
duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis
absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex
parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso;
secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit
hoc contradictio et cetera. Circa primum considerandum est quod ad
ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem
enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum
quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet
enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non
esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas
et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel
non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio
falsa. Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum
permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re
enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta
cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur
aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum
dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod
in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus
est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod
pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus
autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas
negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est,
scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam
cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit
affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum
dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit
negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non
est, scilicet in rerum natura, non esse. Non est autem intelligendum quod hoc
quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel
non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit
vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est
albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens.
Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in
propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam
inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri
temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel
ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet
variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus,
idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu
praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. Et quia ita est,
contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit
affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari
nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non
est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod
affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita
sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod
quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius
contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret
aliquid, quod negatio negare non posset. Deinde cum dicit: et sit hoc
contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et
negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi:
dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur
negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur
contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur
intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni
affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem
opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est
oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem,
quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem
opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et
praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et
negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non
disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem
subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est
contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non
solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit
idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter
autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim
supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non
autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae
facit aequivocationem. Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda
ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et
negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod
affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor
considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est
contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede.
Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio
si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur,
ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit
diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio
si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non
pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si
dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec
omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest
determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates,
idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus
plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia philosophus dixerat oppositionem
affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem,
consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et
negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit:
primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam
differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si
ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae
sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo,
dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum,
ibi: necesse est enunciare et cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen
vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum
simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis
distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia,
quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo
quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus
praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed
de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est
universale, Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc
divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non
est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae
substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur
esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res
videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod
hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in
enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi
mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur
secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus
intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione
alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est
proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in
quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum
aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut
rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod
convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur
significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est
commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale,
quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est
communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute
secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum,
non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem,
puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem
Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel
de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem
intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de
anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit
autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei
quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid
accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus
remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol,
non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae
ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non
dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum
est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in
materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter
potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum
praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod
terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod
significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod
nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod
per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in
materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus
dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit
Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato
est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur
hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse
enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo
intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de
pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus
inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen
Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia.
Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia
materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed
aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit
divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re;
rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod
quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium,
quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et
est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et
cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor
modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a
singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum
sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest
ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato
aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod
homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim
intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum
quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur
aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu
ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad
esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si
dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae
etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior
est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non
sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc
modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur
universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem
ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad
essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum
dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur
ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid
quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari
autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in
apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno
solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est
animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat.
Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit
affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio
enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum
quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est
divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic
enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum.
Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae
quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam
praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis
enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem
enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia
significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur
secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo,
et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas
consequitur materiam. Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc.,
ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem
subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum
in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones
diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile
est et cetera. Circa primum considerandum est quod cum universale possit
considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis
singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum
est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam
dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod
aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab
omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant,
ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum
praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato,
qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas
determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali,
prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra
singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et
similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in
singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt
quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic
accepto. Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur
universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari
de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in
qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa
est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto
universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem
praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod
praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur
sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi
nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo
praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel
removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem
adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod
praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed
quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam
indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In
negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis;
ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur,
non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat,
in quantum excludit universalem affirmationem. Sic igitur tria sunt
genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem
est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur,
omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali
particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua
aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel
particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem
autem sunt negationes oppositae. De singulari autem quamvis aliquid
diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad
singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur;
et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid
praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est
homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. Si igitur tribus
praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis
ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis,
indefinitus et particularis. Sic igitur secundum has differentias
Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo,
secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum
differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum
universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando
autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero
quod et cetera. Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto
universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis,
quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae
enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus.
Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non
enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod
est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum
extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc
enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis
homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum
dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc
remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem,
quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis.
Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. Deinde cum
dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et
negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo,
manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.;
tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et
cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid
vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed
illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem
non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non
dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim
intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc
manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non
universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et
rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est
universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non
apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum
universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto;
et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo
dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat:
quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt
contrariae. Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse
contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a
diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad
contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi
enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus,
homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se
tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse
falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione
significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad
propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et
falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus
enunciationibus dici. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad
contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de
subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est
albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non
est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a
subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut
cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei
privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est
videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel
etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic
igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae
enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non
sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid
sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc
videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate
rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur
hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in
indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur
subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter
(quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi
enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur.
Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta,
cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non
apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est
animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si
diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum
dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim
posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod
universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset
aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc
scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non
universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur
aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter.
Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi
videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in
enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis
enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod
universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum
habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando
universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad
aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem
determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare
convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim
dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et
similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid
album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum
praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc
praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei,
sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio
potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum
in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter
praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla
affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter
praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter
praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim,
secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso
continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non
potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si
praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo
esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis,
quod accipitur sub universali. Nec est instantia si dicatur quod haec est
vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non
praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati
si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae. Signum autem
universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur
ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte
praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse
veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est
vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in
quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales
enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae
habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae
aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per
hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit
intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus
determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes
ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando
universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex
oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo
tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi:
contrariae vero et cetera. Particularis vero affirmativa et particularis
negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur
circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale
particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid
affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et
negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et
negationis, secundum praemissa. Dicit ergo primo quod enunciatio, quae
universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei,
quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa,
altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis
negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis
homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis
negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et
nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est
signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est
particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis
negativa), sunt contradictoriae. Cuius ratio est quia contradictio
consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem
affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex
necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest
nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis
affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod
universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et
particulari affirmativae universalis negativa. Deinde cum dicit:
contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit
quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut,
omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat
extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc
pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et
negativa se habent sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit:
quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio
oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum
ad contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio,
quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem
in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa
et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non
possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul
possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc.,
ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod
considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non
plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno
modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum
est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate
refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec
potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis
affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate
praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium
universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum,
semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse
simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur
esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse
quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum.
Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se
habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non
sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat
propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod
facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera.
Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis
propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum
subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio
et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod
quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter
sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed
possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et,
homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus. In
quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod
indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant
primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in
ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id
quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam
particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam
pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit,
dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut
universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod
indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt
quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro
universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res;
et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes
non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur
pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat
privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in
Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia
non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita
semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori,
non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere
affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote
particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis
negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est
potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius
etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen
adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro
particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest
aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde
sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod
designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae
sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas
particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia
similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel
ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis
pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et
utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de
universalibus praedicantur. Deinde cum dicit: si enim turpis est etc.,
probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt
quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera.
Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit
negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio
potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem,
sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus,
idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista
affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per
eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi.
Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad
hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt
simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae,
homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur
secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et
fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in
permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis,
quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam
homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est
vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae
sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. Deinde cum dicit:
videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et
dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod
dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare
cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque
idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis
manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in
enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio
opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una
negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi:
una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio,
epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo
primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc
quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum
genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut
huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec
negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed
si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est
sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex
sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero
negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae,
in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in
quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet
quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio
affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare,
sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed
hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod
affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola
negatio. [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 4 Deinde cum
dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in
singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur,
Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud
praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino
diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates
est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates
non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est
universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est
albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae
aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis
subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic
affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio,
nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis.
Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite
sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam
propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. [80426] Expositio
Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra
dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita
affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita
affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc
dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur.
Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et
concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una
negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae,
aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de
subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est
etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large
contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in
his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare
autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia
scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul
esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et
ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est
vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt
contradictoria. Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit
quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum
est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua
aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa
sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas
enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas
enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali,
cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per
multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et
cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum
significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et
exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo
est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet
non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine
autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum
sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola
multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis
propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia
praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se
divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. Deinde cum dicit: si
vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem
enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil
enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his
et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex
quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non
fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa
continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen
animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad
invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad
excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis,
sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint
partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus.
Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem
enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum
aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit
tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam,
canis est nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod
dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et
equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio
una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali
ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur,
tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed
istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures
enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si
significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et
equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae
componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica
est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum
ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est
albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est
alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa;
alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum
rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et
multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non
invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum
dicitur, tunica est alba. Deinde cum dicit: quare nec in his etc.,
concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae
utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam,
quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam
philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo
dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod
poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter
inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem
divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem
enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione
una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est
affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt,
qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta
divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa.
Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in
enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter
praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel
negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra
quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter
praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis
negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et
sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa
in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae
etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus,
in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse
quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul
verae, ut supra ostensum est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad
propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus
enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad
oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter
sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae,
ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In
materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt
falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et
praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in
praesentibus vel praeteritis. Sed in singularibus et futuris est quaedam
dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera
oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in
singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit
vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem:
nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in
futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen
Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad
singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel
repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc
igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus
de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum
sit vera et altera falsa. Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc.,
probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat
propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia
quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper
potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod
non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et
cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam
consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est
quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit:
quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco,
probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum
unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat
hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod
in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel
affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum
dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus
propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et
negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse
est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse
vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter
consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re.
Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod
album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare,
ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re
vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et
eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum
dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel
negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat,
sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius
rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in
singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans
vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne
necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio
determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc
concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus
contingentium excluditur. Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae
accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia
scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt
ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in
senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent,
nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam
permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad
productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae
sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se
habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum
sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo
enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum
dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit,
iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde
et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non
incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere
potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius
incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non
determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici,
neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad
utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio
vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille
qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse
aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret,
et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus
non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione.
Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum
enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo,
quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur
per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod
est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori
parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam
rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si
enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris,
sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo
modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de
aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album,
erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in
propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit
album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta
sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel
de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid
vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri,
ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti
vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod
non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et
quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri,
ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae
futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque
ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex
necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo
et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit
determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est
aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in
seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est
futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem
contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex
ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest
dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet
inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc
determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest,
hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa
pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud;
unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod
sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero neque
quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris
utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est
verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non
est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit,
neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum
duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum
et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum
quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam
esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in
singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc
autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit
quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae
sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi;
ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia
inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit
ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia
sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate
esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in
universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed
omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo
inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari:
probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex
necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse.
Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter
aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt
superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non
operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea
intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis
finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. Deinde cum
dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur
ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta
inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem
inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et
cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando
nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc
aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur,
alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio
determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit;
ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in
omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at
vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non
ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno
affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se
habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter
nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit:
quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius
e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc
agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante
quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat
veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere
diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse
sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic
se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat
per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non
futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal
rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici,
scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc
dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea
quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et
accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in
praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.
Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta
esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia;
ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo,
ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et
quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse
impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse
principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et
in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si
removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia
philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec
comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad
bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo
philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum;
non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit
aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus,
quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu
moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod
supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic
etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex
necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit
idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse
quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse:
alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est,
incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album,
incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non
ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et
non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura
possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non
esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit
propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est
quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte
agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile
est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra
probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem
contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam
exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque
possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter
concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in
potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed
eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem
quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in
pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit
vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus. Est autem
considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et
necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea
secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam
erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit,
quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora
prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi
quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile
vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur
esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid
est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est
necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori
et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet
impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et
ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur
illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse;
impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod
ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad
alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad
utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est
sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et
contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi,
in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque
oppositorum. Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in
corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et
non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa
ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde
dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur,
non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae
activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit
determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex
necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo. Hoc igitur
quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus
naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam
dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione
causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa
autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit,
multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis;
et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed hanc rationem
solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum
assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud
quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie
non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse
musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse
musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter
etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum
poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius
effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis
lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Si autem utraque
propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex
necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum
(qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in
aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est
in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est
effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum
effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum:
si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse
est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque
praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt autem
quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se,
et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non
attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit
ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui
subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per
accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per
se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non
habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum
proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V
methaphysicae dicitur. Quidam vero non attendentes differentiam effectuum
per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius
provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium
corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim
positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus
quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se
et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive
ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut
probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus
seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis
potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum
sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium
corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem
hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum
differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad
intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur
viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non
inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas
concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum.
Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae
per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus
effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id
autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam
virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per
accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est
una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus
dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in
corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia
scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum
se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum,
cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter
agentem. Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab
intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se
non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo
format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per
accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem;
sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis
quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se
intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi
occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo
aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem
providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui
stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri,
qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et
velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit
omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem
ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem
cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem
appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod
aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est
bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit
sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per
intellectum agens. Sed si providentia divina sit per se causa
omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex
necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest
eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit
evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non
potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.
Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et
operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum
tamen multo dissimiliter se habeant. Nam primo quidem ex parte
cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum
ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine
temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem
temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum
philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est
prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi
homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine
transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus,
in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et
ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos
praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset
aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri
constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via
existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione
scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum
alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per
se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet
adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius
cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo
praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter
perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non
cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem
temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui
subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et
ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et
unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum
quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et
ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque
eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem
sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem
sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad
effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem
sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est.
Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia
quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt
ex necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae.
Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia
omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo
oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit
contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non
omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem
aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus
consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in
eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum
voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod
sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei
quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens
semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per
consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod
similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem
quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia,
quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se
nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse
falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones
demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus,
postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem
sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod
possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus
non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis
inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est
propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et
huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam
necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt
appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad
principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua
bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent
ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et
forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed
particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub
ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta,
comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde
moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas
non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus
signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte
consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In
his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in
III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas
hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere.
Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis
rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et
circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab
enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res
sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas
circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare
quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas;
secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi:
et in contradictione eadem ratio est et cetera. Dicit ergo primo, quasi
ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet
omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet
quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse
est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium:
impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est
illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non
esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et
similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse
est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod
omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non
esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed
ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod
est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non
idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne
ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex
suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de
esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex
necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et
per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his,
quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum
determinate esset futurum. Deinde cum dicit: et in contradictione etc.,
ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem
ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in
suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit
necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita
etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem
oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum
sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc
principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde
impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non
esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute.
Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum
cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras;
similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad
necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit
futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.
Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit
qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se
habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo,
finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et
cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae
ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non
est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita
se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod
contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive
alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat
contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum
contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper
sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum
enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione
altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa
determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars
contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in
pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate
sit vera vel falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est etc.,
concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non
est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet
veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt,
sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum
est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum
et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse.
Et sic terminatur primus liber. Postquam philosophus in primo libro
determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de
enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt
autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae
praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina
et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in
enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius
enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima,
ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in
subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod
aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi:
his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa
oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici
enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem
considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit
unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis
infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid
accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem;
secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente
unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit:
primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum
vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de
enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex
parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium
adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam
distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem;
ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit
rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod
non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum
autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi
enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.;
tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. Resumit
ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet
affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est
proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo
aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum;
et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum
subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una,
de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum,
sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis
remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non
enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam
formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat
negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam
uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde
sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid,
idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est
unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet
unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. Deinde cum dicit:
erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus
affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo;
quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex
hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel
est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte
negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in
primo habitum est. Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod
differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra
quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter
nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis
infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum
verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per
additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest
extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini,
removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi
verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed
quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet
verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex
parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur
compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione
positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas
enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut
faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum
quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est
differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non
constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum
est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi
includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae
significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur,
hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est
praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo
subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter
ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non
universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus,
in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia
singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi
enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam
praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter
ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto
universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex
parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in
extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant
praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam
philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas
enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti
et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi
enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent;
ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit
de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de
enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et
cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum
triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum;
secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi:
similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen
infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium
enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem;
ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et
cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit
quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet
intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens
praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est
quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates
est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in
rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale
praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum
subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut
asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante
hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali
praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia
est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato
facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in
tres. Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando
est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur
oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus,
in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum
erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter
sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando
est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto
existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum
vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est
iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus.
Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum
est, quod est nota praedicationis. Deinde cum dicit: dico autem, ut est
iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum
dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam
tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen,
prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia
dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus
magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad
hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum. Deinde
cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo,
ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem
etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera.
Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens
praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est
quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens,
praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum
duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem;
et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et
negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam,
ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia
breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. Ad
cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in
huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum
quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa,
scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices.
Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae
aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur
infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam
sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae
dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes
earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se
habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum
consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de
praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se
habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato,
scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic
scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de
infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo
praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato,
scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa
vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato,
sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed
duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non
homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et
hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad
illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram.
Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato
et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et
cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur
in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis,
sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non
loquitur. Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes
quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam
speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae
affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non
est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem
affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum
privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato.
Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem
affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim,
homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est
simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit
enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt
disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex
his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito
vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius evidentiam
considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad
illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari
potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de
quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec
enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet
vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi,
manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita,
quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de
quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus,
potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo
qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen
haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus
quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de
pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam
affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit
homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa:
potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum
virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere
dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam
negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de
homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam
negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo
iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo
quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non
iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum
iustitiae neque habent habitum iniustitiae. His igitur visis, facile est
exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum
praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et
negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera
negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut
privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem
affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa
infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa
privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa
sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita
etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus,
et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo
infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. Sequitur, duae
autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet
infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in
consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte
simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa
est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in
plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam
infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas.
Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen
videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur
sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in
praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et
postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et
magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius
ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo
secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum,
scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una
est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad
affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius
negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad
affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet
negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex
negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae.
Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae.
Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra
dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim
nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum
quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet
iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut
cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad
verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi
opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod
praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae.
Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Deinde cum
dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam
figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est,
intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura,
in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex
opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus
scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non
iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel
negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor
enunciationes. Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes
disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis,
idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut
non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini
adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur
ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de
infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte
praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex
parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod
praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri
et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod
non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Boezio.COMMENTARII in
LIBRUM ARISTOTELIS IIEPI EPMHNEIAS RECENSUIT CAROLUS MEISER. PARS POSTERIOR SECUNDAM EDITIONEM ET INDICES CONTINENS.
CHE T HILLr L»,v-LIPSIAE IN AEDIBUS B. G. TEUBNERI.
LIPSIAE: TYPIS B. G. TETJBNERI. In secundae editionis textu recensendo lii libri manu scripti mihi praesto fuerunt: S codex (Salisb. 10) bibliothecae Palatinae Vindobonensis (Endlicheri)
qui continet f. 1—
8V versionem continue scriptam libri Aristotelici itEQi EQiirjvecag, quam littera 2J signavi, deinde f. 9—
176v sex libros Boetii commentariorum. F codex (Frisingensis
166) Monacensis 6366 s. XI et X:
vetustior manus s. X incipit a f.
33 (p. 352 edi¬ tionis Basileensis =
p. 171 nostrae editionis). T codex (Tegernseensis 479) Monacensis 18479 s. XI, qui f. 1 — 56v priorem editionem expositionis Boetii, f. 57v—65v versionem continuam, quam 1. % signavi, f. 66v191
secundam editionem complectitur. E codex (Ratisb.
S. Emm. 582) Monacensis 14582 s. XI.
Praeter hos quattuor codices, quorum
plenam scripturae discrepantiam studio legentium
proposui, hi quattuor alii libri a me
hic aut illic inspecti et difficilioribus
locis excussi sunt: X codex
Einsidlensis 301 s. X, in quo non
pauca desiderantur: nam desunt p. 371,
17 huius editionis conposita — 378, 6
sit, 395, 21 possibile — 410, 17
non necessarium, postremo desinit in verba
p. 417, 19 de contingenti et de
possi (sic), ut finis quinti et
sextus liber totus perierit. J codex
Einsidlensis 295 s. XI. IV PRAEFATIO. G
codex Sangallensis 830 s. XI. B
codex Bernensis 332 s. XII, in
quo desunt p. 383, 1 ut in eo
— 434, 3 et dicit. Hos omnes
codices ex uno eodemque fonte fluxisse
inde apparet, quod eaedem in omnibus
lacunae, eaedem interpolationes, eadem vitiorum
genera deprehenduntur, et de lacunis quidem
conferas: p. 70, 15. 161, 18. 208, 22. 288, 7. 382, 8. 432, 9, praeterea p. 126, 8. 267, 12. 290, 18. 312, 14. 341, 3. 447, 9. 482, 14. 489, 7, de interpolationibus autem —
13. iisdem vero cunctos vitiis foedatos esse ut demonstrem, satis erit
unum aut alterum ex plurimis passim
obviis proferre exemplum, nam et p.
361, ubi Peripatetica interrogationis divisio
proditur, cum in codicibus nostris v.
8 sqq. legatur: 'non dialecticae autem
interrogationis duae sunt species, sicut
audivimus docet5, manifestum est pro
vocabulo corrupto 'audivimus5 Eu de mus
restituendum fuisse et p. 324, 23
quin recte scripserim: 'ad tenacioris memoriae
subsidium5, cum codices inperversa scriptione
t elatior is consentiant, quis est
qui dubitet? confer praeterea p. 237,
25 — 28 locum illum in omnibus
aequaliter libris turbatum. Pro fundamento
autem textus constituendi codicem S habui,
omnium longe praestantissimum, qui non raro
ceteris fidelius verae scripturae vestigia
servaverit, confer e. c. p. 500, 9,
ubi huius codicis lectio 'a bonum5
propius ad verum 'ad unum 5 accedit
quam reliquorum 'ad bonum5, hoc unum
dolendum est, quod a correctore quodam,
quamquam multa emendata sunt, tamen ipsis
locis difficillimis ita rasuris depravatus
est, ut quid primitus in eo scriptum
fuerit saepe dinosci non possit, nec
tamen multum interest, cum propter
similitudinem ceterorum codicum fere semper
quid S habuerit ex aliis suspicari
liceat. V Codici S plerumque
consentit F, nisi quod in hoc
librarius interdum pravo varietatis studio
et verba transposuisse et pro solitis
rariora vocabula inculcasse videtur, nam
cum hic codex p. 395, 20 pro
voce Socratem mire elimannum posueri, quod
aperte falsum est, iure in dubium
vocari potest, num recte aliis locis
hunc codicem solum contra ceterorum
consensum secutus sim. quare hos locos
notare velim et quid F habeat, quid
ceteri adscribam: F ceterip. 195,
21 autumant putant 208, 25 itidem
similiter 212, 17 infit dicit
223, 1 potiores meliores 246,
20 itidem similiter. Ad S et F
libros optimos proxime accedit E, et
ipse optimae notae idemque pulcherrime et
diligentissime scriptus, a secunda manu et
in S (= S2) et in E (=
E2), rarius in F (= F2) multa
egregie sunt emendata. N J G et
ipsi in optimis numerandi sunt et intima
cognation cum S F E coniuncti, sed
vix quidquam novi ex iis elicitur,
quod non in ceteris reperiatur. Minus
fidei codici T tribuendum est, quippe
qui fere semper cum secunda manu
codicis G (= G2) consentiat, ut quae
in G supra lineam vel in margine leguntur
in T in textum irrepserint, quare nec
interpolationibus vacat et variae lectiones
promiscue iuxta positae inveniuntur, sunt
tamen quae in hoc codice melius quam
in ceteris servata videantur. Minimae
auctoritatis et omnium deterrimus est codex
B (plerumque = E2), qui pauca
emendavit, plurima demendo addendo mutando
turbavit ac miscuit. Ut in prima,
sic in secunda editione lemmata non
plenum Aristotelis textum exhibent, sed
pauciora in secunda editione desiderantur,
quorum quaedam in E Boetii comment.
II. a** VI PRAEFATIO. a secunda
manu in margine et in B sunt
addita, ceteram B saepius prima tantum
et postrema Aristotelis verba expositioni
Boetii praemittit, quae vocula 'usque5 (vel
'reliqua usque5) iunguntur (cf. p. 227,
13 — 26). De versione Boetiana libri Aristoteliei
Ttegi eQ[ir}-
vaiccg eiusque a nostro Aristotelis textu discrepantia in Fleckeiseni annal. vol. CXVII p. 247 — 253 (a.
1878) disputavi. Monachii mense Martio
a. MDCCCLXXX. Car. Meiser. Boezio. IH LIBRVM ARISTOTELIS nEPI EPMHNEIAS COMMENTARII. SECVNDA EDITIO. Boetii comment.
II. .
S = codex (Salisb. n. 10) Vindobonensis
n. 80. ( E — praemissa translatio).
F = codex (Frisingensis n. 166)
Monacensis n. 6366. T = codex
(Tegernseensis n. 479) Monacensis
n. 18479. (X = praemissa translatio).
E = codex (Ratisb. S. Emm. n.
582) Monacensis n. 14582. N = codex
Einsidlensis n. 301. J = codex
Einsidlensis n. 295. G = codex
Sangallensis n. 830. B = codex
Bernensis n. 332. b = editio
Basileensis a. 1570. ANICII MANLII SEVERINI
BOETII COMMENTARIORVM IN LIBRVM ARISTOTELIS
IIEPI EPMHNEIA2 SECVNDAE EDITIONIS
LIBER PRIMYS. Alexander in commentariis
suis hac se inpul- sum causa pronuntiat
sumpsisse longissimum expositionis laborem, quod
in multis ille a priorum scriptorum
sententiis dissideret: mihi maior persequendi
operis causa est, quod non facile
quisquam vel transferendi vel etiam
commentandi continuam sumpserit seriem, nisi
quod Vetius Praetextatus priores MANLII
SEVERINI BOETII VIRI ILLVSTRIS EX CONSVLV
ORDINE (CONS
ORD F) IN PERIERMENIAS ARISTOTOLIS (ARESTOTELIS F) EDITIONIS SECVNDAE
LIBER PRIMVS INCIPIT. SF A-M-S-B- SECVNDA
AEDITIO IN LIBRVM PERI HERMENIAS
INCIPIT. GT ANICII MALLII SEVERINI BOETII
VIRI ILL • AEDITIONIS SCDAE IN
PERIERMENIAS ARIST- LIB • PRIMVS INCIPIT.
J ANICII MANLII SEVERINI BOETII
VIRI CLARISSIMI ET ILLVSTRIS EX CONSVLARI
ORDINE PATRICII SCDAE EDITIONIS EXPO SITIONV
IN ARISTOTELIS PERIHERMENIAS • INCIPIT
LIBER primvs. E titulum om. NB
1 Alexander — longissimum om. N
2 longissimg T 4 dissidet F 6
etiam om. F 1* ed.Bas
5\ 4 SECVNDA EDITIO postremosque
analyticosnon vertendo Aristotelem Latino sermoni
tradidit, sed transferendo Themistium, quod
qui utrosque legit facile intellegit. Albinus
quoque de isdem rebus scripsisse
perhibetur, 5 cuius ego geometricos quidem
libros editos scio, de dialectica uero
diu multumque quaesitos reperire non valui,
sive igitur ille omnino tacuit, nos
praetermissa dicemus, sive aliquid scripsit,
nos quoque docti viri imitati studium
in eadem laude versabimur. sed 10
quamquam multa sint Aristotelis, quae
subtilissima philosophiae arte celata sint,
hic tamen ante omnia liber nimis et
acumine sententiarum et verborum brevitate
constrictus est. quocirca plus hic quam
in decem praedicamentis expositione sudabitur.
15 Prius igitur quid vox sit
definiendum est. hoc enim perspicuo et
manifesto omnis libri patefiet intentio.
Vox est aeris per linguam percussio,
quae per quasdam gutturis partes, quae
arteriae vocantur, ab 20 animali profertur,
sunt enim quidam alii soni, qui eodem
perficiuntur flatu, quos lingua non
percutit,ut est tussis, haec enim flatu
fit quodam per arterias egrediente, sed
nulla linguae inpressione formatur 24 atque
ideo nec ullis
subiacet elementis, scribi enim
290 nullo modo potest, quocirca vox haec non dicitur, sed tantum sonus, illa quoque potest
esse
definitio vocis, ut eam dicamus sonum esse cum quadam imaginatione SIGNIFICANDI, vox namque cum emittitur, SIGNIFICATIONIS
alicuius causa profertur, tussis vero 30
cum sonus sit, nullius SIGNIFICATIONIS
causa subrepit 3 Qu§ qui T 4
eisdem E 5 ergo T 6 repp.
sic semper codices 7 omnino ille
T 12 nimis tacumine T 16 omnis
om. F 17 intentio de voce SG-J
et in marg. T definitio vocis E
diff vocis F2 19 guturis F 29
alicuius — SIGNIFICATIONIS G2 in marg.
tusis F 30 subripit S surripit GT
I. 5 potius quam profertur, quare
quoniam noster flatus ita sese habet,
ut si ita percutitur atque formatur,
ut eum lingua percutiat, vox sit: si
ita percutiat, ut terminato quodam et
circumscripto sono vox exeat, locutio fit
quae Graece dicitur Xs%ig. locutio enim
est articulata vox (neque enim hunc
sermonem id est Xe%iv dictionem dicemus,
idcirco quod cpccGiv dictionem interpretamur,
Xi%iv vero locutionem), cuius locutionis
partes sunt litterae, quae cum iunctae
fuerint, unam efficiunt vocem coniunctam
conpositamque, quae locutio praedicatur. sive
autem aliquid quaecumque vox significet, ut
est hic sermo homo, sive omnino
nihil, sive positum alicui nomen
significare possit, ut est hlityri (haec
enim vox per se cum nihil SIGNIFICET,
posita tamen ut alicui nomen sit SIGNIFICABIT),
sive per se quidem nihil SIGNIFICET,
cum aliis vero iuncta designet, ut
sunt coniunctiones: haec omnia locutiones
vocantur, ut sit propria locutionis forma
vox conposita quae litteris describatur, ut
igitur sit locutio, voce opus est id
est eo sono quem percutit lingua, ut
et vox ipsa sit per linguam
determinata in eum sonum qui inscribi
litteris possit, sed ut haec locutio
significativa sit, illud quoque addi
oportet, ut sit aliqua significandi
imaginatio, per quam id quod in voce
vel in locutione est proferatur: ut
certe ita dicendum sit: si in hoc
flatu, quem per arterias emittimus, sit
linguae sola percussio, vox est; sin
vero talis percussio sit, ut in
litteras redigat sonum, locutio; quod si
vis quoque quaedam imaginationis adda-
1 quoniam dei. S2 om. F 2
percutitur atque formatur g2p2g2g. percuti atq.
formari SFEN, percuti atq. formari possit
T (possit supra lin. GJ) ut cu
eu B 3 sit] est STGNJ ( corr.
S2) 5 fit] sit S2FE2 lexis codices,
item 6 et 8 lexin, 7 phasin
9 literae in marg. S quae coniunctae
S, corr. S2 13 alicuius SF 14
blythyri SG blithyri NT blytbiri EF?
{in fine suprascr. s F) 21 et
ut b 22 scribi? 28 fit T
5 10 15 20 6
tur, illa SIGNIFICATIVA vox redditur.
concurrentibus igitur his tribus: linguae
percussione, articulato vocis sonitu,
imaginatione aliqua proferendi fit interpretatio,
interpretatio namque est vox articulata per
se ipsam 5 significans, quocirca non
omnis vox interpretatio est. sunt enim
ceterorum animalium voces, quae interpretationis
vocabulo non tenentur, nec omnis locutio
interpretatio est, idcirco quod (ut dictum
est) sunt locutiones quaedam, quae
significatione careant et cum per se
quaedam non significent, iunctae tamen cum
aliis significant, ut coniunctiones.
interpretatio autem in solis per se
significativis et articulatis vocibus permanet.
quare convertitur, ut quidquid sit
interpretatio, illud significet, quidquid significat,
interpretationis 15 vocabulo nuncupetur, unde
etiam ipse quoque Aristoteles in libris
quos de poetica scripsit locutionis partes
esse syllabas vel etiam coniunctiones
tradidit, quarum syllabae in eo quod
sunt syllabae nihil omnino significant,
coniunctiones vero consignificare 20 quidem
possunt, per se vero nihil designant,
interpretationis vero partes hoc libro
constituit nomen et verbum, quae scilicet
per se ipsa SIGNIFICANT, nihilo¬minus
quoque orationem, quae et ipsa cum
vox sit ex significativis partibus iuncta
significatione non ca- 25 ret. quare quoniam
non de oratione sola, sed etiam de
verbo et nomine, nec vero de sola
locutione, sed etiam de SIGNIFICATIVA
locutione, quae est interpretatio, hoc
libro ab Aristotele tractatur, idcirco quoniam
in 16 Ar. Poet. c. 20.
1 significatiua b: significatio SG-TE,
significatione FS1 2E2? redditur uox T 4
interpretatio om. SNF, in marg. addunt
GE quae namq; S2F 10 iunctae F:
iuncta ceteri 14 illud quoq; E 16
arte poetica S2FE 23 post orationem
addit partem esse tradidit S2F cum
om. T 28 in hoc S2F ab
om. T I. 7 verbis atque
nominibus et in significativis locutionibus
nomen interpretationis aptatur, a communi
nomine eorum, de quibus hoc libro
tractabitur, id est ab interpretatione,
ipse quoque de interpretatione liber
inscriptus est. cuius expositionem nos
scilicet quam 5 maxime a Porphyrio
quamquam etiam a ceteris transferentes
Latina oratione digessimus, hic enim nobis
expositor et intellectus acumine et
sententiarum dispositione videtur excellere,
erunt ergo interpretationis duae primae
partes nomen et verbum, his enim 10
quidquid est in animi intellectibus
designatur; his namque totus ordo orationis
efficitur, et in quantum vox ipsa
quidem intellectus significat, in duas (ut
dictum est) secatur partes, nomen et
verbum, in quantum vero vox per
intellectuum medietatem subiectas intellectui res
demonstrat, significantium vocum Aristoteles
numerum in decem praedicamenta partitus
est. atque hoc distat libri huius
intentio a praedicamentorum in denariam
multitudinem numerositate p. 291
collecta, ut hic quidem tantum de numero SIGNIFICANTIUM
vocum quaeratur, quantum ad ipsas attinet
voces, quibus significativis vocibus intellectus
animi designentur, quae sunt scilicet
simplicia quidem nomina et verba, ex
his vero conpositae orationes: praedicamentorum
vero haec intentio est: de significa-
25 tivis rerum vocibus in tantum,
quantum eas medius animi SIGNIFICET
intellectus, vocis enim quaedam qualitas
est nomen et verbum, quae nimirum
ipsa illa decem praedicamenta significant,
decem namque praedicamenta numquam sine
aliqua verbi qualitate vel 30 nominis
proferentur, quare erit libri huius intentio
de significativis vocibus in tantum,
quantum con- 1 in om. E 3
in hoc S2F 9 dispositio S corr.
S2 10 partes primae T 11 intellectus
F corr. F1 12 totius F 18 in
hoc T 20 in tantum? 26 uocibus
tractare F, uoc. dicere TE, tractare inmarg. S
31proferuntur S2F 32 signatiuis S corr. S2
8 SECVNDA EDITIO ceptiones animi
intellectus que significent, de decem
praedicamentis autem libri intentio in eius
commentario dicta est, quoniam sit de
significativis rerum vocibus, quot partibus
distribui possit earum signifi- 5 catio
in tantum, quantum per sensuum atque intellectuum
medietatem res subiectas intellectibus voces
ipsae valeant designare, in opere vero
de poetica non eodem modo dividit
locutionem, sed omnes omnino locutionis
partes adposuit confirmans esse locu- 10
tionis partes elementa, syllabas, coniunctiones,
articulos, nomina, casus, verba, orationes,
locutio namque non in solis significativis
vocibus constat, sed supergrediens
significationes vocum ad articulatos sonos
usque consistit, quaelibet enim syllaba
vel quodlibet nomen vel quaelibet alia
vox, quae scribi litteris potest,
locutionis nomine continetur, quae Graece
dicitur sed non eodem modo interpretatio.
huic namque non est satis, ut sit
huiusmodi vox quae litteris valeat
adnotari, sed ad hoc ut aliquid
quoque significet, praedicamentorum vero in
hoc ratio constituta est, in quo hae
duae partes interpretationis res intellectibus
subiectas designent, nam quoniam decem res
omnino in omni natura reperiuntur, decem
quoque intellectus erunt, quos
intellectus quoniam verba nominaque significant,
decem omnino erunt praedicamenta, quae
verbis atque nominibus DESIGNENTUR, duo
vero quaedam id est nomen et verbum,
quae ipsos significent intellectus, sunt
igitur elementa interpretationis verba et
nomina, propriae vero partes 30 quibus
ipsa constat interpretatio sunt orationes,
orationum vero aliae sunt perfectae, aliae
inperfectae. 7 Ar. Poet. c. 20.
3 pro quoniam: cum F 4 quod
F 7 arte poetica FE2, arte in
marg. S 17 lexis FTE 31 aliae
uero inp. TE, aliae inperf. om. S
in marg. addit S2 I. 9
perfectae sunt ex quibus plene id
quod dicitur valet intellegi, inperfectae
in quibus aliquid adhuc plenius animus
exspectat audire, ut est Socrates cum
Platone. nullo enim addito orationis
intellectus pendet ac titubat et auditor
aliquid ultra exspectat audire, perfectarum
vero orationum partes quinque sunt:
deprecativa ut Iuppiter omnipotens, precibus
si flecteris ullis, Da deinde auxilium,
pater, atque haec omina firma, imperativa
ut Yade age, nate, voca Zephyros et
labere pennis, interrogativa ut Dic mihi,
Damoeta, cuium pecus? an Meliboei? vocativa
<(ufi> 0 pater, o hominum rerumque
aeterna potestas, enuntiativa, in qua
veritas vel falsitas invenitur, ut
Principio arboribus varia est natura
serendis, huius autem duae partes sunt,
est namque et simplex oratio enuntiativa
et conposita. simplex ut dies est,
lucet, conposita ut si dies est, lux
est. in hoc igitur libro Aristoteles
de enuntiativa simplici oratione disputat
et de eius elementis, nomine scilicet
atque verbo, quae quoniam et significativa
sunt et significativa vox articulata
interpretationis nomine continetur, de communi
(ut dictum est) vocabulo librum de
interpretatione appellavit, et Theophrastus
quidem in eo libro, quem de
adfirmatione et negatione conposuit, de
enuntiativa oratione tractavit, et Stoici
quoque in his libris, quos ttsqI
a^tco^uzcov appellant, de isdem 7
Yerg. Aen. II 689. 691 9 Yerg.
Aen. IY 223 11 Yerg. Ecl. III
1 12 Yerg. Aen. X 18 14 Yerg.
Georg. II 9 9 omnia TE
10 pinnis S^1 11 damgta T 12
melibei T ut b :'om. codices,
alterum o om. SFE1 15 creandis
Vergilii codices 16 et om. E 17
est et conp. S2FE2 lux est F2E2
21 uox et art. S2FE2 27 peri
axiomaton codices 5 10 15 20 25
nihilominus disputant, sed illi quidem et
de simplici et de non simplici oratione
enuntiativa speculantur, Aristoteles vero hoc
libro nihil nisi de sola simplici
enuntiativa oratione considerat. Aspasius quoque
et 5 Alexander sicut in aliis
Aristotelis libris in hoc quoque
commentarios ediderunt, sed uterque Aristotelem
de oratione tractasse pronuntiat, nam si
oratione aliquid proferre (ut aiunt ipsi)
interpretari est, de interpretatione liber
nimirum veluti de oratione per- 10 scriptus
est, quasi vero sola oratio ac non
verba quoque et nomina interpretationis
vocabulo concludantur. aeque namque et
oratio et verba ac nomina, quae sunt
interpretationis elementa, nomine interpretationis
| vocantur, sed Alexander addidit
inperfecte 15 sese habere libri titulum:
neque enim designare, de qua oratione
perscripserit, multae namque (ut dictum
est) sunt orationes; sed adiciendum vel
subintellegendum putat de oratione illum
scribere philosophica vel dialectica id
est, qua verum falsumque valeat expediri.
20 sed qui semel solam orationem
interpretationis no¬ mine vocari recipit,
in intellectu quoque ipsius inscriptionis
erravit, cur enim putaret inperfectum esse
titulum, quoniam nihil de qua oratione
disputaret adiecerit? ut si quis interrogans
quid est homo? alio 25 respondente
animal culpet ac dicat inperfecte illum
dixisse, quid sit, quoniam non sit
omnes differentias persecutus, quod si
huic, id est homini, sunt quae¬ dam
alia communia ad nomen animalis, nihil
tamen inpedit perfecte demonstrasse, quid
homo esset, eum 30 qui animal dixit:
sive enim differentias addat quis sive
non, hominem animal esse necesse est.
eodem quoque modo et de oratione, si
quis hoc concedat primum, nihil aliud
interpretationem dici nisi orationem, 5
alios — libros in hunc? 21 recepit?
21.22 scriptionis S^1 23. 24 adiecit
T 26 non o. diff. sit E 30
addit T 33 interpretatione
F I. 11 cur qui de interpretatione
inscripserit et de qua interpretatione
dicat non addiderit culpetur, non est.
satis est enim libri titulum etiam de
aliqua continenti communione fecisse, ut
nos eum et de nominibus et verbis
et de orationibus, cum baec omnia uno
interpretationis nomine continerentur, supra
fecisse docuimus, cum bic liber ab eo
de interpretatione notatus est. sed quod
addidit illam interpretationem solam dici,
qua in oratione possit veritas et
falsitas inveniri, ut est enuntiativa
oratio, fingentis est (ut ait Porphyrius)
significationem nominis potius quam docentis,
atque ille quidem et in intentione
libri et in titulo falsus est, sed
non eodem modo de iudicio quoque
libri buius erravit. Andronicus enim librum
bunc Aristotelis esse non putat, quem
Alexander vere fortiterque redarguit, quem
cum exactum diligentemque Aristotelis librorum
et iudicem et repertorem iudicarit
antiquitas, cur in huius libri iudicio
sit falsus, prorsus est magna admiratione
dignissimum, non esse namque proprium
Aristotelis bine conatur ostendere, quoniam
quaedam Aristoteles in principio libri
huius de intellectibus animi tractat, quos
intellectus animae passiones vocavit, et de
bis se plenius in libris de anima
disputasse commemorat, et quoniam passiones
animae vocabant vel tristitiam vel gaudium
vel cupiditatem vel alias huiusmodi
adfectiones, dicit Andronicus ex boc
probari hunc li¬ brum Aristotelis non
esse, quod de huiusmodi adfectionibus nihil
in libris de anima tractavisset, non
intellegens in hoc libro Aristotelem
passiones animae non pro adfectibus, sed
pro intellectibus posuisse, his Alexander
multa alia addit argumenta, cur hoc
opus Aristotelis maxime esse videatur, ea
namque dicuntur hic, quae sententiis
Aristotelis quae sunt de enuntia- 5.
6
continentur F 6 cum om. F1 haec S, corr. S2 10. 11 potius sign. nom. S2F 22 et animae T 23 in supra lin. T 24 vocabat b 30 prius pro om. S1 Hic E1 5 10 15 20 25
30 12 SECVNDA EDITIO tione consentiant; illud
quoque, quod stilus ipse pro¬ pter
brevitatem pressior ab Aristotelis obscuritate
non discrepat; et quod Theophrastus, ut
in aliis solet, cum de similibus rebus
tractat, quae scilicet ab Ari- 5
stotele ante tractata sunt, in libro
quoque de adfirmatione et negatione, isdem
aliquibus verbis utitur, quibus hoc libro
Aristoteles usus est. idem quoque
Theophrastus dat signum hunc esse
Aristotelis librum: in omnibus enim, de
quibus ipse disputat post magistrum, leviter
ea tangit quae ab Aristotele dicta
ante cognovit, alias vero diligentius res
non ab Aristotele tractatas exsequitur, hic
quoque idem fecit, nam quae Aristoteles
hoc libro de enuntiatione tra¬ ctavit,
leviter ab illo transcursa sunt, quae
vero magister eius tacuit, ipse subtiliore
modo considerationis adiecit. addit quoque
hanc causam, quoniam Aristoteles quidem de
syllogismis scribere animatus num- quam id
recte facere potuisset, nisi quaedam de propositionibus
adnotaret. mihi quoque videtur hoc 20
subtiliter perpendentibus liquere hunc librum
ad ana- lyticos esse praeparatum, nam sicut
hic de simplici propositione disputat, ita
quoque in analyticis de simplicibus tantum
considerat syllogismis, ut ipsa syllo¬
gismorum propositionumque simplicitas non ad
aliud 25 nisi ad continens opus
Aristotelis pertinere videatur, quare non
est audiendus Andronicus, qui propter
passionum nomen hunc librum ab Aristotelis
operibus separat. Aristoteles autem idcirco
passiones animae | 293 intellectus vocabat,
quod intellectus, quos sermone di- 30
cere et oratione proferre consuevimus, ex
aliqua causa atque utilitate profecti sunt:
ut enim dispersi homines colligerentur et
legibus vellent esse subiecti civitatesque
condere, utilitas quaedam fuit et causa,
quocirca 3 et b: uel codices 15
subtilior S1 16 addidit E 17 pro
scribere: est T 19 hoc uidetur F
22 in om. F1 29 uocauit E
I c, 1. 13 quae ex aliqua
utilitate veniunt, ex passione quoque
provenire necesse est. nam ut divina
sine ulla sunt passione, ita nulla
illis extrinsecus utilitas valet adiungi:
quae vero sunt passibilia semper aliquam
causam atque utilitatem quibus sustententur
inveniunt. 5 quocirca huiusmodi intellectus,
qui ad alterum oratione proferendi sunt,
quoniam ex aliqua causa atque utilitate
videntur esse collecti, recte passiones
animi nominati sunt, et de intentione
quidem et de libri inscriptione et de
eo, quod hic maxime Aristotelis 10
liber esse putandus est, haec dicta
sufficiunt, quid vero utilitatis habeat,
non ignorabit qui sciet qua in
oratione veritas constet et falsitas. in
sola enim haec enuntiativa oratione
consistunt, iam vero quae dividant verum
falsumque quaeve definite vel quae varie
15 et mutabiliter veritatem falsitatemque partiantur,
quae iuncta dici possint, cum separata
valeant praedicari, quae separata dicantur,
cum iuncta sint praedicata, quae sint
negationes cum modo propositionum, quae
earum consequentiae aliaque plura in ipso
opere considerator poterit diligenter agnoscere,
quorum magnam experietur utilitatem qui
animum curae alicuius investigationis adverterit,
sed nunc ad ipsius Aristotelis verba
veniamus. 1. Primum oportet constituere,
quid nomen et quid verbum, postea
quid est negatio et adfirmatio et
enuntiatio et oratio. Librum incohans
de quibus in omni serie tractaturus
sit ante proposuit, ait enim prius
oportere de 2 sunt om. F1 5
inuenient E 8 animae? 11 suf¬ ficiant
b 16 patiantur T 16. 17 quae
iuncta om. F, in marg. quae iunctim
F2? 17.18 iuncta — cum om. S1
20.21 consideratior SF*T 21 quorum
ego: quarum codices 22 curae ego:
cura codices 23 ipsius om. F 25
quid Ar. xL: quid sit codices 26
sit uerbum codices praeter 2/E2 est
om. 2% {eras, in S) quibus
disputaturus est definire, hic enim
constituere definire intellegendum est.
determinandum namque est quid haec omnia
sint id est quid nomen sit, quid
verbum et cetera, quae elementa
interpretationis esse praediximus, sed adfirmatio
atque negatio sub interpretatione sunt,
quare nomen et verbum adfirmatio- nis
et negationis elementa esse manifestum est.
his enim conpositis adfirmatio et negatio
coniunguntur. exsistit hic quaedam quaestio,
cur duo tantum nomen et verbum se
determinare promittat, cum plures partes
orationis esse videantur, quibus hoc
dicendum est tantum Aristotelem hoc libro
definisse, quantum illi ad id quod instituerat
tractare suffecit, tractat namque de
simplici enuntiativa oratione, quae
scilicet huiusmodi est, ut iunctis tantum
verbis et nominibus conponatur. si quis
enim nomen iungat et verbum, ut dicat
Socrates ambulat, simplicem fecit enun¬
tiativam orationem, enuntiativa namque oratio
est (ut supra memoravi) quae habet in
se falsi verique designationem, sed in
hoc quod dicimus Socrates ambulat aut
veritas necesse est contineatur aut fal- sitas.
hoc enim si ambulante Socrate dicitur,
verum est, si non ambulante, falsum,
perficitur ergo enuntiativa oratio simplex
ex solis verbis atque nominibus. 25
quare superfluum est quaerere, cur alias
quoque quae videntur orationis partes non
proposuerit, qui non totius simpliciter
orationis, sed tantum simplicis enuntiationis
instituit elementa partiri, quamquam duae
propriae partes orationis esse dicendae
sint, nomen 30 scilicet atque verbum,
haec enim per sese utraque significant,
coniunctiones autem vel praepositiones nihil
omnino nisi cum aliis iunctae designant;
participia verbo cognata sunt, vel quod
a gerundivo modo 2 definire om.
S1 17 et T 22. 23 est verum
F 25 quae om. S1 26 proposuit T
33 uerbis E2? vero verbo editio
princeps conata T gerundi FXE (gerunti?
F) I c. 1. 15 veniant
vel quod tempus propria significatione con¬
tineant; interiectiones vero atque pronomina
nec non adverbia in nominis loco
ponenda sunt, idcirco quod aliquid
significant definitum, ubi nulla est vel
passio¬ nis significatio vel actionis, quod
si casibus horum 5 quaedam flecti non
«possunt, nihil inpedit. sunt enim quaedam
nomina quae monoptota nominantur, quod si
quis ista longius et non proxime
petita esse arbitretur, illud tamen
concedit, quod supra iam diximus, non
esse aequum calumniari ei, qui non de
omni ora- 10 tione, sed de tantum
simplici enuntiatione proponat, quod tantum
sibi ad definitionem sumpserit, quantum
arbitratus sit operi instituto sufficere,
quare dicendum est Aristotelem non omnis
orationis partes hoc p. 294 opere
velle definire, sed tantum solius simplicis
enuntiativae orationis, quae sunt scilicet
nomen et verbum, argumentum autem huius
rei hoc est. postquam enim proposuit
dicens: primum oportet constituere, quid
sit nomen et quid verbum, non statim
inquit, quid sit oratio, sed mox
addidit et quid sit 20 negatio, quid
adfirmatio, quid enuntiatio, postremo vero quid
oratio, quod si de omni oratione loqueretur,
post nomen et verbum non de
adfirmatione et negatione et post hanc
de enuntiatione, sed mox de oratione
dixisset, nunc vero quoniam post
nominis et verbi propositionem adfirmationem,
negationem et enuntiationem et post
orationem proposuit, confitendum est, id
quod ante diximus, non orationis
universalis, sed simplicis enuntiativae
orationis, quae divi¬ ditur in
adfirmationem atque negationem, divisionem 30 partium
facere voluisse, quae sunt nomina et
verba, haec enim per se ipsa
intellectum simplicem servant, 1. 2
continent F 7 monopta S 9 concedat
b 10 calumpniari E eum? 11 tantum
de E2 enuntiatione om. S1 12
sumpserat F 14 omnes SFT 20 et
om. F 26 et negationem et F 31
uerba et nomina F „ quae eadem
dictiones vocantur, sed non sola dicuntur,
sunt namque dictiones et aliae quoque: orationes
vel inperfectae vel perfectae, cuius plures
esse partes supra iam docui, inter
quas perfectae orationis species 5 est
enuntiatio, et haec quoque alia simplex,
alia con- posita est. de simplicis
vero enuntiationis speciebus inter philosophos
commentatoresque certatur, aiunt enim quidam
adfirmationem atque negationem enuntiationi ut
species supponi oportere, in quibus
et Porphyrius est: quidam vero nulla
ratione consentiunt, sed contendunt adfirmationem
et negationem aequivoca esse et uno quidem
enuntiationis vocabulo nuncupari, praedicari
autem enuntiationem ad utrasque ut nomen
aequivocum, non ut genus univocum; quorum
princeps Alexander est. quorum contentiones
adponere non videtur inutile, ac prius
quibus modis adfirmationem atque negationem
non esse species enuntiationis Alexander
putet dicendum est, post vero addam
qua Porphyrius haec argumentatione dissolverit.
Alexander namque idcirco dicit non esse
species enuntiationis adfirmationem et
negationem, quoniam adfirmatio prior sit.
priorem vero adfirmationem idcirco conatur
ostendere, quod omnis negatio adfirmationem
tollat ac destruat, quod si ita 25
est, prior est adfirmatio quae subruatur
quam negatio quae subruat, in quibus
autem prius aliquid et posterius est,
illa sub eodem genere poni non
possunt, ut in eo titulo praedicamentorum
dictum est qui de his quae sunt
simul inscribitur. amplius: negatio 30
omnis, inquit, divisio est, adfirmatio conpositio
atque coniunctio. cum enim dico Socrates
vivit, vitam cum Socrate coniunxi; cum
dico Socrates non vivit, vitam a
Socrate disiunxi. divisio igitur quaedam
negatio est, coniunctio adfirmatio. conpositi
autem est con- 1 eaedem SF sola
ego: solae codices 2 quoq; ut b
4. 5 est species F 5 alias
— alias E2 12 unum S1T 22 fit
T I c. 1. 17 iunctique
divisio, prior est igitur coniunctio, quod
est adfirmatio; posterior vero divisio,
quod est negatio, illud quoque adicit,
quod omnis per adfirmationem facta
enuntiatio simplicior sit per negationem
facta enuntiatione, ex negatione enim
particula negativa 5 si sublata sit,
adfirmatio sola relinquitur, de eo enim
quod est Socrates non vivit si non particula
quae est adverbium auferatur, remanet
Socrates vivit. simplicior igitur adfirmatio
est quam negatio, prius vero sit
necesse est quod simplicius est. in
quantitate etiam quod ad quantitatem minus
est prius est eo quod ad quantitatem
plus est. omnis vero oratio quantitas
est. sed cum dico Socrates ambulat,
minor oratio est quam cum dico
Socrates non ambulat, quare si secundum
quantitatem adfirmatio minor est, eam
priorem quoque esse necesse est. illud
quoque adiunxit adfirmationem quendam esse
habitum, negationem vero privationem, sed
prior habitus privatione: adfirmatio igitur
negatione prior est. et ne singula
persequi laborem, cum aliis quoque
modis demonstraret adfirmationem negatione esse
priorem, a communi eas genere separavit,
nullas enim species arbitratur sub eodem
genere esse posse, in quibus prius
vel posterius consideretur, sed Porphyrius
ait sese docuisse species enuntiationis
esse adfirmationem et negationem in his
commentariis quos in Theophrastum edidit;
hic vero Alexandri argumentationem tali
ratione dissolvit, ait enim non oportere
arbitrari, quaecumque quolibet modo priora
essent aliis, ea sub eodem genere poni
non posse, sed quae- p. 295 cumque
secundum esse suum atque substantiam
priora vel posteriora sunt, ea sola
sub eodem genere non ponuntur, et
recte dicitur, si enim omne quidquid 15
si om. S^E1 16 quoq. priorem F
esse om. SF 22 separaret SF,
separabat S2F2, separat T nullus SF1
24 aliquid prius GrTE consideratur F
26 iis F2 Boetii comxnent. prius est
cum eo quod posterius est sub uno
genere esse non potest, nec primis
substantiis et secundis commune genus
poterit esse substantia; quod qui dicit
a recto ordine rationis exorbitat, sed
quemad- 5 modum quamquam sint primae
et secundae substan¬ tiae, tamen utraque
aequaliter in subiecto non sunt et
idcirco esse ipsorum ex eo pendet,
quod in subiecto non sunt, atque ideo
sub uno substantiae genere conlocantur: ita
quoque quamquam adfirmationes ne- 10
gationibus in orationis prolatione priores
sint, tamen ad esse atque ad naturam
propriam aequaliter enuntiatione participant,
enuntiatio vero est in qua veritas et
falsitas inveniri potest, qua in re
et adfirmatio et negatio aequales sunt,
aequaliter enim et adfir- 15 matio et
negatio veritate et falsitate participant,
quocirca quoniam ad id quod sunt adfirmatio
et negatio aequaliter ab enuntiatione
participant, a communi eas enuntiationis genere
dividi non oportet, mihi quoque videtur
quod Porphyrii sit sequenda sententia, ut
20 adfirmatio et negatio communi
enuntiationis generi supponantur, longa namque
illa et multiplicia Alexandri argumenta
soluta sunt, cum demonstravit non modis
omnibus ea quae priora sunt sub
communi genere poni non posse, sed
quae ad esse proprium 25 atque
substantiam priora sunt illa sola sub
communi genere constitui atque poni non
posse. Syrianus vero, cui Philoxenus
cognomen est, hoc loco quae¬ rit, cur
proponens prius de negatione, post de
adfir- matione pronuntiaverit dicens: primum
oportet 30 constituere, quid nomen et
quid verbum, po¬ stea quid est
negatio et adfirmatio. et primum quidem
nihil proprium dixit, quoniam in quibus
et ad- 1 posterius] prius S^E1
6 utraeque b 8 sint E 13 et
post re om. F 16 ad ego addidi:
om. codices 17 pro a: et SF 21
supponatur SF multiplica F ^ 30 quid
sit n. codices 31 est om. F
primum S: primo S2 et ceteri I
c. 1. 19 firmatio potest et
negatio provenire, prius esse negatio,
postea vero adfirmatio potest, ut de
Socrate sanus est. potest ei aptari
talis adfirmatio, ut de eo dicatur
Socrates sanus est; etiam huiusmodi potest
aptari negatio, ut de eo dicatur
Socrates sanus non est. quoniam ergo
in eum adfirmatio et negatio poterit
evenire, prius evenit ut sit negatio
quam ut adfirmatio. ante enim quam
natus esset: qui enim natus non erat,
nec esse poterat sanus, liuic illud
adiecit: servare Aristotelem conversam
propositionis et exsecutionis distributionem. hic
enim prius post nomen et verbum de
negatione proposuit, post de adfirmatione,
dehinc de enuntiatione, postremo vero de
oratione, sed proposita definiens prius
orationem, post enuntiationem, tertio
adfirmationem, ultimo vero loco negationem
determinavit, quam hic post propositionem
verbi et nominis primam locaverat, ut
igitur ordo servaretur conversus, idcirco
negationem prius ait esse propositam, qua
in expositione Alexandri quoque sententia
non discedit, illud quoque est additum,
quod non esset inutile, enuntiationem genus
adfirmationis et negationis accipi oportere,
quod quamquam (ut dictum est) ad
prolationem prior esset adfirmatio, tamen
ad ipsam enuntiationem id est veri
falsique vim utrasque aequa¬ liter sub
enuntiatione ab Aristotele constitui, id
etiam Aristotelem probare, praemisit enim
primam nega¬ tionem, secundam posuit
adfirmationem, quae res nihil habet vitii,
si ad ipsam enuntiationem adfirmatio et
negatio ponantur aequales, quae enim natura
aequa¬ les sunt, nihil retinent contrarii
indifferenter acceptae, est igitur ordo quo
proposuit: primum totius orationis 1
est. potest T 2 non est F; non
supra lin. SE; sanus est delet S2
3 de eo om. T1 6 eo? 8
post esset addit potuit dici sanus
non est T, in marg. G2 enim om.
F, eras, in E 12 et hinc E
17 primum F ergo T 23 est F
(in rasura) 26 probare dicit FTE2S2(m»Mf^.)
probare dr Misit G (suprascr. dicit
Premisit G2) enim om. E1 31 quod
F, quoq. T 2 * 5
10 elementum, nomen scilicet et
verbum, post haec ne¬ gationem et
adfirmationem, quae species enuntiationis sunt,
quorum genus id est enuntiationem tertiam
nominavit, quartam vero orationem posuit,
quae ipsius enuntiationis genus est. et
horum se omnium definitiones daturum esse
promisit, quas interim relinquens atque
praeteriens et in posteriorem tractatum
differens illud nunc addit quae sint
verba et nomina aut quid ipsa
significent, quare antequam ad verba
Aristotelis ipsa veniamus, pauca communiter
de nominibus atque verbis et de his
quae significantur a verbis ac nominibus
disputemus, sive enim quaelibet interrogatio
sit atque responsio, sive perpetua
cuiuslibet orationis continuatio atque alterius
auditus et intellegentia, sive hic quidem
doceat ille vero discat, tribus his
totus orandi ordo perficitur: rebus,
intellecti¬ bus, vocibus, res enim ab
intellectu concipitur, vox vero conceptiones
animi intellectusque significat, ipsi vero
intellectus et concipiunt subiectas res et
significantur a vocibus, cum igitur tria
sint haec per quae omnis oratio
conlocutioque perficitur, res quae sub-
iectae sunt, intellectus qui res concipiant
et rursus a vocibus significentur, voces
vero quae intellectus designent, quartum
quoque quiddam est, quo voces
ipsae valeant designari, id autem sunt
litterae, scriptae namque litterae ipsas
significant voces, quare quattuor ista
sunt, ut litterae quidem significent voces,
voces vero intellectus, intellectus autem
concipiant res, quae scilicet habent
quandam non confusam neque 30 fortuitam
consequentiam, sed terminata naturae suae
ordinatione constant, res enim semper
comitantur eum qui ab ipsis concipitur
intellectum, ipsum vero intellectum vox
sequitur, sed voces elementa id est
3 quarum? 17 — 20 res —
vocibus om. F, in marg. add. F1?
26 significent SF 30 suae naturae E
31 constat SE comitatur F2 32 eum
dei. F2 intellectus F I c. 1.
21 litterae, rebus enim ante
propositis et in propria substantia
constitutis intellectus oriuntur, rerum enim
semper intellectus sunt, quibus iterum
constitutis mox significatio vocis exoritur,
praeter intellectum nam¬ que vox penitus
nihil designat, sed quoniam voces sunt,
idcirco litterae, quas vocamus elementa,
repertae sunt, quibus vocum qualitas
designetur, ad cognitionem vero conversim
sese res habet, namque apud quos eaedem
sunt litterae et qui eisdem elementis
utuntur, eisdem quoque nominibus eos ac
verbis id est vocibus uti necesse est
et qui vocibus eisdem utuntur, idem
quoque apud eos intellectus in animi
conceptione versantur, sed apud quos idem
intellectus sunt, easdem res eorum
intellectibus subiectas esse manifestum est.
sed hoc nulla ratione convertitur, namque
apud quos eaedem res sunt idemque
intel¬ lectus, non statim eaedem voces
eaedemque sunt lit¬ terae. nam cum
Romanus, Graecus ac barbarus simul videant
equum, habent quoque de eo eundem
intellectum quod equus sit et apud
eos eadem res sub- iecta est, idem
a re ipsa concipitur intellectus, sed
Graecus aliter equum vocat, alia quoque
vox in equi significatione Romana est
et barbarus ab utroque in equi
designatione dissentit, quocirca diversis quoque
voces proprias elementis inscribunt, recte
igitur dictum est apud quos eaedem
res idemque intellectus sunt, non statim
apud eos vel easdem voces vel ea¬
dem elementa consistere, praecedit autem
res intel¬ lectum, intellectus vero vocem,
vox litteras, sed hoc converti non
potest, neque enim si litterae sint,
mox aliqua ex his significatio vocis
exsistit, hominibus namque qui litteras
ignorant nullum nomen quaelibet ele¬ menta
significant, quippe quae nesciunt, nec si
voces 1 positis F 8 habent T 20
sit om. F1 24 designi- ficatione S1
28 intellectum res F 31 consistit E
sint, mox intellectus esse necesse
est. plures enim voces invenies quae
nihil omnino significent, nec intellectui
quoque subiecta res semper est. sunt
enim intellectus sine re ulla subiecta,
ut quos centauros 5 vel chimaeras
poetae finxerunt, horum enim sunt in¬
tellectus quibus subiecta nulla substantia
est. sed si quis ad naturam redeat
eamque consideret diligenter, agnoscet cum
res est, eius quoque esse intellectum:
quod si non apud homines, certe apud
eum, qui pro- 10 priae divinitate
substantiae in propria natura ipsius rei
nihil ignorat, et si est intellectus,
et vox est; quod si vox fuerit,
eius quoque sunt litterae, quae si
Ignorantur, nihil ad ipsam vocis naturam,
neque enim, quasi causa quaedam vocum
est intellectus aut vox causa litterarum,
ut cum eaedem sint apud ali¬ quos
litterae, necesse sit eadem quoque esse
nomina: ita quoque cum eaedem sint
vel res vel intellectus apud aliquos,
mox necesse est intellectuum ipsorum vel
rerum eadem esse vocabula, nam cum eadem
sit 20 et res et intellectus hominis,
apud diversos tamen homines huiusmodi
substantia aliter et diverso no¬ mine
nuncupatur, quare voces quoque cum eaedem
sint, possunt litterae esse diversae, ut
in hoc nomine quod est homo: cum
unum sit nomen, diversis litte- 25
ris scribi potest, namque Latinis litteris
scribi potest, potest etiam Graecis,
potest aliis nunc primum inventis
litterarum figuris, quare quoniam apud quos
eaedem res sunt, eosdem intellectus esse
necesse est, apud quos idem intellectus
sunt, voces eaedem non 30 sunt
et apud quos eaedem voces sunt, non
necesse 2 significant F 3 est
semper E 9 omnes T2 Denm b 10
snbst. div. E 13 nataram pertinet F2
14 quaedam causa F 15 ut enim
cum S2F 16 pro litterae: uoces E2
easdem E2 pro nomina: literas E2 18
mox non S2FE2 25 namque — potest
in marg. F 28 res om. F1 29
non eaedem (non supra lin .) F 30
prius sunt om. F I c. 1.
23 est eadem elementa constitui;
dicendum est res et intellectus, quoniam
apud omnes idem sunt, | esse na-
p.297 turaliter constitutos, voces vero
atque litteras, quo¬ niam diversis hominum
positionibus permutantur, non esse naturaliter,
sed positione, concludendum est 5 igitur,
quoniam apud quos eadem sunt elementa,
apud eos eaedem quoque voces sunt et
apud quos eaedem voces sunt, idem
sunt intellectus; apud quos autem idem
sunt intellectus, apud eosdem res quoque
eae¬ dem subiectae sunt: rursus apud
quos eaedem res 10 sunt, idem quoque
sunt intellectus; apud quos idem
intellectus, non eaedem voces; nec apud
quos eaedem voces sunt, eisdem semper
litteris verba ipsa vel no¬ mina
designantur, sed nos in supra dictis sententiis
elemento atque littera promiscue usi sumus,
quae 15 autem sit horum distantia
paucis absolvam, littera est inscriptio
atque figura partis minimae vocis
articulatae, elementum vero sonus ipsius
inscriptionis: ut cum scribo litteram quae
est a, formula ipsa quae atramento
vel graphio scribitur littera nominatur, 20
ipse vero sonus quo ipsam litteram
voce proferimus dicitur elementum, quocirca
hoc cognito illud dicen¬ dum est,
quod is qui docet vel qui continua
oratione loquitur vel qui interrogat,
contrarie se habet his qui vel
discunt vel audiunt vel respondent in
his tribus, 25 voce scilicet, intellectu
et re (praetermittantur enim litterae
propter eos qui earum sunt expertes),
nam qui docet et qui dicit et
qui interrogat a rebus ad intellectum
profecti per nomina et verba vim
propriae actionis exercent atque officium
(rebus enim subiectis ab his capiunt
intellectus et per nomina verbaque 0
14 designentur T doctis S1 17.
18 min. p. art. voc. E 19
littera T pro a: id T 20 grafio
STE 24. 25 vel qui F1 29
profecti ego : profecto SFE, profectu T,
profectus S2F2E2 30 exercent ego: exercet
codices atque in marg. S
pronuntiant), qui vero discit vel qui
audit vel etiam qui respondet a
nominibus ad intellectus progressi ad res
usque perveniunt, accipiens enim is qui
discit vel qui audit vel qui
respondet docentis vel dicentis 5 vel
interrogantis sermonem, quid unusquisque illorum
dicat intellegit et intellegens rerum
quoque scientiam capit et in ea
consistit, recte igitur dictum est in
voce, intellectu atque re contrarie sese
habere eos qui docent, dicunt, interrogant
atque eos qui discunt, audiunt et re-
10 spondent, cum igitur haec sint
quattuor, litterae, voces, intellectus, res,
proxime quidem et principaliter litterae
verba nominaque significant, haec vero
principaliter qui¬ dem intellectus, secundo
vero loco res quoque designant, intellectus
vero ipsi nihil aliud nisi rerum
significativi 15 sunt, antiquiores vero
quorum est Plato, Aristoteles, Speusippus,
Xenocrates hi inter res et significationes
intellectuum medios sensus ponunt in
sensibilibus rebus vel imaginationes quasdam,
in quibus intellectus ipsius origo
consistat, et nunc quidem 20 quid de
hac re Stoici dicant praetermittendum est.
hoc autem ex his omnibus solum
cognosci oportet, quod ea quae sunt
in litteris eam significent orationem quae
in voce consistit et ea quae est
vocis oratio quod animi atque intellectus
orationem designet, 25 quae tacita
cogitatione conficitur, et quod haec intel¬
lectus oratio subiectas principaliter res
sibi concipiat ac designet, ex quibus
quattuor duas quidem Aristo¬ teles esse
naturaliter dicit, res et animi conceptiones,
id est eam quae fit in intellectibus
orationem, idcirco 30 quod apud omnes
eaedem atque inmutabiles sint; 6 et
om. S1 12 uerba et nomina S2F,
nomina et uerba (in ras .) E 12 —
13 haec — designant in marg. E
14 significationes F 16 //usippus S,
siue usippus S2FT 19 nunc om.
SFT 20 dicunt SF 23 et quod
S2FE2 est om. S1 uocis est F 24
quod dei. S2, om. FE 29 intel¬
lectus S1 I c. 1. 25
duas vero non naturaliter, sed positione
constitui, quae sunt scilicet verba nomina
et litterae, quas idcirco naturaliter fixas
esse non dicit, quod (ut supra
demonstratum est) non eisdem vocibus omnes
aut isdem utantur elementis, atque hoc
est quod ait: 5 Sunt ergo ea
quae sunt in voce earum quae sunt
in anima passionum notae et ea quae
scribuntur eorum quae sunt in voce,
et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem,
sic nec voces eaedem, quorum autem
haec primorum notae, eaedem omnibus
passiones animae et quorum hae
similitudines, res etiam eaedem, de his
quidem dictum est in his quae sunt
dicta de anima, alterius est enim
negotii. Cum igitur prius posuisset
nomen et verbum et quaecumque secutus
est postea se definire promisisset, haec
interim praetermittens de passionibus animae
deque earum notis, quae sunt scilicet
voces, pauca praemittit, sed cur hoc
ita interposuerit, plurimi |com- p.298 mentatores
causas reddere neglexerunt, sed a tribus
20 quantum adhuc sciam ratio huius
interpositionis explicita est. quorum Hermini
quidem a rerum veritate longe disiuncta
est. ait enim idcirco Aristotelen de
notis animae passionum interposuisse sermonem,
ut utilitatem propositi operis inculcaret,
disputaturus 25 enim de vocibus, quae
sunt notae animae passionum, recte de
his quaedam ante praemisit, nam cum suae
nullus animae passiones ignoret, notas
quoque cum animae passionibus non nescire
utilissimum est. neque enim illae cognosci
possunt nisi per voces quae sunt 30
1 non om. S1 4.5 eisdem FE
10 noces eaedem F Ar.: eaedem uoces
ceteri hae codices cf. p. 43 , 6
12 animae sunt codices : sunt om.
Ar. cf. ed. I hae 27, he§ X:
eaedem ceteri 14 dicta post anima X
enim om. X1 (enim est X2) 16
definire se F 20 neglexerunt h:
neglexerant codices 21. 22 explicata E (
corr . E2) 23 Aristotelem F 26
SECVNDA EDITIO earum scilicet
notae. Alexander vero aliam huius- modi
interpositionis reddidit causam, quoniam, in¬
quit, verba et nomina interpretatione
simplici conti¬ nentur, oratio vero ex
verbis nominibusque coniuncta 5 est et in
ea iam veritas aut falsitas invenitur;
sive autem quilibet sermo sit simplex,
sive iam oratio coniuncta atque conposita,
ex his quae significant mo¬ mentum
sumunt (in illis enim prius est eorum
ordo et continentia, post redundat in
voces): quocirca quo- 10 niam
significantium momentum ex his quae
signifi¬ cantur oritur, idcirco prius nos
de his quae voces ipsae significant
docere proponit, sed Herminus hoc loco
repudiandus est. nihil enim tale quod
ad cau¬ sam propositae sententiae
pertineret explicuit. Ale- 15 x and
er vero strictim proxima intellegentia
praeter¬ vectus tetigit quidem causam, non
tamen principalem rationem Aristotelicae
propositionis exsolvit. sedPor- phyrius ipsam
plenius causam originemque sermonis huius
ante oculos conlocavit, qui omnem apud
priscos 20 philosophos de significationis
vi contentionem litem¬ que retexuit, ait
namque dubie apud antiquorum philosophorum
sententias constitisse quid esset proprie
quod vocibus significaretur, putabant namque
alii res vocibus designari earumque
vocabula esse ea quae sonarent in
vocibus arbitrabantur, alii vero incorporeas
quasdam naturas meditabantur, quarum essent
signifi¬ cationes quaecumque vocibus
designarentur: Platonis aliquo modo species incorporeas
aemulati dicentis hoc ipsum homo et
hoc ipsum equus non hanc cuiuslibet
subiectam substantiam, sed illum ipsum
hominem specialem et illum ipsum equum,
universaliter et incorporaliter co- 2
interpraetationis T 6 pro iam: autem
S, om. F 7 significantur b 13
ad in marg. E 20 de om. F1 21
apud om. E1 22 sententiae S1 24
eorum/////q; SE, eorumq; T uocubula T
25 sonarent ego: sonauerunt S, sonauerint
S2FE, sonuerint T 31 equum significare
T I c. 1. 27 gitantes
incorporales quasdam naturas constituebant, quas
ad significandum primas venire putabant et
cum aliis item rebus in significationibus
posse coniungi, ut ex his aliqua
enuntiatio vel oratio conficeretur, alii
vero sensus, alii imaginationes significari
vocibus arbitrabantur. cum igitur ista
esset contentio apud supe¬ riores et
haec usque ad Aristotelis pervenisset aeta¬
tem, necesse fuit qui nomen et verbum
significativa esset definiturus praediceret
quorum ista designativa sint. Aristoteles
enim nominibus et verbis res subiectas
significari non putat, nec vero sensus
vel etiam imaginationes, sensuum quidem non
esse significativas voces nomina et verba
in opere de iustitia sic de¬ clarat
dicens cpvdeL yaQ ev&vg diriQ^rai tcc
rs votf- { Lata nal ta aiGfrri [luta,
quod interpretari Latine potest hoc modo:
natura enim<(statim)>divisa sunt intellectus
et sensus, differre igitur aliquid arbi¬
tratur sensum atque intellectum, sed qui
passiones animae a vocibus significari dicit,
is non de sensibus loquitur, sensus
enim corporis passiones sunt, si igitur
ita dixisset passionescorporis a vocibus
significari, tunc merito sensus intellegeremus,
sed quoniam passiones animae nomina 'et
verba significare propo¬ suit, non sensus
sed intellectus eum dicere putandum est.
sed quoniam imaginatio quoque res animae
est, dubitaverit aliquis ne forte passiones
animae imagi- 14 Ar. fragm. coli.
VRose 76 2 per quas se F2
9 designativa b: designificatiua co¬ dices
14 dirjQ7]Tcu ego (cf. Ar. 1162,22
eth. Nic. VIII, 14: sv&vs yocQ
di7iQi]Tcu tu %Qya v.ul S6TLV sxsQu
uvSqos Y.ui yv- vaixog): anhphtai SGNJTE;
verba Graeca om. F (<4>rsEl FAP
EY& et alia in marg. F2), dicens
hic deest grecum quod interpretari B
15 AIZTHMATA EN Latine om. F 16
potes VRose statim ego add.: om.
codices diuersa E2 est N 19 a
om. S*F 23 designificare F 26 animae
om. F 5 10 15 20
25 nationes, qnas Graeci (pavraCiag
nominant, dicat, sed haec in libris
de anima verissime diligentissimeque separavit
dicens etircv de cpavraoCa eteqov epaOeog
nal unoepaGeag' Gvintloxr} yaQ vorj[icctav
etirlv ro ccArjfreg 5 xcd ro tyevdog.
rd de tcqcotcc vocata t C dioCcei rov
[. irj cpavrcc<D[iuTa eivcu; rj ovde
ravra <pavrcc6[iarcc, «AA’ ovk ccvev
cpuvratitiarav. quod sic interpretamur: est
autem imaginatio diversa adfirmatione et ne¬
gatione; conplexio namque intellectuum est
10 veritas et falsitas. primi vero
intellectus quid discrepabunt, ut non sint
imaginationes? an certe neque haec sunt
imaginationes, sed sine imaginationibus non
sunt, quae sententia demonstrat aliud
quidem esse imaginationes, aliud in- 15
telleetus; ex intellectuum quidem conplexione
adfirma- 299 tiones fieri et negationes:
| quocirca illud quoque du¬ bitavit,
utrum primi intellectus imaginationes quaedam
essent, primos autem intellectus dicimus,
qui simplicem rem concipiunt, ut si
qui dicat Socrates solum 20 dubitatque
utrum huiusmodi intellectus, qui in se
nihil neque veri continet neque falsi,
intellectus sit an ipsius Socratis
imaginatio, sed de hoc quoque aperte
quid videretur ostendit, ait enim an certe
neque haec sunt imaginatione, sed non
sine imaginationibus sunt, id est quod
hic sermo significat qui est Socrates
vel alius simplex non est quidem
imaginatio, sed intellectus, qui intellectus
praeter ima¬ ginationem fieri non potest,
sensus enim atque ima- 3 Ar. de
an. III, 8: 432, 10 — 14. 1 fantasias
F, phantasias ceteri 2 haec b: hoc
codices diligentissimeque neq; N ( corr .
aeque N1?) 3 — 7 dicens. EZTIN je (
cet. om.) F, dicens hic item deest
grecum B 6 cpcivtuGiiuxci — imaginationes:
<E>ANTAZMsl codices pro rj: N codices
7 interpretatur EN 10 aliquid S2F 13.
14 demonstret T, corr. T2 19 quis
F 25 idem ( pro id est) T2 26
pro qui: quid S, quod S2F I
c. 1. 29 ginatio quaedam
primae figurae sunt, supra quas velut fundamento
quodam superveniens intellegentia nitatur, nam
sicut pictores solent designare lineatim
corpus atque substernere ubi coloribus
cuiuslibet exprimant vultum, sic sensus
atque imaginatio naturaliter in 5 animae
perceptione substernitur, nam cum res
aliqua sub sensum vel sub cogitationem
cadit, prius eius quaedam necesse est
imaginatio nascatur, post vero plenior
superveniat intellectus cunctas eius explicans
partes quae confuse fuerant imaginatione
praesumptae. 10 quocirca inperfectum quiddam
est imaginatio, nomina vero et verba
non curta quaedam, sed perfecta
significant. quare recta Aristotelis sententia
est: quaecumque in verbis nominibusque
versantur, ea neque sensus neque
imaginationes, sed solam significare in- 15
tellectuum qualitatem, unde illud quoque ab
Aristo¬ tele fluentes Peripatetici rectissime
posuerunt tres esse orationes, unam quae
scribi possit elementis, alteram quae voce
proferri, tertiam quae cogitatione conecti
unamque intellectibus, alteram voce, tertiam
20 litteris contineri, quocirca quoniam id
quod signifi¬ caretur a vocibus intellectus
esse Aristoteles puta¬ bat, nomina vero
et verba significativa esse in eorum
erat definitionibus positurus, recte quorum
essent significativa praedixit erroremque
lectoris ex multiplici 25 veterum lite
venientem sententiae suae manifestatione conpescuit.
atque hoc modo nihil in eo
deprehenditur esse superfluum, nihil ab
ordinis continuatione se- iunctum. quaerit
vero Porphyrius, cur ita dixerit: sunt
ergo ea quae sunt in voce, et
non sic: sunt 30 3 si quod
S^1 7 ait. sub om. F enim (pro
eius) E 10 confuse b: confusae
SF, confusa TE in im. S2, in
yma- ginationem F praesumpta T 15
imaginationis SFE1? 18 sit ( pro possit)
S1 19 cogitationem SFE 20 conecti ego
: conectit codices, connectitur b 21 teneri
F, corr. F2 22 esse om. T1 28
ad T igitur voces; et rursus
cur ita et ea quae scribun¬ tur
et non dixerit: et litterae, quod
resolvit hoc modo, dictum est tres
esse apud Peripateticos ora¬ tiones, unam
quae litteris scriberetur, aliam quae pro-
5 ferretur in voce, tertiam quae
coniungeretur in animo, quod si tres
orationes sunt, partes quoque orationis
esse triplices nulla dubitatio est. quare
quoniam ver¬ bum et nomen principaliter
orationis partes sunt, erunt alia verba
et nomina quae scribantur, alia quae
10 dicantur, alia quae tacita mente
tractentur, ergo quo¬ niam proposuit
dicens: primum oportet constituere, quid
nomen et quid verbum, triplex autem
nominum natura est atque verborum, de
quibus potis¬ simum proposuerit et quae
definire velit ostendit, et 15‘quoniam de
his nominibus loquitur ac verbis, quae
voce proferuntur, idem ipsum planius
explicans ait: sunt ergo ea quae sunt
in voce earum quae sunt in anima
passionum notae et ea quae scribuntur
eorum quae sunt in voce, velut si
diceret: 20 ea verba et nomina quae
in vocali oratione proferuntur animae
passiones denuntiant, illa autem rursus
verba et nomina quae scribuntur eorum
verborum nominum¬ que significantiae praesunt
quae voce proferuntur, nam sicut vocalis
orationis verba et nomina conceptiones
animi intellectusque significant, ita quoque
verba et nomina illa quae in solis
litterarum formulis iacent ijjorum verborum
et nominum significativa sunt quae
loquimur, id est quae per vocem
sonamus, nam quod ait: sunt ergo ea
quae sunt in voce, 30 subaudiendum
est verba et nomina, et rursus cum
dicit: et ea quae scribuntur, idem
subnectendum rursus est verba scilicet vel
nomina, et quod rursus 1 cur
om. F1 4. 5 proferetur F2T 8
post nomen ras. sex vel octo litt.
in S 12 quid sit n. codices 17
ergo om. SF 21 uerba rursus F
24 uerba orationis F 30. 31 cum
dicit rursus F 32 vel] et b
I c. 1. 31 adiecit: eorum
quae sunt in voce, addendum eo¬ rum
nomimum atque verborum quae profert atque explicat
vocalis oratio, quod si nihil deesset
omnino, ita foret totius plenitudo
sententiae: sunt ergo ea verba et
nomina quae sunt in voce earum quae
sunt 5 in anima passionum notae et
ea verba et nomina quae scribuntur
eorum verborum et nominum quae sunt
in voce, quod communiter intellegendum est,
li¬ cet ea | quae subiunximus deesse
videantur, quare non p. 300 est
disiuncta sententia, sed primae propositioni
con- 10 tinua. nam cum quid sit
verbum, quid nomen definire constituit, cum
nominis et verbi natura sit multiplex,
de quo verbo et nomine tractare
vellet clara signifi¬ catione distinxit,
incipiens igitur ab his nominibus ac
verbis quae in voce sunt, quorum
essent significa- 15 tiva disseruit, ait
enim haec passiones animae designare. illud
quoque adiecit quibus ipsa verba et
no¬ mina quae in voce sunt
designentur, his scilicet quae litterarum
formulis exprimuntur, sed quoniam non omnis
vox significativa est, verba vero vel
nomina 20 numquam significationibus vacant
quoniamque non omnis vox quae significat
quaedam positione designat, sed quaedam
naturaliter, ut lacrimae, gemitus atque
maeror (animalium quoque ceterorum quaedam
voces naturaliter aliquid ostentant, ut ex
canum latratibus 25 iracundia eorumque alia
quadam voce blandimenta monstrantur), verba
autem et nomina positione signi¬ ficant
neque solum sunt verba et nomina
voces, sed voces significativae nec solum
significativae, sed etiam quae positione
designent aliquid, non natura: non di-
30 xit: sunt igitur voces earum quae
sunt in anima pas¬ sionum notae,
namque neque omnis vox significativa
5. 6 quae sunt in v.— nomina
in marg. F 15 sunt] sunt designantes
TGr 17 et uerba et T 20 vel]
et b 21 va¬ cant ego: uacarent
codices , carent b que om. S1 22
qua¬ dam S2E 24 moerorem S, merore
FE 32 nam FT est et sunt
quaedam significativae quae naturaliter non
positione significent, quod si ita dixisset,
nihil ad proprietatem verborum et nominum
pertineret, quocirca noluit communiter dicere
voces, sed dixit 5 tantum ea quae
sunt in voce, vox enim universale
quiddam est, nomina vero et verba
partes, pars autem omnis in toto est.
verba ergo et nomina quoniam sunt
intra vocem, recte dictum est ea quae
sunt in voce, velut si diceret: quae
intra vocem continentur intel- 10 lectuum
designativa sunt, sed hoc simile est
ac si ita dixisset: vox certo modo
sese habens significat intellectus. non
enim (ut dictum est) nomen et verbum
voces tantum sunt, sicut nummus quoque
non solum aes inpressum quadam figura
est, ut nummus vocetur, 15 sed etiam
ut alicuius rei sit pretium: eodem
quoque modo verba et nomina non solum
voces sunt, sed positae ad quandam
intellectuum significationem, vox enim quae
nihil designat, ut est garalus, licet
eam grammatici figuram vocis intuentes
nomen esse con- 20 tendant, tamen eam
nomen philosophia non putabit, nisi sit
posita ut designare animi aliquam
conceptio¬ nem eoque modo rerum aliquid
possit, etenim nomen alicuius nomen esse
necesse erit; sed si vox aliqua nihil
designat, nullius nomen est; quare si
nullius est, 25 ne nomen quidem esse
dicetur, atque ideo huiusmodi vox id est
significativa non vox tantum, sed verbum
vocatur aut nomen, quemadmodum nummus non
aes, sed proprio nomine nummus, quo
ab alio aere discre¬ pet, nuncupatur,
ergo haec Aristotelis sententia 30 qua
ait ea quae sunt in voce nihil
aliud designat nisi eam vocem, quae
non solum vox sit, sed quae cum vox
sit habeat tamen aliquam proprietatem et
4 dicere ( pro dixit) T 9. 10
des. s. intell. T, corr. T2 13
nummos S1 18 garulus F 20 putabit
ego: putavit codices 22 aliq. rer.
F 25 dicitur T ideo om. F1 27
— 28 non — nummus in marg. S
30 qua ait om. F1 I c.
1. 33 aliquam quodammodo figuram
positae significationis inpressam. horum vero
id est verborum et nominum quae sunt
in voce aliquo modo se habente ea
sunt scilicet significativa quae scribuntur,
ut hoc quod di¬ ctum est quae
scribuntur de verbis ac nominibus 5
dictum quae sunt in litteris intellegatur,
potest vero haec quoque esse ratio
cur dixerit et quae scri¬ buntur:
quoniam litteras et inscriptas figuras et
voces, quae isdem significantur formulis,
nuncupamus (ut a et ipse sonus litterae
nomen capit et illa quae 10 in
subiecto cerae vocem significans forma
describitur), designare volens, quibus verbis
atque nominibus ea quae in voce sunt
adparerent, non dixit litteras, quod ad
sonos etiam referri potuit litterarum, sed
ait quae scribuntur, ut ostenderet de
his litteris dicere quae 15 in
scriptione consisterent id est quarum
figura vel in cera stilo vel in
membrana calamo posset effingi, alioquin
illa iam quae in sonis sunt ad
ea nomina referuntur quae in voce
sunt, quoniam sonis illis no¬ mina et
verba iunguntur. sed Porphyrius de utraque
expositione iudicavit dicens: id quod ait
et quae scribuntur non potius ad
litteras, sed ad verba et nomina quae
posita sunt in litterarum inscriptione
referendum, restat igitur ut illud quoque
addamus, cur non ita dixerit: sunt
ergo ea quae sunt in voce 25
intellectuum notae, sed ita earum quae
sunt in anima passionum notae, nam
cum ea quae sunt p.30l in voce
res intellectusque significent, principaliter
qui¬ dem intellectus, res vero quas ipsa
intellegentia con- prehendit secundaria
significatione per intellectuum 30 medietatem,
intellectus ipsi non sine quibusdam pas¬
sionibus sunt, quae in animam ex
subiectis veniunt rebus, passus enim
quilibet eius rei proprietatem, 3
sese E 5 et F 8 scriptas b
15 se de? 15. 16 quae
inscriptione T 17 menbrana F 23
proposita F 24 illas Tl 26 si
T 31. 32 medietatibus {pro pass.) T
Boetii comment. II. 3 34 quam
intellectu conplectitur, ad eius enuntiationem
designationemque contendit, cum enim quis
aliquam rem intellegit, prius imaginatione
formam necesse est intellectae rei
proprietatemque suscipiat et fiat vel 5
passio vel cum passione quadam intellectus
perceptio, hac vero posita atque in
mentis sedibus conlocata fit indicandae ad
alterum passionis voluntas, cui actus
quidam continuandae intellegentiae protinus ex
intimae rationis potestate supervenit, quem
scilicet explicat et 10 effundit oratio
nitens ea quae primitus in mente
fundata est passione, sive, quod est
verius, significatione progressa oratione progrediente
simul et significantis seorationis motibus
adaequante, fit vero baec passio velut
figurae alicuius inpressio, sed ita ut
in animo 15 fieri consuevit, aliter namque
naturaliter inest in re qualibet propria
figura, aliter vero eius ad animum
forma transfertur, velut non eodem modo
cerae vel marmori vel chartis litterae
id est vocum signa mandantur. et
imaginationem Stoici a rebus in animam
20 translatam loquuntur, sed cum adiectione
semper dicentes ut in anima, quocirca
cum omnis animae passio rei quaedam
videatur esse proprietas, porro autem
designativae voces intellectuum principaliter,
rerum dehinc a quibus intellectus profecti
sunt significatione nitantur, quidquid est in
vocibus significativum, id animae passiones
designat, sed hae passiones animarum ex rerum similitudine procreantur, videns 4 intellegi T
( corr. T1) 5 intellectio T 6 Haec
T 8 quidem F 9 quem actum
F, actum supra lin. J, s. actum
supra lin. S2 12 oratione ego: oratio
codices; oratio suprascr. s. explicat S2,
oratio ///////////explicat F significatione dei
et post simul transponit F2 (E in
marg.: aliter siue quod est verius
significatione progrediente oratio progressa
simul et se signif. or. mot. adaeq.)
13 metibus S1, mentibus F1 17
transferetur T, corr. T2 17 vel om.
F 19 a om. S1 25 nitatur S^1
27 animorum SFE et T^1 I c.
1. 35 namque aliquis sphaeram
vel quadratum vel quamlibet aliam rerum
figuram eam in animi intellegentia qua¬
dam vi ac similitudine capit, nam qui
sphaeram viderit, eius similitudinem in
animo perpendit et cogitat atque eius
in animo quandam passus imaginem id
cuius imaginem patitur agnoscit, omnis vero
imago rei cuius imago est similitudinem
tenet: mens igitur cum intellegit, rerum
similitudinem conprehendit. unde fit ut,
cum duorum corporum maius unum, minus
alterum contuemur, a sensu postea remotis
corporibus illa ipsa corpora cogitantes
illud quoque memoria servante noverimus
sciamusque quod minus, quod vero maius
corpus fuisse conspeximus, quod nullatenus
eveniret, nisi quas semel mens passa
est rerum similitudines optineret. quare
quoniam passiones animae quas intellectus
vocavit rerum quaedam similitudines sunt,
idcirco Aristoteles, cum paulo post de
passio¬ nibus animae loqueretur, continenti
ordine ad simili¬ tudines transitum fecit,
quoniam nihil differt utrum passiones
diceret an similitudines, eadem namque res
in anima quidem passio est, rei vero
similitudo, et Alexander hunc locum: sunt
ergo ea quae sunt in voce earum
quae sunt in anima passionum notae et
ea quae scribuntur eorum quae sunt in
voce, et quemadmodum nec litterae omni¬
bus eaedem, sic nec voces eaedem hoc
modo conatur exponere: proposuit, inquit,
ea quae sunt in voce intellectus
animi designare et hoc alio probat
exemplo, eodem modo enim ea quae sunt
in voce passiones animae significant,
quemadmodum ea quae scribuntur voces
designant, ut id quod ait et ea
quae 1 aliquis om. T, aliqui E
feram S, speram S2FT 3 ui§ (pro vi
ac) SF speram FT 9 duum S2F2 12
sciamusque ego: sciemusq. codices 14 mens
om. T 20 pass. animae editio princeps
24 inscribuntur SFE 26 eaedem uoces
codices (item p. 36, 6. 7) 29
enim modo F scribuntur ita
intellegamus, tamquam si diceret: quemadmodum
etiam ea quae scribuntur eorum quae
sunt in voce, ea vero quae scribuntur,
inquit Alexander, notas esse vocum id
est nominum ac verbo- 5 rum ex
hoc monstravit quod diceret et quemadmo¬
dum nec litterae omnibus eaedem, sic
nec voces eaedem, signum namque est
vocum ipsarum significationem litteris contineri,
quod ubi variae sunt litterae et non
eadem quae scribuntur varias quoque 10
voces esse necesse est. haec Alexander.
Porphy- rius vero quoniam tres proposuit
orationes, unam quae litteris contineretur, secundam
quae verbis ac nominibus personaret,
tertiam quam mentis evolveret intellectus,
id Aristotelem significare pronuntiat, 15
cum dicit: sunt ergo ea quae sunt
in voce earum quae sunt in anima
passionum notae, quod ostenderet si ita
dixisset: sunt ergo ea quae sunt in
p. 302 voce et verba et nomina
animae passionum | notae, et quoniam
monstravit quorum essent voces significa-
20 tivae, illud quoque docuisse quibus
signis verba vel nomina panderentur ideoque
addidisse et ea quae scribuntur eorum
quae sunt in voce, tamquam si
diceret: ea quae scribuntur verba et nomina
eorum quae sunt in voce verborum et
nominum notae sunt. 25 nec disiunctam
esse sententiam nec (ut Alexander putat)
id quod ait: et ea quae scribuntur
ita in¬ tellegendum, tamquam si diceret:
sicut ea quae scribuntur id est
litterae illa quae sunt in voce
significant, ita ea quae sunt in voce
notas esse animae 30 passionum, primo
quod ad simplicem sensum nihil addi
oportet, deinde tam brevis ordo tamque
neces¬ saria orationis non est intercidenda
partitio, tertium vero quoniam, si similis
significatio est litterarum vo- 5 quo
TE1 9 eaedem F, eedem T 13 quae
F 14 ari- stotelen T 18 prius
et om. TE 20 et b 29 sunt
om. SF 30 primum? quidem quod b
31 deinde quod b tamque] tamquam T
33 esset E2 I c. 1. 37
cumque, quae est vocum et animae
passionum, opor¬ tet sicut voces diversis
litteris permutantur, ita quoque passiones
animae diversis vocibus permutari, quod non
fit. idem namque intellectus variatis
potest voci¬ bus significari, sed Alexander
id quod eum superius sensisse memoravi
boc probare nititur argumento, ait enim
etiam in hoc quoque similem esse
significa¬ tionem litterarum ac vocum,
quoniam sicut litterae non naturaliter
voces, sed positione significant, ita
quoque voces non naturaliter intellectus
animi, sed aliqua positione designant, sed
qui prius recepit, ut id quod
Aristoteles ait: et ea quae scribuntur
ita dictum esset, tamquam si diceret:
sicut ea quae scribuntur, quidquid ad
hanc sententiam videtur ad- iungere,
aequaliter non dubitatur errare, quocirca
nostro iudicio qui rectius tenere volent
Porphyrii se sententiis adplicabunt. Aspasius
quoque secundae sententiae Alexandri, quam
supra posuimus, valde consentit, qui a
nobis in eodem quo Alexander errore
culpabitur. Aristoteles vero duobus modis
esse has notas putat litterarum, vocum
passionumque ani¬ mae constitutas: uno
quidem positione, alio vero na¬ turaliter.
atque hoc est quod ait: et quemadmodum
nec litterae omnibus eaedem, sic nec
voces eaedem, nam si litterae voces,
ipsae vero voces intellectus animi
naturaliter designarent, omnes homines isdem
litteris, isdem etiam vocibus uterentur,
quod quoniam apud omnes neque eaedem
litterae neque eaedem voces sunt, constat
eas non esse naturales, sed hic duplex
lectio est. Alexander enim hoc modo
legi putat oportere: quorum autem haec
primo- 1. 2 oporteret E 11
recipit S, corr. S2 18—19 quam —
Alexander in marg. S 21 vocum om.
S1 24. 25 eaedem v. codices {item
p. 38, 10 et 29) 27 hisdem
S2F2TE hisdem SF2TE 31 hae codices
{item p. 38, 18) 5 10
15 20 25 30 38
rum notae, eaedem omnibus passiones
animae et quorum eaedem similitudines, res
etiam eaedem, volens enim Aristoteles ea
quae positione significant ab bis quae
aliquid designant naturaliter 5 segregare
hoc interposuit: ea quae positione significant
varia esse, ea vero quae naturaliter
apud omnes eadem, et incobans quidem
a vocibus ad litteras venit easque
primo non esse naturaliter significativas
demonstrat dicens: et quemadmodum nec
litterae 10 omnibus eaedem, sic nec
voces eaedem, nam si idcirco probantur
litterae non esse naturaliter signifi¬
cantes, quod apud alios aliae sint ac
diversae, eodem quoque modo probabile erit
voces quoque non naturaliter significare,
quoniam singulae hominum gentes 15 non
eisdem inter se vocibus conio quantur.
volens vero similitudinem intellectuum rerumque
subiectarum docere naturaliter constitutam ait:
quorum autem haec primorum notae, eaedem
omnibus passio¬ nes animae, quorum, inquit,
voces quae apud diver- 20 sas gentes
ipsae quoque diversae sunt significationem retinent,
quae scilicet sunt animae passiones, illae
apud omnes eaedem sunt, neque enim
fieri potest, ut quod apud Romanos
homo intellegitur lapis apud barbaros
intellegatur, eodem quoque modo de ceteris
25 rebus, ergo huiusmodi sententia est,
qua dicit ea quae voces significent
apud omnes hominum gentes non mutari,
ut ipsae quidem voces, sicut supra
mon¬ stravit cum dixit quemadmodum nec
litterae omnibus eaedem, sic nec voces
eaedem, apud 30 plures diversae sint,
illud vero quod voces ipsae si¬
gnificant apud omnes homines idem sit
nec ulla ra- 1 animae sunt
codices ( item 19) 7 inchoatis T 8
significas S1, signifitiuas T 15
colloquuntur b 17 //////ait S, quod
ait TE (quod dei. E1?) 22 apud
om. F, add. F1 23 qui T
24 modo quoq. F 29 apud ego:
cum apud codices 31 fit F I
c. 1. 39 tione valeat
permutari, qui sunt scilicet intellectus rerum,
qui quoniam naturaliter sunt permutari non
possunt, atque hoc est quod ait:
quorum autem haec primorum notae, id
est voces, eaedem om¬ nibus passiones
animae, ut demonstraret voces 5 quidem
esse diversas, quorum autem ipsae voces
signi¬ ficativae essent, quae sunt scilicet
animae passiones, easdem apud omnes esse
nec | ullratione, quoniam p.303 sunt
constitutae naturaliter, permutari, nec vero
in hoc constitit, ut de solis vocibus
atque intellectibus 10 loqueretur, sed
quoniam voces atque litteras non esse
naturaliter constitutas per id significavit,
quod eas non apud omnes easdem esse
proposuit, rursus intel¬ lectus quos animae
passiones vocat per hoc esse naturales
ostendit, quod apud omnes idem sint,
a quibus id est intellectibus ad res
transitum fecit, ait enim quorum hae
similitudines, res etiam eaedem hoc
scilicet sentiens, quod res quoque
naturaliter apud omnes homines essent
eaedem: sicut ipsae animae passiones quae
ex rebus sumuntur apud omnes horni-
20 nes eaedem sunt, ita quoque etiam
ipsae res quarum similitudines sunt animae
passiones eaedem apud omnes sunt, quocirca
quoque naturales sunt, sicut sunt etiam
rerum similitudines, quae sunt animae
passiones. H er minus vero huic est
expositioni con- 25 trarius. dicit enim
non esse verum eosdem apud omnes
homines esse intellectus, quorum voces
significativae sint, quid enim, inquit, in
aequivocatione dicetur, ubi unus idemque
vocis modus plura significat? sed magis
hanc lectionem veram putat, ut ita 30
sit: quorum autem haec primorum notae,
hae omnibus passiones
animae et quorumhae similitudines, res etiam hae: ut demonstratio vi- 4 hae codices (item 31) animae sunt codices (item 32) 21 quarum b: quorum codices
23 homines F, corr. F2 res quoq.
b 28 sunt F 31 autem
ovi.deatur quorum voces significativae sint vel quorum passiones animae similitudines, et lioc simpliciter accipiendum
est secundum Her minum, ut ita dicamus:
quorum voces significativae sunt, illae
sunt animae passiones, tamquam diceret:
animae passiones sunt, quas significant
voces, et rursus quorum sunt similitudines
ea quae intellectibus continentur, illae
sunt res, tamquam si dixisset: res
sunt quas significant in¬ tellectus. sed
Porphyrius de utrisque acute subti- 10
literque iudicat et Alexandri magis sententiam
probat, hoc quod dicat non debere
dissimulari de multiplici aequivocationis
significatione, nam et qui dicit ad
unam quamlibet rem commodat animum,
scilicet quam intellegens voce declarat, et
unum rursus intel- 15 lectum quemlibet
is qui audit exspectat, quod si, cum
uterque ex uno nomine res diversas intellegunt,
ille qui nomen aequivocum dixit designet
clarius, quid illo nomine significare
voluerit, accipit mox qui audit et ad
unum intellectum utrique conveniunt, qui
rursus fit unus apud eosdem illos
apud quos primo diversae fuerant animae
passiones propter aequivocationem nominis. neque
enim fieri potest, ut qui voces
positione significantes a natura eo
distinxerit quod easdem apud omnes esse
non diceret, eas res quas esse
naturaliter 25 proponebat non eo tales
esse monstraret, quod apud omnes easdem
esse contenderet, quocirca Alexander vel
propria sententia vel Porphyrii auctoritate
probandus est. sed quoniam ita dixit
Aristoteles: quorum autem haec primorum
notae, eaedem omnibus passiones animae sunt,
quaerit Ale- 9. 10 suptiliterq. SE
11 hoc dei. S2, om. F quod F:
quo STEGN, quoque E2 dicit E2
14 voce eras, in F 16
utrique? 17 designat T quod T 18 nomen S1 23 distinxerint T quos (suprascr.
d) S, qui (in marg. quod) T 24
eas] is? 25 demonstraret T 27 pro
porphirii E 29 hae codices I c. 1. 41
x and er: si rerum nomina
sunt, quid causae est ut primorum
intellectuum notas esse voces diceret
Aristoteles? rei enim ponitur nome, ut
cum dicimus homo significamus quidem
intellectum, rei tamen nomen est id
est animalis rationalis mortalis, cur ergo
5 non primarum magis rerum notae sint
voces quibus ponuntur potius quam
intellectuum? sed fortasse quidem ob hoc
dictum est, inquit, quod licet voces
rerum nomina sint, tamen non idcirco
utimur vocibus, ut res significemus, sed
ut eas quae ex rebus nobis io
innatae sunt animae passiones, quocirca
propter quo¬ rum significantiam voces ipsae
proferuntur, recte eorum primorum esse
dixit notas, in hoc vero Aspa- sius
permolestus est. ait enim: qui fieri potest,
ut eaedem apud omnes passiones animae
sint, cum tam 15 diversa sententia de
iusto ac bono sit? arbitratur Aristotelem
passiones animae non de rebus
incorporalibus, sed de his tantum quae
sensibus capi possunt passiones animae
dixisse, quod perfalsum est. neque enim
umquam intellexisse dicetur, qui fallitur,
et fortasse quidem passionem animi habuisse
dicetur, quicumque id quod est bonum
non eodem modo quo est, sed aliter
arbitratur, intellexisse vero non dicitur.
Aristoteles autem cum de similitudine
loquitur, de intellectu pronuntiat, neque
enim fieri potest, ut qui 25 quod
bonum est malum esse arbitratur boni
similitudinem mente conceperit, neque enim
intellexit rem subiectam. sed quae sunt
iusta ac bona ad positionem omnia
naturamve referuntur, et si de iusto
ac bono p. 304 ita loquitur, ut
de eo quod civile ius aut civilis
in- 30 1 quod T causa S F
2 dixerit b 4 pro tamen: quidem
T 6 sunt E, corr. E2 8 quidem
post dictum F 10 nris STE (corr.
S2E2) 11 sint S praeter
T 13esse prim. F 22 ///////id
S, cum id TE (cum dei. E2)
quidem (pro quod est) T quo S2F2:
quod SFTE 23 dicetur? 29 si om.
S1 30 ita om. F1 iuria dicitur, recte
non eaedem sunt passiones animae, quoniam
civile ius et civile bonum positione
est, non natura, naturale vero bonum
atque iustum apud omnes gentes idem
est. et de deo quoque idem: cuius
5 quamvis diversa cultura sit, idem
tamen cuiusdam eminentissimae naturae est
intellectus, quare repetendum breviter a
principio est. <(a^>partibus enim ad
orationem usque pervenit: nam quod se
prius quid esset verbum, quid nomen
constituere dixit, hae mi- 10 nimae
orationis partes sunt; quod vero
adfirmationem et negationem, iam de
conposita ex verbis et nominibus oratione
loquitur, quae eaedem rursus partes sunt
enuntiationis, et post enuntiationis
propositionem de oratione loqui proposuit,
cuius ipsa quoque enuntiatio, pars est.
et quoniam (ut dictum est) triplex
est oratio, quae in litteris, quae in
voce, quae in intellectibus est, qui
verbum et nomen definiturus esset eaque
significativa positurus, dicit prius quorum
significativa sint ipsa verba et nomina
et incohat quidem ab his nominibus et
verbis quae sunt in voce dicens: sunt
ergo ea quae sunt in voce et
demonstrat quorum sint significativa adiciens
earum quae sunt in anima passionum
notae. rursus nominum ipsorum verborumque
quae in voce sunt ea verba et
nomina quae essent in litteris constituta
significativa esse declarat dicens et ea
quae scribuntur eorum quae sunt in
voce, et quoniam quattuor ista quaedam
sunt: litterae, voces, intellectus, res,
quorum litterae et voces positione sunt,
natura vero res atque intellectus,
demonstravit voces non esse naturaliter,
sed positione per hoc quod ait non
easdem esse apud omnes, sed varias,
ut est et quemadmodum nec 1 non
recte F 7 a ego add.: om.
codices 8 quod om. T 15. 16 or.
est F 16 postrem. in om. FE 18
ea quae FE positurus b: positurus est
codices 22 sign. sint F eorum SFE
30 litteras et voces? 31 per om.
SFT quod b: quo///F, quo STE I
c. 1. 43 litterae omnibus eaedem, sic
nec voces eaedem. ut vero demonstraret
intellectus et res esse naturaliter, ait apud
omnes eosdem esse intellectus, quorum
essent voces significativae, et rursus apud
omnes easdem esse res, quarum similitudines
essent animae passiones, ut est quorum
autem haec primorum notae, scilicet quae
sunt in voce, eaedem omnibus passiones
animae et quorum hae similitudines, res
etiam eaedem, passiones autem animae dixit,
quoniam alias diligenter ostensum est omnem
vocem animalis aut ex passione animae
aut propter passionem proferri, similitudinem
vero passionem animae vocavit, quod
secundum Aristotelem nihil aliud intellegere
nisi cuiuslibet subiectae rei proprietatem
atque imaginationem in animae ipsius
reputatione suscipere, de quibus animae passionibus in libris se de anima commemorat diligentius disputasse, sed quoniam
demonstratum est, quoniam
et verba et nomina et oratio intellectuum
principaliter significativa sunt, quidquid est
in voce significationis ab intellectibus
venit, quare prius paululum de
intellectibus perspiciendum ei qui recte
aliquid de vocibus disputabit, ergo quod
supra passiones animae et similitudines
vocavit, idem nunc apertius intellectum
vocat dicens: Est autem, quemadmodum
in anima aliquotiens quidem intellectus
sine vero vel falso, aliquotiens autem
cui iam necesse est horum alterum
inesse, sic etiam in voce; circa
conpositionem enim et divisionem est
falsitas veri- 1. 2 eaedem v.
codices 2 et] ut intellectus esse quarum b: quorum codices 6 haec E Ar. : hae Eet
ceteri 8 animae sunt codices aliud S:
aliud est est aliud TE ait. quon.]
quomodo E 22 perspiciendum S: persp.
est S2FTE de om. SF 23 disputauit
S^F1TE 28 cui Ar. <p cf. ed.
I: cum codices 30 autem falsitas
ueritasq; ueritas
fals. ceteri SECVNDA EDITIO tasque. nomina
igitur ipsa et verba consimilia sunt
sine conpositione vel divisione
intellectui, ut homo vel album, quando non
additur aliquid; neque enim adhuc verum
aut falsum est. huius autem signum
hoc est: hircocervus enim significat
aliquid, sed nondum verum vel falsum, si
non vel esse vel non esse addatur,
vel simpliciter vel secundum tempus. Pietro
Caramello. Keywords: interpretare, peryermeneias, Aquino, blityri – blythyri SG
blithyri NT blythiri EF? (in fine suprascr. S F)”. “signatiuis”
“significativis” garalus garulus F. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Caramello” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Carando – l’implicatura
conversazionale di Socrate – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pettinengo).
Filosofo italiano. Grice: “I like Carando; a typical Italian philosopher, got
his ‘laurea,’ and attends literary salons! – There is a street named after him
– whereas at Oxford the most we have is a “Logic lane!” -- Ennio Carando (Pettinengo), filosofo. Studia
a Torino. Si avvicina all'anti-fascismo attraverso l'influenza di Juvalta (con
cui discusse la tesi di laurea) e di Martinetti. Collaborò alla Rivista di
filosofia di Martinetti, dove pubblicò un saggio su Spir. Insegna a Cuneo,
Modena, Savona, La Spezia. Sebbene fosse quasi completamente cieco dopo
l'armistizio si diede ad organizzare formazioni partigiane in Liguria e in
Piemonte (fu anche presidente del secondo CLN spezzino). Era ispettore del
Raggruppamento Divisioni Garibaldi nel Cuneese, quando fu catturato in seguito
ad una delazione. Sottoposto a torture
atroci, non tradì i compagni di lotta e fu trucidato con il fratello Ettore,
capitano di artiglieria a cavallo in servizio permanente effetivo e capo di
stato maggiore della I Divisione Garibaldi. Un filosofo socratico. La
metafisica civile di un filosofo socratico. Partigiano. Dopo l'armistizio Ennio Carando, che insegnava a La Spezia presso il
Liceo Classico Costa, entrò attivamente nella lotta di liberazione organizzando
formazioni partigiane in Liguria e in Piemonte. A chi gli chiedeva di non
avventurarsi in quella decisione così pericolosa rispondeva fermamente:
"Molti dei miei allievi sono caduti: un giorno i loro genitori potrebbero
rimproverarmi di non aver avuto il loro stesso coraggio". For centuries
the First Alkibiades was respected as a major dialogue in the Platonic
corpus. It was considered by the Academy to be the proper introduction to
the study of Plato's dialogues, and actually formed the core of the
serious beginner's study of philosophy. Various ancient critics have
written major commentaries upon the dialogue (most of which have
subsequently been lost). In short, it was looked upon as a most important
work by those arguably in the best position to know. In
comparatively recent times the First Alkibiades has lost its status. Some
leading Platonic scholars judge it to be spurious, and as a result it is
seldom read as seriously as several other Platonic dialogues. This thesis
attempts a critical examination of the dialogue with an eye towards
deciding which judgement of it, the ancient or the modern, ought to be
accepted. I wish to take advantage of this opportunity at last to thank
my mother and father and my sister. Lea, who have always given freely
of themselves to assist me. I am also grateful to my friends, in
particular Pat Malcolmson and Stuart Bodard, who, through frequent and
serious conversations proved themselves to be true dialogic partners.
Thanks are also due to Monika Porritt for her assistance with the
manuscript. My deepest gratitude and affection extend to Leon
Craig, to whom I owe more than I am either able, or willing, to express
here. Overpowering curiosity may be aroused in a reader upon his noticing
how two apparently opposite men, Socrates and Alkibiades, are drawn to
each other's conversation and company. Such seems to be the effect
achieved by the First Alkibiades , a dialogic representation of the beginning
of their association. Of all the people named in the titles of Platonic
dialogues, Alkibiades was probably the most famous. It seems reasonable
to assume that one's appreciation of the dialogue would be en¬ hanced by
knowing as much about the historical Alkibiades as would the typical
educated Athenian reader. Accordingly, this examination of the dialogue
will commence by recounting the major events of Alkibiades' scareer, on the
premise that such a reminder may enrich a philosophic understanding of
the First Alkibiades. The historical Alkibiades was born to Kleinias and
Deinomakhe. Although the precise date of his birth remains unknown
(cf. 121d), it was most surely before 450 B.C. His father,
Kleinias, was one of the wealthy men in Athens, financially capable
of furnishing and outfitting a trireme in wartime. Of Deinomakhe we know
nothing save that she was well born. As young children Alkibiades
and his brother, Kleinias, lost their father 4 in
battle and were made wards of their uncle, the renowned Penkles. He
is recognized by posterity as one of the greatest statesmen of Greece.
Athens prospered during his lengthy rule in office and flourished to such
an extent that the "Golden Age of Greece" is also called the
"Age of Perikles." When Alkibiades came under his care, Perikles held
the highest office in Athens and governed almost continuously until
his death which occurred shortly after the outbreak of the Peloponnesian
War. At an early age Alkibiades was distinguished for his
striking beauty and his multi-faceted excellence. He desired to be
triumphant in all he undertook and generally was so. In games and sport
with other boys he is said to have taken a lion's share of victories.
There are no portraits of Alkibiades in existence from which one might
judge his looks, but it is believed that he served his contemporaries as
the standard artistic model for representations of the gods. No doubt
partly because of his appearance and demeanor, he strongly influenced his
boyhood companions. For example, it was rumored that Alkibiades was
averse to the flute because it prevented the player from singing, as well
as dis¬ figuring his face. Refusing to take lessons, he referred to
Athenian deities as exemplars, calling upon Athena and Apollon who had
shown disdain for the flute and for flautists. Within a short time
flute-playing had ceased to be regarded as a standard part of the
curriculum for a gentleman's education. Alkibiades was most surely the talk of
the town among the young men and it is scarcely a wonder that tales
of his youthful escapades abound. Pursued by many lovers, he for
the most part scorned such attentions. On one occasion Anytos, who was
infatuated with Alkibiades, invited him to a dinner party. Instead, Alkibiades
went drinking with some of his friends. During the evening he collected
his servants and bade them interrupt Anytos' supper and remove half of
the golden cups and silver ornaments from the table. Alkibiades did not
even bother to enter. The other guests grumbled about this hybristic
treatment of Anytos, who responded that on the contrary Alkibiades had been
moderate and kind in leaving half when he might have absconded with all.
Alkibiades certainly seems to have enjoyed an extraordinary sway over
some of his admirers. Alkibiades sought to enter Athenian politics as
soon as he became eligible and at about that time he first met
Socrates. The First Alkibiades is a dramatic representation of what might
have happened at that fateful meeting. Fateful it was indeed, for the
incalculable richness of the material it has provided for later thought as well
as for the lives of the two men. By his own admission, Alkibiades felt that
his feeling shame could be occasioned only by Socrates. Though it
caused him discomfort, Alkibiades nevertheless chronically returned
to occasion to save Alkibiades' life. The generals were about
to confer on him a prize for his valor but he insisted it be awarded to
AlkiThis occurred near the beginning of their friendship, at the start of
the Peloponnesian War. Later, during the Athenian defeat at the
battle of Delion, Alkibiades repaid him in kind. In the role of
cavalryman, he defended Socrates who was on foot. Shortly thereafter,
Alkibiades charged forward into politicsbiades., campaigns he mounted
invariably meeting with success. Elected strategos (general) in 420 B.C.
on the basis of his exploits, he was one of the youngest ever to wield
such high authority. Generally opposing Nikias and the plan for peace,
Alkibiades as the leader of the democrats allied Athens with various
enemies of Sparta. His grandiose plans for the navy rekindled Athenian
ambitions for empire which had been at best smouldering since the death
of Perikles. Alkibiades' policy proposals favored the escalation of the
war, and he vocally supported Athens' con¬ tinuation of her position as
the imperial power in the Mediterranean. His first famous plan, the
Athenian alliance with Argos, is recounted in detail by Thucydides.
Thucydides provides an especially vivid portrait of Alkibiades and
indicates that he was unexcelled, both in terms of diplomatic maneuvering
and rhetorical ability. By arranging for the Spartan envoys to
modify their story from day to day, he managed to make Nikias look foolish
in his trust of them. Although Alkibiades suffered a temporary loss of
command, his continuing rivalry with Nikias secured him powerful
influence in Athens, which was heightened by an apparent failure of major
proportions by Nikias in Thrace. Alkibiades' sustained opposition to Nikias
prompted some of the radical democrats under Hyperbolos to petition for
an ostrakismos . This kind of legal ostracism was a device intended
primarily for the over¬ turning of stalemates. With a majority of the
vote an ostrakismos could be held. Citizens would then write on a
potsherd the name of the one man in all of Attika they would like to see
exiled. There has been famous ostracisms before this time, some ofwhich
were almost immediately regretted (e.g., Aristeides the Just, in 482
B.C.). At any rate, Hyperbolos campaigned to have Alkibiades ostracized.
Meanwhile, in one of their rare moments of agreement, Alkibiades persuaded
Nikias to join with him in a counter-campaign to ensure that the
percentage of votes required to effect Alkibiades' exile would not be
attained. They were so successful that the result of the ostrakismos was
the exile of Hyperbolos. That was Athen's last
ostrakismos. Thucydides devotes two books (arguably the most beautiful of
his History of the Peloponnesian War) to the Sicilian Expedition.
This campaign Alkibiades instigated is considered by many to be his most
note¬ worthy adventure, and was certainly one of the major events of the
war. Alkibiades debated with Nikias and convinced the Ekklesia (assembly)
to launch the expedition. Clearly no match for Alkibiades'
rhetoric, Nikias, according to the speeches of Thucydudes, worked
an effect opposite his intentions when he warned the Athenians of
the ex- 19 Rather than being daunted by the magnitude
of the cost of the pense expedition, the Athenians were eager
to supply all that was necessary. This enthusiasm was undoubtedly enhanced
by the recent reports of the vast wealth of Sicily. Nikias,
Alkibiades and Lamakhos were appointed co-commanders with full
power (giving them more political authority than anyone in Athen's recent
history). Immediately prior to the start of the expedition, the
Hermai throughout Athens were disfigured. The deed was a sacrilege
as well as 22 a bad omen for the expedition. Enemies of
Alkibiades took this oppor¬ tunity to link him with the act since he was
already suspected of pro¬faning the Eleusian Mysteries and of generally having
a hybristic dis¬ regard for the conventional religion. He was formally
charged with impiety. Alkibiades wanted to have his trial immediately,
arguing it would not be good to command a battle with the charge
remaining undecided. His enemies, who suspected the entire military force
would take Alkibiades' side, urged that the trial be postponed so as not
to delay the awaiting fleet's scheduled departure. As a result they
sailed with Alkibiades' charge untried. When the generals
arrived at Rhegion, they discovered that the 24 stories
of the wealth of the place had been greatly exaggerated.
Nonetheless, Alkibiades and Lamakhos voted together against Nikias
to remain and accomplish what they had set out to do. Alkibiades
thought it prudent that they first establish which of their allies
actually had been secured, and to try to persuade the rest. Most
imperative, he 26 believed, was the persuasion of the
Messenians. The Messenians would not admit Alkibiades at first, so
he sailed to Naxos and then to Katana. Naxos allied with Athens
readily, but it is suspected that the Katanaians had some force used upon
them. Before the Athenians could address the Messenians or the
Rhegians, both of whom held important geographic positions and were
influential, a ship arrived to take Alkibiades back to Athens.
During his absence from Athens, his enemies had worked hard to
increase suspicion that he had been responsible for the sacrilege,
and now, with the populace aroused against Alkibiades, they urged he
be 28 immediately recalled. Alkibiades set
sail to return in his own ship, filled with his friends. At Thouri
they escaped and went to the Peloponnese. Meanwhile the Athenians
sentenced him to death. He revealed to the Spartans his idea that
Messenian support in the west was crucial to Athens. The Spartans
weren't willing to trust Alkibiades given his generally anti- Spartan
policies, and they particularly did not appreciate his past
treatment of the Spartan envoys. In a spectacular speech, as
recounted by Thucydides, Alkibiades defended himself and his
conduct in leaving 30 Athens. Along with a delegation of
Korinthians and Syrakusans, Alkibiades argued for Sparta's participation
in the war in Sicily. He also suggested to them that their best move
against Athens was to fortify a post at Dekelia in Attika. In
short, once again Alkibiades proved himself to be a master of
diplomacy, knowing the right thing to say at any given time, even
among sworn enemies. The Spartans welcomed Alkibiades. Because of his
knowledge of Athenian affairs, they acted 32 upon his
advice about Dekelia (413 B.C.). Alkibiades did further service for
Sparta by inciting some Athenian allies in Asia Minor, par¬ ticularly at
Khios, to revolt. He also suggested to Tissaphernes, the Persian
satrap of Asia Minor, that he ought to consider an alliance with 33
Sparta. However, in 412 B.C. Alkibiades lost favor with the
Spartans. His loyalty was in doubt and he was suspected of having
seduced the Spartan queen; she became pregnant during a long absence of
the king. Alkibiades prudently moved on, this time fleeing to the
Persian court of Tissaphernes where he served as an advisor to the satrap.
He counselled Tissaphernes to ally neither with Sparta nor with
Athens; it would be in his best interests to let them wear each
other down. Tissaphernes was pleased with this advice and soon
listened to Alkibiades on most matters, having, it seems, complete
confidence in him. Alkibiades told him to lower the rate of pay to
the Spartan navy in order to moderate their activities and ensure
proper conduct. He should also economize and reduce expenditures.
Alkibiades cautioned him against being too hurried in his wish for a
victory. Tissaphernes was so delighted with Alkibiades' counsel
that he had the most beautiful park in his domain named after him and
developed into a luxury resort. The Athenian fleet, in the
meantime, was at Samos, and with it lay the real power of Athens. The
city had been brought quite low by the war, especially the Sicilian
expedition, which left in the hands of the irresolute and superstitious
Nikias turned out to be disastrous for the Athenians. Alkibiades engaged
in a conspiracy to promote an oligarchic revolution in Athens, ostensibly
to ensure his own acceptance there. How¬ ever, when the revolution
occurred, in 411 B.C., and the Council of Four 37
Hundred was established, Alkibiades did not associate himself with
it. He attached himself to the fleet at Samos and relayed to them
the promise of support he had exacted from Tissaphernes. The support was
not forth¬ coming, however, but despite the sentiment among some of the
Athenians at Samos that Alkibiades intended to trick them, the commanders
and 38 soldiers were confident that Athens could never
rise without Alkibiades. They appointed him general and re-instated him
as the chief-in-command of the Athenian Navy. He sent a message to the
oligarchic Council of Four Hundred in Athens telling them he would
support a democratic boule of 5,000 but that the Four Hundred would have
to disband. There was no immediate response. In the meantime,
with comparatively few men and ships, Alkibiades managed to deflect
the Spartans from their plan to form an alliance with the Persian
fleet. Alkibiades became an increasingly popular general among the
men at Samos, and with his rhetorical abilities he dissuaded them
from adopting policies that would likely have proven disastrous. He
insisted they be more moderate, for example, in their treatment of
unfriendly ambassadors, such as those from Athens. The Council of
Four Hundred sent an emissary to Samos, but Alkibiades was
firm in his refusal to support them. This pleased the democrats, and since
most of the oligarchs were by this time split into several
factions, the rule of the 40 Four Hundred fragmented of
its own accord. Alkibiades sent advice from Samos as to the form of
government the 5,000 should adopt, but he still 42 did
not consider it the proper time for his own return. During this
time Alkibiades and the Athenian fleet gained major victories,
defeating the Spartans at Kynossema, at Abydos (411 B.C.), and
43 at Kyzikos (410 B.C.) Seeking to regain some
control, Tissaphernes had Alkibiades arrested on one occasion when
he approached in a single ship. It was a diplomatic visit, not a
battle, yet Tissaphernes had him imprisoned. Within a month,
however, Alkibiades and his men escaped. In order to ensure that
Tissaphernes would live to regret the arrest, Alkibiades caused a
story to be widely circulated to the effect that Tissaphernes had
arranged the escape. Suffice it to say the Great King of Persia was not
pleased. Alkibiades also recovered Kalkhedonia and Byzantion for the
Athenians. After gathering money from various sources and assuring
himself of the security of Athenian control of the Hellespont, he
at last decided to return to Athens. It had been an absence of seven
years. 46 He was met with an enthusiastic reception in
the Peiraeus. All charges against him were dropped and the
prevailing sentiment among the Athenians was that had they only
trusted in his leadership, they would still be the great empire they had
been. With the hope that he would be able to restore to them some of
their former glory, they appointed Alkibiades general with full powers, a
most extraordinary command. He gained further support from the Athenians
when he led the procession to Eleusis (the very mysteries of which he had
earlier been suspected of blaspheming) on the overland route. Several
years earlier, through fear of the Spartans at Dekelia, the procession
had broken tradition and gone by sea. This restoration of tradition
ensured Alkibiades political support from the more pious sector of the
public who had been hesitant about 48 him. He had so
consolidated his political support by this time that such ever persons
as opposed him wouldn't have dared to publicly declare 49
their opinions. Alkibiades led a number of successful
expeditions over the next year and the Athenians were elated with
his command. He had never failed in a military undertaking and the
men in his fleet came to regard themselves a higher class of soldier. However,
an occasion arose during naval actions near Notion when Alkibiades had to
leave the major part of his fleet under the command of another captain
while he sailed to a near¬ by island to levy funds. He left instructions
not to engage the enemy under any circumstances, but during his absence a
battle was fought none¬ theless. Alkibiades hurriedly returned but
arrived too late to salvage victory. Many men and ships were lost to the
Spartans. Such was his habit of victory that the people of Athens
suspected that he must have wanted to lose. They once again revoked his
citizenship. Alkibiades left Athens for the last time in 406 B.C.
and retired to a castle he had built long before. Despite his
complete loss of civic status with the Athenians, his concern for
them did not cease. In his last attempt to assist Athens against
the Spartan fleet under Lysander, Alkibiades made a special journey
at his own expense to advise the new strategoi . He cautioned them
that what remained of the Athenian fleet was moored at a very
inconvenient place, and that the men should be held in tighter rein
given the proximity of Lysander's ships. They disregarded his
advice with utter contempt (only to regret it upon their almost
52 immediate defeat) and Alkibiades returned to his private
retreat. There he stayed in quiet luxury until assassinated one night in
404 B.C. The participants in the First Alkibiades , Socrates and
Alkibiades, seem at first blush to be thoroughly contrasting. To start
with appear¬ ances, the physical difference between the two men who meet
this day could hardly be more extreme. Alkibiades, famous throughout
Greece for his beauty, is face to face with Socrates who is notoriously
ugly. They are each represented in a dramatic work of the period.
Aristophanes refers to Alkibiades as a young lion; he is said to
have described 54 Socrates as a "stalking
pelican." Alkibiades is so handsome that his figure and face
served as a model for sculptures of Olympian gods on high temple
friezes. Socrates is referred to as being very like the popular
representation of siloni and satyrs; the closest he attains to
Olympian heights is Aristophanes' depiction of him hanging in a
basket from the 55 rafters of an old house.
Pre-eminent among citizens for his wealth and his family, Alkibiades
is speaking with a man of non-descript lineage and widely advertised
poverty. Alkibiades, related to a family of great men, is the son of
Kleinias and Deinomakhe, both of royal lineage. Socrates, who is the son
of Sophroniskos the stone-mason and Phainarete the midwife, does not seem
to have such a spectacular ancestry. Even as a boy Alkibiades was famous
for his desire to win and his ambition for power. Despite being fearful
of it, people are familiar with political ambition and so believe they
understand it. To them, Alkibiades seemed the paragon of the political
man. But Socrates was more of a mystery to the typical Athenian. He
seemed to have no concern with im¬ proving his political or economic
status. Rather, he seemed preoccupied to the point of perversity with
something he called 'philosophy, 1 literally 'love of wisdom.' Alkibiades
sought political office as soon as he became of age. He felt certain that
in politics he could rise above all Athenians past and present. His
combined political and military success made it possible for him to be
the youngest general ever elected. Socrates, by contrast, said that he
was never moved to seek office; he served only when he was required (by
legal appointment). In his lifetime Socrates was considered to have been
insufficiently concerned with his fellows' opinions about him, whereas
from his childhood people found Alkibiades' attention to the demos
remarkable - in terms either of his quickness at following their cue, or
of his setting the trend. Both men were famous for their speaking
ability, but even in this they contrast dramatically. The effects of
their speech were different. Alkibiades could persuade peop le, and
so nations, to adopt his political proposals, even when he had been
regarded as an enemy. Socrates' effect was far less widespread. Indeed,
for most people acquainted with it, Socratic speech was suspect. People
were moved by Alkibiades' rhetoric despite their knowing that that was
his precise intention. It was Socrates, however, who was accused of
making the weaker argument defeat the stronger, though he explicitly
renounced such intentions. Alkibiades' long moving speeches persuaded
many large assemblies. Socrates' style of question and answer was not
nearly so popular, and convinced fewer men. Socrates is reputed to
have never been drunk, regardless of how much he had imbibed. This
contrasts with the (for the most part) notoriously indulgent life of
Alkibiades. He remains famous to this day for several of his drunken
escapades, one of which is depicted by Plato in a famous dialogue. Though
both men were courageous and competent in war, Socrates never went
to battle unless called upon, and distinguished himself only during
general retreats. Alkibiades was so eager for war and all its attendant
glories that he even argued in the ekklesia for an Athenian escalation of
the war. He was principally responsible for the initiation of the
Sicilian expedition and was famous for his bravery in wanting to go ever
further forward in battle. It was, instead, battles in speech for which
Socrates seemed eager; perhaps it is a less easily observed brand of
courage which is demanded for advance and retreat in such clashes.
Both men could accommodate their lifestyles to fit with the circum¬
stances in which they found themselves, but as these were decidedly dif¬
ferent, so too were their manners of adaptation. Socrates remained ex¬
clusively in Athens except when accompanying his fellow Athenians on one
or two foreign wars. Alkibiades travelled from city to city, and seems to
have adjusted well. He got on so remarkably well at the Persian court
that the Persians thought he was one of them; and at Sparta they could
not believe the stories of his love of luxury. But, despite his outward
con¬ formity with all major Athenian conventions, Socrates was st
ill con¬ sidered odd even in his home city. In a more
speculative vein, one might observe that neither Alkibiades nor Socrates
are restricted because of their common Athenian citizenship, but again in
quite different senses. Socrates, willing (and eager) to converse with,
educate and improve citizen and non-citizen alike, rose above the polis
to dispense with his need for it. Alkibiades, it seems, could not do
without political or public support (as Socrates seems to have), but he
too did not need Athens in particular. He could move to any polis and
would be recognized as an asset to any community. Socrates didn't receive
such recognition, but he did not need it. Still, Alkibiades, like
Socrates, retained an allegiance to Athens until his death and continued
to perform great deeds in her service. Despite their outwardly
conventional piety (e.g., regular observance of religious festivals),
Alkibiades and Socrates were both formally charged with impiety, but the
manner of their alleged violations was different. Alkibiades was suspected
of careless blasphemy and con¬ temptuous disrespect, of profaning the
highest of the city's religious Mysteries; Socrates was charged with
worshipping other deities than those allowed, but was suspected of
atheism. Though both men were convicted and sentenced to death, Alkibiades
refused to present himself for trial and so was sentenced in absentia .
Socrates, as we know, conducted his own defense, and, however justly or
unjustly, was legally convicted and condemned. Alkibiades escaped when he
had the chance and sought refuge in Sparta; Socrates refused to take
advantage of a fully arranged escape from his cell in Athens. Alkibiades,
a comparatively young man, lived to see his sentence subsequently
withdrawn. Socrates seems to have done his best not to have his sentence
reduced. His rela¬ tionship with Athens had been quite constant. Old
charges were easily brought to bear on new ones, for the Athenians had
come to entertain a relatively stable view of him. Alkibiades suffered
many reverses of status with the Athenians. Surprised from his
sleep, Alkibiades met his death fighting with assassins, surrounded by
his enemies. After preparing to drink the hem¬ lock, Socrates died
peacefully, surrounded by his friends. It seems likely that Plato
expects these contrasts to be tacitly in the mind of the reader of the
First Alkibiades . They heighten in various ways the excitement of this
dialogue between two men whom every Athenian of their day would have
seen, and known at least by reputation. Within a generation of the
supposed time of the dialogue, moreover, each of the participants would
be regarded with utmost partiality. It is un¬ likely that even the most
politically apathetic citizen would be neutral or utterly indifferent
concerning either man. Not only would every Athenian (and many
foreigners) know each of them, most Athenians would have strong feelings
of either hatred or love for each man. The extra¬ ordinary fascination of
these men makes Plato's First Alkibiades all the more inviting as a
natural point at which to begin a study of political philosophy.
In the First Alkibiades , Socrates and Alkibiades, regarded by
posterity as respective paragons of the philosophic life and the
political life, are engaged in conversation together. As the dialogue
commences, Alkibiades in particular is uncertain as to their relationship
with each other. Especially interesting, however, is their implicit
agreement that these matters can be clarified through their speaking with
one another. The reader might first wonder why they even bother
with each other; and further wonder why, if they are properly to be
depicted together at all, it should be in conversation. They could be
shown in a variety of situations. People often settle their differences
by fighting, a challenge to a contest, or a public debate of some kind.
Alkibiades and Socrates converse in private. The man identified with
power and the man identified with knowledge have their showdown on the
plain of speech. The Platonic dialogue form, as will hopefully be
shown in the commentary, is well suited for expressing political
philosophy in that it allows precisely this confrontation. A Platonic
dialogue is different from a treatise in its inclusion of drama. It is
not a straightforward explication for it has particular characters who
are interacting in specific ways. It is words plus action, or speech plus
deed. In a larger sense, then, dialogue implicitly depicts the relation
between speech and deed or theory and practice, philosophy and politics,
and re¬ flecting on its form allows the reader to explore these
matters. In addition, wondering about the particulars of Socratic
speech may shed light upon how theory relates to practice. As one
attempts to discover why Socrates said what he did in the circumstances
in which he did, one becomes aware of the connections between speech and
action, and philosophy and politics. One is also awakened to the
important position of speech as intermediary between thought and action.
Speech is unlike action as has just been indicated. But speech is not
like thought either. It may, for instance, have immediate consequences in
action and thus demand more rigorous control. Philosophy might stand in
relation to thought as politics does to action; understanding 'political
philosophy' then would involve the complex connection between thought and
speech, and speech and action; in other words, the subject matter
appropriate to political philosophy embraces the human condition. The
Platonic dialogue seems to be in the middle ground by way of its form,
and it is up to the curious reader to determine what lies behind the
speech, on both the side of thought and action. Hopefully, in examining
the First Alkibiades these general observations will be made more concrete.
A good reader will take special care to observe the actions as well as
the arguments of this dialogue between the seeker of knowledge and the
pursuer of power. Traditionally, man's ability to reason has been
considered the essential ground for his elevated status in the animal
kingdom. Through reason, both knowledge and power are so combined as to
virtually place man on an altogether higher plane of existence. Man's
reason allows him to control beasts physically much stronger than he;
moreover, herds outnumber man, yet he rules them. Both knowledge and power
have long attracted men recognizably superior in natural gifts.
Traditionally, the highest choice a man could 57
confront was that between the contemplative and the active life. In
order to understand this as the decision par excellence , one must
compre¬ hend the interconnectivity between knowledge and power as ends
men seek. One must also try to ascertain the essential features of the
choice. For example, power (conventionally understood) without knowledge
accomplishes little even for the mighty. As Thrasymakhos was reminded,
without knowledge the efforts of the strong would chance to work harm
upon them¬ selves as easily as not ( Republic). The very structure
of the dialogue suggests that the reader attentive to dramatic detail may
learn more about the relation between power and knowledge and their
respective claims to rule. Alkibiades and Socrates both present
arguments, and the very dynamics of the conversation (e.g., who rules in
the dialogue, what means he uses whereby to secure rule, the development
of the relationship between the ruler and the ruled) promise to provide
material of interest to this issue. B. Knowledge, Power and their
Connection through Language As this commentary hopes to show, the
problem of the human use of language pervades the Platonic dialogue known
as the First Alkibiades. Its ubiquity may indicate that one's
ability to appreciate the signifi¬ cance of speech provides an important
measure of one's understanding of the dialogue. Perhaps the point can be
most effectively conveyed by simply indicating a few of the many kinds of
references to speech with which it is replete. Socrates speaks directly
to Alkibiades in complete privacy, but he employs numerous conversational
devices to construct circumstances other than that in which they find
themselves. For example, Alkibiades is to pretend to answer to a god;
Socrates feigns a dialogue with a Persian queen; and at one point the two
imagine themselves in a discussion with each other in full view of the
Athenian ekklesia . Socrates stresses that he never spoke to
Alkibiades before, but that he will now speak at length. And Socrates
emphasizes that he wants to be certain Alkibiades will listen until he finishes
saying what he must say. In the course of speaking, Socrates employs both
short dialogue and long monologue. Various influences on one's speaking
are mentioned, including mysterious powers that prevent speech and
certain matters that inherently demand to be spoken about. The two men
discuss the difference between asking and answering, talking and
listening. They refer to speech about music (among other arts), speech
about number, and speech about letters. They are importantly concerned
with public speaking, implicitly with rhetoric in all its forms. They
reflect upon what an advisor to a city can speak persuasively about. They
discuss the difference between per¬ suading one and many. The two men
refer to many differences germane to speaking, such as private and public
speech, and conspiratorial and dangerous speech. Fables, poems and
various other pictures in language are both directly employed by Socrates
and the subject of more general discussion. Much of the argument centers
on Alkibiades' understanding of what the words mean and on the implicit
presence of values embedded in the language. They also spend much time
discussing, in terms of rhetorical effect, the tailoring of comments to
situations; at one point Socrates indicates he would not even name
Alkibiades' condition if it weren't for the fact that they are completely
alone. They refer to levels of knowledge among the audience and the
importance of this factor in effectively persuading one or many. And in a
larger sense already alluded to, reflection on Plato's use of the
dialogue form itself may also reveal features of language and aspects of
its relation to action. Socrates seems intent upon increasing
Alkibiades' awareness of the many dimensions to the problem of
understanding the role of language in the life of man. Thus the reader of
the First Alkibiades is invited to share as well in this education about
the primary means of education: speech, that essential human power. Perhaps
it may be granted, on the basis of the above, that the general issue of
language is at least a persistent theme in the dialogue. Once that is
recognized it becomes much more obvious that speech is connected both to
power, or the realm of action, and knowledge, the realm of thought.
Speech and power, in the politically relevant sense, are thoroughly
interwoven. The topics of freedom of speech and censorship are of
paramount concern to all regimes, at times forming part of the very
foundation of the polity. This is the most obvious connection: who is to
have the right to speak about what, and who in turn is to have the power
to decide this matter. Another aspect of speech which is crucial
politically seems to be often overlooked and that is the expression of
power in commands, instruction and explanation. The more subtle side of
this political use of speech is that of education. Maybe not all
political men do understand education to be of primary importance, but
that clearly surfaces as one of the things which Alkibiades learns in this
dialogue. At the very least, the politically ambitious man seeks
control over the education of others in order to secure his rule and make
his political achievements lasting. With respect to education, the
skilled user of language has more power than someone who must depend
solely on actions in this regard. Circumstances which are actually unique
may be endlessly reproduced and reconsidered. By using speech to teach,
the speaker gains a power over the listener that might not be available
had he need to rely upon actions. Not only can he tell of things that
cannot be seen (feelings, thoughts and the like), but he can invent
stories about what does not even exist. Myths and fables are
generally recognized to have pedagogic value, and in most societies form
an essential part of the core set of beliefs that hold the people
together. Homer, Shakespeare and the Bible are probably the most
universally recognized examples influencing western society. To mold and
shape the opinions of men through fables, lies and carefully chosen
truths is, in effect, to control them. Such use of language can be
considered a weapon also, propaganda providing a most obvious example.
Hobbes, for instance, recognizes these qualities of speech and labels
them 'abuses.' Most of the abuse appears to be consti¬ tuted by the
deception or injury caused another; Hobbes all the while 58
demonstrates himself to be master of the insult. Summing up these
observations, one notices that speech plays a crucial part in the realm
of power, especially in terms of education, a paramount political
activity. The connection of speech to knowledge, the realm of
thought is much less in need of comment. The above discussion of
education points to the underlying concern about knowledge. Various
subtleties in language (two of which - metaphor and irony - will be
presently introduced), however, make it more than the instrument through
which knowledge is gained, but actually may serve to increase a person's
interest in attaining knowledge; that is, they make the end, knowledge,
more attractive. A most interesting understanding of speech emerges when
one abstracts somewhat from actual power and actual knowledge to look at
the relationship between the realms of action and thought. Action
and thought, epitomized by politics and philosophy, both require speech
if they are to interact. Politics in a sense affects thought, and
thought should guide action. Both of these exchanges are normally effected
through speech and may be said to describe the bounds of the subject area
of political philosophy. Political philosophy deals with what men do and
think (thus concerning itself with metaphysics, say, to the extent to
which metaphysical considerations affect man). Political philosophy may
be understood as philosophy about politics, or philosophy that is
politic. In this latter sense, speech via the expression of philosophy in
a politic manner, suggests itself to be an essential aspect to the
connection be¬ tween these two human realms - thought and action. The
reader of the First Alkibiades should be alert to the ways in which
language pertains to the relationship between Socrates and Alkibiades.
For example, their concern for each other and promise to continue conversing
might shed some light on the general requirements and considerations
power and knowledge share. As has already been indicated, considerable
attention is paid to various characteristics of speech in the discussion
between the two men. Rhetoricians, politicians, philosophers and
poets, to mention but a few of those whose activity proceeds primarily
through speech, are aware of the powers of language and make more or less
subtle use of various modes of speech. The First Alkibiades teaches about
language and effectively employs many linguistic devices. Called for at
the outset is some introductory mention of a few aspects of language, in
order that their use in the dialogue may be more readily reflected
upon. Metaphor, a most important example, is a complex and exciting
feature of language. A fresh and vivid metaphor is a most effective
influence on the future perceptions of those listening. It will often
form a lasting impression. Surely a majority of readers are familiar with
the experience of being unable to disregard an interpretation of
something illuminated by an especially bright metaphor. Many people have
probably learned to appreciate the surging power of language by having
themselves become helplessly swamped in a sea of metaphor. There are two
aspects to the power of attracting attention through language that a
master of metaphor, especially, can summon. Both indicate a rational
component to language, but both include many more features of reason than
mere logical deduction. The first is the power that arises when someone
can spark connections between apparently unrelated parts of the world.
This is an interesting and exciting feature of man's rational capability,
deriving its charm partly from the natural delight people apparently take
in having connections drawn between seemingly distinct objects.
The other way in which he can enthrall an audience is through
harvesting some of the vast potential for metaphors that exist in the
natural fertility of any language. There are metaphors in everyday speech
that remain unrecognized (are forgotten) for so long that dis¬ belief is
experienced when their metaphoric nature is revealed. Men's opinions
about much of the world is influenced by metaphor. A most important set of
examples involve the manner in which the invisible is spoken of almost
exclusively through metaphoric language based on the visible. This
curious feature of man's rationality is frequently ex¬ plored by Plato.
The most famous example is probably Socrates's description of education as an
ascent out of a cave ( Republic), but another perhaps no less important
example occurs in the First Alkibiades . Not only is the invisible
metaphorically explained via some¬ thing visible, but the metaphor is
that of the organ of sight itself (cf. 132c-133c, where the soul and the
eye are discussed as analogues)! The general attractiveness of
metaphor also demonstrates that man is essentially a creature with
speech. That both man and language must be understood in order for a
philosophic explanation to be given of either, is indicated whenever one
tries to account for the natural delight almost all people take in being
shown new secrets of meaning, in discovering the richness of their own
tongue, and in the reworking of images - from puns and complex word games
to simple metaphors and idiomatic expressions. Man's rationality is bound
up with language, and rationality may not be exclusively or even
primarily logic; it is importantly metaphor. Subtle use is often made of the
captivating power of various forms of expression. One of the most
alluring yet bedevilling of these is irony. Irony never unambiguously
reveals itself but suggests mystery and disguise. This enhances its own
attractiveness and simultaneously increases the charm of the subject on
which irony is played; there seems little doubt that Socrates and Plato
were able to make effective use of this feature for they are
traditionally regarded as the past masters of it. Eluding definition,
irony seems not amenable to a simple classifi- catory scheme. It can
happen in actions as well as speeches, in drama as well as actual life.
It can occur in an infinite variety of situations. One cannot be told how
exactly to look for irony; it cannot be reduced to rules. But to discover its
presence on one's own is thoroughly- exciting (though perhaps biting).
The possibility of double ironies increases the anxiety attending ironic speech
as well as its attractive¬ ness. The merest suggestion of irony can upset
an otherwise tranquil moment of understanding. Probably all listeners of
ironic speech or witnesses of dramatic irony have experienced the
apprehensiveness that follows such an overturned expectation of
simplicity. It appears to be in the nature of irony that knowledge
of its presence in no way diminishes its seductiveness but rather
enhances its effectiveness. Once it is discovered, it has taken hold.
This charming feature of Socrates' powerful speech, his irony, is
acknowledged by Alkibiades even as he recognizes himself to be its principal
target (Symposium 215a-216e). The abundance of irony in the First Alkibiades
makes it difficult for any passage to be interpreted with certitude. It
is likely that the following commentary would be significantly altered
upon the recognition of a yet subtler, more ironic, teaching in the
dialogue. It is thus up to each individual, in the long run, to make a
judgement upon the dialogue, or the interpretation of the dialogue; he
must be wary of and come to recognize the irony on his own. The
Superior Man is a Problem for Political Philosophy One mark of a
great man is the power of making lasting impressions upon people he
meets. Another is so to have handled matters during his life that
the course of after events is continuously affected by what he did.
Winston Churchill Great Contemporaries It may be
provisionally suggested that both Socrates and Alkibiades are superior
men, attracted respectively to knowledge and power. Certainly a surface
reading of the First Alkibiades would support such a judgement. One could
probably learn much about the character of the political man and the
philosophic man by simply observing Socrates and Alkibiades. It stands to
reason that a wisely crafted dialogue repre¬ senting a discussion between
them would reveal to the careful, reflective reader deeper insight into
knowledge, power and the lives of those dedicated to each.
Socrates confesses that he is drawn to Alkibiades because of the
youth's unquenchable ambition for power. Socrates tells Alkibiades
that 59 the way to realizing his great aspirations is
through the philosopher. Accordingly Socrates proceeds to teach
Alkibiades that the acquisition of knowledge is necessary in order that
his will to power be fulfilled. By the end of the dialogue, Socrates'
words have managed to secure the desired response from the man to whom he
is attracted: Alkibiades in a sense redirects his eros toward Socrates.
This sketch, though superficial, bespeaks the dialogue's promise to unravel
some of the mysterious connections between knowledge and power as these
phenomena are made incarnate in its two exceptional participants.
The significance of the superior man to political philosophy has,
for the most part, been overlooked in the last century or so, the
exceptions being rather notorious given their supposed relation to the
largest political event of the Twentieth Century.^ in contemporary
analysis, the importance of great men, even in the military, has tended
to be explained away rather than understood. This trend may be partly
explained by the egalitarian views of the dominant academic observers of
political things. As the problem was traditionally understood, the
superior man tends to find himself in an uneasy relationship with the
city. The drive, the erotic ambition distinguishes the superior man from
most others, and in that ambition is constituted their real threat to the
polity as well as their real value. No man who observed a war could
persist in the belief that all citizens have a more or less equal effect
on the outcome, on history. A certain kind of superiority becomes readily
apparent in battle and the bestowal of public honors acknowledges its
political value. Men of such manly virtue are of utmost necessity to all
polities, at least in times of extremes. Moreover, political philosophers
have heretofore recognized that there are other kinds of battlefields
upon which superior men exercise their evident excellence. It
is, however, during times of peace that the community ex¬ periences fear
about containing the lions,^ recognizing that they constitute an internal
threat to the regime. Thus, during times of peace a crucial test of the
polity is made. A polity's ability to find a fitting place for its noble
men speaks for the nobility of the polity. In many communities, the
best youths turn to narrow specialization in particularized scientific
disciplines, or to legal and academic sophistry, to achieve distinction.
It is not clear whether this is due to the regime's practicing a form of
politics that attracts but then debases or corrupts the better sort of
youth, or because the best men find its politics repugnant and so
redirect their ambitions toward these other pursuits. In any event, the
situation in such communities is a far cry from that of the city which
knows how to rear the lion cubs. Not surprisingly, democracy has always
had difficulty with the superior men. Ironically, today the recognition
of the best men in society arises most frequently among those far from
power or the desire to enter politics. Those who hold office in modern
democracies are not able to uphold the radically egalitarian premises of
the regime and still consistently acknowledge the superiority of some
men. This has reper¬ cussions at the base of the polity: the democratic
election. Those bent on holding public office are involved in a dilemma,
a man's claim to office is that he possesses some sort of expertise, yet
he cannot main¬ tain a platform of simple superiority in an egalitarian
regime. Many aspirants are required to seek election on the basis of some
feature of their character (such as their expenditure of effort) instead
of their skills, and such criteria are often in an ambiguous relation to
the duties of office. The problem is yet more far-reaching.
Those regimes committed to the enforced equalization of the unequal
incongruously point with pride to the exceptional individuals in the
history of their polities. A standard justification for communist
regimes, for example, is to refer to the distinguished figures in the
arts and sports of their nation. Implicitly the traditional view has been
retained: great men are one of the measures of a great polity.
A less immediate but more profound problem for political philosophy
is posed by the very concept of the best man. Three aspects of this
problem shall be raised, the last two being more fully discussed as they
arise in commenting upon the First Alkibiades . All who have given
the matter some thought will presumably agree that education is, in part
at least, a political concern, and that the proper nurture of youth is a
problem for political philosophy. According¬ ly, an appropriate beginning
is the consideration of the ends of nurture. The question of toward what
goal the nurture of youth is to aim is a question bound up with the views
of what the best men are like. This is inevitably the perspective from
which concerned parents adopt their own education policies. Since the
young are nurtured in one manner or another regardless, all care given to
the choice of nurtures is justified It must be remembered that
children will adopt models of behavior regardless of whether their
parents have guided their choice. As the tradition reminds is, the hero
is a prominent, universal feature in the nurture of children. Precisely
for that reason great care ought to be taken in the formation and
presentation (or representation) of heroic men and deeds. The heroes of
history, of literature and of theater presumably have no slight impact on
the character of youth. For instance canons of honesty are suggested by
the historical account of young Lincoln, codes of valor have been
established by Akhilleus, and young men's opinions about both partnerships
and self-reliance are being in¬ fluenced by the Western Cowboy.
The religious reverence with which many young observe the every
word and deed of their idols establishes "the hero" as a problem
of considerable significance. One could argue that the hero should be
long dead. His less than noble human characteristics can be excised from
the public memory and his deeds suitably embellished (cf. Republic
391d.6). Being dead, the possibility of his becoming decadent or
otherwise evil is eliminated. Although attractive, this suggestion
presents a rather large problem, especially in a society in which there
is any timocratic element. The honors bestowed on living men may be
precisely what trans¬ forms them into the "flesh and blood"
heroes of the young. Should honors not be delivered until after a man's
death, however (when he cannot turn to drink, women or gambling), it may
dampen many timocrats' aspirations. If the superior man is not recognized
during his lifetime, he must at least obtain some assurance of a lasting
honor after his death. This might be difficult to do, if he is aware of
how quickly and completely the opinions of those bestowing honor, the
demos , shift. Since this turned out to assume great importance historically
for Alkibiades, the reader of the First Alkibiades might be advised to
pay attention to what Socrates teaches the young man about power and
glory. The role of heroes extends beyond their pedagogic function of
supplying models to guide the ambitions of youth. Heroes contribute to
the pride of a family, help secure the glory of a nation and provide a
tie to the ancestral. Recognition of this should suffice to indicate that
the problem of superior men is a significant one for political philosophy.
Presumably any political theory requires some account of the nature
of man. It may already be clear at this point that a compre¬ hensive
philosophic account of man's nature must include a consideration of the
superior man. Traditionally, in fact, the concept of the best man has
been deemed central to an adequate understanding. Many people who would
readily grant the importance of the problem of understanding human nature
consider it to be a sort of statistical norm. That position does not concede
the necessity of looking toward the best man. For the immediate purpose
of analyzing this dialogue, it seems sufficient that the question be
reopened, which may be accomplished simply by indicating that there are
problems with seeing nature as "the normal." Without any
understanding of the best man (even one who is not actualized),
comparison between men would be largely meaningless and virtually any
observation of, or statement about persons would be ambiguous since they
involve terms which imply comparing men on some standard. There would be
no consistent way to evaluate any deviation whatsoever from the normal.
For example, sometimes it is better to be fierce, sometimes it is not. If
one describes a man as being more capable of fierceness than most men one
would not know how to evaluate him relative to those men, without more
information. It is necessary to have an understanding of the importance
of those matters in which it is better to be fierce, to the best man. If
it is important for the best man to be capable of being very fierce,
then, and only then, it seems, could one judge a man who is able to be
fierce at times to be a better man with respect to that characteristic.
Any meaningful description of him, then depends on the view of the best
man. This is implicit in the common sense understanding anyway. The
statement "X is more capable of fierceness than most men,' prompts
an implicit qualitative judgement in most men's minds on the basis of
their views of the best man. The statement "X has darker hair than
most men," does not, precisely because most understandings of the
best man do not specify hair color. A concept of the best is necessary if
a man is to be able to evaluate his position vis a vis others and discern
with what he must take pains with himself. The superior man understands
this. Aiming to actualize his potential to the fullest in the direction
of his ideal, he obviously does not compete with the norm. He strives
with the best of men or even with the gods. Whenever he sees two
alternatives, he immediately wonders which is best. The superior youth
comes to learn that a central question of his life is the question of
with whom is his contest. Having raised this second aspect of
the philosophic concern about the best man, one is led quite naturally to
a related problem he poses for political philosophy with respect to what
has been a perennial concern of the tradition, indeed perhaps its guiding
question, namely: "What is the best regime?" The
consideration of the best regime may be in light of a concern for the
"whole" in some sense, or for the citizen or for the
"whole" in some sense, or from some other standpoint. Apart
from the problem of how to understand "the whole," a large
philosophic question remains regarding whether the best for a city is
compatible with the best for a man. The notion of the superior man
provides a guide of some sort (as the 'norm' does not) to the answer
regarding what is best for a man; the view of the best regime suggests
(as the 'norm' does not) what is good for a city. But what must one
do if the two conflict? As has become apparent, the complex question of
the priority of the individual or the social order is raised by the very
presence of the superior man in a city. The dialogue at various points
tacitly prompts the reader to consider some of the intricacies of this
issue. Upon considering what is best for man generally, for a man
in particular, and for a city, one notices that most people have opinions
about these things, and not all of them act upon these opinions. One
eventually confronts a prior distinction, the difference between doing
what one thinks is good, knowing what is good, and doing what one knows
is good. While it is not entirely accurate to designate them respectively
as power, knowledge, and knowledge with power, these terms suggest how
the problems mentioned above are carried through the dialogue in terms of
the concern for the superior man. Provisionally, one may suggest
that Alkibiades provides a classic example of the superior man. In a sense
not obvious to the average Athenian, so too is Socrates. They both
pose distinct political problems, and they present interesting
philosophic puzzles as well. But there is another reason, no less
compelling for being less apparent, that recommends the study of
the First Alkibiades . Since antiquity the First Alkibiades has
been subtitled, "On the Nature of Man." At first blush this
subtitle 63 is not as fitting as the subtitles of some
other aporetic dialogues. The question "What is the nature of
Man?" is neither explicitly asked nor directly addressed by
either Socrates or Alkibiades, yet the reader is driven to consider
it. One might immediately wonder why " Alkibiades " is
the title of a dialogue on the nature of man, and why Socrates chooses
to 64 talk about man as such with Alkibiades. Perhaps
Alkibiades is par¬ ticularly representative, or especially revealing
about man. Perhaps he is unique or perhaps he is inordinately in need of
such a discourse. One must also try to understand Socrates' purpose,
comprehend the significance of any of Alkibiades' limitations, and come
to an understanding of what the character of his eros is (e.g., is it
directed toward power, glory, or is it just a great eros that is yet to
be directed). In the course of grappling with such matters, one also
confronts one's own advantages and liabilities for the crucial and
demanding role of dialogic partner. Perhaps the very things a reader
fastens his attentions upon are indicative of something essential about
his own particular nature. If the reader is to come to a decision as to
whether the subtitle affixed in antiquity to the dialogue is indeed
appropriate, these matters must be judged in the course of considering
the general question of whether the dialogue is indeed about "the
nature of man." The mystery and challenge of a dialogue may serve to
enhance its attractiveness. One of the most intriguing philosophic
problems of the First Alkibiades may well be the question of whether it
is in fact about man's nature. With a slight twist, the reader is faced
with another example of Socrates' revision of Meno's paradox ( Meno 80e).
Sometimes when a reader finds what he is looking for, discovering something
he was hoping to discover, it is only because his narrowness of attention
or interest prevented him from seeing conflicting material, and because
he expended his efforts on making what he saw conform to his wishes.
The good reader of a dialogue will, as a rule, take great care to avoid
such myopia. In order to find out whether the dialogue is primarily about
the nature of man (and if so, what is teaches about the nature of man),
the prudent reader will caution himself against begging the question, so
to speak. If one sets out ignorant of what the nature of man is, one
may have trouble recognizing it when one finds it. Conversely, to
complete the paradox, to ask how and where to find it (in other words,
inquiring as to how one will recognize it), implies that one ought
already know what to expect from knowledge of it. This could be
problematic, for the inquiry may be severely affected by a preconceived
opinion about which question will be answered by it. "Philosophical
prejudices" should have no part in the search for the nature of
man. This is a difficulty not faced to the same extent by other
aporetic dialogues which contain a question of the form "What
is _?" Once this first question is articulated, the normal way
of pursuing the answer is open to the reader. He may proceed naturally
from conventional opinion, say, and constantly refine his views according
to what he notices. It ap¬ pears, however, that the reader of the First
Alkibiades cannot be certain that it will address the nature of
man, and the dialogue doesn't seem to directly commence with a
consideration of conventional opinions. Most readers of the dialogue know
what a man is insofar as they could point to one (111b,ff.), but very few
know what man is. Perhaps as the dialogue unfolds the careful reader will
be educated to a point beyond being ignorant of how to look for something
that he mightn't recognize even when he found it. By this puzzle the
reader is drawn more deeply into the adventure of touching on the mysteries
of his own nature. To borrow a metaphor from a man who likely knew more
about Socrates and Alkibiades than has anyone else before or since, the
same spirit of adventure permeates the quest for knowledge of man as
characterizes sailing through perilous unknown waters on a tiny, frail
craft, attempting to avoid perishing on the rocks. One can only begin
with what one knows, such as some rudimentary views about navigation
technique and more or less correct opinions about one's home port. Upon coming
to appreciate the difficulties of knowing, fully and honestly, one's own
nature, one realizes how treacherous is the journey. In all likelihood
one will either be swamped, or continue to sail forever, or cling to a
rock under the illusion of having reached the far shore. This
thesis is an introduction to the First Alkibiades . Through their
discussion, and more importantly through his own participation in their
discussion, Socrates and Alkibiades reveal to the reader something about
the nature of man. Both the question of man's nature and the problem of
the superior man have been neglected in recent political theory;
especially the connection between them has been overlooked. To state the
thesis of this essay with only slight exaggeration: an under¬ standing of
politics - great and small - is impossible without knowledge of man, and
knowledge of man is impossible without knowledge of the best of men. This
thesis, investigating the dialogue entitled the First Alkibiades ,
focusses on certain things the dialogue seems to be about, without
pretending to be comprehensive. It is like the dialogue in one respect at
least: it is written in the interest of opening the door to further
inquiry, and not with subsequently closing that door. Through a hopefully
careful, critical reading of the First Alkibiades , I attempt to show
that the nature of man and the superior man are centrally tied both to
each other and to any true understanding of (great) political things. The
spirit of the critique is inspired by the definition of a "good
critic" ascribed to Anatole France: "A good critic is one who
tells the story of his mind's adventures among the masterpieces." The
First Alkibiades begins abruptly with the words "Son of Kleinias, I
suppose you are wondering..." The reader does not know where the
dialogue is taking place; nor is he informed as to how Socrates and
Alkibiades happened to meet on this occasion. Interlocutors in other
direct dramatic dialogues may sooner or later reveal this information in
their speeches. In narrated dialogues, Socrates or another participant
may disclose the circumstances of the discussion. In the case of
this dialogue, however, no one does. The reader remains uncertain
that it is even taking place in Athens proper and not in the countryside
about the city. It may be reasonable to suggest that in this case the
setting of the dialogue does not matter, or more precisely, the fact that
there is no particular setting is rather what matters. The discussion is
not dependent on a specific set of circumstances and the dialogue
becomes universally applicable. The analysis will hopefully show the
permanence of the problems thematically dealt with in the dialogue.
Philosophically it is a discussion in no way bound by time or place.
Further support is lent to this suggestion by the fact that there is no
third person telling the story and Socrates is not reporting it to
anyone. Nobody else is present. Plato presents to the reader
a dramatic exchange which is emphatically private. Neither Socrates nor
Alkibiades have divulged the events of this first dialogic encounter
between the man and the youth. The thorough privacy of the
discussion as well as the silence concerning the setting help to impute to the
reader an appreciation of the autonomous nature of the discourse. There
is a sense in which this dialogue could happen whenever two such people
meet. Consequently, the proposition implicitly put forth to the reader is
that he be alive to the larger significance of the issues treated; the
very circumstances of the dialogue, as mentioned here, sufficiently
support such a suggestion so as to place the onus for the argument in the
camp of those who want to restrict the relevance of the dialogue to
Socrates and Alkibiades in 5th century Athens. That the two
are alone is a feature that might be important to much of the reader's
interpretation, for attention is drawn to the fact by the speakers
themselves. Such privacy may have considerable philosophic significance,
as it has a clear effect on the suitability of some of the material being
discussed (e.g., 118b.5). There is no need for concern about the effect
of the discussion upon the community as there might be were it spoken at
the ekklesia ; the well-being of other individuals need not dissuade them
from examining radical challenges to conventional views, as might be the
case were they conversing in front of children or at the marketplace; and
there is no threat to either partici¬ pant, as there might be were they
to insult or publicly challenge some¬ one's authority. Conventional piety
and civic-mindedness need place no limitations on the depth of the
inquiry; the only limits are those im¬ plicit in the willingness and
capability of the participants. For example, an expectation of pious
respect for his guardian, Perikles, could well interfere with Alkibiades'
serious consideration of good statesmanship. The fact that they are
unaccompanied, that Perikles is spoken of as still living, and that Socrates
first mentions Perikles in a respectful manner (as per 118c, 104b-c),
permits a serious (if finally not very flattering) examination of his
qualifications. Socrates and Alkibiades are alone and are not bound by
any of the restrictions normally faced in discussions with an audience.
The reader's participa¬ tion, then, should be influenced by this spirit
of privacy, at least in so far as he is able to grasp the political
significance of the special "silence" of private
conversation. Somewhere in or about their usual haunts, Socrates
and Alkibiades chanced to meet. If their own pronouncements can be taken
literally, they were in the process of seeking each other. Alkibiades had
been about to address Socrates but Socrates began first (104c-d). Since
his daimon or god had only just ceased preventing him from talking
to Alkibiades (105d), Socrates was probably waiting at Alkibiades'
door (106e.10). Although the location is unknown, the reader
may glean from various of their comments a vague idea of the time of the
dialogue. In this case, it appears, the actual dramatic date of the
dialogue is of less importance than some awareness of the substance of
the evidence enabling one to deduce it. Alkibiades is not yet twenty (123d)
but he must be close to that age for he intends shortly to make his
first appearance before the Athenian ekklesia (106c). Until today
Socrates had been observing and following the youth in silence; they had
not spoken to each other. This corroborates the suggestion that the
action of the dialogue takes place before the engagement at Potidaia
(thus before the outbreak of the Peloponnesian War, i.e. before 432 B.C.)
for they knew each other by that time ( Symposium, 219e). Perikles and
his sons are referred to as though they were living, offering
further confirmation that the dramatic date is sometime before or about
the onset of the war with Sparta. The action of the dialogue must take
place be¬ fore that of the Protagoras ,^ since Socrates has by then a
reputation of sorts among the young men, whereas Alkibiades seems not to
have heard very much of Socrates at the beginning of the First Alkibiades
. Socrates addresses Alkibiades as the son of Kleinias. This
per¬ haps serves as a reminder to the young man who believes himself so
self- sufficient as to be in need of no one (104a). In the first place,
his uniqueness is challenged by this address. His brother (mention of
whom occurs later in the dialogue - 118e.4) would also properly turn
around in response to Socrates' words. More importantly, however, it
indicates that he too descended from a family. His ancestry is traced to
Zeus (121a), his connections via his kin are alleged to be central to
his self-esteem (104b), and even his mother, Deinomakhe, assumes a role
in the discussion (123c) . He is attached to a long tradition.
Through observation of Alkibiades' case in particular, the fact
that a man's nature is tied to descent is made manifest. Alkibiades lost
his father, Kleinias, when he was but a child (112c) . He was made a ward
of Perikles and from him received his nurture. For most readers, drawing
attention to parentage would not distinguish nature from nurture. One is
a child of one's parents both in terms of that with which one is born,
one's biological/genetic inheritance, and of that which one learns. In
the case of Alkibiades, however, to draw attention to his father is to
draw attention to his heredity, whereas it was Perikles who raised him. The
philosophic distinction between nature and nurture is emphasized by the
apparent choice of addresses open to Socrates. Alkibiades is both the son
of Kleinias and the ward of Perikles. It seems fitting that a dialogue on
human nature begin by drawing attention to two dominating features of all
men's characters, their nature and their nurture. Socrates believes
that Alkibiades is wondering. He is curious about the heretofore hidden
motives for Socrates' behavior. As a facet of a rational nature, wonder
or curiosity separates men from the beasts. Wondering about the world is
characteristic of children long before they fully attain reason, though
it seems to be an indication of reason; most adults retain at least some
spark of curiosity about something. The reader is reminded that the
potential for wonder/reason is what is common to men but not possessed by
beasts, and it serves to distinguish those whom we call human.
Reason in general, and wonder in particular, pose a rather complex
problem for giving an account of the nature of man. Though enabling one
to distinguish men from beasts, it also allows for distinctions between
men. Some are more curious than others and some are far more rational
than others. The philosopher, for example, appears to be dominated by his
rational curiosity about the true nature of things. Some people wonder
only to the extent of having a vague curiosity about their future. It
appears that the criteria that allow one to hierarchically differ¬
entiate man from beast also provide for the rank-ordering of men. Some
people would be "more human" than others, following this line
of analysis. This eatablishes itself as an issue in understanding
what, essentially, man is, and it may somehow be related to the
general problem of the superior man, since his very existence invites
comparison by a qualitative hierarchy. He might be the man who portrays
the human characteristics in the ideal/proper quantities and proportions.
He may thus aid our understanding of the standard for humans.
Another opportunity to examine this issue will arise upon reaching the
part of the dialogue wherein Socrates points out that Alkibiades can come
to know himself after he understands the standard for superior men, after
he understands with whom he is to compete (119c,ff.). There
are at least two other problems with respect to the analysis of human
curiosity. The first is that it seems to matter what people are curious
about. Naturally children have a general wonder about things, but at a
certain stage of development, reason reveals some questions are more
important than and prior to others. It seems clear that wondering about
the nature of the world (i.e., what it really is), its arche (basic
principles), and man's proper place in it, or the kind of wondering
traditionally associated with the philosophic enterprise, is of a higher
order than curiosity about beetles, ancient architecture, details of
history, or nuances of linguistic meaning. This further complicates the
problems of rank-ordering men. The second problem met with in
giving an account of wonder and its appropriate place in life is that
next to philosophers and children, few lives are more dominated by a
curiosity of sorts than that of the "gossiping housewife." She
is curious about the affairs of her neighbors and her neighbor's
children. The passion for satisfying that curiosity is often so strong as
to literally dominate her days. It seems im¬ possible to understand such
strong curiosity as "merely idle," but one would clearly like
to account for it as essentially different from the curiosity of the
philosopher. That the reader may not simply disregard consideration of
gossiping women, or consider it at best tangential, is borne out by the
treatment of curiosity in the First Alkibiades. It is indicated in
the dialogue that daughters, wives and mothers must figure into an account
of wonder. There are seven uses of 'wonder' 6 V (
thaumadzein ). The first three involve Socrates and Alkibiades attest¬
ing to Alkibiades' wonder, including a rare pronouncement by Socrates of
his having certain knowledge: he knows well that Alkibiades is wondering
(104c.4; 103a.1, 104d.4). The last three are all about women wondering. Keeping
in mind the centrality of wondering to the nature of the philosopher (it
seems to be a chief thing in his nature), one sees that careful attention
must be given to curiosity. We have other reasons to suspect that
femininity is in some way connected to philosophy, and perhaps a careful
consideration of the treatment of women in the dialogue would shed light
on the problem. There is a sense in which wonder is a most
necessary prerequisite to seeking wisdom (cf. also Theaitetos 155d). To
borrow the conclusion of Socrates' argument with Alkibiades concerning
his coming to know justice (106d-e; 109e), one has to be aware of a lack
of something in order to seek it. A strong sense of wonder, or an
insatiable curiosity drives one to seek knowledge. This type of intense
wondering may con¬ ceivably be a major link in the connection between the
reason and the spirit of the psyche (cf. Republic 439e-440a). In the
Republic these two elements are said to be naturally allied, but the
reader is never explicitly told how they are linked, or what generally drives
or draws the spirit toward reason. An overpowering sense of wonder seems
the most immediate link. Perhaps another link is supplied when the
import¬ ance of the connection of knowledge to power is recognized; a
connection between the two parts of the psyche might be supplied by a
great will to power, for power presumably requires knowledge to be
useful. However, final judgement as to how the sense of wonder and the
desire for power differ in this regard, and which, if any, properly
characterizes the connections between the parts of Alkibiades' psyche
must await the reader's reflection on the dialogue as a whole. Likewise,
his evaluation as to which class of men contains Alkibiades will be
properly made after he has finished the dialogue. Socrates
believes that Alkibiades is wondering. Precisely that feature of
Alkibiades' nature is the one with which Socrates chooses to begin the
discussion and therewith their relationship. One may thus explore the
possibility that wondering is what distinguishes Alkibiades, or
essentially characterizes him. The discussion to this point would admit
of a number of possibilities. Curiosity could set Alkibiades apart
from other political figures, or it may place him above men generally,
indicating that he is one of the best or at least potentially one of the
best men - should reason/curiosity prove to be characteristic of the
best. Alkibiades' ostensible wondering could bespeak the high spirit
which characterized his entire life; perhaps one of the reasons he would
choose to die rather than remain at his present state (105a-b) is that he
is curious to see how far he can go, how much he can rule.
Socrates remarks that he is Alkibiades' lover; he is the first of
Alkibiades' lovers. Socrates suggests two features of his manner which,
taken together, would be likely to have roused the wonder of Alkibiades.
Socrates, the first lover, is the only one who remains; all the other
lovers have forsaken Alkibiades. Secondly, Socrates never said a word to
Alkibiades during his entire youth, even though other lovers pushed
through hoardes of people to speak with Alkibiades. A youth continuously
surrounded by a crowd of admirers would probably wish to know the motives
of a most constant, silent observer - if he noticed him. Socrates has at
last, after many years, spoken up. Assuring Alkibiades that no
human cause kept him from speaking, Socrates intimates that a daimonic
power had somehow opposed his uttering a single word. The precise nature
of the power is not divulged. Obviously not a physical restraint
such as a gag, it can nevertheless affect Socrates' actions. Socrates,
one is led to believe, is a most rational man. If it was not a human
cause that kept him from speaking, then Socrates' reason did not cause
him to keep silent. It was not reason that opposed his speech. Whatever
the daimonic power was, it was of such a force that it could match the
philosopher's reason. An under¬ standing of how Socrates' psyche would be
under the power of this daimonic sign would be of great interest to a
student of man. In at least Socrates' case, this power is comparable in
force to the power of reason. Socrates tells Alkibiades that the power of
the daimon in opposing his speaking was the cause of his silence for so
many years. The reader does not forget, however, that the lengthy
silence was not only Socrates'. Something else, perhaps less divine, kept
Alkibiades silent. It is noteworthy that the first power
Socrates chooses to speak of with Alkibiades is a non-human one, and one
which takes its effect by restraining speech. Alkibiades is interested in
having control over the human world; the kind of power he covets involves
military action and political management. Young men seem not altogether
appreciative of speech. Even when they acknowledge the power made
available by a positive kind of rhetorical skill, they do not appear
especially con¬ cerned with any negative or restraining power that limits
speech such as the power of this daimon. Not only is talk cheap, but it
is for women and old men, in other words, for those who aren't capable of
actually doing anything. The first mention of power ( dynamis) in the
dialogue cannot appear to Alkibiades to pertain to his interest in ruling
the human world, but it does offer the reader both an opportunity for
re¬ flection on power in general, and a promise to deal with the
connection between power and speech in some fashion. What the dialogue
teaches about language and power will be more deeply plumbed when
Alkibiades learns the extent of the force of his words with Socrates
(112e, ff.). According to Socrates, Alkibiades will be informed of
the power of this daimonic sign at some later time. Since apparently the
time is not right now, either Socrates is confident that he and
Alkibiades will continue to associate, or he intends to tell Alkibiades
later during the course of this very dialogue. Socrates, having complied
with his daimon, comes to Alkibiades at the time when the opposition ceases.
He appears to be well enough acquainted with the daimon to entertain good
hopes that it will not oppose him again. By simple
observation over the years, Socrates has received a general notion of
Alkibiades' behavior toward his lovers. There were many and they were
high-minded, but they fled from Alkibiades' surpassing self-confidence.
Socrates remarks that he wishes to have the reasons for this
self-confidence come to the fore. By bringing Alkibiades' reasons to
speech, Socrates implies, among other things, that this sense of
superiority does not have a self-evident basis of support. He also sug¬
gests that there is a special need to have reasons presented. Perhaps
Alkibiades' understanding of his own feelings either is wrong or in¬
sufficient; at any rate, they have previously been left unstated. If they
are finally revealed, Alkibiades will be compelled to assess
them. Socrates proceeds to list the things upon which Alkibiades prides
himself. Interestingly, given his prior claim that he learned
Alkibiades' manner through observation, most of the things Socrates
presently mentions are not things one could easily learn simply through
observation of actions. One cannot see the mobility of Alkibiades' family
or the power of his connections. More important to Socrates' point, one
cannot see his pride in his family. He might "look proud," but
others must determine the reason. It is difficult to act proud of one's
looks, family and wealth while completely abstaining from the use of
language. It has thus become significant to their relationship that
Socrates was also able to observe Alkibiades' speech, for it is through
speech that pride in one's family can be made manifest. By listing these
features, Socrates simultaneously shows Alkibiades that he has given
considerable thought to the character of the youth. He is able to explain
the source of a condition of Alkibiades' psyche without having ever
spoken to Alkibiades. Only a special sort of observer, it seems, could
accomplish that. Alkibiades presumes he needs no human assistance
in any of his 68 affairs; beginning with the body and ending
with the soul, he believes his assets make him self-sufficient. As all
can see, Alkibiades is not 69 in error believing his
beauty and stature to be of the highest quality. Secondly, his family is
one of the mightiest in the city and his city the greatest in Greece. He
has numerous friends and relatives through his father and equally through
his mother, who are among the best of men. Stronger than the advantages
of all those kinsmen, however, is the power he envisions coming to him
from Perikles, the guardian of Alkibiades and his brother. Perikles can
do what he likes in Greece and even in barbarian countries. That kind of
power - the power to do as one likes - Alkibiades is seeking (cf. 134e-135b).
The last item Socrates includes in the list is the one Alkibiades least
relies on for his self-esteem, namely his wealth. Socrates
places the greatest emphasis on Alkibiades' descent and the advantages
that accrue therefrom. This is curious for he was pur¬ portedly supplying
Alkibiades' reasons for feeling self-sufficient; if this is a true list,
he has done the contrary, indicating Alkibiades to be quite dependent
upon his family. Even so, the amount of stress on the family appears to
exceed that necessary for showing Alkibiades not to be self-sufficient.
As has already been observed, this is accomplished by paying close
attention to the words at the start of the dialogue. At this point,
Alkibiades' father's relations and friends, his mother's relations and
friends, his political connections through his kinsmen and his uncle's
great power are mentioned as well as the position of his family in the
city and of his city in the Hellenic world. Relative to the other
resources mentioned, Socrates goes into considerable depth with regards
to Alkibiades' descent. It is literally the central element in the set of
features that Socrates wanted to be permitted to name as the cause of
Alkibiades' self-esteem. Quite likely then, the notion of descent and its
connections to human nature (as Alkibiades' descent is connected, by
Socrates' implication, to qualities of his nature) are more important to
the understanding of the dialogue than appears at the surface. This
discussion will be renewed later at the opening of the longest speech in
the First Alkibiades . At that point both participants claim divine
ancestry immediately after agreeing that better natures come from
well-born families (120d-121a). That will afford the reader an
opportunity to examine why they might both think their descent
significant. Socrates has offered this account of Alkibiades'
high-mindedness suggesting they are Alkibiades' resources "beginning
with the body and ending with the soul." In fact, after mentioning
the excellence of his physical person, Socrates talks of Alkibiades'
parents, polis , kinsmen, guardian, and wealth. Unless the reader is to
understand a man's soul to be made by his family (and that is not said
explicitly), these things do not even appear to lead toward a
consideration of the qualities of his soul, but lead in a different
direction. One might expect a treatment of such things as Alkibiades'
great desires, passions, virtues and thoughts, not of his kinsfolk and
wealth. Perhaps the reader is not yet close enough to an understanding of
the human soul. At this point he may not be prepared to discern the
qualities of soul in Alkibiades which would properly be styled
"great." Socrates and Alkibiades may provide instruction for
the reader in the dialogue, so that by the end of his study he will be
better able to make such a judgement were he to venture one now, it might
be based on conventional opinions of greatness. By not explicitly stating
Alkibiades' qualities of soul at this point, the reader is granted the
opportunity to return again, later, and supply them himself. The psyche
is more difficult to perceive than the body, and as is discussed in the
First Alkibiades (129a-135e), this significant¬ ly compounds the problems
of attaining knowledge of either. If this is what Socrates is indicating
by apparently neglecting the qualities of Alkibiades' soul, he debunks
Alkibiades' assets as he lists them. The features more difficult to
discern, if discerned, would be of a higher rank. Fewer men would
understand them. Socrates, however, lists features of Alkibiades that are
plain for all to see. The qualities that even the vulgar can appreciate, when
said to be such are not what the superior youth would most pride himself upon.
The many are no very serious judges of a man's qualities. In
view of these advantages, Alkibiades has elevated himself and overpowered
his lovers, and according to Socrates, Alkibiades is well aware of how it
happened that they fled, feeling inferior to his might. Precisely on
account of this Socrates can claim to be certain that Alkibiades is
wondering about him. Socrates says that he "knows well" that
Alkibiades must be wondering why he has not gotten rid of his eros . What
he could possibly be hoping for, now that the rest have fled is a
mystery. Socrates, by remaining despite the experience of the rest, has
made himself intriguing. This is especially the case given his analysis
of Alkibiades. How could Socrates possible hope to compete with
Alkibiades in terms of the sort of criteria important to Alkibiades?
He is ugly, has no famous family, and is poor. Yet Socrates had not
been overpowered; he does not feel inferior. Here is indeed a strange
case, or so it must seem to the arrogant young man. Socrates has managed
to flatter Alkibiades by making him out to be obviously superior to any
of his (other) lovers - but he also places himself above Alkibiades, despite
the flattery. In his first speech to Alkibiades, Socrates has
praised him and yet undercut some of his superiority. He has aroused
Alkibiades' interest both in Socrates and in Socrates' understanding of
him. It is conceivable that no other admirer of Alkibiades has been so
frank, and it is likely that none have been so strange - to the point of
alluding to daimons. Yet something about Socrates and Socrates' peculiar
erotic attraction to Alkibiades makes Alkibiades interested in hearing
more from the man. It is clear that he cannot want to listen
merely because he enjoys being flattered and gratified, for Socrates'
speech is ironic in its praise. He takes even as he gives.
Philosophically, this op ening speech contains a reference to
most of the themes a careful reader will recognize as being treated in
the dialogue. Some of these should be listed to give an
indication of the depths of the speech that remain to be plumbed. The
reader is invited to examine the nature of power - what it is essentially
and through what it affects human action. As conventionally understood,
and as it is attractive to Alkibiades, power is the ability to do what
one wants. According to such an account, it seems Perikies has power.
This notion of power is complicated by the non-human power referred to by
Socrates which stops one from doing what one wants. Power is also shown
to be connected to speech. Another closely related theme is knowledge.
All of these are connected explicitly in that the daimonic power knew
when to allow speech . In the opening speech by Socrates, he claims to
know something, and the reader is introduced to a consideration of
observation and speech as sources of knowledge. He is also promised a
look at what distinguishes one's perception of oneself from other's
opinions of one, through Socrates' innuendo that his perception of
Alkibiades may not be what Alkibiades perceives himself to be. There is
also reference to a difference in ability to perceive people's natures -
namely the many's ability is contrasted with Socrates', as is the ability
of the high- minded suitors. The dialogue will deal with this theme in
great depth. Should it turn out that this ability is of essential
importance to a man's fulfillment, the reader is hereby being invited to
examine what are the essentially different natures of men. Needless to
say, the reader of the dialogue should return again and again to this
speech, to the initial treatment of these fundamental questions.
The relationship of body to soul, as well as the role of 'family'
and ' polis ' in the account of man's nature, are introduced here in the
opening words. They indicate the vastness of the problem of understanding
the nature of man. Socrates and Alkibiades seem superior to everyone
else, but they too are separate. Socrates is shown to be unique in some
sense and he cites especially strange causes of his actions. There is
no mention of philosophy or philosopher in this dialogue, but the reader
is introduced to a strange man whose eros is different from other men, in¬
cluding some regarded as quite excellent, and who is motivated by an as
yet unexplained daimonic power. On another level, the form of the
speech and the delivery itself attest to some of the thought behind the
appropriateness or inappropriate¬ ness of saying certain things in
certain situations. Even the mechanics or logistics of the discussion
prove illuminating to the problem. In addition, the very fact that they
are conversing tog ether and not depicted as fighting together
in battle, or even debating with each other in the public assembly,
renders it possible that speech - and perhaps even a certain kind of
speech (e.g., private, dialectical) - is essential to the relation
between the two superior men said to begin in the First Alkibiades
. Finally (though not to suggest that the catalogue of themes
is complete), one must be awakened to the significance of the silence
being finally broken. With Socrates' first words, the dialogue has begun
to take place. Socrates and Alkibiades have commenced their verbal
relationship. There is plenty of concern in the dialogue about language:
what is to be said and not said, and when and how it is to be said.
The first speech by Socrates in the First Alkibiades has alerted the reader
to this. Alkibiades addresses Socrates for the first time. Though
already cognizant of his name, Alkibiades does not appear to know
anything else about him. To Socrates' rather strange introduction he
responds that he was ready to speak with reference to the same issue;
Socrates has just slightly beat him. Alkibiades seems to have been
irritated by Socrates' constant presence and was on the brink of asking
him why he kept bother¬ ing him. Socrates' opening remarks have probably
mitigated his annoyance somewhat and allowed him to express himself in
terms of curiosity instead. He admits, indeed he emphatically affirms
(104d), that he is wondering about Socrates' motives and suggests he
would be glad to be informed. Alkibiades thus expresses the reader's own
curiosity; one wonders in a variety of respects about what Socrates'
objective might be. Alkibiades might perceive different possibilities
than the reader since he seems thoroughly unfamiliar with Socrates. A
reader might wonder if Socrates wanted to influence Alkibiades, and to
what end. Did Socrates want to make Alkibiades a philosopher; what kind
of attraction did he feel for Alkibiades; why did he continue to
associate with him? These questions and more inevitably confront the
reader of the First Alkibiades even though they might at first appear to
be outside the immediate bonds of the dialogue. For these sorts of
questions are carried to a reading of the dialogue, as it were; and given
the notoriety of Alkibiades and of Socrates, it is quite possible that
they were intended to be in the background of the reader's thoughts.
Perhaps the dialogue will provide at least partial answers.
If Alkibiades is as eager to hear as he claims, Socrates can assume that
he will pay attention to the whole story. Socrates will not then have to
expend effort in keeping Alkibiades' attention, for Alkibiades has
assured him he is interested. Alkibiades answers that he certainly shall
listen. Socrates, not quite ready to begin, insists that Alkibiades
be prepared for perhaps quite a lengthy talk. He says it would be
no wonder if the stopping would be as difficult as the starting
was. One does not expect twenty years of non-stop talk from
Socrates, naturally, and so one is left to wonder - despite (or perhaps
because of) his claim that 70 there is no cause for
wonder - why he is making such a point about this beginning and the
indeterminacy of the ending. The implication is that there remains some
acceptable and evident relation between beginnings and endings for the
reader to discern. In an effort to uncover what he is, paradoxically, not
to wonder about, the careful reader will keep track of the various things
that are begun and ended and how they are begun and ended in the First
Alkibiades . Although innocuous here, Alkibiades' response "speak
good man, I will listen," gives the reader a foreshadowing of his
turning around at the end of the dialogue. There it is suggested that
Alkibiades will silently listen to Socrates. Until the time of the
dialogue the good man has been silent, listening and observing while any
talking has been done by Alkibiades or his suitors. Assured
of a listener, Socrates begins. He is convinced that he must speak.
However difficult it is for a lover to talk to a man who disdains lovers,
Socrates must be daring enough to speak his mind. This is the first
explicit indication the reader is given concerning certain qualities of
soul requisite for speaking, not only for acting. It also suggests some
more or less urgent, but undisclosed, necessity for Socrates to speak at
this time. Should Alkibiades seem content with the above mentioned
possessions, Socrates is confident that he would be re¬ leased from his
love for Alkibiades - or so he has persuaded himself. Socrates is
attracted to the unlimited ambition Alkibiades possesses. The caveat
introduced by Socrates (about his having so persuaded himself) draws
attention to the difference between passions and reason as guides to
action, and perhaps also a difference between Socrates and other men. For
the most part one cannot simply put an end to passions on the basis of
reason. One may be able to substitute another passion or appetite, but it
is not as easy to rid oneself of it. However, instead of having to put
away his love, Socrates is going to lay Alkibiades' thought open to
him. Socrates intends to reveal to Alkibiades the youth's ambition.
This can only be useful in the event that he has never considered his
goals under precisely the same light that Socrates will shed on them.
By doing this Socrates will also accomplish his intention of proving
to Alkibiades that he has paid careful attention to the youth
(105a). Alkibiades should be in a position to recognize Socrates' concern
by the end of this speech; this suggests a capability on the part of
both. Many cannot admit the motives of their own actions, much less
reveal to someone else that person's own thoughts. Part of the
significance of the following discussion, therefore, is to indicate both
Socrates' attentiveness to Alkibiades and Alkibiades' perception of
it. Should some (unnamed) god ask Alkibiades if he would choose
to die rather than be satisfied with the possessions he has, he
would choose to die. That is Socrates' belief. If Socrates is right,
it bespeaks a high ambition for Alkibiades, and it does so whether or
not Alkibiades thought of it before. His possessions, mentioned so
far, include beauty and stature, great kinsmen and noble family, and
great wealth (though the last is least important to him). In an obvious
sense, Alkibiades must remain content with some of what he has. He
cannot, for example, acquire a greater family. His ambition, then, as
Socrates indicates, is for something other than he possesses. The hopes
of Alkibiades' life are to stand before the Athenian ekklesia and prove
to them that he is more honorable than anyone, ever, including
Perikles. As one worthy of honor he should be given the greatest
power, and having the greatest power here, he would be the greatest among
Greeks and even among the barbarians of the continent. If the god
should further propose that Alkibiades could be the ruler of Europe on
the condition that he not pass into Asia, Socrates believes Alkibiades
would not choose to live. He desires to fill the world with his name and
power. Indeed Socrates believes that Alkibiades thinks no man who ever
lived worthy of discussion besides Kyros and Xerxes ( the Great Kings of
Persia). Of this Socrates claims to be sure, not merely supposing - those
are Alkibiades' hopes. There are a number of interesting features
about the pretense of Alkibiades responding to a god. Alkibiades might
not admit the extent of his ambition to the Athenian people who would
fear him, or even to his mother, who would fear for him; it therefore
would matter who is allegedly asking the question. It is a god, an
unidentified god whose likes and dislikes thus remain unknown. Alkibiades
cannot take into account the god's special province and adjust his answer
accordingly. The significance of the god is most importantly that
he is more powerful than Alkibiades can be. But why could not Socrates
have simply asked him, or, failing that, pretend to ask him as he does in
a moment? It is pos¬ sible that speaking with an omniscient god would
allow Alkibiades to reveal his full desire; he would not be obliged to
hid his ambition from such a god as he would from most men in democratic
Athens. But it is also plausible that Socrates includes the god in the
discussion for the purpose of limiting Alkibiades' ambition (or perhaps
as a standard for power/knowledge). Not to suggest that Socrates means to
moderate what Alkibiades can do, he nevertheless must have realistic
bounds put upon his political ambition. Assume, for the moment, that more
questions naturally follow the proposal of limiting his rule to Europe.
If Alkibiades were talking to Socrates (instead of to a deity with
greater power), he might not stop at Asia. If he thought of it, he might
wish to control the entire world and its destiny. He would dream that
fate or chance would even be within the scope of his ambition. The
god in this example is presented as being in a position to determine
Alkibiades' fate; he can limit the alternatives open to Alkibiades and
can have him die. With Socrates' illustration, Alkibiades is confronting
a being which has a power over him that he cannot control. The young man
is at least forced to pretend to be in a situation in which he cannot
even decide which options are available. It is import¬ ant for a
political ruler to realize the limits placed on him by fate. The
notion that the god is asking Alkibiades these questions makes it
unlikely that Alkibiades would answer that he should like to rule heaven
and earth, or even that he would like supreme control of earth (for that
is likely to be the god's own domain). Alkibiades probably won't suggest
to a god that he wants to rule Fate or the gods of the Iliad who hold the
fate of humans so much in hand. Chance cannot be controlled by
humans, either through persuasion or coersion. It can only have its
effect reduced by knowledge. Alkibiades' political ambitions have
to be moderated to fit what is within the domain of fate and chance
and to be educated about the limits of the politically possible.
Socrates, by pretending that a god asks the questions, can allow
Alkibiades to admit the full extent of his ambitions over humans,
but it also serves to keep him within the arena of human politics.
If he would have answered Socrates or a trusted friend in
discussion, he might not have easily accepted that limit. It is
necessary for any politically ambitious man, and doubly so if he is
young, to cultivate a respect for the limits of what can
politically be accomplished under one's full control. This may have helped
Alkibiades establish a political limit m his own mind. Another
feature of the response to the god which should be noted is that it marks
the second of three of Socrates' exaggerated claims to know aspects of
Alkibiades' soul. In the event that the reader should have missed the
first one wherein he claims to "know well" that Alkibiades
wonders (104c), Socrates here emphasizes it. He is not simply inferring
or guessing, he asserts; he knows this is Alkibiades' hope (105c).
Shortly he will claim to have observed Alkibiades during every moment the
boy was out of doors, and thus to know all that Alkibiades has learned
(106e). Just as it is impossible for Socrates to have watched
Alkibiades at every moment, so he cannot be certain of what thought is
actually going through Alkibiades' mind. Socrates' claim to knowledge has
to be based on something other than physical experience or being taught.
Alkibiades has not told anyone that these are his high hopes. Perhaps
Socrates' knowledge is grounded in some kind of experience He knows
what state Alkibiades' soul is in because he knows what Alkibiades
must hope, wonder and know. It may be that Socrates has an access
to this knowledge of Alkibiades' soul through his own soul. His
soul may be or may have been very like Alkibiades'. Since Socrates
will later argue that one cannot know another without knowing
oneself perhaps one of the reasons he knows Alkibiades' soul so well is
that it matches his in some way. It is not out of the question that
their souls share essential features and that those features perhaps are
not shared by all other men. Clearly not all other men have found
knowledge of Alkibiades' soul as accessible as has Socrates. And Socrates
will be taking Alkibiades' soul on a discussion beyond the bounds of
Athenian politics and politicians. He instructs Alkibiades that his soul
cannot be patterned upon a conventional model, just as Socrates is
obviously not modelling himself upon a standard model. These two men are
somehow in a special position for understanding each other, and their
common sight beyond the normally accepted standards may be what allows
Socrates to make such apparently outrageous claims. At this point,
instead of waiting to see how Alkibiades will respond, Socrates
manufactures his own dialogue, saying that Alkibiades would naturally ask
what the point is. He is supposing that Alkibiades recognizes the truth
of what has gone before. Since it is likely that Alkibiades would have
enjoyed the speech to this point and thought it good, Socrates must bring
him back to the topic. By using this device of a dialogue within a
speech, Socrates is able to remind Alkibiades (and the reader) - by
pretending to have Alkibiades remind Socrates - that they were supposed
to learn not Alkibiades' ambitions, but those of Socrates (supposing that
they are indeed different). Socrates responds (to his own question)
that he conceives himself to have so great a power ove
r Alkibiades that the dear son of Kleinias and Deinomakhe
will not be able to achieve his hopes without the philosopher's
assistance (105d). Because of this power the god prevented him from
speaking with Alkibiades. Socrates hopes to win as complete a power over
Alkibiades as Alkibiades does over the polis . They both wish to prove
themselves invaluable, Socrates by showing himself more worthy than
Alkibiades' guardian or relatives in being able to transmit to him the
power for which he longs. The god prevented Socrates from talking when
Alkibiades was younger, that is, before he held such great hopes. Now,
since Alkibiades is prepared to listen, the god has set him on.
Alkibiades wants power but he does not know what it is, essentially.
Yet he must come to know in order not to err and harm himself. Part
of the relationship between philosophy and politics is suggested here,
and perhaps also some indication of why Socrates and Alkibiades need each
other. An understanding of the causes of their coming together would be
essential to an account of their relation, it seems, and such under¬
standing is rendered more problematic by the role of the god.
Socrates wants as complete power over Alkibiades as Alkibiades does
over the polis . If one supposes that the power is essentially similar,
this might imply that Socrates would actually have the power over the
polis . A complete power to make someone else do as one wants (as power
is conventionally understood) seems to be the same over an individual as
over a state. Socrates and Alkibiades hope to prove themselves invaluable
(105a). That is not the same as being worthy of honor (105b); past
performance is crucial to the question of one's honor, whereas a possibility
of special expertise in the future is sufficient to indicate one is
invaluable. If a teacher is able to promise that his influence will make
manifest to one the problems with one's opinions, and will help to
clarify them, the teacher has indicated himself to be invaluable. Should
one then, on the basis of the teacher's influence change one's opinions,
and thus one's advice and actions, the teacher will, in effect, be the
man with power over all that is affected by one's advice and actions,
over all over which one has power. Socrates, in affecting
politically-minded youths, has an effect on the polity. To have power
over the politically powerful is to have power in politics. Socrates'
daimon had not let Socrates approach while Alkibiades' hopes for rule
were too narrowly contained. His ambitions had to become much greater. If
for no other reason than to see that over which Socrates expects or
intends to have indirect power, one should be eager to discover
Alkibiades' ambition - to discover that end which he has set for himself,
or which Socrates will help to set for him. The reader also has in mind
the historical Alkibiades: to the extent to which Alkibiades' designs in
Europe and Asia did come to pass, was Socrates responsible as Plato,
here, has him claim to be? The reader might also be curious about the
reverse: what actions of the historical Alkibiades make this dialogue
(and Socrates' regard) credible? Alkibiades is astounded, Socrates
sounds even stranger than he looks. But Alkibiades' interest is aroused,
even if he is skeptical. He doesn't admit to the ambitions that
have been listed; however he will concede them for the sake of finding
out just how Socrates thinks of himself as the sole means through whom
Alkibiades can hope to realize them. Perhaps he never had the opportunity
to characterize his ambitions that way - he may never have talked to a
god. Socrates may only have clarified those hopes for Alkibiades;
but on the other hand, the philosopher (partly, at least) may be
responsible for imparting them to the young man. At any rate, even
if Socrates merely made these goals obvious to the youth, one must
wonder as to his purpose. Alkibiades feels confident in claiming
that no denial on his part will persuade Socrates. He asks Socrates
to speak (106a). Socrates replies with a question which he answers
himself. He asks if Alkibiades expects him to speak in the way
Alkibiades normally hears people speak - in long speeches.
Alkibiades' background is thus 73 indicated to some
extent. He has heard orators proclaim. Socrates points out that he
will proceed in a way that is unusual to Alkibiades - at least in
so far as proving claims. By suggesting there is more than one way
to speak, Socrates indicates that differences of style are
significant in speech, and he invites the reader to judge/consider
which is appropriate to which purposes. Socrates protests
that his ability is not of that sort (the orator's), but that he
could prove his case to Alkibiades if Alkibiades consents to do one
bit of service. By soliciting Alkibiades' efforts, Socrates may be
intending to gain a deeper commitment from the youth. If he is
responsible somewhat for the outcome he may be more sincere in 74
his answers. Alkibiades will consent to do a service that is not
difficult; he is interested but not willing to go to a
great deal of trouble. At this stage of the discussion he has no
reason to believe 75 that fine things are hard. Upon
Socrates' query as to whether answering questions is considered
difficult, Alkibiades replies that it is not. Socrates tells him
to a nswer and Alkibiades tells Socrates to ask. His response suggests
that Alkibiades has never witnessed a true dialectical discuss
ion. He has just played question and answer games. Not many
who have experienced a dialogue, and even fewer who have spoken with
Socrates, would say it is not hard. Alkibiades, too, soon
experiences difficulty. Socrates asks him if he'll admit he has
these intentions but Alkibiades won't affirm or deny except toget
on with the conversation. Should Socrates want to believe it he
may; Alkibiades desires to know what is coming before he
acknowledges more. Accepting this, Socrates proceeds. Alkibiades,
he notes, intends shortly to present himself as an advisor to the
Athenians. If Socrates 76 were to take hold of him as
he was about to ascend the rostrum in front of the ekklesia and were to
ask him upon what subject they wanted advice such as he could give, and
if it was a subject about which Alkibiades knew better than they, what
would he answer? This is an example of a common Socratic device,
one of imagining that the circumstances are other than they are. Socrates
hereby employs I it for the third time in the dialogue,
and each provides a different effe ct. On the first occasion,
Socrates pretended a god was present to provide Alkibiades with an
important choice. Socrates did not speak in his own name. The second
example was when Socrates ventured that Alkibiades would ask a certain
question, and so answered it without waiting to see if he would indeed
have asked that question. In both of those, the physical setting of the
First Alkibi ades was appropriate to his intentions. This
time, however, Socrates supplies another setting - a very different
setting - for a part of the discussion. Speech is plastic in that
it enables Socrates to manufacture an almost limitless variety of
situations. By the sole use of human reason and imagination, people are
able to consider their actions in different lights. This is highly
desirable as it is often difficult to judge a decision from within the
context in which it was made. The malleability of circumstances that is
possible in speech allows one to examine thoughts and policies from other
perspectives. One may thus, for example, evaluate whether it is principle
or prejudice that influences one's decisions, or whether circumstance and
situation play a large or a small role in the rational outcome of the
deliberation. This rather natural feature of reason also permits some
consideration of consequences without having to effect those
consequences, and this may result in the aversion of disastrous results.
The plastic character of speech is crucial to philosophic dis¬
course as well, providing the essential material upon which dialectics is
worked. In discussion, the truly important features of a problem may be
more clearly separated from the merely incidental, through the care¬ ful
construction of examples, situations and counterexamples. If not for the
ability to consider circumstances different from the one in which one
finds oneself, thinking and conversing about many things would be
impossible. And this is only one aspect of the plasticity of speech which
proves important to philosophic discussion. Good dialogic partners
exhibit this ability, since they require speech for much more than
proficiency in logical deduction. Speech and human imagination must work
upon each other. Participants in philosophical argument must recognize
connections between various subjects and different circum¬ stances. To a
large extent, the level of thought is determined by the thinker's ability
to 'notice' factors of importance to the inquiry at hand. The importance
of 'noticing' to philosophic argument will be con¬ sidered with reference
to two levels of participation in the First Alkibiades , both of which
clearly focus on the prominence of the above mentioned unique properties
of speech as opposed to action. 'Noticing' is important to
dialectics in that it describes how, typically, Socrates' arguments work.
An interlocutor will suggest, say, a solution to a problem,
and upon reflection, Socrates - or another inter¬ locutor (e.g., as per
llOe) - will notice, for example, that the solution apparently doesn't
work in all situations (i.e., a counter-example occurs to him), or that
not all aspects of the solution are satisfactory, and so on. The ability
of the participants to recognize what is truly im¬ portant to the
discussion, and to notice those features in a variety of other situations
and concerns, is wha t lends depth to the analysis.
As this has no doubt been experienced by anyone who has engaged in
serious arguments, it presumably need not be further elaborated.
The other aspect in which 'noticing' is important to philosophy and
how it influences, and is in turn influenced by, rational discourse is in
terms of how one ought to read a philosophic work. As hopefully will be
shown in this commentary on the First Alkibiades , a reader's ability to
notice dramatic details of the dialogue, a nd his persistence in
carefully examining what he notices, importantly affects the benefit he derives
from the study of the dialogue. Frequently, evidence to this effect can
be gathered through reflective consideration of Socrates' apparently
off-hand examples, which turn out upon examination to be neither offhand
in terms of their relation to significant aspects of the immediate topic,
nor isolated in terms of bringing the various topics in the dialogue into
focus. As shall become more apparent as the analysis proceeds, the
examples of ships and doctors, say, are of exceedingly more philosophic
importance than their surface suggests. Not only do they metaphorically
provide a depth to the argument (perhaps unwitnessed by any participant
in the dialogue besides the reader) but through their repeated use,
they also help the reader to discern essential philosophic connections
between various parts of the subject under discussion. The
importance of 'recognition' and 'noticing' to dialectics (and the
importance of the malleability of subject matter afforded by speech) may
be partly explained by the understanding of the role of metaphor in human
reason. Dialectics involves the meticulous division of what has been
properly collected (c.f., for example Phaidros 266b). Time and time
again, evidence is surveyed by capable partners and connections
are drawn between relevantly similar matters before careful
distinctions are outlined. The ability to recognize similarities, to
notice connections, seems similar to the mind's ability to grasp
metaphor. Metaphor relies to an important extent on the language user's
readiness to 'collect' similar features from various subjects familiar to
him, a procedure the reader of the First Alkibiades has observed to be
crucial to the philosophic enterprise. Socrates often
refrains from directly asking a question, pre¬ facing it by
"supposing someone were to ask" or even "supposing I were
to ask." The circumstances of the encounters need to be examined in
order to understand his strategy. What might be the relevance of Socrates
asking Alkibiades to imagine he was about to ascend the plat¬ form, instead
of, for example, in the market place, in another city, near a group of
young men, or in the privacy of his own home? And why could not the
setting be left precisely the same as the setting of the dialogue? The
situation at the base of the platform in front of the ekklesia is,
needless to say, quite a bit different from the situation they are in
now. Alkibiades is not likely to give the same answer if his honor and
his entire political career are at stake, as they might be in such a
profoundly public setting. Socrates' device, on this occasion helps serve
to indicate that what counts as politic, or polite, speech varies in
different circumstances. As Socrates has constructed the example,
the Athenians proposed to take advice on a subject and Alkibiades
presumed to give them advice. This might severely limit the subjects on
which Alkibiades or another politician could address them. Were the
ekklesia about to take counsel on something, it would be a m atter
they felt was settled by special knowledge, and a subject on which there
were some people with recognizable expertise. The kinds of questions they
believe are settled by uncommon knowledge or expertise may be rather
limited. It is not likely that they would ask for advice on matters of
justice. Most people feel they are competent to decide that (i.e., that
the knowledge relevant to deciding is generally available, or common).
Expertise is acknowledged in strategy and tactics, but knowledgeability
about politics in general is less likely to be conceded than ability in
matters of efficacy. All of these sentiments limit the kinds of advice
which can be given to the ekklesia , and the councillor's problems are
compounded by such considera¬ tions as what things can be
persuasively addressed in public speeches to a mixed
audience, and what will be effective in pleasing and attracting the
sympathy of the audience to the speaker. To be rhetorically effect¬ ive
one must work with the beliefs/opinions/prejudices people confidently and
selfishly hold. Alkibiades agrees with Socrates that he would answer that it
was a subject about which he had better knowledge. He would have to.
If Alkibiades wishes to be taken seriously by them, he should so answer
in front of the people. Even if he would be fully aware of his
ignorance, he might have motives which demand an insistence on expertise.
He couldn't admit to several purposes for which he might want to
influence the votes of the citizenry. Not all of those reasons can be
made known to them; not all of those reasons can be voiced from the
platform at the ekklesia . Sometimes politicians have to make decisions
without certain knowledge, but must nevertheless pretend confidence.
These considerations indicate again the importance of the role of speech
to the themes of this dialogue. There is a difference between public and
private speech. Some things simply cannot be said in front of a crowd of
people, and other things which would not be claimed in private
conversation with trusted friends would have to be affirmed in front of
the ekklesia . Just as a speaker may take advantage of the fact
that crowds can be aroused and swept along by rhetoric that would not so
successfully move an individual (e.g., patriotic speeches inciting
citizens to war, and on the darker side, lynch mobs and riots), so he
understands that he could never admit to a crowd things he might disclose
to a trusted friend (e.g., criticizing re ligious or political
authorities). Socrates suggests that Alkibiades believes he is a
good advisor on that which he knows, and those would be things which he
learned from others or through his own discovery. Alkibiades agrees that
there don't seem to be any other alternatives. Socrates further asks if
he would have learned or discovered anything if he hadn't been willing to
learn or inquire into it and whether one would ask about or learn what
one thought one knew. Alkibiades readily agrees that there must have
been a period in his life when he might have admitted to ignorance to
which he doesn't admit now. Socrates suggests that one learns only what
one is willing to learn and discovers only what one is willing to
inquire into . The asymmetry of this may indicate the general problems of
the argument as the difference in phrasing (underlined) alerts the reader
to examine it more closely. Discoveries, of course, usually
involve a large measure of accident or chance. And if they are the result
of an inquiry, the in¬ quiry often has a different or more general object.
Columbus didn't set out to discover the New World; he wanted to establish
a shorter trading route to the Far East. Darwin did not set out to
discover evolution; he sought to explain why species were different.
Earlier he did not set out to discover that species were different; he
observed the animal kingdom. Not only may one stumble upon something by
accident, but by looking for one thing one may come to know something
else. For example, someone might not be motivated by a recognition of
ignorance but may be trying to prove a claim to knowledge. In the search
for proof he may find the truth. Or, alternatively, in the pursuit of
some¬ thing altogether different, such as entertainment through reading
a story, one may discover that another way of life is better. The
argu¬ ment thus appears to be flawed in that it is not true that one
discovers only what one is willing to inquire into. Thus Alkibiades may
have discovered what he now claims to know without ever having sought it
as a result of recognizing his ignorance. Socrates has been able to
pass this argument by Alkibiades because of the asymmetry of the
statement. Had he said "one discovers only what one is willing to
discover," Alkibiades might have objected. Another
difficulty with the argument is that one is simply not always willing to
learn what others teach and one nevertheless may learn. One might
actually be unwilling, but more often one is simply neutral, or oblivious
to the fact that one is learning. In the case of the former (learning
despite being unwilling), one need only remember that denying what one
hears does not keep one from hearing it. Propa¬ ganda can be successful
even when it is known to be propaganda. However, by far the most
common counter-example to Socrates' argument is the learning that occurs
in everyday life. Many things are not learned as the result of setting
out to learn. Such knowledge is acquired in other ways. Men come to have
a common sense understanding of cause and effect by simply doing and
watching. One learns one's name and who one's mother is long before
choosing to learn, being willing to study, or coming to recognize one's
ignorance. Language is learned with almost no conscious effort, and one
is nurtured into conventions without setting out to learn them. Notions
of virtues are gleaned from stories and from shades of meaning in the
language, or even as a result of learning a language. And, in an obvious
sense, whenever anything is heard, something is learned - even if only
that such a person said it. One cannot help observing; one does not
selectively see when one one's eyes are open, and one cannot even close
one's ears to avoid hearing. The above are, briefly, two problems
with the part of Socrates' argument that suggests people learn or
discover only what they are willing to learn or inquire into. The other
parts of the argument may be flawed as well. Socrates has pointed to the
reader's discovery of some flaws by a subtle asymmetry in his question.
It is up to the reader to examine the rest (in this case - to be willing
to inquire into it). For example, there may be difficulties with the first
suggestion that one knows only what one has learned or discovered. It is
possible that there are innate objects of knowledge and that they are
important to later development. Infants, for example, have an ability to
sense comfort and discomfort which is later transferred into feeling a
wide variety of pleasures and pains. They neither learn this, nor
discover it (in any ordinary sense of "discovery"). The sense
of pleasure and pain quite naturally is tied to and helps to shape a
child's sense of justice (110b), and may thus be significant to the
argument about Alkibiades' knowledge or opinions about justice. In any
event, closer examination of Socrates' argument has shown the reader that
the problem of knowing is sufficiently complex to warrant his further
attention. The rest of the dialogue furnishes the careful reader with many
examples and problems to consider in his attempt to understand how he
comes to know and what it means to know. Socrates knows quite
well what things Alkibiades has learned, and if he should omit anything
in the relating, Alkibiades must correct him. Socrates recollects that he
learned writing, harping and wrestling - and refused to learn fluting.
Those are the things Alkibiades knows then, unless he was learning
something when he was unobserved - but that, Socrates declares, is
unlikely since he was watching whenever Alkibiades stepped out of doors,
by day or by night. The reader will grant that the last claim is an
exaggeration. Socrates could not have observed every outdoor activity of
the boy for so many years. Yet Socrates persists in declaring that he
knows what Alkibiades learned out of doors. As suggested earlier,
Socrates may be indicating that he knows Alkibiades through his own soul.
In that event one must try to understand why Socrates couldn't likewise
claim to know what went on indoors, or why Socrates doesn't announce to
Alkibiades an assumption that what goes on indoors is pretty much the
same everywhere. The reader may find what Alkibiades may have learned
"indoors" much more mysterious, and he may consider it odd that
Socrates does not have access to that- What occurs indoors (and perhaps
to fully understand one would need to acknowledge a metaphoric dimension
to "indoor") that would account for Socrates drawing attention
to his knowledge of the outdoor activities of Alkibiades?
Even if one confines one's attention to the literal meaning, there
is much of importance in one's nurture that happens inside the home.
Suffice it to notice two things. The first is that the domestic scene in
general, and household management in particular, are of crucial im¬
portance to politics. The second is that the teachers inside the home are
typically the womenfolk. These are of significance both to this
dialogue and (not un¬ related) to an understanding of politics. Attention
is directed, for example, toward the maternal side of the two
participants in this dialogue. In addition, as has already been mentioned,
the womenfolk in this dialogue are the only ones who wonder, besides
Alkibiades. The women are within (cf. Symposium 176e); they have quite an
effect on the early nurture of children (cf. Republic 377b-c and
context). Perhaps the women teach something indoors that Socrates could
not see, or would not know regardless of how closely akin he was to
Alkibiades by nature. If that is so, the political significance of
early education, of that education which is left largely to women,
assumes a great importance. Women> it is implied, are able to do
something to sons that men cannot and perhaps even something which men cannot
fully appreciate. An absolutely crucial question arises: How is it proper
for women to in¬ fluence sons? Socrates proceeds to find out
which of the areas of Alkibiades' expertise is the one he will use in the
assembly when giving advice. In response to Socrates' query whether it is
when the Athenians take advice on writing or on lyre playing that
Alkibiades will rise to address them, the young man swears by Zeus that
he will not counsel them on these matters. (The possibility is left open
that someone else would advise the Athenians on these matters at the
assembly). And, Socrates adds, they aren't accustomed to deliberating
about wrestling in the ekklesia. For some reason, Socrates has distinguished
wrestling from the other two subjects. Alkibiades will not advise the
Athenians on any of the three; he will not talk about writing or
lyre-playing even if the subject would come up; he will not speak about
wrestling because the subject won't come up. Regardless of the reader's
suspicion that the first two subjects are also rarely deliberated in the
assembly, he should note the distinction Socrates draws between the
musical and the gymnastic arts. The attentive reader will also have
observed that the e ducation a boy receives in school
does not prepare him for advising men in important political matters; it
does not provide him with the kinds of knowledge requisite to a citizen's
participation in the ekklesia . But then on what will Alkibiades
advise the Athenians? It won't be about buildings or divination, for a
builder will serve better (107a- b). Regardless of whether he is short,
tall, handsome, ugly, well-born or base-born, the advice comes from the
one who knows, not the wealthy; the reader might notice that this
undercuts all previously mentioned bases of Alkibiades' self-esteem.
According to Socrates, the Athenians want a physician to advise them when
they deliberate on the health of the city; they aren't concerned if he's
rich or poor, Socrates suggests, as if being a successful physician was
in no way indicated by financial status. There are a number
of problems with this portion of the argument. Firstly, the advisor's
rhetorical power (and not necessarily his knowledge) is of enhanced
significance when that of which he speaks is something most people do not
see to be clearly a matter of technical expertise, or even of truth or
falsity instead of taste. This refers especially to those things that are
the subject of political debate. Unlike in the case of medicine, people
do not acknowledge any clear set of criteria for political expertise,
besides perhaps 'success' for one's polity, a thing not universally
agreed upon. Most people have confidence in their knowledge of the good
and just alternatives available (cf. llOc-d). Policy decisions
about what are commonly termed ’value judgements' are rarely decided
solely on the basis of reason. Especially in democracies, where mere
whims may become commands, an appeal to irrational elements in men's
souls is often more effective. Men's fears too, especially their fear of
enslavement, can be manipulated for various ends. Emotional appeals to
national pride, love of family and fraternity, and the possibility of
accumulating wealth are what move men, for it is these to which men are
attracted. Rational speech is only all-powerful if men are
all-rational. Secondly, it is not clear that a man's nobility or
ignobility should be of no account in the ekklesia. At least two reasons
might be adduced for this consideration. There is no necessary
connection between knowing and giving good advice. Malevolence as well as
ignorance may- cause it. A bad man who knows might give worse advice than
an ignorant man of good will who happens to have right opinions. Unless the
knower is a noble person there is no guarantee that he will tender his
best advice. An ignoble man may provide advice that serves a
perverse interest, and he might even do it on the basis of his expert
knowledge. Another reason for considering nobility important in advisors
is that it might be the best the citizens can do. Most Athenians would
not believe that there are experts in knowledge about justice as there
are in the crafts. If they won't grant that expertise (and there are
several reasons why it would be dangerous to give them the power to judge
men on that score), then it is probably best that they take their advice
from a gentleman, a nobleman, or even a man whose concern for his
family's honor will help to prevent his corruption. Thirdly,
since cities obviously do not succumb to fevers and 79 bodily
diseases, one must in this case treat the "physician of the diseased
city" metaphorically. It is not certain that the Athenians would
recognize the diseased condition of a city. To the extent to which they
do, they tend to regard political health in economic terms (as one speaks
of a "healthy economy"). In that case, whether a man was rich
or poor would make a great deal of difference to them. They wouldn't be
likely to take advice on how to increase the wealth (the health) of a
city from someone who could not prove his competence in that matter in
his private life. In addition, since most people are im¬ portantly
motivated by wealth, they will respect the opinions of one who is
recognizably better at what they are themselves doing - getting wealthy.
It seems to be generally the case that people will attend to the speech of
a wealthy man more than to a poorer but perhaps more virtuous man.
In other words, then, it is not clear that what Socrates has said
about the Athenian choice of advisors is true (107b-c). Moreover, it is
not clear that it should be true. Factors such as conventional nobility
probably should play a part in the choice of councillors, even if it is
basically understood in terms of being well-born. People's inability to
evaluate the physicians of the city, and people's emphasis on wealth also
are evidence against Socrates' claims. Socrates wants to know what
they'll be considering when Alkibiades stands forth to the
Athenians. It has been established that he won't advise on writing,
harping, wrestling, building or divination. Alkibiades figures he
will advise them when they are considering their own affairs.
Socrates, in seeming perversity, continues by asking if he means
their affairs concerning ship-building and what sorts of ships they
should 80 have. Since that is of course not what Alkibiades
means, Socrates proposes that the reason and the only reason is that the
young man doesn't understand the art of ship-building. Alkibiades agrees,
but the reader need not. Socrates, by emphasizing the exclusivity of
expertise through the use of so many examples, has alerted the reader,
should he otherwise have missed the point, that there are many reasons
for not advising about something besides ignorance. In some
matters, for example, it is hard to prove knowledge and it may not always
be best to go to the effort of establishing one's claim to expertise. If
the knowledgeable can perceive, say, that no harm will come the way
things are proceeding, there might not be any point to claiming
knowledge. Another reason for perhaps keeping silent is that the correct
view has been presented. There are thus other things with which to occupy
one's time. Perhaps a major reason for keeping silent about advising on
some matters is simply indifference; petty politics can be left to
others. In fact there are, it would seem, quite a number of reasons for
keeping silent besides ignorance. And, on the other hand, it is unlikely
that someone with a keen interest would acknowledge ignorance as a
sufficient condition for their silence. Many who voice their opinions on
public matters do not thereby mean to implicitly claim their expertise,
but only to express their interestedness. Socrates' ship-building
example has a few other interesting features. Firstly, in a strict sense
what Socrates and Alkibiades agree to is wrong: knowledge of shipbuilding
is not the exclusive basis for determining which ships to build.
Depending on whether it is a private or public ship-building program, the
passenger, pilot or politician decides. Triremes or pleasure-craft, or
some other specific vessels are demanded. The ship-builder then builds it
as best he can. But his building is dictated by his customers, if he is
free, or his owners, if he is a slave. The prominence of
Plato's famous "ship-of-state" analogy ( Republic 488a-489c)
allows the reader to look metaphorically at the example of
'ship-building,' and the question of what sort of 'ships' ought to get
built. In terms of the analogy, then, Socrates is asking Alkibiades if he
will be giving advice on statebuilding and what kind of polis ought to be
constructed. This is, it seems, the very thing upon which Alkibiades
wants to advise the Athenians. He wants very much to build Athens into a
super Empire. The recognition of the ship-of-state analogy brings to the
surface a most fundamental political question which lurks behind much of
the discussion of the dialogue: which sort of regime ought to be
constructed? The importance of the question of the best regime to
political philosophy is indicated and reinforced by the very test of the
importance of the question in the analogy. The con¬ sideration of what
sort of ship ought to be built stands behind the whole activity of
ship-building, and yet is one that is not answered by the technical
expert. The user (passenger/citizen) and the ruler (pilot/ statesman) are
the ones that make the decision. On the basis of an example that has already
been shown to be suspect, namely Socrates' mention of ship-building, the
reader of the First Alkibiades is provided with the opportunity to
consider the intricasies of the analogy and a question of central
importance to the political man. Alkibiades must gain t he ability
to advise the Athenians as to what ships they ought to build.
For the moment, however, Socrates asks on what affairs Alkibiades
means to give advice, and the young man answers those of war or peace
or other affairs of the polis . Socrates asks for clarification on
whether Alkibiades means they'll be deliberating about the manner
of peace and war; will they be considering questions of on whom,
how, when and how long it is better to make war (107c). But if the
Athenians were to ask these sorts of questions about wrestling,
Socrates remarks, they'd call not on Alkibiades but on the
wrestling master, and he would answer in light of what was better.
Similarly, when singing and accompanying lyre-playing and dancing, some
ways and times are better. Alkibiades agrees.The word 'better' was used
both in the case of harping to accom- 82 pany singing and in
the case of wrestling (108a-b). For wrestling the standard of the better is
provided by gymnastics; what supplies it in the case of harping?
Alkibiades doesn't understand and Socrates suggests that he imitate
him, for Socrates' pattern could be generalized to yield a correct answer
in all cases. Correctness comes into being by the art, and the art in the
case of wrestling is fairly ( kalos) said to be gymnastics (108c). If
Alkibiades is to copy Socrates, he should copy him in fair conversation,
as well, and answer in his turn what the art of harping, singing and
dancing is. But Alkibiades still cannot tell him the name of the art (108c).
Socrates attempts another tact and deviates slightly from the pattern he
had suggested Alkibiades imitate. Presumably Alkibiades will be able to
answer the questions once Socrates asks the right one. He doesn't assume
that Alkibiades is ignorant of the answer, so he takes care in choosing
the appropriate questions. Perhaps his next attempt will solicit the
desired response. The goddesses of the art are the Muses. Alkibiades can
now acknowledge that if the art is named after them, it is called 'Music.'
The musical mode, as with the earlier pattern of gymnastics, will be
correct when it follows the musical art. Now Socrates wants Alkibiades to
say what the 'better' is in the case of making war and peace, but
Alkibiades is unable. There are a number of reasons why he would be
unable on the basis of the pattern Socrates has supplied. One of these
has to do with the pattern itself. It is not clear there is an art (
techne) , per se , of making war and peace. The closest one could come to
recognizing such an art would be to suggest it is the art of politics,
but even if that is properly an art (i.e., strictly a matter of technical
expertise) knowing only its name would not provide a clear standard of
'better.' The term 'political' does not of its own designate a better way
to wage war and peace. Despite the possibility that the art in this case
is of a higher order than music or gymnastics, it remains unclear that
Alkibiades can use the same solution as Socrates suggested in the case of
music. Who are the gods or goddesses who give their name to the art of
war and peace? Perhaps one way to understand this curious feature of the
discussion is to consider that Socrates might be suggesting that there is
a divine standard for politics as well as for music.
According to Socrates, Alkibiades' inability to answer about the
standard or politics is disgraceful (108e). Were Alkibiades an advisor on
food, even without expert knowledge (i.e., even if he wasn't a
physician), he could still say that the 'better' was the more wholesome.
In this case, where he claims to have knowledge and intends to advise
as though he had knowledge (notice the two are not the same), he should
be ashamed to be unable to answer questions on it. At this
point the reader must pause. If Socrates simply wanted to make this point
and proceed with the argument, he has chosen an un¬ fortunate example in
discussing the advisor on food. There are a number of features of his use
of this example that, if transferred, have quite important repercussions
for the discussion of the political advisor. Firstly, it may be remarked
that Socrates has admitted that the ability to say what the 'better' is,
is not always necessarily contingent upon technical knowledge. Secondly,
someone who answers "more wholesome" as the better in food has
already implicitly or explicitly accepted a hierarchy of values. He has
architectonically structured the arts that have anything to do with food
in such a manner as to place health at the apex. Someone who had not
conceded such a rank-ordering might have said "cheapest,"
"most flavorful," or even "sweetest." Thus this
example clearly indicates the centrality of understanding the
architectonic nature of politics. Thirdly, and perhaps least importantly,
Socrates has more clearly indicated a distinction that was suggested in
the previous example. It is a different matter to know that
'wholesome' food is better for one than it is to know which foods are
wholesome. Socrates had, prior to this, been attempting to get Alkibiades
to name the art which provides the standard of the good in peace and war.
Even if Alkibiades had been able to name that art, there would have been
no indication of his substantive knowledge of the art. Conversely it
might be possible that he would have substantive knowledge of something
without being able to refer to it as a named art. One might
account for Alkibiades' inability to n ame the art of political
advice by reference to something other than his knowledge and ignorance.
Perhaps the very subject matter would render such a statement difficult.
For instance, if politics is the 'art' which structures all others, it
would be with a view to politics that the respective 'betters' in the
other arts would be named. The referent of politics would be of an
entirely different order however. Perhaps its 'better,' the compre¬
hensive 'better,' would be simply 'the good.' At any rate, it is a
question of a different order, a different kind of question, insofar as
the instrumentally good is different from the good simply. This
suggestion is at least partly sustained by the observation that Socrates
uses a different method to discover the answer in this case than in the
previous 'patterns' supplied by wrestling and harping. Alkibiades
agrees that it does indeed seem disgraceful, but even after further
consideration he cannot say what the 'better' (the aim or good providing
a standard of better) is with respect to peace and war. As Socrates'
question about the goddesses of harping deviated from the example of
wrestling, so Socrates' attempt here is a deviation. He asks Alkibiades
what people say they suffer in war and what they call it. The
reader might note peace has been omitted from consideration. Alkibiades
says that what is suffered is deceit, force and robbery (109b), and that
such are suffered in either a just or an unjust way. Now it is
clearer why 'peace' was not mentioned. It might be more difficult to argue in
parallel fashion that the most important distinction in peace was between
just peace and unjust peace. Socrates asks if it is upon the just
or the unjust that Alkibiades will advise the Athenians
to make war. Alkibiades immediately recognizes at least one
difficulty. If for some reason it would be necessary to go to war with
those who are just, the advisor would not say so. That is the case not
only because it is considered unlawful, but, as Alkibiades adds, it
is not considered noble either. Socrates assumes Alkibiades will appeal to
these things when addressing the ekklesia . Alkibiades here proves
he understands the need for speaking differently to the public, or
at least for remaining prudently silent about certain matters.
Within the bounds of the argument to this point, wealth and
prestige (not to mention dire necessity) may be 'betters' in wars
as readily as justice. One may only confidently infer two things
from Alkibiades' admissions. The people listening to the advice cannot
be told that those warred upon are just; and to tell them so would be
un¬ lawful and ignoble. One might be curious as to the proper
relation between lawfulness, nobility and justice, and the reader of the
dialogue, in sorting out these considerations, might examine the argument
surrounding this statement of their relation. The next few discussions in
the First Alkibiades seem to focus on establishing Alkibiades' claim to
knowledge about justice. Either Alkibiades has not noticed his own
ignorance in this matter or Socrates has not observed his learning and
taking lessons on justice. Socrates would like to know, and he swears by
the god of friendship that he is not joking, who the man.was who taught
Alkibiades about justice. Alkibiades wants to know whether he couldn't
have learned it another way. Socrates answers that Alkibiades could have
learned it through his own discovery. Alkibiades, in a dazzling display
of quick answers, responds that he might have discovered it if he'd
inquired, and he might have inquired if there was a time when he thought
he did not know. Socrates says that Aliibiades has spoken well (110a),
but he wants to know when that time was. Socrates seems to
acknowledge Alkibiades' skill in speaking. These formally sharp answers
would probably be the kind praised in question and answer games.
Socrates says Alkibiades has spoken well, but immediately instructs
Alkibiades about how to speak in response to the next question.
Alkibiades is to speak the truth; the dialogue would be futile if he
didn't answer truly. So here it is acknowledged that truth (at least for
the sake of useful dialogue) is the standard for speaking well. He
quickly follows the insincere praise with an indication of the real
criteria for determining if something was well-spoken. Socrates is not
destroying Alkibiades' notion of his ability to achieve ideals, he is
instead destroying the ideals. He acknowledged Alkibiades' skill and then
suggests it is not a good skill to have. Socrates, in effect, tells
Alkibiades to forget the clever answers and to speak the truth. One of
the themes of Socrates' instruction of the youth seems to be the teaching
of proper goals or standards. Alkibiades admits that a year
ago he thought he knew justice and injustice, and two, three and four
years ago as well. Socrates remarks that before that Alkibiades was a
child and Socrates knows well enough that even then the precocious child
thought he knew. The philosopher had often heard Alkibiades as a boy
claim that a playmate cheated during a game, and so labelled him unjust
with perfect confidence (110b). Alkibiades concedes that Socrates speaks
the truth but asks what else should he have done when someone cheated
him? Socrates points out that this very question indicates Alkibiades' belief
that he knows the answer. If he recognized his ignorance, Socrates
responds, he would not ask what else he should have done as though there
was no alternative. Alkibiades swears that he must not have been
ignorant because he clearly perceived that he was wronged. If this
implies that, as a child, he thought he knew justice and injustice, then
so he must. And he admits he couldn't have discovered it while he thought
he knew it (110c). Socrates suggests to Alkibiades that he won't be able
to cite a time when he thought he didn't know, and Alkibiades swears
again that he can¬ not. Apparently, then, he must conclude that he cannot
know the just on the basis of discovery (llOd). This argument
appears to depend on the premise that one begins at a loss, completely
ignorant, and then one subsequently discovers what justice is. But such
an assumption is surely unwarranted. The discovery could be a slow,
gradual process of continual refinement of a child's understanding of
justice. Often one's opinions are changed because one discovers something
that doesn't square with previous beliefs. If one is sufficiently
confident of the new factor, one's beliefs may change. During the course
of the succeeding dialogue, the reader may see a number of ways in which
this procedure might take place in a person's life. Socrates
draws to Alkibiades' attention that if he doesn't know justice by
his own discovery, and didn't learn it from others, how could he
know it. Alkibiades suggests that perhaps he said the wrong thing
before and that he did in fact learn it, in the same way as
everyone else. It is not clear that this is a sincere move on
Alkibiades' part (though it proves later in the dialogue to have
support as being the actual account of the origin of most people's
views of justice). Perhaps in order to win the argument he is
willing to simply change the premises. Unfortunately, his changing
of this one entirely removes the need for the argument. Socrates
doesn't bother to point out to Alkibiades that if everybody knows
it, and in the same way, then Alkibiades has no claim to special
expertise, and so no basis for presuming to advise the Athenians.
Alkibiades' abilities in speaking have been demonstrated, a care
and willingness to learn from dialogue 86 have yet to
be instilled. As is presently indicated to Alkibiades, his answer
brings about a return to the same problem - from whom did he learn
it? To his reply that the many taught him (llOe), Socrates responds
that they are not 87 worthy teachers in whom he is
taking refuge. They are not competent 88 to teach how
to play and how not to play draughts and since that is insignificant
compared to justice, how can they teach the more serious matter?
Alkibiades perceptively counters this by pointing out that they can teach
things more worthy than draughts; it was they and no single master
who taught Alkibiades to speak Greek. Alkibiades by this point proves that
he is capable of quick and independent thought. He doesn't merely follow
Socrates' lead in answer¬ ing but in fact points out an important example
to the contrary. The Greek language is taught by the many quite capably
even though they can¬ not teach the less important draughts nor many
other peculiar skills. A number of issues important to the
discussion are brought to the surface by this example. First, one should
notice that language is another thing Alkibiades has learned which
Socrates didn't mention. Language is necessary for learning most other
subjects, and one can learn quite a lot by just listening to people
speaking. A common language is the precondition of the conversation
depicted in the First Alkibiades , as is some general agreement, however
superficial, between Socrates and Alkibiades as to what they mean when
they say 'justice.' In order to have an argument over whether or not one
of them is indeed knowledgeable about justice and injustice, they must
have some notion of what 'justice' conventionally means. They are not
talking about the height of the sky, the price of gold, or the climate on
mountaintops. Justice ( dikaios) is a word in the Greek language. Most
people share sufficient agreement about its meaning so as to be able to
teach people how the word should be used. This conventional notion of
justice thus informs a child's sense of justice, and as is shown by the
strategy of the Republic as well as of the First Alkibiades , the
conventional opinions about justice must be dealt with and accounted for
in any more philosophic treatment. One must assume that
conventional opinions about justice have some connection, however
tenuous, with the truth about it. This exempli¬ fies the peculiar nature
of 'agreement' as a criterion of knowledge. That experts agree
about their subject matter is not altogether beside the point, but too
much emphasis should not be placed upon it. There are innumerable
examples of "sectarian" agreements, none of which by that fact
have any claim to truth. There is also considerable agreement in
conventional opinions and the "world-views" of various
communities which must be accounted for but not necessarily
accepted. Socrates admits to Alkibiades (whom he chooses to
address, at this moment, as "well-born," perhaps in order to
remind him that he dis¬ tinguishes himself from the many) that the people
can be justly praised for teaching such things as language, for they are
properly equipped (and actually the many do not teach one how to use
language well). To teach, one ought to know, and an indication of their
knowing is that they agree among each other on the language. If they
disagreed they couldn't be said to know and wouldn't be able to teach.
One might parenthetically point to some other important things that the
many teach. Children learn the laws from the many, including the
laws/rules of games. To call some¬ one a cheater (110b) does not mean
someone knows justice; they simply must know the rules of the game and be
able to recognize when such rules have been violated. Rules of games are
strictly conventional. They gain their force from an agreement, implicit
or explicit, between the players. One might wonder if justice is,
correspondingly, the rules of a super- game, or if it is something
standing behind all rule-obeying. The many agree on what stone and
wood are. If one were to say "stone" or "wood," they
could all reach for the same thing. That is what Alkibiades must mean by
saying that all his fellow citizens have knowledge of Greek. And they are
good teachers in as much as they agree on these terms in public and
private. Poleis also agree among each other (111b, 118d, 126c-e;
cf. Lakhes 186d). Anyone who wanted to learn what stone and wood were
would be rightly sent to the many. The fact that Greeks agree with
each other when they name objects hardly accounts for their knowledge of
the language, much less their ability to teach it. Naming is far
from being the bulk of speaking a , 89 language,
(Hobbes and Scripture to the contrary notwithstanding ). Not only
is it improper to consider many parts of speech as having the
function of designating things, but even descriptive reference to
the sensible world is only a partial aspect of the use of language.
To mention only a few everyday aspects of language that do not
obviously conform, consider the varied use of commands, metaphors,
fables, poetry and exclamation. To suggest that what constitutes
one's knowledge of a language is to point to objects and use nouns
to name them, would be completely inadequate. It would be so
radically insufficient, in fact, that it could not even account for
its own articulation. Language consists of much more than
statements which correspond to observables in the actual world. But even
were one to restrict one's examination of language to understanding what
words mean, or refer to, one would immediately run into difficulties. All
sorts of words are used in everyday language which demand some measure of
evaluation on the part of the user and the listener. A dog may be pointed
to and called "dog." A more involved judgement is required in
calling it a "wild dog," or "wolf," not to say a
"bad dog." Agreement or disagreement on the use of such terms
does not depend on knowledge of the language as much as on the character
of the thing in question. There are problems even with Socrates'
account of naming. One cannot be certain that the essence of a thing has
been focussed upon by those giving the name to the thing. One might
fasten upon the material, or the form, or yet some other feature of the object.
For example, a piece of petrified wood, or a stone carving of a tree
would significantly complicate Socrates' simple example. It is not at all
clear that the same thing would be pointed to if someone said
"stone." The reader may remember that the prisoners in the cave
of the Republic spend quite a bit of their time naming the shadows on the
wall of the cave ( Republic 515b, 516c). The close connection between
this discussion and that of the Republic is indicated also by the fact
that the objects which cast the shadows in the cave are made of stone and
wood ( Republic 515a.1). People in the cave don't even look at the
objects when they name things. According to the analogy of the cave they
would be the people teaching Alkibiades to speak Greek; they are the
people in actual cities. And what they call "stone" and
"wood" are only an aspect of stone and wood, the shadowy
representations of stone and wood. If the essences of stone and wood,
comparatively simple things, are not denoted by language, one can imagine
in what the agreement might consist in the popular use of words like
"City" and "Man." The question of the relation of a name to
the essential aspect of the thing adds a significant dimension to the
philosophic understanding of the human use of language. Alkibiades
and Socrates seem to be content with this analysis of naming, however,
and Socrates readily proceeds to the next point in the argument. If one
wanted to know not only what a man or a horse (note the significance of
the change from stone and wood) was, but which was a good runner, the
many would not be able to teach that - proof of which is their
disagreement among themselves. Apparently finding this example
insufficient, Socrates adds that should one want to know which men were
healthy and which were diseased, the many would also not be able to teach
that, for they disagree (llle). Notice two features of these
examples that may be of philosophic interest. To begin with, the
respective experts are, first the gymnastics trainer and second, the
physician. In this dialogue, both the gymnastics expert and the doctor
have arguments advanced on their behalf, supporting their claim to be the
proper controllers of, or experts about, the whole body (126a-b, 128c).
As supreme rulers of the technae of the body they have different aspects
of the good condition in mind and consequently might give different
advice (for example on matters of diet). Thereupon one is confronted with
the standard problem of trying to maintain two or more supreme
authorities: which one is really the proper ruler in the event of
conflict. There is yet another aspect of the same problem that is
of some concern to the reader of the First Alkibiades . One might say
that the relation of the body to the soul is a very persuasive issue in
this dialogue, and the suggestion that there are two leaders in matters
of the body causes one to wonder whether there is a corresponding
dual leadership in the soul. Secondly, the reader notices
that the composition of "the many" shifts on the basis of what
is being taught. On the one hand, the doctor fits into "the
many" as being unable to tell the good runner; on the other hand,
when the focus is on health, all but the doctor appear to constitute
"the many." The question of how to understand the make-up
of the many points to a very large issue area in philosophy, namely that
which is popularly termed the 'holism vs. individualism debate,' or more
generally, the question of the composition and character of
groups. What essentially characterizes groups - in particular that politically
indispensible group, "the many?" This issue is not superfluous
to this dialogue, nor to this portion of this dialogue. By placing the doctor
alone against the many (in the second example), one unwittingly
contradicts oneself. Alkibiades and Socrates fall among the ranks of the
Many as well as the Few. Perhaps the most obvious problem
connected with determining the composition of the group, "the
many," is brought into focus when one tries to discover how one
"goes to the many" to learn (llld). There are quite a few
possibilities. Does the opinion of "the many" become the
average (mean) opinion of all the different views prevalent in a city?
Or is it the opinion held by the majority? One might go to each
indi¬ vidual, to each of a variety of representative individuals, or even
to 51% of the individuals in a given place, and then statistically
evaluate their opinions, arriving at one or another form of majority
consensus. Or, one might determine conventional opinion by asking
various indi- 91 viduals what they believe everyone
else believes. There seem to be countless ways of understanding "the
many," each of which allows for quite different outcomes. The
problems for the student of political affairs, as well as for the
aspiring politician, are compounded because the many do not appear to
hold a single view unanimously or unambiguously on many of the important
questions. Regardless of which is the appropriate understanding of
"the many, the reader must at all events remember that "the
many" and "the few" are a perennial political division.
There are, likewise, several ways in which "the few" are
conceived. Some consider them to be the men of wealth, the men of
virtue, the men of intelligence, and so on. Reference to "the
few," however, is rarely so vague as reference to the many, since
people who speak of "the few" are usually aware of which
criteria form the bases of the distinction. Despite the lack of clarity
con¬ cerning the division between "the many" and "the
few," it is appealed to, in most regimes as being a fundamental
schizm. Most regimes, it may be ventured, are in fact based either upon
the distinction, or upon trying to remove the distinction, and they
appeal to this division, however vague, to legitimate themselves.
At this point in the discussion of the First Alkibiades (llle),
Alkibiades and Socrates are considering whether the many are capable
teachers of justice. They appear to be making their judgement solely on
the basis of the criterion of agreement. One might stop to consider not
only whether agreement is sufficient to indicate knowledge, but indeed
whether it is even necessary. One cannot simply deny the possi¬ bility
that one might be able to gain knowledge because of disagreements.
Profound differences of opinion might indicate the best way of learning
the truth, as, for example the disagreements among philosophers about
justice teaches at the very least what the important considerations might
be. Socrates continues. Since disagreement among the many indicates
that they are not able to teach (though lack of ability rarely prevents them
from trying anyway, cf. Apology 24c-25a; Gorgias 461c), Socrates asks
Alkibiades whether the many agree about justice and injustice, or if
indeed they don't differ most on those very concerns. People do not
92 fight and kill in battle because they disagree on
questions of health, but when justice is in dispute, Alkibiades has seen
the battles. And if he hasn't seen them (Socrates should know
this, after all, cf. 106e) he has heard of the fights from many,
particularly from Homer, because he's heard the Odyssey and Iliad. Alkibiades'
familiarity with Homer is of great significance. It, along with his
knoweldge of Greek, are probably the two most crucial
"oversights" in Socrates' list of what Alkibiades learned. In fact,
they are of such importance that they overshadow the subjects in which he
did take lessons, in terms of their effect on his character development,
his common-sense understanding, and on his suitability for political
office. Homer is an important source of knowledge and of opinion, and is
respons¬ ible for there being considerable consensus of belief among the
Greeks in many matters. He provides the authoritative interpretation of
the gods as well as of the qualities and actions of great men. If
Alkibiades knows Homer and if he knows that Homer is about justice, then
he has learned much more about justice than one would surmise on the
basis of his formal schooling. Alkibiades agrees with
Socrates' remark that the Iliad and Odyssey are about disagreements about
justice and injustice. He also accepts the interpretation that a
difference of opinion about the just and the unjust caused the battles
and deaths of the Akhaians and Trojans; the dispute between Odysseus and
Penelope's suitors; and the deaths and fights of the Athenians, Spartans
and Boiotians at Tanagra and Koroneia. (One notes that Socrates has
blended the fabulous with the actual, and has chosen, as his non-mythic
example, probably the one over which it is most difficult for Alkibiades
to be non-partisan - the battle in which his father died. This also
raises his heritage to the level of the epic.) The reader need not agree
with this interpretation on a number of counts. Firstly, the central case
is noteworthy in that Socrates interprets Odysseus' strife with the men of
Ithaka to be over a woman, and not primarily the kingdom and palace. It
is not at all clear, more¬ over, that what caused the altercation between
Odysseus and the suitors was a difference of opinion about justice. They
might have all wanted the same thing, but the reaction of the suitors at
Odysseus' return indicates that they didn't feel they were in the
right - they admitted 93 gurlt. Secondly, what is noticeable
in Homer is that only one aspect of the epic is about the dispute about
justice (and also, both Homeric examples involve a conflict between eros
and justice, represented by Helen and Penelope). In the epics the
disagreement among the many refers not to the many of one polis but of
various poleis against each other. Indeed the many of each polis in the
Trojan war agree. These observations foreshadow the discussion that
will presently come to the fore in the dialogue under somewhat different
circumstances. The problem of the difference between the just and the
expedient is a key one in political philosophy, and it is introduced by
the reflection that in a number of instances disagreement does not focus
on what the just solution is, but on who should be the victor, who will
control the thing over which the sides are disputing. Both sides agree
that it would be good to control one thing. More shall be said about this
later in the context of the discussion. Socrates inquires of
Alkibiades whether the people involved in those wars could be said to
understand these questions if they could disagree so strongly as to take
extreme measures. Though he must admit that teachers of that
sort are ignorant, Alkibiades had nevertheless re¬ ferred Socrates to
them. Alkibiades is quite unaware of the nature of justice and injustice
and he also cannot point to a teacher or say when he discovered
them. It thus seems hard to say he has knowledge of them. Alkibiades
agrees that according to what Socrates has said it is not likely that he
knows (112d). Socrates takes this opportunity to teach Alkibiades a most
important lesson. Though apparently a digression, it will mark a pivotal
point in the turning around of Alkibiades that occurs by the middle of
the discussion. Socrates says that Alkibiades' last remark was not
fair ( kalos) because he claimed Socrates said that Alkibiades was
ignorant, whereas actually Alkibiades did. Alkibiades is astounded. Did
he_ say it? Socrates is teaching Alkibiades that the words spoken
in an argument ought indeed to have an effect on one's life, that the
outcomes of argu¬ ments are impersonal yet must be taken seriously, and
that responsibility for what is said rests with both partners in
dialogue. The results of rational speech are to be trusted; reason is a
kind of power necessarily determining things. Alkibiades cannot agree in
speech and then decide, if it is convenient, to dismiss conclusions on
the grounds that it was someone else who said it. Arguments attain much
more significance when they are recognized as one's own. One must learn
they are not merely playthings (cf. Republic 539b). Accepting
responsibility for them and their conclusions is essential. It is
important politically with reference to speech, as well as in the more
generally recognized sense of assuming responsibility for one's actions.
To cite an instance of special importance to this dialogue, who is
responsible for Alkibiades - Perikles? Athens? Socrates? Alkibiades
himself? One can often place responsibility for one's actions on one's
society, one's immediate environment, or one's teachers. Perhaps it is
not so easy to shun responsibility for conclusions of arguments. Most men
desire consistency and at least feel uneasy when they are shown to
be involved in contradictions. In this discussion of who must accept
responsibility for the conclusions of rational discourse, Alkibiades
learns yet another lesson about the power of speech. He has, by his own
tongue, convicted himself of ignorance. Socrates demonstrates
to Alkibiades that if he asks whether one or two is the larger number,
and Alkibiades answers that two is greater by one, it was Alkibiades who
said that two was greater than one. Socrates had asked and Alkibiades had
answered; the answer was the speaker. Similarly, if Socrates should ask
which letters are in "Socrates" and Alkibiades answered,
Alkibiades would be the speaker. On the basis of this the young man
agrees that, as a principle, whenever there is a questioner and an
answerer, the speaker is the answerer. Since so far Socrates had been the
questioner and Alkibiades the answerer, Alkibiades is responsible for
whatever has been uttered. What has been disclosed by now is that
Alkibiades, the noble son of Kleinias, intends to go to the
ekklesia to advise on that of which he knows nothing. Socrates
quotes Euripides - Alkibiades "hear it from 94
[himself] not me." Socrates doesn't pull any punches. Not only
does he refer to an almost incestuous woman to speak of Alkibiades'
condition, but he follows with what must seem a painfully sarcastic form
of address (since it is actually ironic) which the young man would
probably wish to hear from serious lips. Alkibiades, the "best of
men,' is contemplating a mad undertaking in teaching what he has not
bothered to learn. Alkibiades has been hit, but not hard enough for
him to change his mind instead of the topic. He thinks that Athenians and
the other Greeks don't, in fact, deliberate over the justice of a course
of action - they consider that to be more or less obvious - but
about its advantageousness (113d). The just and the advantageous are not
the same, for great in¬ justices have proven advantageous, and sometimes
little advantage has been gained from just action. Socrates announces
that he will challenge Alkibiades' knowledge of what is expedient, even
if he should grant that the just and the advantageous are ever so
distinct (113e). Alkibiades perceives no hindrance to his claiming
to know what is advantageous unless Socrates is again about to ask from
which teacher he learned it or how he discovered it. Hereupon Socrates
remarks that the young man is treating arguments as though they were
clothing which, once worn, is dirtied. Socrates will ignore these notions
of Alkibiades, implying that they involve an incorrect understanding of
philosophic disputation. Alkibiades must be taught that what is ever
correct according to reason remains correct according to reason. Variety
in arguments is not a criterion affecting their rational
consistency. Socrates shall proceed by asking the same question,
intending it to, in effect, ask the whole argument. He claims to be
certain that Alkibiades will find himself in the same difficulty with
this argument. The reader will recognize that Alkibiades is not
likely to en¬ counter precisely the same problems with this new argument.
The nature of the agreement and disagreement by individuals and states
over the matter of usefulness or advantageousness is different than that
concern¬ ing justice. A man may know it would be useful to have
something, or expedient to do something, and also know it to be unjust.
States, too, may agree on something's advantageousness, say controlling
the Hellespont but they may disagree on who should control it. The
conflict in these cases is not the result of a disagreement as to what is
true (e.g., it is true that each country's interests are better served by
control of key sea routes), but it is based precisely on their agreement
about the truth regarding expediency. When states and individuals are
primarily concerned with wealth, then knowing what is useful presents far
fewer problems than knowing what is just. Since Alkibiades is
so squeamish as to dislike the flavor of old arguments, Socrates will
disregard his inability to corroborate his claim to knowledge of the
expedient. Instead he will ask whether the just and the useful are the
same or different. Alkibiades can question Socrates as he had been
questioned, or he can choose whatever form of discourse he likes. As he
feels incapable of convincing Socrates, Alkibiades is invited to imagine
Socrates to be the people of the ekklesia ; even there, where the young
man is eager to speak, he will have to persuade each man singly (114b). A
knowledgeable man can persuade one alone and many together (114b-c). A
writing master is able to persuade either one or many about letters and
likewise an arithmetician in¬ fluences one man or many about
numbers. For quite a few reasons the reader might object to
Socrates' inference from these examples to the arena of politics.
Firstly, they are not the kinds of things discussed in politics, and one
might suspect that the "persuasion" involved is not of the same
variety. Proof of this might be offered in the form of the observation
that the inability to persuade in politics does not necessarily imply the
dull-wittedness of the audience. Strong passions bar the way for reason
in politics like they rarely do in numbers and letters. This leads to the
second objection. Not only is knowledge of grammar and arithmetic
fundamentally different than politics, but they represent extreme
examples in them¬ selves. They correspond to two very diverse criteria of
knowledge both of which have been previously introduced in the dialogue.
The subject matter of letters is decided upon almost exclusively by
agreement; that of numbers is learned most importantly through discovery,
and this does not depend on people's agreement (cf. 112e-113a, 126c; and
106e reminds one that Alkibiades has taken lessons only in one of
these). Presumably, however, if the arithmetician and grammarian
can, then Alkibiades also will be able to persuade one man or many about
that which he knows. Apparently the only difference between the
rhetorician in front of a crowd and a man engaged in dialogue is that the
rhetorician persuades everyone at once, the latter one at a time. Given
that the same man per¬ suades either a multitude or an individual,
Socrates invites Alkibiades to practice on him to show that the just is
not the expedient. (Ironically, there may be no one Alkibiades ever meets
who is further from the multitude). If it weren't for his earlier
statement (109c) where he indicated his recognition of the difference
between private and public speech, it would appear that Alkibiades had
quite a lot to learn before he confronted the ekklesia . One might
readily propose that there is indeed very little similarity between
persuading one and persuading the multitude. In a dialogue one man can
ask questions that reveal the other's ignorance; Socrates does this
to Alkibiades in this dialogue, he might not in public. In a dialogue, there
needn't always be public pressure with which to contend (an important
exception being courtroom dialogue); a public speech, especially one
addressing the ekklesia must yield to or otherwise take into account the
strength of the many. Often when addressing a crowd one only has to
address the influential. At other times one need only appeal to the least
common denominator. There are factors at work in crowds which
affect reactions to a speaker, factors which do not seem to be present in
one-to-one dialogue. When addressing a multitude, a speaker must be aware
of the general feelings and sentiments of the group, and address himself
to them. When in dialogue he can tailor his comments to one man's
specific interests. To convince the individual, however, he will have to
be precisely right in his deduction of the individual's senti¬ ments - in
a crowd a more general understanding is usually sufficient. Mere
hints at a subject will be successful; when addressing a multitude with
regard to a policy, a rhetorician will not be taken to task for every
claim he makes. If his general policy is pleasing to the many, it is
unlikely that they will critically examine all of his reasons for pro¬
posing the policy. Also, when speaking to a crowd, one is not expected to
prove one's technical expertise. An individual may be able to discover
the limits of one's knowledge; a crowd will rarely ask. This whola
analysis, however, is rendered questionable by the ambiguity of the
composition of "the many," discussed above. One could, for example,
come across a very knowledgeable crowd, or a stupid individual and many
of the above observations would not hold. However, the situations most
directly relevant to the dialogue involve rhetoric toward a crowd such as
that of the ekklesia , and thoughtful dialogue between individuals such
as Alkibiades and Socrates. If Alkibiades ever intends to set
forth a plan of action to the Athenians, the adoption of his proposal
will depend on his convincing them in the ekklesia . The ability to
persuade the multitude attains great political significance; and
especially in democracies, a man's ability in speaking is often the foundation
of his power. Once recognized, this power is susceptible to
cultivation. Rhetoric, the art of persuasive speech, is the art which provides
the knowledge requisite to gain effective power over an audience.
All political men are aware of rhetoric; their rhetorical ability
to a large 95 extent determines their success or
failure. Of course, there are at least two important qualifications or
limits on the power of even the most persuasive speech. The first limit
is knowledge. A man who knows grammar and arithmetic will not be swayed
wrongly about numbers, when they are used in any of the conventional
ways. That an able rhetorician escape detection in a lie is a necessity
if he is to be successful among those knowledgeable in the topic he
addresses. Presumably those who possess only beliefs about the matter
would be more readily seduced to embrace a false opinion. The
second limit is more troubling. It is the problem of those who simply
are not convinced by argument. They distrust the spoken word. These
seem to fall into three categories. The first is exemplified in the
character of Kallikles in the Gorgias . It primarily includes those
who are unwilling to connect the conclusions of arguments to their
own lives. They may agree to something in argument and, moments
later, do something quite contrary to their conclusions. This
characteristic is well- displayed in Kallikles who, when driven to
a contradiction doesn't even 96 care. He holds two
conflicting opinions and holds them so strongly that he doesn't even care
that they support conclusions that are contrary to reason and yield
contrary results. Kallikles is unwilling to continue discussing with
Socrates ( Gorgias); he does not want to learn from rational speech. He
remains unconvinced by Socrates' argument and by his rhetoric ( Gorgias).
If Socrates is to rule Kallikles, he will need more than reason and
wisdom and beautiful speech ( Gorgias 523a-527e); he will need some kind
of coercive power. Secondly, almost all people have some experience
of those who in¬ consistently maintain in speech what they do not uphold
in deed. This is the most immediate level on which to recognize the
problem of the rela¬ tion of theory to practice. Alkibiades seems to have
this opinion of speech at the beginning of the dialogue, for he can admit
almost anything in speech (106c.2). Two things, however, show that he is
far above it. He implicitly recognizes that the realm of speech is
the realm within which he must confront Socrates, and he has a desire for
consistency. Kallikles is too dogmatic to even recognize his
inconsistency. But when Socrates forces Alkibiades to take responsibility
for all the conclusions they have reached to that point (112e. 5ff.), he
realizes he must have made an error either in his premises or his
argument. This marks the first and major turning around of Alkibiades. He
recognizes that he has said he is ignorant. A third type of
person who is not convinced by rhetoricians is the one who distrusts
argument because he recognizes the skill involved in speaking. Not
because he is indifferent to the compulsion of reason but precisely
because he wants to act according to reason, he desires to be certain of
not being tricked. (Most people are also familiar with the feeling that
something vaguely suspicious is going on in a discussion.) He is
convinced that there are men - e.g., sophists - who are skilled at the
game of question and answer and can make anyone look like a fool.
And so what? He is not at all moved by their victory in speech.
Some¬ thing other than rational speech is needed to convince him. Indeed,
this is one of the most difficult challenges Socrates meets in the
Republic , and indicates a higher level of the theory/practice
relationship. Adeimantos is not convinced by mere words. He has to be
shown that philosophy is useful to the city, among other things (
Republic 487b.1-d.5; 498c.5 ff; 367d.9-e.5; 367b.3; 389a.10). Although he
is distrustful of mere speech, he learns to respect it as a medium
through which to under¬ stand the political. He has the example of
Socrates whose life matches, or is even guided by, his speech. Socrates'
difficulty lies in making the case in speech to this man who does not put
full stock in the con¬ clusions of speech. One must wonder, moreover,
what kinds of deeds will suffice for those others who cannot even view
Socrates. This is the problem faced by all writers who want to reach this
sort of person. Perhaps one might consider very clever speakers
like Plato to be per¬ forming the deed of making the words of a Socrates
appear like the deeds of Socrates, in the speech of the Dialogues. Almost
paradoxically, they must convince through speech that speech isn't
"mere talk." Alkibiades charges Socrates with hybris and
Socrates acknowledges it for the time being, for he intends to prove to
Alkibiades the opposite view, namely that the just is the expedient
(114d). Socrates doesn't deny the charge, or even, as one might expect,
playfully redirect it as might be appropriate; the accusation is made by
a man who, not much later, will be considered hybristic by almost the
entire Athenian public. It is not clear precisely what is hybristic about
Socrates' last remarks. Hybris is a pride or ambition or insolence
inappropriate to men. Perhaps both men are hybristic as charged; in this
instance it is not imperative that they defend themselves for they are
alone. Possibly anyone who seeks total power as does Alkibiades, or
wisdom like Socrates, is too ambitious and too haughty. They would be
vying with the gods to the extent that they challenge civic piety and the
supremacy of the deities of the polis . One wants to rule the universe
like a god, the other to know it like a god. The charge of
hybris has been introduced in the context of persuading through speech.
Allegedly the person who knows will have the power to persuade through
speech. This is itself rather a problematic claim as it implies all
failure to persuade is an indication of ignorance. However questionable
the assertion, though, the connection it recalls between these three
important aspects of man's life - knowledge, power and language - is too
thoroughly elaborated to be mere coincidence. It is very likely that the
reader's understanding of these two exceptional men and the
appropriateness of the charge of hybris will have something to do with
language's relation to knowledge and power. Alkibiades asks Socrates to
speak, if he intends to demonstrate to Alkibiades that the just is not
distinct from the ad¬ vantageous. Not inclined to answer any questions
(cf. 106b), Alkibiades wishes Socrates to speak alone. Socrates,
pretending incredulity, asks if indeed Alkibiades doesn't desire most of
all to be persuaded and Alkibiades, playing along, agrees that he
certainly does. Socrates suggests that the surest indication of
persuasion is freely assenting, and if Alkibiades responds to the
questions asked of him, he will most assuredly hear himself affirm that
the just is indeed the advantageous. Socrates goes so far as to promise
Alkibiades that if he doesn't say it, he never need trust anybody's
speech again. This astonishingly extravagant declaration by
Socrates bespeaks certain knowledge on his part. Socrates implies he is
confident of one of two things. Perhaps he knows that the just is
advantageous, or the true relationship between the two, and thus argues
for the proof of the claim that anyone who knows can persuade. (The
immense difficulties with this have already been suggested.) What is more
likely, however, is that he does not think the just is identical to the
advantageous, but he knows he can win the argument with Alkibiades and
drive him to assert whatever conclusion he wants (that he could in effect
make the weaker argument appear the stronger). If the latter is true, the
reader is reminded of the power of speech and the possible dangers that
can arise from its use. He will also wonder if Socrates is quite right in
his proposal that Alkibiades need never trust anyone's speech if he
cannot be made to agree. It seems to be more indicative of the
untrustworthiness of speech if Alkibiades should agree, not that he
refuse to agree. However, the reader has been placed in the enviable
position of being able to judge for himself, through a careful review of
the argument. His personal participation, to the limit of his ability, is
after all the only means through which he can be certain that he isn't
being duped into believing something instead of knowing it.
Alkibiades doubts he will admit the point, but agrees to comply,
confident that no harm will attend his answers. Whereupon Socrates claims
that Alkibiades speaks like a diviner (cf. 127e, 107b, 117b), and proceeds,
presuming to be articulating Alkibiades' actual opinion. Some just
things are advantageous and some are not (115a). Some just things are
noble and some are not. Nothing can be both base and just, so all just
things are noble. Some noble things might be evil and some base things
may be good, for a rescue is invested with nobility on account of
courage, and with evil because of the deaths and wounds. However, since
courage and death are distinct, it is with respect to separate aspects
that the rescue can be said to be both noble and evil. Insofar as it is
noble it is good, and it is noble because of courage. Cowardice is an
evil on par with (or worse than, 115d) death. Courage ranks among the
best things and death among the worst. The rescue is deemed noble because
it is the working of good by courage, and evil because it is the working
of evil by death. Things are evil because of the evil produced and good
on account of the good that results. In as much as a thing is good it is
noble and base inasmuch as it is evil. To designate the rescue as
noble but evil is thus to term it good but evil (116a). In so far as
something is noble it is not evil, and neither is anything good in so far
as it is base. Whoever does nobly does well and whoever does well is
happy (116b). People are made happy through the acquisition of good
things. They obtain good things by doing well and nobly. Accordingly,
doing well is good and faring well is noble. The noble and good are
the same. By this argument all that is noble is good. Good things are
expedient (116c) and as has already been admitted, those who do just
things do noble things (115a); those who do noble things do good things
(116a). If good things are expedient then just things are
expedient. As Socrates points out, it is apparently Alkibiades who
has asserted all of this. Since he argues that the just and the
expedient are the same, he could hardly do other than ridicule anyone who
rose up to advise the Athenians or the Peparathians believing he knew the
just and the unjust and claiming that just things are sometimes
evil. Before proceeding, the reader must pause and attempt to
determine the significance of the problem of the just versus the
expedient. No intimate familiarity with the tradition of political
philosophy is re¬ quired in order to observe that the issue is dominant
throughout the tradition/ perhaps most notably among the moderns in the
writings of Machiavelli and Hobbes who linked the question of justice and
expediency to the distinction between serving another's interest and
serving one's own interest. They, and subsequent moderns, in the spirit
of the "Enlightenment," then proceed with the intention of
eradicating the dis¬ tinction. Self-interest, properly understood, is
right and is the proper basis for all human actions. Not only is there a
widespread connection between the issue, the traditional treatment of the
issue, and human action - but the reader might recall that the ancient
philosophers, too, considered it fundamental. One need only realize that
the philosophic work par excellence , Plato's Republic , receives its
impetus from this consideration. The discussion of the best regime
(perhaps the topic of political philosophy) arises because of Glaukon's
challenging reformula¬ tion of Thrasymakhos' opinion that justice is the
advantage of the stronger. Recognition of this fact sufficiently
corroborates the view that this issue warrants careful scrutiny by
serious students of political philosophy. Socrates has chosen this topic
as the one on which to demonstrate the internal conflicts in Alkibiades'
soul. Perhaps that is a subtle indication to the reader as to where he
might focus when he begins the search for self-knowledge, the inevitable
prerequisite for his improvement. Alkibiades swears by all
the gods. He is overwhelmed. Alkibiades protests that he isn't sure he
knows even what he is saying; he continual¬ ly changes his views under
Socrates' questioning. Socrates points out to him that he must be unaware
of what such a condition of perplexity signifies. If someone were to ask
him whether he had two or three eyes, or two or four hands, he would
probably respond consistently because he knows the answer. If he
voluntarily gives contradictory replies, they must concern things about
which he is ignorant. Alkibiades admits it is likely; but there are
probably other reasons why one might give contra¬ dictory answers, just
as one might intentionally appear to err - in speech speech.
Alkibiades' ignorance with regard to justice, injustice, noble,
base, evil and good is the cause of his confusion about them. Whenever a
man does not know a thing, his soul is confused about that thing.
By Zeus (fittingly), Alkibiades concedes he is ignorant of how to
rise into heaven. There is no confusion in his opinion about that simply
because he is aware that he doesn't know. Alkibiades must take his part
in discerning Socrates' meaning. He knows he is ignorant about fancy
cookery, so he doesn't get confused, but entrusts it to a cook.
Similarly when aboard ship he knows he is ignorant of how to steer,
and leaves it to the pilot. Mistakes are made when one thinks one
knows though one doesn't. Otherwise people would leave the job to those
who do know. The ignorant person who knows he is ignorant doesn't
make mistakes (117e). Those who make mistakes are those who think they
know when they don't; those who know act rightly; those who don't, leave
it to others. All this is not precisely true for a number of
reasons. Chance or fortune always plays a part and something unexpected
could interfere in otherwise correctly laid plans. Also, as any honest
politician or general would have to say, sometimes courses of action must
be decided and acted upon, even when one is fully cognizant of one's
partial ignorance. The worst sort of stupidity, Socrates
testifies is the stupidity conjoined with confidence. It is a cause of
evils and the most pernicious evils occur through its involvement with
great matters like the just, the noble, the good and the advantageous.
Alkibiades' bewilderment regarding these momentous matters, coupled with
his ignorance of his very ignorance, imputes to him a rather sorry
condition. Alkibiades admits he is afraid so. Socrates at this
point (118b) makes clear to Alkibiades the nature of his predicament. He
utters an exclamation at the plight of the young man and deigns to give
it a name only because they are alone. Alkibiades, according to his own
confession, is attached to the most shameful kind of stupidity. Perhaps
to contrast Alkibiades' actual condition with what he could be, Socrates
chooses precisely this moment to refer to Alkibiades as "best of
men" (cf. also 113c). With such apparent sarcasm still reverberating
in the background, Socrates intimates that because of this kind of
ignorance he is eager to enter politics before learning of it.
Alkibiades, far from being alone, shares this lot with most politicians
except, perhaps, his guardian Perikies, and a few others. Already
recognized to be obviously a salient feature of the action of the
dialogue, the fact that the two are alone, engaged in a private
conversation, is further stressed here as the reader approaches the
central teaching of the First Alkibiades . Alkibiades has been turned
around and now faces Socrates. They can confide in each other even to the
extent of criticizing all or nearly all of Athens' politicians.
They shall, in the next while, be saying things that most people
should not hear. And at this moment it seems to be for the purpose of
naming Alkibiades' condition that Socrates reminds the reader of their
privacy. A number of possible reasons for the emphasis on privacy
in this regard come to mind. Socrates likely would not choose to call
Alkibiades stupid in front of a crowd. In the first place,
his having just recognized his ignorance makes him far less stupid than
the crowd and it would be inappropriate to have them feel they are better
than he. Alkibiades is by nature a cut above the many, and it would be a
sign of contempt to expose him to ridicule in front of the many. Though
he may be in a sorry condition, he is being compared to another standard
than the populace. Secondly, to expose and make Alkibiades
sensitive to public censure is probably not in his best interests. A
cultivation in most noble youths of the appropriate source of their honor
and dishonor is important. Socrates, by not making Alkibiades feel
mortified in front of the many, is heightening his respect for the
censure of men like Socrates. Without this alternative, the man who seeks
glory is confronted with a paradox of sorts. He wants the love/adoration
of the many, and yet he despises the things they love or adore.
Alkibiades is being shown that the praise of few (and if the principle is
pushed to its limit, eventually the praise of one - oneself, i.e. pride)
is more to be prized. Thirdly, as Socrates explains to Meletus in
his trial ( Apology 26a), when someone does something unintentionally, it
is correct to instruct him privately and not to summon the attention of
the public. Alkibiades is not ignorant on purpose; Socrates should
privately instruct him. It is also probable that Alkibiades will only
accept private criticism which doesn't threaten his status. And
perhaps fourthly, if Socrates were to insult Alkibiades in public the
many would conclude that there was a schizm between them. Because they
are men whose natures are akin, and because of their (symbolic)
representation of politics and philosophy, or power and knowledge, any
differences they have must remain private. It is in their best interest
as well as the interest of the public, that everyone per¬ ceive the two
as being indivisible. And as was observed earlier, even the wisest
politicians must appear perfectly confident of their knowledge and plans.
This is best done if they conceal their private doubts and display
complete trust in their advisors, providing a united front when facing
the many. When Socrates suggests Perikles is a possible exception,
Alkibiades names some of the wise men with whom Perikles conversed to
obtain his wisdom. Those whom he names are conventionally held to be
wise; Alkibiades might not refer to the same people by the end of this
conversation with Socrates. In any event, upon Alkibiades' mention of the
wise men, Socrates insinuates that Perikles' wisdom may be in
doubt. Anybody who is wise in some subject is able to make another wise
in it, just as Alkibiades' writing teacher taught Alkibiades, and
whomever else he wishes, about letters. The person who learns is also
then able to en¬ lighten another man. The same holds true of the harper
and the trainer (but apparently not the flute player, cf. 106e). The
ability to point to one's student and to show his capability is a fine
proof of knowing anything. If Perikles didn't make either of his sons
wise, or Alkibiades' brother (Kleinias the madman) ,why is Alkibiades in
his sorry condition? Alkibiades confesses that he is at fault for not paying
attention to Perikles. Still, he swears by the king of gods that there
isn't any Athenian or stranger or slave or foreman who is said to have
become wise through conversation with Perikles, as various students of
sophists have been said to have become wise and erudite through lessons.
Socrates doesn't need to explicate the conclusion. Instead, he asks
Alkibiades what he intends to do. The conclusion of the
argument is never uttered. It is obviously meant to question Perikles'
wisdom, but rather than spell it out, the topic is abruptly changed. If
Perikles were dead, not alive and in power, piety would not admit of even
this much criticism to be levied. Alkibiades would be expected to defend
his uncle against those outside the family; and all Athenians to defend
him against critics from other poleis . In addition, if this was a public
discussion, civic propriety would demand silence in front of the many
concerning one's doubts about the country's leaders. But since they are
indeed alone, and need not worry about the effects on others of their
discussion of Perikles' wisdom, they might have concluded the argument.
The curious reader will likely examine various reasons for not finishing
it. Three possibilities appear to be somewhat supported by the discussion
to this point. One notices, to begin with, that it would be
adequate for the argument, if a person could be found who was reputed to
have gained wisdom from Perikles. Given that a reputation among the many
has not been highly regarded previously in the dialogue, there seems
little need to press this point in the argument. If a man was said to
have been made wise by Perikles, the criteria by which that judgment
would be made seem much less reliable than the criteria whereby the many
evaluate a man's skill in letters. There is no proof of Perikles' ability
to make another wise in finding someone who is reputed to be wise.
Conversely, Perikles may well have made someone wise who did not also
achieve the reputation for wisdom. A second point in
connection with the argument is that the three subjects mentioned are
those in which Alkibiades has had lessons. Alkibiades has ability in them, yet
cannot point to people whom he has made wise in letters, harping or
wrestling. That does not seem sufficient proof that he is ignorant (thus
that his master was ignorant and so on) . It is also not clear that
Alkibiades' teachers could have made any student whomsoever they wished,
wise in these subjects; Perikles 1 sons must have achieved their
reputation as simpletons (118e) from failing at something. Knowledge
cannot require, for proof, that one has successfully taught someone else.
Not all people try to teach what they know. There must be other proofs of
competence, such as winning at wrestling, or pleasing an audience through
harping. Similarly, not having taught someone may not prove one's
ignorance; it may just indicate unwilling and incapable students.
Alkibiades, for example, didn't learn to play the flute. There is no
indication that his teacher was incapable - either of playing or of
teaching. Alkibiades is said to have refused to learn it becaus e of
con¬ siderations of his own. It might also be suggested that pointing
to students doesn't solve the major problem of proving someone's knowledge.
Is it any easier to recognize knowledge in a student than in a
teacher? A third closely connected point is that some knowledge may
be of such significance that the wise man properly spends his time
actively 98 using it (e.g., by ruling) and not teaching
it. Perikles, through ruling, may have made the Athenians as a whole
better off, and perhaps even increased their knowledge somewhat. Had his
son and heirs to his power observed his example while he was in office,
they too might have become wiser. Adding further endorsement to this
notion is the quite reasonable supposition that some of the things a wise
politician knows cannot be taught through speech but only through
example, just as some kinds of knowledge must be gained by experience. He
may communicate his teaching through his example, or even less obviously,
through whatever institutions or customs he has established or
revised. Some subjects should probably also be kept
secret for the state, and some types of prudential judgement are
acquired only be guided experience. Perikles's very silence, indeed,
may be a testimony to his political wisdom. In response to
Socrates' question as to what Alkibiades will do, the young man suggests
that they put their heads together (119b). This marks the completion of
Alkibiades' turning around. Alkibiades, who began the discussion annoyed
and haughty has requested Socrates' assistance in escaping his predicament. He
is ready to accept Socrates' advice. This locution (of putting their
heads together) will be echoed later by Socrates (124c) and will mark
another stage of their journey together. The central portion of the
dialogue, the portion between the two joinings of their heads, is what
shall be taken up next. Since most of the men who do the work of the polis
are uneducated (119b), Alkibiades presumes he is assured of gaining an
easy victory over them on the basis of his natural qualities. If they
were educated, he would have to take some care with his learning, just as
much training is required to compete with athletes. But they are ignorant
amateurs and should be no challenge. Socrates launches into
an exclamatory derision of this "best of men." What he has just
said is unworthy of the looks and other resources of his. Alkibiades
doesn't know what Socrates means by this and Socrates responds that he is
vexed for Alkibiades and for his love. Alkibiades shouldn't expect this
contest to be with these men here. When Alkibiades inquires with whom his
contest is to be, Socrates asks if that is a question worthy of a man who
considers himself superior. Alkibiades wants to ascertain if Socrates is
suggesting that his contest is not with these men, the politicians of the
polis . This passage is central to the First Alkibiades . The
answer im¬ plicit in Socrates' response I deem to be far more profound
than it might seem to the casual observer. Hopefully the analysis here
will support this judgement and show as well, that this question of the
contest (agon) is a paramount question in Alkibiades' life, in the lives
of all superior men, and in the quest for the good as characterized by
political philosophy. If Alkibiades' ambition is really unworthy of
him, if he thinks he ought to strive only be be as competent as the
Athenians, then Socrates is vexed for his love. Earlier (104e) the reader
was informed that Socrates would have had to put aside his love for
Alkibiades if Alkibiades proved not to have such a high ambition. Thus
Socrates was attracted to Alkibiades' striving nature. He followed the
youth about for so long because Alkibiades' desires for power were
growing. What thus differ¬ entiates Alkibiades from other youths (such as
several of those with whom Socrates is shown in the dialogues, to have
spent time) is that he has more exalted ambitions than they. Should
Socrates come to the con¬ clusion that Alkibiades does not in fact have
this surpassing will for power, the philosopher would be forced to put
away his love for Alkibiades. Now, after some discussion, it seems there
is a possibility that Alkibiades wants only to be as great as other
politicians. Many boys wish this; Alkibiades' eros would not be
outstanding. Were this true, it would indeed be no wonder if Socrates
were vexed for his love. However, it appears that this is just
something Alkibiades has said (119c.3, 9). Socrates' love is not
released, so Alkibiades passes this, the test of Socrates' love. It is at
this point in the dialogue that one can finally discern the character of the
test. The question, really, is what constitutes a high enough ambition.
An athlete must try to find out with whom to train and fight, for how
long, how closely, and at what time (119b; 107d-108b). He determines all
of this himself; he determines, in other words, the extent of his
ambition to improve and care for himself in terms of his contest. That
with whom he fights determines how he prepares himself. The contest is
thus a standard against which to judge his achievement. The
next step appears to be obvious: for the athlete of the soul as well as
the athlete of the body, the question is with whom ought he contest.
Socrates suggests shortly that should Alkibiades' ambition be to rule
Athens, then his contest would rightly be with other rulers, namely the
Spartan kings and the Great King of Persia. Since Socrates apparently
proceeds to compare in some detail the Spartan and Persian princes'
preparations for the contest, the surface impression is that Alkibiades
really must presume his contest to be with the Persians and Spartans. The
reader remembers, however, that Alkibiades would rather die than be
limited to ruling Athens (105b-c). What is the proper contest for someone
who desires to rule the known, civilized world and to have his rule
endure beyond his own lifetime; what is the preparation requisite for
truly great politics? At this point the question of the contest assumes
an added significance. The reference cannot be any actual ruler; the inquiry
has encountered another dimension of complexity. The larger
significance is, it is suspected, connected to the earlier, discussion
about the role of the very concept of the superior man in political
philosophy, particularly in understanding the nature of man. The very
idea that a contest for which one ought to prepare oneself is with
something not actualized by men of the world (at least not in an obvious
sense since it cannot be any actual ruler) poses problems for some views
of human nature. For example, in the opinion of those who believe that
man's "nature" is simply what he actually is, or what is
"out there"; the actual men of the world and their demonstrated
range of possibilities are what indicate the nature of man. On this view,
man's nature, typically is understood to be some kind of statistical
norm. These people will agree that politics is limited by man and thought
about political things is thus limited by man's nature, but they will not
con¬ cede the necessity of looking toward the best man. The
argument to counter this position is importantly epistemo¬ logical. It is
almost a surety that any specific individual will deviate from the norm
to some degree, and the difference can only be described as tending to be
higher or lower than, or more or less than, the norm. This deviation,
which is to one side or other of the norm, makes the individual either
better or worse than the norm. Thus individuals, it may be said, can be
arranged hierarchically based on their position relative to the norm and
"the better”. Whenever one tries to account for an individual's
hierarchical position vis a vis the norm, it is done in terms of
circumstances which limit or fail to limit his realization of his
potential. Since no one is satisfied with an explanation of a deviation
such as "that is under¬ standable, 25% of the cases are higher than
normal," some explanation of why this individual stopped short, or
proceeded further than average is called for. 100 The implicit understanding
of the potential, or of the proper/ideal proportions, then, is what
allows for comparison between individuals. By extension, this
understanding of the potential, whether or not it is actualized, is what
provides the ability to judge between regimes or societies. The amount a
polity varies (or its best men, or its average men) from the potential is
the measure of its quality relative to other polities. The explanation of
this variation (geo¬ graphic location, form of regime, economic
dependency, or other standard reasons) will be in terms of factors which
limit it from nearing, or allow it to approach nearer the goal.
As it is not uniformly better to have more and not less the normal
of any characteristic, any consistent judgement of deviation from the
norm must be made in light of the best. Indeed, it usually is, either
explicitly or implicitly. This teleological basis of comparison is the
common-sensical one, the prescientific basis of judgement. When someone
is heard to remark "what a man," one most certainly does not
understand him to be suggesting that the man in question has precisely
normal characteristics. Evaluating education provides a clear and
fitting example of how the potential, not the norm, serves as the
standard for judging. A teacher does not attempt to teach his students to
conform to the norm in literary, or mathematical ability. It would be
ludicrous for him to stop teaching mid-year, say, because the normal
number of his students reached the norm of literacy for their age. Indeed,
education itself can be seen as an attempt to exceed the norm (in the
direction of excellence) and thereby to raise it. That can only be done
if there is a standard other than the norm from which to judge the norm
itself. The superior man understands this. He competes with the best, not
the norm. As a youth he comes to know that a question central to
his ambition, or will for power is that of his proper contest.
The theoretical question of how one knows with whom to compete is very
difficult although it may (for a long time) have a straightforward
practical solution. It is at the interface between the normally accepted
solution and the search for the real answer that Alkibiades and Socrates
find themselves, here in the middle of their conversation. For most
people during part of their lives, and for many people all of their life,
the next step in one's striving, the next contestant one must face, is
relatively easy to establish. Just as a wrestler pro¬ ceeds naturally
from local victory through stages toward world champion¬ ship, so too
does political ambition have ready referents - up to a point. It is at
that point that Alkibiades finds himself now, no doubt partly with the
help of Socrates prodding his ambitions (e.g., 105b. ff, 105e). What had
made it relatively easy to know his contestant before were the pictures
of the best men as Alkibiades understood them, namely politically
successful men, Kyros and Xerxes (much as an ambitious wrestler usually
knows that a world championship title is held by some¬ one in
particular). Alkibiades' path had been guided. Socrates has chosen to
address Alkibiades now, perhaps because Alkibiades' ambition is high
enough that the conventional models no longer suffice. Alkibiades is at
the stage wherein he must discover what the truly best man is, actual
examples have run out. He recognizes that he needs Socrates' help (119b);
no one else has indicated that Alkibiades' contest might take place
beyond the regular sphere of politics, with contestants other than the
actual rulers of the world. But how is he to discover the best man in
order that he may compete? This is the theoretical question of most
significance to man, and could possibly be solved in a number of ways.
Within the confines of the dialogue, however, this analysis will not move
further than to recognize both the question/ and its centrality to
political philosophy. 101 To note in passing, however, there may be many
other questions behind that of the best man. There may, for example, be
more than one kind of best man, and a decision between them may involve
looking at a more prior notion of "best." At any rate, it
has been shown that it is apparently no accident that the central
question in a dialogue on the nature of man is a question by a superior
youth as to his proper contest. What is not yet understood is why a
philosophic man's eros is devoted to a youth whose erotic ambition is for
great politics, a will to power over the whole world. By means of a
thinly veiled reference to Athen's Imperial Navy, over which Alkibiades
would later have full powers as commander, Socrates attempts to
illustrate to the youth the importance of choosing and recog¬ nizing the
proper contestants. Supposing, for example, Alkibiades were intending to
pilot a trireme into a sea battle, he would view being as capable as his
fellows merely a necessary qualification. If he means to act nobly (
kalos ) for himself and his city, he would want to so far sur¬ pass his
fellows as to make them feel only worthy enough to fight under him, not
against him. It doesn't seem fitting for a leader to be satis¬ fied with
being better than his soldiers while neglecting the scheming and drilling
necessary if his focus is the enemy's leaders. Alkibiades asks to whom
Socrates is referring and Socrates responds with another question. Is
Alkibiades unaware that their city often wars with Sparta and the Great
King? If he intends to lead their polis , he'd correctly suppose
his contest was with the Spartan and Persian kings. His contest is not
with the likes of Meidias who retain a slavish nature and try to run the
polis by flattering, not ruling it. If he looks to that sort for his
goal, then indeed he needn't learn what's required for the greatest
contest, or perform what needs exercising, or prepare himself adequately
for a political career. Alkibiades, the best of men, has to consider the
implications of believing that the Spartan generals and the Persian kings
are like all others (i.e., no better than normal). 103 Firstly, one takes
more care of oneself if one thinks the opponents worthy, and no harm is
done taking care of oneself. Assuredly that sufficiently
establishes that it is bad to hold the opinion that they are no
better than anyone else. Almost as a second thought, Socrates
turns to another criterion which might indicate why having a
certain opinion is bad - truth (cf. Republic 386c). There is
another reason, he continues, namely that the opinion is probably
false. It is likely that better natures come from well-born
families where they will in the end become virtuous in the event they are
well brought up. The Spartan and Persian kings, descended from
Perseus, the son of Zeus, are to be compared with Socrates' and Alkibiades'
ancestral lines to see if they are inferior. 100 Alkibiades is quick to
point out that his goes back to Zeus as well, and Socrates adds that he
comes from Zeus through Daidalos and Hephaistos, son of Zeus. Since
ancestral origin in Zeus won't qualitatively differentiate the families,
Socrates points out that in both cases - Sparta and Persia - every step
in the line was a king, whereas both Socrates and Alkibiades (and their
fathers) are private men. The royal families seem to win the first round.
The homelands of the various families could be next com¬ pared, but it is
likely that Alkibiades' her itage, which Socrates is able to
describe in detail, would arouse laughter. In ancestry and in birth and
breeding, those people are superior, for, as Alkibiades should have observed,
Spartan kings have their wives guarded so that no one outside the line
could corrupt the queen, and the Persians have such awe for the king that
no one would dare, including the queen. With the conclusion of
Socrates' and Alkibiades' examination of the various ancestries of the
men, and before proceeding to the dis¬ cussions of their births and
nurtures, a brief pause is called for to look at the general problem of
descent and the philosophic significance to have in this
dialogue. References to familial descent are diffused throughout the
First Alkibiades . It begins by calling attention to Alkibiades' ancestry
and five times in the dialogue is he referred to as the son of Kleinias. On
two occasions he is even addressed as the son of Deinomakhe. If that
weren't enough, this dialogue marks one of only two occasions on which
Socrates' mother, the midwife Phainarete, is named (cf. Theaitetos 149a).
The central of the things on which Socrates said Alkibiades prides
himself is his family, and Socrates scrutinizes it at the greatest
length. The sons of Perikles are mentioned, as are other familial
relations such as the brother of Alkibiades. The lineages of the Persian
kings, of the Spartan kings, of Alkibiades and Socrates are probed, and
Socrates reveals that he has bothered to learn and to repeat the details.
The mothers of the Persian kings and Spartan kings are given an important
role in the dialogue, and in general the question of ancestry is
noticeably dominant, warranting the reader's exploration. As
already discussed in the beginning, the reference to Alkibiades' descent
might have philosophic significance in the dialogue. Here again, the
context of the concern about descent is explicitly the consideration of
the natures of men. Better natures usually come from better ancestors (as
long as they also have good nurtures). At the time of birth, an
individual's ancestry is almost the only indication of his nature, the
most important exception being, of course, his sex. But, as suggested by
Socrates' inclusion of the proviso that they be well brought up (120e), a
final account of man's nature must look to ends not only origins, and to
his nurture, not only descent. Nurture ( paideia) is intended to mean a comprehensive
sense of education, including much more than formal school¬ ing; indeed,
it suggests virtually everything that affects one's up¬ bringing. The
importance of this facet in the development of a man's nature becomes
more obvious when one remembers the different character¬ istics of
offspring of the same family (e.g., Kleinias and Alkibiades, both sons of
Kleinias and Deinomakhe, or the sons of Ariston participating in the
Republic ). These suggestions, added to the already remarked upon importance
of nurture in a man's life, mutually support the contention that nature
is to be understood in terms of a fulfilled end providing a standard for
nurture. The nature of man, if it is to be understood in terms of a telos
, his fulfilled potential, must be more than that which he is born as. An
individual's nature, then, is a function of his descent and his nurture.
Often they are supplementary, at least super¬ ficially; better families
being better educated, they are that much more aware and concerned with
the nurture of their offspring. 'Human nature' would be distinguished
from any individual's nature in so far as it obviously does not undergo
nurture; but if properly understood, it pro¬ vides the standard for the
nurture of individuals. To the point of birth, then, ancestry is the
decisive feature in a man's nature, and thus sets limits on his nature.
When his life begins, that turns around, and education and practice become
the key foci for a man's development. After birth a man cannot alter his
ancestry, and nurture assumes its role in shaping his being, his
nature. The issue is addressed in a rather puzzling way by
Socrates' claim that his ancestry goes through Daidalos to
Hephaistos, the son of Zeus. This serves to establish (as
authoritatively as in the case of the others) that he is well-born.
It does nothing to counter Alkibiades' claim that he, like the
Persian and Spartan kings, is descended from Zeus (all of them
claiming descent from the king of the Olympians); in other words, it
does not appear to serve a purpose in the explicit argument and the
reader is drawn to wonder why he says it. Upon examination
one discovers that this is not the regular story. Normally in
accounts of the myths, the paternal heritage of Hephaistos is ambiguous
at best . Hesiod relates that Hephaistos was born from Hera
109 with no consort. Hera did not mate with a man; Haphaistos
had no father. 1 '*’ 0 Socrates thus descends from a line begun by
a woman - the queen of the heavens, the goddess of marriage and
childbirth (cf. Theaitetos 148e-151e; also 157c, 160e-161e, 184b, 210b-c;
Statesman 268b). By mentioning Hephaistos as an ancestor, Socrates is
drawing attention to the feminine aspect of his lineage. An understanding
of the feminine is crucial to an account of human nature. The
male/female division is the most fundamental one for mankind, rendering
humans into two groups (cf. Symposium 190d-192d). The sexes and their
attraction to each other provide the most basic illustration of eros ,
perhaps man's most powerful (as well as his most problematic) drive or
passion. Other considerations include the female role in the early
nurture of children (Republic 450c) and thus the certain, if indirect
effect of sex on the polls (it is not even necessary to add the suspicions
about a more subtle part for femininity reserved in the natures of some
superior men, the philosophers). Given this, it is quite possible that
Socrates is sug¬ gesting the importance of the male/female division in
his employment of 'descent' as an extended philosophic metaphor for human
nature. A brief digression concerning Hephaistos and Daidalos may
be use¬ ful at this point. Daidalos was a legendary ingenious craftsman,
in¬ ventor and sculptor (famous for his animate sculptures). He is said
to have slain an apprentice who showed enough promise to threaten
Daidalos' supremacy, and he fled to Krete. In Krete he devised a hollow
wooden cow which allowed the queen to mate with a bull. The offspring was
the Minotaur. Daidalos constructed the famous labyrinth into which
select Athenian youths were led annually, eventually to be devoured by
the Minotaur. ^ Daidalos, however, was suspected of supplying the
youth Theseus (soon to become a great political founder) with a means to
exit from the maze and was jailed with his son Ikaros. A well known
legend tells of their flight. Minos, the Kretan king was eventually
killed in his pursuit of Daidalos. Hephaistos was the divine
and remarkably gifted craftsman of the Olympians, himself one of the
twelve major gods. Cast from the heavens as an infant, Hephaistos
remained crippled. He was, as far as can be told, the only Olympian deity
who was not of surpassingly beautiful physical form. It is interesting
that Socrates would claim descent from him. Hephaistos was noted as a
master craftsman and manufactured many wondrous things for the gods and
heroes. His most remarkable work might have been that of constructing the
articles for the defence of the noted warrior, Akhilleus, the most famous
of which was the shield (Homer, Iliad y XVIII/ 368-617). The
next topic discussed in this, the longest speech in the dialogue, is the
nurture of the Persian youths. Subsequently Socrates discourses
about Spartan and Persian wealth and he considers various possible
reactions to Alkibiades' contest with the young leaders of both
countries. The account Socrates presents raises questions as to his
possible intentions. It is quite likely that Socrates and Xenaphon,
who also gives an account of the nurture of the Persian prince,
have more in mind than mere interesting description. Their
interpretations and presentations of the subject differ too
markedly for their purposes to have been simply to report the way of life in another
country. Thus, rather than worry over matters of historical
accuracy, the more curious features of Socrates' account will be
considered, such as the relative emphasis on wealth over qualities of
soul, and the rather lengthy speculation about the queens', not the
kings', regard for their sons. In pointed contrast to the
Athenians, of whose births the neighbors do not even hear, when the heir
to the Persian throne is born the first festivities take place within the
palace and from then on all of Asia celebrates his birthday. The young
child is cared for by the best of the king's eunuchs, instead of an
insignificant nurse, and he is highly honored for shaping the limbs of
the body. Until the boy is perhaps seven years old, then, his attendant
is not a woman who would provide a motherly kind of care, nor a man who
would provide an example of masculinity and manliness, but a neutered
person. The manly Alkibiades, as well as the reader, might well wonder as
to the effect this would have on the boy, and whether it is the intended
effect. At the age of seven the boys learn to ride horses and
commence to hunt. This physical activity, it seems, continues until the
age of four¬ teen when four of the most esteemed Persians become the
boys' tutors. They represent four of the virtues, being severally
wise, just, temperate, and courageous. The teaching of piety is conducted
by the wisest tutor of the four (which certainly allows for a number of
interesting possi¬ bilities) . He instructs the youth in the religion of
Zoroaster, or in the worship of the gods, and he teaches the boy that
which pertains to a king - certainly an impressive task. The just tutor
teaches him to be completely truthful (122a); the temperate tutor to be
king and free man overall of the pleasures and not to be a slave to
anyone, and the brave tutor trains him to be unafraid, for fear is
slavery. Alkibiades had instead an old (and therefore otherwise
domestically useless) servant to be his tutor. Socrates
suspends discussion of the nurture of Alkibiades' competitors. It would
promise to be a long description and too much of a task (122b). He
professes that what he has already reported should suggest what follows.
Thereby Socrates challenges the reader to examine the manner in which
this seemingly too brief description of nurture at least indicates what a
complete account might entail. This appears to be the point in the
dialogue which provides the most fitting opportunity to explicitly and
comprehensively consider nurture. It has become clear to Socrates and
Alkibiades that the correct nurture is essential to the greatest contest,
and Socrates leaves Alkibiades (and the reader) with the impression that
he regards the Persian nurture to be appropriate. One might thus presume
that an examination of Persian practices would make apparent the more
important philosophical questions about nurture. Socrates had been
specific in noticing the subjects of instruction received by Alkibiades
(106e), and the reader might follow likewise in observing the lessons of
the Persian princes. On the face of it, Socrates provides more detail
regarding this aspect of their nurture than others, so it might be
prudent to begin by reflecting upon the teaching of religion and kingly
things, of truth-telling, of mastering pleasures, and of mastering fears.
Perhaps the Persian system indicates how these virtues are properly seen
as one, or how they are arranged together, for one sus¬ pects that
conflicts might normally arise in their transmission. These subjects are
being taught by separate masters. A consistent nurture demands that they
are all compatible, or that they can agree upon some way of deciding
differences. If the four tutors can all recognize that one of them ought
to command, this would seem to imply that wisdom some¬ how encompasses
all other virtues. In that case, the attendance of the one wise man would
appear to be the most desirable in the education of a young man. The wise
man's possession of the gamut of virtues would supply the prince with a
model of how they properly fit together. With¬ out a recognized
hierarchy, there might be conflicts between the virtues. Indeed, as the
reader has had occasion to observe in an earlier context of the dialogue,
two of the substantive things taught by two different tutors may conflict
strongly. There are times when a king ought not to be honest. The teacher
of justice then would be suggesting things at odds with that which
pertains to a king. How would the boys know which advice to choose,
independently of any other instruction? In addition, Socrates suggests
that the bravest Persian (literally the 'manliest') tells or teaches the
youth to fear nothing, for any fear is slavery. But surely the
expertise of the tutor of courage would seem to consist in his knowing what to
fear and what not to fear. Otherwise the youth would not become
courageous but reckless. Not all fears indicate that one is a slave: any
good man should run out of the way of a herd of stampeding cattle, an
experienced mountain climber is properly wary of crumbling rock, and even
brave swimmers ought to remain well clear of whirlpools. For this to be
taught it appears that the courageous tutor would have to be in agreement
with the tutor of wisdom. These sorts of difficulties seem to be
perennial, and a system of nurture which can overcome them would provide
a fine model, it seems, for education into virtues. If the Persian tutors
could indeed show the virtues to be harmonious, it would be of
considerable benefit to Alkibiades to under¬ stand precisely how it is
accomplished. The question of what is to be taught leads readily to
a considera¬ tion of how to determine who is to teach. The problem of
ascertaining the competence of teachers seems to be a continuing one (as
the reader of this dialogue has several occasions to observe - e.g.,
llOe, ff.). But besides their public reputation there is no indication of
the criteria employed in the selection of the Persian tutors. To this point
in the dialogue, two criteria have been acknowledged as establishing
qualifica¬ tion for teaching (or for the knowledge requisite for
teaching). Agree¬ ment between teachers on their subject matter (lllb-c)
is important for determining who is a proper instructor, as is a man's
ability to refer to knowledgeable students (118d). As has already been
indicated, both of these present interesting difficulties. Neither,
however, is clearly or obviously applicable to the Persian situation. The
present king might prove to be the only student to whom they can point
(in which case they may be as old as Zopyros) and he might well be the
only one in a position to agree with them. It is conceivable that some
kinds of knowledge are of such difficulty that one cannot expect too many
people to agree. If the Persians have indeed solved the problems of
choosing tutors, and of reconciling public reputation for virtue with
actual possession of virtue, they have overcome what appears to be a most
persistent diffi¬ culty regarding human nurture. Another
issue which surfaces in Socrates' short account of the Persian
educational system is that of the correct age to begin such nurture.
Education to manhood begins at about the age of puberty for the prince.
If the virtues are not already quite entrenched in his habits or thoughts
(in which latter case he would have needed another source of instruction
besides the tutors - as perhaps one might say the Iliad and Odyssey provide
for Athenian youths such as Alkibiades), it is doubtful that they could
be inculcated at the age of fourteen. Socrates is completely silent about
the Persians' prior education to virtue, dis¬ closing only that they
began riding horses and participating in "the hunt." Since both
of those activities demand some presence of mind, one may presume that
early Persian education was not neglected. This earliest phase of
education is of the utmost importance, however, for if the boy had been a
coward for fourteen years, one might suspect tutoring by a man at that
point would not likely make him manly. And to make temperate a lad
accustomed to indulgence would be exceedingly difficult. Forcibly
restricting his consumption would not have a lasting effect un¬ less
there were some thing to draw upon within the understanding of the boy,
but Socrates supplies Alkibiades with no hint as to what that might be.
Presently the young man will be reminded of Aesop's fables and the
various stories that children hear. If, in order to qualify as proper nurturing,
such activities as children participate in - e.g., music and gymnastics -
ought to be carried out in a certain mode or with certain rules (cf.
Republic 377a-e; 376c-414c), Socrates gives no indication of their manner
here. Unless stories and activities build a respect for piety and
justice, and the like, it is not obvious that the respect will be
developed when someone is in his mid-teens. It would seem difficult, if
not impossible, to erase years of improper musical and gymnastic
education. Socrates remains distressingly silent about so very much of
the Persian (or proper) method of preparing young men for the great
contest. The only one who would care about Alkibiades 1 birth,
nurture or education, would be some chance lover he happened to have,
Socrates says in reference to his seemingly unique interest in
Alkibiades' nature (122b). He concludes what was presumably the account
of the education of the Persian princes, intimating that Alkibiades would
be shamed by a comparison of the wealth, luxury, robes and various
refinements of the Persians. It is odd that he would mention such items
in the context immediately following the list of subjects the tutors were
to teach in the education of the soul of the king - including the
complete mastery of all pleasure. It is even more curious that he would
deign to mention these in the context of making Alkibiades sensitive to
what was required for his preparation for his proper contest. The
historical Alkibiades, it seems, would not be so insensitive to these
luxuries as to need reminding of them, and the dialogue to this point has not
given any indica¬ tion that these things of the body are important to the
training Alkibiades needs by way of preparing for politics. The fact that
Socrates expressly asserts that Alkibiades would be ashamed at having
less of those things corroborates the suggestion that more is going on in
this long speech than is obvious at the surface. Briefly, and
in a manner that doesn't appear to make qualities of soul too appealing,
Socrates lists eleven excellences of the Spartans: temperance,
orderliness, readiness, easily contented, great-mindedness,
well-orderedness, manliness, patient endurance, labor loving, contest
loving and honor loving. Socrates neither described these glowingly, nor
explains how the Spartans come to possess them. He merely lists them.
Then, interestingly, he remarks that Alkibiades in comparison is a child
. He does not say that Alkibiades would be ashamed, or that he would
lose, but that he had somehow not yet attained them. Like some children
presumably, he may have the potential to grow into them if they are part
of the best nature. There is no implication, then, that Alkibiades'
nature is fundamentally lacking in any of these virtues, and this is of
special interest to the reader given the more or less general agreement,
even during his lifetime, as to his wantonness. Socrates here suggests
that Alkibiades is like a child with respect to the best
nature. This part of Socrates' speech reveals two possible
alternatives to the Persian education, alternatives compatible with the
acquisition of virtue. A Spartan nurture was successful in giving
Spartans the set of virtues Socrates listed. Since Alkibiades obviously
cannot regain the innocence necessary to benefit from early disciplined
habituation, and since Socrates nevertheless understands him to be able
to grow into virtue in some sense, there must be another way open to him.
This twenty year old "child" has had some early exposure to
virtue, at least through poetry, and perhaps it is through this youthful
persuasion that Socrates will aid him in his education. Indeed Socrates
appeals often to his sense of the honorable and noble - which is related
to virtue even if improperly understood by Alkibiades. As the dialogue
proceeds from this point/ Socrates appears to be importantly concerned
with making Alkibiades virtuous through philosophy. He is trying to
persuade Alkibiades to let his reason rule him in his life, most
importantly in his desire to know himself. Perhaps, on this account, one
might acquire virtue in two ways, a Spartan nurture, for example, and
through philosophy. Again, however, Socrates stops before he has
said everything he might have said, and turns to the subject of wealth.
In fact, Scorates claims that he must not keep silent with regard to
riches if Alkibiades thinks about them at all. Thus, according to
Socrates, not only is it not strange to turn from the soul to wealth, but
it is even appropriate. Socrates must attest to the riches of Spartans,
who in land and slaves and horses and herds far outdo any estate in
Athens, and he most especially needs to report on the wealth of gold and
silver privately held in Lakedaimon. As proof for this assertion, which
certainly runs counter to almost anyone's notion of Spartan life,
Socrates uses a fable within this fabulous story. Socrates
assumes Alkibiades has learned Aesop's fables - somehow - for without
supplying any other details he simply mentions that there are many tracks
of wealth going into Sparta and none coming out. In order to explain
Socrates' otherwise cryptic remarks, the children's fable will be
recounted. Aesop's story concerns an old lion who must eat by his wits
because he can no longer hunt or fight. He lies in a cave pretending to
be ill and when any animals visit him he devours them. A fox eventually
happens by, but seeing through the ruse he remains outside the cave.
When ths lion asks why he doesn't come in, the fox responds that he sees
too many tracks entering the cave and none leaving it. The
lion and the fox represent the classic confrontation between power and
knowledge. 114 One notices that in the fable the animals generally believe
an opinion that proves to be a fatal mistake. The fox doesn't. He avoids
the error. The implication is that Socrates and Alkibiades have avoided
an important mistake that the rest of the Greeks have made. One can only
speculate on what it is precisely. They seem to be the only ones aware of
one of Sparta's qualities, a quality which, oddly, is in some sense
essential to Alkibiades' contest. Perhaps Socrates' use of the fable
merely suggests that erroneous opinions about the nature of one's true
contestant may prove fatal, but there may be more to it than that.
This fable fittingly appears in the broad context of nurture; myths
and fables are generally recognized for their pedagogic value. Any
metaphoric connection this fable brings to mind with the more famous
Allegory of the Cave in Plato's Republic will necessarily be
speculative. But they are not altogether out of place. The cave, in a
sense, represents the condition of most people's nurtures and thus
represents a fitting setting for a fable related in this dialogue. Given
Socrates' fears of what will happen to Alkibiades (132a, 135e) and
Alkibiades' own concern for the demos , the suggested image of people
(otherwise fit enough to be outside) being enticed into the cave and
unable to leave it might be appropriate. At any rate, in
terms of the argument for Sparta's wealth, this evidence does nothing to
show that the wealth is privately held. It is apparent, after all, that
the evidence indicates gold is pouring into Spsi’ts. from all over
Greece, but not coining' out of the country, whereas Socrates seems to
interpret this as private, not public wealth. Perhaps the reader may
infer from this that a difference between city and man is being subtly
implied. Socrates is suggesting that wealth is an important part of the
contest, and yet he includes himself in the contest at a number of
points. This rather inconclusive and ambiguous reference to the wealth of
Sparta and the Spartans might suggest that the difference between the city
and man regarding riches, may be that great wealth is good for a city
(for example, as Thucydides observes, wealth facilitates warmaking), and
is thus something a ruler should know how to acquire - but not so good
for an individual. Socrates' next statement supports this interpretation.
A king's being wealthy might not mean that he uses it privately. Socrates
informs Alkibiades that the king possesses the most wealth of any
Spartans for there is a special tribute to him (123a- b) . In any case,
however great the Spartan fortunes appear compared with the fortunes of
other Greeks, they are a mere pittance next to the Persian king's
treasures. Socrates was told this himself by a trustworthy person who
gathered his information by travelling and finding out what the local
inhabitants said. Socrates treats this as valuable information, yet
which, given his chosen way of life, he couldn't have acquired
firsthand. Large tracts of land are reserved for adorning the
Persian queen with clothes, individual items having land specially set
aside for them. There were fertile regions known as the "king's
wife's girdle," veil, etc.Certainly an indication of wealth, it also
seems to suggest a wanton luxury, especially on the part of women (and
which men flatter with gifts). Returning to the supposed
contest between Alkibiades and the Spartan and the Persian kings, Socrates
adopts a very curious framework for the bulk of the remainder of this
discourse. He continues in terms of the thoughts of the mother of the
king and proceeds as though she were, in part, in a dialogue with
Alkibiades 1 mother, Deinomakhe. If she found out that the son of
Deinomakhe was challenging her son, the king's mother, Amestris, would
wonder on what Alkibiades could be trusting. The manner in which Socrates
has the challenge introduced to Amestris does not reveal either of the
men's names. Only their mothers are referred to - and the cost of the
mothers' apparel seems to be as important to the challenge or contest as
the size of the sons' estates. Only after he is told that the barbarian
queen is wondering does the reader find out that her son's name is
Artaxerxes and that she is aware that it is Alkibiades who is
challenging her son. She might well have been completely ignorant of the
existence of Deinomakhe's family, or she may have thought it was
Kleinias, the madman (118e), who was the son involved. Since there is no
contest with regards to wealth - either in land or clothing - Alkibiades
must be relying on his industry and wisdom - the only thing the Greeks
have of any worth. Perhaps because she is a barbarian, or because
of some inability on her part, or maybe some subtlety of the Greeks, she
doesn't recognize the Greeks' speaking ability as one of their greatest
accomplishments. Indeed, both in the dialogue and historically, it was
his speaking ability on which Alkibiades was to concentrate much of his
effort, and through which he achieved many of his triumphs. Greeks in
general and Athenians in particular spent much time cultivating the art
of speaking. Sophists and rhetoricians abounded. Rhapsodists and actors
took part in the many dramatic festivals at Athens. Orators and
politicians addressed crowds of people almost daily Cor so it
seems). Socrates continues. If she were to be informed (with
reference to Alkibiades' wisdom and industriousness) that he was not yet
twenty, and was utterly uneducated, and further, was quite satisfied with
himself and re¬ fused his lover's suggestion to learn, take care of
himself and exercise his habits before he entered a contest with the
king, she would again be full of wonder. She would ask to what the youth
could appeal and would conclude Socrates and Alkibiades (and Deinomakhe)
were mad if they thought he could contend with her son in beauty ( kalos
), stature, birth, wealth, and the nature of his soul (123e). The last
quality, the nature of the soul, has the most direct bearing on the theme
of the dialogue, and as the reader remembers, is the promised but not
previously included part of the list of reasons for Alkibiades' high
opinion of himself (104a. ff.). Since it is also the most difficult to
evaluate, one might reasonably wonder what authority Amestris' judgement
commands. It is feasible for the reader to suspect that this is simply
Socrates' reminder that a mother generally favors her own son. But
perhaps her position and experience as wife and mother to kings enables
her in some sense to judge souls. Lampido, another woman, the
daughter, wife and mother of three different kings, would also wonder,
Socrates proposes, at Alkibiades' desire to contest with her son, despite
his comparatively ignoble ( kakos ) upbringing. Socrates closes the
discussion with the mothers of kings by asking Alkibiades if it is not shameful
that the mothers and wives (literally, "the women belonging to the
kings ) of their enemies have a better notion than they of the qualities
necessary for a person who wants to contend with them. The
problem of understanding human nature includes centrally the problem of
understanding sex and the differences between men and women. Thus
political philosophy necessarily addresses these matters. Half of a
polity is made up of women and the correct ordering of a polity re¬
quires that women, as well as men, do what is appropriate. However,
discovering the truth about the sexes is not simple in any event, partly
at least because of one's exclusion from personal knowledge about the
other sex; and it has become an arduous task to gather honest opinions
from which to begin reflecting. The discussion of women in this
central portion of the dialogue is invested with political significance
by what is explored later re¬ garding the respective tasks of men and
women (e.g., 126e-127b). Before proceeding to study the rest of this long
speech, it may be useful to briefly sketch two problem areas. Firstly the
outline of some of the range of philosophic alternatives presented by
mankind's division into two sexes will be roughly traced out. This will
foreshadow the later discussion of the work appropriate to the sexes.
Secondly, a suggestion shall be ventured as to one aspect of how 'wonder'
and philosophy may be properly understood to have a feminine element - an
aspect that is con¬ nected to a very important theme of this
dialogue. Thus, in order to dispel some of the confusion before
returning to the dialogue, the division of the sexes may imply, in terms
of an understanding of human nature, that there is either one ideal that
both sexes strive towards, or there is more than one. If there is one
goal or end, it might be either the 'feminine,' the 'masculine, a
combina¬ tion of the traits of both sexes, or a transcendent
"humanness" that rises above sexuality. The first may be
dismissed unless one is willing to posit that everything is
"out-of-whack" in nature and all the wrong people have
been doing great human deeds. Traditionally, the dominant opinion has
implicitly been that the characteristics of 'human' are for the most part
those called 'masculine', or that males typically embody these
characteristics to a greater extent. Should this be correct, then one may
be warranted in considering nature simply "unfair" in making half
of the people significantly weaker and less able to attain those
character¬ istics. Should the single ideal for both sexes be a
combination of the characteristics of both sexes, still other
difficulties arise. A normal understanding of masculine and feminine
refers to traits that are quite distinct; those who most combine the
traits, or strike a mean, appear to be those who are most sexually
confused. The other possibility mentioned was that there be two (or
more) sets of characteristics - one for man and one for woman. The
difficulty with this alternative is unlike the difficulties encountered
in the one- model proposal. One problem with having an ideal for each
sex, or even with identifying some human characteristics more with one
sex than the other, is that all of the philosophic questions regarding
the fitting place of each sex still remain to be considered.
Some version of this latter alternative seems to be endorsed later
in the First Alkibiades (126e-127b). There it is agreed £md agreement
frequently is the most easily met of the suggested possible criteria of
knowledge mentioned in the dialogue) that there are separate jobs for men
and women. Accordingly, men and women are said to be rightly unable to
understand each other's jobs and thus cannot agree on matters sur¬
rounding those jobs. One of the implications of this, however,
unmentioned by either Socrates or Alkibiades, is that women therefore
ought not to nurture young sons. A woman does not and cannot grasp what
it is to be a man and to have manly virtue. Thus they cannot raise manly
boys. However, this is contrary to common sense. One would think that if
there was any task for which a woman should be suited (even if it demands
more care than is often believed) it would be motherhood. Because of this
a mother would have to learn a man's business if she would bear great
sons. At this point the problems of the surface account of the First
Alkibiades become apparent to even the least reflective reader.
If it is the same task, or if the same body of knowledge (or
opinion) is necessary for being a great man as for raising a great man,
then at least in one case the subjects of study for men and women are not
exclusive. Women dominate the young lives of children. They must be able
to turn a boy's ambitions and desires in the proper direction until the
menfolk take over. Since it would pose practical problems for her to
attempt to do so in deed, she must proceed primarily through speech, in¬
cluding judicious praise and blame, and that is why the fables and myths
women relate ought to be of great concern to the men (cf. for example.
Republic 377b-c). If, on the other hand, it requires completely differ¬
ent knowledge to raise great sons than it does to be great men, then men,
by the argument of the dialogue should not expect to know women's work.
If this is the proper philosophic conclusion the reader is to reach,
then it is not so obviously disgraceful for the womenfolk to know better
than Socrates and Alkibiades what it takes to enter the contest (124a).
The disgrace, it seems, would consist in being unable to see the
contra¬ dictions in the surface account of the First Alkibiades , and
thus not being in a position to accept its invitation to delve deeper
into the problem of human nature. At this point a speculation
may be ventured as to why, in this dialogue, wonder takes on a
feminine expression, and why elsewhere. Philosophy herself is
described as feiminine Ce.g., Republic 495-b-c, 536c, 495e; Gorgias
482a; cf. also Letter VII 328e, Republic 499c-d, 548b-c, 607b). One
might say that a woman's secretiveness enhances her seductiveness. Women
are concerned with appearance (cf. 123c; the very apparel of the
mothers of great sons is catalogued) . Philosophy and women may be more
alluring when disclosure ("disclothesure") of their innermost
selves requires a certain persistence on the part of their suitors.
Philosophy in its most beguiling expression is woman-like. When
subtle and hidden, its mystery enhances its attractiveness. Perhaps it
will be suggested - perhaps for great men to be drawn to philosophy she
must adopt a feminine mode of expression, in addition to the promise of a
greater power; if viewed as a goddess she must be veiled, not wholly
naked. To further explore the analogue in terms of expression, one
notices that women are cautious of themselves and protective of their
own. They are aware, and often pass this awareness on to men that in some
circles they must be addressed or adorned in a certain manner in order to
avoid ridicule and appear respectable. As well, a woman's protection of
her young is expected. Philosophy, properly expressed, should be careful
to avoid harming the innocent; and a truly political philosopher should
be protective of those who will not benefit from knowing the truth. If
the truth is disruptive to the community, for example, he should be
most reluctant to announce it publicly. The liberal notion that every
truth is to be shared by all might be seen to defeminize philosophy.
Women, too in speech will lie and dissemble to protect their own; in deed,
they are more courageous in retreat, able to bear the loss of much in
order to ensure the integrity of that of which they are certain is of
most im¬ portance . Political philosophy is not only
philosophy about politics; it is doing (or at least expressing) all of
one's philosophizing in a politic way. Its expression would be
"feminine." This suggestion at least appears to square with the
role of women in the dialogue. It accounts for the mothers' lively
concern over the welfare and status of the power¬ ful; it provides a
possible understanding of how the 'masculine' and 'feminine' may have
complementary tasks; it connects the female to 'wonder'; it lets the
reader see the enormous significance of speech to politics; it reminds
one of the power of eros as a factor in philosophy, in politics, in
Socrates' attraction to Alkibiades, and in man's attraction to
philosophy; it helps to explain why both lines of descent, the maternal
as well as the paternal, are emphasized in the cases of the man coveting
power and the man seeking knowledge. Through the very ex¬ pression of
either, politics and philosophy become interconnected. Socrates
addresses Alkibiades as a blessed man and tells him to attend him and the
Delphic inscription, "know thyself." These people (presumably
Socrates is referring to the enemy, with whose wives they were speaking;
however, the analysis has indicated why the referent is left ambiguous:
there is a deeper sense of 'contest' here than war with Persians and
Spartans) are Socrates' and Alkibiades' competitors, not those whom
Alkibiades thinks. Only industriousness and techne will give them
ascendancy over their real competitors. Alkibiades will fail in achieving
a reputation among Greeks and barbarians if he lacks those qualities. And
Socrates can see that Alkibiades desires that reputation more than anyone
else ever loved anything. The reader may have noticed that the two
qualities Socrates men¬ tions are very similar to the qualities of the
Greeks mentioned by the barbarian queen above. Socrates is implicitly
raising the Greeks above the barbarians by making the Greek qualities the
most important, and he diminishes the significance of their victory in
terms of wealth and land. He thus simultaneously indicts them on
two counts. They do not recognize that Alkibiades is their big challenge,
sothey are in the disgraceful condition of which Alkibiades was accused,
namely not having an eye to their enemies but to their fellows. By
raising the Greek virtues above the barbarian qualities, Socrates
throws yet more doubt on the view that they are indeed the proper
contestants for Alkibiades. It is interesting that the barbarian queen
knew or believed these were the Greek's qualities but she did not
correctly estimate their importance. Another wonderful feature of
this longest speech in the First Alkibiades is the last line: "I
believe you are more desirous of it than anyone else is of
anything," (124b). Socrates ascribes to Alkibiades an extreme eros .
It may even be a stranger erotic attraction or will to power than that
marked by Socrates' eros for Alkibiades. But the philosopher wants to
help and is able to see Alkibiades' will. Socrates even includes himself
in the contest. Socrates is indeed a curious man. So ends the
longest speech in the dialogue. Alkibiades agrees. He wants that.
Socrates' speech seems very true. Alkibiades has been impressed with
Socrates' big thoughts about politics, for Socrates had indicated that he
is familiar enough with the greatest foreign political powers to make
plausible/credible his implicit is* orf or explicit criticism of them. Socrates
has also tacitly approved of Alkibiades 1 ambitions to rule not only
Athens, but an empire over the known world. Alkibiades must be impressed
with this sentiment in democratic Athens. In addition to all this,
Socrates has hinted to the youth that there is something yet bigger.
Alkibiades requests Socrates' assistance and will do whatever Socrates
wants. He begs to know what is the proper care he must take of
himself. Socrates echoes Alkibiades' sentiment that they must put
their heads together (124c; cf. 119b). This is an off-quoted line
from Homer's 119 Iliad. In the Iliad the decision had been
made- that information must be attained from and about the Trojans
by spying on their camp. The brave warrior, Diomedes, volunteered to go,
and asked the wily Odysseus to accompany him. Two heads were better than
one and the best wits of all the Greek heroes were the wits of Odysseus.
Diomedes recognized this and suggested they put their heads together as
they proceed to trail the enemy to their camp, enter it and hunt for
information necessary to an Akhaian victory. Needless to say,
the parallels between the Homeric account, the situation between
Alkibiades and Socrates, and the Aesopian fable, are intriguing. When
Alkibiades uttered these lines previously, it was appropriate in that he
requested the philosopher (the cunning man) to go with him. Alkibiades
and Socrates, like Diomedes and Odysseus, must enter the camp of the
enemy to see what they were up against in this contest of contests, so to
speak. Alkibiades, assuming the role of Diomedes, in a sense initiated
the foray although an older, wiser man had supplied the occasion for it.
Alkibiades had to be made to request Socrates' assistance. The part of
the dialogue following Alkibiades's quoting of Homer was a discussion of the
contest of the superior man and ostensibly an examination of the elements
of the contest. They thoroughly examined the enemy in an attempt to
understand the very nature of this most important challenge.
This time, however, the wilier one (Socrates/Odysseus) is asking
Alkibiades/Diomedes to join heads with him. The first use of the quote
served to establish the importance of its link to power and knowledge.
The second mention of the quote is perhaps intended to point to a
con¬ sideration of the interconnectedness of power and knowledge. In what
way do power and knowledge need each other? What draws Socrates and
Alkibiades together? The modern reader, unlike the Athenian
reader, might find an example from Plato more helpful than one from
Homer. Some of the elements of the relationship are vividly
displayed in the drama of the opening passages of the Republic .
The messenger boy runs between the many strong and the few 120 ...
wise. His role is similar to that of the auxiliary class of the
dialogue but is substantively reversed. Although he is the
go-between who carries the orders of one group to the other and has the
ability to use physical means to execute those orders (he causes Socrates
literally to "turn around," and he takes hold of Socrates'
cloak), he is carrying orders from those fit to be ruled to those fit to
rule. What is es¬ pecially interesting is the significance of these
opening lines for the themes of the First Alkibiades . The first speaker
in the Republic pro¬ vides the connection between the powerful and the
wise . And he speaks to effect their halt. There has to be a compromise
between those who know but are fewer in number, and those who are
stronger and more numer¬ ous but are unwise. The slave introduces
the problem of the competing claims to rule despite the fact that he has
been conventionally stripped of his. Polemarkhos, on behalf
of the many (which includes a son of Ariston) uses number and strength as
his claims over the actions of Socrates and Glaukon. Socrates suggests
that speech opens up one other possibility. Perhaps the Few could
persuade the Many. He does not sug¬ gest that the many use speech to
persuade the few to remain (although this is what in fact happens when
Adeimantos appeals to the novelty of a torch race). Polemarkhos asks
"could you really persuade if we don't listen?" and by that he
indicates a limit to the power of speech. Later in the dialogue it
is interesting that the two potential rulers of the evening's discussion,
Thrasymakhos and Socrates, seem to fight it out with words or at least
have a contest. The general problem of the proper relation between
strength and wisdom might be helpfully illuminated by close examination
of examples such as those drawn from the Republic , the Iliad and Aesop's
fable. In any event, Socrates and Alkibiades must again join heads.
Pre¬ sumably, the reader may infer, the examination of the Spartans and
Persians was insufficient. (That was suspected from the outset because Alkibiades
would rather die than be limited to Athens. Sparta and Persia would be
the proper contestants for someone intending only to rule Europe.) Per¬
haps they will now set out to discover the real enemy, the true
contestant. The remainder of the dialogue, in a sense, is a discussion of
how to com¬ bat ignorance of oneself. One might suggest that this is, in
a crucial sense, the enemy of which Alkibiades is as yet not fully
aware. Socrates, by switching his position with Alkibiades
vis-a-vis the guote, reminds the reader that Odysseus was no slouch at
courage and that Diomedes was no fool. It also foreshadows the switch in
their roles made explicit at the end of the dialogue. But even more
importantly, Socrates tells Alkibiades that he is in the same position as
Alkibiades. He needs to take proper care of himself too, and requires
education. His case is identical to Alkibiades' except in one respect.
Alkibiades' guardian Perikles is not as good as Socrates' guardian god,
who until now guarded Socrates against talking with Alkibiades. Trusting
his guardian, Socrates is led to say that Alkibiades will not be able to
achieve his ambitions except through Socrates. This rather
enigmatic passage of the First Alkibiades (124c) seems to reveal yet
another aspect of the relation between knowledge and power. If language
is central to understanding knowledge and power, it is thus instructive
about the essential difference, if there is one, between men who want
power and men who want knowledge. Socrates says that his guardian
(presumably the daimon or god, 103a-b, 105e), who would not let him waste
words (105e) is essentially what makes his case different than that of
Alkibiades. In response to Alkibiades' question, Socrates only emphasizes
that his guardian is better than Perikles, Alkibiades' guardian, possibly
because it kept him silent until this day. Is Socrates perhaps
essentially different from Alkibiades because he knows when to be silent?
The reader is aware that according to most people, Socrates and
Alkibiades would seem to differ on all important grounds. Their looks,
family, wealth and various other features of their lives are in marked
contrast. Socrates, however, disregards them totally, and fastens his
attention on his guardian. And the only thing the reader knows about his
guardian is that it affects Socrates' speech. Socrates claims that
because he trusts in the god he is able to say (he does not sense
opposition to his saying) that Alkibiades needs Socrates. To this
Alkibiades retorts that Socrates is jesting or playing like a
child. Not only may one wonder what is being referred to as a 121
jest, but one notices that Socrates surprisingly acknowledges that
maybe he is. He asserts, at any rate, he is speaking truly when he
re¬ marks that they need to take care of themselves - all men do, but
they in particular must. Socrates thereby firmly situates himself
and Alkibiades above the common lot of men. He also implies that the
higher, not the lower, is deserving of extra care. Needless to say, the
notion that more effort is to be spent on making the best men even better
is quite at odds with modern liberal views. Alkibiades
agrees, recognizing the need on his part, and Socrates joins in fearing
he also requires care. The answer for the comrades demands that there be
no giving up or softening on their part. It would not befit them to
relinquish any determination. They desire to become as accomplished as
possible in the virtue that is the aim of men who are good in managing
affairs. Were one concerned with affairs of horseman¬ ship, one would
apply to horsemen, just as if one should mean nautical affairs one would
address a seaman. With which men's business are they concerned, queries
Socrates. Alkibiades responds assured that it is the affairs of the
gentlemen ( kalos kai agathos) to whom they must attend, and these are
clearly the intelligent rather than the unintelligent. Everyone is
good only in that of which he has intelligence (125a). While the
shoemaker is good at the manufacture of shoes, he is bad at the making of
clothing. However, on that account the same man is both bad and good and
one cannot uphold that the good man is at the same time bad (but cf.
116a). Alkibiades must clarify whom he means by the good man. By altering
the emphasis of the discussion to specific intelligence or skills,
Socrates has effectively prevented Alkibiades from answering
"gentlemen" again, even if he would think that the affairs of
gentlemen in democracies are the affairs with which a good ruler should
be concerned. Given his purported ambitions, it is understandable
that Alkibiades thinks good men are those with the power to rule in a
polis (125b). Since there are a variety of subjects over which to rule,
or hold power, Socrates wants to clarify that it is men and not, for
example, horses, to which Alkibiades refers. Socrates undoubtedly knew
that Alkibiades meant men instead of horses; the pestiness of the
question attracts the attention of the reader and he is reminded of the
famous analogy of the city made by Socrates in the Apology . Therein, the
city is likened to a great horse ( Apology 30e). It would thus not be
wholly inappropriate to interpret this bizarre question in a manner
which, though not apparent to Alkibiades, would provide a perhaps more
meaning¬ ful analysis. Socrates might be asking Alkibiades if he intends
to rule a city or to rule men (in a city). It is not altogether out of
place to adopt the analogy here; corroborating support is given by the
very subtle philosophic distinctions involved later in distinguishing
ruling cities from ruling men (cf. 133e). For example, cities are not
erotic, whereas men are; cities can attain self-sufficiency, whereas men
cannot. It does not demand excessive reflection to see how erotic
striving and the interdependency of men affects the issues of ruling
them. What is good for a man, too, may differ from what is good for a
city (as mentioned above with reference to wealth), and in some cases may
even be incompatible with it. These are all issues which demand the
consideration of rulers and political thinkers. Additional endorsement
for the suitability of the analogy between city and man for interpreting
this passage, is provided by Socrates in his very next statement. He asks
if Alkibiades means ruling over sick men (125b). Earlier (107b-c) the two
had been dis¬ cussing what qualified someone to give advice about a sick
city. Alkibiades doesn't mean good rule to be ruling men at sea or
while they are harvesting (though generalship and farming, or defence and
agriculture, are essential to a city). He also doesn't conclude that good
rule is useful for men who are doing nothing (as Polemarkhos is driven to
conclude that justice is useful for things that are not in use - Republic
333c-e). In a sense Alkibiades is right. Rulers rule men when they are
doing things such as transacting business, and making use of each other
and whatever makes up a political life (125c). But rule in a precise, but
inclusive, sense is also rule over men when they are inactive. The
thoughts and very dreams are ruled by the true rulers, who have con¬
trolled or understood all the influences upon men. Socrates fastens
onto one of these and tries to find out what kind of rule
Alkibiades means by ruling over men who make use of men. Alkibiades
does not mean the pilot's virtue of ruling over mariners who make
use of rowers, nor does he mean the chorus teacher who rules flute
122 players who lead singers and employ dancers; Alkibiades
means ruling men who share life as fellow citizens and conduct business.
Socrates in¬ quires as to which techne gives that ability as the pilot's
techne gives the ability to rule fellow sailors, and the chorus teacher's
ability to rule fellow singers. At this point the attentive reader
notices that Socrates has slightly altered the example. He has introduced
an element of equality. When the consideration of the polis was made
explicit, the pilot and chorus teacher became "fellows"
-"fellow sailors" and "fellow singers." This serves at
least to suggest that citizenship in the polis is an equalizing element
in political life. To consider oneself a fellow citizen with another
implies a kind of fraternity and equality that draws people together.
Despite, say, the existence of differences within the city, people who
are fellow citizens often are closer to each other than they are to
outsiders who may otherwise be more similar. There is another sense
in which Socrates' shift to calling each expert a "fellow"
illuminates something about the city. This is dis¬ covered when one
wonders why Socrates employed two examples - the chorus teacher and the
pilot. One reason for using more than a single example is that
there is more than one point to illustrate. It is then up to the reader
to scrutinize the examples to see how they importantly differ. The onus
is on the reader, and this is a tactic used often in the dialogues.
Someone is much more likely to reflect upon something he discovered than
some¬ thing that is unearthed for him. One important distinction
between these two technae is that a pilot is a "fellow sailor"
in a way that the chorus teacher is not a "fellow singer." Even
in the event a pilot shares in none of the work of the crew rules (as the
chorus teacher need not actually sing), if the ship sinks, he sinks with
it. So too does the ruler of a city fall when his city falls. This is
merely one aspect of the analogy of the ship-of-state, but it suffices to
remind one that the ruler of a polity must identify with the polity,
perhaps even to the ex¬ tent that he sees the fate of the polity as his
fate (cf. Republic 412d). Perhaps more importantly, there is a
distinction between the chorus master and the pilot which significantly
illuminates the task of political rule. A pilot directs sailors doing a
variety of tasks that make sailing possible# whereas the chorus master
directed singers per¬ forming in unison . Perhaps political rule is
properly understood as in¬ volving both. Alkibiades suggests
that the techne of the ruler (the fellow- citizen) is good counsel# but
as the pilot gives good not evil counsel for the preservation of his
passengers, Socrates tries to find out what end the good counsel of the
ruler serves. Alkibiades proposed that the good counsel is for the better
management and preservation of the polis (126a). In the next
stage of the discussion Socrates makes a number of moves that affect the
outcome of the argument but he doesn't make a point of explicating them to
Alkibiades. Socrates asks what it is that becomes present or absent with
better management and preservation . He suggests that if Alkibiades were
to ask him the same question with respect to the body, Socrates would
reply that health became present and disease absent. That is not
sufficient. He pretends Alkibiades would ask what happened in a better
condition of the eyes# and he would reply that sight came and blindness
went. So too deafness and hearing are absent and present when ears are
improved and getting better treatment . Socrates would like Alkibiades#
now# to answer as to what happens when a state is improved and has better
treatment and management . Alkibiades thinks that friend¬ ship will be
present and hatred and faction will be absent. From the simple
preservation of the passangers of a ship# Socrates has moved to
preservation and better management# to improved and getting better
treatment# to improvement, better treatment and management. Simple
preservation# of course# is only good (and the goal of an appropriate
techne) when the condition of a thing is pronounced to be
satisfactory, such that any change would be for the worse. In a ship the
pilot only has to preserve the lives of his passengers by his techne , he
does not have to either make lives or improve them. In so far as a city
is in¬ volved with more than mere life, but is aiming at the good life,
mere preservation of the citizens is not sufficient. Socrates' subtle
trans¬ formation indicates the treatment necessary in politics.
Another point that Socrates has implicitly raised is the hierarchy
of technae . This may be quite important to an understanding of politics
and what it can properly order within its domain. Socrates employs the
examples of the body and the eyes (126a-b). The eyes are, however, a part
of the body. The body cannot be said to be healthy unless its parts,
including the eyes, are healthy; the eyes will not see well in a
generally diseased body. The two do interrelate, but have essentially different
virtues. The virtue of the eyes and thus the techne attached to that
virtue, are under/within the domain of the body and its virtue, health.
The doctor, then, has an art of a different order than the
optometrist. (The doctor and his techne may have competition for the care
of the body; the gymnastics expert has already been met and he certainly
has things to say about the management of the body - cf. 128c but the
principle there would be a comprehensive techne .) Given the example of
the relation of the parts to the whole, perhaps Socrates is suggesting
that there is an analogue in the city: the health of the whole city and
the sight of a part of the city. The reader is curious if the same
relation would hold as to which techne had the natural priority over the
other. Would the interests of the whole rule the interests of a part of
the city? Socrates' examples of the body and the part of the body
could, in yet another manner, lead toward contemplation of the political.
There is a possible connection between all three. The doctor might well
have to decide to sacrifice the sight of an eye in the interests of the
whole body. Perhaps the ruler (the man possessing the political techne)
would have to decide to sacrifice the health (or even life) of
individuals (may¬ be even ones as important as the "eyes" of
the city) for the well-being of the polis . Thus, analogously# the
political art properly rules the various technae of the body. Earlier
the reader had occasion to be introduced to a system of hierarchies
(108c-e). Therein he found that harping was ruled by music and wrestling
by gymnastics. Gymnastics, as the techne of the body, is, it is
suggested, ruled by politics. Perhaps music should also be ruled by
politics. In the Republic , gymnastics is to the body roughly what music
is to the soul. Both, however, are directed by politics and are a major
concern of political men. It is fortunate for Alkibiades that he is
familiar with harping and gymnastics (106e), so that as a politician he
will be able to advise on their proper performance. One already has
reason to suspect that the other subject in which Alkibiades took lessons
is properly under the domain of politics. Alkibiades believes
that the better management of a state will bring friendship into it and
remove hatred and faction. Socrates in¬ quires if he means agreement or
disagreement by friendship. Alkibiades replies that agreement is meant,
but one must notice that this sig¬ nificantly reduces the area of concern
to which Alkibiades had given voice. He had mentioned two kinds of
strife, and one needn t think long and hard to notice that friendship
normally connotes much more than agreement. Socrates next asks which
techne causes states to agree about numbers; does the same art,
arithmetic, cause individuals to agree among each other and with
themselves. In addition to whatever suspicion one entertains that this is
not the kind of agreement Alkibiades meant when he thought friendship
would be brought into a city with better management/ one must keep in
mind the similarity between this and an earlier argument (111c). In
almost the same words, people agreed "with others or by them¬
selves" and states agreed, with regard to speaking Greek, or more
pre¬ cisely, with naming. There are two features of this argument which
should be explored. Firstly, one might reflect upon whether agreement
between states is always essentially similar to agreement between people,
or agreement with oneself. People can fool themselves and they can
possess their own "language." Separate states may have separate
weights and measures, say, but individuals within a state must agree.
Secondly, there may be more than one kind of agreement with which the reader
should be concerned in this dialogue. This might be most apparent were
there different factors which compelled different people, in different
circum¬ stances, to agree. Men sometimes arrive at the same conclusions
through different reasons. The first two examples employed by
Socrates illuminate both of these points. Arithmetic and mensuration are
about as far apart as it is possible to be in terms of the nature of the
agreement. Mensuration is simply convention or agreement, and yet its
entire existence depends on people's knowing the standards agreed upon.
Numbers, on the contrary, need absolutely no agreement (except
linguistically in the names given to numbers) and no amount of agreement
can change what they are and their relation to each other.
The third example represents the type of agreement much closer to
that with which it is believed conventional politics is permeated. It is
the example of the scales — long symbolic of justice. Agreement with
people and states about weights on scales depends on a number of factors,
as does judgement about politics. There is something empirical to
observe, namely the action as well as the various weights; there is a
constant possibility of cheating (on one side or another) against which
they must take guard; there is a judgement to be made which is often
close, difficult and of crucial importance, and there is the general
problem of which side of the scale/polity is to receive the goods, and
what is the standard against which the goods are measured. To spell out
only one politically important aspect of this last factor, consider the
difference between deciding that a certain standard of life is to pro¬
vide the measure for the distribution of goods, and deciding that a
certain set of goods are to be distributed evenly without such a
standard. In one case the well off would receive no goods, they being the
standard; in the other case all would supposedly have an equal chance of
receiving goods. Other political factors are involved in determining what
should be weighed, what its value is, who should preside over the
weighing, and what kind of scale is to be used. The third example, the
scales, surely appears to be more pertinent to Socrates and Alkibiades
than either of the other two, although one notices that both arithmetic
and mensuration are involved in weighing. Alkibiades is
requested to make a spirited effort to tell Socrates what the agreement
is, the art which achieves it, and whether all parties agree the same
way. Alkibiades supposes it is the friendship of father and mother to
child, brother to brother and woman to man (126e). A good ruler would be
able to make the people feel like a family - their fellow citizens like
fellow kin. This seems to be a sound opinion of Alkibiades; many actual
cities are structured around families or clans or based on legends of
common ancestry (cf. Republic 414c-415d) . There is a complication,
however, which is not addressed by either participant in the dialogue.
Socrates had suggested three parts to the analysis of agreement - its
nature, the art that achieves it, and whether all agree in the same way.
Alkibiades in his response suggests three types of friendship which may
differ dramatically in all of the respects Socrates had mentioned. And
the political significance of the three kinds of friendship also has
different and very far-reaching effects. Consider the different ties, and
feelings that characterize man-woman relation¬ ships. And imagine the
different character of a regime that is patterned not on the parent-child
relation, but instead characterized by male-female attraction!
In a dialogue on the nature of man in which there is already
support for the notion that "descent" and "family" figure
prominently in the analysis of man's nature, it seems likely that the
three kinds of familial (or potentially familial) relationships mentioned
here would be worthy of close and serious reflection. Socrates, however,
does not take Alkibiades to task on this, but turns to an examination of
the notion that friendship is agreement, and the question of whether or
not they can exist in a polis . Socrates had himself suggested that
Alkibiades meant agreement by friendship (126c), and in this argument
that restricted sense of friendship plays a significant role in their
arriving at the unpalatable conclusion. The argument leads to the
assertion that friendship and agreement cannot arise in a state where
each person does his own business. asks Alkibiades if a
man can agree with a woman about wool—working when he doesn't have
knowledge of it and she does. And further, does he have any need to
agree, since it is a woman's accomplishment? A woman, too, could not come to
agreement with a man about soldiering if she didn't learn it - and it is
a business for men. There are some parts of knowledge appropriate to
women and some to men on this account (127a) and in those skills there is
no agreement between men and women and hence no friendship - if
friendship is agreement. Thus men and women are not befriended by each
other so far as they are per¬ forming their own jobs, and polities are
not well-ordered if each person does his own business (127b). This
conclusion is unacceptable to Alkibiades; he thinks a well-ordered polity
is one abounding in friend¬ ship, but also that it is precisely each
party doing his own business that brings such friendship into being.
Socrates points out that this goes against the argument. He asks if
Alkibiades means friendship can occur without agreement, or that
agreement in something may arise when some have knowledge while others do
not. These are presumably the steps in the argument which are susceptible
to attack. Socrates incidentally provides another opening in the argument
that could show the conclusion to be wrong. He points out that justice is
the doing of one's own work and that justice and friendship are tied
together. But Alkibiades, per¬ haps remembering his shame (109b-116d),
does not pursue this angle, having learned that the topic of justice is
difficult. In order to determine what, if anything, was wrongly said,
various stages of the argument will now be examined. By
beginning with the consideration of why anyone would suppose a state was
well-ordered when each person did his own business, one observes that
otherwise every individual would argue about everything done by
everybody. The reader may well share Alkibiades suspicion that what makes
a state well-ordered is that each does what he is capable of and trusts
the others to do the same. This indicates, perhaps, the major problems
with the discussion between Socrates and Alkibiades. Firstly, there are
many ways that friendship depends less upon agreement than on the lack of
serious disagreement. Secondly, agreement can occur, or be taken for
granted, in a number of ways other than by both parties having
knowledge. As revealed earlier in the dialogue, Alkibiades would
readily trust an expert in steering a ship as well as in fancy cooking
(117c-d). Regardless of whether it was a man's or a woman’s task, he
would agree with the expert because of his skill. In these instances he
agreed precisely because he had no knowledge and they did. Of course,
faith in expertise may be misplaced, or experts may lose perspective in
under¬ standing the position of their techne relative to others. But
though concord and well-ordered polities do not necessarily arise when
people trust in expertise, friendship and agreement can come about
through each man's doing his own business. Agreement between
people, thus, may come about when one recognizes his ignorance. It may
also arise through their holding similar opinion on the issue, or when
one holds an opinion compatible with knowledge possessed by another. For
example, a woman may merely have opinions about soldiering, but those
opinions may allow for agreement with men, who alone can have knowledge.
Soldiering is a man's work, but while men are at war the women may wonder
about what they are doing, or read stories about the war, or form
opinions from talking to other soldiers' wives, or have confidence in
what their soldier—husbands tell them. There is also a sense in
which, if war is business for men, women don't even need opinions about
how it is conducted for they are not on the battlefield. They need only
agree on its importance and they need not even necessarily agree on why
it is important (unless they are raising sons). Women will often agree
with men about waging war on grounds other than the men's. For example,
glory isn't a prime motivator for most women's complying with their
husbands' desires to wage war. It has been suggested that agreement may
arise on the basis of opinion and not knowledge, and further that
opinions need not be similar, merely com¬ patible. As long as the war is
agreed to by both sexes, friendship will be in evidence regardless of
their respective views of the motives of war. Apathy or some other
type of disregard for certain kinds of work may also eliminate
disagreement and discord, provided that it isn't a result of lack of
respect for the person's profession. For example, a man and a woman might
never disagree about wool-working He may not care how a spindle operates
and would not think of interfering. And he certainly wouldn't have to be
skilled at the techne of wool-working to agree with his wife whenever she
voiced her views - his agreement with her would rest on his approval of
the resulting coat. Socrates has not obtained from Alkibiades'
speech the power to learn what the nature of the friendship is that good
men must have. Alkibiades, invoking all the gods (he cannot be sure who
has dominion over the branch of knowledge he is trying to identify),
fears that he doesn't even know what he says, and has for some time been
in a very disgraceful condition. But Socrates reminds him that this is
the cor¬ rect time for Alkibiades to perceive his condition, not at the
age of fifty, for then it would be difficult to take the proper care. In
answer¬ ing Alkibiades' question as to what he should do now that he is
aware of his condition, Socrates replies he need only answer the
questions Socrates puts to him. With the favor of the god (if they can
trust in Socrates' divination - cf. 107b, 115a) both of them shall be
improved. What Socrates may have just implied is that while
Alkibiades' speech is unable to supply the power to even name the
qualities of a good man, Socratic speech in itself has the power to
actually make them better. All Alkibiades must do is respond to the
questions Socrates asks. The proper use of language, it is suggested, has
the power to make good men. One may object that speech cannot have that
effect upon a listener who is not in a condition of recognizing his
ignorance, but one must also recog¬ nize that speech has the power to
bring men to that realization. Almost half of the First Alkibiades is
overtly devoted to this task. Indeed it seems unlikely that people
perceive their plight except through some form of the human use of
language except when they are visually able to com¬ pare themselves to
others. It would be difficult to physically coerce men into perceiving
their condition. An emotional attempt to draw a person's awarness - such
as a mother's tears at her son's plight - needs speech to direct it; the
son must learn what has upset her. Speech is also necessary to point to
an example of a person who has come to a realization of his ignorance.
Socrates or someone like him, might discern his condition by himself, but
even he surely spent a great deal of time conversing with others to see
that their confidence in their opinions was unfounded. In any event, what
is important for the under¬ standing of the First Alkibiades is that
Socrates has succeeded in con¬ vincing Alkibiades that thoughtful dialogue
is more imperative for him at this point than Athenian politics.
Together they set out to discover (cf. 109e) what is required to
take proper care of oneself; in the event that they have never
previously done so, they will assume complete ignorance. For example,
perhaps one takes care of oneself while taking care of one's things
(128a). They are not sure but Socrates will agree with Alkibiades at the
end of the argu¬ ment that taking proper care of one's belongings is an
art different from care of oneself (128d). But perhaps one should survey
the entire argu¬ ment before commenting upon it. Alkibiades
doesn't understand the first question as to whether a man takes care of
feet when he takes care of what belongs to his feet, so Socrates explains
by pointing out that there are things which belong to the hand. A ring,
for example, belongs to nothing but a finger. So too a shoe belongs to a
foot and clothes to the body. Alkibiades still doesn't understand what it
means to say that taking care of shoes is taking care of feet, so
Socrates employs another fact. One may speak of taking correct care of
this or that thing, and taking proper care makes something better. The
art of shoemaking makes shoes better and it is by that art that we take
care of shoes. But it is by the art of making feet better, not by
shoemaking, that we improve feet. That art is the same art whereby the
whole body is improved, namely gymnastic. Gymnastic takes care of
the foot; shoemaking takes care of what belongs to the foot. Gymnastic
takes care of the hand; ring engraving takes care of what belongs to the
hand. Gymnastic takes care of the body; weaving and other crafts take
care of what belongs to the body. Thus taking care of a thing and
taking care of its belongings involve separate arts. Socrates repeats
this conclusion after suggesting that care of one's belongings does
not mean one takes care of oneself. Further support is here
recognized, in this dialogue, for a hierarchical arrangement of the technae
, but that simultaneously somewhat qualifies the conclusion of the
argument. Gymnastic is the art of taking care of the body and it
thus must weave into a pattern all of the arts of taking care of
the belongings of the body and of its parts. Its very control over
those arts, however, indicates that they are of some importance to
the body. Because they have a common superior goal, the taking care
of the body, they are not as separate as the argument would
suggest. Just as shoes in bad repair can harm feet, shoes well made
may improve feet (cf. 121d, for shaping the body). They are often
made in view of the health or beauty of the body as are clothes and
rings. Because things which surround one affect one, as one's
activities and one's reliance on some sorts of possessions affect
one, proper care for the be- 123 longings of the body
may improve one's body. Socrates continues. Even if one cannot yet
ascertain which art takes care of oneself, one can say that it is not an
art concerned with improving one's belongings, but one that makes one
better. Further, just as one couldn't have known the art that improves
shoes or rings if one didn't know a shoe or a ring, so it is impossible
that one should know the techna that makes one better if one doesn't know
oneself (124a). Socrates asks if it is easy to know oneself and that
therefore the writer at Delphi was not profound, or if it is a difficult
thing and not for everybody. Alkibiades replies that it seems sometimes
easy and sometimes hard. Thereupon Socrates suggests that regardless of
its ease or difficulty, knowledge of oneself is necessary in order to
know what the proper care of oneself is. It may be inferred from this
that most people do not know themselves and are not in a position to know
what the proper care of themselves is. They might be better off should
they adopt the opinions of those who know, or be cared for by those who
know more. In order to understand themselves, the two men must find out
how, generally, the 'self' of a thing can be seen (129b),
Alkibiades figures Socrates has spoken correctly about the way to
proceed, but instead of 124 thus proceeding, Socrates
interrupts in the name of Zeus and asks whether Alkibiades is talking to
Socrates and Socrates to Alkibiades. Indeed they are. Thus Socrates says,
he is the talker and Alkibiades the hearer. This is a thoroughly baffling
interruption, for not only is its purpose unclear, but it is contradictory.
They have just agreed that both were talking. Socrates pushes
onward. Socrates uses speech in talking (one suspects that most people
do). Talking and using speech are the same thing, but the user and the
thing he uses are not the same thing. A shoemaker who cuts uses tools,
but is himself quite different from a tool; so also is a harper not the
same as what he uses when harping. The shoemaker uses not only
tools but his hands and his eyes, so, if the user and the thing used are
different, then the shoemaker and harper are different from the hands and
eyes they use. So too, since man uses his whole body, he must be
different from his body. Man must be the user of the body, and it is the
soul which uses and rules the body. No one, he claims, can disagree with
the remark that man is one of three things. Alkibiades may or may not
disagree, but he needs a bit of clarification. Man must be soul, or
body, or both as one whole. Al¬ ready admitted is the proposition that it
is man that rules the body, and the argument has shown that the body is
ruled by something else, so the body deesn't rule itself. What remains is
the soul. The unlikeliest thing in the world is the combination of
both, gQQj-^-(- 0 g suggests (130b) , for if one of the combined ones was
said not to share in the rule, then the two obviously could not rule. It
is not necessary to point out to the reader that the possibility of a
body's share in the rule was never denied, nor to indicate that what
Socrates ostensibly regards as the unlikeliest thing of all, is
what it seems most reasonable to suspect to be very like the truth.
Emotions and appetites, so closely connected with the body, are a
dominant and dominating part of one's life. They account for a major part
of people's lives, and even to a large extent influence their reason (a
faculty which most agree is not tied to the body in the same way). The
soul might be seen to be at least partly ruled by the body if it is
appetites and emotions which affect whether or not reason is used and
influence what kind of decisions will be rationally determined.
Anyhow, according to Socrates, if it is not the body, or the com¬
bined body and soul, then man must either be nothing at all, or he must
be the soul (130c). But the reader is aware that only on the briefest of
glances does this square with "the statement that no one could
dissent to," (cf. 130a). Man cannot be 'nothing' according to that
statement any more than he can be anything else whatsoever, such as
'dog,' 'gold,' 'dream,' etc. 'Nothing' was not one of the
alternatives. Alkibiades swears that he needs no clearer proof that
the soul is man, and ruler of the body, but Socrates, overruling the
authority of Alkibiades' oath, responds that the proof is merely
tolerable, sufficing only until they discover that which they have just
passed by because of its complexity. Unaware that anything had been
by-passed (Socrates had interrupted that part of the discussion with his
first conventional oath - 129b), the puzzled Alkibiades asks Socrates. He
receives the reply that they haven't been considering what generally
makes the self of a thing discoverable, but have been looking at
particular cases (130d; cf. 129b). Perhaps that will suffice, for the
soul surely must be said to have a more absolute possession of us than
anything else. So, whenever Alkibiades and Socrates converse with
each other, it is soul conversing with soul; the souls using words
(130d.l). Socrates, when he uses speech, talks with Alkibiades' soul, not
his face. Socratic speech is thus essentially different from the speech
of the crowds of suitors who conversed with Alkibiades (103a, cf. also
106b). If Socrates' soul talks with Alkibiades' soul and if Alkibiades is
truly listening, then it is Alkibiades' soul, not one of his belongings
that hears Socrates (cf. 129b-c). Someone who says "know
thyself" (cf. 124a, 129a) means "know thy soul"; knowing
the things that belong to the body means knowing what is his, but not
what he is. The reader will note how the last two steps of the
argument subtly, yet definitely, indicate the ambiguous nature of the
body's position in this analysis. Someone who knows only the belongings
of the body will not know the man. According to the argument proper,
someone who knew the body, too, would still only know a man's
possessions, not his being. Socrates continues, pressing the
argument to show that no doctor or trainer, insofar as he is a doctor or
a trainer, knows himself. Farmers and tradesmen are still more
remote, for their arts teach only what belongs to the body (which is
itself only a possession of the man) and not the man (131a). Indeed, most
people recognize a man by his body, not by his soul, which reveals his
true nature. 126 gocrates pauses briefly to introduce
consideration of a virtue. Seemingly out of the blue, he remarks that
"if knowing oneself is temperance" then no craftsman is
temperate by his te c h ne (131b). Because of this the good man disdains
to learn the technae . This sudden intro¬ duction of the virtue/ defining
temperance as self-knowledge/ will assume importance later in the
dialogue (e.g., at 133c). Returning to the argument, Socrates
proposes that one who cares for the body cares for his possessions. One
who cares for his money cares not for himself, nor for his possessions,
but for something yet more remote. He has ceased to do his own
business. Those who love Alkibiades' body don't love Alkibiades but
his possessions. The real lover is the one who loves his soul. The
one who loves the body would depart when the body's bloom is over,
whereas the lover of the soul remains as long as it still tends to the
better. Socrates is the one that remained; the others left when the bloom
of the body was over. Silently accepting this insult to his looks, one of
his possessions, Alkibiades recognizes the compliment paid to himself.
The account of the cause of Socrates' remaining and the others'
departure, however, has changed somewhat from the beginning CIO3b, 104c).
Then the lovers left because a quality of Alkibiades' soul was too much
for them (but not for Socrates) to handle. Now it is a decline in a
quality of the body that apparently caused them to depart, but it is
still an appreciation of the soul that retains Socrates' interest.
Perhaps the significance of this basic shift is to indicate to
Alkibiades the true justification for his self-esteem. His highminded¬
ness was based on his physical qualities and their possessions, not on
his soul. Socrates may be insulting the other lovers, but he is at the
same time making it difficult for Alkibiades to lose his pride in the
things of the body. Thus Socrates' reinterpretation of the reasons for
the lovers' departure reinforces the point of the argument, namely
that one's soul is more worthy of attention and consideration than one's
body. Alkibiades is glad that Socrates has stayed and wants him to
re¬ main. He shall, at Socrates' request, endeavour to remain as
handsome as he can. So Alkibiades, the son of Kleinias, "has
only one lover and 128 that a cherished one,"
Socrates, son of Sophroniskos and Phainarite. Now Alkibiades knows
why Socrates alone did not depart. He loves Alkibiades, not merely what
belongs to Alkibiades (131e). Socrates will never forsake
Alkibiades as long as he (his soul) is not deformed by the Athenian
people. In fact that is what especially concerns Socrates. His greatest
fear is that Alkibiades will be damaged through becoming a lover of the
demos - it has happened to many good Athenians. The face (not the soul?)
of the "people of great-hearted Erekhtheos" is fair, but to see
the demos stripped is another thing. As the dialogue approaches its end,
Socrates becomes poetic in his utter¬ ances. On this occasion he
prophetically quotes Homer ( Iliad II, 547). When listing the
participants on the Akhaian side of the Trojan War, Homer describes
the leader of the Athenians, the "people of the great¬ hearted
Erekhtheos," as one like no other born on earth for the arrange¬
ment and ordering of horses and fighters. Alkibiades would become famous
for his attempts to order poleis and his arranging of naval military
forces. In the Gorgias, Scorates relates a myth about the final
judgement of men, and one of the interesting features of the story is
that the judges and those to be judged are stripped of clothes and bodies
( Gorgias 523a-527e). 129 All that is judged is the soul. This allows the
judges to perceive the reality beneath the appearance that a body and its
belong¬ ings provide. Flatterers (120b) would not be as able to get to
the Blessed Isles/ although actually, in political regimes, living judges
are often fooled by appearances. Judges too are stripped so that they
could see soul to soul (133b; cf. Gorgias 523d), and would be less likely
to be moved by rhetoric, poetry, physical beauty or any other of the
elements that are tied to the body through, for example, the emotions and
appetites. It seems thus good advice for anyone who desires to enter
politics that he get a stripped view of the demos . In addition, those
familiar with the myth in the Gorgias might recognize the importance of
Alkibiades stripping himself, and coming to know his own soul, before he
enters politics. Socrates is advising Alkibiades to take the proper
precautions. He is to exercise seriously, learning all that must be known
prior to an entry into politics (132b). Presumably this knowledge will
counteract the charm of the people. Alkibiades wants to know what the
proper exer¬ cises are, and Socrates says they have established one
important thing and that is knowing what to take care of. They will not
inadvertently be caring for something else, such as, for example,
something that only be¬ longs to them. The next step, now that they know
upon what to exercise, is to care for the soul and leave the care of the
body and its possessions to others. If they could discover
how to obtain knowledge of the soul, they would truly "know
themselves." For the third time Socrates refers to the Delphic
inscription (132c; 124a, 129a) and he claims he has discovered another
interpretation of it which he can illustrate only by the example of
sight. Should someone say "see thyself" to one's eye, the eye
would have to look at something, like a mirror, or the thing in the eye
that is like a mirror (132d-e). The pupil of the eye reflects the face
of the person looking into it like a mirror. Looking at anything
else (except mirrors, water, polished shields, etc.) won't reflect it.
Just as the eye must look into another eye to see itself, so must a
soul look into another soul. In addition it must look to that very part
of the soul which houses the virtue of a soul - wisdom - and any part
like wisdom (133b; cf. 131b). The part of the soul containing knowledge
and thought is the most divine, and since it thus resembles god, whoever
sees it will recognize all that is divine and will get the greatest
knowledge of himself. In order to see one's own soul
properly, then, Socrates suggests that it is necessary to look into another's
soul. Alkibiades must look into someone's soul to obtain knowledge of
himself, and he must possess knowledge of himself in order to be able to
rule himself. This last is a prerequisite for ruling others. Since it
lacks a 'pupil,' the soul doesn't have a readily available window/mirror
for observing another's soul, as the eye does for observing oneself
through another's eye. Such vision of souls can only be had through
speech. Through honest dialogue with trusted friends and reflection upon what
was said and done, one may gain a glimpse of their soul. The souls must
be "stripped" so that words are spoken and heard truly.
Socrates, by being the only lover who remained, and, having shown his
value to Alkibiades, will continue to speak (104e, 105e). He is offering
Alkibiades a look at his soul. This is in keeping, it appears, with
the advice that Alkibiades look to the rational part of the soul.
Socrates is the picture of the rational man; through his speech the
reader is also offered the oppor¬ tunity to try to see into Socrates'
soul to better understand his own. Again, as discussed above, a man's
nature can be understood by looking to the example of the best, even if it
is only an imitation of the best in Dialogues. Socrates now
recalls the earlier mention of temperance as though they had come to some
conclusion regarding the nature of the virtue. They had supposedly
agreed that self-knowledge was temperance (133c; cf. 131b). Lacking
self-knowledge or temperance, one could not know one's belongings,
whether they be good or evil. Without knowing Alkibiades one could not
know if his belongings are his. Ignorance of one's be¬ longings prohibits
familiarity with the belongings of belongings (133d). Socrates reminds
Alkibiades that they have been incorrect in admitting people could know
their belongings if they didn't know themselves (133d-e). This
latter argument raises at least two difficulties. Firstly, it renders
problematic the suggestion that one should leave one's body and
belongings in another's care (132c). These others, it seems, would be
doctors and gymnastics trainers - the only experts of the body ex¬
plicitly recognized in the dialogue. Remembering that neither doctor or
trainer knows himself (131a), one might wonder how he can know Socrates'
and Alkibiades' belongings. He cannot, according to the argument here
(133c-d) know his own belongings without knowing himself and he cannot be
familiar with others' belongings while ignorant of his own. The
argument, secondly, creates a problem with the understanding heretofore
suggested about how men generally conduct their lives. Most people do not
know themselves and do not properly care for themselves. The
argument of the dialogue has intimated that they in fact care for their
belongings. Thus it would seem that, in some sense, they do know their
belongings, just as Alkibiades' lovers, ignorant of Alkibiades and
probably ignorant of themselves, still know that Alkibiades' body belonged
to Alkibiades. And they knew, like he knew C104a-c) that his looks and
his wealth belong to his body. The reader might conclude from this that
the precise knowledge they do not have is knowledge either of what the
belongings should be like, or what their true importance and proper role
in a man's life should be. Knowledge of one's soul would consist, partly,
in knowing how to properly handle one's belongings. That allows one
to do what is right, and not merely do what one likes. It is the
task of one man and one techne (the chief techne in the hierarchy) to
grasp himself, his belongings, and their belongings. Some¬ one who
doesn't know his belongings won't know other mens'. And if he doesn't
know theirs, he won't know those of the polity. This last remark
raises the consideration of what constitutes the belongings of a polity.
And that immediately involves one in reflection upon whether the city has
a body, and a soul. What is the essence of the city? The reader is invited
to explore the analogy to the man, but even more, it is suggested that he
is to reflect upon how to establish the priority of one over the other.
This invitation is indicated by the dis¬ cussion of the one techne that
presides over all the bodies and belong¬ ings. The relation of the city
to the individual man has been of perennial concern to political
thinkers, and a most difficult aspect of the problem terrain involves the
very understanding of the City and Man (cf. 125b). The
question is multiplied threefold with the possibility that an adequate
understanding of the city requires an account of its soul, its body and
its body's belongings. An account of man, it has been suggested in this
dialogue, demands knowing his soul, body, possessions, and the
relation and ordering of each. It is quite possible that what is
proper best for a man will conflict with what is best for a city.
The city might be considered best off if it promotes an average
well-being. Having its norm, or median, slightly higher than the
norm of the next city would indicate it was better off. It is also
possible that the cir¬ cumstances within which each and every man thrives
would not necessarily bring harmony to a city. The problem of
priority is further complicated by the introduction of the notion that
the welfare of each citizen is not equally important to the city. Perhaps
what is best for a city is to have one class of its members excel, or to
have it produce one great man. What is to be under¬ stood as the good of
the city's very soul? Furthermore, even if the welfare of the whole
city is to be identified with the maximum welfare of each citizen, it
might still be the case that the policies of the city need to increase
the welfare of a few people. For example, in time of war the welfare of
the whole polity depends on the welfare of a few men, the armed forces.
As long as war is a threat, the good of the city Cits body, soul, or
possessions) could depend on the exceptional treatment of one class of
its men. Knowledge of the true nature of the polity is essential
for political philosophy and so for proper political decision-making.
Men ignorant of the polity, the citizens, or themselves cannot be
statesmen or economists (133e; cf. Statesman 258e). Such a man, ignorant
of his and others' affairs will not know what he is doing, therefore
making mistakes and doing ill in private and for the demos . He and they
will be wretched. Temperance and goodness are necessary
for well-being, so it is bad men who are wretched. Those who attain temperance
not those who become wealthy, are released from this misery. ^ Similarly,
cities need virtue for their well-being, not walls, triremes,
arsenals, numbers or size (134b; The full impact of this will be
felt if one remembers that this dialogue is taking place
immediately prior to the outbreak of the war with Sparta. Athens is
in full flurry of preparation, for she has seen the war coming for
a number of years) . Proper management of the polis by Alkibiades
would be to impart virtue to the citizens and he 131
could not impart it without having it (134c). A good governor has
to acquire the virtue first. Alkibiades shouldn't be looking for
power as it is conventionally understood - the ability to do whatever one
pleases - but he should be looking for justice and temperance. If he and
the state acted in accordance with those two virtues, they would please
god; their eyes focussed on the divine, they will see and know themselves
and their good. If Alkibiades would act this way, Socrates would be ready
to guarantee his well-being (134e). But if he acts with a focus on the
god¬ less and dark, through ignorance of humself his acts will go godless
and dark. Alkibiades has received the Socratic advice to
forget about power as he understands it, in the interest of having real
power over at least himself. Conventionally understood, and in most
applications of it, power is the ability to do what one thinks fit (
Gorgias 469d) . Various technae give to the skilled the power to do what
they think fit to the material on which they are working. The technae ,
however, are hier¬ archically arranged, some ruling others. That is, some
are archetectonic with respect to others. What is actually fit for each
techne is dictated by a logically prior techne . The techne with the most
power is the one that dictates to the other techne what is fit and what
is not. This understanding seems to disclose two elements of
power: the ability to do what one thinks is fit, and knowing what is
fit. If a man can do what he wants but is lacking in intelligence,
the result is likely to be disastrous (135a; Republic 339a-e,
Gorgias 469b, 470a). If a man with tyrannical power were sick and
he couldn't even be talked to, his health would be destroyed. If he
knew nothing about navigation, a man exercising tyrannical power as
a ship's pilot may well 132 cause all on board to
perish. Similarly in a state a power without excellence or virtue
will fare badly. It is not tyrannical power that Alkibiades should
seek but virtue, if he would fare well, and until the time he has virtue,
it is better, more noble and appropriate for a man, as for a child, to be
governed by a better than to try to govern; part of being 'better'
includes knowledge that right rule is in the subject's interest. It is
appropriate for a bad man to be a slave; vice befits a slave,
virtue a free man (135c; it seems strange that vice should be
appropriate for anyone, slave or free, perhaps, rather, it defines a
slave). One should most certainly avoid all slavery and if one can
perceive where one stands, it may not at present be on the side of the
free (135c). Socrates must indicate to Alkibiades the importance of a
clearer understanding of both what he desires, power, and what this
freedom is. In a conventional, and ambigu¬ ous sense, the man with the
most freedom is the king or tyrant who is not sub ject to anyone.
Socrates must educate Alkibiades. The man who wants power like the man
who seeks freedom, doesn't know substantively what he is looking for; the
only power worth having comes with wisdom, which alone can make one
free. Socrates confides to Alkibiades that his condition ought not
to be named since he is a noble ( kalos) man (cf. 118b - is this
another condition which will remain unnamed despite their solitude?).
Alkibiades must endeavour to escape it. If Socrates will it, Alkibiades
replies, he will try. To this Socrates responds that it is only noble to
say "if god wills it." This appears to be Socrates' pious
defence to a higher power. However, since he has drawn attention to the
phrase himself, a reminder may be permitted to the effect that it is not
necessarily quite the conventional piety to which he refers: a strange
parade of deities has been presented for the reader's review in this
dialogue. Alkibiades is eager to agree and wants, fervently, to
trade places with Socrates (135d). From now on Alkibiades will be
attending Socrates. Alkibiades, this time, will follow and observe
Socrates in silence. For twenty years Socrates has been silent toward
Alkibiades, and now, thinking it appropriate to trade places, Alkibiades
recognizes that silence on his part will help fill his true, newly found
needs. In the noise-filled atmosphere of today, it is especially
difficult to appreciate (and thus to find an audience that appreciates)
the im¬ portance of the final aspect of language that will be discussed
in connection with knowledge and power - silence. The use of silence
for emphasis is apparently known to few. But note how a moment of
silence on the television draws one's attention, whether or not the
program was being followed. And an indication of a residual respect for
the power of silence is that one important manner of honoring political
actors and heroes is to observe a moment of silence. Think, too, how
judicious use of silence can make someone ill at ease, or cause them to
re-examine their speech. The words "ominous" and
"heavy" may often be appropriately used to describe silence. Silence
can convey knowledge as well as power, and as the above examplss may
serve to show, it may have a significant role in each. When one begins to
examine the role of silence in the lives of the wise and the powerful,
one begins to see some of the problems of a loud society. To
start with, the reader acquaints himself with the role of silence in
political power. As witnessed in the dialogue, and, as well, in modern
regimes, there are many facets of this. Politicians must be silent about
much. Until recently, national defence was an acceptable excuse for
silence on the part of the leaders of a country. The exist¬ ence of a
professional "news" gathering establishment necessitates that
this silence be total, and not only merely with respect to external
powers, for some things that the enemy must not know must be kept from
the citizens as well (cf. 109c, 124a). Politicians are typically
silent about some things in order to attain office, and about even more
things in order to retain it. Dis¬ senters prudently keep quiet in order
to remain undetained or even alive. Common sense indeed dictates that one
observe a politic silence on a wide variety of occasions. Men in the
public eye may conceal their dis¬ belief in religious authority in the
interests of those in the community who depend on religious conviction
for their good conduct. Most con¬ sider lying in the face of the enemy to
be in the interests of the polity, and all admire man who keeps silent
even in the face of severe enemy torture. Parents often keep silent to
protect their children, either when concerned about outsiders or about
the more general vulnerability of those unable to reason. One
important political use of silence is in terms of the myths and fables
related to children. Inestimable damage may be done when the "noble
lie" that idealistically structures the citizen's understanding of
his regime is repudiated in various respects by the liberal desire to
expose all to the public in the interests of enlightenment. At the point
where children are shown that the great men they look up to are
"merely human," one most clearly sees the harm that may be done
by breaking silence. Everybody becomes really equal, despite appearances
to the con¬ trary, since everyone - even the heroes - acts from deep,
irrational motives, appetites, fears, etc. High ideals and motives for
action are debunked. Since many of the political uses of
silence mentioned above con¬ cern appropriate silence about things known,
the next brief discussion will focus on silence and knowledge. The
primary aspect of the general concern for silence in the life devoted to
the pursuit of knowledge is a function of the twin features of political
awareness and political con¬ cern. Though closely tied to the
aforementioned appropriate uses of silence, this is concerned less with
the disclosure of unsalutary facts about the life and times of men than
with questions and truths of a higher order. For example, if it could be
discerned that man's condition was abysmal, that he would inevitably
become decadent, it would not be politically propitious to announce the
fact on the eight-o'clock newscast There seem to be at least two
situations in which such facts are revealed A politically unaware man
might not realize it; a politically aware but somehow unconcerned man
might not care about the well-being of the community as a whole.
There are at least two additional respects in which silence is im¬
portant to the life of knowledge. Both play a part in Alkibiades' educa¬
tion in the First Alkibiades and contribute to his desire to trade places
with Socrates. Firstly one must be silent to learn what others have
to say. On the face of it, this seems a trivial and fairly obvious thing
to say. However when one appreciates the importance of trust and friend¬
ship in philosophic discourse, one perceives that the notion of silence
important to this aspect of learning is much broader than the mere
logistics of taking turns speaking. To mention only a single example, one
has to prove one's ability to "keep one's mouth shut" in order
to develop the kind of trust essential to frank discussion among
dialogic partners. Secondly, silence enhances mystery if
there is reason to suspect that the silent know more than they have
revealed. This attraction to the mysterious accounts for many things,
including to mention only one example, the great appeal of detective
stories. If both witnesses and the author did not know more than they let
on in the beginning, if the reader/detective did not have to take great
care in extracting the truth from muddled accounts, it is not likely that
the genre would have the enduring readership it now enjoys.
Both of these might be tied directly to Socrates' initial silence
toward Alkibiades. Socrates had kept quiet until Alkibiades had reached a
certain stage in the development of his ambition. His prolonged silence,
and then his repeated reminders of it, as he begins to speak, increases
Alkibiades' curiosity. As it becomes more and more apparent to Alkibiades
that Socrates knows what he is talking about, Alkibiades becomes
increasingly desirous of learning. He wants Socrates to reveal the truth
to him, the truth he suspects Socrates is keeping to himself (e.g., 124b,
132b, 127e, 119c, 130d, 131d, 135d). Throughout the dis¬ cussion the men
discuss ever more important subjects and it is readily apparent that
their mutual trust grows at least partly because of their recognition of
what is appropriately kept silent (e.g., 109c, 118b, 135c). In
addition, at yet another level, it has been frequently ob¬ served that
Socrates' silence ragarding a part of the truth, or the necessity of an
example, or a segment of the argument, indicates to the careful reader a
greater depth to the issues. Recognition of this silence increases the
philosophic curiosity of the readers as he attempts to discover both the
subject of, and the reason for, the silence. Alkibiades has
suggested that he shall switch "places" with Socrates. Socrates
has attended on him for all this time and now Alkibiades wants to follow
Socrates. This is only one of a number of "switches" that occur
in the turning around of Alkibiades, witnessed only by Socrates and the
careful reader. In the beginning Socrates says that the lovers of
Alkibiades left because his qualities of soul were too overpowering. He
is flatter¬ ing Alkibiades in order, perhaps, to entice Alkibiades to
begin listening. In the end he suggests they ceased pursuing the youth
because the bloom of his beauty (the appearance of his body) has departed
from him. At first glance this is not complimentary at all. Nevertheless
it is now that Alkibiades claims to want very much to remain and listen.
He will even bear insults silently. At the start Alkibiades
is haughty, superior and self-sufficient. In the end he wishes to
please Socrates, recognizing his need for the power of speech in his
coming to know himself. At first he believes he already knows, and
arguments seem extraneous. By the end he wants to talk over the proper
care of his soul at length with Socrates. Probably the most notable
turning around in the dialogue is the lover—beloved switch between the
beginning and the end (cf. also Symposium 217d). But a number of puzzling
features come to the fore when one attempts to draw out the implications
of the change. In what way is their attraction switched? Socrates is
attracted to Alkibiades' un¬ quenchable eros . Perhaps a mark of its great
will for power is that it is now directed toward Socrates. However, what
does that suggest about Socrates' eros in turn, either in terms of its
strength or its direction? What kind of eros is attracted to a most
powerful eros which in turn is directed back to it? Do Socrates and
Alkibiades both have the same in¬ tensity of desires and are their
ambitions not directed toward the same ends? Perhaps
Socrates' answer will suffice. He is pleased with the well-born man. His
eros is like a stork - he has hatched a winged eros and it returned to
care for him. (This is the first indication that Socrates assumes
responsibility for the form of Alkibiades' desires; it also indicates
another whole series of problems regarding how Alkibiades will "care
for" Socrates). They are kindred souls (or at least have kindred
eros) , and their relationship is now one of mutual aid. Socrates will
look into Alkibiades' soul to find his own and Alkibiades will peer into
Socrates' soul in attempting to discern his. The reader is im¬ plicitly
invited to look too; he has the privilege starting again and examining
the souls more closely each time he returns to the beginning.
Alkibiades agrees that that is the situation in which they find
themselves and he will immediately begin to be concerned with justice.
Socrates wishes he'll continue, but expresses a great fear. In an ironic
premonition of both their fates, he says he doesn't distrust Alkibiades'
nature, but, being able to see the might of the state (cf. 132a), he
fears that both of them will be overpowered.There is always an irony involved
in concluding an essay on a Platonic dialogue. The most fitting
ending, it seems, would be to whet one's appetite for more. This I
shall attempt to do by pointing out an intriguing feature about the
dialogue in general. If one were to look at the Platonic corpus as
a kind of testament to Socrates, a story by Plato of a Socrates
made young and beautiful regardless of their historical accuracy.
For example, the Theaitetos , Sophist and Statesman all take place
at approximately the same time, shortly before Socrates' trial.
Similarly, the Euthyphro and Apology occur about then. The Crito
and Phaido follow shortly thereafter, and so on. The First
Alkibiades has its own special place. The First Alkibiades may well
be the dialogue in 133 which Socrates makes his
earliest appearance. The Platonic tradition has presented us with
this as our introduction to Socrates, to philosophy. Why? This
dialogue marks the first Socratic experience with philosophy that
we may witness. Why? The fateful first meeting between Socrates and
Alkibiades is also our first meeting with Socrates. Why? The
reader's introduction to the philosopher and to philosophizing is in
a conversation about a contest for the best man. Why? One must
assume 134 that, for some reason, Plato thought this
fitting. Plato, Republic 377a.9-10. The dialogue is known as the
First Alkibiades , Alkibiades I and Alkibiades Major . Its title in Greek
is simply Alkibiades but the conventional titles enable us to distinguish
it from the other dialogue called Alkibiades . Stephanus pagination in
the text of this thesis refers to the First Alkibiades of Plato. The Loeb
text (translated by W. Lamb, 1927) formed the core of the reading.
However, whenever a significant difference was noted between the Lamb
translation and that of Thomas Sydenham ( circa 1800), my own translation
forms the basis of the commentary. Unless otherwise noted, all other works
referred to are by Plato. 2. The major sources for Alkibiades' life
are Thucydides, Xenophon, Plutarch and Plato. It seems to be the case
that no history can be "objective." Since one cannot record
everything, a historian must choose what to write about. Their choice is
made on the basis of their opinion of what is important and therein
vanishes the "objectivity" so sought after but always kept from
modern historians. The superiority of the accounts of the men referred to
above lies partially in that they do not pretend to that "value-neutral"
goal, even though their perspective may nonetheless be impartial.
I wish to take this opportunity to emphasize the limited importance
of the addition of this sketch of the historical Alkibiades. Were it
suggested that such a familiarity were essential to the understanding of
the dialogue, it would be implied that the dialogue as it stands is in¬
sufficient, and that I was in a position to remedy that inadequacy. As a
rule of thumb in interpretation one should not begin with such pre¬ suppositions.
However, there are a number of ways in which the reading of the dialogue
is enriched by knowing the career of Alkibiades. For example, the reader
who doesn't know that Alkibiades' intrigues with (and illegitimate son
by) the Spartan queen was a cause of his fleeing from Sparta and a
possible motive for his assassination, would not have a full appreciation
of the comment by Socrates on the security placed around the Spartan
queens (121b-c). At all events, extreme caution is necessary so that
extra historical baggage will not be imported into the dialogue. It might
be quite easy to prematurely evaluate the historical Alkibiades, and
thereby misunderstand the dialogue. 3. We are also told she had
dresses worth fifty minae (123c). Plutarch, Life of Alkibiades , 1.1
(henceforth referred to simply as Plutarch); Plato, Alkibiades I , 112c,
124c, 118d—e. Plutarch, II. 4-6. 6. Diodoros Siculus,
Diodoros of Sicily , XII. 38. iii-iv (hence¬ forth Diodoros).
7. This is the Anytos who was Socrates' accuser. He was also
notorious in Athens for being the first man to bribe a jury (composed of
500 men)! He had been charged with impiety. Some suspect that Alkibiades'
preference for Socrates caused Anytos to be jealous and that this was a
motive for his accusation of Socrates. 8. Plutarch, IV. 5.
9. The historical accuracy of the representation is impossible to
determine and, so far as we need be concerned, philosophically
irrelevant. 10. Actually Alkibiades admits this in a dialogue which
Plato wrote (cf. Symposium 212c-223b, esp. 215a, ff.). 11.
Plutarch, VI. 1. 12. Plato, Symposium 219e-220e; Plutarch VII.
3. 13. Plato, Symposium 220e-221c; Plutarch VII. 4; Diadoros
XIII. 69. i-70. vi; cf. Thucydides, History of the Peloponnesian War , IV
89- 101 (henceforth: Thucydides). 14. Thucydudes, V.
40-48. 15. Cf. also Plutarch, X. 2-3. 16. Plutarch,
XIV. 6-9; Thucydides V. 45. 17. Plutarch, XIII. 3-5. Cf.
Aristotle's discussion in his Politics , 1284al5-b35; 1288a25-30; 1302b5-22;
1308bl5-20. 18. Thucydides, VI. 16-18. 19. Diodoros,
XII. 84. i-iii; Thucydides, VI. 9-25, 8-15. 20. Thucydides, VI.
25. 21. Plutarch, XVIII. 1-2; Thucydides, VI. 26. 22.
The Hermai were religious statues, commonly positioned by the front
entrance of a dwelling. Hermes was the god of travelling and of property.
Cf. Thucydides, VI. 27-28. 23. Thucydides,
VI. 29; Plutarch, XVIII. 3-XX. 1 24.
Thucydides, VI. 46. 25.
Thucydides, VI. 48-50. Thucydides, VI. 48.
27. Thucydides, VI. 50-51. 28. Plutarch, XX. 2-XXI. 6;
Diodoros, XIII. 4 i-iv; Thucydides, VI. 60-61. 29.
Plutarch, XXII. 1-4. 30. Thucydides, VI. 88-93. 31.
Plutarch, XXIII. 1-6. 32. Thucydides, VII. 27-29. 33.
Thucydides, VIII. 6, 11-14. 34. Plutarch, XXIII. 7-8; cf. also
Plato, Alkibiades I , 121b-c where Plato's mention might provide some
support for a claim that the motive was other than lust. 35.
Thucydides, VIII. 45-47; Plutarch, XXV 1-2. 36. Plutarch, XXIV.
3-5. 37. Thucydides, VIII. 48-54. 38. Diodoros, XIII.
41. iv-42iii; Plutarch, XXVI. 1-6. 39. Thucydides, VIII.
72-77. 40. Thucydides, VIII. 89-93. 41. Thucydides,
VIII. 97. For an excellent and beautiful examina¬ tion of this in Thucydides,
read Leo Strauss, "Preliminary Observations of the Gods in
Thucydides' Work." INTERPRETATION , IV:1, Winter 1974, Martinus
Nijhoff, The Hague, Netherlands. 42. Plutarch,
XXVII. 1-4. 43. Xenophon, Hellenika
I, i, 11-18; Diodoros, XIII. 49. iii-52ii 44.
Xenophon, Hellenika, I, i, 9-10; Plutarch, XXVII. 4-XXVIII.
2 45. Xenophon, Hellenika, I, iii,
1-22. 46. Xenophon, Hellenika, I, iv, 8-17;
Plutarch, XXXI. 1-XXXII. 3. 47. Xenophon,
Hellenika, I, iv, 20-21; Plutarch, XXXII. 4-XXXIII. 48.
Plutarch, XXXIV. 2-6. 49.
Diodoros, XIII. 68. i-69. iii. 50. Plutarch, XXIX.
1-2. 51. Xenophon, Hellenika I, v, 11-16; Plutarch, XXXV. 2-XXXVI.
2. 52. Plutarch, XXXVI-XXXVIII. 53. Diodoros, XIV. 11.
i-iv; Plutarch XXXVIII. 4-XXXIX. 5. There are various accounts, the
similar feature being the Spartan instigation. It is not likely that it
was a personal assassination (because of the queen), but it was probably
not purely due to political motives, either. 54. Aristophanes,
Frogs , 1420-1431; cf. Aristophanes, Clouds, 362; Plato, Symposium
221b. 55. Aristophanes, Clouds , 217 ff. 56.
Politically speaking, however, this is not to be thoroughly disregarded,
for in their numbers they can trample even the best of men. 57. Cf.
for example: Plato, Gorgias 500c, Aristotle, Politics 1324a24 ff.,
Rousseau, Social Contract , Book I, Preface and Bk. II, chap. 7, Marx,
Theses on Feuerbach , #11. 58. Hobbes, Leviathan , edited by C. B.
MacPherson, Pelican Books, Middlesex, 1968, page 102 ff. 59.
It is interesting that Socrates uses the promise of power to entice
Alkibiades to listen so that he can persuade him that he doesn't know
what power is. It is very important for the understanding of the dialogue
that the reader remember that Socrates has characterized Alkibiades'
desire for honor (105b) as a desire for power. This is of crucial
significance throughout the dialogue, and in particular in con¬ nection
with Socrates' attempts to teach Alkibiades from whom to desire honor,
and in what real power consists. The reader is advised to keep both in
mind throughout the dialogue. Perhaps at the end he may be in a position
to judge in what the difference consists. 60. The most notorious
example, perhaps, is Martin Heidegger, although he was surely not the
only important man implicated with fascism. 61. Cf. Aiskhylos,
Agamemnon 715-735, and Aristophanes, Frogs 1420-1431, for the metaphor.
The latter is a reference to Alkibiades himself, the former a statement
of the general problem. (f. also Republic 589b; Laws 707a; Kharmides
155d; and Alkibiades I 123a). 62. The fully developed model
resulting from this effort should probably only be made explicit to the
educators. The entire picture (including the hero's thoughts about the
cosmos, etc.) would be baffling to children and most adults, and would
thus detract from their ability to identify with the model. Perhaps a
less thoroughly-developed example would suffice for youths. However, the
entire conception of the best man that the youths are to emulate should
be made explicit. The task is difficult but worth the effort, since the
consistency of two or more features of the model can only be positively
ascertained if he is fully developed. An obvious example of where
conflicts might arise should this not be done is where, say, a very
hybristic, superior and self- confident young man is the leader of the
radical democratic faction of a city. Some kind of conflict is inevitable
there, and those tensions are much more obvious though not necessarily
more penetrating than those caused by incompatible metaphysical
views. 63. For example, Lakhes , Kharmides , Republic , Euthyphro
. 64. These questions are not the same, for in many dialogues
the person named does not have the longest, or even a seemingly major
speak¬ ing part; e.g., Gorgias , Phaedo , Minos , Hipparkhos .Protagoras
, 336d. Here Alkibiades is familiar with Socrates, for he recognizes his
"little joke" about his failing memory. However, Socrates was
not yet notorious throughout Athens, for the eunuch guarding the door did
not recognize him ( Protagoras 314d). Much of this specula¬ tion as to
the date depends on there not being anachronisms between (as opposed to
within) Platonic dialogues. We have no priori reason to believe there are
no anachronisms. However, it might prove to be useful to compare what is
said about the participants in other dialogues. The problem of
anachronisms within dialogues is a different one than we are referring to
in our discussion of the dramatic date. Plato, for a variety of
philosophic purposes, employs anachronisms within dialogues, including
perhaps, that of indicating that the teaching is not time-bound.
66. This is obviously related to teleology, a way of accounting for
things that concentrates on the fulfilled product, the end or teleos of
the thing and not on its origin, as the most essential for under¬
standing the thing. The prescientific, or common-sensical, understanding
of things is a teleological one. The superior/ideal/proper character¬
istic of things somehow inform the ordinary man's understanding of the
normal. This prescientific view is important to return to, for it is such
an outlook, conjoined with curiosity, that gives rise to philosophic
wonder. 67. 103a.1, 104c.4, 104d.4, 104e.l, 123c.8, 123e.3,
124a.2. For this kind of detailed information, I found the Word Index to
Plato , by Leonard Brandwood, an invaluable guide. 68. The
challenge to self-sufficiency is important to every dialogue, to all men.
It is something we all, implicitly or explicitly, strive towards, a key
question about all men's goals. Even these days, one thing that will
still make a man feel ashamed is to have it suggested that he depends on
someone (especially his spouse). The first step toward
self-improvement has to be some degree of self-contempt, and that might
be sparked if Alkibiades realizes his dependency. 69.
Socrates might be saying this to make the youth open up. It isn't purely
complimentary; he doesn't say you are right. (Cf. also Kharmides 158
a-b). I am indebted for this observation to Proclus whose Commentary on
the First Alkibiades , is quite useful and interesting. In order to claim
that something is or is not a cause for wonder, one apparently would have
to employ some kind of criteria. Such criteria would refer to some larger
whole which would render the thing in question either evident or
worthy of wonder or trivial. None of these has been explicitly suggested
in the dialogue with reference either to difficulty of stopping speech or
beginning to talk. 71. It may be important to note that this
discussion refers to political limits, political ambitions. Perhaps a
higher ambition (per¬ haps indeed the one Socrates is suggesting to
Alkibiades) can be under¬ stood as an attempt to tyrannize nature
herself, to rule (by knowing the truth about) even the realm of
possibility and not to be confined by it. 72. One notices that
this, by implication, is a claim by Socrates to know himself, not exactly
a modest claim. 73. Interestingly, he does not consider what
Alkibiades heard in such speeches to be part of his education,
"comprehensively" listed at 106e. 74. This appears
similar to Socrates' strategy with Glaukon. Cf. Craig, L.H., An
Introduction to Plato's Republic , pp. 138-202; especially pp. 163-4;
Bloom, A., "Interpretive Essay," in The Republic of Plato ,
pp. 343-4. 75. Cf. Republic , 435c. 76. Cf.
Republic , 327b, 449b; Kharmides , 153b; Parmenides , 126a.While imagined
contexts may influence one's thinking and speaking in certain ways, one
is not naively assuming that then one will speak and act the same as one
would if the imagined were actualized. Many things might prevent
one from doing as well as one imagined. An example familair to the
readers of Plato might be the construction of the good city in
speech. Cf. 105d, 131e, 123c, and 121a. One might be curious as to
the difference between Phainarete's indoor teaching of Socrates and
Deinomakhe's indoor teaching of Alkibiades. Also perhaps noteworthy is
that Alkibiades was taught indoors by his actual mother: the masculine
side of his nurture was not provided by his natural father. Except see
Hobbes, Leviathan, chapter 29; Plato, Republic , 372e. And one must
remember that when the plague strikes, the city is dramatically
affected. 80. Thucydides, VI. 21; I. 142-3; II. 13. 81.
Note two things: (1) Athenians don't debate about this at the ekklesia ;
(2) Alkibiades, as well as the wrestling master, would be qualified
(118c-d). Socrates drops dancing here; perhaps it is similar enough
to wrestling to need no separate mention/ and to provide no additional
material for consideration. But if that were so one might wonder why it
was mentioned in the first place. 83. Perhaps "all
cases" should be qualified to "all cases which are ruled by an
art." The general ambiguity surrounding this remark in¬ vites the
reader's reflection on the extent to which Socrates' suggestion could be
seen to be a much more general kind of advice. Perhaps Alkibiades would
be better off imitating Socrates - period. Or perhaps something else
about Socrates' pattern (of life) could be said to provide "the
correct answer in all cases," - he is after all a very rational man.
84. The referent here is unclear in the dialogue. It could be
'lawfulness' and 'nobility' just as readily as the 'justice' which
Socrates chooses to consider; that choice significantly shapes the course
of the dialogue. Note: Socrates brought up 'lawful' (even though there
probably is no law in Athens commanding advisors to lie to the demos in
the event they war on just people); whereas Alkibiades' concern was
nobility. 85. This would be especially true if considerations of
justice legitimately stop at the city's walls. Cf. also Thucydides, I.
75, and compare the relative importance of these motives in I. 76.
This conclusion may not be fair to Alkibiades, for he is clearly not
similar to Kallikles (see below) since he is convinced that he must speak
with Socrates to get to the truth. He wants to keep talking. But he is
still haughty. He has just completed a short dis¬ play of skill that
wasn't sufficiently appreciated by Socrates, and, most importantly, there
will be an unmistakeable point in the dialogue at which Alkibiades does
become serious about learning. Alkibiades will confess ignorance and that
will mark a most important change in his attitude. His attention
here isn't focussed on the premises but on the conclusion of the
argument. 87. There are a number of possibilities here for
speculation as to the cause of his taking refuge - from shame? from the
truth? from the argument? 88. Draughts is a table game with
counters, presumably comparable to chess. Draughts is a Socratic metaphor
for philosophy or dialectics. The example arises in connection with
language, and seem to indicate the reader's participation in the
dialogue. First, of course, Plato must have us in mind, for Alkibiades
cannot know that draughts are Socrates' metaphor for philosophical
dialectics. Second, the metaphor itself de¬ mands reflecting upon. How
not to play is a strange thing to insert. Though proceeding through
negation is often the only way to progress in philosophy, one doesn't set
out to learn how not to play. The many indeed cannot teach one to
philosophize, but the question of how not to philosophize often has to be
answered in light of the many, as does the question of how not to
"argue." The philosopher must show caution both because of the
many's potential strength over himself, and through his consideration of
their irenic co-existence; he must not rock the boat, so to
speak. Cf. Hobbes, Leviathan , p. 100; Genesis 2:19-20. 90. It
is interesting that with reference to "running" (the province
of the gymnastics expert or horseman) Socrates mentions both horses and
men. In the example of "health" he mentions only men. Pre¬
sumably he is indicating that there is some distinction to be made
between men and horses that is relevant to the two technae . Quite likely
this distinction shall prove to be a significant aid in the analysis of
the metaphors of 'physician 1 and 'gymnast' that so pervade this
dialogue. Borrowing the analogy of 'horses' from the Apology (30e), wherein
cities are said to be like horses, one might begin by examining in what
way a gymnastics expert pertains more to the city than does a doctor, or
why "running" and not "disease" is a subject for
consideration in the city, while both are important for men. Perhaps a
good way to begin would be by understanding how, when man's body becomes
the focus for his concerns, the tensions arise between the public and
private realm, between city and man. 91. The practical
political problem, of course, is not simply solved either when the
philosophic determination of 'the many' is made, or when empirical
observation yields the results confirming what 'the many' believe. The
opinions must still be both evaluated and accounted for. 92.
However, when it is an extreme question of health - e.g., starvation, a
plague - a question of life or death, they do. The con¬ dition of the
body does induce people to fight and the condition of the body seems to
be the major concern of most people and is thus probably a real, though
background, cause of most wars and battles. 93. Homer, Odyssey ,
XXII 41-54; XVIII 420-421; XX 264-272, 322- 337, 394. 94. In
Euripides' play, Hippolytos , Phaedra, the wife of Theseus, is in love
with her stepson Hippolytos, and though unwilling to admit, she is unable
to conceal, her love from her old nurse. She describes him so the nurse
has to know, and then says she heard it from herself, not Phaedra.
95. It is undoubtedly some such feature of power as this that
Alkibiades expects Socrates to mention as that power which only he can
give Alkibiades. It may be that Socrates' power is closely tied to speech
- we are not able to make that judgement yet - but Alkibiades is
certainly not prepared for what he gets. The reader is cautioned to
remember that Socrates is assuming power to be the vehicle for
Alkibiades' honor. At least one sense in which this is necessary to
Socrates' designs has come to light. Alkibiades could be convinced
that he should look for honor in a narrower group of people once he
thought they were the people with the secret to power. It is not as
likely that he would come to respect that group (especially not for being
the real keys to power) if he hadn't already had his sense of honor
reformed. Cf. Gorgias , beginning at 499b and continuing through the end.
He certainly doesn't seem to care, although it may be a bluff or a pose.
97. Such as, perhaps, a dagger only partially concealed under his
sleeve - Gorgias 469c-d. 98. This, of course, is from the
perspective of the city. Very powerful arguments have been made to the
contrary. The city may not be the primary concern of the wisest
men. 99. Perhaps it should be pointed out, though, that men who
devote themselves to public affairs frequently neglect their family -
again the tension between public and private is brought to our attention
(cf. Meno, 93a-94e). 100. The fact that oaks grow stunted in
the desert does not mean that the stunted oak of the desert is natural.
The only thing we could argue is natural is that 'natural' science could
explain why the acorn was unable to fulfill its potential, just as
'natural' science can explain how there can be two-headed, gelded, or
feverish horses. In any explanation of this sort the reference is to a
more ideal tree or horse. And any examination of an existing tree or
horse will involve a reference to an even more perfect idea of a tree or
a horse. 101. It may be of no small significance that Socrates uses
the word ' ideas ' in this central passage. It is the only time in
this dialogue that the word is used and it seems at first innocuous.
'Ideas' is another form of ' eidos ' - 'the looks' so famous in the
central epistemological books of the Republic. What is so
exceptional about the " * use here is that it
occurs precisely where the question of the proper contest, the question
of the best man, is raised. Socrates says, "My, my, best of men,
what a thing to say! How unworthy of the looks and other advantages of
yours." We are perhaps being told it is unworthy of 'the looks,'
'the ideas , 1 that Alkibiades does not pose a high enough ambition. The
translators (who never noted this) are not in complete error. Their error
is one of imprecision. The modifier "your" ( soi) is an
enclitic and would have been understood (by Alkibiades) to refer to
"looks" as well as to his other advantages. However, as an
enclitic, it is used as a subtle kind of emphasis, and it is clearly the
"other advantages" that are emphasized. The 'soi' would
normally appear in front of the first of a list of articles. It doesn't
here, and the careful reader of the Greek text would certainly be first
impressed with it as " the looks." The reference to Alkibiades'
looks would be a second thought. And only in someone not familiar with
the Republic or with the epistemological problem of the best man, would
the "second- thought" be weighty anough to drown the first
impression. Incidentally, it is indeed interesting that the word
for the highest metaphysical reality in Plato's works is a word so
closely tied to everyday appearance. Once again there is support for the
dialectical method of questioning and answering, to slowly and carefully
refine the world of common opinion and find truth or the reality behind
appearance. 102. Whether the war justly or unjustly is not
mentioned. I believe that the referent to "others" is left
ambiguous. Note also that here (120c) Socrates speaks of the Spartan
generals ( strategoi ), a subtle change from 'king' (120a) a moment
earlier. Per¬ haps he is implying a difference between power and actual
military capability. 104. This is/ of course/ generally good
advice. Cf. Thucydides I 84: one shouldn't act as though the enemy were
ill-advised. One must build on one's foresight, not on the enemy's
oversight. 105. The important provision of nurture is added to
nature. Cf. 103a and the discussion of the opening words of the
dialogue. 106. Socrates has included himself in the deliberation
explicitly at this point, serving as a reminder to the reader that both
of these superior men should be considered in the various discussions,
not just one. A comparison of them and what they represent will prove
fruitful to the student of the dialogue. 107. Plato, another
son of Ariston, is perhaps smiling here; we recall why it is suspected
that Alkibiades left Sparta and perhaps why he was killed.
Two more facets of this passage are, firstly, that this might be
seen as another challenge by Socrates (in which case we should wonder as
to its purpose). Secondly, it implies that Alkibiades' line may have been
corrupted, or is at least not as secure as a Spartan or Persian one.
Alkibiades cannot be positive that his acknowledged family and kin are
truly his. 108. There is a very important exception and one
significant to this dialogue as well as to political thinking in general.
One may change one's ancestry by mythologizing it (or lying) as Socrates
and Alkibiades have both done. This may serve an ulterior purpose;
recall, for example, the claims of many monarchies to divine right.
109. Hesiod Theogony 928; cf. also Homer, Iliad 571 ff. 110.
The opposite of Athena, Aphrodite ( Symposium 180d), and Orpheus (
Republic 620a). 111. A number of Athenians may have thought this
was much the same effect as Socrates had. He led promising youths into a
maze from which it was difficult to escape. This discussion should
be compared in detail with the education outlined in the Republic . Such
a comparison provides even more material for reflection about the connection
between a man's nurture and his nature. (One significant contrast: the
Persians lack a musical education). 113. Compare, for
example, the difference concerning horseback riding: Plato,
Alkibiades I, 121e; and Xenophon, Kyropaideia , I, iii, 3. Cf., for example,
Machiavelli, The Prince , chapters 18, 19. The only other fox in the
Platonic corpus (besides its being the name of Socrates' deme - Gorgias
495d) is in the Republic (365c) where the fox is the wily and subtle
deceiver in the facade of justice which is what Adeimantos, in his
elaboration of Glaukon's challenge, suggests is all one needs.
115. The reader of the dialogue has already been reminded of the
Allegory of the Cave, also in the context of nurture, at 111b. 116.
Thomas Sydenham, Works of Plato Vol. I , p. 69, points out - that
Herodotos tells us that this is not exclusively a Persian custom.
Egyptians, too, used all the revenue from some sections of land for the
shoes and other apparel of the queen. Cf. Herodotos, Histories , II, 97.
117. Cf. Pamela Jensen, "Nietzsche and Liberation: The Prelude
to a Philosophy of the Future ," Interpretation 6:2, p. 104:
"[Nietzsche] does not suppose truth to be God, but a woman, who has
good reasons to hide herself from man: her seductiveness depends upon her
secretiveness..." 118. This greatly compounds the problems of
understanding the two men and their eros . What has heretofore been
interpreted by Socrates as Alkibiades' ambition for power is now
explicitly stated to be an ambition for reputation. Are we to understand
them as more than importantly connected, but essentially similar? And
what are we to make of Socrates' inclusion of himself at precisely this
point? Does he want power too? Reputation? Perhaps we are to see both men
(and maybe even all erotic attraction whatsoever) as willing to have
power. Socrates sees power as coming through knowledge. Alkibiades
sees it as arising from reputa¬ tion. Is Socrates in this dialogue
engaged in teaching Alkibiades to respect wisdom over glory in the
interests of some notion of power? The philosopher and the timocrat come
out of (or begin as) the same class of men in the Republic. The reader
should examine what differences relevant to the gold/philosophic class,
if any, are displayed by Socrates and Alkibiades. Perhaps Socrates'
education of Alkibiades could be seen as a project in alchemy -
transforming silver into gold. 119. Homer, Iliad , X. 224-6. Cf.
Protagoras , 348d; Symposium , 174d; Alkibiades II , 140a; as well as
Alkibiades I , 119b, 124c. 120. This is not intended to challenge
Prof. Bloom's interpreta¬ tion ( The Republic of Plato , p. 311). As far
as I am capable of under¬ standing it and the text, his is the correct
reading. However, with respect to this point I believe the dialogue
substantiates reading the group of men with Polemarkhos as the many with
power, and Socrates and Glaukon as the few wise. 121. This is
left quite ambiguous. The jest could refer to: a) Socrates' claim
to believe in the gods b) Socrates' reason as to why his guardian
is better c) Socrates' claim that he is uniquely capable of
providing Alkibiades with power. In the Republic, inodes and rules
of music are considered of paramount political importance. Cf. Republic
376c-403c. 123. Cf. however. Symposium , 174a, 213b. At this stage
of the argument Socrates does not distinguish between the body and the
self. 124. This is the only time Socrates swears by an Olympian
god. He has referred to his own god, the god Alkibiades
"talked" to, a general monotheistic god, and he has sworn upon
the "common god of friendship" (cf. Gorgias 500b, 519e,
Euthyphro 6b), as well as using milder oaths such as 1 Babai 1 (118b,
119c). It would probably be very interesting to find out how
Socrates swears throughout the dialogues and reflect on their connection
to his talk of piety, and of course, his eventual charge and trial.
125. Strictly speaking that is the remark on which there won't be
disagreement, not the one following it. "Man is one of three
things," is something no one can disagree with. (He is what he
is and any two more things may be added to make a set of three.) Why does
Socrates choose to say it this way? And why three? Are there three
essential elements in man's nature? As we shall presently see, he does
assume a fourth which is not mentioned at this time. 126.
Though first on the list of Spartan virtues, temperance ( sophrosyne ), a
virtue so relevant to the problem of Alkibiades, does not receive much
treatment in this dialogue. One might also ask: if temperance is knowing
oneself, is there a quasi-virtue, a quasi¬ temperance based on right
opinion? 127. This is what Socrates' anonymous companion at the
beginning of Protagoras suggests to Socrates with respect to
Alkibiades. 128. Homer, Odyssey , II. 364. Odysseus' son,
Telemakhos, is called the "only and cherished son" by his nurse
when he reveals to her his plan of setting out on a voyage to discover
news about his father. His voyage too (permitting the application
of the metaphor of descent and human nature) is guarded by a divine
being. Alkibiades/Telemakhos is setting out on a voyage to discover his
nature. 129. For other references to "stripping" in the
dialogues, see Gorgias 523e, 524d; cf. also Republic 601b, 612a, 359d,
361c, 577b, 474a, 452a-d, 457b; Ion 535d; Kharmides 154d, 154e;
Theaitetos 162b, 169b; Laws 772a, 833c, 854d, 873b, 925a; Kratylos
403b; Phaidros 243b; Menexenos 236d; Statesman 304a; Sophist
237d. 130. This word for release (apallattetai) has only been
used for the release of eros to this point in the dialogue (103a, 104c,
104e, 105d). Parenthetically, regarding this last passage, we note also
that the roles of wealth and goodness in well-being have not been
thoroughly 0 xplored. Perhaps he is suggesting a connection between
becoming rich and not becoming temperate. 131. One might
interject here that perhaps the virtues resulting from, say, a Spartan
nurture, do not depend on the virtues of the governors. Perhaps they
depend on the virtue or right opinion of the lawgiver, but maybe not even
that. There might be other counterbalancing factors, as, for example,
Alexander Solzhenitsyn suggests about Russians today - (Harvard Commencement
Address, 1978, e.g., paragraph 22). 132. As was mentioned with
respect to their other occurrences in the dialogue, the metaphors of the
diseased city, physician of the city, doctor of the body, pilot of ship,
ship-of-state and passenger are all worth investigating more thoroughly,
and in relation to each other. There is a dialogue, the Parmenides , in
which the "Young Socrates" speaks. We do not know what to make
of this, but the fact that he is called the "Young" Socrates
somehow distinguishes his role in this, from the other dialogues. He is
not called "Young Socrates" in the Alkibiades I , nor is he
referred to as "Middle-aged Socrates" in the Republic , nor is
he named "Old Socrates" in the Apology . 134. Having come
this far, the reader might want to judge for himself some recent Platonic
scholarship pertaining to the First Alkibiades. In comparatively recent
times the major source of interest in the dialogue has been the popular
dispute about its authenticity. Robert S. Brumbaugh, in Plato for
the Modern Age , (p. 192-3) concludes: But the argument of
the dialogue is clumsy, its dialectic constantly refers us to God for
philosophic answers, and its central point of method - tediously made -
is simply the difficulty of getting the young respondent to make a
generalization. There is almost none of the inter¬ play of concrete
situation and abstract argument that marks the indisputably authentic
early dialogues of Plato. Further, the First Alkibiades includes an
almost textbook summary of the ideas that are central in the
authentic dialogues of Plato's "middle" period; so markedly
that it was in fact used as an introductory textbook for freshman
Platonists by the Neo-Platonic heads of the Academy ... it would be
surprising if this thin illustration of the tediousness of
induction were ever Plato's own exclusive philosophic theme: he had
too many other ideas to explore and offer. Benjamin Jowett,
translator of the dialogue and thus familiar with the writings, says in
his introduction to the translation: ... we have difficulty in
supposing that the same writer, who has given so profound and complex a
notion of the characters both of Alkibiades and Socrates in the
Symposium should have treated them in so thin and superficial a manner as
in the Alkibiades , or that he would have ascribed to the ironical
Socrates the rather unmeaning boast that Alkibiades could not
attain the objects of his ambition without his help; or that he should
have imagined that a mighty nature like his could have been reformed by a
few not very conclusive words of Socrates... There is none of the
undoubted dialogues of Plato in which there is so little dramatic
verisimilitude.Schleiermacher, originator of the charge of spuriousness,
analyzed the dialogue, (pp. 328-336). It is to him that we owe the
current dispute. Saving the best for last: ... there is nothing in
it too difficult or too profound and obscure for even the least
prepared tyro... This ... work ... appears to us but very
insignificant and poor... and ... [genuinely Platonic
passages] may be found sparingly dispersed and floating in a mass
of worthless matter... and ... we must not
imagine for a moment that in these speeches some philosophic secrets or
other are intended to be contained. On the contrary, though many
genuine Platonic doctrines are very closely connected with what is here
said, not even the slightest trace of them is to be met with...
and ... in short, however we may consider it, [the
Alkibiades ] is in this respect either a contradiction of all other
Platonic dialogues, or else Plato's own dialogues are so with reference
to the rest. And whoever does not feel this, we cannot indeed afford
him any advice, but only congratulate him that his notions of Plato can
be so cheaply satisfied... In any event, much could be said about
whether anything important to the philosophic enterprise would hinge upon
the authorship. My comments concerning the issue will be few.
Firstly there is no evidence that could positively establish the
authorship. Even should Plato rise from the dead to hold a press
conference, we are familiar enough with his irony to doubt the
straightforwardness of such a state¬ ment. Secondly, many of
the arguments are based on rather presumptuous beliefs that their
proponents have a thorough understanding of the corpus and how it fits
together. I will not comment further on such self- satisfaction.
Thirdly, there are a number of arguments based on stylistic
analyses. If only for the reason that these implicitly recognize that the
dialogue itself must provide the answer, they will be addressed.
Two things must be said. First, style changes can be willed, so to
suggest anything conclusive about them is to presume to understand the
author better than he understood himself. Second, style is only one of
the many facets of a dialogue, all of which must be taken into account to
make a final judgement. As is surely obvious by now, that takes careful
study. And perhaps all that is required of a dialogue is that it prove a
fertile ground for such study. Aristophanes. The Eleven Comedies . New
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socratico, l’implicatura di Socrate, filosofo socratico, Socrate, Alcibiade.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carando” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carapelle: l’implicatura
conversazionale – linguaggio e metafilosofia – linguaggio oggetto –
meta-linguaggio – Peano – Tarski 1944 – bootstrapping -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “I like Carcano; I
cannot say he is an ultra-original philosopher, but I may – My favourite is
actually a tract on him, on ‘meta-philosophy,’ or rather ‘language and
metaphilosophy,’ which is what I’m all about! How philosophers misuse ‘believe,’
say – but Carcano has also philosophised on issues that seem very strange to
Italians, like ‘logica e analisi,’ ‘semantica’ and ‘filosofia del linguaggio’ –
brilliantly!” Quarto Duca di Montaltino, Nobile dei Marchesi di Carapelle. Noto
per i suoi studi di fenomenologia, semantica, filosofia del linguaggio e più in
generale di filosofia analitica. Studia a Napoli, durante i quali si formò alla
scuola di Aliotta e si dedica allo studio delle scienze. Studia a Napoli e
Roma. Sulla scia teoretica del suo tutore volle approfondire le problematiche
poste dalla filosofia e riesaminare attentamente il linguaggio in uso. La sua
tesi centrale è che correnti come il pragmatismo, il positivismo, la
fenomenologia, l'esistenzialismo e la psicoanalisi, fossero il portato
dell'esigenza teoretica di una maggiore chiarezza – la chiarezza non e
sufficiente -- delle varie questioni che emergevano da una crisi culturale,
vitale ed esistenziale. Al centro di tale crisi giganteggia la polemica fra
senza senso metafisico e senso anti-metafisica, soprattutto a causa del vigore
critico del positivismo logico, contro il quale a sua volta lui -- che ritiene
necessaria una sostanziale alleanza o quantomeno un aperto dialogo fra la
metafisica e la scienza -- pone diversi rilievi critici, principale dei quali è
quello di minare alla base l'unità dell'esperienza, alla Oakeshott -- che senza
una cornice o una struttura metafisica in cui inserirsi rimarrebbe indefinitamente
frammentata in percezioni fra loro irrelate. A questo inconveniente si può
rimediare temperando il positivismo con lo sperimentalismo, ovvero
accompagnando alla piena accettazione del metodo una piena apertura
all’esperienza così come “esperienza” è stata intesa, ad esempio, nella
fenomenologia intenzionalista intersoggetiva di Husserl. In questo senso si può
procedere a mantenere una costante tensione sui problemi posti dalla filosofia,
in opposizione a ogni dogma di sistema, e al contempo non cadere nell'angoscia
a cui conduce lo scetticismo radicale che tutto rifiuta, compresa l'esperienza.
Non si tratterebbe dunque per la filosofia di definire verità immutabili ma di
sincronizzarsi col ritmo del metodo basato sull’esperienza fenomenologico, sussumendo
i risultati sperimentali e integrandoli nel continuum di una struttura
metafisica mediante il ponte dell'esperienza. Altre opere: “Filosofia e
civiltà” (Perrella, Roma); Filosofia (Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma); Il
problema filosofico. Fratelli Bocca, Roma); La semantica, Fratelli Bocca, Roma
– cf. Grice, “Semantics and Metaphysics”) Metodologia filosofica, una
rivoluzione filosofica minore. Libreria scientifica editrice, Napoli 1958.
Esistenza ed alienazione” (MILANI, Padova); Scienza unificata, Unita della
scienza (Sansoni, Firenze); Analisi e forma logica (MILANI, Padova); Il
concetto di informativita, MILANI, Padova); La filosofia linguistica, Bulzoni
Editore, Roma. Dizionario biografico degli italiani, Roma. Ben altrimenti articolato e puntuale ci sembra l'intervento
operato sulla fenomenologia da Paolo Filiasi Carcano di Montaltino de
Carapelle, quarto duca di Montaltino, ed allievo di Aliotta a Napoli e pur
fedele estensore delle sue teorie, sulle quali, per questo mo tivo, ci siamo
nell'ultima parte dilungati sorvolando sullo scarso ruolo t-he gioca in esse
l'opera di Husserl. L'iter formativo di Carcano interseca situazioni ed
esperienze riscontrabili, come ve dremo, anche in altri giovani filosofi della
stessa generazione. Di più, nel.suo caso, c'è una singolare — e probabilmente
indotta — analogia con la vicenda teoretica del primo Husserl. In realtà, —
scrive l'autore in un brano autobiografico del 1956 — io non posso dire di
essere venuto alla filosofia in maniera diretta, per un'intima voca zione alla
speculazione o per un normale maturarsi dei miei studi e della mia men talità
giovanile, ma questa era soprattutto caratterizzata da un'intensa passione
pèrle scienze e da una viva disposizione per la matematica54. Questo germinale
orientamento, unito a una sensibilità religiosa che non tarderà a manifestarsi,
ebbe come primo e scontato effetto di allontanare Filiasi Garcano dall'area
neo-idealistica, il cui radicale immanentismo, la esclusione dei concetti di
peccato e di grazia e l'avversione per ogni for- 53 Ibidem, p. 7. 54 P. Filiasi
Carcano, 17 ruolo della metodologia nel rinnovamento della filo sofia
contemporanea, in AA.W., La filosofia contemporanea in Italia. Invito al
dialogo, Asti, Arethusa, 1958, p. 219. ma di naturalismo, non potevano in
alcun modo essere accettati 55. Di qui un sentimento di estraneità e di
insoddisfazione subito denunciati fin dai primi scritti, l'intima perplessità e
la difficoltà di orientarsi in una temperie culturale già decisa e fissata
nelle sue grandi linee da altri. E, d'altro canto, un naturale rivolgersi al
problema metodologico, come pre liminare assunzione di consapevolezza circa i
percorsi teoretici che con veniva seguire per ottenere uno scopo valido, senza
tuttavia ancora nul la presumere circa la necessità di quei percorsi o la
natura di questo sco po. In tal senso, l'elaborazione di una qualsivoglia
metodologia doveva prevedere come esito programmatico, da un lato, una sorta di
epochizza- zione delle grandi tematiche metafisiche e della tradizionale
formulazione dèi problemi, dall'altro lato, un lungo e paziente lavoro di
analisi, con fronto, chiarificazióne e comprensione che consentisse di
recuperare, di quelle tematiche e di quei problemi, il contenuto più autentico.
Ma più lo sguardo critico del giovane filòsofo andrà maturando fino ad
abbracciare nel suo complesso il controverso panorama culturale del tempo, più
quel programma iniziale perderà la sua connotazione prope deutica per
trasformarsi in compito destinale, in una ' fighi for clarity* che assumeva i
termini di un radicale esame di coscienza nei confronti della filosofia. Scrive
Filiasi Carcano: Confesserò che varie volte ho avuto ed ho l'impressione di non
aver abba stanza compreso, e per questo alla mia spontanea insoddisfazione (al
tempo stesso scientifica e religiosa) si mescola un senso di incomprensione.
Questo stato d'animo spiega bene il mio atteggiamento che non è propriamente di
critica (...), ma ha piut tosto il carattere di un prescindere, di una
sospensione del giudizio, di una messa in parentesi, in attesa di una più
matura riflessione 56. Al fondo dei dualismi e delle vuote polemiche che, nella
comunità filoso- fica italiana degli anni Trenta, sembravano prevaricare sulle
più urgenti esigenze scientifiche e di sviluppo, Filiasi Carcano coglie i
sintomi dì un conflitto epocale, di una inquietudine psicologica e di
un'incertezza morale che andranno a comporsi in una vera e propria
fenomenologia della crisi. ' Crisi della civiltà ', anzitutto, come recita il
titolo della sua opera prima 57, dove al desiderio di fuggire l'alternativa del
dogmatismo fa da 55 Per questi punti mi sono riferito a M. L. Gavazzo, Paolo
Filiasi Carcano,. «Filosofia oggi», X, 1, 1987, pp. 57-74.; * P; Filiasi
Carcano, // ruolo della metodologia,;cit., p. 220. 57 Cfr. P. Carcano, Crisi
della civiltà e orientamenti della filosofia contraltare l'eterno dissidio
tra ragione e fede. Crisi esistenziale, di con seguenza, dovuta al prevalere
delle tendenze scettiche e antimetafisiche su quelle spirituali e religiose.
Crisi della filosofia, infine, fondata sulla raggiunta consapevolezza del suo
carattere problematico, sull'incapacità di realizzare interamente la pienezza
del suo concetto. Come moto di reazione immediata occorreva allora, oltreché
circoscrivere le proprie pre tese conoscitive ponendosi su un piano
risolutamente pragmatico, assur gere ad una più compiuta presa di coscienza
storica e conciliare la filoso fia con una mentalità scientificamente educata.
Solo, cioè, il confronto con una seria problematica scientifica (la quale
Filiasi Carcano vedeva realizzata nell'ottica positivista dello sperimentalismo
aliottiano) avreb be potuto segnare per la filosofia l'avvento di una più
matura riflessione intorno alle proprie dinamiche interne e ai propri genuini
compiti critici. E a questo scopo parve a Filiasi Carcano, fin dai suoi studi
d'esor dio, singolarmente soccorrevole proprio l'opera di Edmund Husserl. Scri
ve Angiolo Maros Dell'Oro: A un certo punto si intromise Husserl. Filiasi
Carcano pensò, o sperò, che là fenomenologia sarebbe stata la ' scienza delle
scienze', capace di indicargli la via zu den Sachen selbsf, per dirla con le
parole del suo fondatore. Da allora è stata invece per lui l'enzima patologico
di una problematica acuta 58. Sùbito rifiutata, in realtà, come idealismo
metafisico, quale eira frettolo samente spacciata in certe grossolane versioni
del tempo (non esclusa, lo ^bbiamo visto,.quella del suo, maestro), la
fenomenologia viene aggredita alla radice dal giovane studioso, con una cura e
un rigore filologico — i quali pure riscontreremo in altri suoi coetanei —
giustificabili solo con l'urgenza di una richiesta culturale cui l'ambiente
nostrano non poteva evidentemente soddisfare. Non è un caso che Filiasi Carcano
insista, fin dal suo primo articolo dedicato ad Husserl, sul valore della
fenomeno logia, ad un tempo, emblematico, nel quadro d'insieme della filosofia
contemporanea, e liberatorio rispetto al giogo dei tradizionali dogmi
idealistici che i giovani, soprattutto in Italia, si sentivano gravare sulle
spalle ". contemporanea, pref. di A. Aliotta, Roma, Libreria Editrice
Perrella, Cf. Il pensiero scientifico
ìtt Italia 'Creiriòria, Màngiarotti Editore, 1963, p. 108. 39 Cfr. P. Filiasi
Cartario/ Da Carierò'ad H«w&f/,:« Ricerche filoSofìche », In piena
coscienza, — scriverà l'autore — se abbiamo voluto scio gliere l'esperienza da
una necessaria interpretazione idealistica, non è stato per forzarla nuovamente
nei quadri di una metafisica esistenziale, ma per ridare ad essa, secondo lo
schietto spirito della fenomenologia, tutta la sua libertà 60. Tale schiettezza,
corroborata da un carattere decisamente antisistema tico e dal recupero di una
vitale esigenza descrittiva, avrebbe consentito lo schiudersi di un nuovo,
vastissimo territorio di indagine, sospeso tra constatazione positivistica e
determinazione metafisica, ma capace, al tem po stesso, di metter capo ad un
positivismo di grado superiore e ad un più autentico pensare metafisico. Si
trattava, in sostanza, non tanto di dedurre i caratteri di una nuova positività
oppure di rifondare una me- tafisica, quanto piuttosto di guadagnare un più
saldo punto d'osserva zione dal quale far spaziare sul multiverso
esperienziale il proprio sguar do fenomenologicamente addestrato. È in questo
punto che la fenome nologia, riabilitando l'intuizione in quanto fonte
originaria di autorità (Rechtsquelle), operando in base al principio
dell'assenza di presupposti e offrendo i quadri noetico-noematici per la
sistemazione effettiva del suo programma di ricerca, veniva ad innestarsi sul
tronco dello sperimenta lismo di stampo aliottiano, che Filiasi Carcano aveva
assimilato a Napoli negli anni del suo apprendistato filosofia). Il ritorno '
alle cose stesse * predetto dalla fenomenologia non solo manteneva intatta la
coscienza cri tica rimanendo al di qua di ogni soglia metafisica, ma anche e
più che mai serviva a ribadire il carattere scientifico e descrittivo della
filosofia. In un passo del 1941 si possono scorrere, a modo di riscontro, i
punti di un vero e proprio manifesto sperimentalista: Descrivere la nostra
esperienza nel mondo con l'aiuto della critica più raffi nata; cercare di
raccordarne i vari aspetti in sintesi sempre più vaste e più com prensive, esprimenti,
per cosi dire, gradi diversi della nostra conoscenza del mon do; non perdere
mai il senso profondo della problematicità continuamente svol- gentesi dal
corso stesso della nostra riflessione; infine stare in guardia contro tutte le
astrazioni che rischiano di alterare e disperdere il ritmo spontaneo della
vita: sono questi i principali motivi dello sperimentalismo e (...) al tempo
stesso, i modi mediante i quali esso va incontro alle più attuali esigenze
logiche e metodologiche del pensiero contemporaneo61. D'altro canto, si diceva,
non è neppure precluso a questo program- *° P. Filiasi Carcano, Crisi della
civiltà, cit., p. 138. 61 P. Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo,
Roma, Perrella ma un esito trascendente, e a fenderlo possibile sarà ancora una
volta, in virtù della sua cruciale natura teoretica, proprio l'atteggiamento
feno menologico. Scrive Filiasi Carcano: In realtà, il dilemma tra una scienza
che escluda l'intuizione e una intui zione che escluda la scienza, non c'è che
su di un piano realistico ma non su di un piano fenomenologicamente ridotto: su
questo piano scienza e intuizione tornano ad accordarsi, accogliendo una
pluralità di esperienze, tutte in un certo senso le gittime e primitive, ma
tutte viste in un particolare atteggiamento di spirito che sospende ogni
giudizio metafisico. È questo, com'io l'intendo, il modo particola rissimo con
cui la filosofia può tornare oggi ad occuparsi di metafisica. Certo, nella
prospettiva husserliana, il problema del trascendens puro e semplice, che farà
da sfondo a tutto il percorso speculativo di Filiasi Carcano, sembrava rimanere
ingiudicato o, almeno, intenzionalmente rin viato in una sorta di ' al di là '
conoscitivo, Ma in ordine alla missione spirituale che l'uomo deve poter
esplicare nel mondo storico, il metodo fenomenologico conserva tutta la sua
efficacia. Esso —nota Filiasi Carcano nelle ultime pagine del suo Antimetafisica
e spe rimentalismo — certo difficilmente può condurre a risultati, ma compie
per lo meno analisi e descrizioni interessanti, e tanto più notevoli in quanto
tende a sollevare il velo dell'abitudine per farci ritrovare le primitive
intuizioni della vita religiosa 63. Dato questo suo carattere peculiare e
l'orizzonte significativo nel quale viene assunta fin dal principio, la
fenomenologia continuerà a va lere per Filiasi Carcano come referente
teoretico di prim'ordine, accom pagnandolo, con la tensione e la profondità
tipiche delle esperienze fon damentali, in tutti i futuri sviluppi della sua
speculazione. La terza grande area di interesse per il pensiero hussèrliano
negli anni Trenta in Italia, fa capo all'Università.di Torino e si costituisce
prin cipalmente intorno all'attività 4i tre studiosi: il primo, già incontrato
e che, in qualche modo, fa da ponte fra questa e la neoscolastica mila nese è
Carlo Mazzantini; il secondo è Annibale Pastore —ne parleremo ora — che teneva
nell'ateneo torinese la cattedra di filosofia teoretica; 6- P, Filiasi
Corcano,. Crisi.della civiltà,.eit,,. p.., 184.,:; Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo,
cit., p. 153. Apparently, David Hilbert was the first to use the prefix
meta(from the Greek over) in the sense we use it in metalanguage, metatheory,
and now metasystem. He introduced the term metamathematics to denote a
mathematical theory of mathematical proof. In terms of our control scheme,
Hilbert's MST has a non-trivial representation: a mapping of proofs in the form
of usual mathematical texts (in a natural language with formulas) on the set of
texts in a formal logical language which makes it possible to treat proofs as
precisely defined mathematical objects. This done, the rest is as usual: the
controlled system is a mathematician who proves theorems; the controlling
person is a metamathematician who translates texts into the formal logical
language and controls the work of the mathematician by checking the validity of
his proofs and, possibly mechanically generating proofs in a computer. The
emergence of the metamathematician is an MST. Since we have agreed not to
employ semantically closed languages, we have to use two different languages in
discussing the problem of the definition of truth and, more generally, any
problems in the field of semantics. The first of these languages is the
language which is "talked about" and which is the subject- matter of
the whole discussion; the definition of truth which we are seeking applies
to the sentences of this language. The second is the language in which we
"talk about" the first language, and in terms of which we wish, in
particular, to construct the definition of truth for the first language. We
shall refer to the first language as "the object-language,"and to the
second as "the meta-language." It should be noticed that these terms
"object-language" and "meta- language" have only a relative
sense. If, for instance, we become inter- ested in the notion of truth applying
to sentences, not of our original object-language, but of its meta-language,
the latter becomes automatically the object-language of our discussion; and in
order to define truth for this language, we have to go to a new
meta-language-so to speak, to a meta- language of a higher level. In this way
we arrive at a whole hierarchy of languages. The vocabulary of the
meta-language is to a large extent determined by previously stated conditions
under which a definition of truth will be considered materially adequate. This
definition, as we recall, has to imply all equivalences of the form (T): (T) X
is true if, and only if, p. The definition itself and all the equivalences
implied by it are to be formulated in the meta-language. On the other hand, the
symbol 'p' in (T) stands for an arbitrary sentence of our
object-language. Let “A(p)** mean “I
assert p between 5.29 and 5.31’*. Then q is “there is a proposition p
such that A(p) and p is fake”. The contradiction emerges from the
supposition that q is the proposition p in question. But if there is a
hierarchy of meanings of the word “false** corresponding to a hierarchy
of propositions, we shall have to substitute for q something more
definite, i.e. “there is a proposition p of order «, such that k{p) and p
has falsehood of order n*\ Here n may be any integer: but whatever
integer it is, q will be of order « + i? and will not be capable of truth
or falsehood of order n. Since I make no assertion of order n, q is
false, The hierarchy must extend upwards indefinitely, but
not downwards, since, if it did, language could never get started.
There must, therefore, be a language of lowest type. I shall define one
such language, not the only possible one.* I shall call this sometimes
the “object-language”, sometimes the “primary language”. My purpose, in
the present chapter, is to define and describe this basic lai^age. The
languages which follow in the hierarchy I shall call secondary, tertiary,
and so on; it is to be understood that each language contains all its
predecessors. The primary language, we shall find, can be defined
both logically and psychologically; but before attempting formal
definitions it will be well to make a preliminary informal explora-
tion. It is clear, from Tarski’s argument, that the words
“true” and “false” cannot occur in the primary language; for these words,
as applied to sentences in the language, belong to the (« -t- language.
This does not mean that sentences in the primary language are neither
true nor false, but that, if “/>” is a sentence in this language, the
two sentences “p is true” and “p is false” belong to the secondary language.
This is, indeed, obvious apart from Tarski’s argument. For, if there is a
primary language, its words must not be such as presuppose the
existence of a language. Now “true” and “false” are words applicable
to sentences, and thus presuppose the existence of language. (I do
not mean to deny that a memory consisting of images, not words, may be
“true” or “false”; but this is in a somewhat different sense, which need
not concern us at present.) In the primary language, therefore, though we
can make assertions, we cannot say that our own assertions or those of
others are either true or false. When I say that we make
assertions in the primary language, I must guard against a
misunderstanding, for the word “assertion” and, since q is not a
possible value of p, the argument that q is also true collapses. The man
who says ‘T am telling a lie of order n” is telling a He, but of order n
4 - I. Other ways of evading the paradox have been suggested, e.g. by
Ramsey, “Foundations of Mathematics”, p. 48. * My liierarchy
of languages is not identical with Carnap's or Tarski's. Proceeding
psychologically, I construct a language (not the language) fulfilling the
logical conditions for the langu^e of lowest type; I call this the
“object-language” or the “primary language”. In this language, every word
“denotes” or “means” a sensible object or set of such objects, and,
when used alone, asserts the sensible presence of the object, or of one
of *9 AN INQUIRY INTO MEANING AND TRUTH
the set of objects, which it denotes or means. In defining this
language, it is necessary to define “denoting” or “meaning” as applied to
object-words, i.e., to the words of this language. Paolo Filiasi
Carcano di Montaltino di Carapelle. Paolo Filiasi Carcano. Paolo Carcano.
Montaltino. Keywords: linguaggio e metafilosofia, semantica, quarto duca di
montaltino, semantica ed esperienza, semantica e fenomenologia, filiasi
carcano, montaltino, carapelle. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carapelle” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Carbonara: l’implicatura
conversazionale l’esperienza e la prassi – Cicerone e il pratico -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Potenza). Filosofo Italiano. Grice:
“I like Carbonara; my favourite of his tracts are one on ‘del bello,’ – another
one on ‘dissegno per una filosofia critica dell’esperienza pura: immediatezza e
reflessione’ – but mostly his ‘esperienza e prassi,’ which fits nicely with my
functionalist method in philosophical psychology: there is input (esperienza),
but there is ‘prassi,’ the behavioural output --; I would prefer this to the
tract on the ‘filossofia critica’ since I’m not sure we need ‘reflexion’ to
explain, say, communication – not at least in the way Carbonara does use ‘reflessione,’
alla Husserl. Conseguito il diploma liceale,
si trasferì a Napoli, frequentando la facoltà di filosofia. Ottenuta la laurea
sotto Aliotta, collabora per “Logos”. Insegna a Campobasso, Nocera Inferiore,
Cagliari, Catania, e Napoli. Con “Disegno
d'una filosofia critica dell'esperienza pura”, rifacendosi alla filosofia
kantiana e riprendendo il discorso idealistico ne mette in rilievo il tentativo
fallito di Gentile di dare concretezza all’astratto. Nell'attualismo, il
ritorno all’atto, al fatto, si risolve infatti nell'atto sempre uguale e sempre
diverso del pensare, unica realtà e verità del pensiero e della storia: «vera
storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella che si raccoglie
nell'eterno atto del pensare».. Il problema secondo Carbonara anda esaminato
riportandolo alla sua origine, cioè al problema del rapporto tra esperienza e
concetto, tra realtà e concetto così come era stato affrontato dalla filosofia
kantiana e che Gentile crede di risolvere stabilendo un rapporto dialettico tra
il concetto e il suo negativo all'interno del concetto stesso. La soluzione
invece era in nuce secondo Carbonara nella sintesi a priori kantiana dove
convivono forma (segnante) e contenuto (segnato) per cui la coscienza è per un
verso forma, contenitore (segnante) di un contenuto (segnato) storico e per un
altro *coincide* col suo contenuto (segnato) in quanto il contenuto (segnato)
non avrebbe realtà al di fuori della forma della coscienza segnante. La
successiva questione si pone considerando oltre il rapporto del pensiero – il
segnante -- con la materia quella collegata all'origine del pensiero stesso.
Ancora una volta Kant intravede la soluzione nella teoria dell' “io penso” che
però va ora intesa non come la struttura logico-metafisica della realtà
storica, ma come la sua struttura psicologica ma *trascendentale* o
"esistenziale", secondo una concezione della "filosofia
dell'esperienza pura" nel senso che l'esperienza coincide col divenire
della vita dello spirito e deve restare indifferente al problema, ch'è
propriamente di natura ontologica, circa la sua dipendenza o indipendenza da
una realtà diversa dal mio spirito. Il rapporto tra pensiero e materia porta
Carbonara ad indagare quello tra filosofia e scienza con “Scienza e filosofia”
in Galilei, in cui sostiene che mentre da un punto di vista filosofico non si
può andare oltre l'ambito dell'autocoscienza (il mio spirito – Il “I am hearing
a noise” di Grice) del cogito cartesiano, al contrario la scienza si basa sulla
necessità di fondarsi sul mondo esterno (nel spirito dell’altro –
intersoggetivita). Forse la soluzione di questa antinomia, sostiene Carbonara,
va ricercata nell'insoddisfazione dello stesso idealismo verso se stesso non potendo rinunciare a se stesso ma neppure
al suo opposto -- nec tecum nec sine te -- solus ipse. Si interessa anche
della filosofia rinascimentale a Firenze. Nota come in quel periodo si fosse
realizzata una fusione tra il cristianesimo e il neo-platonismo così come ad
esempio in Ficino prete cattolico che visse la sua fede come teologia razionale
dando una base filosofica, trascurando la stessa rivelazione, alla sua
spiritualità religiosa: In Ficino, il platonismo si congiunge al
cristianesimo non soltanto sul fondamento di una religiosità profonda da cui il
primo appare permeato, ma anche per una tradizione storica ininterrotta, per
cui l'antichissima saggezza, ripensata da Platone e dai neoplatonici, si
ritrova trasfigurata ma tuttavia persistente nei Padri della Chiesa e nei
dottori della Scolastica. Come apprendiamo dall'Epistolario di Ficino, la
sapienza e intesa come un dono divino e come mezzo per cui l'uomo può elevarsi
fino a Dio. Tale principio fu poi appreso da Pitagora, Eraclito, Platone,
Aristotele, i neoplatonici. Riemerse nella speculazione filosofica ispirata
dalla Rivelazione cristiana e si ritrovò quindi in Agostino. Lo stesso Cicerone
figura nella catena dei platonici romani. Riallacciandosi a quella
tradizione e meditando sui testi platonici, Ficino concepí il disegno, portato
a termine di ricostruire su fondamento platonico la teologia il platonismo vi è
considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui princípi
coincidono con quelli della rivelazione. Tale coincidenza è il principale
argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo
rispetto alle altre religioni positive. Del resto Ficino è disposto ad
ammettere che qualsiasi culto, purché esercitato con animo puro, reca onore e
gradimento a Dio. Altre opere: “L'individuo, i dividui, e la storia; Scienza e
filosofia in Galilei; Esperienza; Umanesimo e Rinascimento (Catania) Del Bello;
Introduzione alla Filosofia (Napoli; Materialismo storico e idealismo critico; Sviluppo
e problemi dell'estetica crociana; I presocratici; Esperienza ed umanesimo
(Napoli) La filosofia di Plotino; “Persona e libertà”; Ricerche di un'estetica
del contenuto”; Esperienza e prassi; Discorso empirico delle arti, Il
platonismo nel Rinascimento. Iu un momento diverso dalla storica ora
presente of¬ frire in veste italiana alla coltura filosofica del nostro
paese il Sistema di Dottrina morale secondo i principi della Dot¬
trina della scienza di Giovanni Amedeo Fichte (‘) sarebbe stata opera già
esaurientemente giustificata e dalla gran¬ dezza di quel genio
speculativo, e dal vivo crescente inte¬ resse del nostro tempo per il suo
originale sistema ideali- stico-romantico, e dalla capitale importanza
che nella strut¬ tura del sistema stesso ha la Dottrina morale, e
dall’op¬ portunità, quindi, di agevolare la diretta conoscenza di
questa a quanti tra noi non fossero in grado di leggerla e gustarla nè
nella classica (nonostante i suoi difetti) edizione tedesca dovuta alla pietà
filiale di Fichte — divenuta oggi assai rara, ma di recente lori. Gotto.
Fichte, Das System der Sittenlehre nach <leu Prin- zipletl (lev
Wìsseuschaftslehre, Jena und Leipzig, Gabler, 1798. (*) V. il voi.
IV delle Opere complete (Sitmmtliche 1 Verke) di Giov. Am. Fichte, edite
in otto volumi e con assai utili prefazioni da Eli. Ehm. Fichte (Berlin,
Veit e C., 1845-46), dopo altri tre volumi di Opere postume
(Nachgelasseiie Werlce) apparsi per cura dello stesso editore a Bonn fin
dal 1884-35, ma aggiunti come ultimi agli otto prece¬ denti, i quali
diventano perciò undici. I difetti, che sono stati rim- fedelmente
riprodotta (con tatti i suoi difetti) da Fritz Me- proverati all’
edizione del Fichte figlio, consistono, tra gli altri — a parte le
critiche riguardanti 1’ordinamento generale degli scritti pa¬ terni
(sulle quali v. A. Ravà, Le opere di Fichte, in Rivista di Filo¬ sofia,
sett.-die. 1914) — in errori di stampa, lacune casuali o soppressioni
arbitrarie di una o più parole, aggiunte o trasposizioni di vocaboli,
deposizione dei capoversi e punteggiatura non sempre quali si avrebbe
ragione di aspettarsi, ecc. ; donde non poche nè lievi difficolta per intendere
bene e rendere esattamente in altra lingua il pen¬ siero dell’autore. La
qual cosa ci preme far rilevare, anche perchè non sembri esagerazione, se
diciamo che fu lavoro di non poca lena, sostenuta soltanto dall’interesse
per l’opera fiehtiana, quello da noi compiuto attorno a una traduzione
che ci proponemmo eseguire con la più 'scrupolosa fedeltà al testo
originale, ma, in pari tempo, curando il più possibile la chiarezza del
contenuto e l’italianità della forma. Al quale duplice fine ci parve
opportuno di riportare tra pa¬ rentesi curve ( ) le espressioni genuine e
più caratteristiche dell’au¬ tore, quando il nostro idioma non si
prestava a riprodurle se non inadeguatamente ovvero assumendo un certo
aspetto di stranezza, e di chiudere tra parentesi quadre [ J le
espressioni aggiunte dal tra¬ duttore con intento interpretativo o
dilucidativo. Il lettore, in tal modo, è sempre messo sull’avviso circa i
punti in cui il linguaggio dell’autore è meno trasparente e può giudicare
se talvolta al traduttore — secondo il noto bisticcio - non sia accaduto di
essere involon¬ tariamente il traditore del pensiero tichtiano. TI quale
pensiero riesce tanto più difficile a restituire nella sua forma genuina,
in quanto che esso non solo fu iu continua evoluzione e trasformazione,
ma ebbe dal Fichte, più oratore elio scrittore , le mutevoli formulazioni
occasionali adatte alla predicazione, all’insegnamento e alla polemica, anziché
la stabile struttura definitiva di un’opera d’arte destinata a tra¬
mandare ai posteri il documento autentico di un sistema compiuto; e la
Dottrina inorale, di cui ci occupiamo qui, risente anch’essa, nello
stile, del carattere proprio a quella gran parte delle opere del Fichte,
che sono o riproduzioni o preparazioni, ampiamente elaborate in iscritto,
di lezioni e corsi accademici. Si aggiunga a ciò che la Sit- tenlehre
(1798), e nel contenuto e uella forma, è la continuazione c
l’applicazione di quella Wissetischaflslehre che il Medicus, in una sua
monografia dedicata al Fichte, uou esita a chiamare “ il libro, torse,
più difficile che esista in tutta la letteratura filosofica (sie ist
vielleicht das schiiieriijste Rudi in der yesmnten philósophischen Luc¬
ratile) „ (cfr. Grosse Denker, editi nel 1911 a Lipsia, Verlag
Quelle dicus ( 1 ) — , uè nella libera e, proprio nei punti ove H
testo è meno chiaro, monca versione inglese fattane dal Kroeger; (in
francese o in altra lingua non ci risulta sia stata mai tradotta, il che
non ha certo contribuito ad accrescerle et Meyer, senza «lata,
<la E. vou Aster) — della Dottrina della Scienza abbiamo iu italiano
la traduzione fattane da A. Tilouer (Bari, Laterza, 1910) — j si noti,
inline, che il Fichte figlio sconsi¬ gliava il Bouillier dal tradurre in
altra lingua quelle, tra le opere del padre, che non avessero un
contenuto popolare e fossero scritte in una rigorosa forma
scientifico-filosofica — ecco le sue parole: “ .Te conseille de ne pas
traduire les oeuvres scientifiques proprement dites, «:t d’ uno forme
philosophique rigoureuse. 11 est à peu près impossi- ble de les traduire
«lana votre luugne; il faudrait les transformer et eu changer l’exposition.
Uue traduction littérale mirait le doublé iu- convénient de taire
violence à votre 1 angue, et de ne pas reproduire le veritable esprit du
système. „ (cfr. MéUiode pour arrivar à la tir bica heureuse par Udite,
traditit par M. Bouillier, aver, uno Introdaction par Fichte le File,
Paris, Ladrango) — : e si sarà, speriamo, meglio disposti a giudicare con
qualche indulgenza le manchevolezze anche da noi sentite, ma che non riuscimmo
ad evitare, so pur erano evitabili, iu questa nostra traduzione, in
cui la lettera do¬ veva più che mai venir suggerita e giustificata dallo
spirito della dot- liiua tradotta, onde ci s imponeva di continuo la
necessità di ripen- norr e, per quanto ci fu possibile, di rivivere il
pensiero del Fichte. '' 11 Jmc Gotti*. Fichte, IVerke, Auswahl in
sechs Btinden (mit nielli ci en Bildnisxen Fichtes ), edizione e
introduzione di FimtzMediCUS, Leipzig, 1908-1912. Non intendiamo detrarre
nulla alle lodi giustamente! tributate d’ ogni parte a questa nuova
edizione delle principali opere del Fichte, condotta di recente a termine
e salutata nel mondo fìloso- tico come un importante e lieto avvenimento,
soprattutto per il con¬ tributo che porterà alla diffusione e alla
conoscenza della dottrina lichtiana; dobbiamo soltanto osservare che,
almeno per quanto concerne .1 System der Sittenlehre, di cui diamo qui la
traduzione, la collazione del testo nelfediz. del Medicus non presenta
assolutamenta nulla di diverso e nulla di migliorato, rispetto a quella
del 1845-46 curata da Lm. Era. Fichte ; se mai, anzi, qualche errore di
stampa in più ; onde essa non ci è stata di nessun aiuto. Tanto per la
verità. () The Science of Etìlica as based on thè Science of
knowledge by Ioh. Gotti. Fichte, tradnz. di A. E. Kroeoeh. edita da W. T.
Har¬ ris (London, Kegau Paul, Treucli, Trubner et Co., Ltd.,
1907). il numero dei lettovi). Dorante, poi, l’attuale immane cata¬
clisma bellico che sì inaspettatamente ha tutta Europa scon¬ volto e le
nostre coscienze profondamente turbato, in questa tragica ora chè tigne
il mondo di sanguigno, perchè proprio nella terra classica dell’idealismo
filosofico, sfrenatasi l'eb¬ brezza mistica di una supposta superiorità
di razza e di col¬ tura, prevalso un malinteso spirito di egemonia
mondiale, straripata la prepotenza del militarismo, scatenatisi gli
istinti e le cupidigie più basse, la civiltà sembra inabis¬ sata nel buio
e la scienza si è trasformata, con scempio di ogni leggo umana e divina,
in strumento di barbarie, rin¬ negando quel carattere umano che della
scienza è e deve essere la vera, sovrana, immortale bellezza, in questa
im¬ mensa mina di tutta la scala dei valori, due forti ragioni di
più — contrariamente a quanto potrebbe parere a prima vista — c’inducono
all’opera stessa: da un lato mostrare con quale serenità, imparzialità e
altezza di vedute noi ita¬ liani, che più volte nella storia fummo
maestri di civiltà, sappiamo riconoscere, pur quando gli animi nostri
siano agitati da moti sentimentali avversi, il possente contributo
di pensiero e di moralità che gli spiriti geniali, a qualun¬ que nazione
appartengano, hanno recato alla coltura ; dal- 1’ altro fornire, con la
divulgazione delle dottrine morali di un filosofo tedesco come il Fichte
— da cui più spe¬ cialmente con grave errore si vorrebbe derivare il
panger¬ manismo — una prova di più della radicale deviazione che le
fiualità della Germania odierna, rappresentata dai Nietz¬ sche, dai
Treitschke, dai Bernhardi, dai Chamberlain, dai Woltmaun, segnano
rispetto alle idealità profondamente umane e universali rifulgenti in
tutta la letteratura e in tutta la filosofia della Germania classica,
rappresentata da un Leibniz, da un Lessing, da un Herder, da un
Gboethé, da uno Schiller, da un Kant e dallo stesso Fichte (*). Perchè
anche il Fichte, al pari del suo grande predecessoro Kant — il filosofo della
pace a cui Con esat- * tozza soltanto relativa egli fu
contrapposito come il filosofo della guerra —, aspirava, pur con tutte le
esagerazioni es¬ senzialmente teutoniche del suo pensiero, al regno della
ra¬ gione, al Vemunftstaat, basato sul riconoscimento del va¬ lore
dello spirito quale unico, vero e assoluto valore, e co¬ stituito da
personalità autonome e responsabili che devono svolgersi soltanto entro
le linee di un ordinamento razio¬ nale del tutto. Che se la
magnificazione e la glorificazione della lingua e del popolo tedesco a
cui il Fichte assurge, a cominciare dai Caratteri fondamentali dell’età
presente (*) (*) V. in proposito nella Revue de Métaphysique et de
Morale (nov, 1914, pubbl. nel nov. 1915) l’importante articolo di V.
Basch, L’Al- le magne classique et le pangermanisme. V. inoltre Sante
Ferra ni, Fra la guerra e V Università (Seatri Ponente, 1915); in questo
di¬ scorso inaugurale dell'anno accademico 1915-16 all’università di
Ge¬ nova, l'A., dopo avere stigmatizzato con indignata parola “ la nuova
sofìstica, più audace e più operativa dell'antica, die in Germania per
decenni lavorò a eccitare gli spiriti e a iriebbriarsi nel sogno del
dominio mondiale a qualunque patto,,, “ le iniquità senza pari, cor¬
ruttrici, vigliacche, brutali, e le violazioni dei patti più solenni che
quel popolo sostituisce .... al valore degli eroi pagani, alla cavalleria
del guerriero medievale „ e u la volontà sinistra che informò i me¬ todi
alla subdola preparazione dell'immane delitto „ (p. 7), invita a
distinguere in'quella nazione lo opere dei grandi avi e quelle dei ue-
poti : “ Quali e quante pagine troveremmo nei primi, atto a rintuz- i
zare, a riprovare, a distruggere le smodate ambizioni dell’ oggi ! e
quanti successori vedremmo rinnegati!,, (p. 13) e, per antitesi, si
ferma a illuminare nella loro sublime purezza le figure del Kant e a» del
Fichte. ( 2 ) Grundziige dea gegenviirtigen Zeilullers (Sanimi!.
Werke, VI). Queste conferenze, tenute nel 1804-05, si direbbero quasi
altrettanti aifreschi di filosofia della storia, di cui lo Herder aveva
dato il mo. sino ai Discorsi alla, nazione tedesca (*), attraverso la
serie di opuscoli politici intermedi ( 2 ), hanno potuto
giustamente apparire come la radice del pangermanismo, non ne segue
perciò che il Pielite stesso fosse un pangermanista. u Come ! esclama il
Basoh ( 3 ), pangermanista quel Fichte che parla nel 1807-08 a Berlino,
ancora occupata dai francesi, dinanzi a spie francesi, dopo Auerstftdt e
Iena, dopo Eylau e Fried iand, dopo quel trattato di Tilsit di cui
sappiamo le stipu¬ lazioni draconiane ! Chi non vede che appunto perchè
il suo popolo era asservito, umiliato, esposto a essere can¬ cellato
dalla carta d Europa con un tratto di penna del- l’onnipossente
imperatore francese, e appunto perchè la Germania era stata spezzettata,
la Prussia smembrata, egli ha, per legittima reazione e con sflflrzo
ammirevole, esaltato, idealizzato, divinizzato quel popolo, opponendo
alla realtà la visione magnifica di un avvenire che a lui stesso
appa¬ riva problematico ? Le Reden sono un’ utopia ; un’ utopia
cento volte quel Germano autoctono, quel Mut ter land , quella lingua
madre ; e il Fichte lo sapeva bene e 1’ ha dello, e in cui il
Ciclite, con una miscela di nazionalismo mistico o di cosmopolitismo
umanitario, tratteggia a grandi periodi l’evoluzione dei genere umano
dalle sue più lontane origini sino ai suoi più remoti destini futuri,
passaudo attraverso le cinque età: ni dell’ innocenze o ragiono
istintiva, b) dell’ autorità o ragione coercitiva, c) del peccato o
ribellione contro la ragione sia istintiva sia coercitiva, d) della giustizia o
arte della ragione, e) della santità o scienza della ragione. (')
Reden an die deutsche Nailon ( Summit. Werke, VII). (-) Segnaliamo,
tra gli altri, i Discorsi ai combattenti tedeschi al- 1 inizio della
campagna del 1806 (Reden an die deutschen Kricgev zu All funge des
Feldzuges) (Stillanti. 11 erke t VII) e i dialoghi patriottici dell’anno
1807, Il patriottismo e il suo contrario (Dei- Patriotismus und sein
Gegentheil), (Sananti. Werke, XI, Nacliyel. Werke, III). ( 3 1 V.
art. cit., pp. 783-784. det-.fo egli st.esso. Questa
lingua, questo popolo egli li póneva non come già esistenti, ma come
qualcosa che bisognava creare, se si voleva salvare la nazione tedesca
dalla rovina totale e impedire che fosse radiata dal numero dei
popoli \ilidipendenti. Questa lingua e questo popolo non erano una
Veallà, ma un ideale, o meglio un imperativo „ ('). Del lèsto non abbiamo
avuto anche noi, nella nostra letteratura, un (fenomeno analogo ai
Discorsi alia nazione tedesca, in <\\i<\Primato morale e virile
degli italiani , in cui, inver¬ tendo, il puuto di vista fichtiano, il
Gioberti costruiva una filosofa della storia non meno utopistica, ma che
pur tanti petti sdpsse, taute anime accese negli anni più belli del
nostro riscatto (*) ? Che se poi il libro eloquente ed essen¬ zialmente.
opera di fede del Fichte sia inteso non alla let¬ tera ma nel suo
profondo significalo filosofico, spogliato dei suoi particolari
riferimenti spaziali e temporali e con¬ siderato sub specie aeternitatis
, allora non solo oltrepassa il valore di ubo scritto d’occasione, ma si
eleva all’altezza di un’ opera sublime, perennemente suggestiva di
nobili pensieri e di eroiche azioni. L’ autore, sempre ispirandosi
a quel suo idealismo immanente, che egli contrappone a (') Li il
leit-motiv proprio di tutta la filosofia fichtiana porre il “ dover
essere ossia 1' “ idealo „, come condizione creatrice e ragione
sufficiente e spiegazione finale dell’ u essere ossia del “ reale „. Se
il Kant potè dirsi il Coporuico dolla filosofia, in quanto trasferì il
punto di vista del problema filosofico dall' oggetto al soggetto, dal¬
l'essere al conoscere, il Fichte può dirsi anch’egli il Copernico della
filosofia, in quanto spostò di nuovo quel punto di vista dal conoscere al
fare, dall’essere al dover-esserc : la vera realtà, il vero assoluto sta
per lui nell’ideale, nel dovere. ( ! ) V., in Rivista di Filosofa
(ott.-dec. 1915 ), A. Faggi, Il “ Pri¬ mato „ del Gioberti e i “ Discorsi
alla nazione tedesca „ del Fichte. qualsivoglia dogmatismo,
specialmente se materialistico, sostiene in sostanza che non c’è
possibilità di filosofia e di poesia, di religione e di educazione, di
libertà e di progresso, se non là dove lo spirito crei o trovi in sè, e
in nessun modo attinga dal di fuori, il principio propulsore e
direttivo di tutta l’esistenza (*). Questo idealismo immanent/ egli
chiama filosofia tedesca, ossia viva, di fronte a qualsiasi filosofia
straniera, ossia morta. E che intende egli , per tedesco ? Non occorre ricordare che secondo il Fichte
vi sono dué sistemi filosofici rigorosamente conseguenti, ciascuno dal
suo punto/di vista: a) il dogmatismo, b) l’ idealismo. Ul^cio della
filosofia è spiegare l’espe¬ rienza, la quale è costituita dalle
rappresentazioni delle Còse. Ora si può a) o far derivare la
rappresentazione dalle cose, come fa il dogma¬ tismo, b) o far derivare
la cosa dalla rappresentazione, cóme fa l’idea¬ lismo. Lo scegliere l’una
piuttosto che l’altra delle dué vie possibili dipende dal carattere
individuale. Un sistema filosofico — bastereb¬ bero queste parole a
mostrare quanta fede pratica, quanta iniziativa per¬ sonale ed energia
spirituale il Fichte mettesse nella sua filosofia e quanta ne esigesse da
chi questa filosofia voglia comprendere — non è uno strumento inanimato
che si possa a piacimento possedere o alie¬ nare : esso scaturisce dal
più profondo dell’anima umana: “ Iras far eine Philosophie man wàihle,
hangt... davon ab, was man far ein Mensch ist: demi ein philosophisclies
System ist nicht ein todter Hausrath , dea man ablegen oder abnehmen
honnte, irte es mis beliebte, sonderà es ist beseelt durch die Seele des
Menschen, der es ìiat. „ (Erste Ein lei- tung in die Wissensehaftsle'ire
, Scimmtl. IVerke, I, p. 434). La scelta sarà diversa secondo che
prevarrà in noi il sentimento dell’indipen¬ denza e dell’attività o il
sentimento della dipendenza e della passi¬ vità; un carattere flaccido
per natura, ovvero rilassato e incurvato dalla schiavitù dello spirito,
dal lusso raffinato o dalla vanità, non s’innalzerà mai all’idealismo: 11
ein von Notar schiaffar oder durch Geistesknechtschaft gelehrten Luxus
and Eitelkeit erschla/fler und gekrùmmler Chardhter toird sich nie zum
Idealismus erheben. „ (ibid.). E ciò, indipendentemente dalle ragioni teoretiche
che anch’esse dànno un’incontestabile superiorità di filosofia
esaurientemente persuasiva all’idealismo di fronte all’in9ufficiente e
assurdo dogmatismo. Nel settimo discorso, in cui si approfondisce il .con-
' cotto àe]Y originarie là, e germanicità di un popolo (‘) l’autore
stesso ha cura di far rilevar^ u con chiarezza per¬ fetta „ ciò che in
tutto il suo libro ha intesò per tedesco (was uoir in unsrer bishcrigen
Schilderung unter Deut- schen verstanden haben). “ Il vero e proprio
punto di di¬ visione — egli scrive — sta in questo: o si crede che
nel¬ l’uomo ci sia qualcosa di assolutamente primo e originario, si
crede nella libertà, nell’infinito miglioramento e nell’e¬ terno
progresso della nostra specie, oppure si nega tutto ciò e si crede di
vedere e comprendere chiaramente che è vero tutto il contrario. Coloro
che vivono creando e pro¬ ducendo il nuovo, coloro che, se non hanno
questa sorte, almeno abbandonano decisamente quel che non ha valore
(,das Nichtige) e vivono aspettando che da qualche parte la corrente
della vita originaria venga a rapirli con sè, coloro che, non essendo
neppure tanto avanti, almeno pre¬ sentono la verità, e non l’odiano o non
la paventano, ma l’amano: tutti costoro sono uomini originari e,
considerati come popolo, sono un popolo vergine ( Urvolk), sono il
popolo per eccellenza, sono tedeschi. Coloro, invece, che si rassegnano a
essere un che di secondo e derivato e chia¬ ramente concepiscono e
riconoscono sè stessi come tali, tali sono in realtà, e sempre più tali
divengono in forza di questa loro credenza; essi sono un’appendice della
vita che una volta prima di loro o accanto a loro viveva per
impulso proprio, essi sono l’eco che la roccia rimanda di () S’intitola:
Noch tiefere Erfassung der Ursprunglichkeit utid Deutscheit eines Volkes
(Sammtl. Werke, VII, pp. 359-377), (nella trad. ita!. Burich, Palermo,
Sandron). una voce già spenta, e, considerati come popolo, non sono
un popolo vergine, anzi di fronte a questo sono stranieri ed estranei
(Fremete und Andando-) „ (»). Ecco, dunque, che cosa significa: tedesco!
non già il tedesco considerato Ine et nune, ma il simbolo di un tipo
ideale, onde il Fichte, continuando, aggiunge: u Chiunque crede nella spiritualità,
nella libertà e nel progresso di questa spiritualità mediante la libertà,
egli, dovunque sia nalo, qualunque lingua parli (wo es auch geboren seg
und in welcher Sprache cs reile) e dei nostri, appartiene a noi, ci
seguirà; chiunque, invece, crede nella stasi generale, nella decadenza,
nel ricorso circo¬ lare e pone a governo del mondo una natura morta,
egli, dovunque sia nato, qualunque^lingua parli, è non-tedesco
(undeutscll), è per noi uno straniero, ed è desiderabile che quanto prima
si stacchi completamente da noi „ ( 2 ). I Di¬ scorsi alla nazione
tedesca, dunque, soltanto occasional¬ mente si rivolgono al popolo
germanico, mentre nella loro profonda verità si rivolgono a tutti i
popoli moderni, a tutti gli uomini che hanno fede nella libera spiritualità,
di qualunque paese essi siano, additando a ciascuno la via sulla quale si
può servire alla propria patria particolare e insieme alla gran patria
comune, si può essere a un tempo nazionalista e cosmopolita, perchè gl’
interessi su¬ premi ed essenziali dell’umanità sono sempre e
dovunque gli stessi. Ma a dimostrare in modo* 1 definitivo
quanto l’autore dei Discorsi sia alieno dal cosidetto pangermanismo sta
il () Reden an die deutsche Nalioti (Stimmll. Werke, VII, p,
874), (nella trad. ital.). (’) Ibid. p. 375, (nella trad.
ital., pp. 144-145); il nerette delle parole " dovunque sia nato
ecc. „ è nostro discorso decimoterzo, donde trae maggior luce il
significato di tutti gli altri. Si direbbe che i pangermanisti, ai
quali piace farsi forti dell’auLorità del uostro filosofo, si siano
di proposito arrestati dinanzi a questa sua arringa, che pure è il
punto culminante verso cui tendono le rimanenti e che può dirsi un vero
catechismo antimperialistico. Tutto ciò che all’imperialismo della
Germania odierna sembra l’ideale che essa sarebbe chiamata ad attuare: il
possesso di colonie, l’esclusiva libertà dei mari, il commercio e
l’industria mon¬ diali, le guerre di aggressione e ili conquista, la
barbarie scientificamente organizzata, le vessazioni sui paesi invasi,
la visione di una monarchia universale, l’egemonia assoluta, vi ò
rappresentato come odioso e insensato (‘). Ammettiamo pure che il
Fichte abbia combattuto questa criminosa megalomania perchè essa nel 180G
s’incarnava sotto i suoi occhi nella Francia napoleonica; non è men
vero, però, che l’ideale opposto, a lui caro, rispondeva in modo
re¬ ciso a tutta una concezione politica che fa di lui il figlio e
il rappresentante più genuino della rivoluzione francese. La sua vita, i
suoi scritti di filosofia pratica e di filosofia della storia nte sono
prova ampia, piena, sicura, e se anche su¬ birono modificazioni, queste
riguardano non il suo pen¬ siero e i suoi sentimenti, i quali in fondo
rimasero sempre gli stessi, ma le mutate circostanze esteriori, il
mutato aspetto della Francia, divenuta, da repubblicana e libera¬
trice, imperialistica e liberticida. Nato popolo — figlio di un povero
tessitore, infatti, comincia la vita avviandosi al mestiere paterno e
guardando le oche — , egli sempre po- (*) Kedeii ecc. (Sàmmll. I
Verke, VII, pp. 459-480), nella irad. ital.,I polo è rimasto nel
più profondo dell’anima, per quanto ricca e forte sia divenuta poi la sua
coltura, a qualunque sommità della scienza, dell’eloquenza e della gloria
siasi inalzato il sùo genio. Già sin dagl’ inizi della sua fama si
rivela un democratico ardente, giacobino quasi, irrecouci- 1 iabile
avversario di ogni pregiudizio religioso, politico e nazionalistico.
Subito dopo la sua Rivendicazione delia li- berlà di pensiero dai
principi d'Europa die /ino allora l'acecano oppressa (1793) (‘), egli,
nei suoi Contributi alla rettifica dei giudizi del pubblico sulla
rivoluzione fran¬ cese (1793) (*), plaude ai principi dell’89 col fervido
entu¬ siasmo d’un uomo la cui classe usciva redenta da quel grande
atto di liberazione sociale, e aterina la sua fede nella rivo¬ luzione
stessa, proclama i diritti del popolo, frusta a sangue il militarismo,
maledice alle guerre mosse da interessi o da capricci dinastici, e lancia
contro principi e monarchie as¬ solute i primi strali di quell’eloquenza
appassionata che fa di lui forse il più grande oratore della Germania. Zuruckfarderung
der Denkfreihe.it von den Filrsten Europas, die eie bisher unterdriikten
(Sdmmtl. If erke, VI). (*) Beitriige zar Berichtigung der Urtheile
des PubVcuins iiber die franzòsische Revolution (Sananti. Werke, VI).
C) In queste sue prime opere politiche, elio per lungo tempo furono
messe all’indice in tutta la Germania, il Fichte mostra che la ri¬
voluzione francese fu il prodotto necessario della libertà del pensiero,
che la persona morale ha il diritto di elevarsi contro lo Stato, e che
l’uomo uscito dalle mani della natura è autonomo, e che è inaliena¬ bile
il diritto dei cittadini di moditicare la costituzione, di uscire da
un’associazione politica per crearne una nuova, di fare ciò che ap¬ punto
si chiama una rivoluzione. Fine ultimo degli uomini ò la coltura di
tutti per la libertà, ma le monarchie, egli afferma, invece di lavorare
al perfezionamento dei sudditi, sono state centro di de¬ pravazione
morale. Come hanno inteso, infatti, i sovrani la coltura dei sudditi a
loro affidati? Sotto forma di educazione alla guerra; perchè, dicono
essi, la guerra coltiva. « Qra, è vero che la guerra Il Fondamento
del Diritto naturale secondo i principi inalza le nostre anime a
sentimenti e azioni eroiche, al disprezzo del pericolo e della morte,
alla noncuranza dei beni continuamente esposti ni saccheggio, a una
simpatia per tutto ciò che ha aspetto umano, perchè i pericoli e i dolori
sopportati in comune stringono di più gli altri a noi. Ma non crediate di
vedere in queste mie parole un pa¬ negirico della vostra follia
bellicosa, o fors’anco l’umile preghiera che l’umanità dolente
v’indirizzerebbe perchè non cessiate dal decimarla con guerre sanguinose.
La guerra non inalza all’eroismo se non le anime già per natura eroiche;
incita, invece, le anime poco nobili alla ruberia e all'oppressione della
debolezza priva di difesa. La guerra crea a un tempo eroi e vili
rapinatori, ma aitimi ’ delle due specie quale in numero maggiore ? „
(cfr. Sàmmtl. Werke, VII, pp. 90-91). Nel fondare e governare i loro
Stati i monarchi mirano a rafforzare la loro onnipotenza all’interno, ad
allargare le loro frontiere all’esterno: due fini, questi, tutt’altro che
favorevoli alla coltura dei loro sudditi. 1 monarchi pretendono di essere
i custodi del necessario equilibrio delle forze europee; ma questo fine,
se è il loro, è perciò anche quello dei loro popoli? “ Credete proprio —
egli domanda ai principi tede¬ schi — che l'artista o il contadino
lorenese o alsaziano abbia molto a cuore di veder menzionata la propria
città o il proprio villaggio, nei manuali di geografia, sotto la rubrica
dell’impero germanico, e che por ottenere ciò butti via lo scalpello o
l’aratro ? Il pericolo della guerra, ossia di ciò che lede e ferisce a
morte la coltura, ultimo fine dell’evoluzione umana, deriva unicamente dalla
monarchia assoluta, la (piale tende per necessità alla monarchia
universale. Sopprimete questa causa, e tutti i mali che ne derivano
scompariranno anch’essi, e le guerre terribili e i preparativi della
guerra, ancor più terribili, non saranno più necessari (ibid. p. 95). —
Più oltre, poi, troviamo il Fichte antisemita e antimilitarista:
antisemita contro quegli ebrei “ che sono refrattari ad assimilarsi alle
nazioni in mezzo a cui plu¬ vi vono „; antimilitarista contro l’esercito
del suo tempo “ che met¬ teva il proprio onore nella propria umiliazione
e trovava nell’impu¬ nità per le sue angherie contro i borghesi e i
contadini un compenso ai pesi del proprio stato „. E continua: “ Il più
brutale semibarbaro crede acquistare con la divisa militare una
superiorità sul contadino timido e spaventato, che sopporta le sue
prepotenze e i suoi insulti per non essere, per soprammercato, anche
bastonato. Il giovincello che può vantare più antenati, ma non certo più
coltura, considera la propria spada come un titolo sufficiente per guardare
dall’alto e con disprezzo il commerciante, l’uomo di scienza e l’uomo di
Stato. \Vilt — della Dottrina della scienza (1796) (') e Lo Stato
commer¬ ciale chiuso (1800) contengono auch’essi una filosofia
poli¬ tica che, scaturita interamente, oltreché dal pensiero kan¬
tiano, dai principi della rivoluzione francese, supera quel pensiero e
questi principi per le conseguenze economiche che egli fu il primo a
trarne, e approda aH’atfermazione di un diritto dei popoli e di un
diritto dei cittadini del mondo (Volker- und Weltbnrgerrechl) e alla
necessità di un’a¬ nione di popoli ( Vdlkerbund) — ben diversa da uno
Stato di popoli (Volkerstaat) — che garantisca la giustizia e porti
gradatamele alla Pace perpetua (zUm ewigen Friede) Grundlage des Natnrrechte
nach Prinzipien dee ìVissenscliafls Pin e (Siimmil. Werhe, IH).
(*) Ber geschlossene Handelsstaat (StillimiI. Werhe, III). Vediue-
auclie la traduz. ita!, di tì. B. P., Dell'intimo ordinamento di uno Stato
ec<\, Lugano, 1851, e l’altra (anonima) Lo Stato secondo ragione e lo
Stato commerciale chiuso, Torino, Bocca, 190». ( 3 ) Ecco,
sommariamente, la dottrina politico-economica del Fichte: La radice più
profonda dell’Io è l’Io pratico o la libera volontà; e poiché alla libera
volontà di eiasenu individuo si contrappone quella degli altri, nasce una
libera azione reciproca tra lo diverse volontà individuali, per regolare
la quale gli uomini'hanno concluso il con¬ tratto sociale da cui è uscito
lo Stato. Nello Stato il potere legisla¬ tivo appartiene alla comunità
dei cittadini; l’esecutivo può essere af¬ fidato sia all’elezione
(democrazia), sia alla cooptazione (aristocrazia), sia all’elezioue e
alla cooptazione insieme (aristodemocrazia). Tutte queste forme di governo
sono egualmente legittime, purché vi sia accanto a esse uu altro potere
ìndipendente, VSforato, il quale decida dei casi in cui il potere
esecutivo, essendo caduto in errori o colpe, deve risponderne dinanzi
alla comunità. Oltre a questo contratto sociale- politico, il Fichte,
oltrepassando la prudenza borghese del Kant, il quale ammetteva come
legittima l’ineguaglianza economica accanto all’eguaglianza politica,
istituisce uu contratto sociale-ecouomico (Eitjenthumverlrag) / egli
proclama originari in ciascun uomo il diritto alla vita e il diritto al
lavoro, e di fronte alla proprietà privata (pro¬ dotti del suolo
coltivato, bestiame, case, mobili, ecc.) dichiara pro¬ prietà dello Stato
ciò che la natura produce da sola e ciòcia' la col- sino all’alt,imo anno
della sua vita, nelle lezioni sulla Z>n/- ' letti vitti produce
meglio del singolo individuo (miniere, foreste, grandi industrie, seryizì
pubblici, ecc.). Per l’elaborazione dei prodotti na¬ turali richiede
corporazioni di competenza tecnica, e sulla qualità o quantità dei
prodotti industriali il diritto di sorveglianza Ha parte dello Stato.
Donde segue la necessità che da uu lato i cittadini ri- uuuzino alla
libertà industriale, e dall’altro si stabilisca uno scambio armonico tra
i prodotti naturali e i prodotti industriali, essendo reci¬ procamente
gli uni indispensabili alla produzione degli altri. Per questo scambio si
è formata la classe speciale dei commercianti. Per impe¬ dire ai
produttori di elevare ad arbitrio i prezzi dei prodotti, lo Stato
accumula iu magazzini generali, mediaute prestazioni in natura degli
agricoltori e prestazioni d’opera degli artigiani, i frutti della terra e
gli strumenti del lavoro, si che i prezzi veugouo livellati. Per obbli¬
gare i produttori a vendere, lo Stato mette iu circolazione la moneta, la
quale rappresenta la somma di ricchezza che può essere venduta, e rende
possibile a uu produttore di cedere i suoi prodotti anche in un momento
iu cui non gli occorra ancora di prendere in cambio altri prodotti. E
atiinehè sia garantita la proprietà e regolata la circola¬ zione dei
prodotti e mantenuto l’equilibrio tra agricoltori, industriali e
commercianti — equilibrio che sarebbe turbato dall’importazione di
prodotti stranieri, dei quali i cittadini debbono assolutamente poter
fare a meno - è necessario che lo Stato vieti tutti gli accessi ai
commercianti di fuori e ai contrabbandieri di dentro, che sia cioè uno
Stato commerciale rigorosamente chiuso. Il Fichte si ripromette le conseguenze
più vantaggiose per la moralità del “ popolo fortu¬ nato „ elio adotti la
perfetta chiusura commerciale e viva soltanto di ciò che ò prodotto e
fabbricato dal paese, venduto e consumato nel paese (cfr. Der
geschlossene llandelsstaat, Sàmmll. ÌVerke, III, pp. 501-509), e conclude
che di li innanzi sarà la scienza il miglior legame intemazionale tra tutte le
nazioni divenute Stati chiusi : perché “ nessuno Stato della terra,
dopoché il sistema politico-economico dianzi descritto sia diventato
universale, e siasi fonduta pace perpe¬ tua tra i popoli, avrà il menomo
interesse a celare ad altri le proprie scoperte, giacché ogni Stato potrà
servirsene soltanto all’interno per il proprio sviluppo e non già per
opprimere gli altri Stati o acqui¬ stare una qualsivoglia preponderauza
su di essi. Nulla, quindi, impedirà la libera comunicazione tra i dotti e
gli artisti di tutte le nazioni: di 11 innanzi i giornali, invece di
guerre e battaglie, trattati di pace e di alleanza, conterranno soltanto
notizie dei progressi della scienza, delle nuove invenzioni, del
perfezionamento della legislazione e degli trina dello Sialo
('), tenute a Berlino nel 1813, proprio quando la Prussia si preparava a
quella guerra d’indi¬ pendenza che egli tanto si era adoperato a
suscitare, si domanda ancora una volta quale sia la guerra
legittima (der Wahrhafte Krieg) e risponde: Una guerra è giusta
soltanto qualora la libertà e l’indipendenza nazionale di un popolo siano
attaccati; gli uomini, per compiere il loro destino, devono formare
società libere, e uno Stato non ha valore se non in quanto può
contribuire all’avvento del regno universale della libertà e della
ragione. A questa guerra veramente popolare vuole il Fichte nelle sue le- ordinamenti
di governo; e. ogni Stato si affretterà ad arricchirsi delle scoperte
degli altri popoli. Nè si ha a temere,
del resto, dalla chiusura commerciate dei singoli Stati il loro
isolamento, perchè i rispettivi sudditi, iu quanto cittadini del mondo
(Weltbiirger), circolano liberamente da uno Stato all’altro, portando
seco i diritti inerenti alla persona e alla proprietà; occorre anzi, per
questo, una legislazione comune che garantisca tali diritti e punisca
l’ingiu¬ stizia commessa dal cittadino di uno Stato a danno del cittadino
di un altro Stato. I diversi Stati, inoltre, fanno contratti,
concludono trattati e sono rappresentati gli uni presso gli altri da
ambasciatori. Nel caso che uno degli Stati contraenti violi il contratto,
la guerra è 1’ unico mezzo per punirlo di questa violazione. Ma ogni
guerra è aleatoria, e se proprio lo Stato che violò il contratto
rimanesse vit¬ torioso, in quanto più forte?! A evitare tale ingiustizia
bisogna che un’Unione distati, meglio ancora, un’Unione di popoli
(VSlkerbund) s'impegni a punire, viribus uniti», lo Stato che,
appartenente o no all’Unione, si rifiuti di riconoscere l’indipendenza
degli Stati uniti o violi un contratto concluso con uno di essi
(Orundlage des Na¬ ta rrechts nach Prinsipien der Wissenscliaftslelire,
Sa minti- Werke , III, p. 379). Quanto più questa Unione si allargherà,
estendendosi a poco a poco su tutta la terra, tanto meglio sarà
assicurata la Pace perpetua (der ewige Friede), che è il solo rapporto
legale tra gli Stati: la guerra dev’essere soltanto mezzo al fine
supremo, che è la conser¬ vazione della pace; mai fine a sé stessa. Die
Slaalslehre oder uber das Verhaltniss des Urstaates zum Vernunftreiche
(Siimintl. Werke, IV). zioni preparare gli uditori, perchè è questa “ la
guerra legittima, la guerra cioè in cui non si tratta di famiglie
regnanti, ma in cui il popolo si leva a difendere la pro¬ pria vita, la
propria individualità, le proprie prerogative, la guerra a eui soltanto i
vili vorrebbero sottrarsi, e per cui invece i cittadini con esultanza daranno
i loro beni, il loro sangue, rifiutando ogni proposta di pace sino
a che non siano garantiti contro ogni minaccia ulterio- re „ (').
L’oratore, è vero, contrappone ancora una volta qui il carattere
germanico al carattere neolatino e spe¬ cialmente al francese, per
concluderne che non bisognava aspettarsi certo da un Napoleone,
strangolatore della na¬ scente libertà della Francia rivoluzionaria,
l’attuazione del regno di giustizia che l’architetto del mondo affidava
invece al popolo tedesco; ma ciò attesta anche come il filosofo pa¬
triota del 1813 fosse sempre sotto la medesima ispirazione che lo animava
veut’anni prima nel suo entusiasmo per la rivoluzione francese; e,
malgrado tutte le apparenze in con¬ trario, è sempre la medesima
ispirazione quella che tra¬ spare nel Disegno ili uno scritto politico
della prima cera Ì813 ( 2 ), destinato a illustrare il proclama del re di
Prussia “ Al mio popolo „ : quivi il Fichte, se, dinanzi al pericolo
mortale che minacciava la nazione tedesca, riconosce la necessità di
porle a capo come despota sovrano (, Zwingherr) il re di Prussia, uou
perciò rimane meno fedele al suo ideale democratico; per lui — ha dovuto
riconoscerlo lo stesso (*) Veber den Begriff des wahrhaften
Krieges (Summit. IVerke, (*) 4 «a
dem Entwurfe zu etnei- politischen Schrift ini FruhUnge 1813 (Stimma.
Werke, VII). Treifcscbke (') — la "Repubblica, senza re, senza
principe, senza signori, è sempre il vero Stato di ragione. Passato
il pericolo, il sovrano stesso dovrà adoperarsi con tutte le sue forze a
disabituare i suoi sudditi dalla soggezione, a (>) Fichte nini
die nationale Idee, in Historische und politiseli* Aufsalse, 4. ediz.
Leipzig, Hirzel, 1*71, voi. I, p. ISo. « Nodi inumo- sehwebt ihm als
hòchtes Zini vor Augeu eine “ Republik dei- Deutschen oline FUrsten und
Erbadel „, dodi er begreift, dosa diesea Zini in weiter Ferne liege. Fui-
jetzt gilt ee da* “ die Deutscbeu sioh selbst mit Bewus 9 tsein maoheu „
». Si, è vero, il Fichte colloca in un tempo ancora assai lontano la
vagheggiala attuazione del suo ideale repubblicano, al punto che uno ilei
frammenti di una sua opera po¬ litica, scritta a Kònigsberg nell’inverno
18011-07 e rimasta incom¬ piuta s’intitola: La repubblica tedesca al
principio del sec. XXII, sotto il suo V." protettore (Die Republik
der Deutschen su Anfani / des sirei- und zwanzigsten Jahrhunderls, un ter
ihrem fiinften Reichsvogtei, ina intanto quale coraggioso e severo
linguaggio rivoluzionario egli tiene contro i principi alemanni, cosi in
questo frammento come al¬ trove! Cou la spietata crudeltà del chirurgo
che, per guarire radical¬ mente una piaga purulenta, affonda il bisturi
nel pili vivo delle carni, egli mette a nudo tutti i difetti e le
turpitudini del suo tempo e del suo paese e propone come rimedio una
nuova costituzione, la quale dovrebbe stabilire l’eguaglianza di tutti' i
popoli teutonici e non am¬ mettere altra disuguaglianza tra gl’individui
elio non sia quella del- p ingegno; una costituzione adatta a una nazione
come la germanica, la quale, die’egli, pressoché incurante del giudizio
dello altre na¬ zioni, ha la caratteristica di raccogliersi in se stessa
e di min chie¬ dere nulla più che di vivere pacificamente secondo il
proprio genio. “ Una nazione, la quale, còme la tedesca, non mira che ad
affermare e conservare per sé la propria torma disesistenza (ibr
eigentìiiimliches St'jti) e in nessun modo a imporla ad altri
(keinesweges anderen es aufzudringen), non senza intenzione é stata
collocata in mezzo a po¬ poli , i quali, tosto che abbiano acquistato una
mediocre quantità di coltura, sentono il bisogno di diffonderla al di
fuori; nell’eterno di¬ segno della storia umana essa è destinata a
servire di diga a questa intempestiva invadenza e a fornire non solo a sé
stessa , ma a tutti gli altri popoli d’Europa la garanzia di poter
progredire, ciascuno a suo modo, verso il fine comune (.... sie seg [die
deutsche Natimi ], im eteigen Entwurfe eines Menschengeschlechles jm
Qanzen, bestimint, als ein Damm dazustehen gegen jene unzeitige
Zudringlichheit, und uni renderli, in altri termini, capaci di fare a
meno di lui.. u Se cosi non dovesse avvenire nel futuro della Germania
— esclama egli con forza — importerebbe poco che una parte di essa
fosse governata da un maresciallo francese come Bernadotte, nel cui
spirito almeno sono passate le visioni entusiasmanti della libeità,
piuttosto che da un signorotto tedesco, tronfio d’orgoglio, immorale e di
una brutalità e di un’arroganza sfrontate „ ('). Quando si leggano
queste parole contenute in quel medesimo Scritto politico della
pri¬ mavera. ISIS, che non interamente a torto si è potuto con¬
siderare come il luogo letterario in cui l’autore si è più inoltrato
sulla via del nazionalismo, e quando si ricordi il noto particolare della
vita del Fichte, ili avere cioè, nel febbraio 1813, dopo la disastrosa
campagna di Russia, impe¬ dito come un orrendo delitto il macello a
tradimento della guarnigione lfaucese rimasta a Berlino, chi vorrà ancora
vedere nel nostro filosofo un pangermanista a cui si possa far risalire
la responsabilità non solo delle teorie insensate degli odierni
teutomani, ma persino del cinismo satanico con cui e per terra e per aria
e per mare pretendono ap- nichf tuie sich, sonderà nudi alien
anderen europaischen Vblkern die Garantie zu leisten, ilass sie auf dire
eigene Weise laufen konnten zìi detti gemeinsamen Siete) „ (Sdmmtl.
Werke, VII, p. 633). Quale stridente contrasto tra l'ufficio
storico-politico che il Pielite asse¬ gnava alla nazione tedesca o quello
che la Germania odierna pre¬ tende arrogarsi ! (*) Aus dem
Enluourfe eie. {Siimitili. ÌVerke, VII, p. 669). « Weun wir dahor nieht
im Auge behielten, vvas Deutschland zu werden hat, so 18ge an sich nicht
so viel durun, ob ein franzusischer Marscliall, wie Bernadotte, an dem
weuigstens friiher begeisternde Bilder der Freiheit voriibergegangen
sind, oder ein deutscher aufgehaseuer Edel- maun, ohne Sitten uud mit
Rohlieit und frechem Ueberrauthe, iiber eineu Theil von Deutschland
gebiete. » plicarle i novelli barbari odierni, i rossi devastatori
joiù veri e maggiori dello stesso Attila flagellum Dei? Tanto
più tempestivo, e tanto più salutare e conforte¬ vole ci sembra, dunque,
dinanzi alla mostruosa degenera- zioue del senso morale di cui dà
spettacolo l’odierna nazione tedesca, ostentando di non riconoscere altro
diritto all’in¬ fuori del despotismo e della forza bruta, rievocare dalla
letteratura classica di questa stessa nazione la dottrina mo¬ rale di uno
dei più grandi assertori e della forza del diritto e del diritto che
individui e pispoli hanno alla giustizia, all’indipendenza, alla
libertà. Chi abbia seguito nella storia della filosofia le
vicende toccate alla dottrina di G. A. Fichte ('), avrà notato come
al grande entusiasmo e ai vivaci dibattiti suscitati dal suo primo
apparire succedesse per vari decenni un immeritato oblio, dovuto al
predominio delle 1 dottrine uscite dal suo seno e specialmente dello
hegelismo, i cui rappresentanti, imponendo alla storia della filosofia un
loro preconcetto di scuola, quello cioè di non tener conto nella
speculazione prehegeliana se non di quanto avesse contribuito a
prepa¬ rare il sistema del loro maestro, avevano abituato a vedere
nel Fichte nulla più che il pensatore da cui era derivato un deciso
indirizzo idealist ico alla speculazione post kan¬ tiana (’). Vani furono
gli sforzi del figlio ilei Ficht.e, Ema- (') Ofr. in proposito A.
Ravà, Introduzione allo studi» tirila filo- sofia (li Fichte, Modena,
Formiggiui, 1909, pp. 13-22. ( s ) V., per es., Karl Ludw.
Michelet, Geschichte der lefzten Sy- steme der Philosophie in Deutschland
voli Kant bis Hegel (Berlin, 1837-38), in cui alla prima filosofia del
Fichte seno dedicate le miele Ermanno, per mostrare il valore che la
filosofia, pa¬ terna aveva per sè stessa ('). Soltanto verso la metà
del sec. XIX, col risvegliarsi dello spirito nazionale germanico,
risorse la fortuna del grande rigeneratore della coscienza tedesca,
del filosofo popolare, dell’oratore eloquente, del fer- *
vido nazionalista, ilei supposto pangermanista; ma, appunto per
questa circostanza, l’attenzione fu rivolta di preferenza alla sua
filosofia politica, arbitrariamente o artificiosamente interpretata (*),
e il centenario della nascita del Fichte, nel 1862, fu solennemente
celebrato da tutta la Germania pp. 481-587 ilei voi. I, e alla
seconda filosofia le pp, 129-204 del voi. II; A. Oli', avendo avuto il
torto di prendere quest’opera come guida principale per una conoscenza
della filosofia tedesca postkantiana, fu trattò a un’eccessiva reazione
contro il Kant e contro lo hegelismo nel suo libro: Hegel ri la
philosophie allemande (Paris, 1844). (') Di Em. Ehm. Fichte, oltre
le Prefazioni (dianzi ricordate) a vari degli undici voli, delle Opere
complete di G. A. Pielite, vedi ancora: i Beitràge sur Charuk'teristik
dar ncueren Philosophie (Sulzbach, 1829) di cui la 2.“ ediz. (18-11) può
considerarsi come un’opera nuova; il voi. .7. G. Fichte ' s Lehen and
litterarlscher Briefwechsel (Sulzbach, ISSO), con cui, prima ancora che
con la pubblicazione delle opere, cercò richiamare l’attenzione sulla
personalità e sull’attività pratica del padre, affinchè nascesse cosi gradatamente
anche l’interesse per il suo pensiero; e infine V Introduci ion (in
frane.) alla Méthodc pour arriver à la vie blenheureuse par Fichte
(traduz. Bouillier) (Paris, 1845). ( s ) V., per es.: t due voli,
del Busse, Fidile und sei ne Bezìehung zar Gegenwart des deutsehen Volkes
(Halle, 1848-49), la conferenza dello Zeli.eh, l'idi lo aìs Politiker
(1859, ristampata in Zelleh, Vor- Irdgr und Abliandlinigen, voi. 1,
Leipzig, 1865) e l’opuscolo del Las¬ sa lle, Melile's poìilisches
Vermdchtnis and die neuesle Gegenwart (Hamburg, 1860, ristampato in
Lassallk, Reden und Schriflen, Berlin, 1891-93, voi. I). Bisogna, invece,
uscire dalla Germania per trovare, negli anni immediatamente anteriori
alla metà del sec. XIX, un’espo¬ sizione prettamente storica e serenamente
obiettiva di tutta la filo¬ sofia del Fichte quale si ha nella solida
opera del Willm, Histoire de la Philosophie allemande drpttis Kant
jusqu’k Hegel (voi. 11, Paris 1847), opera premiata, su relazione del de
iléinusat, dall'istituto di con significato più politico che filosofico; — mia
singolare fatalità, poi, (che sembra un’ironia della storia a chi
in¬ tenda il vero senso delle teorie politiche del Fichte) ha vo¬
luto che il cèntenario della sua morte, nel 1914, coincidesse con
l’irrompere improvviso della premeditata aggressione pangermanistica! —
('). Francia e ancora utile e pregevole, nonostante la sua
vetustà; la si può leggere con profitto anche dopo le ampie ed eccellenti
monografie posteriori del Fischer (Fichles Leben,\Verke und Lehre,
Heidelberg, 18691900 3 ") e del Leon (La philosophie de Fichte et
ses rapportò uvee la conscience coti tempo faine, Paris, 1902), il quale
ultimo ha de¬ dicato al suo soggetto per molti anni un lungo studio e un
grande amore. ( l ) Questo carattere politico-nazionalistico
degli scritti usciti in occasione del centenario del Fichte fu ben
rilevato da von Rkichi.IN- Memusco nel suo articolo l)er hundertòte
Geburistng ./. O. Fichtes (in Zeitschrift fiir Philosophie uud philos.
Kritih, Nuova serie, voi. 42, Halle, 1863). Vedine la lunga lista
nell’UKBERWKO-HEiNZE. Grundriss der Geschiclite dcr Philosophie, IV,
Berlin, 1906, p. 8; qui basti ricor¬ dare per tutti il discorso già
citato del Treitbchke, Fichte i ind die nutionale Idee. L’uso e l’abuso
del Fichte a scopi patriottici e impe¬ rialistici non cessò io Germania
col conseguimento dell'unità tedesca ; più di una volta le conferenze
tenute nelle università tedesche in occa¬ sione del natalizio
dell’Imperatore hanno avuto per argomento pre ferito la personalità o
qualche dottrina particolare del Fichte: per es., nel 1890 all’università
di Strasburgo, terra di conquista, il Windel- band faceva un’alta
affermazione di germaniSmo parlando del Videa dello Stato tedesco secondo
il Fichte (Windelband, Fiehte's Idee des dent- schen Stante, Freiburg i.
Breisgau, 189oT; nel 1909, all’università di Kiel, Golz Martius
inneggiava al cinquantesimo anno di Guglielmo II, ricordando la vita e
l’opera “ di un uomo, il quale ha grandemente cooperato all’elevazione e
all’emancipazione delle forze morali della Germania, e della cui azione
efficacissima, insieme e accanto alla con¬ cezione politica dello Stein,
ricorre oggi il centenario; di un uomo, a cui appunto ora la nazione
tedosca si appresta a dimostrare la pro¬ pria gratitudine inalzandogli un
monumento nella capitale [e il mo¬ numento è poi sorto a Berlino],
insomma, di Giovanni Amedeo Fichte „. (Redc zur Feier des Geburtstages
seiner Majeshit des Deutschen Kai- sers Kdttigs von Preiissen Wilhelm 11
von Golz Martius, Kiel, 1909). Se nella seconda metà del sec. XIX tra
molti scritta' rolli di occasione cominciò ad apparire qualche studio
serio di tutta l’opera fichtiaua ('), il suo aspetto, per lo sposta¬
mento dell’attenzione dal lato politico ai fondamenti teo¬ retici del
sistema, fu non meno unilaterale di quello che continuarono a presentare,
in tempi più recenti, le disser¬ tazioni te le monografie sulla dottrina
giuridioo-sociale del (•) Ricordiamo, per es. : il Lòwio, Die
Philosophie Fichte’s iiach (lini Gesaimntergehnisse ihrer EntuHchelung
und in ihrem Verhiilt- nitise zìi Kant unii Spinosa (Stuttgart, 1862)
[l’Autore, seguace del dualismo de[ Giintlior e perciò d’indirizzo radicalmente
opposto a tinello del Fichte, mira specialmente a mostrare la logica
coerenza in cui le due diverse forme assunte dal sistema fichtiauo
stanno al prin¬ cipio fondamentale del sistema stesso anche là dove,
secondo lui, si con¬ traddicono, pei concluderne l’insufficienza del
principio stesso]; il L.\s- soN, ./. G. Fichte Un Verhaltniss zu Kirche
und Slaat (Berlin, 1863) [l’Autore, dominato, com’è, dall’ idea religiosa
quale può rientrare nella concezione hegelismi, considera fondamentale la
seconda forma della lilosolia lichtiana, quella in cui prevale il
pensiero religioso, pur giu¬ dicandola non riuscita e insoddisfaeeute] ;
e sopra tutti il già ricor¬ dato Fibciusr, Fichtes Leben, Werke und Lehre
(voi. V della 1." ediz. Heidelberg, 1869, e voi. VI della 3.“ ediz..
1900 della Geschichtc der neueren Fhilosophic) [opera veramente classica
per la larghissima e accuratissima esposizione di quasi tutte le opere
del grande idealista; in essa si sostiene la tesi che le due forme della
filosofia lichtiana, quella anteriore al 1800 e quella posteriore, non
sarebbero che duo opposte direzioni assuute rispetto allo stesso
principio fondamentale del sistema: uel primo periodo il Fichte, partendo
dalla lilosolia teore¬ tica, si sarebbe elevato alla filosofia del
diritto, alla lilosolia morale, alla filosofia religiosa, all'Assoluto;
quivi, infatti, il postulato di quell'ordiuamento morale del mondo, che
per lui la tutt uno con 1 In assoluto e con Dio (die lebendige unii
loirkende moralische Ordnung itti selbst Goti), è il punto di arrivo; noi
secondo periodo, invertito il cammino e trasformato quel postulato da
punto di arrivo in putito di partenza, il Fidilo avrebbe preceduto
dall’Assoluto alla religione, alla morale, al diritto e alla scienza. —
Più denigratore che profoudo è stato giustamente giudicato, infine, il
libro del NoàCK, J. G. Fichte nach sei non Leben, Leliren und Wirken
(Leipzig, 1862). filosofo tedesco, inopportunamente staccata da tutto il
resto deli’edifizio speculativo. Anche nella maggior parte
degli odierni studi storici sul Lichte divenuti più che mai frequenti
dopoché al moto neo-kantiano iniziatosi al grido: ritorniamo al
Kant! (zurìick zu Kant!) (') si associò, come orientamento filo¬
sofico, un moto neo-fichtiano: ritorniamo al Fichte!j(zuriick zu Fichte!)
che è andato sempre più accentuandosi dagli ultimi decenni del secolo
scorso ai giorni nostrf (*) è - \ j (') 11 ritorno al
Kant si suole farlo risalire alla celebre lezione dello Zellar: Ueber die
Bedeutung und Aufgabe der Er/iJnntnistheorie (Heidelberg, 1862); ma già
nel 1847 il Weisse pronunziava a Lipsia un discorso: In welchem Sitine
sich die deutsche Philisopkie wieder a " Kanl zu orientieren hai
(Leipzig, 1847),. dal quale si rileva la sua avversione alla dialettica
hegeliana e il suo sforzo por contrapporre al panteismo idealistico un
teismo etico. n? V ' m P ro P oa ìto I’Uebeuweg-Hbinzb, Grundtjss
der Geschichle (ter p/iilosop/tie seit Beginn des neunzehnten
Jahrhundcrts (Berlin, 1906, 10» ediz.), § 26, Elnwìrkung Fichtes auf neuere
Lahren, pp. 264-269* e .coltre le pp. 317, 347, 361, 514, .547-548. Se ne
ricava il largo é potente influsso che la filosofia fichtiana, intesa sia
come idealismo soggettivo, sia come idealismo etico, sia come
panpsichismo, ha eser¬ citato e sopra le varie nuove dottrine sorte in
Germania e sopra menti speculative di altri paesi (Inghilterra,
Nord-America, ecc.). Per la re¬ cente e assai ricca letteratura intorno
al nostro filosofo vedi lo stesso voi. dell’Uebervveg-Heinze, pp. 8-9, il
Baldwin, Dictionary of philoso- phy and psychology (New York-London,
1905) voi. IH, parte I, pp. 204-208, e per quella recentissima, ancor yù
abbondante, cfr. i quat-’ tro voli, editi da Arnold Rude, Die
P/iilosop/tie der Gegemoarl (Hei¬ delberg, 1910-1914) e contenenti
pressoché tutta la bibliografia filosofica internazionale degli anni
1908-1912. Nel 1914 (centenario della morte del Fichte e scoppio della
guerra europea) la Bibliotheh fUr Philosop/tie, edita da Ludwig Stein,
pubblicava l’opuscolo di P. Stàhler, ./. G. Fichte, ein deutscher Den/ter
(conferenza tenuta il 23 aprile nel cir¬ colo tedesco di Charcow in
Russia), in cui FA., movendo dal* bisogno spirituale oggi sempre più
intensamente sentito di una nuova orien¬ tazione circa la concezione del
mondo, affermava essere appunto il Fichte il più atto a fornire una
chiara risposta alla questione, una forse da rilevare una certa
esclusività d’interesse, corri¬ spondente all’ interesse prevalentemente
critico e gnoseolo¬ gico che ha animato siuo a ieri il pensiero
contemporaneo; di guisa che in questa rifioritura di studi fichtiani,
mentre alla teoria della conoscenza ò assegnato per lo più il
posto * d’onore, le altre parti del sistema, in ispecie
le più pra¬ tiche, vengono relativamente lasciate nell’ombra. Il
che nuoce alla dottrina e anche alla figura del nostro filosofo, le
quali così risultano monche e diminuite, e spesso oscu¬ rale e falsate;
quando invece il Fichte reclamava sempre e vivamente che i futuri critici
non giudicassero la sua con¬ cezione se non nella sua totalità, se non
ponendosi cioè in quel punto di vista centrale, da cui si dominano e
s'illu¬ minano tutti gli aspetti; tanto più, poi, che nessuu’altra
con¬ cezione come la sua aspirava a essere una rigorosa unità, or¬
ganica, inscindibile, completa, a rispecchiare, quasi, quei¬ raltra
rigorosa unità, altrettanto massiccia quanto severa e semplice, che era
la personalità stessa del Fichte, il quale appartiene all’eletta schiera
di spiriti eminenti che nella storia deH’uinauità seppero unire in intima
connessione la speculazione filosofica con la vita vissuta, fondendo
armo¬ nicamente pensiero e azione, investendo del medesimo pro¬
risposta che 11 non ha nè corna nè denti „ (die u tceder Horner
nodi Zàhne hai „), ed essere sempre il Fichte “ la stella polare (der
Leit- sternj verso la quale possiamo di nuovo orientare la nostra vita e
il nostro sapere „ (cfr. la prefazione, p. 3). Peccato che l’opuscolo
dello Srahler uscisse accompagnato nello stesso anno da altri due
volu¬ metti della stessa Biblioteca, riguardanti, sebbene con intento
pura¬ mente storico, figure filosofiche ben diverse dall’ideale figura
del Fichte, e di significato più sintomatico in quel nefasto anno, e
cioè: il Pro- tagoras-Niclzsche-Stirner di B. Iachsiann e il Nietzsches
Metaphysik- limi ihr Verhdltniss zu Erkenntnialheorie u. Ethih di S.
Flemming. fondo interesse le più fredde concezioni astratte della
ricerca teoretica e le più ardenti questioni concrete dell’attività
pratica, intensificando la luce diffusa dalla loro opera in- stauratricè
nel campo del sapere col calore irradiantesi dalla loro missione
riformatrice nel campo del dovere ('). * # *
E invero non si può negare al sistema del nostro filo¬ sofo la sua
principale caratteristica : quella di essere cioè (') È veramente
ammirevole nel Fichte — che lo Zeller giustamente definiva anche per il
carattere morale un idealista nato — il rapporto stretto che uni sempre
la sua vita alla sua dottrina. “ Jamais la manière d’agir et di sentir —
cosi scrive Cristiano Bauthoi.mf.ss nella sua Ili- gioire critique des
doefriu^s religieuses de la philosophie moderne (Pa¬ ris, 1855, voi. I,
pp. 384-885) — jamais la conduite et l’àrae ne fu- rent séparées chez lui
de la manière de penser et de voir. Ce qu : il croyait était eu méme
temps le nerf de sa volonté, le soufflé et. l’in- spiration de son
existence entière. Prenant au sérieux tous les mou- vements de son
intelligence, il vonlait vivre de ce qu' il coucevait, et taire vivre ce
qu’ il savait, cornine il ne vonlait savoir que ce qu’ il pouvait aimer,
admirer et pratiquer. Ce n’ótait pas lii l’héroique effet d’uu parti
pris, c’était le propre de sa naturo méme, où lo seu- timent de la valeur
morale, de la diguité personnelle, se confondait avec une telle hauteur
de pensée, avec une hardiesso de speculatimi si intrèpide, qu’ elle
pouvait, semidei- la rósolution d’nn caractère l'u- domptable. La
ilestiuée, il est vrai, avait surtout coutribué à Pac- croissemeut de
nette énergie, de cette trempe primitive. Fiofite avait eu longtemps à
combattre, non seulement des adversaires et des enne- mie, mais les
soucis et la misère, le froid ot la faim. Avant, do lutter pour la
libertà de penser et pour P indépendance de sa patrie, il avaiti pour
s'assurer le pain dn jour, endnré tout.es les rigueurs matórielles ot
sociales; et de tant d’èpreuves diverses, il était sorti plus vigou-
reux, plus courageux, plus convaiucu de ce que peut et vaut la no-
b lesse d’àme. Ausai ne saurait-ou contempler, sans ètre à.la foia
tou- chó et fortifié, le tableau de ses souffrauces et de ses victoires,
na'i- vemeut et inodesteraeut trace dans cette Vie et correspondance, qu’
a publiée lo lils qui porte si eonvenablemeut son illustre nom. „
con tutti i suoi difetti, i suoi errori e, diciamolo pure,
la sua oscurità — un vero sistema. In esso trovi subito un’idea che l’ha
generato tutto quanto, che ne è il centro, l’anima e ne fa l’unità : idea
ovunque presente e ovunque feconda, da cui nascono il metodo, le
divisioni, gli svolgi¬ menti, le applicazioni, e da cui germogliano in
ogni dire¬ zione soluzioni, buone o cattive, a tutti i problemi
teore¬ tici e pratici. Esso è non solo uno nel suo insieme e omo¬
geneo nelle sue parti, ma universale: tutte le grandi que¬ stioni intorno
a Dio, all’uomo, alla natura, e ai loro rap¬ porti, rientrano nel suo
quadro e vi si coordinano; vi si potranno notare lacune, rifacimenti,
mutevolezza di atteg¬ giamenti e di espressioni, indefinitezza di disegno
e incom¬ piutezza di linee, ma ciò va attribuito più alle
contingenze esteriori in mezzo a cui il sistema si svolse (‘), che
non alla sua idea ispiratrice, la quale, posta l’universalità della
dottrina a cui dà vita, non poteva non esercitare un in¬ flusso auch’esso
universale sulla coltura del tempo e delle età posteriori sino a noi,
assicurando così al nome dell’au¬ tore una fama imperitura nella storia
dello spirito umano. Intorno itilo svolgimento del pensiero lichtiano et'r. \V.
Kaiutz, .S ludi<’u z. EnUoicklungsgeschichU der Fichteschen
Wissemchaftslehre (Berlin, 1902) e nnolie E. Focus, Vom Werden rlreier
Denker : Fichte, Schelling, Schleiermachcr (Tiibingen, 1904).
(*) V. la nota nella pree. p. XXVIU e cfr. anello IC. VoitLÀNDlSK,
Oeschichte der Philosophie (Leipzig, 1902, 8* edili. 1911, voi. II, pp.
28(5- 287). — Federigo Schlegel considerava la Wissenschaftslehre del
Fichte una delle “ tre maggiori tendenze del secolo (circi griissten
Tetidenzen iteti Jahrshunderts) „ accanto al Wilhelm Meister del Goethe e
alla Rivoluzione francese. E innegabile che il filosofo di Jena fu il
filo¬ sofo per eccellenza della scuola romantica, le cui idee, a
giudizio concorde degli storici e in particolare dello I-Iaym, che su ciò
insiste ctm forza (cfr. Die romantische Schuie, p. 214 e segg.), sono
derivate in Quale questa idea ispiratrice? È l’idea più alta e, pei
la coscienza comune, la più paradossale che sia sorta nella storia della filosofìa
: la sintesi, cioè, di due termini in ap¬ parenza così inconciliabili
come l’io e il non-io, il cono¬ scere e l’essere, la libertà e la
necessità, lo spirito e la na¬ tura, nel monismo superiore, nella “
superiore filosofia (Jiohere Phihsophie) „ . direbbe lo Schelling, della
libertà. 11 sistema del Fichte consiste, intatti, in una *
filosofia della libertà „ /e poiché il suo principio metafisico
s’iden¬ tifica con l’ideale morale, giustamente fu chiamato un
Idea¬ lismo elico ('). La vecchia metafisica s’intitolava scienza
dell’essere, ontologia, e nell’essere riponeva l’assoluto, il reale, e
dall’essere derivava ciò che dev’essere l’ideale. Se¬ condò il Fichte,
invece^l’assoluto, il principio ultimo e su¬ premo da cui veniamo e a cui
tendiamo non ù 1 essei e, ma grandissima parte dalla Dottrina
tirila scienza. E si spiega la predi- lezione dei romantici per un
sistema come il ttchtiano, il «piale tra¬ sforma il kantismo ancora
esitante in un idealismo assoluto, e a tutto uscire, sotto il rispetto
metafisico, da «piella stessa genialità dell’ lo, da cui i romantici
tutto derivavano sotto il rispetto estetico. (•) Fu detto anche
Idealismo soggettivo, ma tale definizione e ei- ronea, perchè V Io che il
Fichte pone al principio di tutto il suo si¬ stema non è l’io
individuale, sì bene 1 ’/o collettivo, universale, che sta a fondamento
di tutti gl’individui, l’/o,assoluto, l’originaria in¬ cognita X, dalla
cui unità, ancora chiusa in sè stessa e incosciente, dovrà uscire, in
virtù di quel misterioso urto (Ansiosa), che è il t eus er m china di
tutta la metafisica Uchtiana, l’antitesi cosciente del soggettivo e
dell’oggettivo. “ Il mio lo assoluto - dice il Fichte - non è
l’individuo; soltanto cortigiani offesi e filosofi irritati contro di me hanno
cosi male interpretato la mia filosofia, per attribuirmi l’infame
dottrina dell’egoismo pratico (.... mein absolutes Teh tst mcht das
Individuili» ; so haben beleidigte Hóflinge und drgerhchc Phiìo- sophm
mich erklàrt, uni mir die sehandliche Lehre des prahtischen Egoismus
anzudichten). „ (Cfr. G. Ws ioi.lt. Zar GescMchte derneue- reti
Philosophie (Hamburg, 1864, 2* ediz. 1864, p. 74). il dovere, è un ideale
che non è, ma dev'essere. L’essere in quanto essere, in quanto quid
stabile e compiuto, in quanto cosa o materia inerte, a rigore non esiste
; la fis¬ sità, l’immobilità di ciò che chiamiamo sostanza,
soStrato, materia, non è che apparenza. Agire, tendere, volere,
ecco * in che consiste la realtà vera. L’universo è il
fenomeno della Volontà pura, il simbolo dell’ Idea morale, che è la
vera cosa in se, il vero Assoluto. Filosofare significa com vincersi che
l'essere non è nulla, che il dovere è tutto ; significa riflettere sul
proprio io empirico, individuale, unica ultivilà libera che tende
incessantemente ad attuare ciò che dev' essere, ossia il Dovere, il Bene,
/.’ Io asso¬ luto, universale; significa acquistare la coscienza di
por- lare con sè la libertà che crea e soggioga il mondo, ap¬ punto
per attuare il Dovere, il Bene, l'Ideale morale, l' “ Io „ o la Libertà
assoluta. Il Kant aveva bene ammesso che il soggetto, ossia
la ragione e la libertà, impone una forma e una legge agli oggetti
della conoscenza: dell’ Io egli aveva fatto, si, il legislatore del
mondo, ma non era giunto a farne addirit¬ tura il creatore; poiché aveva
lasciato sussistere ancora, ili fronte al soggetto, uu oggetto, una cosa
in sè, capace d’imporre un limite al soggetto. Per il Fichte, invece,
il quale dà all’ io empirico un significato universale, questa
pretesa cosa in sè, ultimo residuo del dogmatismo, è una chimera che
bisogna esorcizzare, perchè è semplicemente la parte dell’ Io ancora
incosciente che il progresso della conoscenza trae a poco a poco alla
luce della coscienza ; sarebbe assurda, infatti, di fronte alla Libertà
assoluta, al- V Io assoluto e universale, una materia non creata da
lui e a lui imposta dal di fuori. E poi, questa misteriosa cosa in
sè. supposta al ili là di ogni conoscenza, questo essere senza
intelligenza, a che si riduce, se non a un contenuto mentale (
Oeilankending ) e quasi a un fantasma, creato da noi stessi a spiegarci
le sensazioni e le rappresentazioni che in noi sorgono, non per libera
creazione nostra, ma prodotte dal di fuori. Se un limite esiste
all'attività del- ]> jo , gli è perchè l ’lo stesso lo pone
liberamente alla pro¬ pria attività illimitata, con lo scopo di avere il
modo di sop¬ primerlo e di esentare cosi quella stessa attività propria
e di rivelare a si stesso la propria essenza, che è la libertà. La
moralità e la virtù, del resto, non suppongono lo sforzo e la lotta?
bisogna, dunque, per attuarle, crearsi perenue- mente ostacoli e
superarli; onde V Io nel primo momento della propria evoluzione “ pone sè
stesso „ (tesi), nel se¬ condo momento u contrappone a sè il non-lo „
(antitesi), e nel terzo momento “ si riconosce nel non-Io „
(sintesi); tre aiti, questi, a cui corrispondono i tre modi di
esistenza, i tre oggetti del sapere, che sono l’uomo, il mondo,
Dio. Guai se l’7o desistesse un solo istante dali’esercizio della
propria libera attività! cesserebbe immantinente di esistere; di qui il
carattere “ titanico „ che il Fischer ammira nel- p Jo fichtiano,
destinato per natura sua a continuamente agire, produrre, volere (').
f (•) Per approssimarsi in qualche modo al concetto dell lo
iich- tiauo nel quale va ricercato il fondamento di ogni esperienza,
giova fare completamente astrazione da qualsiasi contenuto
rappresentalo della nostra coscienza empirica. Dopo questa immensa
sottrazione, si consideri la rappresentazione più vuota che possa
pensarsi, 1 unica affermazione che non abbisogni di nessuna
dimostrazione, il principio logico d’identità: A è A, col quale uon si
afferma nemmeno che zi esiste, ma soltanto che: se A esiste, A dev’essere
A. Orbene, quan¬ tunque con tale affermazione si formuli soltanto una
vuota venta e Un cosi intenso idealismo non era mai sorto
prima.del Pielite. Esso insegna che il variopinto e multisono mondo
sensibile, che si estende nello spazio e si svolge nel tempo, non ha
esistenza propria e indipendente : 1’ unico ch'e ve¬ ramente esista è l’
lo. E lo stesso Io esiste solo in quanto agisce. Dal suo operare, dal suo
rifrangersi in In e non-lo, sorge per lui il mondo visibile, percepibile
e connesso da non i ponga
nessuna esistenza, si compie, tuttavia, un atto del pen¬ siero, un
giudizio, e un giudizio d’incrollabile certezza, il quale porta
direttamente a porre e a riconoscere 1'esistenza reale dell’/o. Infatti,
donde proviene il verbo “ è „, con cui il primo A è messo in rela¬ zione
col secondo A, il soggetto col predicato? Il nesso tra i due ter¬ mini
del giudizio è beu soltanto nell’/o e per opera dell’/o. Dunque, nellu
precedente proposizioue: A è A, ebe è la più evidente, per quanto la più
vuota di contenuto, che si possa formulare, si nasconde già l’ lo, si
trova già l’attività certa di aè stessa; perché, meutre per A non si ha
il diritto di fare, oltre il giudizio ipotetico: se A esiste, A è A,
nnehe il giudizio categorico: A esiste, in quantiche anatale affermazione
richiederebbe un’ulteriore dimostrazione, per V Io, invece, anello se non
sappiamo assolutamente nulla più di questo: che è A, possiamo dire non
solo: se V Io esiste, l’ Io è l’/o, ma altresì: l’ Io esiste (ciò elio
ricorda l’agostiniano e il cartesiano: Cogito ergo sum). Ma V Io è, per
natura sua, essenzialmente attività, e, prima ancora di acquistare
coscienza dei propri prodotti, dei propri atti, e di sè stesso, crea, con
la sua immagiuazione produttrice, perenne e inesau¬ ribile, le
innumerevoli rappresentazioni, che poi lu riHeasioue farà apparire alla
sua intelligenza come oggetti, come non-lo; perchè — va sempre ricordato
questo punto originale della dottrina del Fichte - il non-lo, ossia il
mondo esterno, è posto ilall’/o inconscio, non già dall' Io cosciente; è
un prodotto, quindi, anteriore a quella rela¬ zione di antitesi e sintesi
tra soggettivo e oggettivo che è la co¬ scienza, e quando la coscienza
nasce, s’impone a essa come già dato. Così, grazie a questa produzione
inconscia dell’ immaginazione dell' lo — di quell’immaginazione che già
per il Descartes era il trait d’u- nion tra l’anima e il corpo, e per il
Kant l’intermediaria tra le in¬ tuizioni pure della sensibilità e le
categorie dell’intelletto —, il non-lo apparisce all’ intelligenza come
un limite dal di fuori senza essere perciò estraneo all’/o, essendo
sempre un prodotto dell’/o inconscio. leggi, il quale perciò non è che il
sistema delle nostre rap¬ presentazioni, il rispecchiarsi dell’ lo
nell’/o. Ma anche que¬ sto rispecchiamento non ci rivela in modo puro e
immediato ]’ intima essenza del nostro spirito, perchè non uel
rappre¬ sentarsi è il nostro più alto operare, non nel
rappresentarsi è tutto il nostro Io. Noi operiamo veramente soltanto
nel libero volere morale; noi attuiamo completamente il nostro Io
soltanto «piando, con attività rinnovata al lume della coscienza, ci
sforziamo di soggiogare il mondo delle rappre¬ sentazioni scaturite
dall’inesauribile fonte dell’ lo inconscio _ il quale mondo non è
che “ il materiale sensibilizzato del nostro dovere (unsre Welt ist
das versinnlichte Mute- rial unsrer Pjlicht) „ — e ci sforziamo di
trasformarlo nel mondo della libertà, nel mondo soprasensibile ed
eterna¬ mente in fieri del Bene; poiché, esclama il Fichte, “ es¬
sere liberi è nulla, divenir liberi è il cielo (frei se‘in ist nichts,
frei wenlen ist dei' Ilimmel) ! „ La costruzione filosofica del
Fichte può dirsi monolitica, ed è tale da superare in semplicità persino
quella eretta, da un punto di vista e con centro «li gravita affatto
opposti, dallo Spinoza: — al Jacobi il sistema del filosofo tedesco
appariva il rovescio del sistema del filosofo olaudese —. E qui sta il
vantaggio della concezione fichtiana anche sulla kantiana ; il Kant non
aveva tanto fornito un sistema, quanto, piuttosto, i germi e i materiali
per più sistemi ; nella lotta contro il dogmatismo e contro lo
scetticismo egli aveva voluto inalzare alla scienza propriamente detta,
più che un tempio, una fortezza; e, per rendere questa fortezza
iuespuguabile da tutti i lati, ne aveva costruito -i bastioni quasi in
tempi diversi, quasi in stile diverso : onde nella sua filosofia non solo
rimane il dualismo inconciliabile tra l’essere e il conoscere, tra il
conoscere'e il lai e, ma nell ambito stesso del conoscere manca una
rigo¬ rosa unità tra i diversi poteri conoscitivi, tra la
sensibilità con lo sue intuizioni pure, l’intelletto con le sue
categorie, la ragione con le sue idee metafisiche. Il filosofa di
Ko- nigsbei'g da una parte pareva chiudere lo spirito umano tutto
nel giro del proprio mondo interno, nel fenomeno, dall altra gli lasciava
intravedere, al di là di questo mondo interno, un altro mondo, il
noumeno, avvolto sempre da densa nebbia e sempre refrattario alla
conoscenza. Donde la domanda : questo mondo esistente in sè è quello
stesso che ci si i ivela nella voce della coscienza, ed è possibile
tiadui lo in atto con la pura e buona volontà? La risposta del Kant,
almeno nell’espressione datale dall’autore, se non nello spirito
dell’autore stesso, era stata cosi cauta, che ognuno poteva trarne le
conseguenze a suo proprio rischio. Iusomma, non si poteva non riportare
l’impressione che nella, dotti ina kantiana la verità fosse svelata
soltanto a mezzo, e che a essa mancasse, dal punto di vista
scienti¬ fico, cosi il fondamento come il coronamento. Il Fichte,
invece, da quel pensatore ben più ardito e deciso ch’egli eia e che si
era formato sullo stampo dello Spinoza, s’im¬ possessò dei materiali
kantiani, e fece della Critico un si¬ stema unitario: Tutto ciò che è, è
per noi; tutto ciò che è per noi, può essere soltanto per opera nostra;
nell’atti¬ vità dell’ lo è racchiuso il conoscere e l’essere, il
sensibile e il soprasensibile, il reale e 1’ ideale ;
nell’autocoscienza (Se/bstbeiousstsein) — lo stesso Kant aveva già
insinuato che la misteriosa incognita nascosta sotto i fenomeni
sensibili poteva benissimo essere quella stessa che portiamo con noi
— è l’unità di tutti i poteri dello spirito, l’unità delle
forme cosi del fenomeno come della cosa in sè che sta a fonda¬ mento
del fenomeno, l’unità del sistema delle nostre rap¬ presentazioni e del
sistema dei nostri doveri, l’unità della nostra essenza teoretica e della
nostra essenza pratica : 1’ unità, e con 1’ unità il fondamento e il
coronamento di tutta la dottrina. Se il Reinhold aveva cercato un
principio superiore, come principio unico indispensabile a dare
forma sistematica di scienza alla dottrina della conoscenza, se il
Beck aveva interpretato lo spirito della filosofia kantiana nel senso
idealistico, se il Jacobi aveva reclamato l’elimi¬ nazione della “ cosa
in sè „, ecco nella filosofia del Fichte soddisfatti tutti insieme questi
desideri, e in pari tempo fornita ai risultati della Critica della
ragione 1’ evidenza richiesta dallo Schulze ('). (!) La
filosofia del Kant, raccoglie, a dir cosi, in un'unità vivente tutti i germi
e principi motori del pensiero moderno, e il sistema del Fichte non è che
una delle direzioni che poteva prendere il kan¬ tismo. La direzione
fichtiana, quindi, scaturisce naturalmente dalle premesso kantiane, ma
non deve considerarsi perciò., come vorrebbe il Leon, quusi l’unico e
necessario completamento del kantismo: altre direzioni, assai divergenti
dalla fichtiana, l'anno capo legittimamente aneli’ esse al Kaut., dei cui
discepoli può ripetersi ciò che Cicerone dicova dei diversi discepoli di
Socrate: alii aliuiì suinpsenuit • il Fichte è un kantiano all’ incirca
nel medesimo senso che Platone fu un socratico, e sta allo Spinoza come
Platone a Parmenide ; col Kaut afferma l’ideale morale, con lo Spinoza
l’unità dei “ due moudi onde la Bua filosofia, dicemmo già, è un’originale
sintesi, forse Unica nel suo genere ai tempi moderni, di ciò che sembra
assolutamente inconciliabile: il monismo e la libertà, il mondo delle
cause o il inondo dei fini. Anziché ritornare sui singoli problemi della
Critica della ragione, egli s’impadronisce del centro animatore di
quella Critica, e trae fuori dal pensiero fondamentale dell’
auto-attività dello spirito, in quanto forza reale e fine a sé stesso, un
uuovo quadro del mondo di grandiosa arditezza, entro il quale
l’idealismo, che nella filosofia kautiana era latente sotto 1’ involucro
di prudenti re- La filosofia del Fichte, abbiamo detto, è una
filosofia della Libertà, poiché ha per principio una realtà
assoluta, intesa come Io pratico, come Attività pura, come
Auto-deter¬ minazione, ed è uno sforzo poderoso per dedurre da
questo principio oltreché le condizioni della vita etica, anche le
funzioni della ragione teorica, celebrando in tal modo quel primato della
ragione pratica che il Kant aveva già pro¬ clamato , e facendo perciò
della ragione pura un organo della moralità. L’attività dell’ Io assoluto
alterna i suoi atti di produzione inconscia con i suoi atti di
riflessione cosciente, la sua direzione centrifuga ed espansiva che
si protende verso l’infinito, con la direzione centripeta e cou-
strizioni, viene chiamato a potente vita, e ciò che di sublime il
grande lilosofo dell’ imperativo categorica aveva insegnato intorno alla
libertà morale di fronte alla necessità naturale, viene tradotto dal
linguaggio di un moderato contegno in quello di un energico en¬ tusiasmo.
li mondo può comprendersi soltanto in base allo spirito e lo spirito
soltanto in base alla volontà. La dottrina del Fichte è tutta nel vivere
e nel fare, tanto vero che comincia non con la definizione di un concetto,
ma con la richiesta di un atto (Thathandlung): “ poni te stesso, fai con
coscienza ciò che bui fatto inconsapevolmente ogni qual volta ti sei
chiamato io, analizza questo atto di autocoscienza e riconosci nei suoi
elementi le energie da cui scaturisce ogni realtà Questa intima vitalità
del principio lichtiaiio, che ricorda l'atto puro aristotelico e il
perpetuo divenire eracliteo, e in conseguenza della quale Dio, anziché
una sostanza assoluta già compiuta, sarebbo un ordino cosmico sempre attenutesi,
mai attuato, si ridette anche uel- l’opera filosòfica dell’autore, il cui
spirito, fiero e irrequieto, si svolse iu continua lotta non solo nella
pratica, ma anche nel pensiero. Nelle sue lezioni, come nei suoi scritti,
spesso egli riprende daccapo la serie delle sue deduzioni e sempre iu
modo diverso e quasi conver¬ sando coi suoi uditori e coi suoi lettori,
mai trascurando le possibili obiezioni da parte di questi ; sicché il suo
filosofare sembra compiersi trattile che arresta la prima e respinge V Io
in sè stesso; pone a sè stessa V urto (Anstoss) della sensazione, il
limite della rappresentazione, l’intoppo del non-Io ; è insomma
teoretica : soltanto al fine di diventare pratica. Tutto 1’ apparato
della conoscenza non serve che a darci la pos¬ sibilità di compiere il
nostro dovere: quel dovere che è 1’ unica realtà vera, 1’ unico in-sè
(An-sich) del mondo fe¬ nomenico, perchè le cose sono in sè ciò che noi
dobbiamo farne ; 1’ io teoretico pone oggetti, affinchè 1’ io
pratico trovi resistenze (il tedesco Gegenstand = oggetto è qui
preso come sinonimo di Widerstund = resistenza) ; 1’ og¬ gettività esiste
soltanto per essere la materia indispensa¬ bile all’azione, per ricevere
da questa la forma che deve elaborarla e inalzarla sì da rendere sempre
più visibile alla presenza d’interlocutori, è come un filosofare
in comune e per più rispetti richiama alla mente il dialogo platonico.
Del resto al Fichte sarebbe parsa vana una filosofia avulsa dal suo
ambiente na¬ turale, l’umanità, ond'egli si faceva un dovere di agire e
influire energicamente sui suoi contemporanei e su quanti fossero in
rela¬ zione con lui , e visse in continuo coutatto col mondo e con la
so¬ cietà; al contrario del Kant, tra la vita e la speculazione del
quale non appare certo Io stretto connubio che è nel nostro filosofo ;
in¬ fatti, i rapporti sociali e tutto il contegno esteriore del grande
soli¬ tario di Konigsberg furono, rispetto alla sua vita interiore e al
suo pensiero, cosi indifferenti come il guscio al gheriglio ma turo ;
mentre il Kant per molti e molti auui aveva portato entro di so,i suoi
gravi pensieri senza che alcuno sospettasse nemmeno che cosa
accadesse nell’ intimo di questo professore che senza differenza dagli
altri teneva i suoi corsi universitari, il Fichte, invece, impaziente di
ogni ritardo nella missione rigeneratrice, a cui con orgogliosa coscienza
di sè si sentiva chiamato, lasciava prorompere la manifestazione delle
sue idee, anche se non definitivamente elaborate, man mano che
scaturi¬ vano dal profondo della sua anima agile e trasmutabile e
disposta agli atteggiamenti più diversi secondo i campi a cui si
applicava, se¬ condo i problemi ché affrontava, secondo i momenti in cui
agiva. 1’ attività dell lo. In conclusione , noi siamo Intelligenza
Per poter essere Volontà. La Dotti-ina della Scienza , quindi , nel
sistema del Fichte, è tutta in servigio della filosofia pratica , la
quale , attraverso la Dottrina del Di¬ ritto, va a culminare nella
Dottrina morale, e'mira ad attuare quel regno dei fini che il Kant
contrapponeva al regno delle cause, e che jier il nostro filosofo
consiste nel- 1’adempimento completo del Dovere, nel dominio
assoluto dell’ lo, nel trionfo supremo della Libertà. E
invero, mentre da un lato la Dottrina della Scienza ci apprende che il
fondo, l’essenza dello spirito umano non è l’intelligenza ma 1’ attività,
non il pensare ma il volere — nella forma , almeno, in cui attività e
volere sono accessibili all’ uomo — , e che l’intelligenza — pur
essendo inseparabile dall’attività, da cui è condizionata e di cui e
condizione — resta subordinata all’ attività come la forma al proprio
contenuto, come la riflessione al proprio oggetto, d’altra parte la
Dottrina morale ci mostra il pro¬ cedimento con cui lo spirito umano si
sforza — il che è preciso suo dovere — di prendere coscienza, mediante
l’in¬ telligenza, di quell’attività pura, di quella volontà, di
quella libertà infinita, che è appunto il fondo suo , la sua essenza
assoluta. Dal che risulta evidente lo stretto nesso che avvince la
Dottrina morale alla Dottrina della Scienza ; quella si deduce
direttamente dai principi di questa, in quanto la moralità, secondo il
Fichte, non è che uno dei momenti pii\ importanti, anzi il più
essenziale, dell’ attua¬ zione di quell’ Io puro , di quella Libertà
assoluta che la Dottrina della Scienza pone al di là dei limiti di
ogni coscienza , e da cui 1’ io empirico deriva e a cui 1’ io em¬
pirico aspira. Il passaggio dall’ Io puro, assoluto e infinito, per via di
limiti e determinazioni, all’ io empirico, relativo e finito, ossia dalla
Libertà all’Intelligenza, è il problema a cui pili specialmente si
applica la Dottrina della Scienza ; il passaggio dall’io empirico,
relativo e finito, per via di superamenti e liberazioni, all’Io puro,
assoluto, infinito, è il problema a cui più specialmente si applica la
Dottrina morale. L’ un problema è il reciproco dell’ altro, e la
so¬ luzione di entrambi dipende dalla soluzione dell’antinomia tra
la finitezza dell’Io-intelligenza , attività oggettivante (che pone
oggetti, limitazioni, resistenze), e l’infinitezza dell’ Io-libertà ,
attività pura (= che ha per essenza 1’ as¬ solutezza, l’illimitatezza,
l’autonomia). E come il Fichte risolve tale antinomia con quell’attività
a un tempo finita e infinita che è lo sforzo (Streben) — attività finita,
perchè lo sforzo implica una limitazione, una determinazione, che
impedisce l’immediato compimento dell’atto nella sua infi¬ nità; attività
infinita, perchè questa determinazioue non ha nulla di assoluto, di
fisso, è un limite che l’attività fa indietreggiare incessantemente per
conseguire l’infinità — , ne segue che l’idea dello sforzo è , nella sua
filosofia, il cardine fondamentale dell’ attività teoretica non meno
che dell’ attività pratica, dell’ Intelligenza non meno che della
Volontà, della Dottrina della Scienza non meno che della Dottrina morale.
Nella Dottrina morale , a oui ora è ri¬ volta la nostra attenzione, lo
sforzo esprime la tendenza dell’Io a identificare la sua attività
oggettivante con la sua attività pura, e lo svolgimento dell’ Io è tutto
nel rapporto tra queste due attività : l’infinita Libertà non può
attuarsi se non at traverso la limitazione e l’Intelligenza, ma non
c’è limitazione uè Intelligenza se non rispetto all’infinita Attività
pura elle di continuo le sorpassa. Lo sforzo, quindi, può definirsi
un’attività in cui l’infinito è posto non come stato attuale, ma come
meta da raggiungere, un’attività in cui 1’ adeguazione del finito e dell’
infinito non è , ma dev'essere , un’attività, insomma, che ha per
contenuto il Dovere e che del Dovere è a sua volta il contenuto.
Diamo, in breve, il disegno della Dottrina morale. La Dottrina morale si
apre I) con un’ Introduzione , in cui sono sinteticamente presentati i
presupposti filosofici dell’etica; e si svolge in tre Libri, dei quali
II) il primo trae da quei presupposti il principio della moralità, III) il
secondo deduce da essi la realtà e 1’ applicabilità di questo principio,
IV) il terzo fa l’applicazione sistematica del prin¬ cipio stesso, ed
espone quindi la morale propriamente detta. I presupposti filosofici dell'
etica, contenuti nell’Introduzione e perfettamente conformi alla Dottrina
della Scienza , muovono dal principio che la vera filosofia sol¬
tanto allora è possibile, quando si abbia un punto in cui il soggettivo e
l’oggettivo, l’essere in sè e la rappresenta¬ zione di esso non siano
divisi, ma facciano tutt’uno, e che un tal punto si trova nell’Egoità o
Io puro, nell’Intel¬ ligenza o Ragione. Senza questa assoluta identità
del sog¬ getto e dell’oggetto nell’Io, la quale peraltro non si
lascia cogliere immediatamente come un dato della coscienza at¬
tuale, ma soltanto argomentare per via di ragionamento, la filosofia non
approda a nessun risultato. Bisogna, dunque, ammettere un’Unità
fondamentale e primitiva, la quale, tosto che nasce una coscienza attuale
— o anche soltanto l’autocoscienza —, si scinde necessariamente in
soggetto e oggetto, poiché “ solamente in quanto io, essere
cosciente, mi distinguo da me, oggetto della coscienza, divengo co¬
sciente di me stesso „ ( 1 ). Bisogna ammettere, inoltre, che l’oggettivo
abbia causalità sul soggettivo, e viceversa il soggettivo sull’oggettivo,
per rendere concordi tra loro, e in generale possibili, il pensiero e il
pensato, la ragione e il suo dominio sulla natura. E appunto perchè il
legame causale tra soggetto e oggetto è duplice — ognuna delle due
parti è causa ed effetto dell’altra: il soggettivo è ef¬ fetto
dell’oggettivo uel conoscere , Soggettivo è effetto del soggettivo nell
'operare — , la filosofia si divide in teore¬ tica e pratica.
Senonchè, come avemmo già occasione di notare (*), l’Io puro, ossia
1’ U.nità soggettivo-oggettiva ancora indi¬ visa, non è un fatto (
Thatsache ), ma un atto ( Thathand - tutiff), la sua natura originaria è
attività: è, dunque, pra¬ tica. Perciò il principio : “ Io mi trovo come
operante nel mondo sensibile „ ( 3 ) è di capitale importanza per il
nostro conoscere. Da esso comincia ogni coscienza ; senza la co¬
scienza della mia attività non è possibile nessuna autoco¬ scienza, senza
l’autocoscienza nessuna coscienza di un quid diverso da me. Infatti, la
percezione della mia atti¬ vità suppone una resistenza al di fuori di
noi; “ ovunque e in quanto tu percepisci attività, tu percepisci
necessa¬ riamente anche resistenza ; altrimenti tu non percepisci
attività „ (Ora la resistenza è affatto indipendente dalla (')
Sittenlehre (Stimanti. Werke, Voi. IV, ediz. cit.), pag. 1 (nostra
traduz. pag. 1). Cfr. pvec. Sittenlehre, p. 3 (nostra traduz. p.
3). ( 4 ) Ibid. p. 7 (ibid. p. 6). XI.V
mia attività, è anzi il suq opposto; è qualcosa che esiste
soltanto e in nessun modo agisce, qualcosa di quieto e morto, die tende
semplicemente a rimanere quel che è, qualcosa che nel proprio campo
contrasta all’azione*della libertà, ma non può mai invadere il campo di
questa. Un qualcosa di simile, dunque, è “ pura oggettività „ , e
si chiama., col suo proprio nome, materia. Senza la rap¬
presentazione di una tale materia, niente resistenza alla nostra
attività, quindi niente attività, niente autocoscienza, niente coscienza,
niente essere. La rappresentazione del puro oggettivo resta così dedotta
necessariamente dalle leggi stesse della coscienza ( l ). Con
la medesima necessità con cui viene dedotto il puro oggettivo, viene
posto anche il suo contrario, il sogget¬ tivo, ossia 1’ attività
propriamente detta, sotto la forma di un’ agilità (Agililàt) o forza
efficiente. Ma poiché nella coscienza, quasi come in un prisma, ogni
unità si rifrange in soggetto e oggetto, così in essa, avvenuto lo
sdoppia¬ mento dell’Io puro in soggettivo e oggettivo, anche il
sog¬ gettivo si sdoppia a sua volta, e si ha da una parte 1’ at¬
tività propriamente detta, veduta come una forza reale, come un oggettivo
esistente in me, dall’altra il soggettivo, fonie inesauribile di questa
forza reale, fonte originaria non derivante da nessun oggettivo, e dalle
cui profondità oscure e inaccessibili sgorga, con libero, spontaneo e
talora impetuoso moto interno, l’infinita varietà delle nostre rap¬
presentazioni, dei nostri concetti ; per conseguenza la mia attività — ossia
il soggettivo ancora indiviso nella sua unità anteriore alla coscienza —
, quando sia veduta attra- (*) Ibid. pp. 7-8 (itici, p. 7).
verso il tramite della coscienza, appare come un oggettivo, che da un
lato scaturisce da un soggettivo perennemente rinascente a ogni
estrinsecarsi dell’oggettivo, dall'altro de¬ termina l’oggetti vita pura
dianzi chiamata materia (‘). Così si rivela alla coscienza la nostra
assoluta auto-attività, la cui essenza sta nel produrre rappresentazioni,
nel creare concetti, e la cui manifestazione sensibile dicesi
libertà. Ciascun concetto, riguardato come determinante l’oggettivo
in virtù della propria causalità, diventa un concetto-line, e allora esso
stesso appare un qualcosa di oggettivo e si chiama uua volizione; e lo
spirituale che in noi si consi¬ dera come principio immediato delle
volizioni dicesi volontà. Spetta, dunque , alla volontà agire sulla
materia ed esercitare causalità nel mondo sensibile ; ma ciò non le
sarebbe possibile se non avesse uno strumento che sia esso stesso materia
, ossia quel corpo articolato che è il nostro (‘) Nel Leon (op.
cit. pp. 255-260) trovasi ben descritta la natura dell’attività
spirituale nel senso fichtiano, attività clic è, a un tempo e
continuamente, produzione di sè e riflessione sopra di sè, oggetti¬
vazione e soggettività, io reale e io ideale, attualità e potenzialità;
chi voglia intendere una tale attività, che ha la caratteristica di esi¬
stere e di essere anteriore alla propria esistenza, devo ricordarsi che
essa non va pensata alla maniera delle cose, perché, contrariamoute alla
natura di queste ultime, la cui realtè si esaurisce tutta quanta
nell'essere oggettivo, l’attività spirituale può ripiegarsi su di sé, può
riflettersi. E a ciò si deve quel fenomeno meraviglioso e cosi lontano
dal meccanismo materiale, per cui 1’ esistenza ideale deter¬ mina
l’esistenza reale, l’idea ha causalità, lo spirito è libertà. Onde si
vede che la libertà è proprio (come il Kant aveva ailermato, senza però
dimostrarlo) il comiuciamento assoluto d’uno stato, la creazione di un’
esistenza seuza rapporto di dipendenza reale con un’ altra esi¬ stenza. E
si vede altresì che solamente 1’ essere ragionevole, dotato
d’intelligenza e riflessione, è capace di libertà, poiché in lui soltanto
è possibile una causalità in forza di un concetto. organismo. E invero u
io , consideralo come un principio di attività nel mondo dei corpi, sono
un corpo articolato, e la rappresentazione del mio corpo non è altro
che la rappresentazione di me stesso come causa nel inondo
materiale 5 e perciò, mediatamente, non altio che un ceito aspetto della
mia attività assoluta „ ('). Volontà e corpo sono quindi una medesima
cosa , riguardata però da due lati diversi: una medesima cosa, perchè
soltanto fin dove si estende l'immediata causalità della volontà sul
corpo, si estende il corpo articolato , necessario strumento della
causalità sulla materia; riguardata però da due lati di¬ versi , perchè ,
in virtù dell’ azione sdoppiatrice della co¬ scienza, la volontà appare
come il soggettivo che esercita la sua causalità sul corpo, e il corpo
come 1 ’oggettivo i cui mutamenti coincidono con quelli di tutta
l’oggettività o realtà corporea. Similmente una medesima cosa,
riguar¬ data però anch’ essa da due lati diversi, sono la natura
che la mia causalità può cangiare, ossia la costituzione e T ordinamento
della materia , e la natura non cangiabile , ossia la materia pura : la
natura mutevole è 1 ’ oggettivo considerato soggettivamente e in
connessione con 1 ’ io, in¬ telligenza attiva ; la natura immutevolo è
Soggettivo con¬ siderato oggettivamente e soltanto in sè.
Secondo il precedente ragionamento , i molteplici ele¬ menti che
l’analisi ritrova nella percezione della nostra causalità sensibile vengono
dedotti dalle leggi della co¬ scienza e ridotti all' unità, all’ unico
assoluto su cui si tonda ogni coscienza e ogni essere, all 'attività
pura. Questa at¬ tività, in virtù della legge fondamentale della
coscienza, (!) Sittenlehre, p. 11 (nostra traduz. pp.
10-11). per cui 1 essere attivo non si comprende senza una resi¬
stenza su cui agisce, non si comprende cioè se non come un Io-soggetto
operante sopra un Non-Io-oggetto, appare sotto forma di efficienza su
qualcosa fuori dell'Io. Ma tutti gli elementi contenuti in questa
apparenza, a partire dal con¬ cetto-fine propostomi assolutamente da me
stesso, sino alla materia greggia del mondo esterno su cui esercito
la mia causalità, non sono che anelli intermedi dell’apparenza
totale, e perciò semplici apparenze anch’essi. L’unico reale 1 vero
è la mia auto-attività, la mia indipendenza, la mia libertà.
IL - Da tali presupposti bisogna ora dedurre il principio della
moralità. L’ uomo trova in sè un’ obbliga¬ zione assoluta e categorica a
fare o non fare certe azioni indipendentemente da ogni fine esteriore, la
quale si ac¬ compagna immancabilmente con la natura umana e costi¬
tuisce la nostra caratteristica morale. Donde ha origine questa
obbligazione o Dovere, che vai quanto dire la leggo morale, ossia il'
principio della moralità? Secondo che esige la Dottrina della Scienza ,
tale origine non va ricercata altrove che in noi stessi, nell’ Jo. Onde
il primo problema da risolvere a tal fine è:^ u Pensare sè stesso
come puramente sè stesso, ossia come distaccato da tutto ciò che non è
io. „ (*). La soluzione di questo problema si ottiene così :
Io non trovo me stesso se non nella mia volontà, se non come
volente ; e trovarsi volente significa riconoscere in se una sostanza che
vuole. L’intelligenza è la coscienza fl ) Ibid. p. 18 (ibid. p.
20). puramente soggettiva; la coscienza del proprio io in quanto io
non può nascere che dalla volontà,. Ma la volontà non si concepisce se
non supponendo qualcosa di diverso dal- 1’ io, perchè ogni volontà reale
è una determinata volizione che ha un concetto-fine, che tende cioè ad
attuare un og¬ getto concepito come possibile, un oggetto che stia fuori
di noi. Ne segue che, per trovare me stesso e nuli’altro che me
stesso , bisogna fare astrazione da questo oggetto esterno della mia
volontà: ciò che rimane allora sarà il mio es¬ sere puro, la volontà
assoluta, il principio della nostra filo¬ sofia. Ne segue altresì che il
carattere essenziale e distin¬ tivo dell’ io è una tendenza ad agire di
propria iniziativa e indipendentemente da ogni impulso estraneo, a
determi¬ nare sè stesso in modo incondizionato e autonomo , è, in
una parola, la libertà. Ora, appunto questa tendenza e questa libertà
costituisce l’io preso in sè, l’io considerato all’ infuori di ogni
relazione con checchessia di diverso da sè. Ma ogni essere
non è se non in quanto viene riferito a un’ intelligenza, la quale sa che
esso è ; in altri termini suppone una coscienza. L’io, quindi , non è se
non in quanto si pone, non è se non in forza della coscienza che ha
di sè; onde esso deve avere la coscienza di quella ten¬ denza alla libera
auto-determinazione che dicemmo costi¬ tuire la sua essenza. E invero
l’io che, mediante l’intelli¬ genza, pone sè stesso come tendenza
all’autonomia assoluta o libertà, è un essere il cui principio si trova
non in un altro essere, ma in un quid di categoria diversa —
l’unico quid che possa concepirsi oltre l’essere — e cioè nel pen¬
siero , inteso non come qualcosa di sostanziale, sì bene come attività
pura, come movimento dell’intelligenza senza restrizioni e
senza fissità. Orbene, da questa intima fusione dell’io in quanto
tendenza all’attività assoluta o libertà e dell’io in quanto
intelligenza, dell’io in quanto essere e dell’ io in quanto riflessione ,
è possibile dedurre il prin¬ cipio della moralità. Come? L’Io
assoluto, non ancora rifratto dal prisma della coscienza, è determinato,
come abbiamo detto, dalla sua tendenza all’attività assoluta, e questa
determinazione di¬ venta oggetto o contenuto dell’ intelligenza. Ma ,
siccome l’Io assoluto nella sua unità integrale, nella sua
semplicità e identità originaria non può essere mai oggetto della
co¬ scienza , bisogna che questa si sforzi di apprenderlo , al¬
meno per approssimazione, attraverso la dualità dell’essere oggettivo e
della riflessione soggettiva, mediante quella specie di espediente che
consiste nel considerare il sog¬ gettivo e 1’oggettivo come
determina»tisi reciprocamente 1’ uno 1’ altro, come complementari, quindi
come insepara¬ bili e impensabili l’uno senza l’altro. E allora, se si
con¬ cepisce il soggettivo come determinato dall’ oggettiv'o (nel
qual caso nasce quella relazione psicologica che si chiama sentimento),
essendo l’oggetto, rispetto al soggetto, qual¬ cosa di per sè stante, di
fisso .e permanente, si troverà che il contenuto del pensiero è
immutabile e necessario e che l’intelligenza impone a sè stessa la legge
di una attività propria e assoluta. Se poi si concepisce
l’oggettivo come determinato dal soggettivo (nel qual caso nasce
quel- l’altra relazione psicologica che si chiama volontà), es¬
sendo il soggetto, rispetto all’ oggetto, qualcosa di mobile, di attivo e
indipendente, si troverà che l’io si pone come libero. Si arriverà cosi —
combinando, i due risultati , la legge necessaria da una parte e la
libertà illimitata dal- 1’ altra — all’ idea di una
legge che l’io liberamente -im¬ pone a sè stesso : la legge ha per
contenuto la libertà , e la libertà è sottoposta alla legge. Legge e
libertà, per tal modo , si determinano reciprocamente : esse fanno
insieme una sola e medesima unità. Tra la libertà ( = attività in-
condizionata e illimitata) e l’autonomia ( = imposizione spontanea di una
legge a sè stesso) non c’ è incompatibi¬ lità; esse nascono entrambe da
quello sdoppiamento che è dovuto alla natura dell’ attività spirituale e
che è a un tempo posizione di sè e riliessione sopra di sè, oggetto
e soggetto. In altri termini, si ha qui l’intima fusione, nel- 1’
unità dell’ io, tra 1’ intelligenza, che concepisce la nostra essenza
come libertà, e la volontà, che è 1’ attuazione del- 1’autonomia, tra la
libertà-concetto e la libertà-atto, e il legame che unisce 1’ una all’
altra è di causalità non Inec- canico-coercitiva ma psichico-imperativa,
è di necessità non teorica ma pratica, è il legame morale del dovere.
La libertà-idea non può non tradursi, dece tradursi in libertà-
realtà; il Dovere, obbligazione per eccellenza, sta nell’at¬ tuare
l’essenza nostra, nel divenire, attraverso la coscienza, quel ohe siamo
in fondo al nostro essere assoluto anteriore alla coscienza, nel renderci
cioè liberi ; e in ciò precisa¬ mente consiste il principio supremo di tutta
la moralità, il quale per tal guisa risulta dedotto, come ci
proponevamo, dalla natura dell’ io. Posto l’io, è in pari
tempo posta anche la tendenza all’assoluta auto-attività, alla libertà;
ma la libertà non acquista valore se non per un’ intelligenza che ne
faccia la legge determinante delle nostre azioni ; ne segue che
l’io deve sottoporsi con coscienza e quindi con libertà alla legge della
propria natura, che è la legge della libertà, senz’altro fine che
la libertà, stessa. La moralità, appunto perchè esprime direttamente
l’essenza dell’io, la sua pra¬ ticità assoluta e la sua autonomia, è una
perpetua legisla¬ zione dell’io imposta a sè stesso, sotto un triplice
rispetto : a) rispetto all’adozione stessa della legge morale, ado¬
zione la quale non può essere che una libera sottomissione, una spontanea
adesione alla logge; h) rispetto all’applica¬ zione della legge a ciascun
caso particolare, applicazione nella quale il giudizio morale è sempre un
atto di auto¬ nomia, un consenso di noi con noi stessi ; c) rispetto
al contenuto della legge, uel quale contenuto è evidente che ogni
determinazione della volontà da parte di una causa estranea a sè stessa,
che vai (pianto dire alla ragione, co¬ stituirebbe un’eteronomia affatto
contraria alla legge mo¬ rale. Per tal modo si può concludere che la vita
morale tutta quanta non è altro che una ininterrotta auto-legisla¬
zione dell’io, una perenne autonomia dell’essere razionale; e dove questa
autolegislazione cessa, ivi comincia l’ immo¬ ralità ('). IH-
- Alla deduzione del . principio della moralità segue la deduzione della
realtà e dell’ applicabilità del principio stesso, senza di che quest’
ultimo rimarrebbe un’ astrazione e la morale si ridurrebbe a un
formalismo vuoto e sterile. Invece la morale ha una realtà, la
legge morale ha efficacia nel mondo sensibile in cui viviamo ; onde
il principio della moralità è non solo vero , logica¬ ci Tbid. p.
5C ibid. p. 55). A chiarire ancor meglio la deduzione della legge morale
dall’Io, ricollegandola con i principi e le conse¬ guenze della Dottrina
della Scienza giova il seguente schema fornito — un
— mente possibile e giustificato dalla ragione, ma altresì reale e
applicabile : reale, perchè è un concetto che deve attuarsi nel mondo
sensibile (*) ; applicabile, perchè il mondo sensibile è tale, per
origine e natura, da prestarsi* come strumento all’attuazione di quel
principio. dal Fischer ( Geschichte der neuem Philosophie, voi.
VI, Fichte unti seine Vorgànger, 4 a ediz. 1914, p. 458) e nel quale
viene simboleggiato lo sdoppiarsi dell’ Io nella coscienza teorica e il
suo reintegrarsi nella legge morale : Io
Soggetto = Oggetto Coscienza (Divisione)
Soggetto . Autoattività Causalità del Concetto Libertà
Oggetto Materia Causalità della Materia
Necessità Libertà = Necessità Legge della Libertà
Libertà sotto la Legge della Libertà (Assoluta Autonomia)
Legge Morale (‘) Come si vede, qui la realtà del principio
morale non è la realtà già attuata di ciò che esiste nel mondo meccanico
dei fatti naturali o nel mondo giuridico della convivenza sociale , ma la
realtà di ciò che deve esistere nel mondo morale della volontà; le prime
due specie di realtà sono sotto la categoria della necessità (leggi
naturali) o della coercizione (leggi sociali), l’ultima, invece, di cui
ora si tratta, è sotto la categoria della contingenza, della libertà
(legge morale). Infatti, il principio della moralità dianzi dedotto
è a un tempo un principio teorico, in quanto l’io si determina da
sè dinanzi a sè stesso come essere assolutamente indi- pendente e libero
— il che costituisce la materia della legge morale —, e un principio
pratico, in quanto l’io im¬ pone da sè a sè stesso 1’ attuazione della
propria natura — il che costituisce la forma (imperativa) della legge
mo¬ rale —. Ogni singolo io è libero, ecco il principio teo¬ rico ;
Ovatterai ogni singolo io come un essere libero, ecco il principio
pratico derivante, sotto forma di comando , da quel principio teorico. In
sostanza la legge pratica della libertà potrebbe formularsi così : “
Opera secondo la cono¬ scenza che hai della natura e del fine originario
degli es¬ seri Giusta i principi della Dottrina della Scienza, le
cose che abbiamo posto fuori di noi non sono, in fondo, che le nostre
idee ; di qui l’armonia tra la determina¬ zione teorica degli oggetti e
gl’ imperativi morali che da questa determinazione teorica scaturiscono
rispetto agli og¬ getti stessi. La spiegazione dell’ accordo dei fenomeni
con la nostra volontà sta nell’accordo della volontà con la na¬
tura, a cominciare dalla natura nostra : noi non possiamo volere se non
ciò a cui ci spinge 1’ impulso naturale ; questo impulso non è la legge
morale, ma^ legge morale non può nulla comandare il cui oggetto non sia
nella sfera di questo impulso. L’essere ragionevole, il quale deve
porre sè stesso come assolutamente libero e indipendente, non può
far ciò senza in pari tempo determinare teoricamente il suo mondo mediante
la rappresentazione ; e la sua libertà, che è un principio pratico, esige
che questa determinazione teo¬ rica da parte del pensiero si mantenga e
si completi me¬ diante l’azione da parte della volontà. L’azione della
liberta dell’ io sul mondo determinato come rappresenta¬ zione consiste
nella modificazione di uno stato del mondo stesso mercè il dominio di un
concetto anteriormente posto ; è la produzione di una realtà
conformemente a un’idea data come suo principio ; significa, per
conseguenza, proprio l’in¬ verso della rappresentazione, la quale è la
determinazione di un concetto secondo una realtà anteriormente posta.
E come l’enigma della rappresentazione, ossia il rapporto tra la
cosa e l’idea, trovava la sua soluzione nell’identità ori¬ ginaria dei
due termini, essendo la cosa un prodotto in¬ conscio dell’ io, similmente
qui il l’apporto tra il concetto e la realtà ha il suo fondamento nel
fatto che la produ¬ zione di questa realtà non è la produzione di una
cosa in sè, di una realtà assoluta, che sarebbe in qualche modo
esteriore alla coscienza, ma è sempre uno stato di coscienza, una
determinazione dell’ io. E allora non è più questione di sapere come sia
possibile nel mondo una modificazione da parte della libertà, poiché,
essendo il mondo esso stesso un prodotto della libertà , un limite che
l’io pone a sè stesso, è questione di sapere come sia possibile,
mediante la libertà, un cangiamento nell’io, un’estensione dei suoi
limiti ; e se si osserva che 1’ io, oggetto di questa modifi¬ cazione, è
l’io limitato., ossia l’io empirico, e che la legge della libertà, sotto
la quale si operano nell’ io empirico queste modificazioni, esprime l’io
puro, l’io assoluto, è evidente che il problema circa la realtà del
principio mo¬ rale, circa l’attuazione della libertà , si riduce , in
fondo , alla questione già esposta anteriormente circa i rapporti
tra l’io empirico, naturale, e l’io eterno, assoluto (*). (‘)
Sittenlehre, pp. 63-75 (nostra traduz. pp. 63-74). — Cfr. anche prec. pp.
XLI-XLII. Per dedurre ora la realtà e la conseguente applica¬ bilità
del principio dell’ etica, bisogna dedurne la materia e la sfera d’
azioue, bisogna stabilire, cioè, anzitutto l'og¬ getto della nòstra
attività in generale ('), poi la causalità reale dell’essere ragionevole
(Quanto al primo punto si ha questo teorema: “ L’essere l'agionevole non
può attri¬ buirsi nessun potere, senza pensare in pari tempo
qualcosa fuori di sè a cui quel potere sia diretto „ ; egli, infatti,
non può attribuirsi la libertà, senza pensare più azioni reali e
determinate come possibili per opera della libertà, e non può pensare
nessun’ azione come reale e determinata, senza sup¬ porre all’ esterno
qualcosa su cui quest’ azione sia eser¬ citata ( 3 ). Esiste, dunque,
fuori di noi e posta dal pensiero, una materia a cui la nostra attività
si riferisce e che può essere modificata all’ infinito. Quanto al secondo
punto si ha quest’altro teorema: u L’essere ragionevole non può
trovare in sè nessun’ applicazione della propria libertà, ossia nessun
volere reale, senza in pari tempo attribuire a sè stesso una reale
causalità o efficienza sul mondo esterno r , e non può attribuirsi una
siffatta causalità o.efficienza, senza deter¬ minarla in una certa
maniera. Ora, l’attività pura non può essere determinata in sè,
altrimenti non sarebbe più pura ; essa non può essere 'determinata se non
da ciò che le si oppone, ossia dai suoi limiti. Questi limiti non possono
es¬ sere percepiti se non nell’esperienza sensibile e, inquanto
oggetto d’intuizione sensibile, consistono in una diversità o varietà di
materia. Onde l’io, il quale non sarebbe at- (*) Ibid. pp. 75-88
(ibid. pp. 75-87). (*j Ibid. pp. 89-101 (ibid. pp. 87-98). (
3 ) Ibid. pp. 75, 79 e 81 (ibid. pp. 75, 78 e 80). tivo se non si sentisse
limitato, viene posto come un’ at¬ tività che preme, per allargarli,
sopra i limiti entro cui lo rinserra la diversa materia che gli resiste,
il nou-io che gli si oppone. L’essere ragionevole, dunque, esercita una
causalità reale nel mondo sensibile, e tale causajit.à con¬ siste non già
nel creare o distruggere la materia su cui si esercita — tale materia è
condizione indispensabile per l’attività dell’essere ragionevole —, ma
nell’introdurvi ul¬ teriori determinazioni nuove ; u io ho causalità „
significa sempre: u io allargo i miei confini „, che vai quanto
dire: “ io attuo progressivamente il concetto di libertà — se¬
condo che mi è imposto dalla legge morale —, pur non giun¬ gendo mai a
un’ attuazione completa „. Di guisa che la no¬ stra esistenza, mentre uel
mondo intelligibile è legge morale, nel mondo sensibile è azione reale: il
punto in cui le due esistenze si riuniscono è la libertà intesa come
facoltà assoluta di determinare 1’ azione mediante la legge (*).
Risulta da quanto precede che il principio della mo¬ ralità, ossia
la libertà, non può attuarsi se non opponendo all’attività pura dell’ io
una limitazione o un sistema di limitazioni, e imponendo alla medesima
attività un progres¬ si Ibid. pp. 91-92 (ibid. pp. 89-90). —
Abbiamo qui una delle idee fondamentali del sistema ficbtiauo, cioè:
l’impossibilità per noi di separare il sensibile dall’intelligibile, la
negazione del dualismo, l’as¬ surdità di concepire nell’ àmbito della
coscienza un carattere noume- nico radicalmente distinto dal carattere
fenomenico. Secondo il Fichte — scrive il Léon (op. cit. p. 269) — il
sensibile è la condizione per l’intelligibile....; Benza il sensibile, il
quale determinandolo lo attua, il puro intelligibile rimarrebbe allo
stato di potenza indeterminata e vuota. Questa concezione segua la rovina
del misticismo, che pretende isolare lo spirito dal corpo e relegarlo in
una sfera chimerica ; l'Io iichtiano non è fatto di singoli pezzi
separabili ad arbitrio ; esso forma in tutti i suoi elementi una
gerarchia, un vero organismo. sivo
ampliameuto di questa limitazione o sistema di limi¬ tazioni. Il che si
verifica anche quando si tratti non di un fine ultimo, come la libertà
assoluta, ma di fini intermedi. Il più spesso’ci accade di non poter
attuare immediata¬ mente un determinato fine scelto dalla nostra volontà,
e siamo costretti, per conseguirlo, a servirci di certi mezzi già
determinati in* antecedenza senza il nostro intervento : non perveniamo
al nostro fine se non attraverso una serie di gradi interposti ; che
equivale a dire : tra il sentimento da cui sono partito con la volontà e
il sentimento a cui mi sforzo di giungere intercedono altri sentimenti,
di cui ognuno è l’esponente dei limiti che mi si oppongono, li¬
miti che con la mia causalità, con la mia azione, io fo in¬ dietreggiare
ogni volta di più, estendendo cosi pi-ogressiva- mente la mia attività
reale. La mia causalità, dunque, ap¬ pare come un’azione continua e
diversa, come una serie ininterrotta di sforzi e di sentimenti svariati ;
poiché essa è assolutamente una e identica in quanto attività, ma
pre¬ senta tuttavia infiniti aspetti multiformi a causa della
multiforme resistenza che incontra da parte degl’ infiniti oggetti
esterni; — esterni, s’intende, e posti indipendente¬ mente da noi, per
chi non adotti o ignori il punto di vista della filosofia trascendentale
e rimanga al punto di vista della coscienza comune —. Intesa
nel modo descritto, la causalità dell’ essere ra¬ gionevole contiene in
sé la sintesi assoluta della cono¬ scenza e dell’ attività,
determinantisi reciprocamente nella concezione e nel perseguimento di un
medesimo fine. L’es¬ sere ragionevole, infatti, non ha una conoscenza se
non in se¬ guito a una limitazione della propria attività (tesi); ma
d’altro canto non ha attività se non in seguito a una
conoscenza (antitesi) ; conoscenza e attività sono poste come
identiche nella volontà (sintesi) ( l ). Come si ottiene questa
sintesi? Basta pensare all’ essenza originaria dell’ io
oggettivamente considerato : sappiamo che tale essenza è assoluta
attività e nuli’altro che attività; e poiché l’attività,
oggettivamente presa, è impulso, e nell’io nulla esiste o accade di cui
egli non abbia coscienza, cosi, posto nell’ io oggettivo un im¬
pulso, vien posto altresì iu esso un sentimento di questo impulso. Il
sentimento o coscienza primitiva dell’impulso è, dunque, l’anello
sintetico in cui con l’attività è posta la conoscenza e con la conoscenza
l’attività. Soltanto è da aggiungere che, se dal punto di
vista pratico la conoscenza e l’attività sono inseparabili, la co¬
scienza che accompagna qui l’impulso non è affatto la co¬ scienza
riflessa e iu nessun grado una riflessione libera ; in essa non c’ è
neppure quella specie di libertà che caratte¬ rizza la rappresentazione e
che ci permette di non rappre¬ sentarci l’oggetto, di fare cioè
astrazione da esso ; è una coscienza tutta spontanea, che s’impone a noi
con necessità, è un sentimento di cui non siamo in nessun modo
padroni. Il sistema d’impalisi e di sentimenti di che s’intesse 1’
io empirico oggettivo deve quindi concepirsi come na¬ tura, come la
nostra natura, come cioè qualcosa di dato, di non prodotto da noi, d’ indipendente
dalla libertà , ma su cui la libertà può esercitarsi, e si esercita,
allorché l’io-soggetto ne fa oggetto di riflessione e consente o no
a soddisfarlo ; e invero, tosto che riflettiamo sui nostri impulsi
originari, non siamo più dominati da essi ; sono essi, invece, dominati
da noi, perchè dipende da noi asse¬ di Ibid. pp. condarli o no ; comincia allora
il vero ufficio della nostra libertà cosciente. Nasce così la differenza
tra la facoltà appetitiva inferiore del semplice impulso di natura e
la facoltà appetitiva superiore del medesimo impulso sottoposto
alla riflessione e alla libertà (*). Giova chiarire meglio la
facoltà appetitiva inferiore, prima di passare alla superiore. Abbiamo
detto che essa costituisce ciò che in noi si chiama natura; ma bisogna
distinguere la natura nostra dalla natura delle cose in cui regna il puro
meccanismo. Nel mondo meccanico non c’è attività propriamente detta, c’ è
soltanto una trasmissione di urti attraverso tutta la serie di cause ed
effetti, senza che nessun anello produca o modifichi la forza
trasmessa. Nella natura nostra, al contrario, c’è una vera
spontaneità, la quale non è ancora la libera causalità del pensiero,
del concetto, perchè è una necessaria determinazione dell’esi¬
stenza reale per opera di questa esistenza stessa, ma sta tuttavia al
disopra del puro meccanismo, perchè consiste in una determinazione
proveniente da una serie di cause ed effetti disposta non più secondo un
ordine lineare di suc¬ cessione, sì bene secondo un ordine ricorrente di
recipro- canza ; quivi, infatti, le singole parti sono a un tempo
ef¬ fetti e cause del tutto, onde si ha quel che si dice un or-
(Per essere più chiari : l’impulso e il sentimento che l’accompagna
mancano di libertà; la volontà e la riflessione che ne è condizione hanno
per essenza la li¬ bertà; a parte, però, questa differenza di capitale
importanza ma sol¬ tanto formale, l’impulso e il sentimento, per quanto
riguarda il loro contenuto materiale, sono identici alla volontà e alla
riflessione; l’og¬ getto a cui tendono necessariamente i primi diventa
l’oggetto libe¬ ramente accettato o ripudiato dalle seconde.
gallismo, ossia una costituzione, la quale, lungi dal dipen¬ dere da
un’azione esterna, Ira in sè stessa il principio della propria
determinazione, è dotata insomma di spontaneità,. La reciprocanza di
azione tra le parti di un tutto orga¬ nico in natura si spiega così: a
ciascuna di esse le altre non lasciano che una certa quantità di realtà,
onde cia¬ scuna parte per la rimanente realtà che le manca non ha
che una tendenza (o impulso) risultante dallo stato de¬ terminato delle
altre parti : ciascuna tende a formare il tutto, a integrarsi con la
realtà delle altre ; e cosi in un’ unità organica la realtà è in
proporzione inversa della tendenza (o impulso) derivante dalla mancanza
di realtà; realtà e tendenzfP (o impulso) si completano a vicenda ;
ciascuna parte tende a soddisfare il bisogno di tutte, e tutte a loro
volta tendono a soddisfare il bisogno di ciascuna ; ogni singola parte
tende a combinare la pro¬ pria essenza e la propria azione con l’essenza
e l’azione delle rimanenti, e questa tendenza giustamente si dice
im¬ pilino plastico (Bildungstrieb), cosi nel senso attivo come nel
senso passivo della parola, perchè è la facoltà a un tempo così
d’imprimere come di ricevere forme. Questa facoltà organizzatrice è
universale, essenziale, inerente a tutte le parti e a tutti gli elementi,
onde ciò che si chiama un tutto naturale, ossia un tutto chiuso, può
altresì chiamarsi un prodotto organico della natura, a costituire il
quale certi elementi della natura, in virtù della causalità di cui
questa è dotata, hanno riunito il loro essere e il loro operare in
un solo e medesimo essere, in un solo e medesimo operare. Ciò posto, ecco
quanto accade in quel tutto organico della natura che è 1’ io
individuale, empirico, a partire dai più bassi impulsi sino alle più alte
tendenze. Iu ciascun io individuale, appunto perchè esso è un
tutto organico della natura, l’essenza delle parti consiste in una
tendenza a conservare unite a sè altre determinate parti, e siffatta
tendenza, se attribuita al tutto, dicesi im¬ pulso all' autoconservazione
; alla conservazione, s’intende, non dell’esistenza in generale, che è un’astrazione,
ma di un’esistenza determinata. L’impulso all’autoconservazione,
che è poi la tendenza a perseverare nel proprio essere, porta 1’ essere
organico a inferire a sè certi oggetti della natura; di qui l’appetito o
la brama verso questi oggetti, appetito o brama dapprima vaghi e
indeterminati, quasi come il primo grido inarticolato dell’orgauismo
ancora in¬ fante, poi sempre più determinati e differenziati, come
il linguaggio articolato dell’orgauismo adulto. E — si noti bene —
non già la diversità degli oggetti determina lo specificarsi dei vari
appetiti e desideri ; al contrario, i di¬ versi modi del desiderio,
mediante le proprie determina¬ zioni, si creano i propri oggetti. La
coscienza o l’intelli¬ genza* che ci rappresenta gli oggetti non è che il
riflesso dei nostri istinti,, inclinazioni, tendenze, della nostra
vita pratica in generale; non, dunque, gli oggetti suscitano, quasi
loro fine, gli appetiti, ma gli appetiti hanno il proprio fine in sè
stessi, nella propria soddisfazione, e noi non per¬ seguiamo, attraverso
gli oggetti, altro che i nostri desideri esteriorizzati nelle cose (‘).
Ma se è così, se ciò che ci sfor¬ ziamo d’ottenere è non l’oggetto — il
quale si riduce a im simbolo —, sì bene la soddisfazione della
nostra _ten- • denza, della nostra brama, in altri termini, il nostro
godi¬ mento, il nostro piacere, si comprende come, tanto dal punto
di vista della pura natura irriflessa, quanto da quell» della riflessione
sulla natura, sia il piacere il fine supremo della nostra condotta ; di
guisa che, nel primo passaggio imme¬ diato dallo stato di pura natura
allo stato di coscienza ri¬ flessa, la nostra azione cangia di forma — da
necessaria e istintiva diventa libera e riflessa, e tale cangiamento
ne modifica radicalmente il carattere — , ma il suo contenuto
rimane ancora il medesimo, è ancora il piacere: al punto da far sembrare
che l’uomo con la riflessione non si elevi al di sopra della natura, se
non per sottoporlesi meglio e perse¬ guire con pili luce e sicurezza il
fine edonistico. Ora, finché è spinto al piacere e dipende dagli oggetti
dei suoi appetiti, ]' uomo rimane confinato nell’ esercizio della
facoltà appeti¬ ti va inferiore. Ma l’attività ragionevole in lui tende con
co- 1 scienza e riflessione a determinarsi assolutamente da sé, a
rendersi indipendente da ogni oggetto che non sia essa stessa, quindi
anche e soprattutto dal piacere; e allora la nostra azione si differenzia
da quella compiuta allo stato di pura natura, oltreché per la forma,
anche per il contenuto, es¬ sendo questo costituito non pili dal piacere
— comunque ricercato, per istinto cieco e necessario, ovvero per volontà
, cosciente e libera — , ma dalla libertà stessa, che è l’es senza
nostra e il nostro vero fine supremo. L’ uomo si eleva cosi all’esercizio
della facoltà appetitiva superiore, di quella che appartiene non a lui
prodotto di natura, ma a lui spirito puro. Ciò non ostante, le due facoltà
appetitive, l’inferiore e la superiore, costituiscono un solo e medesimo
impulso origi¬ nario dell’io, dell’io veduto da due lati diversi : nella
facoltà appetitiva inferiore, ossia nell’ impulso naturale, mi concepisco
come oggetto, uella facoltà appetitiva superiore, ossia nell’impulso
spirituale, mi concepisco come soggetto, mentre tutta la mia essenza si
ritrova nell’ identità del soggetto e dell’oggetto, ò soggetto-oggetto.
Dall’azione reciproca dei due impulsi nascono tutti i fenomeni dell’ io ;
ma en¬ trambi si fondono in un unico e medesimo io , onde debbono essere
conciliati, unificati ; ed ecco in qual modo : l’impulso superiore
rinunzia alla purezza della propria at¬ tività — purezza che consiste nel
non essere determinato da un oggetto —, lasciandosi determinare da un
oggetto, e l’impulso inferiore rinunzia al piacere in quanto fine,
al piacere per il piacere ; si ha così per risultato della loro
unione un’ attività oggettiva, il cui oggetto e fine ultimo è un’
assolute libertà, un’assoluta indipendenza da ogni na¬ tura;'un fine,
questo, proiettato all’infinito e perciò irrag¬ giungibile — raggiungerlo
sarebbe porre termine in pari tempo all’attività e alla natura che
dell’attività è il limite correlativo, la condizione indispensabile —; un
fine , tut¬ tavia , a cui è possibile avvicinarsi sempre più,
facendo uso della libertà e della facoltà appetitiva superiore.Non si
obietti qui — dice il Fichte ( Sittenlehre, p. 150, nostra traduz. pp.
145-146) — che un’approssima¬ zione all’infinito è contraddittoria, in
quantoche un infinito a cui po¬ tessimo avvicinarci cesserebbe d’essere
un infinito e diverrebbe in certo qual modo suscettivo di misura.
L’infinito non è una cosa, un oggetto posto come dato e verso il quale si
avanzerebbe come verso un termine fissato in precedenza, ma è igu ideale,
ossia appunto ciò che si oppone alla realtà del dato, ciò che nessun dato
può esaurire ; Infatti, grazie alla sintesi dianzi descritta, l’io
svelle sè stesso da tutto ciò che sembra trovarsi fuori di lui,
entra in possesso di sè e si pone dinanzi a sè come asso¬ lutamente
indipendente, essendo l’io riflettente indipen¬ dente per sè stesso, l’io
riflettuto tutfc’ uno con l’io riflet¬ tente, ed entrambi uniti in una
sola inseparabile persona, alla quale il riflettuto dà la forza reale e
il riflettente la co¬ scienza. La persona così costituita non può più
agire ormai se non secondo e mediante concetti, e poiché tutto ciò
che ha la propria ragion d’ essere in un concetto è un prodotto
della libertà , cosi d’ ora innanzi l’io non agirà più se non
liberamente, anche quando non faccia che assecondare l’im¬ pulso di
natura , perchè anche in tal caso egli non opera meccanicamente ma con
coscienza, e in lui non più il cieco impulso naturale , si bene la
coscienza da lui acqui¬ stata di questo impulso naturale è il primo
fondamento del suo operare, il quale perciò è libero — come poco fa
no¬ tammo — se non nel contenuto, almeno nella forma (‘). Ma
che significa essere libero e agire liberamente? Prima di giungere alla
riflessione l’io è di natura sua e questo ideale clie portiamo in
noi stessi indietreggia dinanzi a noi man mano che ci eleviamo verso di
esso. Noi possiamo bene allargare i nostri limiti, inalzarci sempre più verso
la libertà, ma non pos¬ siamo mai sopprimere totalmente questi limiti,
attuare cioè la li¬ bertà; a qualunque grado di liberazione noi si
giunga, la libertà as¬ soluta rimane sempre un ideale. Insomma, .con
l’idea di un progress o infinito il Fichte risolve la contraddizione tra
la libertà e la natura : la natura deve tendere alla libertà come a un
fine infinito, e se l’infi¬ nito potesse essere attuato, la natura
s’identificherebbe con la li¬ bertà ; la realtà di questo progresso non è
nel conseguimento — im¬ possibile — di un fine fissato a un dato punto,
ma nel valore sempre più alto della nostra azione. (Cfr. Léon, op. cit.
p. 276). (*) Ibid. pp. 133-136 (ibid. pp. 129-132). libero, ma
per un’ intelligenza fuori di lui, non già per sè stesso ; per essere
libero anche agli occhi propri egli deve porsi come tale , e come tale
non si pone se non allorché diventa cosciente del suo passaggio dallo
stato indetermi¬ nato a uno stato determinato. L’ io determinante e
l’io determinato scftio un solo e medesimo io, prodotto dalla sin¬
tesi del inflettente e del riflettuto , dell’ io-soggetto e del- 1’
io-oggetto. Per siffatta sintesi la concezione di un fine di¬ venta
immediatamente azione e l’azione diventa conoscenza della libertà.
Senonchè l’indeterminatezza non è soltanto uon-determinatezza (ossia zei'o),
sì bene un deciso librarsi tra più possibili determinazioni (ossia una
grandezza ne¬ gativa) ; altrimenti essa non potrebbe essere posta e
sa¬ rebbe un nulla. Ora, finché non intervenga la facoltà appeti¬
tiva superiore, non si vede in che modo la libertà possa scegliere tra
più determinazioni possibili; perchè: o si trova in presenza del solo
impulso naturale, e allora non ha nessuna ragione per non seguirlo, anzi
ha ogni ragione per seguirlo; ovvero si trova in presenza di più
impulsi — la quale ipotesi non si comprende nel caso di cui ora si
tratta — e allora seguirà naturalmente il più forte ; nel- l’una e
nell’altra ipotesi, dunque, nessuna possibilità d’in¬ determinatezza.
Siccome però l’essere ragionevole non può esistere senza quella tra le
condizioni della sua ragione¬ volezza che si chiama sentimento morale e
consapevolezza della libertà, bisogna bene ammettere, nell’ impulso
origi¬ nario delirio, un impulso ad acquistare la coscienza e della
moralità e della libertà. Ma tale coscienza, si è visto, ha per
condizione uno stato indeterminato, e non si produce se l’io obbedisce
unicamente all'impulso naturale ; occorre, dunque, che vi sia nell’io un
impulso o tendenza a trarre dal proprio Lxvn
seno, e non già dall’impulso naturale, il contenuto o l’oggetto
dell’azione; occorre, in altri termini, che vi sia una ten¬ denza alla
libertà per sè stessa-, e che alla libertà formale — quella per cui lo
stesso risultato, che la natura avrebbe prodotto se avesse potuto ancora
agire, nasce invece da un nuovo principio, da una nuova forza, ossia
dalla coscienza libera — si aggiunga la libertà materiale — quella
per cui si ha non solo un nuovo principio operante, ma altresì una
serie di effetti tutta nuova anche nel contenuto, onde non solo è
l’intelligenza la forza che opera, ma essa in¬ telligenza opera qualcosa
di ben diverso da ciò che avrebbe operato la natura — (‘). In
virtù della libertà materiale io mi sento emancipato dall’ impulso di
natura, gli oppongo resistenza, e tale resi¬ stenza, considerata come
essenziale all’ io, quindi come im¬ manente, è essa stessa un impulso, l
’impulso pwro*dell’ io. L’impulso naturale si manifesta come iuclinazione
e, per il fatto che io posso dominare la sua forza e sottoporla
alla mia libertà, questa forza diventa qualcosa di cui non fo
stima. L’impulso puro, invece, in quanto mi eleva sopra la natura e mi
pone in grado di contrappormele con la più semplice risoluzione, si
manifesta come tale da ispi¬ rarmi stima e da investirmi di una dignità,
la quale, es¬ sendo al disopra di ogni natura, m’ impone rispetto
verso me stesso; l’impulso puro, anziché al piacere, porta al di¬
sprezzo del piacere ed esige l’affermazione e la conserva¬ zione della
mia assoluta indipendenza e libertà (*). (*) Ibid. pp. 136-139
(ibid. pp. 132-185). (*) Ibid. pp. 139-142 (ibid. pp.
135-138). L’adempimento di questa esigenza e il suo contrario
significano rispettivamente l’accordo e il disaccordo tra l’i- deale
tendenza essenziale dell’ io puro all’assoluta libertà e il reale stato
accidentale dell’io empirico ; suscitano, quindi, il mio interesse —
m’interessa, infatti, ossia tocca diretta- mente il mio sentimento, tutto
ciò che lia immediata rela¬ zione col mio impulso fondamentale (‘) —, si
accompagnano, dunque, a piacere o dolore ; ma — e questo è di
capitale importanza — si tratta qui di stati affettivi che non
hanno nulla a fare con l’affettività comune, perchè consistono in
una contentezza e in un disgusto di sè la cui natura non si confonde mai
con quella del piacere o del dolore dei sensi. Il piacere sensibile che
nasce dall’ accordo tra l’im¬ pulso naturale e la realtà non dipende da
me in quanto sono un io, ossia in quanto sono libero ; esso è tale da
strappare me a me, da rendermi estraneo a me stesso e da farmi
dimenticare in esso ; è, in una parola, involontario , e questa qualità
lo caratterizza nel modo più esatto. Al¬ trettanto vale del suo opposto,
ossia del dolore sensibile. Il piacere morale, al contrario, che nasce
dall’accordo tra l’impulso puro e la realtà, è qualcosa non di estraneo
ma di dipendente dalla mia libertà, qualcosa che potrei aspet¬
tarmi in conformità d’una regola, come non potrei aspet¬ tarmi, invece,
il piacere involontario ; esso, quindi, non mi trasporta fuori di me,
anzi mi fa rientrare in me stesso e, meno tumultuario, ma più intimo del
piacere sensibile, m’in- (‘) Intorno al concetto dell’ interesse
il Fichte fa una specie di digressione ( Sittenlehre, pp. 142-147, nostra
traduz. pp. 138-142) per¬ meglio illuminare la sua trattazione sul
sentimento morale e sulla coscienza morale. fonde, in
quanto soddisfazione e auto-stima, nuovo coraggio' e nuova forza.
Similmente il suo opposto, ossia il dolore morale, appunto perchè dipende
dalla libertà, è un rimpro¬ vero interno, si associa a un sentimento di
auto-disistima e sarebbe insopportabile se il sentirci ancora capaci di
pro¬ varlo non ci risollevasse dinanzi a noi stessi, e non ravvi¬
vasse la coscienza della nostra natura superiore e della no¬ stra
assoluta libertà, insomma la coscienza morale fdas Oetoissen), vale a
dire : la consapevolezza immediata dell’a¬ dempimento del dovere,
dell’accordo cioè tra l’azione (nel mondo della natura) e il fine ideale
(la libertà) (‘). ' Ora, la coscienza morale si connette
strettamente con l’impulso morale, il quale è di natura mista, perchè
parte¬ cipa a un tempo dell’impulso puro e dell’impulso naturale.
Come ? Ogni volizione reale tende all’azione e ogni azione si
porta sopra un oggetto : ogni volizione reale, quindi, è em¬ pirica. E
poiché non posso agire sugli oggetti se non me¬ diante una forza fisica,
la quale non proviene che dal- I’ impulso naturale, cosi ogni fine
concepito dall’intelligenza finisce per coincidere con 1^ soddisfazione
di un impulso naturale. Certo, chi vuole è l'io -intelligenza non già la
na- /M/'fl-iucoscieuza ; ma, quanto al contenuto, il mio volere non
può avere materia diversa da quella che la natura vorrebbe anch’essa, se
di volere fosse capace : non c’ è li¬ bertà circa la materia delle
azioni. E allora quale causalità rimane all’impulso puro, che pur non può
esserne destituito? Affinchè rimanga una causalità all’ impulso puro,
bisogna che la materia dell’azione sia conforme a esso non meno
* (') Siltenlekre, p. 146 (nostra trai! uz. p. 142).
che all’ impulso naturale. Tale duplice conformità si com¬ prende
soltanto così : 1’ impulso puro nell'operare tende alla piena
emancipazione dalla natura ; ma i limiti che l’attività dell' io impone a
sè stessa costringono l’operare entro i con¬ fini dell’ impulso naturale
; onde l’azione conforme a questo secondo impulso diventa conforme anche
al primo quando al pari di esso tenda alla piena emancipazione dalla
natura, si trovi cioè in una serie di sforzi, continuando la quale
all’infinito, l’io si approssima sempre più all’indipendenza assoluta.
Deve esservi una serie di tal genere, che muova dal punto in cui la
persona si trova posta per la propria natura e si prolunghi all’ infinito
verso il .fine supremo e ideale — si badi bene a questo appellativo che
esclude ogni possibilità, di attuazione completa — di ogni
attività, altrimenti uon sarebbe possibile una causalità dell’
impulso puro : questa serie si può chiamare la destinazione morale
dell’ essere ragionevole finito, e seguendola possiamo sapere in ogni
momento quale è il nostro dovere. Il principio della morale può, dunque,
formularsi cosi : Adempì in ogni mo¬ mento la tua destinazione. Quel che
in ogni momento è con¬ forme alla nostra destinazione morale, ossia al
fine a cui si dirige l’impulso puro, è in pari tempo conforme
all’impulso naturale, ma uon tutto quel che è conforme all’impulso
natu¬ rale è conforme alla nostra destinazione morale. Appunto
perciò l’impulso morale è misto: esso riceve dall’impulso na¬ turale la
materia dell’operare, dall’impulso pui'O la forma; per esso io debbo
agire con la coscienza di adempiere un do¬ vere ; gl’ impulsi ciechi
della natura, come la simpatia, la compassione, la benevolenza spontanea,
in quanto tali non hanno nulla di morale, perchè contraddice alla
moralità il lasciarsi spingere ciecamente. L’impulso morale
differisce — 1.XX1 profondamente dal cieco impulso
naturale, e molto ai av¬ vicina all’ impulso puro, perchè la sua
causalità è ambigua (può avere effetto e può anche non averne), perchè
esso co¬ manda: sii libero (cioè: sii in grado di fare e di
a'stenerti dal fare). E in questo comando appare per la prima volta
un imperativo categorico, un imperativo che è un prodotto nostro proprio
(nostro in quanto siamo intelligenze capaci di agire per concetti), e il
cui oggetto è il fine non subor¬ dinato a nessun altro fine. L’impulso
morale, infatti, non ha per fine nessun godimento ; esso esige u la
libertà per la libertà „. È poi evidente in questa formula
imperativa il duplice significato della parola “ libertà „, la quale sta
a designare nel primo posto un operare in quanto tale, ossia un pu¬
ramente soggettivo, e nel secondo posto uno stato oggettivo che
dev’essere conseguito, ossia 1’ ultimo fine assoluto , la piena nostra
indipendenza da tutto ciò che è fuori di noi. In altri termini : io debbo
agire con libertà per divenire libero; e soltanto determinandomi da me
stesso e non se¬ guendo altro che le ispirazioni del sentimento del
dovere agisco con libertà e divengo veramente indipendente dalla
natura, veramente libero. A questa distinzione tra la li¬ bertà come
attività e la libertà come risultalo , che è di così grande importanza
nel nostro sistema, se ne aggiunge un’ altra entro il concetto stesso di
libertà intesa come at¬ tività : la distinzione, cioè, tra la forma e la
materia del- 1’ attività libera ; distinzione da cui nasce la divisione
della dottrina morale e con cui si passa all’ applicazione siste¬
matica del principio della moralità ; di che si tratta nel terzo libro
('). (*) Ibid. pp. 142-156 (ibid. pp. 188-152). Quest’ultimo
libro si divide in tre parti: A) la prima discorre delle condizioni
formali della moralità delle nostre azioni : B) la seconda del contenuto
materiate della legge morale; C) la terza, infine, espone la
dottrina dei doveri propriamente delta. A) Condizioni formali
della moralità delle nostre azioni. — Il principio formale di ogni
moralità può enun¬ ciarsi così : “ opera sempre secondo la convinzione
che hai intorno al tuo dovere „. Questo imperativo o legge — che
presuppone naturalmente e logicamente una libera volontà (') — si scinde
in due precetti, di cui 1’ uno con¬ cerne la forma o la condizione : u
procurati la convinzione di ciò che è tuo dovere „ , 1’ altro la materia
o il condi¬ zionato : “ fai ciò che ritieni con convinzione tuo
dovere 9 failo soltanto perchè lo ritieni tale Ora, la convinzione
nasce dall’ accordo di un atto della facoltà giudicatrice con t’ impulso
morale, e il criterio della giustezza della nostra convinzione è un
sentimento intimo al di là del quale non si può risalire, perchè con esso
si raggiunge 1’ espressione diretta della nostra essenza assoluta e della
nostra finalità. Per conseguenza, la coscienza morale, che in quel
senti¬ mento ha radice, va immune per natura sua da dubbio e da
errore, non può ingannarsi, nè è suscettiva di rettifiche da parte di un’
inconcepibile coscienti più interiore, è essa stessa giudice di ogni
convinzione e le sue sentenze non ammettono appello. Voler oltrepassare
la propria coscienza morale per timore che possa essere erronea, sarebbe
come voler uscire fuori di sè, voler separarsi da sè stesso. È condizione
formale della moralità , quindi, non decidersi (*) Della volontà iu
particolare e della sua natura cosi opposta al juro meccanismo, il
Pielite tratta nel § 14 della Sitlenlehre (nostra traduz. pp.
155-160). all’azione se non per soddisfare alla propria coscienza
mo¬ rale, all’impulso originario dell’io puro, senza sottostare ad
altra autorità che non sia quella della propria convin- zione, del
proprio giudizio. Chi, dunque, agisce senza con¬ sultare la sua
coscienza, senza essersi prima assicurato j delle decisioni di questa,
agisce, come suol dirsi, senza co¬ scienza, e perciò immoralmente,
è colpevole e non può im¬ putare la sua colpa ad altri che a sè stesso
(*). Similmente opera senza coscienza, e perciò senza moralità, chi si
lascia guidare dall’autorità altrui, perchè la convinzione della
co¬ scienza morale e la certezza della sua giustezza non na¬ scono
mai da giudizi estranei, ma traggono origine esclu¬ sivamente dal soggetto
: sarebbe una flagrante contraddi¬ zione far-e di qualche cosa che non
sono io stesso un sen- • timento di me stesso. In conclusione: in tutta
la nostra condotta (si tratti della ricerca scientifica, ovvero
della vita pratica) 1’ azione , per essere morale, deve uscire da
un’ intima convinzione, perchè soltanto allora essa esprime veramente la
nostra autonomia spirituale ; ogni azione fatta per autorità (si tratti
dell’ accettazione di una verità che non risponde in noi a una
convinzione, ovvero del compi¬ mento di un’ azione che accettiamo come un
ordine) va direttamente contro il verdetto della coscienza, è male,
è I colpa (*). (') Giova ricordare che per il Fichte non vi
sono azioni indiffe¬ renti; tutte debbono essere riferite alla legge
morale, uon foss’altro per assicurarsi che sono lecite; onde anche le
azioni più indifferenti iu apparenza, vanno sottoposte a matura
riflessione, sempre iu vista della legge morale. ,(*)
Siltenlehre, pp. 1 B8-175 (nostra tradnz. pp. KìO-172). — Risulta qui
ancora una volta definitivamente stabilito il primato della ragione
pratica sulla ragione teorica; di quella ragione pratica che agli occhi E
facile argomentare da ciò quale sia la causa del male o della colpa
nell’essere ragionevole finito. Quel che in generale costituisce l’essere
ragionevole trovasi neces¬ sariamente ih ciascun individuo ragionevole,
altrimenti questi non sarebbe più tale. Ora, secondo la legge
morale, P io individuale, finito, empirico, che vive nel tempo,
deve tendere a divenire un’esatta copia dell’Io primitivo, ori¬
ginario, infinito, extra-temporale; ma, sottoposto com’è alla condizione
del t^mpo, non può acquistare la chiara co¬ scienza di tutto ciò che
primitivamente e originariamente fa l’essenza dell’Io, se non mediante un
lavoro successivo e una progressione nel tempo. Finché questo lavoro più
o meno faticoso e questa progressione più o meno lenta non abbiano
compiuto nell’ io empirico individuale il passaggio dallo stato d’
irriflessione al massimo sviluppo della co¬ scienza morale, c’ è sempre
luogo nella nostra condotta al- l’immoralità, alla colpa, al male.
Conviene, dunque, seguire questa storia dello sviluppo della coscienza
emjnrica, per vedere attraverso quali fasi germogli e maturi il seme
della moralità, notando a tal proposito ohe tutto sembrerà suc¬
cedere come casualmente, perchè tutto dipende dalla libertà, e in nessun
modo da una meccanica legge di natura ('). Anzitutto, e al suo
grado pivi dàsso, l’io empirico si riduce a un’attività istintiva ;
l’istinto, senza dubbio, si ac¬ compagna con la coscienza, dista però
ancor molto dalla del Fichte è veramente la ragione, e nella quale
si attua l’accordo dell’essere e dell’agire, dell’oggetto e del soggetto,
della produzione e della riflessione, e che ci fornisce l’intuizione, la
coscienza immediata dell’ Io assoluto. E risulta anche come la morale del
Fichte fluisca per essere in sostanza una morale del sentimento.
(<) Jhid. pp. 177-178 (ibid. pp. 171-175). riflessione;
l’uomo allora segue meramente e semplicemente M’ impulso naturale e, così
facendo, è libero per un’ intelli¬ genza fuori di lui, ma per sè stesso è
puro animale. I Tuttavia l’uomo può riflettere su questo stato; e
tale riflessione è per natura sua un atto di libertà : essa non è
nè fisicamente nè logicamente necessaria, ma soltanto mo¬ ralmente
obbligatoria: chi vuole adempiere la propria de¬ stinazione e acquistare
in sè la coscienza dell’ Io puro, deve riflettere su questo suo stato, e
mercè tale riflessione si eleva, quasi, sopra sè stesso, si stacca dalla
natura, se ne distingue e le si oppone come intelligenza libera ;
ac¬ quista cosi il potere di differire ‘la propria autodetermi¬
nazione e di scegliere quindi tra più modi — la pluralità dei modi nasce
appunto dalla riflessione e dal differimento della risoluzione — di
soddisfare l’impulso naturale. Tale scelta si compie secondo una massima
liberamente adottata dall’ io individuale, e perciò profondamente diversa
dal prin¬ cipio supremo che scaturisce dalla legge morale e che non
è, come la massima, un libero prodotto della coscienza em¬ pirica ; per
conseguenza, nel caso di una massima cattiva, la colpa spetta tutta all’
io individuale. Ora, in questa se¬ conda fase di sviluppo, dovuta al
primo grado della rifles¬ sione, l’io acquista coscienza del fine a cui
tende 1’ im¬ pulso naturale, lo fa suo e adotta come regola di
.condotta la massima della felicità. L’uomo rimane dunque ancora un
animale, ma diventa un animale intelligente, prudente: è già formalmente
libero; soltanto mette la sua libertà al servigio dell’ impulso naturale.
La massima della felicità, per quanto sia un prodotto della sua libertà,
non può es¬ sere diversa da quella che è, e, una volta posta, egli le
ob¬ bedisce necessariamente. Senonchè la massima stessa, e con essa
il carattere ohe ne risulta, non ha nulla di neces-, sario e non è detto
che l’io individuale debba arrestarvi»]/ se vi si arresta è soltanto sua
colpa; nulla lo costringe L progredire, è vero, ma egli deve e può
progredire, facenti uso della propria libertà ed elevandosi liberamente a
qn piu alto grado di riflessione. Il male morale non deriva ile non
dal fatto che l’uomo il più delle volte non esercita la propria libertà,
onde a ragione il Kant riteneva il male radicale innato nell’uomo e
nondimeno prodotto dalla sua libertà. Quando però — con nuovo
miracolo della sua sponta¬ neità — 1’ uomo, nella fase ora descritta,
esercita la pro¬ pria libertà, una seoonda riflessione si compie, che, al
pari della precedente, ha carattere non di necessità fisica o lo¬
gica, ma di obbligatorietà morale, e in virtù di essa nasce una terza
fase, nella quale l’io individuale prende coscienza della sua opposizione
rispetto alla natura e della sponta¬ neità del proprio operare, ed erige
questa spontaneità stessa, ossia la propria volontà, a nuova massima di
con¬ dotta. Non piu la ricerca della felicità guida ora le sue
azioni, ma il godimento di un’ indipendenza dal nou-io la quale non
ammette freno al proprio capriccio e fa di sè stessa il proprio idolo. Si
ha, quindi, un progresso verso la libertà assoluta, ma non ancora la vera
libertà morale, non ancora la volontà riflessa sottoposta alla legge del
do¬ vere. Anzi, mentre la massima della felicità è, si, man¬ canza
di legge, ma non addirittura rovesciamento della l e gg®> n ® ostilità
contro questa, lt^ massima della volontà egoistica e arbitraria, invece,
può portare sino alla trasgres¬ sione intenzionale della legge. Il
carattere della condotta ispirata a tale massima è soltanto la
soddisfazione dell’amor proprio, dell’ orgoglio, del bisogno di dominare,
ottenuta a qualsiasi costo, anche di dolori corporei ; e appunto
questa idolatria della volontà egoistica spiega pressoché tutta la
storia umana : essa riempie grandissima parte del teatro del inondo con
le sue lotte e le sue guerre, con, le sue vittorie e le sue sconfitte. u
II soggiogamento dei corpi e delle anime dei popoli, le guerre di
conquista e di reli¬ gione, e tutti i misfatti cou cui l’umanità si è
disono¬ rata non si spiegano altrimenti. Che cosa indusse l'inva¬
sore, l - oppressore a perseguire il proprio fine con pericolo e fatica ?
Sperava egli forse che per tal modo si ac¬ crescerebbero le fonti dei
suoi godimenti sensitivi? No davvero. 1 Ciò ohe io voglio deve accadere,
a quel che io dico si deve stare ’ : ecco 1’ unico principio che lo
mo¬ veva „ (‘). Un siffatto culto della volontà egoistica certa¬
mente non è senza una certa aureola di grandezza, poiché giunge anche al
disinteresse: non al disinteresse che deriva dall' obbedienza al dovere e
che solo ha significato morale, ma a un disinteresse di carattere
impulsivo, derivante dal desiderio di suscitare ammirazione, di
cattivarsi stima, e che rimane tuttora una forma di amor proprio e di
orgoglio. E un culto che porta sino al sacrifizio della vita — e ci
vuole del coraggio a vincere in noi la natura — , ma questo sacrifizio è
senza valore etico, perché è fatto soltanto al proprio io individuale, è
puro egoismo. «Certo, rispetto alla fase precedente, la quale non mirava
che alla felicità sensibile, la fase ora descritta segna un progresso e
sta come a rappresentare 1’ età eroica dello sviluppo morale ; ma
dal punto di vista della moralità nulla di più perico¬ li Ibid. p.
190 (ibid. p. 186). luso che arrestarvisi, perchè essa ci abitua a
considerare come nobili e meritori, come rari e ammirevoli, come
opera mpererogativa, atti che sono semplicemente dove¬ rosi, e a
considerare d’ altra parto tutto ciò che a vantaggio nostro si fa da Dio,
dalla natura, dagli altri uomini, come nulla più che doveri verso di noi.
Con siffatte pretensioni la massima della volontà egoistica e senza,
freno, adottata in questa fase, è peggiore di ogni altra, perchè finisce
ad¬ dirittura col corrompere le stesse radici della moralità : “
>1 pubblicano peccatore non vale più del fariseo sedicente giusto, in
quanto che nessuno dei due ha il menomo va¬ lore ; ma il secondo è assai
più difficile a convertire del primo „ (*). Per elevarsi al
disopra di questa terza fase basta che l’uomo — con un terzo atto di
riflessione, al pari dei precedenti spontaneo ma inesplicabile, non
necessario ma obbligatorio — acquisti coscienza chiara di quell’
originario impulso all’ indipendenza assoluta che, considerato
(analo¬ gamente a un eminente grado di capacità intellettuale) come
un dono gratuito della natura, può chiamarsi genio della virtù, ma che,
allo ^tato d’impulso cieco, pi'oduce un carattere assai immorale. Mercè
la riflessione, quell’ im¬ pulso si trasforma in una legge assolutamente
imperativa, e poiché ogni riflessione limita e determina ciò che è
ri¬ flettuto, anche quell’impulso sarà limitato dalla riflessione,
e da cieco impulso verso una causalità sconfinata diventerà una legge di
causalità condizionata ; riflettendo, l’uomo sa di dovere assolutamente
qualche cosa ; e affinchè questo sapere si tramuti in azione, bisogna che
egli adotti la mas- (*) Ibid. p. 191 (ibid. p. 187). sima :
adempì il Ino dovere perchè è tuo dovere. Sorge così la coscienza morale,
la quale impone appunto alla volontà arbitraria, alla volontà senza
regola uè freno della fase pre¬ cedente, l’obbedienza al principio
assoluto della ragione. Una volta conseguita questa chiara
coscienza del do¬ vere, la nostra condotta vi si conforma
necessariamente, essendo inconcepibile che noi ci decidiamo di proposito
e con piena chiarezza a ribellarci alla nostra legge, a mancare al
nostro dovere, appunto perchè è la nostra legge, ap¬ punto perchè è il
nostro dovere : vi sarebbe in ciò, oltre che una contraddizione evidente,
una condotta veramente diabolica, se lo stesso concetto u diavolo „ non
fosse contrad¬ dittorio (*). Soltanto può accadere che la
chiara coscienza del do¬ vere si annebbii, si oscuri, che la riflessione
non si mantenga sempre alle altezze della moralità, e la nostra
condotta, perciò, cessi di essere conforme alla legge morale. Il
do¬ vere primo, quindi, e anche il più alto, è mantenere la coscienza
del dovere in tutta l’intensità della sua luce e «Iella sua forza.
Bisogna vegliare continuamente su noi stessi, alimentare senza tregua il
fuoco sacro della rifles¬ sione; possiamo fare di questa riflessione
un’abitudine, •senza perciò renderla una necessità, senza pregiudizio
cioè della libertà, allo stesso modo diesi può fare un’abitudine
dell’irriflessione, con cui la coscienza empirica comincia, e persistere
in essa, senza renderla perciò una necessità e senza escludere quindi 1’
esercizio della libertà. Nella sua Ascetih «fa Animili/ zur Murai ( Ascetica
conir ap~ pendice alta Morale) i 1708) — contenuta in Nuahgelarsene Werke
, voi. Ili, pp. 119-144 e tradotta in inglese dal Kroeger nel
voi. Se la coscienza morale svanisce del tutto, si da non lasciar
sopravvivere più nessun sentimento del dovere, noi The sciunce of
Elltics bij Fichte (1907) dianzi ricordato — il Pielite si adopera a
fornire il mozzo pratico per mantener viva o luminosa, una volta nata per
opera della libertà, la coscienza del dovere, 'l'ale mezzo consiste
ned’associazione delle idee, intermediaria tra la ne¬ cessità della
natura e la libertà della ragione, e precisamente nel- l’associare in
precedenza la rappresentazione dell'atto futuro con la rappresentazione
dell’atto conforme al dovere. Occorre, in altri ter¬ mini, che i due
propositi : 1) voglio fare quest’ azione, 2) non voglio agire se non
conforme al dovere, siano indissolubilmente uniti in ima sintesi, e la
funzione propria dell’ Ascetica consiste appunto in questa associazione
permanente e anticipata del concetto del do¬ vere non solo col concetto
della nostra condotta in generale il che sarebbe ancora troppo vago e
astratto — ma con i concetti di azioni determinate, soprattutto di quelle
abituali, quotidiane, in cui più fa¬ cilmente possiamo peccare per
omissione o violazione del dovere; mentre invece per le azioni
eccezionali e straordinarie difficilmente manca I intervento della
riflessione e la conseguente chiarezza della coscienza. Di qui due
regole: 1) un esame di coscienza generale dei casi in cui siamo più
esposti al pericolo di cadere in colpa; 2) la risoluzione ferma e sempre
attiva di ridettero, in questi casi, sopra noi stessi e di sorvegliarci,
opponendo alla forza cieoa e alla resi¬ stenza passiva di certi stati di
coscienza, divenuti abitudini quasi invincibili, la causalità iutelligAte
della coscienza morale: è noto ohe spesso basta ridettero sulla propria
passione e rendersi consape¬ voli delle associazioni che la costituiscono
per liberarsene, dissociando mentalmente i fattori da cui nasce e
controbilanciando il piacere che ci aspettiamo dal suo soddisfacimento
col disprezzo che accom¬ pagna la trasgressione del dovere. Ma, affinchè
l’esame della propria coscienza abbia valore etico, bisogna che non si riduca
a una pura aulocontemplazione, a un’ analisi fatta quasi per semplice
giuoco estetico; bisogna, invece, che si proponga la nostra riforma
morale, il miglioramento della nostra attività. Tale esortazione, del
resto, si rivolge non già agli uomini privi di coltura, la cui vita é
tutta ri¬ volta all’azione, ond’essi non ridettono se non per agire, ma
agli artisti, ai letterati, e persino ai lilosotì e ai sacerdoti, per i
quali è frequente il grave pericolo di dimenticare il valore pratico
delle coso, di arrestarsi alla contemplazione e di nou tradurre la
speculazione in azione. ricadiamo in uno degli stati che precedono
la moralità e operiamo secondo la massima o della felicità o del
dominio arbitrario della nostra volontà egoistica. Se, invece, ci
ri¬ mane ancora un sentimento vago e intermittente del dóvere.
possono verificarsi le seguenti tre specie d’indeterminatezza
corrispondenti alle tre condizioni che rendono determinato il dovere.
L’indeterminatezza può concernere: a) la materia del dovere, cioè
l’applicazione della legge morale a un dato caso : in ciascun singolo
caso tra più azioni possibili non ce n è che una conforme al dovere ; ma,
per insufficiente attenzione e riflessione, noi cediamo segretamente, e
quasi a nostra insaputa, a qualche altra sollecitazione e perdiamo
il filo conduttore della coscienza ; b) il momento del do¬ vere : in
ciascun singolo caso si deve adempiere subito ciò che è dovere; ma, per
l’affievolirsi della coscienza, ci illudiamo che non occorra affrettarsi
a ciò, procrastiniamo il nostro perfezionamento e ci abituiamo a
procrastinarlo all’ infinito ; c) la forma del dovere : l’imperativo
mo¬ rale è categorico, esige obbedienza assoluta e incondi¬ zionata
; ma, se perdiamo di vista tale sua caratteristica, consideriamo il
dovere, anziché come un comando, come un semplice consiglio che si può
seguire quando piaccia e non costi troppa abnegazione, e con cui si può
anche transigere; di qui quei compromessi, quegli accomodamenti con
la propria coscienza che sono altrettanti modi di elu¬ dere la legge
morale, altrettante cause di torpore per la riflessione, e che pongono
nel massimo pericolo la nostra salvezza spirituale, quando per caso non
sopravvenga dall’esterno una forte scossa, la quale ci sia occasione a
rientrare in noi, a ravvederci. Quest’ultima maniera d’in¬ tendere il
dovere, infatti, accusa la morale di rigorismo impraticabile, sotto lo
specioso pretesto che l’ adempimento del dovere impone troppi sacrifizi,
quasi che non fosse ap¬ punto in ciò 1’ obbligo nostro: nel sacrificar
tutto al dovere, la vita, l’onore e ogni cosa all’uomo più caramente
di¬ letta (*). Quale che sia il modo di oscurarsi della
coscienza, si può dire in generale che la causa di questo suo
oscurarsi e del conseguente smarrirsi della moralità, la causa iu-
somma del male, va ricercata in una sconfitta della libertà. Se la
riflessione che ci eleva alla libertà consiste in una creazione da parte
della libertà e quasi in un colpo di grazia che ci strappa
all’oppressione della natura, il man- tenimento della chiara coscienza
del dovere non può es¬ sere che un perpetuo riprodursi di questo atto
creativo, una creazione continuata, uno sforzo incessante della ri¬
flessione, dell’ attenzione ; e appunto perciò al menomo affie¬ volirsi
della nostra vigilanza consegue la nosti-a caduta e il trionfo delle
forze antagonistiche della natura, le quali sono sempre e necessariamente
in azione : tosto che cessa lo sforzo morale, l’impulso^ naturale inevitabilmente
ha il sopravvento e, con la luce della coscienza, si spegue anche
la virtù. Ogni uomo, dallo stato di natura, con cui s’inizia la sua vita
in una specie d’innocenza — perchè sono ancora ignorati gli stati
superiori in cui l’innocenza primitiva assume aspetto di colpa —,
perviene necessariamente alla coscienza di sé stesso : a ciò gli basta
riflettere sulla li¬ bertà che ha di scegliere tra più azioni possibili
per sod¬ disfare 1’ impulso naturale; siamo allora in quella fase
in cui egli opera secondo la massima dell’ interesse o della
(') Siuenlehre, pp. 192-197 (nostra traduz. pp. 186-193). felicità. In
questo grado di sviluppo rimano volentieri, trat- ' tenutovi dalla forza
d 'inerzia che l’uomo, in quanto essere sensibile, ha in comune con tutta
la natura fisica. È vero che, in virtù della sua natura superiore, egli
deve 'strap¬ parsi a questo stato, e può farlo perchè dotato di libertà
; ma proprio la sua libertà è impedita in questo stato, essendo
essa alleata con quella forza d'inerzia, da cui dovrebbe in¬ vece
svincolarsi ; come farà egli a elevarsi alla libertà, quando per questa
elevazione stessa deve far uso della libertà ? donde attingerà la forza
che faccia da contrap¬ peso nella bilancia per vincere la forza d’inerzia
? Cer¬ tamente non nella sua natura empirica, la quale in nessun
modo fornisce alcunché di simile ; gli occorre, dunque, un aiuto
superiore ; 1’ uomo naturale qui non può nulla da sé: vedremo presto da
qual miracolo sarà salvato. Intanto sappiamo che F inerzia , la
pigrizia — la quale a forza di riprodursi indefinitamente diviene
impotenza morale — è il vizio radicale, il male innato, il peccato
originale: l'uomo è per natura pigro, dice assai giusta¬ mente il Kant. —
Da pigrizia nasce immediatamente viltà, il secondo vizio fondamentale
dell’ uomo ; la viltà è la pigrizia d’affermare la propria libertà e
indipendenza nello scambio ili azione con gli altri : donde tutte le
specie di schiavitù fisica e morale tra gli uomini. In genere si ha
abbastanza coraggio dinanzi a coloro di cui si conosce la debolezza
relativa, ma si è disposti a cedere, a umiliarsi, dinanzi a una supposta
e temuta superiorità qualsiasi ; si preferisce la sottomissione piuttosto
che lo sforzo neces¬ sario a resistere; precisamente come quel marinaio
che pre¬ feriva le eventuali pene dell’ inferno al lavoro faticoso
di correggersi in questa vita. — Il vile si consola di
questa sottomissione forzata con 1’ astuzia e con la frode ; da
viltà nasce inevitabilmente il terzo vizio fondamentale : falsità.
È questa il risultato di uno sforzo indiretto che si compie per
ricuperare l’indipendenza perduta, quell’indipendenza che nessun nomo può
sacrificare ad altri cosi interamente come il pigro finge di fare per
essere dispensato dalla fatica di difenderla in aperta battaglia.
Falsità, menzogna, ma¬ lizia, insidia derivauo dall’esistenza di un
oppressore, e ogni oppressore deve aspettarsi tali frutti. Soltanto il
vile è falso; il coraggioso non mente e non è falso: per orgo¬
glio, se non per virtù. Ma come pud aiutarsi l’uomo, quando in lui
è radi¬ cata la pigrizia, la quale paralizza appunto l’unica forza
con cui' egli deve aiutarsi ? che cosa gli mauca propria¬ mente? — Non
già t la forza, che egli ben possiede, ma la coscienza della forza e
l’Impulso a farne uso. — E donde gli verrà questo impulso? — Non da altra
foute che dalla riflessione: è necessario che 1’ io empirico, avendo in
sè l’im¬ magine dell’Io assoluto, e vedendosi in tutta la propria
bruttezza, senta orrore di sè ; soltanto per questa via potrà formarsi la
coscienza di quel che deve essere, soltanto di là verrà l’impulso. In
genere gl’ individui che formano la grande maggioranza degli uomini hanno
bisogno di ap¬ prendere la propria libertà da altri individui liberi,
che essi contemplano come modelli ; ma vi souo nella moltitu¬ dine
spiriti eletti a cui fu dato di essere gl’ iniziatori della moralità e
quasi i primi maestri dell' umanità, per es. i fondatori di religione. Si
comprende come costoro, non avendo attinto dall’ esempio altrui la
consapevolezza della propria indipendenza, e non trovando nella propria
natura empirica il principio dell’ emancipazione da questa
natura empirica, si credano ispirati dall' alto da una grazia so¬
prannaturale, da uno spirito divino, mentre invece non han fatto che
obbedire alla propria natura superiore, all’Io as¬ soluto, di cui l’io
finito e individuale deve divenire la copia fedele ( J ). B)
Contenuto materiale della legge morale, ovvero veduta sistematica dei
nostri doveri. — Una volta eman¬ cipato dalla schiavitù della natura e
divenuto cosciente della propria libertà formale, 1’ uomo deve far uso di
questa per compiere l’infinita serie di azioni diretta verso 1’ as¬
soluta libertà materiale. Quale la materia di queste azioni? In qual modo
1’ io individuale si eleverà gradatamente sino a quell’ indipendenza
assoluta, a quello stato oggettivo di libertà, che è il fine ultimo della
sua libera attività sog¬ gettiva? — L’accennammo già: l’attuazione dello
stato di libertà non si ottiene se non determinando il mondo in
funzione della libertà stessa, operando cioè come chi considera e tratta
le cose dal punto di vista non della loro esistenza data, ma della loro
finalità, non del loro es¬ sere, ma del loro dover-essere, e le modifica
perciò e le adatta progressivamente nella direzione di questa
finalità, di questo dovere. Tale determinazione del mondo secondo
1’ idea della libertà, determinazione posta come obbligatoria e come
praticamente necessaria, costituisce il sistema dei nostri doveri, la
materia della moralità. In altri termini, la morale propriamente detta
non è che l’insieme delle con¬ dizioni a cui il mondo va sottoposto e a
cui deve prestarsi per essere strumento all’ attuazione della libertà.
Queste condizioni possono ridursi a tre, perchè triplice è il punto
di vista da cui può considerarsi il mondo. Il mondo si può considerare :
a) in sè, come pura e semplice materia, come natura corporea ; b) nel suo
rapporto col pensiero, come materia di conoscenza ; c ) nel suo
rapporto col volere, come oggetto indispensabile all’ esercizio dell’
at¬ tività, come il luogo d’incontro delle molteplici sfere di li¬
bertà individuale, come il teatro della società. E per la morale si
tratta appunto di mostrare a) nella nostra na¬ tura corporea, b) nella
nostra intelligenza, c) nella nostra vita sociale, gli strumenti per
l’attuazione della libertà, la quale non può divenire reale se non
operando sul mondo oggettivo, per mezzo del corpo, dell’intelligenza e
della società. Come, dunque, dobbiamo trattare, in vista del fine
ideale da raggiungere, a) il corpo, b) l’intelligenza, c) la società ? '
« a) Il nostro corpo, essendo da una parte prodotto di
natura, dall’ altra strumento della causalità del concetto, funziona da
intermediario tra la necessità e la libertà. La volizione si esercita
immediatamente su di esso, e per esso modifica mediatamente il mondo
esterno secondo i nostri concetti. Di qui risulta chiaro un triplice
dovere rispetto al corpo : 1) un dovere negativo : non far mai del
proprio corpo il fine ultimo delle proprie azioni ; 2) un dovere
po¬ sitivo : conservare e coltivare il proprio corpo nell’interesse
della libertà ; 3) un dovere limitativo : evitare come illecito ogni
piacere corporeo che non si riferisca al fine ultimo della nostra
attività. u Mangiate e bevete in onore di Dio: se questa morale vi sembra
troppo austera, tanto peggio per voi ; non ce n’ è un’ altra „
L’intelligenza è la forma indispensabile attraverso cui può attuarsi la
libertà, poiché soltanto la riflessione dà alla libertà la sua legge;
fuori dell’intelligenza ci sarà 1’ istinto cieco, non già la coscienza
morale ; l’intelligenza è il veicolo stesso della moralità. Diciamo di
più-: per la legge morale , mentre il corpo è condizione materiale
pu¬ ramente esterna e soltanto della sua causalità, l’intel¬
ligenza è condizione materiale veramente interna e di tutta quanta la sua
essenza. Di qui un triplice dovere anche verso l’intelligenza : 1) un
dovere negativo : non subordinare mai materialiter — ossia nelle sue
ricerche e cognizioni — l’intelligenza a nessuna autorità,
foss’anche quella della legge morale ; la ricerca da parte della
ragione teorica dev’ essere assolutamente libera e disinteressata ,
non deve preoccuparsi di altro che non sia l’acquisto della conoscenza ;
2) un dovere positivo : formare l’intel¬ ligenza il più possibile ; il
più possibile imparare, pensare, indagare ; 8) un dovere limitativo : subordinare
formaliier l’intelligenza alla moralità, la quale rimane sempre il
fine supremo ; riferire al dovere tutte le nostre investigazioni ;
coltivare la scienza non per curiosità ma per dovere, es¬ sendo essa
strumento di moralità ('). c) La società, infine, può dirsi addirittura
l’espres¬ sione vivente della libertà , in quanto questa non si
con¬ cepisce come qualcosa d’individuale, ma soltanto come una
recijjrocanza di rapporti tra più individui corporei, intelligenti e
volenti. L’ideale della libertà, quindi, si attua non nel singolo uomo ,
ma nella comunità di tutti gli uomini, in seno alla quale V individuo
diviene persona. e senza la quale per l’ individuo nessun
perfezionamento, anzi nemmeno l’esistenza stessa, sarebbe possibile,
essendo individuo e società termini correlativi, coudizionantisi a
vicenda. Se così è, se 1’ io empirico non può porsi altri¬ menti che come
individuo, e se come tale non può pre¬ scindere dai suoi rapporti con la
società , che vai quanto dire dalla esistenza di altri individui e dalla
loro libertà, è evidente che egli non può voler sopprimere questa
esi¬ stenza e questa libertà, da cui sono determinate l’esistenza e
la libertà sua propina. La mia tendenza all’indipendenza assoluta, fine
supremo della mia attività, è dunque subor¬ dinata alla libertà .degli
altri. Le libere azioni degli altri sono gli originari punti di confine
della mia individualità, e a esse io reagisco f non meno liberamente,
autodetermi- nandomi a quella serie di azioni che prescelgo e da
cui uscirà costituita la mia personalità, non essendo io se non
quel che mi fo • con le mie azioni, e non consistendo il mio essere in
altro che nel mio operare. Soltanto che mentre il mio operare, rispetto a
quegli originari punti di confine della mia individualità, ossia rispetto
ai liberi in¬ flussi degli altri , mi appare 1’ effetto della mia
assoluta autodeterminazioue, della mia libera causalità, quei punti
di confine , quei liberi influssi^ degli altri , invece , mi ap¬ paiono
come predeterminati p priori ; alla stessa guisa che dal punto di vista
altrui s’invertono le parti , e agli altri appare liberamente
autodeterminato il loro agire su di me e predeterminato a priori il mio
reagire su di loro. Il che dà luogo , è vero , a un’ antinomia tra predetermi¬
nazione e autodeterminazione, ma a un’ antinomia che si risolve
facilmente cosi : tutte le azioni libere (le mie come le altrui) sono
predeterminate ab aeterno (ossia fuori del tempo) dalla ragione universale
; ma il momento in cui ciascuna deve accadere e gli attori di essa non
sono pre- ^ determinati : ecco, quindi, predestinazione e libertà
perfet¬ tamente conciliate (*). Ciò premesso - è evidente il-dovere
fondamentale verso la società : non impedire , con 1’ eser¬ cizio della
propria libertà, la libertà degli altri, hou trat¬ tare gli altri uomini
come cose, come semplici strumenti della propria libertà. Ma anche nell’
interno di questo do¬ vere sembra annidarsi un’ antinomia : da una parte
devo tendere all’ indipendenza assoluta , all’ emancipazione da
ogni limitazione, dall’altra devo rispettare la libertà altrui, la quale
è una vera limitazione alla mia libertà ; da una parte devo agire sul
moudo sensibile si da farne, come il mio corpo, il mezzo per giungere al
line supremo , all’ as¬ soluta libertà, dall’ altra non mi è lecito
modificare i pro¬ dotti della libertà altrui. Come comporre questa
nuova contraddizione ? Non difficile la soluzione : basta supporre
tra le molteplici libertà individuali , anziché contrasto, vera comunanza
di azione ; se dal punto di vista giuridico occorre una forza coercitiva
(l’autorità dello Stato), la quale, restringendo l’esercizio delle
libertà individuali an¬ tagonistiche , renda possibile il loro mutuo
sviluppo , dal punto di vista morale, invece, tutti gli individui
sottostanno alla medesima legge, tutti perseguono il medesimo fine
, tutti sono in certo qual modo identici nella loro condotta
conforme al dovere. perchè tutti hanno il medesimo do¬ vere, e l’emancipazione
degli uni, lungi dall’opporlesi, è necessaria all’ emancipazione degli
altri, perchè l’indipendenza di ciascuno va di pari passo con l’indipendenza
di tutti, perchè la libertà , intesa nel senso morale, non si attua
se uon uella collettività, degli esseri liberi. Dunque, non già
limitazione o interferenza tra le libertà indivi¬ duali, sì bene
confluenza, collaborazione a un’opera comune, al trionfo della ragione :
il rispetto della libertà altrui è qui compatibile con 1’ esercizio
assoluto della libertà pro¬ pria, perchè questa e quella si accordano e
si completano reciprocamente, la liberazione dell’uno è in pari tempo
la liberazione di tutti. E invero , 1’ originaria tendenza
all’ indipendenza as¬ soluta non si riferisce a un determinato individuo
; ha per oggetto la libertà assoluta, l’autonomia della ragione in
generale. L’ultimo fine della moralità è il regno della ragione in quanto
ragione, il che non si ottiene se non nella comunanza e con la
cooperazioue di tutti gli esseri che partecipano della ragione, di tutta
l’umanità ; la libertà, — ripetiamo — non hì concepisce sotto la forma
dell' in¬ dividualità, essa è di natura essenzialmeute sociale e
uni¬ versale, e non si attua nel singolo uomo se uon in quanto
questi da u individuo „ si eleva a “ persona „ per confon¬ dersi in
ispirito con tutti, gli esseri ragionevoli. Di qui trae luce e
spiegazione la nota formula kantiana : u Opera in modo da poter pensare
la massima della tua volontà come principio d’ una legislazione
universale „ , formula più euristica che costitutiva della moralità,
perchè non è un principio — come sembrava al Kant, a cui il metodo
da lui adottato interdiceva di penetrare sino al fondo delle cose — ma
soltanto una conseguenza di quel vero prin¬ cipio che consiste nel
comando dell’ assoluta indipendenza della ragione ('). Di qui deriva la
necessità che tutti-siano veramente liberi , che nessuno sia impedito
nell* esercizio dulia ragione e nell’adempimento del dovere, che
ciascuno si adoperi ad avvicinare sempre più quell’ ideale" —
per quanto destinato a rimanere sempre un ideale — che è la
moralizzazione dell’umanità. Soltanto l’uso della libertà contrario alla
legge morale ho il dovere di annullare ; ma siccome ciascuno deve operare
secondo le proprie convin¬ zioni , cosi mi è lecito cercar di determinare
o modificare soltanto la convinzione degli altri, mai la loro azione.
E poiché non si può agire sulle convinzioni degli altri uomini se
non vivendo in mezzo a essi, anche per questa via si ribadisce la
necessità morale della società e il dovere per ognuno di vivere in essa.
Segregarsi dalla società significa rinunziare ad attuare il fine della
ragione ed essere indif¬ ferente al propagarsi della moralità, al trionfo
della libertà, al bene dell’ umanità ; “ chi si propone di aver cura
sola- (*) Ilari, p. 234 ibici. pp. 229-230). Secondo il Fichte la
suddetta formula kantiana va intesa non già nel senso : — perchè un
quid può essere principio di una legislazione universale, perciò
dev’essere massima della mia volontà — ma nel senso opposto : — perchè
un quid dev’ essere massima della mia volontà, perciò può essere
anche principio di uua legislazione universale — ; in altri termini, non
la forma determina il contenuto della moralità, ma il contenuto
deter¬ mina la forma: se la moralità ha per contenuto 1’ attuazione
universale della ragione, ne segue che ciascun individuo il quale operi
di- siuteressatameute, secondo ragione, può pensare la propria
condotta come un dovere per chiunque altro operi nelle medesime
circostanze ; la proposizione kantiana, appunto con questa
universalizzazione della condotta individuale , non fornisce altro che un
eccellente mezzo di controprova per accertarci se, agli effetti della
morale , la condotta di un individuo sopporti o no universalità, possa o
no erigersi a legge per tutti: è perciò una proposizione euristica, non
già costitu¬ tiva della moralità. mente di sè , dal lato morale, in
verità non ha cura nep¬ pure di si, perchè suo fine ultimo dev’essero il
prendersi cura di tutto il genere umano, la sua virtù non è virtù,
ma soltanto im servile, venale egoismo....; non già con una vita
eremitica, dedita a pensieri sublimi e speculazioni pure, non già col
fantasticare , ma soltanto con 1’ operare nella e per la società si
soddisfa al dovere (*). La necessità etica della società e il
dovere che ne deriva all’ individuo di vivere in essa e di lavorarvi
alla moi'alizzazione degli uomini, operando sul loro spirito e
formando le loro convinzioni, implica l’istituzione di quella repubblica
morale che i?i chiama la Chiesa e che è condi¬ zione indispensabile per
la reciproca azione sociale diretta a produrre credenze pratiche concordi
e con esse il pro¬ gresso della moralità. La Chiesa , infatti, rappresenta
nel suo simbolo, accettato da tutti i suoi membri, quell’accordo
primitivo e, a dir così, minimo, che solo rende possibile una comunità
spirituale. Ma il simbolo non è, nè può es¬ sere, che un punto di
partenza o un mezzo, nou già un punto di arrivo o uu fine ; esso è
indefinitamente perfet¬ tibile mercè la continua reciproca azione degli
spiriti gli uni sugli altri e il conseguente sviluppo della moralità
, e non può, quindi, rimanere fisso e invariabile. Così, ap¬ punto,
l’intende il protestantismo. Iuvece, come fa il pa¬ pismo, lavorare pur
contro la propria convinzione a man¬ tenere il simbolo in una fissità
assoluta, a rendere la ra¬ gione stazionaria, a costringere gli altri in
una fede già superata , significa, oltre che ignoranza , trasgressione
del dovere, perchè allora si fa del simbolo non più 1’ espres-
(') Ibid. p. 235 (ibid. p. 230). xeni
sione puramente prdVvisoria di un accordo destinato a permettere la
discussione delle diverse opinioni in vista dell’ ulteriore sviluppo
morale della comunità, ma la for¬ mula definitiva di una verità assoluta
e immutevole, il che sta in recisa opposizione con lo spirito della
moralità, la cui essenza consiste nello sforzo e nel progresso all’
in¬ finito (*). Come la Cliiesa è istituzione necessaria al
perfeziona¬ mento morale per quanto riguarda le convinzioni
interne, così lo Stato è istituzione necessaria per quanto riguarda
le azioni esterne, 1’ operare sul mondo sensibile. Ciò che sta fuori del
mio corpo, ossia tutto il mondo sensibile , è patrimonio comune e il
coltivarlo secondo le leggi della ragione non spetta a me soltanto, ma a
tutti gli individui ragionevoli ; di guisa che il mio operare su di esso
inter¬ ferisce con l’ operare degli altri, e può accadermi ,
perciò, di arrecar danno alla libertà altrui, quando il mio operare
non sia all’ unisono con 1’ altrui volontà : il che assoluta- mente non
mi è lecito. Quel che interessa tutti io non posso fare senza il consenso
di tutti, e senza seguire, quindi, principi universalmente accettati,
previo accordo, tacito o esplicito, circa una parziale restrizione
volontaria e generale delle diverse libertà individuali. Il consenso
a questa restrizione e 1’ accordo che determina i comuni di¬ ritti
e la reciproca azione sul mondo sensibile è oggetto del cosidetto
contratto sociale e costituisce lo Stato. Lo Stato , grazie alle leggi
conosciute e accettate da tutti i cittadini , rende possibile a ciascuno
di essi di conciliare l’esercizio della propria libertà col rispetto
dovuto alla (') Ibid. p. 230 e pp. ‘241-245 (ibid. p. 231 e pp.
233-240). libertà degli altri; rende passibile, iu altri termini,
preve¬ nendo eventuali conflitti nell’incontro delle libertà
indivi¬ duali, quella convivenza sociale die è condizione strie iy
ua non della moralità'; di qui il suo alto significato e il suo
valore etico ('). La necessità del simbolo nella Chiesa, il
rispetto delle leggi nello Stato, impongono, non tanto alle
convinzioni dell’ individuo — le quali sono incoercibili — quanto
alla loro manifestazione e comunicazione, certi limiti che non si
possono oltrepassare senza mettersi fuori del simbolo o fuori della
legge, fuori, iusomma, della comunità morale e civile ottenuta iu un dato
momento del progresso umano. E pur tuttavia si è tenuti non solo a
formarsi una con¬ vinzione indipendente da ogni autorità, ma anche ad
affer¬ marla e parteciparla agli altri. Come conciliare questa con¬
traddizione tra 1’ assoluta libertà delle singole coscienze e il rispetto
alla fede comune ? come risolvere questo con¬ flitto di doveri ? Non
altrimenti che mediante una limita¬ zione reciproca dei due doveri , che
vai quanto dire : am¬ mettere la libertà assoluta delle convinzioni e
della loro comunicazione, ma circoscrivere questa libertà e questa
comunicazione a quel particolare gruppo sociale che è il pubblico dotto. E
invero, l’assoluta libertà delle convinzioni e della loro comunicazione,
se è impraticabile nel vasto ambito della Chiesa e dello Stato , perchè
per essere morale do¬ vrebbe raccogliere — cosa impossibile — 1’ adesione
una¬ nime di tutti i membri della comunità chiesastica e politica, è,
invece, praticabile nel ristretto pubblico dei dotti, il quale sta come
anello di congiunzione tra la convinzione comune e la privata.
Il carattere distintivo del pubblico dotto è uifa asso¬ luti
libertà e indipendenza di pensiero ; il principio della sua costituzione
è la massima di non sottoporsi a nes¬ suna autorità , di basarsi in tutto
sulla propria riflessione e di rigettare assolutamente da sè tutto ciò
che non sia da questa confermato. Nella repubblica dei dotti non è
possibile nessun simbolo, nessuna direttiva prestabilita, nessun riserbo
; tra dotti si deve poter dichiaral e tutto ciò di cui si è persuasi,
appunto come si oserebbe dichia¬ rarlo alla propria coscienza ; giudice
della verità sarà il tempo, ossia il progresso della coltura. E come
assoluta¬ mente libera è l’investigazione scientifica, così pure
libero a tutti deve essere 1’ adito a essa. Per chi nel suo intimo
non può più credere all’ autorità , è contro coscienza con¬ tinuare a
credervi, è dovere di coscienza associarsi al pub¬ blico dotto. Lo Stato
e la Chiesa debbono tollerare i dotti, altrimenti violerebbero» te
coscienze, perchè nessuna po¬ tenza terrena ha il diritto d’imporsi in
materia di co¬ scienza. Lo Stato e la Chiesa debbono anzi riconoscere
la repubblica dei dotti, perchè questa è condizione del loro
progresso morale , in quanto che soltanto in essa possono elaborarsi i
concetti che modificheranno , perfezionandoli, e il simbolo e la
costituzione dello Stato: sin anche come pubblici ufficiali — per es.
nelle università — i dotti pos¬ sono lavorare all’educazione degli uomini
e alla formazione scientifica degli insegnanti e dei funzionari tutti
della Chiesa e dello Stato. È da aggiungere, però, che il dotto,
insieme con l’incontestabile diritto che ha all’ esistenza, all'
indipendenza e alla massima libertà di ricerca e cri¬ tica nel campo del
pensiero, lia anche il preciso dovere di sottomettersi all’autorità della
Chiesa e dello Stato nel campo deU’azioue ; onde non è lecito a chi ne
faccia parte nè diffondere le propine convinzioni, ancora discutibili
e non universalmente accettate, tra i fedeli e i cittadini che
vivono fuori della repubblica dotta, nè , tanto meno , attuarle senz’
altro nel mondo sensibile , minando cosi, o addirittura sovvertendo,
senza il consenso di tutti, gli ordi¬ namenti e i poteri costituiti ;
Stato e Chiesa hanno il di¬ ritto di impedire ciò. Sarebbe un’oppressione
della coscienza proibire al predicatore di esporre in scritti scientifici
le sue convinzioni dissenzienti, ma rientra perfettamente nel-
1’ordine vietargli di portarle sul pulpito, ed egli stesso, se'è
illuminato, sentirebbe la propria immoralità quando facesse così.
In conclusione: l’ultimo fine di ogni attività sociale è l’accordo
universale tra gli uomini, accordo non possibile se non sul puro ragionevole,
perchè qui soltanto ritrovasi ciò che agli uomini è comune. Col
presupposto d’ un tale accordo cade la differenza tra un pubblico dotto e
un pub¬ blico non dotto ; scompaiono anche Chiesa e Stato. Condi¬
videndo tutti le medesime convinzioni, a che servirebbe più il potere
legislativo e coercitivo dello Stato? Riunite tutte le coscienze
individuali nella visione diretta della verità assoluta, a ohe
servirebbero più i simboli provvisori e mutevoli della Chiesa ? Il
pensiero e l’azione di ciascuno confluirebbe col pensiero e 1’ azione di
tutti, la legge mo¬ rale troverebbe la sua espressione nella sublime
armonia di tutti gli esseri ragionevoli e buoni, nella suprema
comu¬ nione dei santi, l’io empirico e individuale,
completamente liberato da ogni limitazione, svanirebbe completamente
in seno all’Io puro e assoluto, si attuerebbe, insomma, nella
realtà l’Ideale, l’Infinito, Dio. Il contenuto materiale della moralità è
tutto in Questo perenne e progressivo attuarsi del regno della ragione
nel regno della natura, è tutto in questa ascensione, in
quest’approssimarsi del mondo verso lo Spirito, vei’so la Libertà
('). C) Dottrina dei doveri propriamente detta. Da quanto
precede risulta evidente che l’io empirico q la persona è soltanto mezzo
all’ attuazione del fine supremo morale. La proposizione del Kant :
L’uomo è /ine in se, è giusta purché completata così : l'uomo è fine in
.sr. ma per gli altri. Siccome la legge si dirige a ciascuno e il
suo fine è la ragione in generale , ossia 1’ umanità tutta quanta , ne
segue che tutti sono fine a ciascuno , ma nes¬ suno è fine a se stesso ;
1’ attività di ciascuno è semplice strumento per attuare la ragione. Con
che la dignità del- 1’ uomo non è abbassata, è anzi inalzata, poiché a
ciascun individuo vien affidato il raggiungimento del fine univer¬
sale della ragione e dalla cura e dall’ attività di lui di¬ pende
l’intera comunità degli esseri ragionevoli, mentre egli , invece, non
dipende da nulla. Ciascuno diventa Dio nella misura che gli è possibile ,
ossia con riguardo alla libertà degli altri, e appunto perchè tutta la
sua iudivi- dualità scompare, egli diventa pura rappresentazione
della legge morale nel mondo sensibile, vero Io puro. Errano di
molto coloro che pongono la perfezione in pie medita¬ zioni, in un devoto
covare sopra sé stessi, e di qui aspet¬ tano l’annientarsi della propria
individualità e il loro con- (‘) Ibid. pp. 248-253 (ibid. pp.
243-248). fluire culi la divinità; la loro virtù è, o rimane, e geliamo ;
essi vogliono fare perfetti soltanto se stessi. La vera virtù, invece,
consiste nell’operare, e nell’operare per la comu¬ nità : è quindi oblio,
abnegazione intera di sè nell’interesse della totalità degli esseri
ragionevoli. Se cosi è, se l’io empirico o individuale serve
sola¬ mente di mezzo all’attuazione del fine supremo, ossia all’av¬
vento del regno della ragione, ne segue che i doveri verso l’io empirico
sono mediati e condizionati di fronte a quelli che, riferendosi
direttamente al fine supremo , diconsi im¬ mediati e incondizionati, ossia
assoluti. Senonchè la pro¬ mozione del fine supremo è possibile soltanto
in virtù di una ben disegnata divisione di lavoro, altrimenti
potrebbe molto accadere in più modi, e molto non accadere affatto.
È necessario, dunque, attuare una tale divisione di lavoro, mediante 1’
istituzione di divei'se professioni , da cui na¬ scono doveri diversi,
che diremo particolari o trasferibili (perchè s’impongono soltanto a chi
abbia scelto quella data professione) di fronte ai doveri che sono
generali o intrasferibili (perchè s’impongono indistintamente a
tutti gli esseri umani). Combinando questa seconda classifica¬
zione dei doveri, fatta dal punto di vista del soggetto della moralità,
con la precedente, fatta dal punto di vista dell’oggetto della moralità,
si hanuo quattro specie di doveri : 1) generali
condizionati 2) particolari condizionati 3) generali
incondizionati 4) particolari incondizionati. I doveri generali
condizionati — abbiamo dette — ' si riferiscono all’io empirico in
quanto mezzo e strumento indispensabile per 1 adempimento della
legge morale: primo tra essi, dunque , V autoconservazione , la
conservazione , cioè , di questo mezzo o strumento. *L’
autoconservazione * già richiesta dal diritto naturale
come condizione ne¬ cessaria al I attuarsi di quel futuro da cui
attendiamo la soddisfazione implicita nell’oggetto del nostro volere
pre¬ sente , e perciò come qualcosa di relativo — diventa per la
moralità materia di un comando assoluto ; per 1’ uomo morale si tratta
non più di attendere un risultato più o meno egoistico e interamente
conseguibile nel tempo, ma di lavorare disinteressatamente all’attuazione
di quel fine supremo di cui egli non potrà mai godere , perchè
posto all’ infinito. Dal dovere dell’ autoconservazione nasce
: — a) un divieto : evita tutto ciò che, secondo la tua coscienza,
può mettere in pericolo la tua conservazione in quanto stru¬ mento
della moralità (il digiuno e 1’ intemperanza in ri¬ guai do al corpo,
l’inerzia intellettuale, il soverchio sforzo, l’occupazione irregolare,
il disordine della fantasia, la col¬ tura unilaterale, ecc. in riguardo
all’ intelligenza) ; non espone al pericolo la tua salute, il tuo corpo,
la tua vita, quando non vi sia necessità morale. Segue da ciò la
più recisa condanna del suicidio : la moralità può comandare di
esporre la vita, non già di distruggerla ; la vita è la condizione stessa
dell’ adempimento del dovere, e il sui¬ cidio, distruggendo la vita, la
sottrae appunto al dominio della legge ; suicidarsi significa dichiarare
di non voler più adempiere il dovere. — b) un comando : opera tutto
quello che ritieni necessario alla tua conservazione (il buon
mauteuimeuto del corpo, il nuo adattamento perfetto ai fini che
deve conseguire, la coltura dell’intelligenza, la ricreazione estetica,
eco.). Non va mai dimenticato, però, che il dovere dell’auto-
conservazioue è condizionato , essendo l’io empirico sem¬ plice strumento
della moralità : quindi , dove il fine della moralità non fosse
compatibile col dovere «Iella conserva¬ zione , sarebbe moralmente
necessario che la vita dell’ in¬ dividuo venisse sacrificata a quel fine,
che il dovere coudi- zionato fosse subordinato al dovere incondizionato :
quando la moralità lo esige, ho il dovere di arrischiare la mia
vita, e tutti i pretesti con cui cercassi di nascondere la mia viltà —
per es., quello di risparmiarmi la vita per operare ancora dell’ altro
bene che altrimenti rimarrebbe incompiuto — andrebbero contro il dovere,
il quale co¬ manda in modo assoluto e non ammette indugi al suo
adempimento ('). 2. Tra i doveri particolari condizionati —
attinenti , cioè, ai diversi uffici e alle diverse professioni
individua¬ li — sta anzitutto quello d’avere un ufficio, d’esercitare
una professione nell’interesse della società, di contribuire in
qualche misura all’ esistenza e all’ organizzazione sociale ; poi 1’
altro di scegliersi a ogni modo un ufficio , una pro¬ fessione, e non già
secondo l’inclinazione, ma con la co¬ scienza d’ avere la migliore
attitudine all’ uno o all’ altra , considerate le proprie forze , la
propria coltura , le condi¬ zioni esterne dipendenti da noi , poiché non
il sodisfaci- mento dei nostri gusti dev’ essere lo scopo della nostra
vita, ma 1’ avanzamento del fine della ragione : onde gli uomini uou
dovrebbero scegliersi uno stato prima d’essere giunti alla necessaria
maturità della ragione, e sino a questa maturità si dovrebbe educarli
tutti allo stesso modo; infine il dovere di attendere con tutta coscienza
all’ufficio o alla professione prescelta, formando sempre meglio
all’uno o all’ altra il corpo e lo spirito , secondo che più
occorre (all’agricoltore, per es., occorre più la forza e la
resistenza fisica , all’ artista la destrezza e 1’ agilità dei
movimenti, allo scienziato la coltura spirituale in tutte le direzioni,
ecc.). Di una gerarchia delle professioni e degli uffici secondo il
loro grado di dignità , si può parlare dal punto di vista sociale
soltanto nel senso che le molteplici occupazioni umane sono subordinate
le une alle altre come il condi¬ zionato e la condizione, come il mezzo e
il fine ; ma dal punto di vista morale esse hanno tutte lo stesso valore
, tutte la stessa dignità : quel che importa è adempieide bene
(*). 3. I doveri generali incondizionati si riferiscono non
più allo strumento, ma al fine stesso della moralità , che è il dominio
della ragione nel mondo sensibile e nella tota¬ lità degli individui per
opera di ciascun individuo. Primo tra essi il dovere verso quella
libertà formale di tutti gli esseri ragionevoli, nella quale sta 1’
origine , la radice stessa della moralità. La libertà formale di
eia- scun individuo poggia sopra due condizioni : A) la perma¬
nenza del rapporto tra la volontà individuale e il corpo che ue è 1’
organo esecutivo ; B) la permanenza del rap¬ porto tra il corpo
individuale e il mondo sensibile che ne è la sfera d’ azione. Di qui due
specie di doveri concerneuti l’inviolabilità: A) del corpo altrui; B) della
altrui libertà d’azione. A) L'inviolabilità del corpo altrui im¬
plica : a) il divieto di esercitare qualsiasi violenza o coer¬ cizione
fisica su altri (la condanna, quindi, della schiavitù, della tortura,
dell’ omicidio eoe.), b) il comando d’aver cura della vita e della salute
degli altri come della propria, essendo gli altri, al pari di noi,
strumenti della moralità (ama il tuo prossimo come te stesso). B) L’
altrui libertà d’azione esige : — in primo luogo l’esatta conoscenza
dei rapporti tra le cose, senza la quale manca ogni garanzia che il
risultato dell’ azione sarà conforme al disegno della volontà ; di qui il
dovere della veracità, il quale implica : a) il divieto d’ingannare
il prossimo (con l’inganno si dan- neggia la libertà degli altri,
trattandoli non come persone ma come cose) e la conseguente condauna del
venir meno alle promesse e del mentire (nessuna menzogna è lecita,
neppure la menzogna pietosa, o la pretesa menzogna ne¬ cessaria, neppure
col pretesto dell’interesse altrui, o, peggio ancora, con quello dell’
interesse della moralità, perchè la menzogna stessa, per essenza sua,
nasce da viltà ed è sempre radicalmente immorale; b.) il comando
d’illuminare e istruire il prossimo e di comunicargli la verità ; —
in secondo luogo la proprietà, ossia quella sfera d’azione nel
mondo sensibile senza la quale manca, oltreché la materia prima per
attuare i disegni della propria volontà, altresì la sicura coscienza di
non disturbare, con l’esercizio della propria libertà, la libertà degli
altri, come esige la legge morale ; di qui il dovere dell’ istituzione e
della conserva¬ zione della proprietà, il quale implica : a) il divieto
di distruggerla, usurparla o menomarla in qualsiasi maniera;
b) il comando d’acquistarsi una proprietà e di procurarne
una a ciascun individuo (come ogni oggetto dev’ èssere proprietà di
ciascuno affinchè tutto il mondo sensibile rientri nel dominio della
ragione, così ognuno deve avere una proprietà ; in uno Stato in cui un
sol cittadino non abbia una proprietà, ossia una sfera esclusiva se non
di oggetti, almeno di diritti a certe azioni, non esiste in ge¬
nerale nessuna legittima proprietà ; la beneficenza consiste non nel fare
l’elemosina, ma nel fornire a ciascuno il modo di vivere del proprio
lavoro) (*). Un’ osservazione importante : in fatto di libertà
non può mai nascere conflitto tra esseri che operino secondo
ragione ; ma quando della libertà si faccia un uso con¬ trario al diritto,
nasce collisione tra determinati atti di più individui e viene posta in
pericolo , quindi, la vita o la proprietà , insomma la libertà del
singolo. E poiché è proprio dello Stato attuare l’idea della legalità,
così spetta allo Stato appianare gli eventuali conflitti tra individui
, contenendo , mediante la forza della legge giuridica, cia¬ scuno
entro i propri confini. Non sempre , però , lo Stato può immediatamente
intervenire a comporre contese : sot¬ tentra allora il dovere della
persona privata. È dovere universale, in tal caso, salvare dal pericolo
la libertà del- 1’ essere ragionevole, senza far distinzione se si tratti
di noi o di altri, perchè tutti, indistintamente , siamo stru¬
menti della logge morale. Se sono io l’aggredito, il dovere dell’
autoconservazione m’impone di difendermi con tutte le forze ; se è in
pericolo il mio simile a me vicino, l’amore del prossimo m’impone di
salvarlo anche a rischio della mia vita ; se più di uno è assalito nello
stesso tempo, (*) Ibid. pp. 275-299 (ibid. pp. 269-292). si
devo portare aiuto anzitutto a quello ohe si può salvare più presto e del
quale oi accorgiamo prima. In questo adempimento del dovere non può
essere mai mio fine uc¬ cidere 1’ aggressore , il nemico , ma soltanto
disarmarlo ; posso cercare d’indebolirlo , di ridurlo all’ impotenza .
di ferirlo , ma sempre in modo che la sua morte non sia il mio
fine. u Se, peraltro, rimanesse ucciso, ciò dipende dal caso, contro la
mia intenzione, e io non sono perciò re¬ sponsabile „. Si deve, insomma,
trattare il nemico con 1’ amore dovuto a ogni altro prossimo, perchè è
aneli’ egli strumento della moralità e se dalle sue azioni per il
mo¬ mento non si può concludere che 1’ opposto, non si deve,
tuttavia , mai disperare che egli sia capace di migliora¬ mento. L’ uomo
animato da sentimento morale non ha. nè riconosce, nessun nemico
personale; chi sente piu viva¬ mente un’ ingiustizia soltanto perchè
fatta a lui, è ancora un egoista, è ancora lontano dalla vera moralità
(‘). La libertà formale altrui, verso la quale s’impongono i
doveri ora descritti, è condizione necessaria ma non suf¬ ficiente per la
moralità negli altri ; questa è resa possibile da quella , ma, alfiuchè
sia anche reale, bisogna che gli altri prendano di fatto coscienza del
loro dovere. Di qui il comando, per chi si sia già elevato alla coscienza
del dovere, di allargare e promuovere la vita morale intorno a sè,
di elevare gli altri alla moralità. In qual modo ? poiché sarebbe assurdo
voler produrre la virtù con mezzi coercitivi, con premi o gastighi : la
moralità non si lascia imporre dal di fuori, nè per forza , ma nasce
soltanto da una determinazione interiore ; come può, dunque, tale
de- (») Ibid. pp. 300-313 (ibid. pp. 293-304). terminazione
nascere per opera di un altro in colui che. ne è il soggetto e che deve
possedere già dentro di sé le condizioni atte a produrla? 14li è che, per
chi guardi bene, realmente esiste la possibilità, di un influsso
^morale da coscienza a coscienza, ed esiste grazie a un sentimento
che serve di leva alla virtù, ma il cui sviluppo esige ap¬ punto un’
azione dal di fuori, l’azione dell’esempio altrui : è questo il
sentimento del rispetto o della stima, il quale, sempre latente nel cuore
dell’uomo, da cui è inestirpa¬ bile, si desta, dinanzi alla condotta
virtuosa degli altri, suscita, a sua volta, il bisogno di provare il
medesimo sentimento dinanzi alla condotta propria, il bisogno,
cioè, dell’autostima, e sprona, per tal via, alla moralità. Sorge,
così, per ognuno il dovere del buon esempio, essendo l’esempio il vero
strumento dell’educazione morale. E poi¬ ché l’esempio, per avere
efficacia, per agire sulla coscienza altrui, dev’ essere pubblico, ne
segue che anche la pubbli¬ cità della condotta morale è per noi un dovere
: essa nasce dalla franchezza dell’ operare virtuoso e non ha nulla
di comune con 1’ ostentazione, la quale deriva dal desiderio d’
essere ammirato ('). 4. I doveri particolari condizionati si dicono
così perchè hanno sempre per oggetto il fine supremo della
moralità, il dominio della ragione, ina, anziché all’umanità o alla
società in genere, si riferiscono a ben determinate relazioni umane, a
ben definiti organismi sociali, quale che sia la loro origine , vuoi da
una stabile legge di na¬ tura — nel qual caso diconsi naturali — vuoi
dalla mo¬ bile scelta delle singole volontà — nel qual caso diconsi
artificiali. Dalle relazioni naturali nascono i doveri di stato, dalle
artificiali i doveri di vocazione ('). A) Due relazioni naturali
sono possibili per l’uomo, e insieme costituiscono l’organismo sociale
della famiglia : a) la relazione tra coniugi, b) la relazione tra
genitori e figli. Di qui due specie di doveri di stato : a) doveri
tra coniugi, b) doveri tra genitori e figli, a) La relazione co¬
niugale è già 1’ inizio della moralità nella natura, segna già il
passaggio da questa a quella , perchè è uno stato che da una parte si
fonda sopra un impulso naturale — l’istinto sessuale — dall’ altra
implica, in entrambi x sessi, sentimenti — reciproca dedizione completa e
perpetuo re¬ ciproco amore, reciproca fedeltà — che trasformano la
sen¬ sualità brutale in una spiritualità umana. Il coniugio , as¬
sociazione naturale e morale a un tempo, è condizione precipua per l’esistenza
di quella società che vedemmo essere a sua volta condizione cosi
indispensabile per 1’ at¬ tuarsi della moralità, e, in quanto t,ale,
costituisce un do¬ vere che implica : a) il comando di contrarre
matrimonio, quando si verifichi la sua base naturale , 1’ amore, (l’indi¬
viduo umano fisico non è un uomo o una donna, è, a un tempo, 1’ uno e 1’
altra ; lo stesso dicasi dell’ individuo umano morale : vi sono in lui
aspetti dell’ umanità — e proprio i più nobili e disinteressati — i quali
solamente nel matrimonio possono formarsi ; perciò u rimaner celibi
senza propria colpa è una grande infelicità, ma rimaner celibi per
propria colpa è una gran colpa „) ; fi) il divieto di relazioni sessuali
fuori del matrimonio (queste relazioni, infatti, sono fondate o sull’ amore
della donna , e allora (*) Ibid. pp. 326-327 (ibid. pp.
316-318). CVII s’ impone moralmente il
matrimonio , ovvero soltanto sul' piacere o sull’interesse, ohe vai
quanto dire sull’indegnità della donna, e allora sono immorali non solo
per la donna ohe si avvilisce, ma anche per l’uomo che l’avvilisce,
che vede in lei non più un essere umano e ragionevole , ma un
semplice strumento di voluttà ('). b) La relazione tra genitori e figli
dà luogo a due serie inverse di doveri : u) da parte dei genitori il
dovere di vigilare la vita e la salute dei loro nati e in pari tempo di
suscitare e favo¬ rire in essi lo sviluppo della libertà secondo la
direzione del fine umano : insomma il dovere dell’allevamento e
del- P educazione alla moralità. L’adempimento di questo do¬ vere —
che del resto è una specificazione del dovere uni¬ versale che a tutti
incombe di plasmare sè e gli altri in conformità della legge morale —
risponde nella famiglia a un bisogno del cuore, perchè la prole, per i coniugi,
non è semplicemente prossimo , ma il prodotto del loro reci¬ proco
amore ; (1) da parte dei figli, se minorenni il dovere di obbedienza, se
maggiorenni il dovere di rispetto, vene¬ razione, assistenza ai genitori
( ! ). B) Due relazioni artificiali ,ma non meno indispen¬
sabili delle naturali alla vita comune, possono essere sta¬ bilite dalla
libera scelta dei singoli individui e insieme costituiscono l’organismo
sociale dello Stato: a) agire di¬ rettamente sugli uomini , in quanto
esseri ragionevoli ; b ) agire sulla natura, in quanto mezzo o strumento
per le nostre azioni verso gli uomini. Su questa base e in forza
della suaccennata necessità di una armonica divisione del (•)
Ibid. pp. 327-398 (ibid. pp. 318-324). (*) Ibid. pp. 333-343 (ibid. pp.
324-333) lavoro movale e di una organizzazione gerarchica dell’ at- 1’
attività degl’ individui per la promozione del fine su¬ premo, si
distinguono due specie di classi sociali, con due corrispondenti specie
di doveri di vocazione : a) classi su¬ periori (scienziati, educatori,
artisti, impiegati), che lavo- t vano al progresso
spirituale della società, e sono, perciò, quasi 1’ anima dello Stato ; b)
classi inferiori (minatori, agricoltori , artigiani, commercianti) che
assicurano 1’ esi¬ stenza economica della società e sono, perciò, quasi
il corpo dello &tato. a) Quali i doveri di vocazione
delle classi superiori ? — L’ uomo allora soltanto adempirà la sua vera
destina¬ zione quando abbia una visione chiara del dovere ; è ne¬
cessario, dunque, formare anzitutto la sua conoscenza teo¬ rica. Tale
ufficio è la missione del dotto (*). Chi consideri tutti gli uomini come
una sola famiglia , è tratto a fare delle loro cognizioni un unico
sistema, il quale si accresce e si elabora attraverso i secoli, come si
accresce e si ela¬ bora attraverso gli anni l’esperienza del singolo
individuo. Ciascuna generazione, quindi, eredita dal passato un
tesoro di formazione scientifica, che la classe dotta è chiamata a
conservare e aumentare. I dotti sono i depositari e quasi 1’ archivio
della coltura della loro età ; non però alla ma¬ niera dei non dotti, che
si arrestano ai risultati, si bene come chi possiede anche i principi ohe
condussero lo spi- (*) L’essenza e la missione del dotto furono
più volte per il Fichte argomento di conferenze e di lezioni. Vedi in
proposito nel voi. VI dei Sàmmtl. Werke Ueber die Bestimmung des
Gelchrten (le¬ zioni tenute a Erlangen nel 1805) ; e nel voi. Ili dei
Nachgel. Werhe, Ueber die Bestimmung des Gelchrten (cinque lezioni tenute
a Berlino nel 1811). A rito umano a questi risultati.
E primo dovere del dotto, quindi, acquistare una veduta stori
co-filosofica del cam¬ mino della scienza sino al suo tempo: altrimenti
egli non potrebbe nè intendere il significato della verità , uè
epu¬ rarla dagli errori che 1* offuscano. È inoltre dovere del
dotto amare rigorosamente la verità e lavorare al suo pro¬ gresso
mediante una ricerca sincera e disinteressata. la quale non si proponga
altro che servire al fine ultimo dell’umanità, all’avvento del regno
della ragione nel mondo. Il dotto, come ogni virtuoso, deve obliare se
stesso in questo fine : fare sfoggio di abilità nel difendere
errori sfuggiti o brillanti paradossi è soltanto egoismo e vanità
che la morale disapprova e un’ elementare prudenza scon¬ siglia ; perchè
soltanto il vero e il buono permane : il falso, per quanto sfolgori a
tutta prima , è destinato a perire ('). La formazione della
conoscenza teorica è solfante mezzo al fine supremo di promuovere la
moralità, ed è un mezzo inefficace quando non vi si aggiunga l’operare
pra¬ tico, quando, cioè, alla visione da parte dell’intelligenza
non si aggiunga 1’ azione da parte della volontà. Ora, è ufficio d’ur.a
speciale classe di dotti, dedicarsi in modo particolare all’ educazione
della volontà del pubblico non dotto, alla moralizzazione del popolo :
sono essi i ministri della Chiesa, i quali, appunto perchè si sono messi
al ser¬ vizio della comunità etico-religiosa, hanno il dovere di
adempiere il loro ufficio in nome della comunità stessa, attenendosi
scrupolosamente a ciò ohe è oggetto di fede generale, al simbolo.
Debbono, si, essere uomini di scienza e, ilei loro campo speciale, vedere
al di là e meglio di quanto vedano le anime affidate alla loro cura, ma
nel- 1 educare queste anime, nell’ inalzarle a vedute superiori ,
devono procedere in modo che tutte a un tempo possano seguirli,
altrimenti si romperebbe quell’accordo spirituale che fa 1 essenza della
Chiesa. Gli educatori del popolo , in quanto tali , non devono svolgere o
dimostrare cono¬ scenze teoretiche e principi, e tanto meno
polemizzarvi sopra, come si fa nella repubblica dotta; non è loro
mis¬ sione porre articoli di fede o creare la fede — perchè ar¬
ticoli e fède esistono già come legame vivente della co¬ munità
etico-religiosa — ma ravvivare e rafforzare la fede che il credente ha
già nel progresso morale , ed elevare con essa lo spirito di lui
all’eterno, al divino. Soprattutto l’esempio che danno è importante a tal
fine ; la fede della comunità riposa in grandissima parte sulla fede
loro, e il più spesso non è che una fede nella loro fede. Ora, se
in essi la vita non risponde alla fede , la fiducia in questa rimane
profondamente scossa (‘). Spetta al dotto formare 1’intelligenza,
spetta all’edu¬ catore morale formare la volontà dell’ uomo : sta tra i
due l’artista, il quale ha il privilegio di educare il senso este¬
tico , interposto come tratto d’unione tra la conoscenza teoretica e 1
attività pratica. L’ artista non agisce soltanto sull’ intelletto, come
fa 1’ uomo di scienza, nè soltanto sul cuore, come fa il moralista
popolare, ma sullo spirito umano tutto quanto : 1’ arte bella investo e
pervade tutta l’anima in quanto siuLesi di tutte le facoltà. La formula
pili espres¬ siva di ciò che 1’ arte fa è la seguente : l' arie rende
coninne il punto di vista trascendentale. Il filosofo si eleva ed eleva
con sé gli altri a questo punto di vista col la¬ voro del pensiero e seguendo
una regola ; l’artista vi si trova già senza rendersene conto : nou ne
conosce altri. Bai punto di vista trascendentale il mondo è fatto :
dal » * punto di vista comune il mondo è dato ; dal
punto di vista estetico il mondo è dato, sì, ma non altrimenti che
come tatto. Il mondo reale, voglio dire la natura, presenta due aspetti :
da un lato è il prodotto delle determinazioni o limitazioni a noi poste,
dall’altro è il prodotto della nostra attività libera, ideale,
trascendentale. Sotto il primo rispetto la natura è essa stessa limitata
da ogni parte, sotto il secondo è da per tutto libera. La prima
maniera di vedere è volgare , la seconda è estetica. Per es., ogni
forma nello spazio può considerarsi come circoscritta dai corpi vicini,
ma anche come la manifestazione della forza espansiva, della pienezza
interna del corpo che ha questa forma. Chi vede i corpi nelle prima
maniera uon vede che forme contorte, compresse , mostruose : vede la brut¬
tezza ; chi li vede nella seconda maniera, vede in essi la vigoria, la
vita , lo sforzo della uatura : vede la bellezza. Vale altrettanto della
legge morale : in quanto comanda assolutamente essa comprime ogni
tendenza della natura, e veder la nostra uatura a questo modo è come
vederla schiava ; ma la legge morale fa tutt’ uno con l’Io , ne è
anzi l’espressione più intima, onde, obbedendo ad essa, obbediamo a noi
stessi : veder la nostra natura a que¬ st’altra mauiei’a è vederla
esteticamente ^ ossia come bel¬ lezza. 1. artista vede tutto dal lato
bello, vede in tutto energia , vita , libertà ; il suo mondo è interiore,
è nel- 1 umanità , e perciò 1’ arte riconduce 1’ uomo al fondo di ne
stesso, strappandolo al dominio della natura, liberandolo dai vincoli
della sensibilità e rendendogli l’indipendenza, che e il supremo fine
morale. Idi guisa che il senso este¬ tico non e.la virtù, ma prepara alla
virtù, e la coltura estetica ha, un rapporto positivo con l’avanzamento
del fine morale. La moralità dell’ artista può raccogliersi in
questi due precetti : u ) un itimelo per tutti gli uomini : non ti fare
artista a dispetto della natura, non pretendere di essere artista quando
la natura uon t’ispira ; b) un co¬ mando per il vero artista: guardati
dal favorire, o per egoismo, o per desiderio di fama, il gusto corrotto
del tuo tempo; sforzati soltanto a riprodurre l’ideale che è in te;
ispiiati alla santità della tua missione, e sarai, a un tempo, uomo
migliore e migliore artista (*). L opera del dotto dell’educatore e
dell’artista, in ser¬ vigio del fine supremo morale, presuppone sempre
quella libera reciprocità d’azione tra gli uomini, che è condizione
prima di ogni comunità e a garantir la quale — finché il regno della
ragione non sia una realtà — è necessario lo Stato. Quali sono ora i
doveri degli impiegati, ossia degli ufficiali dello Stato ? L’ impiegato
subalterno è rigorosa¬ mente legato alla lettera della legge, la quale,
perciò , dev’ essere chiara e uon dar luogo a dubbi d’interpreta¬
zione. Quanto all impiegato superiore, al legislatore, al giudice
inappellabile, i quali non sono che i gerenti della volontà comune
affermatasi, espressamente o tacitamente, nel contratto sociale, debbono
aneli’ essi conformarsi alla costituzione politica attuale , nata dalla
volontà comune , con la riserva, però, di perfezionarla secondo le idee
della ragione, tenendo gli occhi tìnsi alla costituzione ideale. Chi
regge lo Stato deve avere una chiara veduta circa il fine della costituzione
— il quale non può essere che il progresso umano — deve , perciò ,
elevarsi mediante con¬ cetti sopra 1’ esperienza comune, dev’essere un
do'tto nella sua materia, deve, come dice Platone, partecipare alle
Idee, e lavorare all’attuazione dell’ideale, favorendo la coltura
delle classi superiori. Da queste classi il progresso si dif¬ fonderà poi
nella comunità tutta quanta e trarrà seco, col suffragio universale, la
riforma della costituzione. Il reg¬ gitore di uno Stato, quindi, è sempre
responsabile dinanzi al suo popolo del modo ond’egli lo governa, e se può
con¬ siderarsi come legittima ogni costituzione che non renda
impossibile il progresso in generale e quello dei singoli individui,
sarebbe assolutamente illegittimo e immorale un governo che si proponesse
di conservare tutto com’ è at¬ tualmente ( l ). b) Quali i
doveri di vocazione delle classi inferiori ? — La nostra vita e il nostro
operare sono condizionati dalla materia, la quale va trattata
conformemente al fine supremo che è il dominio della ragione sulla natura.
Quanto piu questo dominio si estende, tanto più l’umanità progre¬
disce ; è necessario, dunque, elaborare la rozza natura e renderla adatta
ai fini spirituali ; è qui, appunto, 1’ ufficio delle classi sociali
inferiori, il cui lavoro, riferendosi come ogni altro alla moralità di
tutti, ha il medesimo valore etico del lavoro delle classi superiori,
alla pve/sibilità del quale è condizione indispensabile. E poiché dal
perfeziona¬ mento meccanico e tecnico del lavoro materiale è facilitata
(*) (*) Ibid. pp. 35G-3G1 (ibid. pp. 344-349). la
conquista della natura, ed è quindi promosso il progresso dell’ umanità,
è nu dovere per le classi inferiori migliorare e inalzare il loro
mestiere. TI che riohiede 1’ adempimento d un altro dovere concernente i
rapporti tra la classe in¬ feriore e la superiore. J1 perfezionamento
industriale di¬ pende da conoscenze , scoperte , invenzioni, che
rientrano nell ufficio professionale dei dotti ; è dovere, dunque, della
classe inferiore, onorare la classe piò colta appunto perchè, tale e
attenersi ai consigli e alle proposte che da essa le provengono per
quanto riguarda il miglioramento di questo o quel ramo d’industria, di
questo o quel genere di vite, domestica, di questo o quel sistema di
educazione, ecc. Dal canto suo, poi, la classe superiore, ben lungi dal
disprez¬ zai e, deve tenere nella piu alta stima la classe
inferiore, rispettarne la libertà, riconoscere il valore dell’ opera
sua in riguardo agli interessi superiori dell’ umanità. Soltanto in
una giusta reciprocanza di rapporti tra le varie classi sociali sta la
base del perfezionamento umano, inteso come fine supremo di ogni dottrina
morale (*). Riassumendo : la Dottrina Morule, nelle tre parti
in cui si divide, si propone un triplice oggetto e ottiene un
triplice risultato. u) Anzitutto nella deduzione del principio
della mo¬ ralità il Fichte mostra come la Ragione e la Libertà, le
quali a tutta prima per la coscienza empirica non sono che ideali,
divengano poi in essa principi di azione, esercitino una causalità. L’io
empirico individuale non può porsi nè d) Tbid. pp. 861-365 (Tbid.
pp. 849-852). pensarsi se non in base all’ Io puro universale , se non
in quanto ha per principio e per fine l’Ideale ; e l’Io puro
universale non può attuarsi se non ha per strumento l’io empirico
individuale. L’ unità dell’ ideale non acquista cau¬ salità, non diviene
efficace nel mondo se non pluralizzan¬ dosi, quasi in centri luminosi, in
spiriti individuali, i quali soltauto possono dirsi realmente esistenti e
attivi. Ora, ap¬ punto questo reciproco rapporto tra i molteplici io
empi¬ rici e 1’ unico Io puro fornisce il contenuto del dovere e
rende il dovere intelligibile. Il dovere, infatti, è la neces¬ sita imposta
all’ Io puro, ossia alla Libertà, di attraversare 1’ intelligenza , ossia
l’io empirico , di divenire quindi in¬ telligibile, per passare dallo
stato ideale di potenza a quello leale di atto, necessità che non
significa eteronomia perchè non impone alla Libertà se non la propria
attuazione. L’in¬ telligibilità del dovere : ecco il primo risultato che
il Fichte ottiene, colmando l’abisso che il Kant aveva lasciato
aperto tra la conoscenza e la volontà, e facendo dell’ intelligenza
la condizione interna, il veicolo della libertà; poiché l’in¬ telligenza
esprime quasi lo sforzo della libertà infinita per assumere, con la
coscienza di sè, la forma del reale. b) In secondo luogo, a
proposito dell’applicabilità del principio morale, il Fichte mostra come
il mondo si presti all attuazione della ragione e della libertà ; il che
significa che la natura non è radicalmeute cattiva, non è assoluta-
mente refrattaria allo spirito ; c’ è anzi una stretta paren¬ tela tra lo
spirito e la natura, non essendo questa che un prodotto inconscio di
quello. Soltanto che l’attuazione del- 1 ideale morale non si compie a un
tratto nel mondo con un semplice decreto della volontà, ma è la meta di
un progresso. L’idea di sviluppo, di progresso è una categoria della
moralità ; ecco il secondo risultato che il Fichte ot¬ tiene eliminando
l’assoluta irriducibilità riaffermata dal Kant tra libertà e natura .
spirito e materia, idealità e realtà, e facendo la natura, la materia, la
realtà suscettive di un progressivo liberarsi, spiritualizzarsi,
idealizzarsi al- l’infinito. c) Infine, nel fare 1’
applicazione del principio mo¬ rale, il Fichte mostra come il progresso
richieda, per com¬ piersi, una duplice condizione ; l’uua formale : occorre
che 1’ individuo acquisti in sè la coscienza della libertà e della
legge morale ; 1’ altra materiale : occorre che 1’ individuo apprenda
come il contenuto del dovere sia nell’ attuare la moralità non solo in
lui, ma anche fuori di lui, negli altri individui, nel genere umauo tutto
quanto , la cui totalità appunto rappresenta la ragione universale ;
occorre, insom¬ ma , che 1’ individuo sappia di essere strumento
indispen¬ sabile per 1’ attuarsi dell’ ideale nel mondo , per 1’
emanci¬ pazione cioè dell’ umanità intera dai vincoli della natura
e per la sua elevazione al regno dello spirito. La sosti¬ tuzione d’ un
ideale sociale a un ideale individuale : ecco il terzo risultato che il
Fichte ottiene trasformando la for¬ mula kantiana : “ Ogni uomo è esso
stesso fine „ in que¬ st’ altra : “ ogni uomo è esso stesso fine in
quanto mezzo ad attuale la ragione universale „ e subordinando così
il singolo al tutto, 1’ individuo all’ umanità. È facile
argomentare, in base a questo triplice risul¬ tato, le radicali
innovazioni di cui, rispetto alla morale tra¬ dizionale, è feconda la
dottrina fichtiana. L’intelligibilità del dovere porta seco la
razionalità dell’azione e sostituisce alla fede, opera della grazia
divina o di uu impulso incosciente, la convinzione della
propria coscienza, l’unione indissolubile dell’energia della volontà
con la luce del pensiero. Per ben operare, all’ intellettua¬ lismo
socratico basta il retto giudizio, al volontarismo cri¬ stiano basta il
cuore puro : il Fichte fonde i due 'punti di vista ed esige per la
moralità degli atti così la dirittura del giudizio come la purezza del
cuore, così l’intima per¬ suasione come la buona volontà. Un dovere
irrazionale, im¬ penetrabile a ogni sforzo della riflessione è, secondo
lui, altrettanto immorale quanto un dovere adempiuto per se¬ condi
fini. Inintelligibilità e insincerità sono per il Fichte ugualmente
incompatibili col concetto del dovere. L’ idea di sviluppo e di
progresso, intesa come cate¬ goria della moralità, porta seco la
riabilitazione della na¬ tura rispetto allo spirito, alla cui attuazione,
anziché osta¬ colo, è condizione e mezzo. Senza la natura — vedemmo
— mancherebbe allo spirito l’oggetto su cui esercitare la pi-o-
pria attività, la quale ha bisogno d’agire sulla natura per liberarsi
dalla natura; senza i corpi individuali, che della natura fanno parte,
mancherebbe alla libertà dello spirito il modo di pluralizzarsi in tante
sfere d’ azione, le quali, sebbene distinte, sono in recipi'oco rapporto
fra loro, sì da applicarsi tutte al medesimo universo e da
rappresentare, unite insieme, e attuare la vivente unità del cosmo e
della ragione universale. Ogni organismo corporeo, infatti, è stru¬
mento indispensabile affinchè la libera attività spirituale abbia causalità
nel mondo ; e da ciò deriva a esso e , per estensione, a tutta quanta la
natura, una consacrazione mo¬ rale, che non si accorda con la condanna
della natura e del corpo pronunziata dall’ ascetismo cristiano , ma
nem¬ meno con l’apoteosi della natura e del corpo celebrata dal¬
l’edonismo pagauo ; una consacrazione morale che vieta a un tempo così la
macerazione, come il blandimento della carne, e che mentre, restituisce
alla vita dei sensi il suo ufficio subordinato e la sua vera finalità
nella vita morale — si ricordi la prescrizione fichtiana già citata
: u Man¬ giate e bevete a gloria di Dio ; se questa morale vi
sembra troppo austera, tanto peggio per voi ; non ce n’ è un’ al¬
tra „ — non ritiene necessario nè una risurrezione dei corpi, nè un’
immortalità personale. Perché il Fichte non si contenta più di una
moralità che miri a una vita futura, o che si appaghi di un sogno di
perfezione interiore, ma vuole attuare sulla terra stessa il regno dei
cieli, ripo¬ nendo la beatitudine, come già il Lessing aveva detto
della verità, non nel possesso, ma nella conquista della libertà :
“ essere liberi è nulla, divenire liberi è il cielo ! La sostituzione dell’
ideale sociale all’ ideale indivi¬ duale porta seco l’inversione del
rapporto di dipendenza tra morale e diritto , 1’ accentuazione massima
del valore del regime di giustizia e la radicale trasformazione del
concetto tradizionale di carità. È, infatti, un’ originale ca¬
ratteristica della dottrina fichtiana l’aver posto non più — come
si soleva in passato — la morale a condizione del diritto, ma il diritto
a condizione della morale. Per il Fichte la libertà, materia del dovere,
non si concepisce senza la società, ma la società non si concepisce senza
rapporti di giustizia, dunque la giustizia, ossia il diritto (juslitiu
da jus = diritto) è il fondamento della morale ; affinchè la
moralità possa attuarsi, occorre prima assicurare a tutti 1’ eguaglianza
nel possesso della libertà esteriore, e procu¬ rare a tutti indistintamente,
con una legislazione regola¬ trice dell’attività economica, quella parte
di agiatezza ma¬ teriale che è necessaria all’opera di emancipazione
morale o di elevazione verso la vita dello spirito. Questa emanci¬
pazione ed elevazione spirituale, poi, non deve uè può fi¬ nire nel
singolo individuo, che nella dottrina fiohtiana nou ha per sè nessun
valore assoluto, ma dev’ essere promossa da ciascun uomo in tutti gli
altri uomini, perchè l’ideale etico, ben lungi dal ridurci a una salvezza
individuale, a una perfezione interiore, a una santità eremitica
incurante della sorte delle altre anime, o una santità operosa sol¬
tanto per conquistarsi un posto nel cielo , consiste invece nella
moralizzazione e nella salvezza di tutto il genere umano, nell’avvento
del regno della ragione su questa terra e in tutta 1’ umanità. Di qui
deriva , secondo il Fichte, il vero concetto della carità : sforzarsi
d’inalzare i nostri si¬ mili alla moralità. Ciascuno deve proporsi non la
propria felicità, e nemmeno soltanto la propria libertà e indipen¬
denza particolare, ma la libertà universale, la salute spiri¬ tuale di
tutti; il culmine della virtù per l’individuo è darsi in olocausto per la
salvezza del mondo, accettando coraggiosamente l’imperativo ingrato, se
si vuole, ma ca¬ tegorico, di lavorare senza riposo e senza ricompensa,
a un fine di cui non vedrà mai l’adempimento completo, al trionfo
infinitamente lontano della ragione , e di lavorarvi in un ambiente
spesso indifferente ed ostile, con penosi sa¬ crifizi , senz’ altro
stimolo che il puro amore del dovere , senz’ altra gioia che quella di
avere colla propria abnega¬ zione contribuito all’ordine universale !
Concezione sublime questa, che ricorda l’altra affine dello Zend Avesta,
la quale fa dipendere aneli’ essa la salvezza di ciascuno dalla
salvezza di tutti e comanda a ognuno di combattere, se¬ condo i propri
mezzi e secondo il posto assegnatogli, il regno delle tenebre e del male
e di lavorare al trionfo della luce e del bene. E nonostante questa
abnegazione di sè nell’ interesse della ragione universale, l’io
individuale conserva tutta la propria realtà e personalità, nè
potrebbe avere una dignità ma'ggiore , poiché quale dignità può ri¬
tenersi più grande di quella di un essere dalla cui azione dipende la
salvezza di tutti e alla salvezza del quale con¬ corre 1’ universalità
degli esseri ragionevoli (’) ? (*) (*) Tale concezione trovasi
eloquentemente illustrata dal Ficlite anche nella terza delle conferenze
da lui tenute a Jena nel 1794 sulla Missione ilei dotto ; ne riportiamo
qui, liberamente tradotta, la bella chiusa che è quasi una lirica: “ Se
l’idea liuora svolta si con¬ sidera auche prescindendo da ogni rapporto
con noi stessi, siamo por¬ tati a vedere fuori di uoi una collettività in
cui nessuno può lavo¬ rare per sè senza lavorare per gli altri, nè
lavorare per gli altri senza lavorare in pari tempo per sè , essendo il
progresso dell’ uno progresso di tutti, la perdita dell’ uno perdita di
tutti : spettacolo questo che ci sodisfa intimamente e solleva alto il
nostro spirito con la visione dell’armonia nella varietà. L’interesse
aumenta se, ripor¬ tando lo sguardo sopra noi stessi, ci riconosciamo
membri di questa grande e stretta comunione. Sentiamo rafforzarsi la
coscienza della nostra dignità e della nostra forza, quando diciamo a noi
stessi ciò che ognuno può dire : la mia esistenza non è inutile e senza
scopo ; io sono un anello necessario dell’ infinita catena che, dal
momento in cui 1’ uomo assurse per la prima volta alla piena
consapevolezza del proprio essere, si svolge verso l’eternità; quanti,
tra gli uomini, furono grandi, buoni e saggi, i benefattori dell' umanità
i cui nomi leggo registrati nella storia del inondo, e i tanti i cui
meriti riman¬ gono, mentre i nomi sono dimenticati, tutti hanno lavorato
per me; io raccolgo i frutti delle loro fatiche; ricalco sulla via che
essi per¬ corsero le loro orme benefiche. Io posso, tosto che lo voglia,
ripren¬ dere 1’ ufficio altissimo che essi si erano proposto ; rendere ,
cioè, sempre più saggi e più felici i nostri fratelli ; posso continuare
a costruire là dove essi dovettero smettere; posso portare più
vicino al compimento il tempio magnifico che essi dovettero lasciare incom¬
piuto. — u Ma anch’ io dovrò smettere il [mio lavoro come essi „ , dirà
qualcuno — Oh ! questo è il pensiero più elevato di tutti. Se assumo
quell’ ufficio altissimo, non lo potrò mai portare a termine ; quanto è
certo che è mio dovere l’accettarlo, altrettanto è certo che Amiamo
sperare che la precedente esposizione della Dol/t'ina morale del Fichte
non riesca inutile per chi si accinga a leggere il volume, se non nella
lingua, nello stile del suo autore. Certo non tutti accetteranno integral¬
mente l’ardita metafisica ivi presupposta — che volentieri chiameremmo
Etilica come quella dello Spinoza e che è forse, per adoperare una felice
espressione del Barzel¬ letti (') , la più eroica presa di possesso che
mai mente umana abbia potuto fare, a un tempo, e del mondo delle
idee e del mondo della realtà — ma tutti*, senza dubbio, saranno colpiti
dalla originalità, profondità e finezza delle vedute psicologiche ivi
proiettate e analizzate con arte insuperabile, e in particolar modo dalla
nobiltà dei senti- non potrò mai cessare d’operare; quindi non
potrò mai cessare d’es¬ sere. Ciò che si suoi chiamare morte non può
interrompere 1’ opera mia; perchè l’opera mia dev’essere compiuta, e non
può essere com¬ piuta nel tempo ; perciò la mia esistenza non è limitata
nel tempo ed io sono eterno. Assumendo parte di quell’ufficio sommo, ho
fatto mia l’eternità. Sollevo fieramente il capo verso le rocce
minaccioso, verso le cascate spumeggianti, verso le nuvole velegginoti in
un oceano di fuoco , e dico : io sono eterno e sfido il vostro potere.
Ir¬ rompete tutti su di me, e tu, cielo, e tu, terra, precipitate in un
sel¬ vaggio tumulto, e voi tutti, o elementi, spumeggiate e
rumoreggiato e stritolate nella lotta selvaggia pur 1’ ultimo atomo del
corpo che io dico mio ; la mia volontà sola, col suo fermo proposito,
aleggerà ardita e fredda sopra le rovine dell’ universo , perchè io ho
assunto la mia missione, e questa è più duratura di voi : è eterna, e, al
pari di essa, sono eterno io „. (Einige Vorlesungen ilber din
Bcstimmung dea Gelehrten, 1794, Summit. Werke) — V. la traduz. frane, di
M. Ni¬ colas , De la destinatimi da savant et de l'liomine de lettres par
J. G. Fichte, Paris, De Ladrauge 1838; e la trad. ital. di E. Roncali,
con prefaz. di G. Vitali, G. A. Fichte, La missione del dotto,
Lanciano, Carabba, 1912. (') La Storia della Eiloso/ia
(estratto dalla Nuova Antologia, 1° gen¬ naio 1908) p. 2. menti ivi
espressi con forza sempre, e spesso con vivezza di colorito. Del resto
non c’è una sola opera del nostro filosofo che non elevi e non fortifichi
l’anima del lettore perchè i suoi seritti, .emanazione diretta delle più
intime e salde convinzioni, e la sua vii* di pensiero, rientrano
nel ciclo di quella vita d’azione che fa del Fichte una personalità
tipica, un represen latice man, direbbe 1* Emer¬ son. E invero egli
appartiene — come già affermammo (’) — all’eletta schiera di quegli eroi,
la cui apparizione nella storia diventa un possesso eterno per l’umanità,
e la memoria dei quali durerà quanto il mondo lontana. Il carattere
adamantino della sua figura morale, la quale è un’ unità altrettanto
solida quanto ben fusa, grazie alla più perfetta armonia tra idee pai-ole
e opere, risulta scul¬ toreamente espresso in questa solenne
dichiarazione, da lui fatta all’ inizio della sua carriera universitaria
: u Io sono un sacerdote della verità ; la mia esistenza è votela
al suo servizio; sono impegnato a tutto fare, tutto osare, tutto soffrire
per essa. Se per causa sua fossi perseguitato e odiato, se dovessi anche
morire, che farei di straordi¬ nario? nulla più che il mio assoluto
dovere „ ( ! ). Parole, queste, che spiegano bene il poderoso influsso,
spiritual- mente rigeneratore, esercitato dal Fichte sui suoi
conna- ziouali e contemporanei, influsso che , propagandosi nello
spazio e nel tempo, ha suscitato e susciterà sempre su¬ blimi emozioni e
risoluzioni virili in mille e mille anime, (') Cfr. prec. Einiye
Vorlesungen iiber die Bestini muny (Ics Gelehrten 1794 (Sdmmtl. Werke,
VI, pp. 333-334). che pur non udirono mai la voce di lui (’). Costante
mia- * sione di questo eminente spirito fu : destare negli uomini
il senso della divinità della propria natura, fissare i loro pensieri
sopra una vita spirituale come l’unica e*vera, insegnar loro a guardare a
qualcos’ altro che la pura ap¬ parenza e irrealtà e guidarli così allo
sforzo tenace verso i più alti ideali di purezza, abnegazione, giustizia,
solida¬ rietà e libertà. (') Questa infinita risonanza di
idee, sentimenti e propositi, at¬ traverso le generazioni, nel tempo e
nello spazio, questa immensa simpatia e solidarietà umana — che eccelle
tra i principi fondamen¬ tali della dottrina liclitiana — era
profondamente sentita dal Fichte stesso, come può rilevarsi anche dalla
seguente bella pagina con cui si chiude la seconda conferenza sulla
Missione del Dotto (1794) : “ Ognuno può dire : chiunque tu sia, tu che
hai sembianze umane , sei un membro di questa grande comunità; sia pure infinito
il nu¬ mero di quelli che stauuo tra me e te, io so, nondimeno, che il
mio influsso giungerà sino a te , e il tuo sino a me ; chiunque porti
sul viso, per quanto rozzamente espressa, l’impronta della ragione,
non esiste invano per me. Ma io non ti conosco, nè tu conosci me.
Oh! quanto è corto che ambedue siamo chiamati a esser buoni e a
dive¬ nire sempre migliori, tanto è certo che verrà il giorno, e sia
pure tra milioni e bilioni d’ anni (che è mai il tempo ?), verrà il
giorno, dico, in cui trascinerò anche te nella mia sfera d’azione, in cui
potrò beneficarti e ricevere benefizi da te, in cui anche il tuo cuore
sarà avvinto al mio coi viucoli, i più belli, di un libero scambio di
reci¬ proche azioni! „ (Siimmtl. Werke, (VI, p. 311). Cleto Carbonara.
Keywords: l’esperienza e la prattica, esperienza, dull title: “l’empirismo come
filosofia dell’esperienza”! – i periti conversazionale – esperienza dell’altro,
persona e persone – solipsism, anti-solipsismo – esperienza, sperimento,
esperire, perito, perizia, per, fare, fahren, --. altri, altro, l’altro,
l’altri, la filosofia pratica, etica e diritto, la filosofia pratica di
Giovanni Amedeo Fichte, il pratico e l’aletico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Carbonara” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carbone: l’implicatrua
conversazionale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo
italiano. Grice: “I love Carbone; my favourite of his tracts are on the
‘unexpressible’ – a contradictio in terminis – and on ‘the flesh and the voice’
– but the favourite-favourite are his tract on ‘il bello’ (‘eidos ed eidolon’)
and even more, his “La dialettica”. Si
laurea a Bologna con “Marxismo: i soggetti nella storia". Studia a Padova.
Insegna a Milano. Opere: Condannàti alla libertà, adattamento teatrale del
romanzo di Sartre L'età della ragione, che è stato messo in scena in quello stesso
anno. Fonda a Pisa con il sostegno del Leverhulme Trust un
Programma di ricerca sulla filosofia, concentrandolo
su alcune delle sue figure più importanti e sulle parole-chiave: l'essere, la
vita, il concetto». Dirige la collana f«L'occhio e lo spirito. Estetica,
fenomenologia, per Mimesis Edizioni. Si
concentra sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, indagandone il duplice ma
unitario significato estetico di riflessione filosofica sull'esperienza
percettiva e sull'esperienza artistica attraverso l'esame del parallelo
interesse manifestato da Merleau-Ponty per Cézanne e Proust. Tale indirizzo di
studi si è allargato dapprima a una più vasta considerazione della
fenomenologia e poi a quella del pensiero post-strutturalistico sviluppatosi in
Francia, pur mantenendosi imperniato sul parallelo interesse per la riflessione
filosofica sulla pittura e sulla letteratura moderne. Questo ampliamento ha
inoltre condotto gli studi ad affrontare tematiche di carattere gnoseologico e
ontologico, spingendolo anche a problematizzare il tradizionale rapporto tra la
filosofia e la "non filosofia". Tli orientamenti hanno trovato sbocco
in una riflessione sul peculiare statuto delle immagini nella nostra epoca,
sulle possibili implicazioni etico-politiche del rapporto con esse e sulla
dimensione ontologica dell'"essere in comune" (morire insieme,
dividualita, dividuo). che in tali implicazioni troverebbe espressione. Cura Merleau-Ponty
(Il visibile e l'invisibile; Linguaggio Storia Natura, La Natura, È possibile
oggi la filosofia? Saggi eretici sulla filosofia della storia) e Cassirer -- Eidos
ed eidolon, il bello. Influenzato prevalentemente
da Merleau-Ponty, di cui ha sviluppato in maniera teoreticamente personale
alcune nozioni. Tra queste, spicca il concetto di "idea sensibile",
intesa quale essenza che s'inaugura nel nostro incontro col sensibile e da
questo rimane inseparabile, sedimentandosi in una temporalità retroflessa --"tempo
mitico". Alla prima di queste nozioni è dedicato il dittico “Ai confini
dell'esprimibile” e “Una deformazione senza precedente: la idea sensibile Porta
a sintesi le implicazioni filosofiche delle nozioni sopra citate nel concetto
di "de-formazione senza precedenti", con cui egli intende
caratterizzare il peculiare statuto che a suo avviso la de-formazione assume
nell'arte, al fine di staccarsi dal principio imitativo della rappresentazione
e dunque dalla concezione del modello inteso quale “forma” preliminarmente
data. Alle nozioni sopra menzionate si è andata successivamente collegando
quella di "precessione reciproca" tra l’immaginario e il reale che
Carbone ha proposto di dar conto del prodursi della peculiare temporalità
retroflessa detta "tempo mitico". Cerca di sviluppare le implicazioni
etico-politiche della concezione della memoria legata all'idea di
"deformazione senza precedenti" nella sua riflessione sue venti di
cui ha sottolineato l'irriducibile carattere visivo indagandolo pertanto
mediante un approccio anzitutto estetico. Cerca le radici ontologiche di tali
implicazioni etico-politiche della filosofia, proponendo le nozioni di
"a-individuale" e di "dividuo" per sottolineare
l'intrinseco carattere re-lazionale (e dunque il divenire e la divisibilità) di
ogni identità. Altre opere: “Ai confini
dell'esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Milano,
Guerini e Associati); Il sensibile e l'eccedente. Mondo estetico, arte,
pensiero, Milano, Guerini e Associati); Di alcuni motivi in Marcel Proust,
Milano, Libreria Cortina); La carne e la voce. In dialogo tra estetica ed
etica, Milano, Mimesis); Essere morti insieme (Torino, Bollati Boringhieri). Sullo
schermo dell'estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare, Milano,
Mimesis). Una deformazione senza precedenti. la idea sensibile, Macerata,
Quodlibet). Wikipedia Ricerca Mereologia Lingua
Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento concetti e
principi filosofici è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le
convenzioni di Wikipedia. In filosofia la mereologia (composizione del
grecoμέρος, méros, "parte" e -λογία, -logìa, "discorso",
"studio", "teoria"[1]) è uno dei "cosiddetti"
«sistemi di Leśniewski»[2], ossia è la teoria, o scienza[2], delle relazioni
parti-tutto[3]; presentata da Achille Varzicome teoria «delle relazioni della parte
al tutto e da parte a parte con un tutto»[4] (o «teoria delle parti e
dell'intero»[5]), da Hilary Putnam come «"il calcolo delle parti e degli
interi"»[6] e da Claudio Calosi come la «teoria formale delle parti e
delle relazioni di parte»[7]. Per Maurizio Ferraris tale relazione
parte-interopuò essere tra oggetti concreti, regioni spazio-temporali, processi
(parti temporali), eventi e oggetti astratti.[8] Storia Modifica Lo
studio delle parti affonda le sue radici nelle speculazioni filosofiche dei
presocratici, per poi essere portato avanti da Platone, Aristotele e Boezio. Di
grande importanza nello sviluppo della mereologia furono anche i contributi di
numerosi filosofi medievali, tra i quali Tommaso d'Aquino, Pietro Abelardo ed
Guglielmo di Occam. Nel periodo illuminista, anche Kant e Leibniz si interessarono
a quest'ambito. Tuttavia, la diffusione della mereologia in età contemporanea
si dovette a Franz Brentano e ai suoi studenti, in particolare Husserl, assieme
al primo vero tentativo di avviarne un'analisi attraverso strumenti
formali.[4] Stanisław Leśniewski creò il termine mereologia per
denominare la teoria (che gli si presentò tramite un ragionamento di
Husserl[6]) delle relazioni tra le parti e il tutto a partire dalla
differenziazione — il cui principale fine era "evitare" l'antinomia di
Russell[2]— tra interpretazione distributiva (un oggetto come elemento di una
classe) e interpretazione collettiva (un oggetto come parte di un intero) dei
simboli di classe. Leśniewski, parzialmente influenzato da Alfred Whitehead,
elaborò poi la teoria in un sistema assiomatico deduttivo entro cui poter
esprimere il calcolo proposizionale e il calcolo delle classi[3]. I
sistemi di Leśniewski Modifica Anche se cronologicamente è il primo dei sistemi
di Leśniewski la mereologia contiene gli altri due: la prototetica
(scienza delle tesi più originarie, fondamentali ..le «prototesi») che è una
logica proposizionale con l'equivalenza come unico termine primitivo, la
proposizione come categoriafondamentale (ammettente la quantificazione per le
proposizioni e i funtori di qualunque categoria), un solo assioma, e delle
regole di separazione, sostituzione, definizione, separazione dei
quantificatori e di estensionalità. l'ontologia così denominata per la presenza
del funtore indicato con ε «preso nel suo senso esistenziale» (non indica
l'appartenenza insiemistica), essa è derivante dalla prototetica ed è anche
denominata «calcolo dei nomi» poiché gli è aggiunta la categoria dei nomi. Con
la mereologia si presenta una differente definizione d'insieme. Esso non è
definito distributivamente ma collettivamente(mereologicamente): l'insieme è
una concreta totalità di elementi, un aggregato e dunque un oggetto fisico
composto di parti, che è solo se, e finché, esse sono (v. dipendenza
ontologica[8]). Da ciò risultano varie differenze dalla "normale"
teoria degli insiemi tra le quali che in mereologia è "insensato"
ammettere l'esistenza di un insieme vuoto; indi insiemi di un solo elemento
sono tale elemento e la proprietà, unico termine primitivo della mereologia, di
«essere un elemento» è transitiva e antisimmetrica e riflessiva.[2][9]
Assiomi e definizioni Modifica Il fondamento concettuale alla base della
mereologia è la nozione di parte. In generale, nelle lingue naturali con
«parte» si intende una porzione costitutiva di un oggetto, gruppo o situazione.
Si può dire, ad esempio, che «la maniglia è parte della porta», che «il Gin è
parte del Martini», che «il cucchiaio è parte dell'argenteria» o che «il
calciatore è parte della squadra». Tuttavia, nell'ambito della mereologia si cerca
di seguire un impianto nominalista definendo questa nozione in termini
puramente logici, prendendo in esame le relazioni tra gli oggetti senza entrare
nel merito di eventuali considerazioni ontologicheriguardo questi ultimi. Di
conseguenza, la relazione di parte si può applicare anche a concetti più
astratti, come ad esempio nelle frasi «la razionalità è parte dell'essere
umano» o «la lettera 'c' è parte della parola 'cane'». Assiomi
fondamentali Modifica La nozione mereologica di parte può essere formalizzata
mediante il linguaggio della logica del primo ordine come un predicato,
solitamente indicato con P. Un'espressione del tipo {\displaystyle Pxy} dunque
si legge «x è parte di y». Per convenzione, questo predicato è concepito come
una relazione binaria che gode di tre proprietà fondamentali: il principio
della riflessivitàdella nozione di parte (Rp), il principio dell'antisimmetria
della nozione di parte (aSp) e il principio di transitività della nozione di
parte (Tp). (Rp) ogni cosa è parte di se stessa {\displaystyle (\forall
x)(Pxx)}, (aSp) per ogni x e y distinti, se x è parte di y, allora ynon è parte
di x {\displaystyle (\forall x)(\forall y)(Pxy\land x\neq y\rightarrow \neg
Pyx)}, (Tp) per ogni x, y e z, se x è parte di y e y è parte di z, allora x è
parte di z {\displaystyle (\forall x)(\forall y)(\forall z)(Pxy\land
Pyz\rightarrow Pxz)}.[9][4] In altri termini, la relazione di parte è un ordine
parzialelargo. Nonostante bastino solo questi assiomi per porre le fondamenta
della mereologia standard (o sistema M), si possono definire ulteriori concetti
a partire dal predicato P. Di seguito sono riportati quelli più
frequenti: Uguaglianza {\displaystyle EQxy:=Pxy\land Pyx} (x e y sono
uguali se sono uno parte dell'altro), Parte propria {\displaystyle
PPxy:=Pxy\land \neg (x=y)} (x è una parte propria di y se è parte di y ma è
distinto da esso), Sovrapposizione {\displaystyle Oxy:=(\exists z)(Pzx\land
Pzy)} (x è sovrapposto a yse c'è una parte di x che è anche parte di y),
Disgiunzione {\displaystyle Dxy:=\neg Oxy} (x è disgiunto da y se non ha
sovrapposizioni con esso). In particolare, la nozione di parte propria descrive
un ordine parziale stretto (irriflessivo, asimmetrico e transitivo) a
differenza del suo corrispondente primitivo, mentre la sovrapposizione è
riflessiva, simmetrica ma non necessariamente transitiva. È anche possibile
ridefinire il concetto di parte in termini di parte propria: {\displaystyle
Pxy:=PPxy\lor x=y}, ovvero x è parte di y quando è parte propria di y oppure
quando è identico a y. Decomposizione e composizione Modifica Per
disporre di una teoria mereologica che sia realmente in grado di rendere conto
dell'uso del termine «parte» in maniera adeguata, occorre imporre ulteriori
restrizioni sull'ordine parziale P. Nello specifico, vi sono due tipologie di
principi aggiuntivi: quelli di decomposizione (che ragionano dall'intero alle
parti) e quelli di composizione (che ragionano dalle parti all'intero).
Tra gli assiomi di decomposizione, il principio di supplementazione debole (o
WSpp) afferma che nessun intero può avere una singola parte propria. Ciò
risponde all'intuizione comune secondo la quale se un intero possiede una parte
propria, allora deve averne almeno anche un'altra, che costituisce il
rimanente. In simboli si ha che: (WSpp) {\displaystyle PPxy\rightarrow
(\exists z)(Pzy\land \neg Ozx)}, ovvero se x è una parte propria di y, allora
esiste (almeno) un zche è parte di y ma non è sovrapposto ad x. Similmente, il
principio di supplementazione forte (o SSp) prevede che un se y non è parte di
x, allora y ha una parte che non è sovrapposta a x. In simboli: (SSpp)
{\displaystyle \neg Pyx\rightarrow (\exists z)(Pzy\land \neg Ozx)}. Una
conseguenza logica del principio di supplementazione forte è l'estensionalità
(Exp). Questa importante proprietà afferma che due oggetti non possono essere
differenti se hanno le stesse parti proprie, o, in maniera equivalente, se due
oggetti hanno le stesse parti proprie, allora sono lo stesso oggetto. In
simboli: (Exp) {\displaystyle x=y\rightarrow (\forall
z)(PPzx\leftrightarrow PPzy)}. Un sistema mereologico che accetta, oltre agli
assiomi fondametali di M, anche i principi di supplementazione debole,
supplementazione forte ed estensionalità è detto mereologia estensionale (o
EM). Considerazioni ulteriori, che però non fanno riferimento al
significato della nozione di parte, possono includere l'idea che esista un
oggetto privo di parti proprie, ovvero l'atomismo, oppure l'idea che, al
contrario, ogni cosa ha parti proprie, o simili, come la proprietà della
densità, che nega l'esistenza di parti proprie immediate. Atomismo
{\displaystyle (\forall x)(\exists y)(Pyx\land \neg (\exists z)(PPzy))}
Infinitismo {\displaystyle (\forall x)(\exists y)(PPyx)} Densità {\displaystyle
(\forall x)(\forall y)(PPxy\rightarrow (\exists z)(PPxz\land PPzy))} Tra
gli assiomi di composizione, il principio di somma mereologica o fusione
formalizza l'idea esistano degli interi composti esclusivamente ed esattamente
da un certo numero di parti. Ad esempio, la Spagna e il Portogallo compongono
la Penisola Iberica (o, in maniera equivalente, la Penisola Iberica è la somma
mereologica di Spagna e Portogallo). Di contro, la mano destra e la mano
sinistra non compongono il corpo umano, poiché quest'ultimo possiede anche
altre parti (gli occhi, il naso, i piedi, ecc.). Nei casi che, come in
quest'esempio, prevedono solo due parti la somma mereologica può essere
definita come segue: {\displaystyle Szxy:=Pxz\land Pyz\land (\forall
w)(Pwz\rightarrow (Owx\lor Owy))}(ovvero z è la somma mereologica di x e y se x
e ysono parte di z e ogni parte di z è sovrapposta a x o y) Si tratta di un
principio controverso, soprattutto se le parti che compongono la somma sono
potenzialmente infinite e non soltanto due. È infatti possibile generalizzare
tale definizione per indicare una somma di infinite parti: {\displaystyle
Sz\varphi x:=(\forall x)(\varphi x\rightarrow Pxz)\land (\forall
w)(Pwz\rightarrow (\exists x)(\varphi x\land Owx))}, dove φ indica una generica
proprietà. Vi sono almeno tre possibili posizioni che si possono assumere nei
confronti dell'esistenza somma mereologica: Nichilismo mereologico Non
esistono somme mereologiche, e anche gli oggetti che a prima vista sembrano
composti sono in realtà semplici. In altri termini, utilizzando un'immagine già
evocata da Peter van Inwagen, non esiste il tavolo, ma esistono solo atomi
disposti a forma di tavolo.[10] Per un nichilista mereologico la Spagna e il
Portogallo non compongono la Penisola Iberica allo stesso modo di come la mano
destra e la mano sinistra non compongono il corpo umano, perché né la Penisola
Iberica né il corpo umano esistono (in senso mereologico, perlomeno).
Moderatismo Le somme mereologiche esistono soltanto in determinati casi e solo
qualora vengano soddisfatte determinate circostanze. Un moderatista potrebbe
ammettere che la Spagna e il Portogallo compongano la Penisola Iberica in virtù
di qualche proprietà di queste parti, ma negare che la mano destra e quella
sinistra compongano qualcosa. Universalismo Le somme mereologiche esistono in
tutti i casi, anche qualora non sembri possibile a prima vista. Per un
universalista qualsiai insieme di oggetti, ancorché totalmente differenti,
compone qualcosa. Non soltanto, dunque, la Spagna e il Portogallo compongono la
Penisola Iberica, ma anche la mano destra e quella sinistra compongono una
somma, benché non esista un termine per riferirsi ad essa. La nozione di somma
mereologica, assieme a quella di prodotto mereologico,[11] costituisce la base
della mereologia estensionale classica (o CEM). Note Modifica ^ -Logia,
in Treccani.it – Vocabolario Treccanion line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. URL consultato il 2 giugno 2014. ^ a b c d Francesco Coniglione ^ a b
Leśniewski, Stanisław, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. ^ a b c d Achille Varzi ^ Achille Varzi, Ontologia
e metafisica ( PDF ), in Franca D’Agostini e Nicla Vassallo (a cura di), Storia
della Filosofia Analitica, Torino, Einaudi, Putnam ^ Carlo Calosi (2011), p.
24. ^ a b Maurizio Ferraris ^ a b Giuliano Torrengo ^ Peter van Inwagen,
Material Beings, New York, Cornell University Press, Ithaca, Varzi (2014) per
una definizione di prodotto mereologico. Cotnoir e Achille Varzi, Mereology,
Oxford, Oxford University Press, 2021. Giorgio Lando, Mereology: A
Philosophical Introduction, Londra, Bloomsbury Publishing, 2017. ( EN ) Achille
Varzi, Mereology, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, primavera 2014,
Stanford, Edward N. Zalta, Calosi, Mereologia, in APhEx (Analytical and
Philosophical Explanation), , Lezione 2 - In difesa della relatività
concettuale., in Etica senza ontologia, tr. it. di Eddy Carli, prefazione di
Luigi Perissinotto, Milano, Paravia Bruno Mondadori Editori, Coniglione, 2.2.8.
I contributi in campo logico, in Nel segno della scienza: la filosofia polacca
del Novecento, Milano, FrancoAngeli, Torrengo, 2.6.5. Parte-intero, in Maurizio
Ferraris (a cura di), Storia dell'ontologia, Milano, Bompiani, Ferraris,
Glossario, in Ontologia, Napoli, Guida, Voci correlate Modifica Logica
Ontologia Collegamenti esterni Modifica ( EN ) Achille Varzi, Spatial reasoning
and ontology: parts, wholes, and locations ( PDF ), in M. Aiello, I.
Pratt-Hartmann, e J. van Benthem (a cura di), Handbook of Spatial Logics, Berlino,
Springer-Verlag, Varzi, Ontologia ( PDF ), in SWIF - Edizioni Digitali di
Filosofia, Volume Supplementare 2, Roma, Università degli Studi di Bari , 2005,
ISSN 1126-4780 (WC · ACNP). URL consultato il 03/06/2014(archiviato dall' url
originale il 31 luglio 2013). Francesca Bosco, La Fundierung nella Terza
ricerca logica di Husserl, in Dialegesthai, Roma. Portale Filosofia: accedi
alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 18 giorni fa
di FrescoBot Quantificatore Rappresentabilità Geometria senza punti Wikipedia
Il contenuto èMauro Carbone. Keywords: mereologia, organicismo in Hegel,
il tutto e le parti, dialettica, “individuo e dividuo”, divisio, visio,
compositio, de-compositio, divisum, indivisum -- eidos, forma, shape, il bello,
essere en comune, mit-sein, l’impersonale, l’intrapersonale, l’interpersonale –
tutto, parte, tutto-parte, totum-pars, unita, a-tomon, a-tomism, atomismo
logico. tomismo logico, il tutto e le parti -- #DialetticaDegl’EntrambiDividui --
-- --. Merleau-Ponty ‘linguaggio’, individuus, dividuus, dividuo -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carbone” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carboni: l’implicatura
conversazionale disegno dal vivo, disgeno del nudo dal vero, disegno dal vero,
disegno del nudo dal vero -- disegno dall’antico, desegno dalla natura -- drawn
from life -- tratto dalla vita – royal academy –drawn from the antique -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Livorno). Filosofo italiano. Grice: “I
love Carboni – my favourite of his tracts is ‘between the image and the
‘parable’” – a semiotics of communication with sections on ‘the tacit
response,’ through the looking-glass’, ‘towards the hypertext,’ and quoting extensively
from some ‘conversational-implicature’ passages in Aristotle’s metaphysics, ‘To
ask ‘why is man man?’ is to ask nothing!” “For some expressions, analogy
suffices!” Insegna a Roma, Bari, Viterbo.
Altre opere: L’angelo del fare. Melotti e la ceramica (Skira) e Il colore
nell’arte (Jaca). Cura Dorfles, Brandi,
Deleuze, Guattari, Adorno. Tra le recensioni dei suoi saggi si segnalano:
Giacomo Marramao, Gianni Vattimo (“L’Espresso”), Gillo Dorfles (“Il Corriere
della Sera”), Victor Stoichita (“il manifesto”). Al Festival delle Letterature
di Mantova hanno presentato i suoi saggi Sini
e Didi-Huberman. Scrive su “Nòema” e “Images Re-vues” e sulla “Rivista di
Estetica”. “L’Impossibile Critico. Paradosso della
critica d’arte, Kappa); “Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori
Riuniti); “Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi);
“Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento,
Castelvecchi); “L’ornamentale. Tra arte e decorazione, Jaca); “L’occhio e la
pagina. Tra immagine e parola, Jaca); “Lo stato dell’arte. L’esperienza
estetica nell’era della tecnica, Laterza); “La mosca di Dreyer. L’opera della
contingenza nelle arti, Jaca); “Di più di tutto. Figure dell’eccesso,
Castelvecchi); “Analfabeatles. Filosofia di una passione elementare,
Castelvecchi); “Il genio è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee”
Jaca); “Malevič. L'ultima icona. Arte, filosofia, teologia, Jaca). Drawing after the Antique at the British Museum,
1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State, Martin
Myrone Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art
Education and the Advent of the Liberal State Martin Myrone Abstract From 1808
the British Museum in London began regularly to open its newly established
Townley Gallery so that art students could draw from the ancient sculptures
housed there. This article documents and comments on this development in art
education, based on an analysis of the 165 individuals recorded in the
surviving register of attendance at the Museum, covering the period 1809–17.
The register is presented as a photographic record, with a transcription and
biographical directory. The accompanying essay situates the opening of the
Museum’s sculpture rooms to students within a farreaching set of historical
shifts. It argues that this new museum access contributed to the early
nineteenth-century emergence of a liberal state. But if the rhetoric
surrounding this development emphasized freedom and general public benefit in
the spirit of liberalization, the evidence suggests that this new level of
access actually served to further entrench the “middleclassification” of art
education at this historical juncture. Authors Martin Myrone is an art
historian and curator based in London, and is currently convenor of the British
Art Network based at the Paul Mellon Centre for Studies in British Art.
Acknowledgements The register of students admitted to the Townley Gallery was
originally consulted during my term as Paul Mellon Mid-Career Fellow in
2014–15. Thank you to Mark Hallett and Sarah Victoria Turner of the Mellon
Centre for their continuing support and guidance, to Baillie Card and Rose Bell
for their careful editorial work, Tom Scutt for crafting the digital presentation
of my research, the two anonymous readers for their valuable critical input,
and to Antony Griffiths, formerly of the British Museum, and Hugo Chapman,
Angela Roche, and Sheila O’Connell of the British Museum, for providing access
to the register and for their advice. I am especially indebted to Mark Pomeroy,
archivist, and his colleagues at the Royal Academy of Arts for the access
provided to materials there and for advice and suggestions. I would also like
to thank Viccy Coltman, Brad Feltham, Martin Hopkinson, Sarah Monks, Sarah
Moulden, Michael Phillips, Jacob Simon, Greg Sullivan, and Alison Wright. Cite
as Martin Myrone, "Drawing after the Antique at the British Museum,
1809–1817: “Free” Art Education and the Advent of the Liberal State",
British Art Studies, Issue 5,
https://dx.doi.org/10.17658/issn.2058-5462/issue-05/mmyrone From the summer of
1808 the British Museum in London began regularly to open its newly established
galleries of Graeco-Roman sculpture for art students. The collection, made up
almost entirely of pieces previously owned by Charles Townley, had been
purchased for the nation in 1805 and installed in a new extension to the
Museum’s first home, Montagu House, which was built earlier in 1808. After some
protracted discussion with the Royal Academy, detailed below, the collection
was made available for its students in time for the royal opening of the
Townley Gallery on 3 June 1808. From January 1809, a written record was kept of
students admitted to draw from the antique. This volume survives in the library
of the Department of Prints and Drawings at the British Museum and identifies
one hundred and sixtyfive separate individuals admitted through to 1817. 1 The
register forms the focus of this essay and is presented here as a facsimile and
transcription, with an accompanying directory of student biographies (see
supplementary materials below). This may be taken as a straightforward
contribution to the literature on early nineteenth-century art education, and
the author hopes it may be useful as such. However, it also situates the
opening of the Museum’s sculpture rooms to students within a rather more
far-reaching set of historical shifts. Namely, it argues that this new form of
museum access was part of the early nineteenth-century emergence of a liberal
state that “actively governs through freedom (free ‘individuals’, markets,
societies, and so on, which are only ‘free’ because the state makes them so)”.
2 Access to the British Museum was “free” in that there were no charges or fees.
Meanwhile, the arrangement offered a degree of freedom to the students
themselves; they were expected to be largely self-selecting and
self-regulating. When the arrangement was exposed to public scrutiny, as a
result of questions asked in parliament in 1821, the freedom of access and the
service this did to the public good were emphasized. But, once closely
scrutinized, the evidence suggests that this manifestation of the freedoms
encouraged by the liberal state had a social disciplinary role (even if disciplinary
function can hardly be recognized as such), in serving to further entrench the
“middle-classification” of art at this historical juncture. 3 The conjunction
of art education and a grandiose notion such as the liberal state may be
unexpected, and rests on three key assertions. The first is that art worlds are
structured and in their structure have a homological relationship with the
larger social environment. 4 The initial part of this statement (that art
worlds are structured) may not be especially hard to swallow, given the
relatively formalized and hierarchical nature of the London art world during
the early nineteenth century, when cultural authority was vested in a small
number of institutions, and the practices associated with academic tradition in
principle still held sway. However, that the structure of the art world, in its
hierarchical dimension, may also be homologically related to the larger field
of power, so that social relationships are reproduced within this relatively
autonomous sphere, is more clearly contentious, and runs contrary to
commonplace beliefs and expectations about talent and luck in determining
personal fate in the modern age—artists’ fortunes most especially. In fact, in
the period under review here, the artist became an exemplary figure in the new
narratives of social mobility: the art world came to serve as a model of how
talent or sheer good fortune could override social origins and destinies. 5 The
second assertion is that the Royal Academy and British Museum were developing
new forms of state institution, underpinned by the conjoined principles of
freedom of access and public benefit. Such has been argued importantly by
Holger Hoock, and while I depart from his arguments in some key regards, his
insights into the status of these institutions and the role of forms of
public–private partnership in their formation are crucial. 6 The third
assertion (and this marks a departure from Hoock), is that the state is not a
stable, centralized entity, or site of power either “up above” or “below”
historical actors. Instead, it is taken to be the sum of actions and
dispositions ostensibly volunteered by these historical agents in all their
multitude and variety. The crucial point of reference here is the sustained
body of work on the liberal state by the historian Patrick Joyce, deploying the
work of Bruno Latour and Michel Foucault, among others, to yield a more
materialistic and decentralized understanding of the emergence and role of
state bodies. 7 The state, in this view, is composed of technologies,
disciplinary structures, habits of mind, and ways of doing things. The
mechanics of art education, insofar as this involves the movement through or
exclusion of individuals from identified places, the arrangement of their bodies
in relation to one another and to their model, the management of their
behaviour within those places, the very motion of their bodies, hands, and eyes
under the surveillance of their peers, teachers or other authorities, may be
considered as a form of biopolitics; the student who entered his or her name
into the British Museum’s register of admission was producing his or her
governmentality. 8 The argument here is emphatically historical and states that
this arrangement, while it may have precedents and may have been seminal,
belongs to an historical moment—the emergence of the liberal state. My case,
which can be sketched out only in outline in this context, is that the
emergence of the familiar institutional arrangements of the modern art world
between the 1770s and the 1830s (in the form of actual institutions and
regulatory structures or permissions, including annual exhibitions, centralized
art schools supported by the state directly and indirectly, emphasis on
quantifiable measures of access and engagement as the test of public value, and
so forth) represents in an exemplary way the illusory freedoms promoted by
liberalism, and renewed by present-day “neo- liberalism”, as addressed by
commentators from the prophetic Karl Polanyi through to the later work of
Foucault and Bourdieu on the state, and Luc Boltanski and Eve Chiapello, among
others. 9 The early nineteenth-century art world can be proposed as a
privileged focus of attention because it was still of a scale which can allow
for the kinds of data-based analysis which must underpin any sort of
sociological exploration, and because its individual membership can be
documented in fine detail in a manner which is simply not possible at an
earlier historical date. Paradoxically, despite its announced commitment to
non-intervention and personal freedom, the emerging liberal state generated
huge amounts of documentation about society and its individual members—tax
records, parochial and civil records, the national census from 1801—which
digitilization has made more readily available than ever before, allowing this
generation of artists to be documented as never previously. 10 The production
of artistic identities through these records is not unrelated to changes in
artistic identity itself over the same timeframe. One way of realizing this
might be to consider the period outlined above—c. 1770–1830s—not as a period
from the foundation of the Royal Academy to its removal to Trafalgar Square, or
even as the era of Romanticism, as much literary and cultural history-writing
would dictate, but as the era from Adam Smith’s Wealth of Nations (1776) to the
Reform Act (1832) and the Speenhamland system, a last experiment in patrician
social care before the Poor Law Amendment Act (1834), taking in Thomas Malthus
and David Ricardo. The challenge is thinking of these two frameworks not in
sequential or spatially differentiated ways, but as simultaneous and identical.
Within this emerging liberal state the figure of the artist is attributed with
a special degree and form of freedom, what has conventionally been alluded to,
in generally sociologically imprecise ways, as a feature of “Romanticism”,
slumping into “bohemianism” and a generic idea of art student lifestyle. If
this was a moment of unprecedented state investment in the arts (from the Royal
Academy through to the Schools of Design) and government scrutiny (notably with
the Select Committees), it simultaneously saw the emergence of artistic
identities expressing the values of personal freedom, freedom from regulation, and
even active opposition to the state. I propose that art education, as it took
shape in the emerging liberal state, might be explored as a “liberogenic”
phenomenon: among those “devices intended to produce freedom which potentially
risk producing exactly the opposite.” 11 As such, it may have renewed
pertinence for our own time, although this does not entail seeing a “causal”
relationship between the past and present, or a linear genetic relationship
between then and now. In fact, the purpose of this commentary, and the larger
project it arises from, 12 is rather to trouble our relationship with that
past. The intention is not, however, to point unequivocally to the era under
consideration as here entailing “the making of a modern art world”, with the rise
of art education and museums access representing a stage towards
democratization, as illuminated in stellar fashion by the great Romantic
artists (J. M. W. Turner—famously the son of a lowly London
barber—pre-eminently). I would want instead to take seriously Jacques
Rancière’s call for “a past that puts a radical requirement at the centre of
the present”, eschewing causality and “nostalgia” in favour of “challenging the
relationship of the present to that past”. 13 If giving attention to the
“freedom” of art education at the advent of the liberal state provides any
insight at all, it should do so by troubling rather than affirming our
narratives of the genesis of a modern art world. Access to the Townley Gallery
The arrival at the Museum of the Townley marbles, together with the development
of the prints and drawings collection and its installation in new, secure rooms
in the same wing, fundamentally changed the character of the institution. As
Neil Chambers has noted, having been primarily a repository of (often
celebrated) curiosities of many different forms, quite suddenly “The Museum was
now a centre for art and the study of sculpture.” 14 The shift was acknowledged
internally at the Museum by the creation in 1807 of a distinct Department of
Antiquities, which also had responsibility for the collection of prints and
drawings. But while the significance of the opening of the Townley Gallery in
the history of the British Museum is clear, the opening of the collection to
students has barely been noticed in the art-historical literature. The register
has been overlooked almost entirely, and the relevance of this development in
student access may not even be immediately obvious. 15 Figure 1. William
Chambers, The Sculpture Collection of Charles Townley in the dining room of his
house in Park Street, Westminster, 1794, watercolour, 39 x 54 cm. Collection of
the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum
Figure 2. Attributed to Joseph Nollekens, The Discobolus, 1791–1805, drawing, 48
x 35 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees
of the British Museum Townley’s collection had already famously been on display
for many years at his private house in Park Street, London. William Chambers’
(or Chalmers’) drawing of the Park Street display from 1794 includes a
well-dressed young woman drawing under the supervision or advice of a man,
promoting the idea that the collection was available for sufficiently genteel
students of the art more generally (fig. 1). In his recollections of the London
art world, J. T. Smith described “those rooms of Mr Townley’s house, in which
that gentleman’s liberality employed me when a boy, with many other students in
the Royal Academy, to make drawings for his portfolios”. 16 Smith’s former
employer, the sculptor Joseph Nollekens, has been identified among the more
established artists who were also engaged by Townley to draw from marbles in
the collection (fig. 2). As Viccy Coltman has noted, “The townhouse at 7 Park
Street, Westminster became an unofficial counterpoint to the English arts
establishment that was the Royal Academy: as an academy of ancient sculpture,
much as Sir John Soane’s London housemuseum in Lincoln’s Inn Fields would
become an academy of architecture in the early 19th century.” 17 Evidently, a
number of the students and artists admitted to draw from the Townley marbles
once they were at the British Museum knew them formerly at first hand from
visiting 7 Park Street; for instance, William Skelton, admitted to draw at the
Museum in 1809, had apparently already studied and engraved three busts from
the collection for inclusion in the design of Townley’s visiting card (fig. 3).
Townley had hoped for a separate gallery to be erected to house the collection,
but his executors, his brother Edward Townley Standish and uncle John Townley
were unable to agree a plan. 18 The sale of the collection to the Museum was a
compromise. With the erection of a new gallery space for the collection
underway, the Museum considered how special access might be given to artists.
That the question was posed at all should be an indication of how far the realm
of cultural consumption and production was being folded in to the emerging
liberal state at this juncture. At a meeting of the Trustees on 28 February
1807, a committee was set up to consider how the prints and drawings
collections might be used by artists, and to draw up “Regulations... for the
Admission of Strangers to view the Gallery of Antiquities either separately
from, or together with the rest of the Museum: And also for the Admission of
Artists”. 19 Figure 3. William Skelton, Charles Townley's visiting card,
1778–1848, etching, 65 x 96 cm. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of Trustees of the British Museum With the Gallery still under
construction, the Sub-Committee was not obliged to move quickly, and it proved
to be a protracted and unexpectedly fractious affair. 20 It was not until the
Museum’s general meeting of 13 February 1808, that the principal librarian, Joseph
Planta, reported “his opinion of the best time & mode of admission of
Strangers as well as artists, to the Gallery of Antiquities”, with the request
that Benjamin West, President of the Royal Academy, be asked to attend a
further meeting. 21 After delays, he did so on 10 March, after which the
Council drew up a set of regulations. 22 These went back to the Academy with
additions and changes, which were accepted by the Council who wrote to the
British Museum on the 10 May to that effect, noting that a General Meeting of
the Academy was to take place, “to prepare the final arrangement for his
Majesty’s approbation”. 23 Accordingly, at the British Museum, the
Sub-Committee’s reports and proposals were approved by the Standing Committee,
with “Resolutions founded on the above mentioned Reports” read at the General
Meeting of 14 May. 24 The resolutions, numbered so as to be inserted in the
existing regulations regarding admissions, were confirmed in the meeting of 21
May, over three months after what should have been a straightforward matter was
raised (see Appendix, below). 25 Clause number eight, concerning the payment of
Academicians charged with the supervision of students, evidently caused some
consternation within the Academy, as recorded in the diary of Joseph Farington.
26 The relative authority of the Council and General Assembly had been a
contentious matter in previous years, and the lengthy dispute over arrangements
with the Museum reflected lingering tensions. On 12 July 1808 the proposals
were read, and “After a long conversation it was Resolved to adjourn.” 27 The
subject was taken up on re-convening on 21 July, but without resolution. 28 At
yet another meeting, on 26 July 1808, the point about the Academy’s provision
of superintendents to monitor the students while at the British Museum was
referred back to Council. 29 We have to turn to Farington’s diary for a fuller
account. He noted that the Academy’s General Assembly had met on 12 July “for
the purpose of receiving a Law made by the Council ‘That permission having been
granted by the Trustees of the British Museum for Students to study from the
Antiques &c at the Museum, certain days are fixed upon for that purpose,
& that an Academician shall attend each day at the Museum & to be paid
2 guineas for each day’s attendance’... Much discussion took place.” 30 At a
further meeting: “The Correspondence of the Council with the Sub Committee of
the British Museum was read from the beginning” and “much discussion” was had
about the supervision of the students, Farington making the point that: as the
studies of the British Museum shd. be considered those of completion and not to
learn the Elements of art the Academy shd. not recommend any student whose
abilities & conduct wd. not warrant it, that it should be considered the
last stage of study, when those admitted wd. not require constant inspection;
therefore daily attendance of a Member of the Academy wd. not be necessary. 31
The point of contest may have concerned the right of the Council to organize things
independent of the General Assembly of the Academicians, and a more general
question about economy (“Northcote proposed that the Academician who in
rotation shall attend at the British Museum, shd. have 3 guineas a day. West
thought one guinea sufficient”). 32 But Farington’s point is more revealing in
indicating the expectation that the selected students of the Academy were to be
largely self-regulating, and self-disciplining; they were to be granted freedom
because they had already internalized the discipline required by these
institutions. Figure 4. Front cover, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum The matter finally settled, students
were admitted to the Townley Gallery from at least the beginning of 1809: the
first entries in the register book are dated 14 January 1809 (figs. 4 and 5 to
11). On that date four students were enrolled, although only one of them was at
the Royal Academy. That was Henry Monro, the son of Dr Thomas Monro, Physician
at Bedlam and an amateur and collector who ran the influential “academy” at his
home in Adelphi Terrace. The other students included two of the daughters of
Thomas Paytherus, a successful London apothecary, and a Ralph Irvine of Great
Howland Street, who seems quite certainly to have been Hugh Irvine, the
Scottish landscape painter and a member of the landowning Irvine family of
Drum, who gave that address in the exhibition catalogue of the British
Institution’s show in 1809. Another five students registered in February and
July. This included another recently registered Royal Academy student, Henry
Sass, whose name was entered into the Academy’s books in 1805, recommended for
study at the British Museum by the architect and RA John Soane, and the artists
William Skelton, Adam Buck, Samuel Drummond, and Maria Singleton. The mix of
amateur and professional artists, young and old, and indeed the mix of male and
female students (discussed below), continued throughout the register. View this
illustration online Figure 5. Page 1, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of British Museum View this illustration online Figure 6. Page 2,
Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17.
Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the
British Museum View this illustration online Figure 7. Page 3, Register of
Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View
this illustration online Figure 8. Page 4, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online
Figure 9. Page 5, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities,
1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees
of the British Museum View this illustration online Figure 10. Page 6, Register
of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View
this illustration online Figure 11. Page 7, Register of Students Admitted to
the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum Eight of the twelve students
registered on 11 November were current Academy students; this proportion of
Academy students to others continues throughout the record. But on the same day
Planta noted to the standing committee that the Royal Academicians not having
availed themselves of the Regulations in favour of their Pupils, & many
applications having been made to him for leave to draw in the Gallery of
Antiquities, he therefore submitted to the consideration of the Trustees,
whether persons duly recommended might not be admitted in the same manner as in
the Reading Room. 33 The matter was referred on to the general meeting. 34 On 9
December 1809 the new regulations were confirmed: Students who apply for
Admission to the Gallery are to specify their descriptions & places of
abode; and every one who applies, if not known to any Trustee or Officer, will
produce a recommendation from some person of known & approved Character,
particularly, if possible, from one of the Professors in the Royal Academy. 35
On 10 February 1810 it was instructed “That the Regulation respecting the mode
of Admission of Students to the Gallery of Sculpture, as made at the last
General Meeting be printed & hung up in the Hall, & at the entrance
into the Gallery”. 36 The students admitted through 1810 were predominantly
students at the Royal Academy, but also included the emigré natural history
painter the Chevalier de Barde and Charles Muss, already established as an
enamel and glass painter. The same pattern was apparent in subsequent years.
Twenty-five students were registered in 1811 and again in 1812, before numbers
dropped to twelve in 1813, eight in 1814, picking up with nineteen in 1815, and
dropping to nine in 1816. The Museum’s original stipulation that no more than
twenty Academy students be admitted each year did not, it appears, create any
undue constraints on the flow of admissions. Far from having a monopoly over
student admissions, as the Museum’s original regulations had anticipated, the
Royal Academy had apparently been distinctly laissez-faire, doing little to try
to push students forward to make up the numbers. The galleries the students
gained access to comprised a sequence of rooms within the new wing added to
accommodate the growing collection of sculptural antiquities, notably the
Egyptian material taken from the French at Alexandria in 1801. The Egyptian
antiquities dominated the galleries in terms of sheer size, although the visual
centrepiece, whether viewed from the Egyptian hall or through the extended
enfilade of rooms II–V where the Townley marbles were displayed, was the
Discobolus (fig. 12). 37 The intimate scale of the galleries brought benefits,
as German architect Karl Friedrich Schinkel noted on his visit of 1826:
“Gallery of antiquities in very small rooms, lit from above, very restful and
satisfying”. 38 But is also imposed a practical limit on the numbers of
students who could attend. This changed when, in 1817, the Elgin marbles were
put on display at Montagu House in spacious, if warehouse-like, temporary rooms
newly annexed to the Townley Gallery (fig. 13). The spike of interest recorded
in the register, with thirty-seven students listed under the heading “1817”,
must reflect this new opportunity. The register terminates at this point,
although the volume continued to be used to record students and artists admitted
to the prints and drawings room (upstairs from the Townley Gallery) from 1815
through to the 1840s. 39 Figure 12. Anonymous, View through the Egyptian Room,
in the Townley Gallery at the British Museum, 1820, watercolour, 36.1 x 44.3
cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the
British Museum Figure 13. William Henry Prior, View in the old Elgin room at
the British Museum, 1817, watercolour, 38.8 x 48.1 cm. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Some
form of register must have been maintained, but appears not to have survived,
and evidence of student attendance after 1817 is largely a matter of anecdotal
record. 40 These later records also, incidentally, point to the variety of
student practice in the galleries. While the Museum’s original stipulations
made the presumption that admitted artists would be drawing (“each student
shall provide himself with a Portfolio in which his Name is written, and with
Paper as well as Chalk”), students evidently worked in different media as well.
James Ward referred explicitly to “modelling” in the Museum in his diary
entries of 1817; and George Scharf’s watercolour of the interior of the Townley
Gallery from 1827 (fig. 14) shows a student sitting on boxes at work at an
easel, with what appears to be a paintbrush in his right hand and a palette in
his left. 41 Nonetheless, the Townley marbles had lost much of their allure.
Jack Tupper, a rather unsuccessful artist associated with the Pre-Raphaelite
Brotherhood, recalled his growing disillusion when studying at the British
Museum in the late 1830s: “So the glory of the Townley Gallery faded: the
grandeur of ‘Rome’ passed.” 42 Figure 14. George Scharf, View of the Townley
Gallery, 1827, watercolour, 30.6 x 22 cm. Collection of the British Museum.
Digital image courtesy of Trustees of the British Museum The material record of
student activity in the Townley Gallery, in the form of images which seem
definitely to derive from this special access to the Museum, is extremely
scarce. 43 Whatever was produced in the Gallery was, after all, generally only
for the purposes of study, and was unlikely to be retained or valued after the
artist’s death. John Wood, a dedicated student at the Royal Academy from 1819,
noted: “I am surprised at the comparatively few drawings I made in the Antique
School at the Royal Academy, including my probationary one, not exceeding five,
with an outline from the group of the Laocoon.—In the British Museum I made a
chalk drawing from the statue of Libēra for Mr Sass”, that is, the Townley
Venus, apparently drawn by Wood as an exercise for the well-known drawing
teacher Henry Sass. 44 Student drawings after the antique must have been
numerous, but that does not mean they were preserved. J. M. W. Turner had
apparently attended the Plaster Academy over one hundred and thirty times up to
the point he became an ARA, in 1799. 45 Yet even with a figure of his stature,
whose studio contents were so completely preserved, and whose dedication to
academic study was so notable, we have only a handful of drawings which appear
certainly to derive from his time at the schools. 46 There are, doubtless,
traces of study in the Museum to be uncovered in finished works of the period.
Charles Lock Eastlake’s youthful figure of Brutus in his ambitious early work
is evidently a direct lift from the marble of Actaeon attacked by his own
hounds in the Townley collection; he had been admitted to draw from the antique
in 1810 (figs. 15 and 16). But given the dissemination of classical prototypes
(in graphic form as well as in plaster) it would be hard to insist that it was
only access to the British Museum’s antiquities which made such allusion
strictly possible. Figure 15. Charles Lock Eastlake, Brutus Exhorting the
Romans to Revenge the Death of Lucretia, 1814, oil on canvas, 116.8 x 152.4 cm.
Collection of the Wiliamson Art Gallery & Museum. Digital image courtesy of
Wiliamson Art Gallery & Museum Figure 16. Anonymous, Marble figure of
Actaeon attacked by his hounds, Roman 2nd Century, marble, 0.99 metres high.
Collection of the British Museum (1805,0703.3). Digital image courtesy of
Trustees of the British Museum The Register of Students as Social Record Of
arguably greater interest than the question of the “influence” of access to the
marbles on artistic practice is the evidence the register provides about the
social profile of the students. This takes us to the heart of the question
about the relationship between art education and the state. This was, in fact,
a question raised at the time. The British Museum was in 1821 obliged to draw
up a report on student and public attendance of the Museum, prompted by Thomas
Barrett Lennard MP, who had entered a motion in the House of Commons seeking
reassurance that this publicly funded institution was not “merely an
establishment for the gratification of private favour or individual patronage”.
47 Lennard’s questions arose from a growing body of criticism directed against
the Museum, which turned on the question of whether, as a publicly funded body,
everyone could expect free access, or only a more specialist minority. As one
critic jibed in 1822, “If the British Museum is open only to the friends of the
librarians, & their friends’ friends, it ceases to be a public
institution.” 48 The report elicited by Lennard’s question provided a detailed
breakdown of admissions. With regard to providing access to draw from the
antique, the Museum indulged the impression that it not only fulfilled but
exceeded its commitment to admitting Royal Academy students: providing the
figures for the period 1809–17 (based, surely, on the register under
consideration here), the Museum’s report elaborated: The Statute for the
admission of Students in the Gallery of Sculptures being among those required
by the Order of the House of Commons, it may not be irrelevant to add, that the
number of students who were admitted to make drawings in the Townley Gallery,
from the year 1809 to the year 1817, amounted to an average of something more
than twenty. 49 Notably, this summary gives the clear impression that the
antiques were being opened to the students of the Royal Academy; such is, quite
reasonably, presumed by Derek Cash in his recent, careful commentary on
admission procedures at the Museum. 50 The report also pointed to recent
changes: In 1818, immediately subsequent to the opening of the Elgin Room, two
hundred and twenty-three students were admitted: in 1819, sixty-nine more were
admitted, and in 1820, sixty-three. It asserted that, now: Every student sent
by the keeper of the Royal Academy, upon the production of his academy ticket,
is admitted without further reference to make his drawings: and other persons
are occasionally admitted, on simply exhibiting the proofs of their qualification.
According to the present practice, each student has leave to exhibit his
finished drawing, from any article in the Gallery, for one week after its
completion. 51 Thus stated, the Museum appeared to be fulfilling its public
duty in providing free access to appropriately qualified students. The bare
figures might seem to indicate a steady rise in student interest, which could
be taken as a marker of quantitative success. In one of the earliest historical
accounts of the Museum, Edward Edwards implied that the statistical record was
evidence of how Planta had progressively extended access to the Museum: “From
the outset he administered the Reading Room itself with much liberality... As
respects the Department of Antiquities, the students admitted to draw were in
1809 less than twenty; in 1818 two hundred and twenty-three were admitted.” 52
At that level of abstraction the information appears beyond dispute. What I
test in the remainder of this essay is how these statements stand up to the
more individualized account of student activity represented in the biographical
record. That record does include the most assiduous students of the Royal
Academy of the time, who certainly did not need the kind of “constant
inspection” Farington worried about, the kind of student anticipated by the
Museum’s regulations. Among these we could count Henry Monro, Samuel F. B.
Morse and Charles Robert Leslie, William Brockedon, Henry Perronet Briggs,
William Etty and Henry Sass, the last two famously dedicated as students of the
Academy. 53 However, the full biographical survey of the register points to a
more complicated situation. Of the one hundred and sixty-five individuals named
in the register, it has proved possible to establish biographical profiles for
the majority: details are most lacking for about twenty-four of the attending
students, although in most of those cases we can conjecture at least some
biographical context. 54 Slightly less than half the total number of
individuals listed were recorded as students at the Academy at a date which
makes it reasonably likely that they were actively attending the schools when
they were admitted to the British Museum (eighty in all). 55 Around twenty more
established male artists attended, and several of these were formerly students
at the Royal Academy, including John Samuel Agar, John Flaxman, and James Ward.
Whether they were pursuing their private studies or undertaking more specific
professional tasks is not always clear. There are, certainly, a few cases where
the latter appears to be the case. When William Henry Hunt was admitted it was
explicitly for the purpose of preparing drawings for a publication; both
William Skelton and John Samuel Agar were probably admitted in connection with
his ongoing work engraving from sculptures at the Museum. It seems likely that
the “Students to Mr Meyer”, that is, the engraver and print publisher Henry
Meyer, were engaged on professional business, as was Thomas Welsh, recommended
by the publisher Thomas Woodfall. More striking, though, is the determined
presence in the register of artists who did not pursue the art professionally
or full-time, including the relatively well-documented Chevalier de Barde,
Arthur Champernowne, John Disney, Hugh Irvine (assuming he is the “Ralph
Irvine” who appears in the register), Robert Batty, Edward John Burrow, Edward
Vernon Utterson, and a number of others designated as “Esq”, so clearly from
the polite classes, even if their exact identities remain unclear. There are at
least fifteen male individuals who appear to come from backgrounds sufficiently
socially elevated or affluent enough to suggest they were taking an amateur
interest rather than pursuing serious studies. 56 Enough of these men are known
to have practised art to make it quite certain that they were not, at least
generally, being admitted to consult the collection without intending to draw,
and John Disney was admitted explicitly “to make a sketch of a Mausoleum”.
Notable, in this regard, are the large number of women admitted to study, most
of whom are or appear to be from polite backgrounds, including the Paytherus
sisters, Elizabeth Appleton, Louisa Champernowne, Miss Carmichael, Elizabeth
Batty, Miss Home, Lucy Adams, Jane Gurney, Maria Singleton, and Anne Seymour
Damer. 57 Some were established artists, or became so; others were pursuing art
as a polite accomplishment, or at least we can assume so given their family
circumstances; in other cases the situation is by no means clear-cut. All were
admitted without special comment or notice despite the issues of propriety
around the drawing of even the sculptured nude figure by female artists which
crops up in contemporary commentaries. 58 This may be all the more striking
given the relative paucity of women admitted as readers at the British Museum library
over the same period: only three out of the three hundred and thirty-three
admitted between 1770 and 1810, as surveyed by Derek Cash. 59 On this evidence,
the field of artistic study was, in the most literal terms, relatively female
compared even to the study of literature or history. This points to an
under-explored context for the inculcation of the students into life as an
artist: the “feminine” sphere of the home, and of siblings (whether brothers or
sisters) alongside parents. We have, surely, barely begun to consider the
family as the context in which artists are made as much as, if not more than,
the studio and academy. Nor is it straightforward to assume that those
individuals who had enrolled as Academy students also had expectations about
the professional pursuit of the art. Among the Academy students who attended, a
large proportion, including a majority of the most assiduous, were from polite
social backgrounds, with fathers in the professions, or who were office-holders
or from the landowning classes, including Henry Monro, John Penwarne, Richard
Cook, William Drury Shaw, Charles Lock Eastlake, Henry Perronet Briggs,
Alexander Huey, Thomas Cooley, Samuel F. B. Morse, Andrew Geddes, John
Zephaniah Bell, Thomas Christmas, John Owen Tudor, and Samuel Hancock. Others
were the sons of elite tradesmen, highly specialized craftsmen or merchants,
including William Brockedon, Seymour Kirkup, Charles Robert Leslie, Gideon
Manton, and John Zephaniah Bell. These were not, either, predestined to be artists,
by simply following in their father’s footsteps, but were opting in to an
artistic career, having had, usually, a decent education, and access to
material and social support. In many cases their brothers, who shared the same
upbringing, became doctors or lawyers, property-owners or merchants. A number
of individual students gave up the practice of the art—Thomas Christmas became
a landowner in Willisden; Richard Cook was able to retire, wealthy; Seymour
Kirkup languished in Rome dabbling in the arts; William Brockedon became more
engaged as an inventor and traveller; while others were never really obliged to
draw an income from their practice but pursued art as a pastime. It remains the
case that there was a high level of occupational inheritance; perhaps
thirty-eight of the students (23 percent) had fathers who were architects,
engravers or artists in painting or sculpture. Many were the sons of
established artists (including Rossi, Bone, Stothard, Ward, Dawe, Wyatt,
Bonomi, and the brothers Stephanoff); a few were part of “dynasties”
encompassing generations engaged in the arts (Wyatt, Wyon, Hakewill, Landseer).
Even then, there is the case of John Morton (noted confusingly as “John Martin”
in the register, although the address given provides for a firm identification),
who, although the son of an artist and a student at the Royal Academy,
exhibited personally as an “Honorary”, suggesting he was not professionally
engaged. That his brother became quite prominent as a physician suggests that
this was a quite emphatically middle-class family setting. There are several
points to derive from this information, even as lightly sketched as it
necessarily is here. Firstly, it is noteworthy that while female students were
a minority they were a definite presence; in this regard, the British Museum
was like other spaces of artistic study, notably the painting school at the
British Institution. 60 The observation is upheld by the contemporary records
of student attendance at the British Institution or of copyists at Dulwich
Picture Gallery, and should serve as a reminder that the Royal Academy was
exceptional among the spaces of art education in being so entirely male. 61
Secondly, it is striking how few came from humble backgrounds unconnected with
the art world; really, only a handful, which would include John Tannock (son of
a shoemaker in Scotland), William Etty (son of a baker in York), John Jackson
(son of a village tailor in Yorkshire), and William Henry Hunt (whose father
was a London tin-plate worker). The circumstances which led to their gaining
access to the London art world are, therefore, noteworthy, as a third and most
important point would be to emphasize how emphatically metropolitan, polite,
and middle-class was the British Museum as a site of artistic education. The
Townley Gallery on student days was a place where working artists, students,
amateurs, and patrons mingled. 62 While the Royal Academy is conventionally
seen as an engine of professionalization, it is striking that the social
affiliations of artists point to strong, arguably increasingly strong,
affiliations between amateurs and professionals—to the extent that our
terminology around this point needs to be reconsidered. Looking over the
biographical survey, the kind of social suffering or precariousness typically
associated with artists’ lives, perhaps especially during the era of
industrialization, is markedly absent. When it does appear—most strikingly with
the grim life-stories of the siblings Jabez and Sarah Newell—they are among the
minority of students from backgrounds neither closely connected with the art
world, nor comfortably middle-class or genteel. The examples of stellar social
ascent and achievement on the basis of talent alone are real; but they are the
exceptions rather than representative. The relative weight of personal and
Academic connection is exposed in the record of the provision of references for
students. Of the forty-three referees recorded between 1809 and 1816, less than
half (nineteen) were Academicians. One of those was Henry Fuseli, who as Keeper
of the Academy Schools through this period must have provided references as
part of his duties, and accordingly provided the second largest number of
recommendations (nineteen; all but one students at the RA). The lead in providing
references was taken by William Alexander, artist and keeper of prints and
drawings (twenty-two; mainly but not exclusively students). Overall, officers
and Trustees were most active in admitting students. Most only ever provided a
reference for one, or at most a handful, and the jibe about “friends of the
librarians, & their friends’ friends” contains some truth. But the same
point applies to the artists, most of whom only ever recommended one student,
often known personally to them already: David Wilkie recommended his assistant,
John Zephaniah Bell; George Dawe provided a reference for his own son; Thomas
Lawrence for his pupil William Etty; Thomas Phillips and John Flaxman, the
relatives of fellow Academicians; Thomas Stothard, the son of a neighbour
(Kempe). Geography, too, seems to have played a role, with referees often
coming from the same area as their favoured student: Francis Horner recommended
John Henning, whom he had known in their native Scotland; the Scottish George
Chalmers recommended James Tannock; Arthur Champernowne put forward William
Brockedon, his protégé, whom he had supported in moving from Devon to the
metropolis to pursue art; James Northcote recommended two fellow West
Countrymen; Benjamin West, notorious for giving special assistance to visiting
American students, two such (Leslie and Morse). If the admission procedure
could be interpreted as an opportunity for the Academy to assert a corporate,
professionalized identity, based purely on merit, we can nonetheless detect underlying
patterns of kinship, personal, social, and geographical affiliation. Simply
stated, even if study at the Museum was free and freely available, any given
student would still need to access a letter of reference and the time to go to
the Museum (as well as the material means to acquire the portfolio, paper, and
chalks anticipated by the Trustees). The opening hours for students militated
against anyone attending who had to use these daylight hours for work, a point
which was made quite often with reference to the Reading Room through this
period. 63 The most assiduous students needed the time free to study at the
British Museum, something that well-off students like Eastlake, Brockedon,
Briggs, and Monro had readily available to them. Their peers at the Academy who
were obliged to work during the day to make a living, or who were serving
apprenticeships, would simply not be able to make the hours available at the
Museum. 64 The ambitious painter Thomas Christmas was free to attend the
Museum, having dedicated himself to study after working as a clerk, but his
brother, Charles George Christmas, who held down a job in the Audit Office,
would have struggled; accounting for his studies at the Academy, he had told
Farington, “He shd. continue to do the business at the Auditors' Office,
Whitehall, which occupies Him from 10 oClock till 3 each day, as it will keep
His mind free from anxiety abt. His means of living and leave Him with a
feeling of independence.” 65 Given that the students were admitted to the Townley
Gallery from noon to 4 o’clock in the afternoon, and that the Trustees
continued to prohibit the use of artificial lights in the Museum, there was
scarcely any real possibility of Charles George Christmas attending, although
he also enjoyed the comforts of a middle-class home background (their father
was a Bank of England official). With the ascent of utilitarian criticism,
visitor levels were turned to anew as a measure of the institution’s fulfilment
or failure to fulfil its “national” purpose. On strictly statistical terms, the
Museum seemed to be successful at providing opportunities for art students.
Only under the closest scrutiny, with attention to the “micro-history” of
individual lives, does that illusion start to be tested. It is, though, at this
“micro” level that we can apprehend the characteristic paradox of an emerging
cultural modernity, one that is still with us. Yet the point, to follow
Rancière, is not to see the past ascent of a present situation, but to force
ourselves to feel uneasy with that sense of recognition and its tacit model of
history. The evidence is that free access to culture and the (circumscribed)
promotion of equality were combined with socially restrictive patterns of
preferment. 66 Study at the British Museum may have been free, and freely
available to properly qualified students of the Academy, but you needed to be
in the right place at the right time, to have the time available, and, indeed,
to know or at least be able to access the right people, to get in. This point
may seem unduly sociological or even tendentious, but overlooking it involves a
denial of the socially invested nature of time, specifically, of the scholastic
time (given over to study or contemplation or to creation) mythically removed
from the influence of social forces. 67 The acts of nomination which saw
certain men and women given special access to the Townley Gallery, acts so
seemingly trivial in themselves involving perhaps only an exchange of words and
a scribbled note, were microcosmic manifestations of social authority of the
most far-reaching kind. 68 When Robert Butt, the principal manager of the
bronze and porcelain department at Messrs Howell & James, Regent-street,
was examined by the Select Committee on Arts and Manufactures in 1835, he
noted: The process by which a knowledge of the arts of painting and sculpture
is now acquired is this: a young man receives tuition from a private master; he
draws from the antique at the British Museum for a certain time, and when he
shows that he has sufficient talent to qualify him for a student of the Royal
Academy he is admitted; but the expense of acquiring that preliminary knowledge
is considerable, and the young artist must also be maintained by his relatives
during the time that he is acquiring it. 69 The following year, in a further
parliamentary committee, this time dedicated to testing out the British
Museum’s claims to public status, James Crabb, “House Decorator” of Shoe Lane,
Fleet Street, was asked, “Did you ever obtain any assistance, by means of
casts, from the better specimens of sculpture in the Museum or elsewhere?”, to
which he replied, “I should derive assistance from them if I had the
opportunity, but I have not time.” 70 Considered sociologically, as the
personal experience of these men seems to have obliged them to do, time was
certainly of the essence. The prevalence of students with secure middle-class
backgrounds at the British Museum might, then, be taken as evidence of an early
phase in the “middle-classification” of art practice, the awkward but evocative
phrase used recently by Angela McRobbie in her eye-opening observations of
careers in the present-day creative industries. 71 Whatever emphasis may be put
on equality of access to educational opportunity, however rigorously fairminded
and anonymized the tests and measures involved in admission procedures, without
forms of positive support to counterbalance or actively adjust social
inequalities, those same inequalities will tend to be reproduced,
homologically, in the educational field. This is patently not a simple matter
of social and material advantage underpinning artistic enterprise in a wholly
predictable way; such would be a nonsense, in light of the many students who
did not enjoy such advantages. Instead, it is the very flexibility built into
the exclusionary processes of the emerging cultural field which is
significant—the possibility that talented students could get access, gain
reputation, achieve success, without being limited by their social origins.
“Freeing” art education allowed for the expression of personal preferences or
dispositions at an individual level, which at an aggregate level reproduced
larger power relations. Exposing that ultimately exclusionary process, which
may be marked only in small differences, in personal dispositions and
behaviours, in the personal choices and decisions which are neither truly
personal nor really pure as choices, is no small task. This essay, and the
biographical survey accompanying it, with its details of a multitude of student
lives otherwise scarcely recorded or recognized, is intended as a small
contribution to that larger project, with the excess of data presented here
perhaps imposing, in itself, new requirements on our understanding of the
history of art education. Appendix Regulations for the admission of students of
the Royal Academy to the Townley Gallery at the British Museum (May 1808): [7]
That the students of the Royal Academy be admitted into the Gallery of
Antiquities upon every Friday in the months of April, May, June, & July,
& every day in the months of August and September, from the hours of twelve
to four, except on Wednesdays and Saturdays the Students, not exceeding twenty
at a time, to be admitted by a Ticket from the President and Council of the
Royal Academy, signed by their Secretary. [8] The better to maintain decorum
among the Students, a person properly qualified shall be nominated by the Royal
Academy from their own body, who shall attend during the hours of study; the
name of such person to be signified in writing, from time to time, by the
Secretary of the Royal Academy to the Principal Librarian of the British
Museum. [9] That the members of the Royal Academy have access to the Gallery of
Antiquities at all admissible times, upon application to the Principal
Librarian or the Senior under Librarian in Residence [10] That on the Fridays
in April, May June & July one of the officers of the Department of
Antiquities do attend in the Gallery of Antiquities according to Rotation in
discharge of his ordinary Duty. [11] That in the months of August &
September some one of the several Officers of the Museum, then in Residence, do
(according to a Rotation to be agreed upon by themselves & confirmed by the
Principal Librarian) attend on the Gallery upon the Days for the
admission of Students. [12] That the attendants in the Department of
Antiquities be always present in the Gallery during the times when the Students
are admitted. 72 Footnotes The original register is held in the Keeper’s
Office, Department of Prints and Drawings, British Museum. Patrick Joyce,
“Speaking up for the State” (2014), https://www.opendemocracy.net/ourkingdom/ patrick-joyce/
speaking-up-for-state. These points are made in light of a larger research
project, which has given rise to the present study: a biographical survey of
all the students of paintings, sculpture, and engraving who were active at the
Royal Academy schools between its foundation in 1769 and 1830 together with a
monograph, provisionally titled The Talent of
Success: The Royal Academy Schools in the Age of Turner, Blake and Constable,
c. 1770–1840 (forthcoming). This fuller survey indicates several important shifts
over these decades, including a fundamantal shift in the proportion of students
coming from family backgrounds in the arts and design-oriented trades, in
comparison with those coming from professional and genteel backgrounds. It
exposes, specifically, a new group whose fathers were engaged as “officers”, in
the civil service or bureaucratic roles, who in turn had a disproportionate
representation within the developing art establishment (as Academicians, or as
officials in other cultural bodies). The term “art world”, as designating a
space of co-production, stems from Howard S. Becker, Art Worlds (1984), rev.
edn (Berkeley, CA: University of California Press, 2008). As deployed here, it
is closer in conception to the sociological “field” as detailed by Pierre
Bourdieu across a succession of influential works. Notable among these, for
present purposes because of its methodological statement about the homological
analysis of the world (field) of art in relation to the field of power, is The
Rules of Art, trans. Susan Emanuel (Cambridge: Polity Press, 1996), esp.
214–15. See, notably, the chapter on “Workers in Art” in Samuel Smiles’s
Self-Help, first published 1859 with numerous further editions. On the
self-motivated artist as the model for all forms of work, see Angela McRobbie,
Be Creative: Making a Living in the New Culture Industries (Cambridge: Polity
Press, 2016), esp. 70–76. Holger Hoock, The King’s Artists: The Royal Academy
of Arts and the Politics of British Culture, 1760–1840 (Oxford: Oxford University
Press, 2003) and Hoock, “The British State and the Anglo-French Wars Over
Antiquities, 1798–1858”, Historical Journal 50, no. 1 (2007): 49–72. Patrick
Joyce, The Rule of Freedom: Liberalism and the Modern City (London: Verso,
2003) and Joyce, The State of Freedom: A Social History of the British State
Since 1800 (Cambridge: Cambridge University Press, 2013); also his “What is the
Social in Social History?”, Past and Present 206, no. 1 (2010): 213–48. On this
Foucauldian framing of art education and creative production within liberalism,
see McRobbie, Be Creative, 71–76 and passim. Karl Polanyi, The Great
Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944; Boston,
MA: Beacon Press, 2002); Michel Foucault, The Birth of Biopolitics: Lectures at
the Collège de France, 1978–1979, ed. Michel Sennelert, trans. Graham Burchell
(Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008); Luc Boltanski and Eve Chiapello, The
New Spirit of Capitalism, trans. Gregory Elliott (London and New York: Verso,
2007); Pierre Bourdieu, On the State: Lectures at the Collège de France,
1989–1992, ed. Patrick Champagne and others, trans. David Fernbach (Cambridge:
Polity Press, 2014). See Edward Higgs, Identifying the English: A History of
Personal Identification 1500 to the Present (London: Bloomsbury, 2011), 97–119.
Higgs’s account is, essentially, positive about the liberties and rights
secured by this rising documentation. The position taken here is more
determinedly Foucauldian. For the foundational role of statistics in “liberalisation”,
and the hidden affinities between the liberal and the totalitarian, see Michael
Foucault, “Society Must Be Defended”: Lectures at the Collège de France,
1975–76, ed. Mauro Bertani and Alessandro Fontana, trans. David Macey (London:
Penguin, 2004). Foucault, Birth of Biopolitics, 69. A biographical dictionary
of Royal Academy students from 1769–1830. See note 3, above. Jacques Rancière,
The Method of Equality: Interviews with Laurent Jeanpierre and Dork Zabunyan,
trans. Julie Rose (Cambridge: Polity Press, 2016), 108. Neil Chambers, Joseph
Banks and the British Museum: The World of Collecting, 1770–1830 (London:
Routledge, 2007), 107. The register is mentioned in the notice of Seymour
Kirkup in G. E. Bentley, Blake Records, 2nd edn (New Haven, CT, and London:
Yale University Press, 2004), 289n. Kirkup was an unusually assiduous student
at the Museum, admitted in 1809 and renewing his ticket through to 1812. The
reference in Bentley appears to be the only published reference to the
register. The admission of the Paytherus sisters to draw at the Museum is noted
by James Hamilton in his London Lights: The Minds that Moved the City that
Shook the World, 1805–51 (London: John Murray, 2007), 72, although with
reference to the early Reading Room register (marked “1795”) in the British
Museum Central Archive, rather than the volume in Prints and Drawings. See J.
T. Smith, Nollekens and his Times, 2 vols., 2nd edn (London: Henry Colburn,
1829), 1: 242. Viccy Coltman, Classical Sculpture and the Culture of Collecting
in Britain since 1760 (Oxford: Oxford University Press, 2009), 242–44. See B.
F. Cook, The Townley Marbles (London: British Museum Press, 1985) and Ian
Jenkins, Archaeologists and Aesthetes in the Sculpture Galleries of the British
Museum, 1800–1939 (London: British Museum Press, 1992). Chambers, Joseph Banks,
Derek Cash, “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to 1836”,
British Museum Occasional Papers 133 (2002), 68.
http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/
access_to_museum_culture.aspx. The British Museum, Central Archive,
C/1/5/1029–30. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/50–52.
Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/59. The British Museum,
Central Archive, C/1/5/1034. The British Museum, Central Archive,
C/1/5/1043–144. Cf. “Chapter III: Concerning the Admission into the British
Museum”, in Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of
the Contents of the British Museum (London, 1808), 15–16. Joseph Farington, The
Diary of Joseph Farington, ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre, and others, 17
vols. (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 1978–98), 9: 3284.
Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/366, 370. Library of the
Royal Academy of Arts, London, GM/2/371. Library of the Royal Academy of Arts,
London, GM/2/372–73. Diary of Joseph Farington, 9: 3313. Diary of Joseph
Farington, 9: 3317. Diary of Joseph Farington, 9: 3284. The British Museum,
Central Archive, C/3/9/2426. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2428.
The British Museum, Central Archive, C/1/5/1069. The British Museum, Central
Archive, C/1/5/1070. The arrangement of the galleries was first detailed in a
written description provided by Westmacott for Prince Hoare’s Academic Annals
(London, 1809) and in Taylor Combe’s A Description of the Ancient Marbles in
the British Museum, 3 vols. (London, 1812–17). See Cook, Townley Marbles,
59–61. Karl Friedrich Schinkel, “The English Journey”: Journal of a Visit to
France and Britain in 1826, ed. David Bindman and Gottfried Riemann (New Haven,
CT, and London, 1993), 74. The record of admissions to view prints and drawings
must have arisen from the new regulations issued by the Trustees in November
1814; see, Antony Griffiths, “The Department of Prints and Drawings during the
First Century of the British Museum”, The Burlington Magazine 136, 1097 (1994):
536. In March 1817 the student artist William Bewick wrote to his brother: “I
last Monday set my name down as a student in the British Museum.” See Thomas
Landseer, ed., Life and Letters of William Bewick (Artist), 2 vols. (London:
Hurst and Blackett, 1871), 1: 37. Edward Nygren, “James Ward, RA (1769–1859):
Papers and Patrons”, Walpole Society 75 (2013): 16. Jack Tupper, “Extracts from
the Diary of an Artist. No.V”, The Crayon, 12 December 1855, 368. An album of
drawings of the Townley Marbles in the British Museum (2010,5006.1877.1–40)
appears to have been collected by Townley himself, so dates to before the installation
of the marbles at the Museum. The drawings serve as records of the objects
rather than student exercises. The drawings by John Samuel Agar in the Getty
Research Institute are evidently preparatory for the prints published in
Specimens of Antient Sculpture. BL Add MS 37,163 f.106. This and other figures
in the Townley collection could also be found as casts in the Royal Academy’s
plaster schools, so even if Wood’s drawing, for example, could be traced, it
could not definitively be said to be made in the Townley Gallery. See Ann
Chumbley and Ian Warrell, Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary
Life, exh. cat. (London: Tate Gallery, 1989), 12–13. Eric Shanes, Young Mr
Turner: The First Forty Years, 1775–1815 (New Haven, CT, and London: Yale University
Press, 2016), 33–34. Hansard (House of Commons), 16 February 1821, c.724
(online at http://hansard.millbanksystems.com/commons/
1821/feb/16/british-museum). See Cash, “Access to Museum Culture”, 197–225 for
a full account of public discussions around this date. Quoted in Cash, “Access
to Museum Culture”, 208. British Museum: Returns to two Orders of the
Honourable House of Commons, dated 16 th February 1821, House of Commons, 23
February 1821, 2. Cash “Access to Museum Culture”, 71. Quoted in The Literary
Chronicle, 17 March 1821, 168. Edward Edwards, Lives of the Founders of the
British Museum (London: Trübner and Co., 1870), Acts and Votes of Parliament,
Statutes and Rules, and Synopsis of the Contents of the British Museum. London,
1808. Becker, Howard S. Art Worlds (1984). Rev. edn. Berkeley, CA: University
of California Press, 2008. Bentley, G. E. Blake Records. 2nd edn. New Haven and
London: Yale University Press, 2004. Boltanski, Luc, and Eve Chiapello. The New
Spirit of Capitalism. Trans. Gregory Elliott. London and New York: Verso, 2007.
See Martin Myrone, “Something too Academical: The Problem with Etty”, in
William Etty: Art and Controversy, ed. Sarah Burnage, Mark Hallett, and Laura
Turner (London: Philip Wilson, 2011), 47–59. The barest and most conjectural
biographies include those for William Carr of New Broad Street; W. W.
Torrington; Edward Thomson; Richard Moses; and Mr Lewer. Information is most
notably lacking for the trio of Miss Cowper, Miss Moula, and Mr Turner of Gower
Street; William Hamilton of Stafford Place; William Irving of Montague Street;
Thomas Williams of Hatton Garden; Daniel Jones; M. Hatley of Albermarle Street;
Miss Edgar; Miss Carmichael of Granville Street; Mr Atwood; Mr Higgins of
Norfolk Street; George Pisey of Castle Street; Charles White of George Street;
Robert Walter Page of Wigmore Street; Henry A. Matthew; Thomas Welsh; and John
Hall. Students were entered as “probationers” for a period of three months
(which might be extended), and once registered could attend the Schools for a
period of ten years. Ralph Irvine; Arthur Champernowne; the Chevalier de Barde;
John Disney; John Campbell; Edward Utterson; John Lambert; Robert Batty;
Alexander Huey; Richard Thomson; Charles Toplis; John Frederick Williams; Edward
Burrows; William Carr; W. W. Torrington. Jane Landseer; Janet Ross; Georgiana
Ross; the two Misses Paytherus; H. Edgar; Maria Singleton; Elizabeth Appleton;
Louisa Champernowne; Miss Carmichael; Elizabeth Batty; Frances Edwards; Eliza
Kempe; Ann Damer; Miss Cowper; Miss Moula; Miss Trotter; Miss Adams; Sarah
Newell; Emma Kendrick; Jane Gurney. Gentleman’s Magazine (1820) and A Trip to
Paris in August and September (1815), quoted by William T. Whitley in his Art
in England, 1800–1820 (London: Medici Society, 1928), 263, as evidence that “It
was still thought improper for women to study from such figures” as the Apollo
Belvedere. Cash, “Access to Museum Culture”, 113. As the American Samuel F. B.
Morse (a student at the Royal Academy and the British Museum) noted in 1811: “I
was surprised on entering the gallery of paintings at the British Institution,
at seeing eight or ten ladies as well as gentlemen, with their easels and
palettes and oil colours, employed in copying some of the pictures. You can see
from this circumstance in what estimation the art is held here, since ladies of
distinction, without hesitation or reserve, are willing to draw in public.” See
Edward Lind Morse, ed., Samuel F. B. Morse: His Letters and Journals, 2 vols.
(Boston, MA: Houghton Mifflin, 1914), 1: 45. Lists of students admitted to copy
at the British Institution appear in the Directors’ minutes, NAL RC V 12–14,
and in contemporary press reports. Individuals admitted to copy at Dulwich
Picture Gallery were routinely listed in the “Bourgeois Book of Regulations”
from 1820; photocopies and notes at Dulwich Picture Gallery, C1 and H3. This is
expecially clearly expressed in James Ward’s diary notes on his visits in 1817,
meeting there the artists William Skelton, Joseph Clover, Henry Fuseli, and
William Long, but also the gentlemen collectors and scholars William Lock,
Edward Utterson, and Francis Douce (Nygren, “James Ward”). See Cash, “Access to
Museum Culture”, 217 and passim. Although the timing of the Academy’s evening
classes might seem to be more accommodating, even this may have been
challenging. The master of Richard Westall, later a watercolour painter,
“permitted him to draw at the Royal Academy, in the evenings; but for that
indulgence he worked a corresponding number of hours in the morning”.
Gentleman's Magazine, February 1837, 213. Diary of Joseph Farington, 4: 4783.
On educational tests as linking “macro” and “micro”, “both sectoral mechanisms
or unique situations and societal arrangements”, see Boltanski and Chiapello, New
Spirit of Capitalism, 32. See Pierre Bourdieu, Pascalian Meditations, trans.
Richard Nice (Stanford, CA: Stanford University Press, 2000). “Acts of
nomination, from the most trivial acts of bureaucracy, like the issuing of an
identity card, or a sickness or disablement certification, to the most solemn,
which consecrate nobilities, lead, in a kind of infinite regress, to the
realization of God on earth, the State, which guarantees, in the last resort,
the infinite series of acts of authority certifying by delegation the validity
of the certificates of legitimate existence”, Bourdieu, Pascalian Meditations,
245. The potentially trivial nature of the acts of nomination involved in
gaining access to the British Museum is highlighted in Joseph Planta’s own account
of providing recommendations (for the Reading Room) often only on the basis of
casual conversations. See Cash, “Access to Museum Culture”, 207. Report of the
Select Committee on Arts and Manufactures, House of Commons, 4 September 1835,
40. Report of the Select Committee on the British Museum, quoted in Edward
Edwards, Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the Select Committee
on the British Museum, 2nd edn (London [1839]), 14. McRobbie, Be Creative. The
British Museum, Central Archive, Bourdieu, Pierre. On the State: Lectures at
the Collège de France, 1989–1992. Ed. Patrick Champagne and others. Trans.
David Fernbach. Cambridge: Polity Press, 2014. – – –. Pascalian Meditations.
Trans. Richard Nice. Stanford, CA: Stanford University Press, 2000. – – –. The
Rules of Art. Trans. Susan Emanuel. Cambridge: Polity Press, 1996. Cash, Derek.
“Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to 1836.” British
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& the Classical Ideal Adriano Aymonino and Anne Varick Lauder with
contributions from Eloisa Dodero, Rachel Hapoienu, Ian Jenkins, Jerzy Kierkuc
́-Bielin ́ski, Michiel C. Plomp and Jonathan Yarker sir john soane’s museum 2015
Drawn from the Antique: Artists & the Classical Ideal An exhibition at
Teylers Museum, Haarlem 11 March – 31 May 2015 Sir John Soane’s Museum, London
25 June –26 September 2015 This catalogue has been generously supported by the
Tavolozza Foundation and the Wolfgang Ratjen Stiftung, Vaduz This exhibition
has been made possible through the support of the Government Indemnity Scheme
Sir John Soane’s Museum is a non-departmental body and is funded by the
Department for Culture, Media and Sport Published in Great Britain 2015 Sir
John Soane’s Museum, 13 Lincoln’s Inn Fields, London, wc2a 3bp Tel: 020 7405
2107 www.soane.org Reg. Charity No. 313609 Text © the listed authors All
photographs © as listed on pages 254–56 ISBN (paperback): 978-0-9573398-9-7
ISBN (hardback): 978-0-9932041-0-4 Designed and typeset in Albertina and
Requiem by Libanus Press Ltd, Marlborough Printed by Hampton Printing (Bristol)
Ltd Frontispiece: Michael Sweerts, A Painter’s Studio (detail), c. 1648–50,
cat. 12 (p. 134) Page 10: Hendrick Goltzius, The Apollo Belvedere (detail),
1591, cat. 6 (p. 107) Page 78: William Pether, An Academy (detail), 1772, cat.
24 (p. 189) Contents Preface 6 Abraham Thomas Introduction 7 Adriano Aymonino
and Anne Varick Lauder Acknowledgements 9 Ideal Beauty and the Canon in
Classical Antiquity 11 Ian Jenkins and Adriano Aymonino ‘Nature Perfected’: The
Theory & Practice of 15 Drawing after the Antique Adriano Aymonino
Catalogue Bibliography Photo credits 79 232 254 - authors of catalogue
entries AA: Adriano Aymonino: AVL: Anne Varick Lauder: Eloisa Dodero: cats 9,
22 JK-B: Jerzy Kierkuc ́-Bielin ́ski: cat. 29 JY: Jonathan Yarker: cats 24, 25,
26, 27, 28 MP: Michiel C. Plomp: cats 6, 7, 8, 11, 31, 32 RH: Rachel Hapoienu:
cats 1, 2, 4, 33. The exhibition ‘Drawn from the antique: artists and the
classical ideal” examines the crucial role played by antique sculpture in
artistic education and practice, a theme which lies at the heart of the
conception of Sir John Soane’s Museum. As a student at the Royal Academy, Soane
wins a travelling scholarship to embark on the grand tour. This forms the basis
of a classical education which would prove to be an enduring influence on his
subsequent career as one of the most important architects of the Regency
period. The drawings, paintings and prints selected for the exhibition ‘Drawn
from the antique – artists and the classical ideal’ offer a glimpse into an
intriguing world of academies, artists’ workshops and private studios, each
populated with carefully chosen examples of statuary which provide compelling
snapshots of classical antiquity. Similarly, within his house and museum at
Lincoln’s Inn Fields, Soane creates his own bespoke arrangements of ancient
statuary and architectural fragments, providing educational tools which defined
an informal curriculum for both his Royal-Academy students and the apprenticed
pupils working within his on-site architectural office. In fact, one could
consider much of Soane’s museum as an extended series of studio spaces,
intended for academic improvement and personal inspiration. The concept of the
exhibition ‘Drawn from the antique – artists and the classical ideal’ evolves from
a series of conversations between Timothy Knox, and the collector K. Bellinger,
to see if there may be some way to showcase the Bellinger extraordinary and
unique collection of art-works *depicting* artists’ studios. We extend a
special thanks to K. Bellinger, not only for her generosity in allowing us to exhibit
these wonderful pieces but also for all the hard work in securing some stunning
loans from other collections. We are grateful for the loans from the Getty
Collection, the Rijksmuseum, the Kunsthaus Zürich, the Kunstbibliothek in
Berlin. For the UK loans we would like to thank The British Museum, the
Victoria and Albert Museum, the Royal Academy of Arts and the Courtauld
Gallery. “Drawn From The Antique: Artists and The Classical Ideal” is a collaboration
between The Soane Collection and the Teylers Collection, and I am grateful to M.
Scharloo for agreeing to host the first leg of this exhibition, and also to
Michiel Plomp, for facilitating the exhibition in Haarlem. It feels rather
appropriate that the founders of our two institutions, Teyler and Soane, were
both collectors with singular visions of how their collections should provide a
resource for academic study and creative practice. This exhibition would not
have been possible without the fantastic curatorial team that K. Bellinger assembled:
A. Aymonino, A. Varick Lauder, and R. Hapoienu. I would like to express my
gratitude to them for bringing the project to fruition. I would also like to
thank Paul Joannides for his editing work on the catalogue and all of my
colleagues at the Soane who worked to make this exhibition a reality,
especially S. Palmer, D. Jenkins and J. Kierkuc-Bielinski, as well as S.
Wightman at Libanus for designing such a beautiful catalogue. Finally, I would
like to extend a special thanks to the Tavolozza Foundation and the Wolfgang
Ratjen Stiftung, Vaduz, for their generous support of the exhibition and the
catalogue. The exhibition explores one of the central practices of artists for
years: drawing after the antique – l’antico. Ancient Graeco-Roman statuary provides
artists with a “model” from which he learns how to represent the volume, the pose
and the expression of the male nude and which simultaneously offers a perfected
example of anatomy and proportion. For an established artist, a piece of antique
statuary or a elief offers a repertory of form that serves as inspiration. Because
the imitation (mimesis) and representation of nature is the principal aim of the
classical artist, education in a workshop or an academy revolves around the
study of geometry and perspective – to represent space – and anatomy, the antique
but also THE LIVE MODEL – to learn how to deploy and mould the male body
convincingly in a piece of statuary. This practical approach to the antique –
as a convenient model for depicting or moulding the naked male form – is accompanied by a more
theoretical, aesthetic, and philosophical one. A piece of ancient Graeco-Roman
statuary statue is perceived as a bench-mark of perfection and of the Platonic
concept of ideal beauty, the physical result of a careful selection of the best
parts of nature. Classical Graeco-Roman authors, such as the Italians Vitruvio,
Cicerone or Plinio, reveal to the artist and the philosopher that antique statuary
is based on a system. There is a Pythagoreian harmonic proportions. This rests
on the mathematical relationships between a part of the body and the whole
body. A piece of ancient statuary therefore embodies the same rational
principle on which the harmony of the cosmos and nature are based. It is the
powerful combination of this rational and universal principle that the antique
expresses, together with its extreme versatility as a model of forms, that
guarantees its ubiquitous success. Students in the early stages of their
training are encouraged to ‘assimilate’ fully the idealised beauty of a classical
statue through the copying of plaster casts. Only then can he be exposed to an
‘imperfections of nature’ as embodied by the live naked male model (“Drawn From
Life”). This is intended to provide the craftsman with a standard of perfection
that is then infused into his own statuary. For an artist, it was considered
essential to travel to Rome. At Rome, the artists confront the venerated
antique ‘original’ – not the copy -- and assembles his own ‘drawn’ collections
of models – ‘drawn from the antique’ only, not ‘drawn from life’, for which you
don’t need to go to Rome. Drawing (desegno) is considered the only intellectual
part of an art – the first sensorial (specifically visual) manifestation of an idea.
Drawing from and ‘after’ the Antique (desegno dall’antico) is the union of
intellectual medium and intellectual subject. It becomes an integral part of
the learning process and the activity of the artist who aims at pleasing the
Society gentleman. It proves crucial for legitimising the ambitions of the artist
who fashions himself as a practitioner of a liberal and intellectual activity.
So widespread is it, that representing the practice itself developed into an
artistic genre. Through a selection of pieces exemplifying this fascinating
category of images, by artists as diverse as the Italian Zuccaro, Dutch Goltzius
and Rubens, French Natoire, Swiss Fuseli and English Turner, we may attempt to
analyse this phenomenon. We begin with an image relating to an early Italian
academy and with a portrait, in which a piece of ancient statuary is included.We
may proceed to an image of an artist as he ‘draws’ after a celebrated statue –
the Apollo del Belvedere and the Laoconte, il torso del Belvedere, l’Antino del
Belvedere – in the cortile ottogono del casino della villa Belvedere in Monte Vaticano,
the Belvedere collection that serves as a model. We next may explore the varied
approaches of artists to a piece of ccanonical statuary in Rome and the ways in
which the Italian academic curriculum – with the antique (l’antico) as one of
the two cornerstones (the other being: ‘natura’) – spreads all over Rome, where
each palazzo claims its collection – Farnese, Ludovisi, Albani – and even up to
La Tribuna di Firenze.An Italian drawing manual is a powerful vehicle for the uncostested
establishment and entrenchment of the classical ideal. Significantly, a manual
illustrates the practice of copying after the antique in their frontispieces.
Next follow two of the most relevant images embodying the classicist credo of
the accademia dell’arte at Rome and academie des beaux arts a Paris. The
accademia a Roma codifies a structured syllabus. First-hand experience of the
Antique ‘original’ in Rome becomes a must. Fuseli magnificently draws the
fragments of the head, right hand, and left foot of the colossal statue of
Constantine at the Campidoglio. Fuseli’s
image expresses a ‘romantic’ attitude towards classical statuary, based on the
direct emotion and empathy – the eros of Plato, and the catharsis of Aristotle
-- rather than a ‘study’ (studio) of an idealised beauty and proportion. Classicism
is embraced and an academic syllabus is developed to graduate from the academy
– as opposed to the nobility who can still practice amateur and present their
statues at the annual exhibitions. The elite, educated in the classics, has a
crucial role in disseminating the classical ideal. For less privileged students
at Oxford (‘only the poor learn at Oxford’) the Ashmolean starts collecting a plaster
cast of this or that original in Rome. Statues serve a decorative purpose in
the villa garden fountain --- and the palazzo interior -- a clear sign of the
commercialisation and further diffusion of the Antique. But while classical statuary
becomes a n attract when doing the calls. Its role within academic curricula
remains well-established. The Antique as a canonical model begins to be
challenged by the more dynamic and innovative forces of art, a challenge that
led to its rapid decline. The last exhibit shows a plaster copy of the celebrated
ancient bust of Homer at the Farnese collection in Napoli is placed on equal
footing with a bust of a non-classical author, neo-classical statuary, and even
with a multicoloured porcelain parrot, reveals how the Antique becomes just one
of the many historical references favoured by society, if not by Society. Although
focused on images representing the relationship of an artist WITH the Antique,
that is, the act or performance of copying or drawing from or after it, this
catalogue includes also examples of the product of the practice: sketches
actually ‘drawn from the antique’ not by students wanting to pass, but by professionals
such as Goltzius, destined to be disseminated through the engraving. We have
also included drawings by Rubens and Turner showing the compromising practice
of setting a live model in the pose of the antique model – lo spinario, i
lottatori in the case of a syntagma or statuary group -- and an early academic
study by Turner the student of the torso del Belvedere (Aiace contempla
suicidio). An image may portray how the artist HIMSELF in the presence of the
Antique. The point of view should always be that of the intended addressee: the
noble Epicurean connoisseur. The form and ideas that he enjoys and seeks in the
classical model, the diversity of his taste according to his mood, and the
kinds of image that are created to show their own relationship with the
Antique. The attitudes towards classical statuary of a manic collector or an antiquarian,
although touched upon in the essays and in some of the entries, are not
discussed at length. We also decided to focus primarily on free-standing in the
round male nude statue or syntagma (i lottatori), as opposed to a relief. The
free-standing in the round reproduction of the male naked body is what the
gentleman enjoys in terms of the proportion, the anatomy and his beauty. A
relief rather serves as a compositional model and inspiration for a narrative mythological
or historical scene. Drawings after reliefs would be the subject of a different
exhibition. The choice of the two venues is entirely appropriate. Haarlem is one
of the earliest Northern cities where the Antique is a subject of debate –
within the private academy established by Mander, Cornelisz, and Goltzius –
whose magnificent series of drawings after canonical classical statues is
preserved in the Teylers Collection. The Soane Collection at Lincoln Fields, on
the other hand, represents an incarnations of the classicist curriculum. It is
an eccentric, kaleidoscopic academy where, in the name of the union of the
arts, the study of Vitruvian and Palladian architecture gets integrated with
the copying of paintings, classical statuary and plaster casts, to attain that
mastery of drawing of the human forms (uomo
vitruviano) advocated by Vitruvius as a crucial element of architecture (to be
replaced by Le Corbusier’s functionalist metron!). The idea for this exhibition
has evolved. The Bellinger Collection is based on a just one theme: the sculptor
at work. Fascinated by the creative process and the mystique surrounding it.
The Bellinger Collection includes items in a range of media – drawings,
paintings, prints, photographs and sculpture. Rather than stage an obvious
‘greatest hits’ exhibition focusing on celebrity, my idea is to show
little-known, rarely exhibited, works and to present aspects of the collection,
which had been rather neglected by scholarship in an attempt to open new
ground. A preliminary step is made by Knox, who approached K. Bellingerto
enquire whether she might showcase works from the collection in the piano
nobile of the Palazz Soane. It soon became apparent that the theme of the
relationship between the sculptor and antique statuary, which seemed so
suitable to the venue of an architect’s palazzo-cum-academy-cum-museum with its
rooms filled with antiquities and plaster reproductions, would have resonance
with the Few. Accompanying a selection of works from the Bellinger Collection
we have attempted to borrow on loan some of the most ‘iconic’ images, and
others less well-known, that demonstrate the evolution of this practice of this
class of ‘Drawn from the Antique’ over an extended period. Almost half of the
works on display have never previously been exhibited and most have not been
shown. The resulting display provides the first overview of a phenomenon
crucial for the understanding and appreciation of ancient Roman art of the
classical Augustean period, which lays stress on the creative processes of the
Italophile artist and on the norms and conventions that guides and inspires his
art. Presenting a relatively small yet coherent display on a topic that
encompasses one of the major themes in the history of Art has been a serious
challenge but a most pleasurable one. Our exhibition could not have been
accomplished without the unwavering support of K. Bellinger, who generously
agreed to part with fourteen choice examples from her little-seen private
collection of images of artists at work and who has remained committed to the
project since its inception: to Ballinger we owe our deepest gratitude. For the
other works on display, we have benefited from the great generosity of
colleagues at lending institutions for agreeing to send works in their care –
some of them among their most popular and requested – to one or both venues of
the exhibition. We owe sincere thanks to H. Chapman at the British Museum, S. Buck
at the Courtauld, R. Hibbard and H. Dawson at the Victoria and Albert, C.
Saumarez-Smith, H. Valentine and R. Comber at the Royal Academy. Abroad we wish
to acknowledge the generosity of L. Hendrix and J. Brooks at Villa Getty, Bernhard
von Waldkirch at the Kunsthaus Zürich, T. Dibbits at the Rijksmuseum, Amsterdam
and K. Käding at the Kunstbibliothek, Berlin. We are enormously grateful both
to the Soane Collection and the Teylers Collection for hosting this two-venue
exhibition. Thanks are due to T. Knox and A/ Thomas, for their support for the
project, and to S. Palmer, and D. Jenkins, for assisting with the loans. M. Scharloo,
of the Teylers and Michiel Plomp, kindly agreed to house the first showing of
the exhibition and to lend works from their collection. The catalogue was
thoughtfully designed and produced by S. Wightman at Libanus, to whom we owe
our warmest thanks, and printed by Hampton Printing in Bristol. R. Hapoienu,
oversaw the photography and contributed immeasurably to the catalogue. Other
curatorial colleagues have given their time and effort in preparing scholarly
entries or essays: E. Dodero, I. Jenkins, J. Kierkuc -Bielinski, M. Plomp and J.
Yarker. Special thanks are due to Dodero for sharing an infinite knowledge of
antique sources. Finally, we are greatly indebted to P. Joannides for his
input. Any and all errors are entirely our own. We wish to acknowledge warmly P.
Taylor and Rembrandt Duits for granting us unfettered access to the
Photographic Collection of the Warburg and other colleagues and friends who
assisted in various ways in bringing this project to fruition: Mattia Biffis, R
Blok, Yvonne Tan Bunzl, Wolf Burchard, Elisa Camboni, Martin Clayton, Zeno
Colantoni, Paul Crane, Daniela Dölling, Alexander Faber, Cameron Ford, Ketty
Gottardo, Martin Grässle, Axel Griesinger, Florian Härb, Eileen Harris, John
Harris, Niall Hobhouse, Matthew Hollow, Peter Iaquinandi, Catherine Jenkins,
Theda Jürjens, Jill Kraye, David Lachenmann, Alastair Laing, Barbara Lasic,
Huigen Leeflang, Cornelia Linde, Anne-Marie Logan, Olivia MacKay, Austeja
MacKelaite, Bernard Malhamé, Patrick Matthiesen, Mirco Modolo, Jane Munro,
Lorenzo Pericolo, Benjamin Peronnet, Camilla Pietrabissa, Eugene Pooley, Pier
Paolo Racioppi, Cristiana Romalli, Gregory Rubinstein, Susan Russell, Nick
Savage, Nicolas Schwed, Ilaria Sgarbozza, Kim Sloane, Perrin Stein, MaryAnne
Stevens, Marja Stijkel, Michael Sullivan, C. Treves, Michiel Ilja M. Veldman,
Anna Villari, Rebecca Wade and Alison Wright. Support for the exhibition and
catalogue was provided by the Tavolozza Foundation and the Wolfgang Ratjen
Stiftung, Vaduz, to whom we owe our sincere gratitude. Ideal Beauty is the
Canon in Classical Antiquity. The practice of drawing from the antique is a
time-honoured one – if not antique! But even the Augustean copy makers knew who
to imitate --. Since Antino became such an icon, we can say that Adrian
finished the practice of ‘drawing from the antique’: He started to ask his
slaves to ‘draw from nature’ – the nature of his lover! The philosopher should
be reminded of the substantial role that the Antique has played in the
education and inspiration of artists for years. Soane famously mixed marble
sculpture with plaster reproductions in the learned and decorative interiors of
his Lincolnfields villa. A constant theme in ancient philosophy (with which any
Oxonian with a Lit. Hum. is more than acquainted with) is that behind the
surface chaos of the tangible sensible world, there is a hidden order (kósmos).
Harmony occurs when the opposite forces in nature (natura, physis), such as wet
and dry, hot and cold, strong and weak, are properly balanced. Well-being
depends upon a set of complementary humours. Reason (logos) – but cf. Dodds on
the irrational -- is the weapon wielded in a constant struggle against the dark
forces of the natural and non-natural artificial conventional realms alike. The
concept of ‘number’ plays an especially important role in the Graeco-Roman, or
Italic world view. Mathematics was most probably acquired from Babylon and
first took root in the cities of Ionia. Pythagora, who had settled in Crotona
and Melosponto in southern Italy, discovers the measurable intervals of the
musical scale This demonstrates that number holds the key to the mysteries of
the harmony of the Universe. Pythagoras was born on the Aegean island of Samos,
which was just one of the many city states that participated in the Ionian
Enlightenment with its concentration of natural philosophers. Applied
mathematics finds a new purpose in the creation of colossal temples in an
architectural culture that takes its inspiration from that of East. The
technical aspects of this new tectonic art are explained in philosophical
treatises. None of them survive but they were known to the Roman philosopher Vitruvio,
who uses them extensively for “De Architectura”. His is the only complete
treatise on ancient Roman architecture to survive. It is the main channel
through which knowledge of ancient Roman architectural principles are handed
down. The impact it has on architecture is paramount. Colossal temples are erected
and foremost among them is the archaic temple of Diana at Efeso. Its forest of
columns, some of them carved pictorially and its painted and gilded mouldings
are breath-taking. The Ionian Enlightenment terminates by the catastrophic
destruction of Mileto y the Persians. The Persians next set out to punish
Athens for her instigation of the revolt. The failure of the Persian invasion
in a series of battles on land and sea serve as a catalyst for a great surge of
art and thought in the city that was the world’s first democracy. It was in
Athens – the ‘Athenian dialectic’ -- that humanity’s sense of self is forged.
It is there that mankind acquires a unique and individual soul with personal
responsibility for its welfare. In classical antiquity mankind places itself at
the centre of the universe and is as Protagoras famously says, ‘the measure of
all things’. Protagoras’s contemporary, the philosopher Socrates, leads the way
in a moral philosophy aimed at penetrating the dark hinterland of human
existence. Humanism prompts a “realism” (de rerum matura) in product of an ‘ars’ that re-presents the naked
male body in a ‘naturalistic’ way. There were those, however, who ha less
positive view of human capacity for self-determination. A recurring theme in
the philosophy of Socrates’ famous pupil, Plato, is the theory of ‘mimesis’ (‘imitatio’),
whereby the product of an ‘ars’ is twice
removed from reality by virtue of its being a ‘copy’ of Nature, which is itself
a copy of the hidden, intangible reality of the abstract world of the Idea. In
Plato’s kósmos, reality is not to be found in Nature. Reality (and ideal
beauty) cannot be detected by *sensing*. Rather, reality and beauty is ‘noetic’
and exists beyond nature (trans-naturalia) and can be grasped only through an effort
of the ‘intellectual’ (logistikon) part of the tri-partite soul (the other two
parts being the thymoeides and the epithymtikon). A man never gets to ‘know’ or
grasp this ideal beauty. Man must be governed by the philosopher king, who has the
intellectual capacity to achieve true knowledge and understanding of the universal
law. The nature that man knows is itself a ‘copy’ (mimesis, imitation –
imitative) of this suprasensible realm, so Plato argued and. As an imitation of
nature, a product of an ‘ars’ is twice removed from the meta-physical intelligible
world. There is no place for the pretensions of artists in the world of true
reality. Only the pure and virtuous abstract beauty and goodness
(kalloskagathia, bonus et pulchrus) of a ‘form’ (‘forma’) is to be found in the
realm of the idea. The clearest and most developed account of Plato’s
condemnation of the idols or products of ‘ars’ and his reasons for banning it
from his ideal state (polizia, politeia) are to be found in the Socratic
dialogue known to modern readers as The Polizia (Politeia). The ‘Polizia’
(Politeia) is beautifully crafted in a series of carefully honed set-piece
speeches in which, and the irony is obvious, Plato demonstrates his skills as a
philosophical artist – the dialogue aimed at beauty, rather than truth. It is
difficult to say to what extent Plato puts words into or takes them out of the
mouth of Socrates. The historical Socrates never wrote anything himself. We can
at least be sure of Socrates’ insistence upon the imperative to pursue
justified true belief (knowledge) as distinct from mere belief or opinion
(doxa) and to seek understanding, as distinct from mere creed. These are after
all the goals by which Socrates measures the moral integrity of man’s
intelligence. When it comes to the standing of the product of an ‘ars’ in
Socrates’s moral landscape, we may wonder whether this marble worker who had
followed in his father’s ‘ars’ himself shares aristocratic Plato’s anti-thetical
view of the ‘artista’. In a dialogue recorded by Xenophon between Socrates and
Parrhasio, it is concluded that the product of an ‘ars’ cannot achieve beauty
by simply ‘reproducing’ (or imitating, or copying) an individual, particular, single,
naked male live model. He who pursues to give a product of an ‘ars’ must
instead select the best part of more than one particular, singular male naked
live model – this is not Adriano’s portraiture of Antino -- melding (or moulding) those parts (individua) together
in such a way as to transcend, by way of a universalium, nature itself (the
natural naked male live model) and turn the ‘re-presentation’ of a ‘beautiful’
(kalos) naked male live model into an ‘ideally’ beautiful naked male body. Aristotle.
ever practical, ever helpful, opposes Plato in arguing that, instead of being a
slave to Nature, man may create (poien) as nature itself created. In his
Poetics and Politics he recognises the civic role of the product of an ‘ars’,
as he praises the value of the products of the ‘ars’ of Polygnotos. “For
Polygnotos re-presents but tweaks a natural male body better than the natural
male body is. It’s an improving (perfection) on, rather than an imitation, of
‘imperfect’ nature of this or that particular naked male body – again this is
not Antino’s portraiture – To this product of the ‘ars’ Aristotle grants the
label of an ideal model – not the live model of imperfect nature. It is futile
to try to guess who said what when. Suffice it to say that the statuary-maker
is under pressure from various sides to justify the product of his ‘ars’ as a
proper exemplar that perfects the imperfection of the natural male live model,
reflecting the universal law of the kósmos. The artist has to look at
philosophical mathematics. There is a historic change in the re-presentation
(improved re-presentation, improvement) in the product of ‘ars’ of the body of
a naked live model. Ironically, the abstract concept behind a ‘youth’ or ‘kouros’
[e. g. marble 194.6 cm (h) Met Museum 32.11] with its ‘formulaic’ tendency to
convey the naked male form of a live model through a descriptive line and a block-like
(rather than waving) form gives way to contrapositum
(contrapposto), and a greater fluidity – if not ‘naturalism’ -- conjuring a three-dimensional
volume of live flesh. This ‘naturalistic’ figure type becomes the standard or
canon. The ‘canon’ itself (first canon, as we shall see – cf. Lisippo) referred
to the Doriforo of Policleto. Policleto obviously moulded and cast in bronze as
he was in front of the real ‘doriforo’ (name unknown), the canon (qua model
what exemplum) with copyists, notably in the copy of 212 com (h) at Naples –
Museo Archeologico Nazionale, Napoli, 1st century bc copy of
original of c. 440 bc, -- inv. 6011 The
canon was famous in antiquity for its elaborate system of measurements about
which Policleto wites a philosophical treatise known as ‘The Canon.’ To judge
from what philosophers say about the spear-bearer, it is an explanation of the
principle of proportion that Policleto declares to be the key to perfection in
the product of the ‘ars’ qua re-presentation of the body of the male live
model. The concept of ‘symmetria’ (commensuratio) is used to describe this
system of a measured proportion. To the ancient authors, however, it signified
a commensurability of parts measured in relation to one another and to the
whole. Thus, the length of a finger was calculated in relation to the hand and
the hand in relation to the whole arm and so on. Ideal beauty, based on
mathematical perfection was, therefore, quantifiable. The preoccupation with
numbers in idealised sculpture has strong links to the number-based aesthetics
of the Pythagorean school of mathematics, first anticipated in architecture.
Another link to the natural philosophy of the Ionian Enlightenment is the
deliberate balancing of opposite motifs. There was found a bio-mechanical
system of parts that were at once weight-bearing and weight-free, engaged and
disengaged, stretched and contracted, tense and relaxed, raised and lowered –
an overall balancing principle of contrapposto found in the statue Doryphoros
and in many classical statues extremely influential. Polykleitos trains at a
workshop (not an academy like Plato’s!) of Ageladas of Argos, along with Mirone.
Mirone’s statue [v. Museo Nazionale Romano, Roma, inv. 126371 – 155 cm (h) copy
of original of c. 460-450, marble] is said
to have more by way of ‘commensuratio’ about them than any other statues of his
generation. As with the Doryphoros so with Myron’s Discobolo, known only
through Roman copies, it is pretty difficult to hypothesise the exact system of
proportion that he uses. We detect the deployment of balanced opposites in the
composition. The creators of the doriforo and the discobolo share a common
regard for the live model that transcends the nature of the live model. Although
Polykleitos’ Canon and its physical embodiment, the original doriforo, are lost
– the most famous Roman copy was excavated ONLY AT THE END OF THE OTTOCENTO –
various literary sources handed over to the Renaissance the knowledge of them
and the classical principle that the beautiful model is based on proportion,
commensurability and mathematical perfection. This is the quest for the
beautiful model that is measured and defined within the premises of natural
philosophical mathematics. In the minds of commentators, the attribution of the
power of creation (poiesis) to the statue-maker likens him to a seer and affords
him a unique insight into his subject. It was said of Policleto that while his
skill is suitable for representing what Vico (and Carlyle) calls a ‘hero’
(Italian ‘eroe’ – cf. il culto dell’eroe), the imaginative power of Fidia –
author of the Parthenon’s sculptures, notably the Elgin marble of MARTE qua
simbolo della mascolinita – conjures a ‘deus’ (dio). His positive view of the
intuitive process of artistic creation (poiesis) becomes especially important
in Rome where copies of the great works of Greek classical sculpture are
reproduced in large numbers. ‘Re-produced’, that is, but not ‘re-plicated’ (cf.
replicatura). For no two copies are, by definition, ever exactly *the same*
(for one, the piece of marble is ‘another’). A Roman copyist, so-called, is,
mostly an ethnic [it. ennico] Greek. He probably saw his product as a variation
on a theme, or an improvisation (if not improvement) on the ‘original’, not a slavish
copy – plus, his Roman Mecenas couldn’t care less – connoisseurship was looked
own. A Roman vir has other things in mind, such as battle! It is through this
army of Roman copies that Italian artists acquire a fragmentary knowledge of
the proto-type (cf. Weber’s ideal type], the vast majority of which, in bronze,
as they should – for sculpting marble is different than moulding wax -- are
deliberately melted by Christians as blasphemous pagan, heathen, gods and
heroes. The spectre of the greatest mind of all antiquity, Plato, and his
condemnation of art always hover over the heads of artists and art lovers
alike. In the high empire of ancient Rome a neo-Platonist movement challenges Plato’s
extreme opinion and argues for the product of an ‘ars’ of being possessed of the
intellectually beautiful (even if first perceived through the senses – nihil
est in intellectu quod prior non fuerit in sensu. Plotino notes: ‘now it must
be noted that the wax [...] brought under a hand to a ‘beautiful’ ‘form’ or
‘shape’ (eidos, idea, morphe) is ‘beautiful’ not ‘he’ or qua wax – for so the
crude block would be as ‘pleasant’ or pleasurable or pleasing – but *qua* form,
eidos, shape, morphe, or idea. This practical and workable Aristotelian and
neo-Platonic rather than the Platonic philosophy of art was that adopted by most
Italians (even if they let Ficino dreamed about!). The paradoxical (feigned,
ironic, taunting) superiority of the product of an ‘ars’ art to nature – as a
selected, ideal, improved, correctio version of it (no ‘warts and all’) – has
been a central premise of the “beau ideal” where ‘beau’ can be in the Romance
languages both masculine and neuter (‘il bello’ – il bello ideale) in the humanistic
theory of art and especially in its neo-classical incarnation. A statue is admired
and enjoyed as the embodiment of a moral aesthetic that can be applied also to a
plaster cast. It serves both as the paradigm of art training and as source of
inspiration for artists for centuries. For an introduction to ancient
aesthetics and views on art, see Tatarkiewicz 1970; Pollitt 1974. Selections of
primary sources are included in Pollitt 1983; Pollitt 1990. The main source for
this famous sentence is Platone, Theaetetus 151e. See also Diogenes Laertius,
De Vitis ... philosophorum, 9.51. 3 Platone, Republic, 10, esp. 10.596E–597E. 4
Xenophon, Memorabilia, 3.10.1–5. 5 Aristotele, Poetica, 1448a1; Politica,
1340a33. See also Metafisica, 1.1, 981a. 6 Plinio, Naturalis Historia,
34.57–58. 7 Cicerone, Bruto, esp. 69–70, 296; Plinio, Naturalis Historia,
34.55; Galeno’s treatises, esp. De Placitis Hippocratis et Platonis, 5, and De
Temperamentis, 1.9; Quintiliano, Institutio Oratoria, esp. 5.12.21 and
12.10.3–9; Vitruvio’s De Architectura, 3.1. 8 Quintiliano, Institutio Oratoria,
12.10.3–9. 9 Plotino, Enneads, 5.8.1. 14 ‘Nature Plus-Quam-Perfected’: --
the ‘Drawn from the Antique’ at the Royal Academy. ‘Desegno dall’antico’,
‘desegno dalla natura’. In his inaugural lecture as Professor of Painting at
The Royal Academy of Arts in London, Opie arranged a few headings, which
included a general definition of painting, the imitation of Nature, the idea of
general beauty, the idea of general perfect beauty, the idea of perfect beauty
the true object of the highest style, as the aim of the highest style, design, drawing,
the most important part of painting, the uses of knowledge of anatomy, symmetry
and proportion the next in importance. great excellence of the *ancients*, the
ancient sculptor in those points; studying antique statuary to advantage, perfection
of the Art of painting under Vinci, Buonarroti, and Sanzio. Opie’s outline,
with its standardised categories, is a clear example of ‘inglese italianato e
un diavolo incarnato’ and a summary of a time-honoured aesthetic tradition
which indeed he is drawing from the antique! Opie’s proposal of what constitutes
‘the high style’ is a direct continuation of the humanistic theory of art, formulated
in early Renaissance Florence and expanded and modified in the succeeding
centuries, mainly in Italy. At the core of this tradition is the thesis that
art imitates nature and, in art’s highest manifestation, perfects nature by
selecting her best parts, to create (poien, design) a model of ideal beauty –
drawn from the antique -- a universal standard to which man aspires. Classical
statuary plays a crucial role in this theoretical framework. An antique statues
is perceived, and often revered, as works in which the process of this
selection of the best parts of nature is accomplished. An antique – and thus a
sketch ‘drawn from the antique’ -- offers the ‘antique’ (not natural live) model
from which the form, the pose, the gesture and the expression of a naked male is
appreciated, in its idealised anatomy and proportion. As the theory evolves
from the 16th century onwards, the three leading protagonists of the High
Renaissance, Vinci, Buonarroti and Sanzio – not mannerist Bernini, such as
Tasso is not in the canon as Ariosto is -- are placed on the same level as the antique,
as the first trio of non-antique or non-ancient (i. e. modern) artists – cf.
Hymns Ancient & Modern) whose statues equal, if not surpass, the antique
(but there was not ‘Drawn from Buonarroti!’). The humanistic theory of art
remains for centuries the philosophical aesthetics. It undergoes many
developments and was at times challenged. It is primarily through the medium of
‘desegno’, drawing, that one is educated in geometry and perspective – to learn
how to re-present space – and in anatomy and the male naked live model – to
learn how to deploy the naked male. ‘Drawn from the antique’ represents the
essential component of this educational method, initially as a convenient model
for the copying the male form, and then progressively as a bench-mark of
perfection whose appreciation one is supposed to assimilate before being
exposed to ‘fallible Nature’, embodied by the naked male LIVE model with all
its imperfections – the profession being underpayed and carried out by
Italians! – and this or that unnecessary feature – however necessary this
unnecessary feature is for the photographer of Antino, before he photoshops! In
its codified and pedantic rigidity, this Vitruvian categorization reveals that,
at the same time as they held theoretical sway, by the beginning of the 19th
century the tradition that he espoused had become increasingly stifling. At the
dawn of the Modern era, a system based on the principle that art is a rational
practice that can be taught by precepts resting on a fixed aesthetic is progressively
being dismantled by those who advocate subjectivity, individual expression and
the conceptual freedom required by inventive genius. Although the normative
principle of the humanistic theory of art remains solidly established within the
academic programme, the creative forces of art are increasingly to be found ‘outside
Plato’s Academy’. With this epochal shift of aesthetic values, classical
statuary, unsurprisingly, suffered most. Precisely because of its status as a
model and standard of perfection in academic curricula, it inevitably
encountered the indifference, if not open hostility, of Marinetti (if not
Mussolini) and those avant-garde Italian artists who did not believe in the
idealising role of art and, increasingly, not even in its imitative one. The
Antique, which sustains and inspires creativity and diversity in art, offering
an immense repertory of forms, expressions and aesthetic principles, loses its
propulsive drive. To understand the pervasive role the classical statue or statuary group plays
in the education and inspiration of artists in the Early Modern period, that is
from the 15th to the early 19th century, we return to the theoretical
foundations and the practical concerns that create and sustain the conditions
for its immense success and eventual decline. After the Middle Ages, in which
the visual arts had been essentially symbolic, aiming to represent the
metaphysical and the divine, in the early Renaissance focus shifts to an art
that, as in antiquity, aims at a convincing ‘imitation’ of the external world,
the world of Nature, with man at its centre. The primary concern of early
Renaissance artists and art theorists is to set a rational rule for the
faithful (or improved) representation of space and the human figure on a
two-dimensional surface, free-standing, in the round. In his “De Pictura”, Alberti
establishes the principle of art as an intellectual discipline, focusing on
geometry, mathematical perspective and the representation of the naked male. The
philosophical conviction that ‘man is the scale and measure of all things’ is applied
to space: Alberti’s choice of viewpoint and scale in the perspective diagrams is
based on the *height* of a well-formed male and the units into which he is divided.
This philosophical position also accepts that the main aim of the art of
statue-making is the depiction of a man’s action, emotion and deed, what
Alberti called “la storia”. Naturally, the study and drawing of the LIVE model
in a work-shop, and later of anatomy and classical statuary in a studio and an academy
or club, are essential for this purpose. Although Alberti’s approach, and even
the literary structure of De Pictura, is based on classical models and
examples, his conception of art is ‘naturalistic’. For Alberti, to become
skilled in the visual arts ‘the fundamental principle will be that all steps of
learning should be sought from nature’ (“dalla natura”, not “dall’antico”). Earlier,
more practical treatises, like Cennino Cennini’s Libro dell’Arte advocates the
study of a painting produced by a master, a practice that encourages repetition
and which could eventually lead to artistic sterility. Alberti accepts the
copying of two-dimensional works by other artists only because ‘they have
GREATER STABILITY OF APPEARANCE than the living, live, lively, model’, but he
privileges the drawing of a statue because, being life-*like* (cf. ‘natura
morta’), it does not impose just ONE viewpoint on its copyist, but infinite –
which makes ‘drawn from the antique’ a fascinating reflection on the
draughtsman, who seeks, say, for rear views!
Hence, while the practice of the early workshop often involved the
copying of three-dimensional models or drawings of such models, it is as a
preparation for life-study (“DRAWN FROM LIFE”) rather than an end in itself. This
is is not to ignore the impact of antique proto-types on artists, which was
enormous. One need only think of Donatello’s Ganimede who was responding to
antique models from very early in the Quattrocento. But from a theoretical
point of view, for Alberti, the emphasis is on the full mastery of the natural
forms (‘DRAWN FROM LIFE’) rather than on the imitation of other works of art,
even those from antiquity. The artist’s goal is to achieve an illusionistic
translation of the external world onto the flat surface of a drawing (‘DRAWN
FROM LIFE’) or into the volumes and masses of sculpture – as in Italian
statuary not based on the Antique: Michelangelo’s Bacco, Bernini’s Enea, etc.
-- Nevertheless, in Alberti we find the roots of two intertwined concepts, both
originating in classical sources, which progressively support and justify the
practice of copying as in ‘drawn from the antique’. The ultimate point is to
create a ‘beautiful’ naked male by selecting the most ‘excellent parts . . .
from the most beautiful naked males. Every effort should be made to perceive,
understand and express beauty. To substantiate this principle, Alberti recalls
the episode of the celebrated painter of antiquity -- depicted by Vasari in his
fresco at his own palazzo in Arezzo, ‘Zeusi compone Elena dalle fanciulle di
Crotona’-- the Italian Zeuxis, who, in order to create Elena, the image of
female perfection, selects the most beautiful maidens from the city of Crotona and
unfairly goes to choose the best part from each. This silly anecdote – sexist,
since the male equivalent would be unthinkable --, derives from ancient
literary sources, and becomes one of the most recurrent adaggi of the art
treatise in the following centuries. Zeuxis embodies and clearly explains the
idea of art as a form of ‘perfected nature’. The beautiful (‘il bello’, for
Italians hardly use ‘bellezza’, unless you are Sorrentino) is based on a system
of a harmonic proportion. For Alberti, in the perfect male the single part – the
two hands, the head, the two legs, he torso, the back, etc. – is related
numerically to the other parts and to the whole (il totto) in the principle of commensurability or
syn-metron, literally the measurability by a common standard. The overall
result is harmonic perfection (‘ Just look in my direction! Ain’t that
perfection!’) which Alberti defines as ‘concinnitas’, a theory that Alberti
bases on Vitruvio’s De Architectura. Pro-portion, which Alberti covers in depth
in his “De Statua” becomes a major subject of philosophical aesthetic
speculation. Vinci and Dürer produce in-depth studies, and Vinci’s ‘uomo
vitruviano’ is the perfect expression of the theory of the mathematical
conception of the naked male [Vinci, Gallerie dell’Academia, Venezia, inv. 228
– Le proporzione dei corpo umano secondo Vitruvio, metal point, pen and brown
ink with touches of wash, 344 x 245 mm c 1490] For Alberti, one selects the
best from nature and reassembles the selection according to a system of
harmonic proportion ultimately resting on the mathematical relation THAT IS
rationally inferred from Nature itself. This principle is the cornerstone of
aesthetics. Although the central textual foundation for the concept that ‘il
bello’ is based on proportion, Policleto’s Canon, had been lost, Renaissance
artists and scholars are well aware through Vitruvio and other classical
writers that ancient artist base his work on this principle. Therefore, from
the 16th century onwards, and especially in the following two centuries, the
crucial appeal that an antique statue had for artists rested not only in its
aesthetic quality and form, but also on the very fact that it embodied the
intellectual principle of proportional perfection. The rationalistic (indeed
illuministic) approach of the Canova’s French academy (when moulding the wax of
Napoleon in nudita eroica) even provides students with manuals in which the
numerical proportion of a statue is carefully laid out. This idea-guided naturalistic
attitude of art theory, which had in any case been greatly modified in High
Renaissance practice, shifts towards an even more idealistic (hyper-idealistic,
not romantic) approach and, simultaneously, a more systematic one, laying the
ground plan for the classicist theory. Because most art theoreticians consider
their era to be a period of artistic decadence and excess after the great
achievements of the High Renaissance, and also because many of them focus on
the codifying of a rule that may be imposed in the academy, the model of
perfection is increasingly deemed mandatory (Dolce, Lomazzo, Armenini), the antique
that they feel inspired and guided the ‘buona maniera’ of Buonarroti and Sanzio
(whom the pre-raphaelites hated), became the standard by which a fault (errore)
of Nature or this or that affectation (say, the length of necks in Modigliani)
is corrected. The ‘drawn from the antique’ takes a decisive lead over the ‘drawn
from life’ (DESEGNO DALLA VITA), and the construction of taste – the lure of
the antique that had lured the antiques themselves, such as Adriano! Correspondingly,
in the classicist tradition that develops in Rome – the headquarters of the
French Academy at Villa Medici -- the Antique (l’antico) becomes the essential
model for the composition. This, definable as the depiction of episodes based
on Roman mythology or Roman history, with a moral value attached, is considered
from Alberti the highest form and final aim and receives the place of honour in
the academic hierarchy of the genres. Although a naturalistic and
anti-classicist tendency remains alive even within the academic system,
classicism establishes itself as the predominant aesthetic principle, as Opie’s
inaugural lecture as Chair of Painting (but not Chair of Sculpture – since
that’s a whole different animal!) at the Royal Academy attests. Its success
rests primarily on the fact that it represents an aesthetic approach that is
considered to express a universal and a ‘true’ principle. And this, because of its
rational nature, can be taught by rule, which suits the systematic attitude of
Enlightenment culture. The proliferation of the academy encourages the
penetration of this set of values even within contexts and cultures that until
then had been only superficially exposed to it. The humanistic theory of art,
clothed in a new and codified form, eventually reaches the most remote corners
of the world, with the antique army as the herald. At the centre of the
education of any artist in the Renaissance was the practice of ‘disegno,’ drawing
or design, considered to be one of the essential foundations of art from
Cennini onwards. ‘Disegno,’ (dall’antico, dalla vita), endowed with an
intellectual role by Vasari and other
theorists, as the manifestation of the idea and invention of the artist, becomes
the essential quality of the Roman and Florentine academies. Successively, it
assumed a central role in the theory of European academies as the expression of
the rational common denominator of the three sister arts: painting, sculpture
and architecture. Opie, himself a poor draughtsman – hence his teaching of
‘disegno’ --, still considered ‘Design, or Drawing, the most important part of
Painting’. Drawing after the Antique, or Drawing from the Antique, as a union
of intellectual medium and intellectual end, becomes integral to the learning
process and the activity of artists, along with ‘Drawn from Life’. The academy
is depicted, the studio, an artists copying from some original or drawing from a
cast, in situ in, usually, Rome or back at home. Whether he is drawing from the
antique on paper to learn how to represent outlines and chiaroscuro – the
effects of light on three-dimensional forms – or to assemble a repertory of the
body’s form, pose and expression, or to assimilate a system of ‘correct’
proportions and anatomy, no would-be member of the academy can avoid
confronting the lessons of the Antique, and of adjusting his creative process
in relation to it. Apart from the didactic and inspirational functions of drawing
from the antique (as opposed as from life), many other reasons justified the
practice. As a result of their pervasiveness, a studio ‘drawin from the
antique’ (disegnato dall’antico’) – which are innumerable – are difficult to
categorise because they are produced for different reasons, serve different
purposes and display different conceptions and relations to the antique.
Nevertheless, one might attempt a division. There is the didactic ‘drawn from
the antique’: a copy produced his education as an a course assignment at the
Academy: a drawing produced by a master in a workshop to provide the apprentice
with an accessible repertory of classical forms to copy. There is RECORD drawing:
a sketch created to serve as inspiration for a form, a pose, am expressios, a composition,
a movement, a proportion, etc., for its own artistic purpose. There is translation,
a precisely finished drawings intended to be engraved, usually conveying as
much information as possible about the statue’s form and pose. There is documentary
drawings, produced with the purpose of recording accurately the physical
appearance of an antiquities obviously including any damage the statue may have
undergone. To this category belong many drawings produced specifically for the antiquarian
collector, from the “Codex Coburgensis” to those of the famous ‘Paper Museum’
assembled by Pozzo. There is the marketable
drawing: a finished copy specifically produced to be sold on the market or
commissioned by a collector to fill his ‘paper museum’ of classical
antiquities. Examples are those by Batoni for Richard Topham, Esq. – The Topham
Collection --. There is the promotional drawing, a drawing made with the
specific purpose of promoting the acquisition of an item (statue or statuary
group), such as those by Jenkins to Townley – The Townley Collection. Naturally,
as with any categorisation, these divisions are a simplification and a drawing
may overlap two or more classes, such as this or that drawing by Goltzius, intended
to be engraved, but which also function as a repertory of an antique forms to
be used in the artist’s practice. Whatever their categories, all these drawings
followed the technical evolution of the medium, from the predominant metalpoint
and pen-and-ink to the black and red chalk. Athough pen-and-ink remains a
favoured medium, chalk becomes the choice for FULL-SIZE statuary, as a softer,
more pliable medium it allows a more sophisticated rendering of a tonal passage
and, therefore, of relief and anatomu. Red chalk especially offers the impossibility
of bringing the ANTIQUE (antico) to LIFE (vita), transforming or
transubstantiating inorganic matter into ‘warm flesh’. In artists’ workshops
one of the most important aspects of an apprentice’s training, aside from
mastering the manual procedures of painting, is copying works by the master and
other artists. This is intended as a means to shorten the process of learning
how to represent the THREE-DIMENSIONS onto two thanks to examples already
produced by others. This practice is described by Cennini, although still
intended only to train the apprentice to reproduce the master’s style and not
yet Nature or Life. An aapprentices could resort to copying model books and
sketchbooks already assembled by the master or by others. These were
repertories of a drawing of an animal, a plant, decorative details, a male nude
at rest, a male nude in action, usually produced as teaching tools, and it is
in these collections on paper that we find the earliest surviving drawings
derived from classical antiquities. The Antique is included mainly as a source
of information on the anatomy, its form, modelling, pose, expression,
movementsand the interaction of all t hese elements. Most of the early
drawings that represent antique forms are produced by artists active in Rome
where the largest number of accessible physical remains from antiquity is
concentrated. AN ANCIENT FULL-SIZE STATUE IN THE ROUND may have survived above
ground. Among the most famous publicly displayed examples are the ANTONINO, or
pseudo-Constantine the Great. outside the Lateran Palace, the Spinario, and the
Camillo, both of which are moved from the Lateran to the Campidoglio by Sesto IV;
the Quirinal Horse Tamers, I DIOSCURI, and the two Quirinal Recubantes or
Rivers. Virtually no ancient painting is known, and its appearance was
conjectured from a description (ecphrasis) in a literary sources, notably
Pliny’s Naturalis Historia (esp. book XXXV). It was only with the exploration
at the end of the 15th century of the buried interiors of the Domus Aurea of
Nerone in Rome, known as grotte, that artists access ancient examples, and from
this time a wave of grotesque motifs and decorations spread widely. More
readily available is a sarcophagus relief or a large imperial relief. A drawing
may depict mainly this category of ancient artefacts. They are popular because,
with their complex, frieze-like narratives, it inspires the compostion of a
“storia” as Alberti notes. Among the most frequently represented are the
reliefs of sarcophagi and the imperial reliefs of Trajan’s Column and the
Arches of Titus and Constantine. The subjects preferred by late Gothic or early
Renaissance artists – Bacchic themes, Amazons, the story of Adone, marine
deities or ancient battles – demonstrate an interest in the nude and in the
depiction of movement, dynamism and strong expressions. Although it is recorded
that Donatello and Brunelleschi copy antiquities during their stay at Rome, no
drawings survive by either of them to reveal their approach to the Antique. The
earliest surviving drawings of an antique is by artists in the workshops of
Fabriano and Pisanello, when they were in Rome working for Martino V in St John
in Lateran. The drawings correspond in many ways to the paintings. They show
little awareness of the formal principle of classical art, transforming a figure
from a Roman sarcophagus relief into a Gothic type. They often re-interpret the
pose and, sin! -- proportion of the original, even, as in the case of a sheet of
a fantasia in the Louvre, assembling figures from different s arcophagi. This
process of extra-polation, isolation and modification is common to many
drawings from the Antique. The draughtsman creates a visual repertories of
single figures, or isolated groups of figures which are easy to re-use in their
own compositions. From a teaching point of view, an isolated figure is probably
considered, at least in the model books and sketchbooks, to be more readily
assimilable by the apprentice in the workshop than a whole composition. A good
example of such an approach is seen in a drawing attributed to the so-called
‘Anonymous of the Ambrosiana’, from a sketchbook made in Rome in The original
model is a celebrated sarcophagus relief of the Muses, Minerva and Apollo then
in the church of Santa Maria Maggiore. It was copied in drawings by several
later growing archaeological awareness, in parallel with the spread of
antiquarian studies and rising interest in the classical world and its physical
remains. On the other hand, artists display a free handling and more personal
approach to the original, as they move away from the restraints of the model
book. With the exception of Donatello, from whom he learned much, MANTEGNA is
the quattrocento artist who had the most complex and sophisticated relationship
to the antique. Mantegna’s approach is evident in the introduction of direct
quotations from ancient architecture, reliefs and sculptures in his paintings
and frescoes and in his adoption of a precise, highly sculptural painting
style. A drawing by MANTEGNA – or a copy after a drawing – executed during his stay
in Rome accurately renders a classical proto-type but with a vivacious freedom
in style. It represents one of the Trajanic reliefs inserted in the central
passage of the Arch of Constantine. MANTEGNA sketches it at an angle from the
right side and from below. He precisely records the relief’s damaged condition
by showing both the emperor and the helmeted soldier on the right without their
right hands. He interprets the composition freely, concentrating on the most
prominent actors and on the relief’s formal principle, specifically its
treatment of movement and emotion, qualities praised by Alberti as essential
for the construction of a “storia”. The flow from left to right is accentuated,
Trajan has windswept hair.The horse is shown galloping, less upright and
frontal. The mouths are wide open, as are those of the soldiers on the right,
expressing the intensity of emotion in the victory over the Dacians. A drawing
like this serves a two- fold purpose, as a study of a formal principle and a
record of antique costumes, armours, shields and helmets. Its organisational
lessons and visual references could then be re-used to demonstrate the artist’s
power of inventio and his erudite knowledge of the classical past, as Mantegna
indeed does at Mantova in his sequence of canvases of the Triumph of Caesars [Sarcophagus
of the Muses, with Apollo and Minerva, front, 2nd c. ad, marble,
Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung, Vienna, inv. I 171. Andrea Mantegna,
or circle of, Drawing after the Relief on the Arch of Constantine, end of the
15th century – beginning of the 16th, black chalk with brown ink, 273 × 189 mm,
Albertina, Vienna, inv. 2583r. Workshop of Pisanello, Three Nude Figures from
Ancient Roman Sarcophagi, c. 1431–32, silver point, pen and brown ink on
vellum, 194 × 273 mm, Louvre, Paris, inv. 2397]. artists, including Lippi and Franco
and it was engraved by Raimondi. The Ambrosiana draughtsman reproduces only a
few figures, changing their position and disregarding their interrelations and
the background, no doubt with the intention of assembling a range of drapery
studies that could be re-used in the future. The artist selects primarily
figures that offered the greatest variety and movement of cascading robes,
leaving the nude Apollo in the bottom right corner unfinished. Two tendencies,
apparently opposed but both symptomatic of a more profound understanding of the
antique, gains ground in sketchbooks and loose drawings. On one hand there was
a [Anonymous of the Ambrosiana, Figures from an ancient Roman Muses Sarcophagus,
c. 1460, metal point, pen and brown ink, heightened in white, on pink prepared
paper, 310 × 200 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. F. 214 inf.] A similar
evolution is seen in drawings that reproduce FREE-STANDING classical statuary.
Not surprisingly, all are after the most famous statues then visible in Rome
which, given their size and anatomical detailing, were an invaluable source for
the study of the male body. The earliest examples are again a group of drawings
by Pisanello. They represent, among other figures, the ANTONINO and one of the
two Horse Tamers or Dioscuri on the Quirinal Hill. The latter is especially
relevant for our purpose, as the Dioscuri constitute the two most complete
free-standing nude in Rome. Both Dioscuri are copied repeatedly, praised by
contemporary written sources, and [Trajan overpowering Barbarians, Roman, c.
117 ad, marble, Arch of Constantine, central arch, north façade, Rome remained
constant sources of inspiration for artists into the 19th century. In a drawing
of one of the Dioscuri, the draughtsman isolates the sculpture from its
context, and focuses exclusively on rendering the anatomy. The cloak on the
forearm is just outlined. Although it is an impressive achievement and while
the male nude is realised much more plausibly than those figures taken from
sarcophagus reliefs, the ELONGATION and SLIMMING
of the figure and the inaccurate rendering of the idealised anatomy betrays a Gothic
mindset. The same DIOSCURO is copied in a drawing by Gozzoli [ Equestrian
Statue of Marcus Aurelius, Roman, 161–180 ad, bronze, 424 cm (h), Capitoline
Museums, Rome, inv. MC3247. Workshop of Pisanello, Marcus Aurelius, c. 1431–32,
pen, brown ink and wash heightened in white on brown-orange prepared paper, 196
× 156 mm, CASTELLO SFORZESCO, Civico Gabinetto dei Disegni, Milan, inv. B 878
SC. One of the Two Dioscuri or Horse Tamers, Roman copy of the 2nd century ad,
after a Greek original of the 5th century bc, marble, 528 cm, Quirinal Square,
Rome] Pollaiuolo. Many are modelled on an ancient proto-type, like those being
handled and studied by the artists at Bandinelli’s academy. But ‘DISEGNO DALLA VITA’
from a posed apprentice is also widely practised and becomes increasingly
common in the final decades, especially in Florence. Another drawing by Gozzoli’s
circle shows the practice of setting a male naked LIVE MODEL in the pose of
(apres, after) “l’antico” – a contradiction: DISEGNO DALLA VITA E DALL’ANTICO. In
this case the obvious reference is the Spinario, the celebrated bronze antique
figure whose complex pose remains one of the most popular for a live model. The
use of the model book as a teaching tool disappeared but sketchbooks and the travel
book reproducing antiquities became more widespread. Their progressive
diffusion is one of the clearest indications of the spread of interest in the antique
and goes hand-in-hand with the formation of collections of antiquities and the
pursuit of antiquarian studies, such as Biondo’s influential “Roma Instaurata”,
a methodical guide to the monuments of Rome. Enthusiasm for classical art and a
more attentive study of its forms and principles is reflected in the increased
dynamism, pathos and complexity of the compositions that we can see in Italian
painting and sculpture in the work of Florentine artists like Pollaiolo,
Ghirlandaio and Lippi [Workshop of Benozzo Gozzoli, A Nude Young Man Seated on
a Block, His Right Foot Crossed over His Left Leg, c. 1460, metalpoint, over
stylus indications, grey-brown wash, heightened with white, on pink-purple
prepared paper, 226 × 150 mm, The British Museum, Department of Prints and
Drawings, London, inv. Pp, 1.7] probably executed when he was in Rome to assist
Fra Angelico in the St Nicholas Chapel in the Vatican Palace]. In this case the
drawing is again far from accurate, and the draughtsman combines the Dioscuro
with the horse held by his twin. Again the forms are isolated. As in the
earlier drawing the supporting cuirass and the strut between the right arm and
thigh are omitted as is the cloak on the forearm. The group is set against a
neutral backdrop and on the ground rather than on its pedestal. Although the
Dioscuro stands firmly, and although his anatomical structure, his surface
musculature and their modelling are rendered much more convincingly than in the
Pisanello drawing, the idealisation of the male is still not emphasised and we seem
to be looking at a real MALE taming his horse rather than at a heroic marble
statue. Although it is difficult to draw general conclusions based on such
exiguous surviving material, it seems safe to say that formost 15th-century
artists, classical free-standing statuary was seen as a model for the nude male,
its poses and movements. With notable exceptions, such as Donatello, artists
did not try to grasp the anatomical and formal principle of the original nor does
he aspire to recreate the process of idealisation innate in so many classical
nudes. For this reason, the drawings are often not immediately recognisable as
copies after the Antique (‘drawn from the antique’). The Antique could also be
copied inside the workshop using SMALL-SCALE three-dimensional models. We have
plenty of evidence about collections of antique statues, often fragments, and
the ownership of plaster casts by artists. Their presence in the work-shop is also
acknowledged in “De Sculptura” by Gaurico, who speaks of artists having
cabinets ‘filled with any sort of sculptures’ and ‘chests filled with casts’. Although
a cast may OBVIOUSLY BE TAKEN from a male naked live model, as described by
Cennini, others are ‘cast from the antique’, such as those mentioned by
Ghiberti and Squarcione, the teacher of Mantegna, whose workshop at Padova
contained a collection of antiquities. Casts and antiquities are part of the
working material of the bottega. They also serve to elevate the status of the
workshop to that of a STUDIO or STUDIUM, a place of cultivation of liberal
arts, the beginning of that process of the intellectual emancipation of the
artist that would be fully developed with the foundation of the academies. A
beautiful drawing of feet, part of a sketchbook by Gozzoli eloquently shows the
use of casts, in this case most likely taken from antique fragments, as
teaching tools in the bottega. We see here one of the earliest visual records
of a [Spinario, Roman, 1st century bc, bronze, 73 cm (h), Capitoline Museums,
Rome, inv. MC1186. Pisanello, or circle of, One of the Two Dioscuri or Horse
Tamers, c. 1431–32, silverpoint, pen and brown ink on vellum, 230 × 360 mm,
Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. F. 214 inf.10v. Benozzo Gozzoli (attr.), One
of the Two Dioscuri or Horse Tamers, c. 1447–49, metalpoint, grey-black wash,
heightened with lead white, on blue prepared paper, 359 × 246 mm, The British
Museum, Department of Prints and Drawings, London, inv. Pp, 1.18. Workshop of
Benozzo Gozzoli, Studies of Plaster Casts of Feet, c. 1460, silverpoint
heightened with white, on green prepared paper, 225 × 155 mm, Museum Boijmans
Van Beuningen, Rotterdam, Benozzo Gozzoli Sketchbook, fol. 53] practice,
copying from a cast, that would expand exponentially. For the study of the naked
male and the three-dimensional form, a pupil could rely also on small models in
wax, CLAY, or bronze, provided by such sculptors as Ghiberti or Sanzio, Buonarroti,
and Rome as the Centre of the Study of the Antique. The following generation,
that of Buonarroti and Sanzio, sees a seismic shift in the approach to the antique.
They now attempted to equal or even surpass the antique by penetrating its
principles.The two titans of the High Renaissance had a radically different
approach towards the classical naked male form, but they both aime at assimilating
the ancient ‘mimetic’ or imitative standard of an idealised naturalism, full
mastery of the naked male, its anatomy and proportions, and the convincing
rendering of the EMOTION or EX-pression (or affect) of the soul. Vinci expresses
a deep interest in the Antique and is directly exposed to it in Florence
and in Rome. The classical naked male form is referenced in many of his works,
particularly in the unrealised project for an equestrian statue of Francesco
Sforza in Milan. But Vinci’s naturalism, based on empirical observation, means
that he always checks his ancient sources against the scientific observation of
the natural world. He remains a naturalist at heart, famously stating that ‘he who
copies a copy is Nature’s grandchild when he may been her son’. On the other
hand, from a practical point of view, Vinci also acknowledges the usefulness of
copying from a ‘good master’ and sculpture. While for Vinci the Antique remains
an interest secondary to Nature, Sanzio’s and Buonarroti’s engagement with the
antique is on an unprecedented level. The immense impact that Sanzio and
Buonarroti have on their own generation and on Western art in the centuries
that followed lies in the very fact that they are perceived and celebrated as
the first modern masters who had equalled, if not surpassed, the ancients. Opie,
lecturing on painting at the Royal Academy, proclaims the ‘perfection of the
Arts under Leonardo da Vinci, Michael Angelo, and Raffaelle’, but their status
as modern classics was already acknowledged during their lifetime. Bembo
elevates Buonarroti and Sanzio to the same pedestal of the ‘ancient good
masters’ and Vasari sustains his uncompromising panegyric of Buonarroti by
affirming that his Davide (Galleria dell’Accademia, Florence) surpasses in
beauty and measure even the best ancient monumental sculptures of Rome, in
particular the various Rivers and the Horse Tamers on the Quirinal. The Mondern,
now capable of providing an idealised nude more convincing than the most famous
surviving classical ones, outshines the Ancient. Artists of Sanzio’s and
Buonarroti’s generation have the advantage of benefiting from more, and more
readily available, ancient statuary, including those discovered in excavations
and those displayed in relatively accessible settings. However, both Vinci and
Buonarroti must already have been exposed to drawings, casts and models after
the Antique respectively in the workshops of Verrocchio and Ghirlandaio. Both
studied (although Vinci briefly) in the Giardino di San Marco, an informal
academy set up by Lorenzo il Magnifico to train artists specifically in drawing
and copying after the antique under the supervision of the sculptor Giovanni. Vasari
informs us that Buonarroti devoted himself obsessively to the task, and Condivi,
Buonarroti’ss biographer, emphatically states that the genius ‘having savoured
their beauty [...] never again goes to Ghirlandaio’s workshop or anywhere else,
but there he would stay all day, always doing something, as in the best school
for such studies’ As a pupil Sanzio probably did not receive a similar training
in the workshop of Perugino, who had less interest in the Antique. But some
drawings with reference to classical models survive and he certainly
participates in the sophisticated antiquarian environment in Florence, where he
moves. It is the impact of what Buonarroti and Sanzio see in Rome, where they
both moved that has the most far-reaching and radical impact on the evolution
of their art and their relationship with the anqique. Under the pontificates of
Rovere (Giulio II and Leone X, Rome establishes herself as the centre for the
study of the Antique. Many of the most celebrated collections of antiquities – Medici,
Farnese, Borghese, Ludovisi, Albani -- are formed or consolidated, such as
those of Riario, Maffei, and Della Valle
and later on the Cesi and the Sassi. The collection of antiquities at
the Campidoglio is enlarged with the transfer of the statues of the Rivers, the
Nile and the Tiber from the Quirinal and the Antonino from the Lateran, the
latter a statue so important for the symbolic imagery of Rome that Buonarroti
designs a square around it. However, the real centre of attention in the early
years of Buonarroti and Sanzio in Rome are the new discoveries emerging from
the soil of the city. Within a few years some of the statues that would attract
the attention of artists and connoisseurs for centuries to come are discovered,
[Anonymous engraver after Maarten van Heemskerck, The Antique Courtyard of the
Palazzo Della Valle, 1553, engraving, 289 × 416 mm, Rijksmuseum, inv.
RP-P-1996-38] provoking enormous enthusiasm among contemporaries: the Apollo del
Belvedere, the Laoconte, the Cleopatra, the Ercole Commodo, and the large
rivers Tevere and Nilo. By 1512 all could be admired, with the addition of the
Venere Felice in the Cortile Ottogono del casino della Villa del Belvedere nel
Monte Vaticano, a purpose-built space commissioned by Giulio II from Bramante,
the great interpreter of ancient Roman architecture. The Cortile, displaying
some of the most complete and prestigious sculptures from antiquity, soon
became the canonical Roman site for making a copy ‘drawn from the antique’. It
retains its unparalleled prestige, as the many drawings after its statues
eloquently attest. It is invaluable, as the Cortile del Belvedere offers them
the opportunity to study different male forms and positions and different sub-types
of ideal beauty at the same time: moving from the Apollo, to the strong and pronounced
muscular anatomy of Ercole Commodo. Two more statues are added to the
Courtyard: the Antino del Belvedere and the Torso del Belvedere. The Antino del
Belvedere is to become the canonical model for artists for the perfect
proportions of the naked male body. The Torso del Belvedere becomes one of the
most copied of all antiquities, a compulsory reference for the body of the
muscular male at rest, especially because of Buonarroti’s admiration for it and
the popular belief that he gives instructions to leave it unrestored. The
master’s praise of the evocative fragment became a leitmotif in artistic
treatises and literary sources to the point that it [Fig. 17. Hieronymous Cock
after Anonymous Draughtsman, The Capitoline Hill, 1562, etching and engraving,
155 × 212 mm, Metropolitan Museum, New York, inv. 2012.136.358] became known in
18th-century Britain as the ‘School of Michelangelo’. The Cortile del Belvedere,
the Campidoglio, and the collections in the various palazzi: Palazzo della
Valle and others, remain the privileged centres for copying the Antique in Rome.
The increasing number of accessible classical statues makes Rome a pole of
attraction, to congregate and to complete one’s education and gather on paper a
repertory of classical forms and motifs. This was a phenomenon central to the
development of art. It is evocatively
described by Bembo. Under Giulio II and Leone X both Buonarroti and Sanzio are
at the centre of the antiquarian debate and, as Bembo puts it, play an
essential role in their efforts to emulate and surpass the antique (they fail).
Indeed Vasari attributes the rise of the ‘bella maniera’, and the great
achievements of Sanzio and Buonarroti, to their familiarity and exposure to the
Belvedere statues. Even if Vasari’s words are a retrospective celebration aimed
at establishing the primacy of the Florentine and Roman schools, the spirit of
classical art permeates much of Buonarroti’s and Sanzio’s Roman production and
specific antique proto-types are evoked in many of their works. One need only
think of the inspiration Buonarroti derives from the Torso del Belvedere for
his Ignudi in the Sistine Chapel. Given their familiarity with classical
antiquity, it may seem strange therefore that very few drawings after classical
statuary by either Buonarroti or Sanzio survive. Many might have been
intentionally destroyed. Vasari recounts Buonarroti’s burning large numbers of
drawings, sketches [Fig. 18. Apollo del Belvedere, Roman copy of
the Hadrianic period (117–138 ad) after a Greek original of the 4th century bc,
marble, 224 cm (h), Vatican Museums, Rome inv. 1015 Laocoön, possibly a Roman
copy of the 1st century ad after a Greek original of the 2nd century bc,
marble, 242 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 1064. Cleopatra, Roman copy of
the Hadrianic period (117–138 ad) after a Greek original of the 2nd century bc,
marble, 162 (h), Vatican Museums, Rome, inv. 548] and cartoons so that none
could see the efforts of his creative process. Nonetheless, in the few
surviving drawings which bear direct references to classical models, one sees
their tendency towards ‘assimilating’ the spirit of antique forms rather than *slavishly*
copying them (as an amanuensis would). This attitude can be shown by comparing
a drawing by Aspertini after the Belvedere Cleopatra with one by Sanzio derived
from the same statue. Aspertini’s copy, paired on the facing page with one from
a relief from the Arch of Constantine, embodies the attitude typically seen in
a sketch- book: a more or less faithful rendering of the antique form, in this
case rather finished and accurate, that serves as a record. Sanzio’s drawing
represents a more evolved phase, when the ancient form takes a new shape: the
elegant and difficult pose of the body of the Cleopatra and the play of the
drapery over her intertwined [Aspertini, The Sleeping Cleopatra and a Relief
from Trajan’s Column, (verso) post 1496, pen and brown ink, over black chalk,
on two sheets conjoined, 254 × 423 mm, The British Museum, Department of Prints
and Drawings, London, Sanzio, Figure in the Pose of the Sleeping Cleopatra, c.
1509, pen and brown ink, 244 × 217 mm, Albertina, Vienna, inv. 219. Sanzio, The
Muse Calliope, detail from the Parnassus, c. 1509–10, fresco, Stanza della
Segnatura, Vatican Palace, Rome] legs are used as an inspiration for the muse
Calliope in his Vatican Parnassus. Sanzio nevertheless also produces some
‘record’ drawings. Nominated by Leo X as inspector of all the antiquities in
and around Rome and embarked on a project to reconstruct the aspect of ancient
Roman buildings based on precise architectural surveys of their remains. His method,
based on a precise analysis paired with ancient literary sources, remains
unmatched. His scholarly attitude towards classical art and his thorough
understanding of it are clearly expressed in a famous letter that he wrote to
Leo X with the help of the courtier Castiglione in which he appeals against the
destruction of classical monuments. At the same time, he provides an
outstandingly accurate description of the different styles of ancient sculpture
found on the Arch of Constantine. One of the very few surviving exact copies of
classical statues in Sanzio’s hand is indicative of his precise, almost [Hendrik
III Van Cleve, Detail from View of Rome from the Belvedere of Innocent VIII,
1550, oil on panel, 55.5 × 101.5 cm, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique,
Brussels, inv. 6904. Pseudo-Antino del Belvedere, Roman copy of the Hadrianic
period (117–138 ad) after a Greek original of the 4th century bc, marble, 195
cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 907. Belvedere Torso, Greek or Roman, 1st
century bc, marble, 159 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 1192] archaeological
approach to the Antique, and we can assume that he produced similar ones during
his period as inspector of Roman antiquities. It is a clear rendering of one of
the two horses from the Horse Tamers on the Quirinal, that we encountered in
Gozzoli’s study. There could not be a better comparison to demonstrate the
progress made in the understanding of classical statuary. Sanzio’s drawing is
‘scientific’. We clearly recognise that the horse is a piece of marble
sculpture, with a faithful record of its missing left leg and the joint between
the neck and the body. The horse is COPIED, i. e. DRAWN AT EYE LEVEL (Sanzio presumably
stood on a platform) and not seen from below, as in most other contemporary
views. This allows the proper study of the proportion of the sculpture, in a
way similar to an architectural elevation. Outstandingly, even the measurements
of the statue are recorded on the drawing, probably by one of his pupils,
making this the first surviving measured drawing of a classical statue. Incidentally
Sanzio’s drawing also shows the introduction of a new medium – red chalk –
which would become one of the preferred tools for drawing after the Antique. It
is likely, nevertheless, that Sanzio generally left making such specific
records of classical sculptures to the pupils of his large workshop, as several
surviving drawings in the hand of Romano and Polidoro da Caravaggio, among
others, attest. Some of these were probably intended to be engraved, as it is
in Sanzio's circle that we find the first printed images of celebrated statues
and reliefs, such as those of Raimondi, Marco [Sanzio The Right Horse of the
Horse Tamers on the Quirinal Hill, c. 1513, red chalk and pen and brown ink
over indentations with the stylus, 219 × 275 mm, National Gallery of Art,
Washington D.C., inv. 1993.51.3.a, Woodner Collection. Buonarroti, Study of an
Antique Torso of Venus, c. 1524, black chalk, 256 × 180 mm, The British Museum,
Departments of Prints and Drawings, London, inv. 1859,0625.570. Buonarroti, A
Youth beckoning; A Right Leg, c. 1504–05, pen and brown ink, black chalk, 375 ×
230 mm, The British Museum, Departments of Prints and Drawings, London, inv.
1887,0502.117. Romano (attr.), Apollo del Belvedere, c. 1513–15, pen and brown
ink, pencil, 316 × 155 mm, Albertina, Vienna, inv. 22449. Veneziano, Apollo
Belvedere, engraving, c. 1518–20, 269 × 169 mm, private collection. Dente and
Agostino Veneziano (c. 1490–after 1536; fig. 29). The print medium, which plays
a crucial role in disseminating the knowledge of the Antique is to be
increasingly used in work-shops and academies for training. One first copies
the Antique from a flat image, before turning to the third dimension of a cast or
an original. Sanzio’s approach towards the Antique, based on study,
measurement, reconstruction and dissemination, cannot be more distant from that
of Buonarroti, who constantly confronts the classical models with a challenging
spirit. Several anecdotes reported by contemporaries reveal his approach
towards antiquity. Boissard informs us that shortly after having seen the Laooconte
emerging from the ground of the Esquiline, Buonarroti enthusiastically comments
that it is ‘a singular miracle of art in which we should grasp the divine
genius of the sculptor rather than trying to make an imitation of it’.This
quotation is poignant for understanding the Platonic concept of divine
inspiration for Buonarroti. At the same time it shows clearly that his
relationship with the antique model was not based on a process of imitation but
rather on that of ‘aemulatio,’ a creative rivalry possible only after the
assimilation and internalisation of its principle. This approach is reinforced
in a celebrated passage from Vasari which became a recurrent leitmotif in
subsequent art literature – in which he reports that Buonarroti creates figures
of nine, ten or even twelve heads high, searching only for the overall grace in
the artistic creation, because in matter of the proportion, ‘it is necessary to
have the compass in the eyes and not in the hand, because the hands *work* and
the eyes *judge*’. Advocating the principle of grace, consistency of artistic
creation, and the artist’s own judgement, Buonarroti therefore disregards the
canon of *eight* heads comprising the male figure established by Vitruvio,
implicitly expressing a relation with the classical proto-type based on empathy
and intimate understanding of its form, rather than on a rational adherence to a
rule based on a number– an approach he replicates in his architecture. Buonarroti’s
surviving copies after classical statues can be counted on one hand, such as a
series of reproducing the torso of an antique Venus, probably made in
preparation for one of the female figures in the Medici Chapel. His free
relationship with the Antique emerges from many of his drawings, for instance
the Beckoning Youth, loosely inspired by the Apollo del Belvedere. Buonarroti evokes
the pose and aspect of the celebrated statue, but turns it into something new,
where the hint of movement of the original is dramatically accentuated and
balance is replaced by unstable dynamism. Sanzio and Buonarroti have been
discussed at length because their different attitudes towards classical forms
resurface constantly in Art. This polarity may be defined as assimilating the
principles of the Antique by sticking to its rules and system of proportions OR
assimilating the creative spirit of the Antique by breaking its rules. At the
risk of oversimplification we could argue that Reni and Poussin fall within the
first sphere and Rubens and Bernini in the second. It is not by chance that the
classicist credo that permeates the Italian and French academies for most of
their history elects *Sanzio* as their champion, while the eccentric and unruly
Buonarroti remains a figure more difficult to celebrate from a didactic point
of view. The Antique in Theory plays a Role in the Academic ‘Alphabet of
Drawing’. More statues emerge from the soil of Rome and those already
discovered are given new life and integrity by partial or full ‘restoration’. A
statue is usually unearthed in fragmentary states, as can be seen from the
evocative drawings of Roman collections by Heemskerck. Whether philologically
correct or not, the practice of restoration allows one to copy the naked male in
its entirety rather than in mutilated fragments. Celebrated restorations
included those of the Apollo del Belvedere and the Laooconte by MONTORSI on the
recommendation of Buonarroti. Among the excavated statues three must be
mentioned as they immediately became constant references for artists. The place
of honour goes to the Ercole Farnese. It provides an ideal model for the
muscular male at rest and copies after it become ubiquitous in artists’
work-shops and academies. The other two statues are discovered together in and
immediately entered the collection of the Villa Medici in Rome: I LOTTATORI,
representing two males in a complexly interlocked ‘syntagma’ or group.
I LOTTATORI are used often in later academies as a source for posing TWO LIVE
MODELS – SYNTAGMA DISEGNATO DALLA VITA (see cats 16 and 27b); and the Niobe Group
whose suffering expressions would be widely referenced as a source for drama
and pathos, for instance by Reni, among others. In time, a standard set of
ideal types (to use Weber’s term) begins to take shape, thanks to the diffusion
of bronze and plaster casts and, especially, of prints. After the loose sheets
of Raimondi, Dente and Veneziano, more systematic enterprises are launched.
Collections such as SPECVLVM ROMANÆ MAGNIFICENTIÆ by Lafréry or ANTIQVARVM STATVARVM URBIS ROMAE by
Cavalieri, play a crucial role in the wide dissemination of a canonical
selection of classical statues, thus attracting more and more artists to Rome
to study the originals. This tendency towards codification also affects the
relationship of artists and art writers with the Antique, as the imitation of
classical statuary is given theoretical underpinning. At the same time the
Antique acquires a clear role within the curricula of the emerging academies as
a teaching tool, systemising a practice that, as we have seen, is already
widely diffused within Renaissance workshops. Art theory in general goes
through a process of radical systematization. Many artists and writers feel that
rules are required to give ‘ars’ an intellectual frame-work that would lift its
status from ‘mechanical’ to ‘liberal’ arts – (as in M. A. Magister in Arts, MA
before DPhil Lit Hum) an ambition dating back to the writings of Alberti. Most
theoreticians and artists believe that a codified precept is also vital to inculcating
the ‘correct’ principle in an age that they considered to be one of artistic
corruption. Armenini speaks explicitly of the ‘pain’ that masters like Sanzio
and Buonarroti would have felt in seeing the art of his own time. And Armenini,
Lomazzo, Zuccaro and others, notwithstanding differences among them, consider
that the rule can be inferred from study of the best examples of the great
Renaissance masters and those of antiquity. The latter especially, it was
thought, would provide with correct proportions and anatomy and inculcate the ideal
standard. A foundation of this theoretical effort is provided by the
assimilation of Artistotle’s Poetica, the first reliable Latin translation of
which circulated widely. Since no comprehensive treatise on painting had [Cavalieri,
The Laocoön, engraving plate 4, from Antiquarum statuarum urbis Romae, Rome,
1585] readily found in his work. For him the best ancient sculptures embodied
the supreme quality of ‘grazia’, which cannot be attained by study but only by
judgement – a concept that remains one of the central tenets of Italian art
theory. Vasari’s Lives also proclaims the superiority of the Central Italian
School of painting, based on ‘disegno’ to the Venetian one, based on ‘colore’,
initiating a debate over the respective merits of the two traditions. Although
traditionally the Venetians aim at imitating nature directly on the canvas
through colour and therefore are less attached to the laborious practice of
drawing after the antique, classical statuary plays a role in the formation of
many Venetian painters, and casts are used in their workshops. Tintoretto, for
instance, owns a large collection of casts and reductions of ancient and modern
sculptures. The importance attached to the study of the Antique by all the
Italian schools of painting is shown by the fact that one of the very first
consistent formulations of the principle of the ‘imitation’ of classical
statuary is to be found in Dolce’s “Dialogo della pittura.” Dolce’s “Dialogo
della pittura” contains the strongest defence of the Venetian tradition against
the Vasarian point of view. It also contains, if not fully developed, most of
the fundamental elements of the artistic theory. Dolce clearly specifies that
in the search for the perfect proportion of the naked male, the artist should ‘*partly*
imitate nature’ and partly ‘the best marbles and bronzes of the antient [sic]
masters’, because through them he can ‘correct’ this or that defects of this or
that living form – the live model -- as they are ‘examples of perfect beauty’, an
ideal version of Nature. But in Dolce we find also a warning against regarding
the copying of ancient sculpture as an end in itself rather than the means by
which an artist creates his own ideal artistic forms – something already
stressed by Vasari in his Lives. An ancient statue is to be ‘imitated’ with
‘judgement’, to avoid turning a pleasing trait into a formula or, worse, an eccentricity.
This warning would be repeated frequently, notably, y Rubens and Bernini and it
could lead to open opposition to copying the Antique. Similar advice appears in
Armenini’s Veri Precetti della Pittura. Armenini’s “VERI PRECETTI DELLA
PITTURA” is quite systematic and offers one of the most articulated approaches
towards the role of the Antique in the artist’s education. Many of Armenini’s ideas
and much of his advice would becomes standard practice. In the chapter on
‘disegno’, Armenini states that to acquire the ‘bella’ or ‘buona
[The Farnese Hercules, Roman copy of the 3rd century ad of a Greek
original of the 4th century bc, marble, 317 cm (h), MUSEO ARCHEOLOGICO
NAZIONALE, Napoli, inv. 6001. I
LOTTATORI. Roman copy of a Greek original of the 3rd century bc, marble, 89 cm
(h), Uffizi, Firenze, inv. 216. The Niobe, possibly Roman copy of a Greek
original of the 4th century bc, marble, 228 cm (h), Uffizi, Firenze, inv. 294] survived
from antiquity, the Poetics, together with Orazio’s Ars Poetica, offer a
theoretical structure that could be transferred from the literary disciplines
to visual art – justified by Orazio’s celebrated motto ‘ut pictura poesis’, ‘as
is painting so is poetry’. More relevant from our perspective, Aristotle’s
Poetica provides, in several passages, an authoritative ancient source for the
principle that art may ‘perfect’ nature to create an ideal model – a concept
implied but never clearly defined by Alberti – and which constituted one of the
most solid bases for the classicist doctrine of art. This Aristotelian trend
had a counter-balance in a neo-Platonic tendency in which ideal beauty does not
derive from Nature but is infused in the mind of the artist by God, two
approaches that at times were combined by the same author, such as Lomazzo or
Zuccaro. But whether of Aristotelian or Platonic origins, or indeed a
combination of both, the principle of imitation of those works of art that had
already accomplished idealisation – particularly the antique statue – becomes one
of the leitmotifs of Italian art theory (v. Dorfles, “Natura e Artificio”). The
most important writer on art of the Renaissance, Vasari, firmly establishes the
primacy of disegno, design or drawing, as the intellectual part of art, the
‘parent’ of the three sister arts of architecture, sculpture and painting. In
his Lives of the Most Eminent Painters, Sculptors and Architects drawing is described
as the physical, sensible manifestation EX-pression of an idea, encompassing
‘all the objects in nature’. Although he does not provide a theoretical case
for drawing after the Antique, nonetheless passages referring to the impact
that classical statues have on artists are maniera’ of the great
Renaissance masters, the student needs fully to assimilate through drawing
those principles of the ancient statues that those Renaissance masters
themselves copy, as they embody the best of Nature. Armenini’s importance lies
also in the fact that he is the first to list the specific statues and reliefs to
copy and to praise the didactic use of plaster casts, of which he saw many
collections throughout Italy – testifying to a practice that must already have
been quite widespread. The imitation of the Antique also becomes a central
tenet of the earliest art academies. Deriving their name from the ancient
philosophical Academy (Hekademos) of Plato, an ‘accademia’ is intended as a venue
for the cultivation of the practical, but even more, the intellectual aspects
of art. Its role is conceived in parallel and not in opposition to the artist’s
workshop, where the apprentices is still supposed to learn art’s technical
rudiments. One of the first mentions of the word ‘accademia’ in conjunction
with art is found in the first object shown in this catalogue, the Accademia del
Belvedere run by BANDINELLI eengraved by Veneziano. This depicts an ‘accademia’
centred on disegno set up in the Belvedere, where Leo X gives him quarters. It
shows artists learning how to draw the naked male and it is significant that
the focus of their attention is a series of statuettes modelled after a classical
proto-type. This, and the later view of Bandinelli’s Florentine Academy, are
the very first examples of an iconographical genre: the image of an accademia,
workshop, studio, often created with a programmatic or didactic purpose,
showing pupils learning the different branches of art or going through
different stages in their education. Just glancing at the works illustrated in the
catalogue shows how the presence of the Antique becomes progressively relevant.
The centrality of disegno and the naked male is firmly stressed by the
institutional, more organised, ‘accademia’.. The first, and a model for all
future academies, was the aptly named ‘Accademia del Disegno,’ – or ‘dei
disegnanti’ -- founded in Florence by Cosimo de’ Medici on the initiative of
Vasari. Its aim is to emancipate the artist from guild control, and to affirm
the intellectual status of the art.The two most significant academies that followed
before the are ‘Gl’Incamminati’, or ‘Accademia degl’incamminati, founded in
Bologna by the three Carraccis, and the Accademia di San Luca in Rome,
relaunched and given a didactic curriculum under Zuccaro. These academies –
although there were significant differences among them, and often huge
discrepancies between the theory they supported and the everyday teaching they
practised – proposes a system that could give a broad education to aspiring
artists. This usually included the study of mathematics, geometry and
perspective, to teach the student how to represent space rationally; and of
anatomy, the antique and the live model, -- DISEGNO DALL’ANTICO, DISEGNO DALLA
VITA -- to teach him to master the correct depiction of the naked male. We can
see an idealised version of early academic practices in a complex and
fascinating drawing by Stradano,
engraved by Cort, where the stress is on anatomy, the Antique and on the three
arts of disegno. Similar practices are illustrated in an etching by Alberti
showing a structured curriculum of studies involving anatomical dissection,
geometry, the Antique and architectural drawing. These studies codify artistic
exercises (and give a bad name to ‘academic’) that had been current from the
early Renaissance onwards but important new teaching structures were
introduced. These include a rotating academic staff, a competition and a prize,
and an organised debate on artistic questions and they are supported especially
by the regulations of the Accademia di San Luca. Although we do not know to
what extent and how effectively these new structures functioned in the first
decades of the Roman institution, they soon spread to other academies, becoming
the model for the Académie Royale in Paris. All these institutions strongly
advocate the copy of the Antique, both in plaster reproduction or in the
original. The Accademia del Disegno supervises drawing from the Antique both in
the Academy and in the workshops where apprentices were trained. It also owns a
‘libreria’, which includes drawings, models of statues, architectural plans,
and ancient sculpture, all used as teaching tools. The Accademia di San Luca
lists the copying after the Antique in its first statutes and receives a donation of casts, while numerous
plasters – such as reliefs from Trajan’s Column, the bust and the head of the
Laocoonte, one of the Horse Tamers of the Quirinal, the Torso del Belvedere and
many other entire or in fragments – appear in its early inventories. The
importance accorded by Zuccaro, the founder of the Roman Academy’s curriculum,
to the thorough study of Rome’s most famous statues, emerges from his wonderful
drawing of his brother, Taddeo sketching the Laocoonte at the Belvedere. The
series to which this drawing belongs, produced around the same time as the
foundation of the Accademia di San Luca, illustrates the ideal training that am
artist should follow: imitation of the Antique and the works of Renaissance
masters, such as Sanzio’s Stanze and Loggie, Buonarroti’s Last Judgment and
Polidoro’s painted façades. Another sketch, by a Zuccaro follower, depicts Zuccaro
himself in the Accademia, surrounded by students sketching after the cast of an
ancient torso. The Carracci academy too, although primarily focused on
life-drawin (DISEGNO DALLA VITA), advocates study of the Antique and we know
that Carracci makes his collection of drawings, medals and casts available for
students. Early academies also codified a teaching model, defined as the
‘alphabet of drawing’ or the ‘ABC’ method, which, in a less regulated form, was
already established within work-shops and which would have a long-lasting
impact. This contributes significantly to giving the Antique a fixed place
within teaching curricula. Modelled on the learning of grammar, the ‘alphabet’ is
a sequence that encourage students to advance from elementary unity to complex
whole and from the simple and similar to the varied and different. The scheme
once again originated in Alberti, who advises a painter to follow the method
practiced by teachers of writing, from the alphabet to whole words. So the beginner
is supposed to learn first ‘the outlines of surfaces, then the way in which
surfaces are joined together, and after that the forms of all the members
individually; and they should commit to memory all the differences that can
exist in those members’. He recommends the same process for the study of the
male anatomy: starting from the bones, proceeding to the sinews and muscles,
and finally to the flesh and skin. An iincreased stress on the naked male means
that pupils often start from the eye, then assembles different parts of the
body in ever more intricate combinations, and finally reaches the whole naked
male, via the study of ancient sculpture AND the live model. Benvenuto [Workshop
of Federico Zuccaro, A Group of Artists Copying a Sculpture, c. 1600, 190 × 264
mm, pen, black and red chalk on prepared paper, Biblioteca Ambrosiana, Milan,
inv. F 261 inf. n. 128, p. 125] Cellini reports that starting with the eye is
the common practice and advised, like Alberti, a similar process for the study
of anatomy. This process is reflected in the various images of early academies
or studios, such as Stradanus’ The Practice of the Visual Arts, where one pupil
is shown drawing an eye on his sheet, or Alberti’s Painters’ Academy where an artist
is presenting a similar drawing to his master. A parallel progression led the
student from simplicity to complexity in the depiction of outlines, surfaces,
chiaroscuro, poses and expressions: from copying objects in the same medium and
in two dimensions, to the imitation of three-dimensional figure. The process
usually starts with copying a drawing or print, then paintings, first in
grisaille and then in colour, moving onto ancient sculpture [PRELIMINARY to the
LIVE MODEL – drawn from life], either originals or casts, and, FINALLY, to the
live model. This progression, already outlined by Vinci in his treatise on
painting, and advocated also by Vasari, is codified by Armenini, the first to
list all its stages while simultaneously assigning a central role to classical
statuary in providing a model for ideal forms. Armenini delineates both the
progression from the eye to the whole body and from a drawing or print to the
live model (via the preliminary of the ‘drawn from the antique’, and warned the reader not to subvert this
order. The earliest academies applied this method and Zuccaro’s statutes of the
Accademia di San Luca, which are the most explicit, specifically mentioned the
‘alphabet’ or ‘ABC’ of drawing. It becomes standard practice in academies. The aim is, as most writers reiterated, to
assimilate this repertory of forms through constant study and the exercise of
memory, as to finally be able to create a form from imagination – for a
mythological heroic figure -- *independent* of any object of imitation
(IMITATUM). The ‘alphabet of drawing’ has its physical manifestation in the
publication of the drawing-book, conceived in the environment of the Carracci
academy, such as Fialetti’s “Il vero modo”. The diffusion of such manuals contributed
enormously to spreading the knowledge of the didactic role of the Antique to
artists who makes a grand tour to Rome a compulsory part of his education. Odoardo
Fialetti, Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parti et membra del
corpo humano, Venice, c. 1608, etching, 100 × 140 mm, The Bellinheger Collection].
Rome establishes herself as the preeminent centre for anyone eager to
assimilate the principle of Italian art. The first significant artist, and one
of the greatest of all to do the tour to the Belvedere with the specific
educational intent, is Dürer. Durer spends the years in Rome. The impact of
classical statuary is evident in many of his prints and paintings, for example,
in his “Adam and Eve”. But the largest number of artists to travel to Rome
originates from the Low Countries. Coming from a powerful and influential
pictorial tradition that privileged an analytical representation of nature, and
having received little or no exposure to classical antiquity in their training,
Netherlandish artists seek especially to learn how to master the naked male
through the lessons of the Antique and the works of Sanzio and Buonarroti. Rome
offers also the opportunity of training in one of its many workshops and the
appealing possibility of benefiting from the system of commissions. Indeed the
‘fiamminghi’, as they are called in Rome, gain an increasing number of
commissions, eventually, in their turn, influencing the Roman art world. Some
of them stayed for long periods or moved permanently, such as Stradanus, Giambologna
– il ratto delle sabine, il mcurio di Medici -- or Tetrode. We know about the
Roman years of many of these artists mainly thanks to Mander’s “Schilderboeck”,
the earliest systematic account of Netherlandish and Northern European
painters, based on Vasari’s “Vite”. The approach of these artists towards the
Antique could be varied and multi-faceted. Most fill their sketchbooks with
drawings that served as a collection of forms to be re-used. Others, like
Spranger, according to Van Mander, aim to assimilate the principles of
classical art to establish a repertoires of forms and an attitude towards the
naked male that could be infused in their own creations, rather than spending
too much time in the physical act of drawing. Although ‘Mabuse’ is the first
Fleming to pass time in the peninsula, it was only with Scorel that the lesson
of antiquity was transmitted, through his work-shop at Utrecht. Of his various
pupils, Heemskerck is certainly the most prolific and versatile in copying
antique statuary. Two albums from the
years he spent in Rome are preserved in Berlin. They constitute one of
the largest surviving collections of copies after the Antique and are filled
with exceptional drawings in different media and size, offering an invaluable
opportunity to categorise the many different approaches to classical statuary
that can be described as record drawings. Many are topographical views of Rome
in which Heemskerck indulges in the depiction of architectural ruins and
sculptural fragments, and which he later reuses in imaginary landscapes. Some
of his views are poetic meditations on the colossal ruins of the city, physical
reminders of the passage of time, of human grandeur and fragility, a mood he
shared with other artists, such as Herman [Heemskerck, View of the Santacroce
Statue Court, 1532–37, pen and brown ink, 136 × 213 mm, Staatliche Museen zu
Berlin, Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I,
fol. 29r] Posthumus. Other drawings are more or less accurate depictions of classical
statues in their physical locations, from the Belvedere to the Campidoglio, to
Roman private courtyards and gardens (figs 16 and 38), where the antiquities
are shown in their still fragmentary state. In numerous detailed drawings
focusing on single statues, we see Heemskerck’s different approaches to copying
the Antique and, correspondingly, the different media he employs to do so. His
drawings range from the precise pen-and-ink study, in which he faithfully
records the condition of celebrated statues, isolating the head as a physiognomic
type to a drawing where the whole statue is presented FROM DIFFERENT ANGLES, to
record the different poses and volumes of the naked male in space. He also makes
copies in which he exploits the softness of red chalk to study anatomical
details, assembling parts from different statues on the same sheet and focusing
on torsos and legs, sometimes even disregarding the face, the drapery or other
details. Finally, in yet other red chalk drawings he carefully records decorative details
from a statue or a relief. The variety of techniques and handling deployed in
these [Fig. 39. (top left) Maarten van Heemskerck, Head of the Laocoön,
1532–36, pen and brown ink, 136 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin,
Preussischer Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 39r. Heemskerck,
Two Studies of the Head of the Apollo Belvedere, 1532–36, pen and brown ink,
136 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz,
Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 36v. Heemskerck, Three Studies of
a Fragmentary Statue of a Crouching Venus in the Palazzo Madama, 1532–36, pen
and brown ink, 135 × 210 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer
Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 06v. Heemskerck,
Studies of Three Torsos and a Leg from Classical Statues in the Casa Sassi,
1532–33, red chalk, 135 × 211 mm, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer
Kulturbesitz, Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 51v. Heemskerck,
The Right Foot of the So-Called ‘Colossal Genius’, 1532–33, red chalk, 135 ×
208 mm, Berlin, Staatliche Museen zu Berlin, Preussischer Kulturbesitz,
Kupferstichkabinett, Heemskerck Album I, fol. 65v ] copies allowed him to
find appropriate solutions to the variety of problems posed by the style and
condition of the works that he copied. The result is a stunning visual
repertory that is easy to access and use, and which would inspire him when he
returned home. Several Frenchmen also established their residence in Rome. Many
of them, such as Beatrizet, Lafréry, or Dupérac, specialise in engraved views
of the city and its ancient remains, catering to a market increasingly
fascinated by Rome’s ruins and statues. In one engraving attributed to
Beatrizet, we find a rare image of an artist in the act of copying from ancient
statuary in situ – in this case the famous colossal “Grande Bellezza” Marforio,
at that time located in the Forum now in the courtyard of the Palazzo Nuovo of
the Campidoglio. The image clearly expresses the sense of awe that one feels in
front of the grandeur of the remains of Roman classical statuary. The
fragmentary condition of so much monumental sculpture inspired thoughts about
the fragility of the human condition and the ultimate insignificance of worldly
troubles, which, as the inscription on the print remarks, the old Marforio
‘does not consider worth a single penny’. It is against this backdrop that we
must consider Goltzius’ draughtsmanly activity in Rome, where he arrived almost
certainly on the recommendation of his friend Mander, who had already been in
Italy. Goltzius was then is celebrated as an [Fig. 44. Beatrizet (attr.), An
Artist Drawing the ‘Marforio’, 1550, engraving, 370 × 432 mm, published in
Antoine Lafréry’s Speculum Romanae Magnificentiae] engraver throughout Europe.
With Mander and Haarlem he establishes an academy in Haarlem. Although we know
almost nothing about this artistic association, it must have involved
discussions about the Antique and its representation among the three friends,
who had the advantage of direct access to Heemskerck’s Roman drawings, then
owned by Cornelisz. It is therefore significant that while in Rome, Goltzius takes
an approach to classical statuary that is very different from Heemskerck’s. Goltzius
concentrates from the beginning on *thirty* of the most famous classical
statues, of which 43 drawings in total survive. Goltzius’s drawings are highly
finished and unprecedentedly detailed, carefully recording the tonal passages
on the muscles of the statues. The viewpoint is almost always close and frontal
to the statue, or exploits the most dramatic or informative angle. Most
importantly, unlike almost all of his predecessors, who fill single pages of
their sketchbooks with details from unrelated sculptures, he devotes a full
page to *each*, a practice followed by Rubens. Goltzius’s intent from the
beginning is clearly to produce a drawing that may be transformed into an engravings
capable of surpassing in precision all previously published series, and which,
in faithfully reproducing the volume of the naked male, would also demonstrate
his renowned virtuosity in handling the burin. His set is intended for a market
of connoisseurs and collectors, but it is also likely that Goltzius wishes to
provide anyone with correct and detailed images of classical statues that they
could copy during their apprenticeships. Goltzius engraves only three plates,
one of which, significantly, shows an artist at work copying the celebrated
Apollo del Belvedere. A few years after Goltzius’s tour to Rome, Rubens arrives.
He spends two prolonged periods in Rome. Rubens constitutes a special case,
being the perfect embodiment of the humanistic ideal of the artist-scholar: the
son of a wealthy Antwerp family, highly educated in the classics and socially
accomplished, Rubens arrives in Rome already equipped with a thorough
understanding of the Antique and its literary sources, a passion he cultivates throughout
his life with his circle of scholarly friends and patrons. Rubens’s approach
towards classical statuary is therefore fascinating, complex and varied.
Rubens’ appetite for the most famous ancient statues must have been stimulated
already in Antwerp through the engravings by Raimondi and his pupils and
through those in the collections published by Lafréry and De Cavalieri. When in
Rome Rubens devotes himself completely to copying this or that original with
unique thoroughness, both to exercise his draughtsmanship and to create an
immense repertory of forms, to which he refers for inspiration throughout his
life. His approach towards classical statuary istwofold. One is purely intellectual,
focused on understanding the mathematical proportions and volumes of this or
that emblematic antique which he divides into different categories according to
muscular strength, to capture the very essence of their perfection. The other is
more direct: to study the statue exhaustively in order to assimilate its formal
principle For Rubens it is not only necessary to ‘understand the antique’, but
‘to be so thoroughly possessed of this knowledge, that it may diffuse itself
everywhere’. Unlike Goltzius, Rubens studies a statue over and over again,
copying it from many, and often unusual, points of view, devoting a single page
to each. No one before Rubens shows such a painstaking interest in
understanding the formal logic of a single statue intended as a whole. Rubens’s
focus on the naked male – to learn the principles of a perfect naked male – on specificslly ‘muscular’ masculine male
statues, such the Laocoonte, the Torso del Belvedere, and the Ercole Farnese
and his choice of the most favourable points of view, may reflect the specific
advice and examples given in Lomazzo’s Trattato and in Armenini’s Veri Precetti.
But, as Dolce and Armenini had already done before him, Rubens also cautions to
focus on the form and not on the matter of the statue, to avoid the ‘smell’ in a
drawing or a creation. Rubens is aware of the danger of transferring the
characteristics and limits of a three-dimensional medium (is flesh the medium
of the live model?) into another – drawing or painting. In a section titled “De
Imitatione Statuarum” of a larger theoretical notebook that he compiles over
several years, Rubens refers to painters who ‘make no distinction between the
form and the matter -- the ‘figura’ and the flesh, with the result
that ‘instead of ‘imitating’ living flesh from the life of nature, they
only represent marble tinged with various colours’. We can see Rubens’s genius
at re-vitalising the ‘inert’ substance of the antique model as if it were a
live model to be drawn from life, by applying his principle of inventive and
transformative imitation in most of his drawings after the Antique, for which
he uses soft chalk on rough paper better to ‘re-translate’ the substance back into
the natural living flesh, as if drawn from life. This is particularly evident
in muscular figures such as the Torso del Belvedere and the Laocoonte, which he
brings back to life, to the life Virgil instilled Laocoonte with, or Aiace had.
-- adopting a dramatic angle and a diagonal that completely abandons the
static [Rubens, The Back of the Belvedere Torso, c. 1601–02, red
chalk, 395 × 260 mm, Metropolitan Museum of Art, New York, inv. 2002.12b] and
the academic frontal point of view of most academic drawings. This attention to
the qualities of the naked male skin and flesh, and the dynamism, pathos, and
drama that he learns mainly from classically Roman – but POST-classically
Greek] statuary is to become the main traits of his own art. In this he is following
in the footsteps of Buonarroti, who, not by chance, Rubens copied extensively,
focusing especially on the nudes of the Sistine Chapel and on his statues. Rubens
adopts a similar approach to the live model, which he often poses in attitudes
reminiscent of an antique – such as the Spinario, or the Wrestlers. Unsurprisingly,
he frequently cited the Laocoonte and the Torso, but the most recurrent is the
Spinario in the Campidoglio – even though the head is not the original one -- for
which several drawings of the complex pose made from different angles survive. The Spinario pose is already chosen by one of
the pupils of Gozzoli for this particular purpose of the antique-imitating live
model, and it remains one of the most popular, even, easiest, for posing the
live model – everyone has a thorn! -- Rubens’s drawings of the Spinario convey
the essence of Rubens’s attitude towards the ideal human form, and the
Spinario’s attitude towards his own thorn. By posing flesh as imitatiang
another substance imitating flresh, Rubens – or the artist who does this -- is
able to bypass the dangers of the ‘matter’ to focus only on the complex form and
pose of the original statue or statuary group or syntagma (think Lottatori!). Back
in Antwerp, Rubens retains until his death his drawings after the Antique,
bound together in separate books, as a distinctive part of the collection of
his house-museum, which hosted also numerous antiquities. They remain a
constant source of inspiration and they may also have been used as teaching
tools – as in the best tradition of Renaissance workshop practices – judging by
the copies deposited by his pupils in the cantoor, Rubens’s cabinet or studio.
The flux of artists coming to Rome did not cease, although most become
fascinated by the radical naturalism of Caravaggio and his followers, rather than
aiming at recreating the principles of classical art. A group of artists even
develops a successful speciality in the depiction of contemporary Roman street
life and everyday reality: a rustic tavern, a drinking scenes, brigands, street
vendors, charlatans and carnivals. The art of the ‘Bamboccianti’, so named
after their leader, Laer, dubbed ‘Bamboccio’, or ‘ugly puppet’, is fiercely
criticised as a debased form of art that deliberately chose the ‘worst’ of nature
(cf. verismo, and the customs of realistic naturalism) by the supporters of
classicism and history painting, such as Albani, Sacchi, and Rosa, as well as
by the philosophers of ‘ideal beauty’ such as Bellori. In contrast to the
Dutch, among the foreign communities in Rome, it was the French who are to take
the lead in the cause of classicism, the defence of Ideal Beauty and the copy
and study of the Antique. The contrasting attitudes of artists towards the
study of art in Rome is perfectly visualised in a canvas by Goubau, a Flemish
painter influenced by the Bamboccianti, who had been in Rome. On the right,
judicious [Rubens, Study of the Laocoön Seen from the Back, c. 1606–08, black
chalk, 440 × 283 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv. 624, F 249 inf. n. 5,
p. 11. Rubens, Study of the Younger Son FIGLIO PIU GIOVANE of the Laocoön Seen
from the Back, black chalk, 444 × 265 mm, Biblioteca Ambrosiana, Milan, inv.
623, F 249 inf. n. 5, p. 11] artists under the supervision of a master are busy
at work among imaginary Roman ruins, copying and measuring an ancient statue or
a relief, among them the ERCOLE FARNESE; on the left the Bamboccianti indulge
in the pleasures of wine and music under the pergola of a rustic tavern. Nevertheless,
this wittily expressed opposition should not be taken too literally, as the
educational and inspirational role of classical statuary had been deeply
assimilated by artists of every inclination or aesthetic Many move between
genres and artistic currents such as the Flemish genre painter Lint, who
produced many drawings after the Antique while in Rome. Even those close to the
Bamboccianti clearly treasured the didactic role of classical statuary, as can
be seen in the depictions of workshops and artists at work by the Flemish Sweerts.
The Antique, and its didactic role in the Italian model of artistic education,
also made rapid progress in all of civilised Europe, supported by the
publication of Karel van Mander’s Schilderboeck. Knowledge was transmitted
mainly through drawings, drawing-books and plaster casts. These are used in the
drawing schools or private academies that proliferate, some of which were
founded by the same artists who had been exponents of the Bamboccianti in Rome.
These drawing schools often had to struggle against regulations by the guilds,
which remained the dominant associations for artists, dictating what goes on in
a workshop – the notable exception being the academy founded in Antwerp by
royal [Goubau, The Study of Art in Rome, 1662, oil on canvas, 132 × 165 cm,
Royal Museum of Fine Arts, Antwerp, inv. 185] decree. But despite the heavy
hands of the guilds, many thriving workshops, while accepting individual
apprentices, adopt *Italian* academic practices, such as conducting classes for
groups of students, or implementing a training programme focused on drawing and
the mastery of the human form. This often included the ‘alphabet of drawing’,
as was the practice of Rembrandt’s studio in Amsterdam, in which many students were
taught annually, and of Rubens, who, as court painter, did not have to register
his apprentices with the Antwerp guild.142 According to Van Mander, another
studio famous for its educational efficacy was that of Abraham Bloemaert in
Utrecht (see cat. 11).143 During the second half of the century, other private
drawing schools or ‘colleges’ were founded, which cater for a clientele of
artists or the dilettanti giving them the chance to draw from casts and the
nude live model alongside their studio practice. Among the most famous are those
of Sweerts, opened in Brussels and of Bisschop in The Hague. Closely connected
with workshops’ and schools’ drawing practices was the proliferation of
drawing-books and artists’ manuals. Most of them were based on the example of
Odoardo Fialetti’s Il Vero Modo and Giacomo Franco’s De excellentia et
nobilitate delineationis (1611) sometimes re- printing parts of them.147 Like
their Italian predecessors, Netherlandish drawing-books focused on the human
form, on classical statuary, and on the different stages of the academic
learning process.148 The increasing importance of 38 39 the Antique
in the Netherlands is well expressed by the various Dutch translations of
François Perrier’s Segmenta (1638) – the most successful collection of prints
after classical statues of the 17th century (fig. 57 and cat. 16, figs 3–6) –
and by the equal success of its Dutch counterpart, Jan de Bisschop’s Icones
(1668, see cat. 13), explicitly compiled as a teaching tool.149 Antique models
were also copied by young Northern artists in three dimensions, thanks to the
proliferation of casts, as shown in the frontispiece of Abraham Bloemaert’s
Konstryk Tekenboek (c. 1650) – one of the most influential draw- ing-books of
the second half of the century (see cat. 11). Many studios and drawing schools
owned collections of casts, often of famous prototypes such as the Laocoön or
the Apollo Belvedere. Inventories of the studios of Cornelis Cornelisz. van
Haarlem, Hendrik van Balen (1575–1632), and Rembrandt, for instance, testify to
their presence.150 The diffusion of casts appears explicitly in the numerous
paintings depicting young artists at work, which became popular from the middle
of the century onwards (figs 49–53, see also cats 12 and 14). These works
constitute an individual iconographical genre that probably derives from
Fialetti’s striking etching (see cat. 10), which, as we have seen, was well
known and reprinted several times in the Netherlands.151 This genre was
practised mainly by Jacob Van Oost the Elder (1601–71, fig. 50), Wallerant
Vaillant (1623–77, fig. 51), Balthasar Van den Bossche (1681–1715) and Michael
Sweerts (fig. 52 and cat. 12), whose canvases tend to represent the ideal
training curricu- lum, where the copying of plaster casts after the Antique has
the place of honour.152 As ‘low’ genre paintings that celebrate the didactic
role of the Antique – traditionally considered to be essential for the lofty
genre of history painting rather than for scenes of daily life – they
indirectly attest to the ubiquitous penetration of classical models in all 17th-century
artistic practices. Incidentally they are also a direct visual source for the
most widely diffused typologies of classical statues in the North of Europe in
the 17th century: from busts of the Apollo Belvedere (figs 18 and 50), of the
Laocoön group, both father and sons (figs 19 and 51), and of the so-called
Grimani Vitellius (fig. 52), to reduced copies of the Spinario (figs 15 and
49), the Belvedere Antinous (figs 22 and 51), the Venus de’ Medici (figs 53 and
56), and the Farnese Hercules (see fig. 32 and cat. 14). Also frequently
depicted are busts of Niobe (see fig. 34 and cat. 12), reduced copies of the
Wrestlers (fig. 33) and the Borghese Gladiator (fig. 54). The Italian and the
French Academies in the Seventeenth Century and the Establishment of Classicism
The 17th century witnessed dramatic changes of attitude towards the study of
the Antique in terms of codification, diffusion and theoretical debate; at the
same time it saw the formulation of a style heavily dependent on classical
sculp- ture, setting the stage for the final affirmation of classicism as a
pan-European phenomenon in the following century. The selection of the most
significant antique statues, begun in the 16th century, was further refined,
especially in the cos- mopolitan antiquarian environment of Rome. Excavations
continued and some of the new discoveries immediately joined the canon of ideal
models. Three of them, in particu- lar, were ubiquitously reproduced and copied
in studios and academies: the Borghese Gladiator (fig. 54), discovered in 1611,
which soon became the preferred model for the anatomy of the muscular man in
action; the Dying Gladiator (fig. 55), first mentioned in 1623, whose complex
pose could be drawn from different angles and which offered an ideal of heroic
pathos expressed in the moment of death; and finally, the Venus de’ Medici
(fig. 56), first recorded in 1638 but possibly known in the late 16th century,
which rapidly became the most admired embodiment of the graceful female
body.153 New collections gradually replaced earlier ones and a few families
succeeded in acquiring some of the newly discovered statues that had gained
canonical status. The magnificent urban palaces and suburban villas of the
Medici, Farnese, Borghese, Ludovisi and Giustiniani attracted an increasing
number of visitors and artists, becoming privileged centres for the study of
the Antique, and family names became attached to certain statues, as the
Farnese Hercules or the Venus de’ Medici testify.154 Some of these, such as the
Palazzo Farnese (see cat. 21), and the Casino Borghese retained their status as
‘private museums’ until the end of the 18th century. Prints continued to play a
vital role in the dissemination of images of classical statues throughout
Europe. They were produced predominantly in Rome, where, as in the 16th
century, French printmakers played a prominent role along- side Italian
antiquarians and engravers.155 Among others, the publications of François
Perrier (1594–1649) and the duo comprising the antiquarian and theoretician
Giovanni Pietro Bellori (1613–96) and the engraver Pietro Santi Bartoli (1615–
1700), offered artists and the educated public a choice of Fig. 54. Agasias of
Ephesus, Borghese Gladiator, c. 100 bc, marble, 199 cm (h), Louvre, Paris, inv.
Ma 527 Fig. 55. Dying Gladiator, Roman copy of a Pergamene original of the 3rd
century bc, marble, 93 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. MC0747 Fig.
49. (top left) Jan ter Borch, The Drawing Lesson, 1634, oil on canvas, 120 ×
159 cm, Rijksmuseum, Amsterdam, inv. SK-A-1331 Fig. 50. (top right) Jacob van
Oost the Elder, The Painter’s Studio, 1666, oil on canvas, 111.5 × 150.5 cm,
Groeningenmuseum, Bruges, inv. 0000.GRO0188.II Fig. 51. (bottom left) Wallerant
Vaillant, The Artist’s Pupil, c. 1668, oil on canvas, 119 × 90 cm,
Bonnefantenmuseum, Maastricht, inv. 673 Fig. 52. (bottom centre) Michael
Sweerts (attr.), Boy Copying a Cast of the Head of Emperor Vitellius, c.
1658–59, oil on canvas, 49.5 × 40.6 cm, The Minneapolis Institute of Arts, inv.
72-65 Fig. 53. (bottom right) Pieter van der Werf, A Girl Drawing and a Boy
near a Statue of Venus, 1715, oil on panel, 38.5 × 29 cm, Rijksmuseum,
Amsterdam, inv. SK-A-472 40 41 the ‘best’ ancient statues and reliefs;
the authority of their selections lasted throughout the 18th century. For
full-length statues, crucial was the appearance in 1638 of Perrier’s Segmenta
nobilium signorum et statuarum (fig. 57 and cat. 16 figs 3–6), a collection of
prints which in many ways fulfils what Goltzius had intended to publish four
decades earlier (see cats 6–7).156 Offering good quality reproductions and
different points of view– three for the Farnese Hercules and four for the
Borghese Gladiator, for instance – Perrier’s images were essential in focusing
the attention of artists on a selected number of models considered exemplary in
anatomy, proportions, poses and expressions. Reprinted and trans- lated several
times, the success of the Segmenta was immense and it was used in studios and
academies as a teaching tool for almost two centuries, as we have seen earlier
in the Netherlands. As late as 1820 John Flaxman was still recom- mending the
use of Perrier to his students at the Royal Academy.157 Such publications were
the results of the antiquarian and theoretical interests of a French-Italian
classicist milieu that flourished in the first half of the century in Rome.158
Innumerable French artists now spent time in the city, filling sketchbooks with
copies after the Antique and Renaissance Fig. 56. Venus de’ Medici, Greek or
Roman copy of the 1st century bc of a Greek original of the 4th century bc,
marble, 153 cm (h), Uizi, Florence, inv. 224 Fig. 57. François Perrier, Venus
de’Medici, plate 81, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638
masters, and devoting increasing space to the study of Raphael.159 Two of the
most relevant figures in this context were the great French painter Nicolas
Poussin (1594–1665), who resided in Rome between 1624 and 1665 (with a brief
sojourn in France in 1640–42), and his friend and biographer Giovanni Pietro
Bellori, possibly the most influential art writer of the century, who deserves
to be called the pro- tagonist in the theoretical formulation of classicism. Of
similar significance was the scholar, antiquarian, collector and patron Cassiano
dal Pozzo (1588–1657), a friend of both Poussin and Bellori – and patron of the
former – who assem- bled a vast encyclopaedic collection of drawings divided by
themes, a ‘Paper Museum’, with sections devoted to classi- cal antiquity
commissioned from several contemporary artists.160 Classicism found probably
its clearest and most influen- tial formulations in a landmark discourse
composed by Bellori and delivered in 1664, the year before Poussin’s death, in
the Roman Accademia di San Luca: the ‘Idea of the painter, the sculptor and the
architect, selected from the beauties of Nature, superior to Nature’ (see
Appendix, no. 11). Bellori’s theoretical statement, published as a prologue to
his Vite in 1672, was to become enormously influential in defining and disseminating
the central tenets of the classicist ideal (see cat. 15).161 Joining
Aristotelian and neo-Platonic premises, Bellori’s Idea advocates in the
selection of the best parts of Nature according to the right judgement of the
artist in order to create ideal beauty – a concept that we have already
encountered many times. According to Bellori, the Idea had been embodied in art
at several periods of history and he traced its development according to a
scheme of peaks and descents. It took shape first and foremost in the ancient
world and was revived in modern times by Raphael, who is accorded nearly divine
status. After the decadence and excesses of Mannerism, it was revitalised by
the Bolognese Annibale Carracci (1560–1609) and by his pupils and follow- ers,
notably Domenichino (1581–1641). Their flame was kept alive in Bellori’s time
by Poussin and Carlo Maratti (1625– 1713), a protégé of Bellori, who fashioned
himself as the new Raphael and whose Academy of Drawing is the most program-
matic representation of the principles of Roman classicism (see cat. 15).
Bellori’s classicism, heir of the rich debates of the first half of the
century, can be defined as a codification and defence of an idealistic style
and of moralising history painting against the radical naturalism introduced by
Caravaggio and his followers, whose slavish dependence on Nature and choice of
low subjects were seen to undermine the intellectual premises of art. On the
other hand, Bellori also confronted the excesses and liberties of the Baroque,
whose representatives, according to him, leaned towards artificiality and
despised the ‘ancient purity’.162 Classicism in many ways was based on the
princi- ples laid down by the art theory of the second half of the 16th
century, as it shared with it a fundamental premise: the neces- sity of the
defence of what was perceived as the ideal path of art – the ‘bella maniera’ –
against contemporary artistic trends which were considered erroneous or even
noxious.163 The classicist theoretical approach further reinforced the practice
of copying: it reinstated the intellectual value of drawing while providing a
selected group of correct models to follow, with the Antique and Raphael on the
loftiest pedestal. These premises were embraced by the Italian and French
academies, and became the basis of most of the European academies of the
following century – Opie’s words to the young pupils of the Royal Academy in
1807 still reiterate their fundamental tenets. Although the debate was at times
fierce – as for instance within the Accademia di San Luca in the 1630s – a
strict division of 17th-century artists into classicist, naturalist and Baroque
categories would be arbitrary and inaccurate, as many of them moved between
currents and at times incor- porated elements of each in their own creations.
Indeed, artists of all allegiances copied, studied and took inspiration from
the Antique. We know from surviving drawings and contemporary written sources
that ‘classicist’ artists such as Annibale Carracci, Poussin and Maratti copied
antique statues (figs 58–61), yet an equal number of ‘Baroque’ Fig. 58.
Annibale Carracci, Head of Pan from the marble group of Pan and Olympos in the
Farnese Collection, 1597–98, black chalk heightened with white chalk on
grey-blue paper, 381 × 245 mm, Louvre, Paris, inv. 7193 artists, such as
Rubens (figs 45–47 and cat. 9), Pietro da Cortona (1596–1669, fig. 62) and
Bernini (figs 63–64) spent as much time in absorbing the principles of the
Antique.164 Nevertheless their approaches towards the Antique could be very
different. Poussin, the intellectual and antiquarian painter par excellence,
copied hundreds of details from classical sculpture, especially reliefs and
sarcophagi, to give archaeo- logical consistency to his art, so that his paintings
would represent classical histories with the maximum of accuracy, 42 43
Fig. 59. Nicolas Poussin, Equestrian Statue of Marcus Aurelius, c. 1630–32, pen
and brown ink and brown wash, 244 × 190 mm, Musée Condé, Chantilly, inv. AI
219; NI 264 Fig. 60. Carlo Maratti, The Farnese Flora, c. 1645–70, black chalk,
294 × 159 mm, The Royal Collection, Windsor Castle, inv. 904377 Fig. 61. Carlo
Maratti, or Studio of, The Farnese Hercules, c. 1645–70, red chalk, 292 × 165
mm, The Royal Collection, Windsor Castle, inv. 904382 Fig. 62. Pietro da
Cortona, The Trophies of Marius, c. 1628–1632, pen, brown ink, brown wash,
heightened in white, on blue sky prepared paper, 518 × 346 mm, The Royal
Collection, Windsor Castle, inv. RL 8249 integrity and power, an approach in several
ways similar to that of Mantegna and Raphael. Bernini, arguably the greatest
17th-century sculptor, spent his youth obsessively copying the ancient statues
in the Belvedere (see Appendix, nos 9–10) and in his old age recommended that
students of the Académie Royale in Paris begin their studies by copying casts
of the most famous classical statues before approaching Nature (see Appendix,
nos 9–10). But Bernini’s attitude towards ancient statuary was poles apart from
that of Poussin (whom he nevertheless highly admired): he assimilated its
principles in order to create his own independent forms, at times deviating
radically from the classical model – an atti- tude that we have already seen in
Michelangelo and Rubens. To develop their own style and avoid a slavish
dependency on the Antique – something already stressed by Dolce, Armenini and
Rubens (Appendix, nos 4, 6, 8) – he advised his students to combine and
alternate ‘action and contemplation’, that is to alternate their own production
with the practice of copy- ing (Appendix, no. 10). A wonderful example that
allows us to follow Bernini’s creative process of transforming of the antique
model is provided by a study of the torso of the Laocoön, the unbalanced and
twisted pose of which he then ingeniously adapted in reverse for the complex
attitude of his Daniel (figs 63–66). A recollection of the Laocoön is further-
more recognisable in Daniel’s powerful expression (fig. 66).165 A practical
outcome of the French and Italian theoretical formulation of a classicist
doctrine was the foundation in 1648 of the Académie Royale de Peinture et de
Sculpture in Paris, followed in 1666 by that of the Académie de France in Rome
– the latter intended to give prize-winning students the opportunity to study
the Antique in situ and to provide 44 Louis XIV (r. 1643–1715) with copies of
classical and Ren- aissance statues.166 The foundation of the French Académie
in Paris is a turning point in the history of the teaching of art, as its
codified programme – based on Italian examples, and especially the Roman
Accademia di San Luca – would constitute the basis for the academies that
spread over the Western world in the 18th and 19th centuries. Founded by
several artists, most of whom had spent periods in Rome such as Charles Le Brun
(1619–90), the Paris Académie was supported by the monarch and candidates could
apply for admission only after they had trained in a workshop. Its regulations
aimed at full intellectual develop- ment for its students to prepare them for
the creation of the highest genre, history painting, or the grande manière.
Although its curriculum was rather loosely organised and, in the first tw
o decades of its history, fairly tolerant in its aesthetic positions, during
the 1660s the Académie was drastically reformed by the powerful Minister and
Super- intendent of Buildings Jean-Baptiste Colbert (1619–83) and by Le Brun to
become an institution in the service of the absolutist policy of Louis XIV,
with a codified version of classicism as its official aesthetic. The
rationalistic nature of French 17th-century culture meant that the Académie
conceived of art as a science that could be taught by rules. This was
explicitly stated by Le Brun in 1670,167 and efforts were concentrated in
clarifying and applying most of the precepts already devised by the early
Italian academies and theoreticians. If a student followed these precepts
correctly he – and only he, as the institution was limited to male pupils until
the late 19th century – would be able to assimilate the principles of ideal
beauty and create grand art.168 The future European success of this regimented
version of the humanistic theory of art rested exactly in its rational nature,
as a clear system of rules easy to export and replicate, offering at the same
time a safe path towards ‘true’ and universal art. Pupils were supposed to
follow the ‘alphabet of drawing’, from copying drawings, to casts and statues,
to the live model, which remained the most difficult task and one reserved for
the most advanced students. Regular lectures on geometry, perspective and
anatomy were provided. As in Federico Zuccaro’s statutes for the Accademia di
San Luca, professors rotated monthly to supervise the life class, prizes were
awarded to students and regular debates were initiated on the principles of art
– the celebrated so-called Conférences, regularly held from 1667 onwards on the
advice of Colbert, although they faltered by the end of the century to be
revived only a few decades later.169 Other aspects of the reforms of the 1660s
included the division of the drawing course into lower classes, devoted to
copying, and higher classes, for Fig. 63. Gian Lorenzo Bernini, Study of the
Torso of the Father in the Laocoön group, c. 1650–55, red chalk heightened with
white on grey paper, 369 × 250 mm, Museum der Bildenden Künste, Leipzig, inv.
7903 Fig. 64. Gian Lorenzo Bernini, Two Studies for the Statue of ‘Daniel’, c.
1655, red chalk on grey paper, 375 × 234 mm, Museum der Bildenden Künste,
Leipzig, inv. 7890 Fig. 65. Gian Lorenzo Bernini, Daniel in the Lion’s Den, c.
1655, terracotta, 41.6 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 2424 drawing from
the live model. Competitions were further structured to lead towards the
highest reward, the famous Grand Prix or Prix de Rome, which allowed the
winners to spend between three and five years at the Académie de France in
Rome, to complete their education and to assimilate the principles of the
greatest ancient and modern art. The official doctrine of the Paris Académie
was distilled and diffused by André Félibien (1619–95), the most promi- nent
French art theorist of the period, in his preface to the first series of
Conférences held in 1667 and published in 1668. Félibien offered a clear
structure for the hierarchy of genres that would be associated with academic
painting for the next two centuries: at the bottom was still life, followed on
an ascending line by landscape, genre painting, portraiture and finally by
history painting, for which the study of the Antique, of modern masters and of
the live model were considered necessary.170 The first Conférences reveal in
their subjects and approach the central tenets of the Parisian Académie:
paintings by Raphael, Poussin, Le Brun and the Laocoön were meticulously
analysed in their parts according to strict rules: invention, expression,
composition, drawing, colour, proportions etc. Some Conférences were devoted to
specific parts of painting: one given by Le Brun in 1668, on the ‘passions of
the soul’, which was printed posthumously and translated into several
languages, constituted the basis for the study of facial expres- sions until
well into the 19th century.171 The Antique remained one of the favourite
subjects to be dissected by the academicians. After the 1667 Conférence on the
Laocoön (see Appendix, no. 12),172 praised as the ideal model for drawing and
for the ‘strong expressions of pain’,173 many more followed specifically
devoted to the Farnese Hercules, Belvedere Torso, Borghese Gladiator, and Venus
de’ Medici, the ultimate selected canon of sculptures.174 Conférences were also
given on the study of the Antique in general.175 Sébastien Bourdon’s (1616–71)
Conférence sur les proportions de la figure humaine expliquées sur l’Antique,
in 1670 advised students to fully absorb the Antique from a very early age,
measure precisely its proportions and control ‘compass in hand’ the Fig. 66.
Gian Lorenzo Bernini, Daniel in the Lion’s Den, 1655–57, marble, over
life-size, Chigi Chapel, Santa Maria del Popolo, Rome 45 live model
against classical sculptures, as they are never arbitrary – a method, according
to Bourdon, approved by Poussin.176 This extreme rationalistic approach, based
on the actual measurement of the Antique, which, as we will see, would generate
opposition, was put into practice by Gérard Audran (1640–1703), engraver and
‘conseiller’ of the Académie (Appendix, no. 13). His illustrated treatise of
1682 (figs 72–73) provided students with the carefully measured proportions of
the antique statues that they were supposed to follow and became a standard
reference work in many languages, continuously republished until 1855. While
the Académie de France in Rome must have started accumulating casts after the
Antique from early on – the inventory of 1684 lists a vast collection of
statues, reliefs, busts, etc.177 – it is not entirely clear how readily the
students of the Académie in Paris had access to casts or copies in the first
decades of the institution’s history. Bernini, in his 1665 visit, explicitly
advised the formation of a cast collection for the Parisian Académie, and some,
among them a Farnese Hercules, were ordered or donated in the following
years.178 But although students certainly copied casts already in Paris, full
immersion in the practice was reserved for the period they spent in Rome.179
‘Make the painters copy everything beautiful in Rome; and when they have
finished, if possible, make them do it again’ Colbert tellingly wrote in 1672
to Charles Errard (c. 1606–9 – 1689), the first Director of the Académie de
France in Rome.180 In Rome a similar practice was encouraged in the Accademia
di San Luca, which, like its Parisian counterpart, was significantly reformed
in the 1660s, perhaps a sign of the increasingly important reversal of
influence, from France to Italy. From the beginning of the presidency of Carlo
Maratti in 1664, a staged drawing curriculum, competitions and lectures were
implemented and new casts were ordered (see cat. 15).181 Some twenty years
later the Accademia received the donation of hundreds of casts of antique sculp-
tures from the studio of the sculptor and restorer Ercole Ferrata (1610–86).182
Sharing the same values and similar curricula, in 1676 the Accademia di San
Luca and the Parisian Académie Royale were formally amalgamated and on occa-
sion French painters even became principals of San Luca – Charles Errard in
1672 and 1678, and Charles Le Brun in 1676–77.183 But the Italians could never
feel wholly comforta- ble with the extreme rationalisation of art
characteristic of so much French theory.184 After the publication of the French
Conférences, debates were held in defence of the Vasarian tradi- tion and of
the value of grace, judgement and natural talent against the rules and the
overly rational analysis of art and the Antique by the French.185 The engraving
by Nicolas Dorigny (1658–1746) after Carlo Maratti is the most eloquent 46
visual expression of this intellectual confrontation that con- tinued into the
1680s (cat. 15). Some of the most doctrinal aspects of the Parisian academy
also generated an internal counteraction and the supporters of disegno,
classicism and Poussin, headed by Le Brun, were challenged by the promot- ers
of Venetian colore and Rubens, led by the artist and critic Roger de Piles
(1635–1709) and by the painter Charles de la Fosse (1636–1716). The battle
between ‘Poussinisme’ and ‘Rubénisme’ – a new incarnation of the debate started
more than a century earlier by Giorgio Vasari and Lodovico Dolce – captured the
imagination of the French academic world between the end of the 17th and the first
decade of the 18th centuries. The victory of the Rubénistes led the way to a
freer, anti-classicist and more painterly aesthetic and to the eventual
affirmation of the Rococo in French art.186 But the next century would also
witness the triumph of the classicist ideal, as its principles spread all over
Europe. The Antique Posed, Measured and Dissected Given the rationalistic
approach of French artists and theo- rists to the Antique – ‘compass in hand’ –
it does not come as a surprise that, during the 17th century, they actually
started to measure ancient statues in order to tabulate their pro- portions.
And as well as measuring statues they began to merge the study of anatomy with
study of the Antique to provide young students with ideal sets of muscles to
copy. Such efforts produced a series of extremely influential drawing-books
filled with fascinating and disturbing images, in which ancient bodies are
covered by nets of numbers or flayed and presented as living écorchés. In a way
it was inevitable that the study of human propor- tions applied by Alberti,
Leonardo and Dürer to living bodies Fig. 67. Peter Paul Rubens, Study of the
Farnese Hercules, c. 1602, pen and brown ink, 196 × 153 mm, The Courtauld
Gallery, Samuel Courtauld Trust, London, inv. D.1978.PG.427.v, Fig. 68. Charles
Errard, Antinous Belvedere, plate on p. 457 in Giovanni Pietro Bellori, Le vite
de’ pittori scultori e architetti moderni, Rome, 1672 would eventually be
merged with the study of the ideal bod- ies of ancient statues, to test Vitruvius’
assertion that ancient artists worked according to a fixed canon (Appendix, no.
1). The main problem was that the canonical proportions of 5th-century bc
sculpture had been disregarded from the 3rd century bc onwards. Furthermore, as
we now know, most of the ‘perfect’ Greek statues were actually modified Roman
copies of lost originals. The measuring efforts of 17th- century art theorists
were therefore for the most part in vain, as most of the revered marbles did
not embody the principles of commensurability and overall harmonic proportion
that they believed they did. Although we have seen that Raphael had already
initiated the practice of measuring statues (fig. 27), the first to refer
explicitly to this exercise is Armenini in his 1587 De veri precetti della
pittura, in which a chapter is devoted specifically to the ‘measure of man
based on the ancient statues’.187 Rubens also devoted much attention to trying
to discover the perfect num- bers and forms of ancient statues, dividing for
instance the Farnese Hercules, the strongest type of male body, according to
series of cubes, the most solid of the perfect forms (fig. 67).188 Not
surprisingly, Poussin’s approach to the Antique in Rome was similar, and we
know from Bellori that he and the sculptor François Duquesnoy (1597–1643)
‘embarked on the study of the beauty and proportion of statues, measuring them
together, as can be seen in the case of the one of Anti- nous’ – two
illustrations of which he published in Poussin’s life in his Vite (fig. 68).189
But the first artist to provide accurate drawings of the most famous statues
was the future founding director of the Académie de France in Rome, Charles
Errard, who, later, also provided the measured Antinous illustrations for
Bellori’s Vite (fig. 68). In collaboration with the theorist Roland Fréart de
Chambray (1606–76), and most likely inspired by Poussin, he executed in 1640 a
series of intriguing measured red chalk drawings today preserved at the École
des Beaux-Arts in Paris (figs 69–71).190 Produced only two years after the
publication Fig. 69. Charles Errard, or collaborator,
Measured Drawing of the Belvedere Antinous, 1640, red chalk, pencil, pen and
brown ink, 430 × 280 mm, École nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv.
PC6415, no. 27 Fig. 70. Charles Errard, Measured Drawing of the Laocoön, 1640,
red chalk, pen and brown ink, 430 × 280 mm, École nationale supérieure des
Beaux-Arts, Paris, inv. PC6415, no. 11 Fig. 71. Charles Errard, Measured
Drawing of the Venus de’Medici, 1640, red chalk, pencil, pen and brown ink, 430
× 280 mm, École nationale supérieure des Beaux-Arts, Paris, inv. PC6415, no. 28
47 of Perrier’s successful Segmenta, Errard’s drawings were clearly
intended to be published and to present young artists with a set of certain and
ideal proportions on which they could base their own figures. A similar search
for discipline was undertaken by Fréart de Chambray, and later by other
theorists, among the remains of ancient architecture, which involved an even
more intense effort to discover their ‘perfect’ proportions. Although a few of
Errard’s drawings were published in 1656 by Abraham Bosse – the first professor
of perspective of the Parisian Académie Royale – the first successful manuals
appeared in the 1680s, as a result of the theoretical debates on the
proportions of ancient statues held in the Académie during the previous
decade.191 By far the most influential was a manual we have already
encountered, Gérard Audran’s Proportions du corps humain mesurées sur les plus
belles figures de l’antiquité, published in 1683 (Appendix, no. 13). This
provided a fully ‘classicised’ drawing-book, following the ‘alphabet of
drawing’ from the measured eye, nose and mouth of the Apollo Belvedere (fig.
72), to whole canonical statues, such as the Laocoön (fig. 73). Audran’s book,
republished several times in various languages, became the model for many
similar publications that appeared during the 18th and early 19th centuries and
espoused a practice embraced by many artists. Examples from different nations
include a Dutch manual, where, fascinatingly, the Apollo Belvedere is presented
according to Vitruvian principles (fig. 74; see also fig. 2 and Appendix, no.
1); drawings by the sculptor Joseph Nollekens (1737–1823; fig. 75); and measured
notes drawn by Antonio Canova over an engraving of the Apollo Belvedere from a
didactic series of prints after the Antique (fig. 76).192 In addition to being
carefully measured, antique bodies were also dissected. If classical statues
displayed perfect anat- omies, then, it was thought, they would offer an ideal
starting point for young students to study bones and muscles. Combining the
study of the Antique with that of anatomy was intended to reinforce the
familiarity of young artists with ancient canonical models, now also analysed
from the inside. Students until then had trained mainly on the immensely
influential De humani corporis fabrica, published by Andrea Vesalius in 1543,
and on the anatomical treatises that were based on it, but from the late 17th
century new ‘classicised’ manuals appeared.193 The first, Anatomia per uso et
intelligenza del disegno... , based on drawings by Errard, was published in
1691 by Bernardino Genga (1655–1720), professor of anatomy at the Académie de
France in Rome.194 Probably conceived much earlier, the set of engravings
included fascinating and somewhat morbid images of the skeletons of classical
statues (figs 77–78; although these were not eventually included in the book)
and several different views of the muscles of the strongest types of ancient
prototypes, the Laocoön, the Borghese Gladiator, the Farnese Hercules and the
Borghese Faun (figs 79–80).195 Genga and Errard’s Anatomia was a model for
several similar books which appeared in the 18th and early 19th centuries to
satisfy the needs of the increasingly classicistic curricula of European
academies. Not surprisingly, only male antiquities, and usually the most
muscular ones, were illustrated, both for reasons of decorum and also because
the Fig. 74. Jacob de Wit, Measured ‘Apollo Belvedere’, plate 8 in Teekenboek
der proportien van ‘t menschelyk lighaam, Amsterdam, 1747 Fig. 75. Joseph
Nollekens, Measured Drawing of the ‘Capitoline Antinous’, 1770, pen and brown
ink over traces of black chalk, 431 × 292 mm, Ashmolean Museum, Oxford, inv.
DBB 1460 Fig. 76. Giovanni Volpato and Rafaello Morghen, Measured ‘Apollo
Belvedere’, engraving (with inscribed measures in pencil, red chalk, pen and
brown ink by Antonio Canova), post 1786, plate 35 in Principi del disegno. Tratti
dall più eccellenti statue antiche per il giovanni che vogliono incamminarsi
nello studio delle belle arti, Rome, 1786, Museo Civico, Bassano del Grappa,
inv. B 42.69 Audran, Measured Details of the ‘Apollo Belvedere’, plate 27
in Les Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de
l’antiquité, Paris, 1683 Fig. 73. Gérard Audran, Measured ‘Laocoön’, plate 1 in
Les Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures de
l’antiquité, Paris, 1683 48 49 Fig. 77. (above left) After Charles Errard, The
Skeleton of the ‘Laocoön’, c. 1691, engraving, 328 × 198 mm, Bibliothèque des
Arts décoratifs, Paris, Album Maciet 2-4 (4) Fig. 78. (above centre) After
Charles Errard, The Skeleton of the ‘Borghese Gladiator’, c. 1691, engraving, 334
× 280 mm, Bibliothèque des Arts décoratifs, Paris, Album Maciet 2-4 (1) Fig.
79. (above right) After Charles Errard, Anatomical Figure of the ‘Borghese
Gladiator’, c. 1691, plate 51 in Bernardino Genga and Charles Errard, Anatomia
per uso et intelligenza del disegno . . . , Rome, 1691 Fig. 80. (left) After
Charles Errard, Anatomical Figure of the ‘Laocoön’, c. 1691, plate 43 in
Bernardino Genga and Charles Errard, Anatomia per uso et intelligenza del
disegno . . . , Rome, 1691 male body was believed to provide more
anatomical infor- mation compared to the female one. One of the most dis-
turbingly accurate, printed in two colours to distinguish the muscles from the
bones, is the Anatomie du Gladiateur combatant ... published in 1812 by the
military surgeon Jean- Galbert Salvage (1772–1813). Although this provided a
precise anatomical analysis of the head of the Apollo Belvedere (fig. 81), its
main focus was on the anatomy of the Borghese Gladiator analysed in all its
parts (fig. 82). The accuracy of the manual’s plates made it extremely
influential throughout Europe.196 Fig. 81. Nicolaï Ivanovitch Outkine after
Jean-Galbert Salvage, Muscles and Bones of the Head of the ‘Apollo Belvedere’,
engraving in two colours, plate 1 in Jean Galbert Salvage, Anatomie du
Gladiateur combatant ..., Paris, 1812 Fig. 82. Jean Bosq after Jean-Galbert
Salvage, Anatomical Figure of the ‘Borghese Gladiator’, engraving in two
colours, plate 6 in Jean Galbert Salvage, Anatomie du Gladiateur combatant ...,
Paris, 1812 50 The stress on anatomical precision also produced a spectacu- lar
three-dimensional écorché of the Borghese Gladiator created by Salvage in 1804
and acquired as a teaching tool in 1811 by the École des Beaux-Arts, where it
remains (fig. 83).197 An earlier model, which had served as inspiration for
Salvage, was the gruesomely naturalistic écorché posed as the Dying Gladiator
(see fig. 55) made by William Hunter (1718– 83), the professor of anatomy at
the Royal Academy of Arts in London, in collaboration with the sculptor
Agostino Carlini. Casted on the body of an executed smuggler, it was aptly
Latinised as Smugglerius.198 The Antique found its way into academic anatomical
manuals for students throughout the 19th century, and its pervasiveness was
enormous, extending even beyond Western culture. A plate with a flayed Laocoön
from the popu- lar Anatomie des formes extérieures du corps humain, published
in 1845 by Antoine-Louis-Julien Fau (fig. 85), served as inspira- tion for a
popular artists’ manual produced in Japan at the end of the century, resulting
in an extraordinary image which fuses the Western canon and the Japanese
woodblock print tradition of the Ukiyo-e (fig. 86).199 The osmosis between the
Antique and other disciplines of the academic curriculum gained ground also in
the study of the live model. We have seen that already in the 15th century it
was common practice to pose apprentices in imitation of ancient sculpture (see
fig. 14), and great artists like Rubens often returned to this expedient (see
cat. 9). But the practice became increasingly diffused within the codified
curricula of French and Italian academies during the 17th and 18th centuries
(figs 87–89). Recommended by several Fig. 83. Jean-Galbert Salvage, Écorché of
the ‘Borghese Gladiator’, 1804, plaster, 157 cm (h), École nationale supérieure
des Beaux-Arts, Paris, inv. MU11927 Fig. 84. (top left) William Pink after
Agostino Carlini, Smugglerius, c. 1775 (this copy c. 1834), painted plaster,
75.5 × 148.6 cm, Royal Academy of Arts, London, inv. 03/1436
Fig. 85. (middle left) M. Léveillé, Anatomical Figure of the ‘Laocoön’,
lithography, plate 24 in Antoine-Louis-Julien Fau, Anatomie des formes
extérieures du corps humain, Paris, 1845 Fig. 86. (middle right) Anatomical
Figures of the ‘Laocoön’ and of a Small Child, woodblock print, plate in
Kawanabe Kyo-sai, Kyosai Gadan, 1887 Fig. 87. (bottom left)
Antoine Paillet, Drawing of a Model Posing as the ‘Laocoön’, 1670, black and
white chalk on brown paper, 580 × 521 mm, École nationale supérieure des
beaux-arts, Paris, inv. EBA 3098 Fig. 88. (bottom centre) Giuseppe Bottani,
Drawing of a Model in the Pose of the ‘Lycean Apollo’ Type, c. 1760–70, red and
white chalks on red-orange prepared paper, 423 × 270 mm, Philadelphia Museum of
Art, inv. 1978-70-197 Fig. 89. (bottom right) Jacques-Luois David, An Academic
Model in the Pose of the ‘Dying Gaul’, 1780, oil on canvas, 125 × 170 cm, Musée
Thomas Henry, Cherbourg, inv. MTH 835.102 51 academicians, posing the
live model with the same tension and flexing of muscles as the ancient statues
encouraged students to correct their drawings after fallible Nature against the
perfection of the antique examples and to derive universal principles from
particular living models (see cats 16 and 27b).200 The Eighteenth Century and
the Diffusion of the Classical Ideal The seeds planted by 17th-century
classicist theory fully blossomed during the 18th with the affirmation of Neo-
classicism in the second half of the century. Supported by and supporting the
exponential diffusion of academies – from some nineteen in 1720 to more than
100 in 1800 – the cult of the Antique spread to the four corners of Europe,
from St Petersburg to Lisbon and beyond.201 The ‘true style’, as classicism was
often called in the 18th century, was inextri- cably linked with many of the
values of Enlightenment culture: in an age in search of order and universal
principles, the appeal of the rational and ‘eternal’ ideals embodied by
classical statuary proved irresistible. At the same time they provided a useful
tool for existing political powers and a for- midable one for new authorities
in search of legitimisation. The new academies based their curricula mainly on
that of Paris and Rome, and the didactic role assigned to the Antique was
physically imported through an army of plaster casts – the ‘Apostles of good
taste’ – as Denis Diderot called them, which became the most recognisable
trademark of the newly founded institutions (fig. 90).202 The progressive
method of the ‘alphabet of drawing’ definitively established itself as the
basis of the training of European artists well into the 20th century. Not
necessarily followed in practice, as students often wanted to rush to the copy
of the live model, its didactic value was, in Fig. 90. After Augustin Terwesten,
The Life Academy at the Royal Academy of Fine Arts in Berlin, engraved vignette
on p. 217 from Lorenz Beger, Thesaurus Brandenburgicus Selectus..., vol. 3,
Berlin, 1701 theory, supported by the vast majority of academies.203 The plate
illustrating the entry on ‘Drawing’ in Diderot and D’Alembert’s epochal
Encyclopédie significantly focuses on the three steps, being followed in
different media (fig. 91).204 While the French model was spreading throughout
Europe during the first half of the century, ironically the Parisian Académie
itself underwent a period of crisis. After the death of Colbert in 1683 and of
Le Brun in 1690, the royal institution became decreasingly relevant in
determining the direction of the national school of painting. Financial constraints
and the waning of royal patronage coincided with the fact that the vital forces
of French art were becoming less interested in adhering to the precepts of the
Académie. A change in taste under the regency of Philippe d’Orléans (r.
1715–23) favoured the so-called petite manière, a form of painting dealing with
light-hearted subjects – ‘bergeries’, ‘fêtes galantes’ – against the grande
manière. Partly as a conse- quence, the traditional curriculum of the Académie,
centred on the study of the human figure to prepare for history painting, was
increasingly neglected.205 But things changed radically in 1745 with the
appointment of Charles-François- Paul Le Normant de Tournehem – the uncle of
Madame de Pompadour – as Surintendant des Bâtiments du Roi, the official
protector of the Académie Royale on behalf of the king. He initiated a reform
involving the reinvigoration of royal patronage, the re-establishment of
Conférences and, more generally, a series of initiatives aimed at
re-establishing the leading role of the Académie and of history painting in the
French art world.206 The principles of Le Normant’s reform, supported by the
influential antiquarian and theorist Comte de Caylus (1692–1765) and visualised
by Charles-Joseph Natoire’s beautiful drawing (cat. 16), paved the way for the
final affirmation of the grande manière in the second half of the century,
despite the continuing clamour of dissenting voices. If Paris progressively
became the centre of the modern art world, Rome retained its status as the ‘academy’
of Europe Fig. 91. Benoît-Louis Prévost after Charles-Nicolas Cochin the
younger, A Drawing School, plate 1, illustrating the entry ‘Dessein’ from Denis
Diderot and Jean Le Ronde D’Alambert, Encyclopédie ..., Recueil de planches,
sur les sciences, les art libéraux, et les arts méchaniques ..., Paris, 1763,
vol. 20 where a thriving international community of artists congre- gated to
round off their education in the physical and spirit- ual presence of the
Antique and the great Renaissance masters.207 The crucial role that Rome
occupied in 18th- century culture is evoked in the words of the most famous art
critic of the age and the champion of classicism Johann Joachim Winckelmann
(1717–68): ‘Rome’ he wrote in his letters ‘is the high school for all the
world, and I also have 208 been purified and tried in it’. Of course, artists
and travel- lers had visited the city to study its art for at least two centu-
ries, but the 18th century represented Rome’s golden age as the traveller’s
ultimate destination. The Grand Tour – as the trip to Italy and to Rome was
known – became a social and cultural phenomenon that included artists,
antiquarians, collectors and, in general, members of European elites.209 It
generated an industry of collectibles that travellers could bring back to their
homeland, and an army of original ancient statues and modern copies in all
media was exported, alongside portraits and paintings of various kinds that
would powerfully recall the time spent by their owners in the eternal city. Among
the most fascinating and systematic evocations of Rome are a series of
celebrated canvases by Giovanni Paolo Panini (1691–1765), where ‘the best of
the best’ of Roman sites and antiquities are gathered together in imaginary
galleries. In the foreground of fig. 92, (see also cat. 20, fig. 5) artists are
busy drawing and measuring with their compasses a selected choice of canonical
classical statues – a reminder of one of the most widespread artistic
activities in the city.210 The demands of the Grand Tour ‘industry’ also
generated a specific category of ‘marketable drawings’ after the Antique
destined to fill the ‘paper museums’ of collectors and anti- quarians all over
Europe. They were mainly produced for collectors and travellers from Britain, a
nation that became increasingly important in the study of the Antique through-
out the century. Among the most famous drawings were those produced in the
workshop of the entrepreneurial painter Francesco Ferdinandi Imperiali
(1679–1740) in the 1720s by various painters and draughtsmen – among them
Giovanni Domenico Campiglia (1692–1775; see cats 19–20) and the young Pompeo
Batoni (1708–87; fig. 93).211 Created for the extensive collection of the
antiquarian Richard Topham 52 53 Fig. 92. Giovanni Paolo Panini,
Roma Antica, 1754–57, oil on canvas, 186 × 227 cm, Staatsgalerie Stuttgart,
inv. Nr 3315 (1671–1730), Batoni’s red chalk drawings are among the most
extraordinary produced in the 18th century. With their preci- sion, attention
to detail, fidelity to the originals and frontal viewpoint, they encapsulate
many of the typical qualities of this category of drawings. Their manner
continues and devel- ops some of the characteristics already seen in the
classicist drawings of Carlo Maratti, of whom Batoni was the natural artistic
heir (figs 60–61). Growing interest in the classical past was also supported by
massive expansion in antiquarian publications, such as the monumental Antiquité
expliquée (Paris, 1719–24) by the Abbé Bernard de Montfaucon, an illustrated encyclopaedia
of the Antique for the use of the European educated public. Artists could also
benefit from an increase in printed collec- tions of classical statues.212
Paolo Alessandro Maffei and Domenico de Rossi’s Raccolta di Statue Antiche e
Moderne (1704) set new standards of accuracy, and it was followed by the
various sumptuous volumes devoted to the antiquities of the Grand Ducal
collection in Florence and of the Capitoline Museum in Rome (see cats 19–20).
With its wealth of patrons, artistic competitions, acade- mies and artists’
studios, many displaying collections of casts, Rome also offered an unrivalled
opportunity to learn and practice the arts of disegno.213 The classicist
direction given to the Accademia di San Luca by Giovanni Pietro Bellori and Carlo
Maratti, was sanctioned by the Pope Clement XI (r. 1700–21) who in 1702
established papal- supported competitions, the celebrated Concorsi Clementini,
which thrived especially during the second half of the century (see cat.
20).214 Open to all nationalities, the Concorsi Fig. 93. Pompeo Batoni, Drawing
of the Ceres of Villa Casali, c. 1730, red chalk, 469 × 350 mm, Eton College
Library, Windsor, inv. Bn. 3, no. 45 were divided into three classes of
increasing difficulty, the third and lowest class being reserved for copying,
usually after the Antique (see cat. 20, fig. 4). This reinforced, as nowhere
else in Europe, the study of classical statuary as the cornerstone of the
artist’s education, giving to Italian and foreign artists alike the chance to be
rewarded publicly in sumptuous ceremonies held in the Capitoline palaces, even
in early stages of their careers. The cosmopolitan atmos- phere of the
Accademia di San Luca is reflected in the fact that among its Principals were
several foreigners, such as the Frenchman Charles-François Poerson (elected
1714) or the Saxon Anton Raphael Mengs (1771–2) and the Austrian Anton von
Maron (1784–6). The Accademia was also open to leading women painters such as
Rosalba Carriera (1675–1757) or Elisabeth-Louise Vigée Le Brun (1755–1842),
although they were not allowed to attend meetings. Crucial for artistic
education was the opening of the Capitoline as a public museum in 1734, thanks
to the enlight- ened policy of Pope Clement XII (r. 1730–40).215 One of the main
reasons behind the papal decision was specifically to support ‘the practice and
advancement of young students of the Liberal Arts’ through the copy of the
Antique.216 An evocative vignette inserted in the Musei Capitolini – the first
sumptuously illustrated catalogue of the collection – reflects the popularity
of its cluttered rooms among artists of all nations (see cat. 20). With the
opening in the Capitoline of the Accademia del Nudo in 1754 – specifically
devoted to the study of the live model and controlled by the Acca- demia di San
Luca – the museum became a sort of ideal academy where art students could copy
concurrently from the Antique, Old Masters paintings and the live model.217
Apart from the Capitoline and other traditional places, such as the Belvedere
Court or the aristocratic palaces where original antiquities could be studied
in situ (cat. 21), the other favoured locus for the study of the Antique in the
city was the Académie de France in Rome, which owned the largest collection of
plaster casts in Europe. Although the Académie, like its Parisian counterpart,
had gone through a troubled period in the early decades of the century – the
Prix de Rome was cancelled for lack of funds in 1706–8, 1714 and 1718–20 – its
role was revamped and its practices drastically reformed under the directorship
of Nicholas Vleughels (1668–1737) between 1725 and 1737.218 The casts were
redisplayed in Palazzo Mancini, the Académie’s prestigious new location on the
Corso, and integrated for didactic purposes with the study of the live model
(see cat. 16). The collection of the Académie served as an example for similar
institutions throughout Europe, as its arrangement of many copies side- by-side
was considered ideal for the assimilation of classical forms. With the advancing
neo-classical aesthetic, their flawless white appearance was even preferred for
didactic purposes above the originals: young students could concen- trate on
their purified forms, without the signs of time shown by real antiquities. No
other nation had as many members in Rome as France, both as pensionnaires of
the Académie and permanent residents (see cats 17–18, 21).219 The long
directorship of Charles-Joseph Natoire, between 1751 and 1775, greatly devel-
oped and expanded the copying of antiquities that had been reinstated by
Vleughels. But Natoire also encouraged the creation of ‘classical’ landscapes
of the Roman campagna, following the principles established by the great
17th-century French landscapists: Poussin, Dughet and Claude.220 Natoire and his
most gifted and prolific pupil, Hubert Robert (1733– 1808), who spent more than
a decade in Rome between 1754 and 1765, produced a series of drawings in which
copy- ing in the city’s museums and palaces is splendidly evoked (figs 94–97
and cat. 17).221 Focused in particular on the Capitoline collection, Robert’s
images are among the most fascinating products of a genre – that of the artist
drawing in situ surrounded by classical statues – that, as we know, goes back
to the 16th century (see cat. 5 and fig. 44). Robert specialised in evocative
views of the remains of ancient Rome, with artists and wanderers lost among
their crumbling grandeur. In many ways he recaptured the spirit of wonder and
meditation on the ruins of the city expressed by 16th-century Northern artists,
such as Maarten van Heemskerck, Herman Posthumus, and Nicolas Beatrizet (fig.
44).222 Boosted by the enthusiasm generated by the unearthing of the remains of
Herculaneum and Pompeii in 1738 and 1748, in the second half of the century the
‘true style’ of Neo-classicism firmly established itself, spreading from the
international community in Rome to the whole of Europe. Significant figures in
the formulation of the new taste were the architect and engraver Giovanni
Battista Piranesi (1720– 78), whose lyrical etchings and engravings of ancient
and modern Rome established – and sometimes created – the image of Rome among a
European public, and the art historian Johann Joachim Winckelmann, whose
powerful descriptions of classical statues inspired generations of artists and
travellers, firmly establishing a new classicist doctrine in European taste.223
More than ever before, artists now aimed not only at assimilating the
principles of classical sculpture, but at recreating its formal aspect, as a
universal standard of perfection to which any great artist should aspire.
54 55 Fig. 94. Charles-Joseph Natoire, Artists Drawing in the Inner
Courtyard of the Capitoline Museum in Rome, 1759, pen and brown ink, brown and
grey wash, white highlights over black chalk lines on tinted grey-blue paper,
300 × 450 mm, Louvre, Paris, inv. 3931381 Robert, The Draughtsman at the
Capitoline Museum, c. 1763, red chalk, 335 × 450 mm, Musée des Beaux-Arts et
d’Archéologie de Valence, inv. D. 80 Fig. 96. Hubert Robert, Antiquities at the
Capitoline Museum, c. 1763, red chalk, 345 × 450 mm, Musée des Beaux-Arts et
d’Archéologie de Valence, inv. D. 81 Fig. 97. Hubert Robert, The Draughtsman of
the Borghese Vase, c. 1765, red chalk, 365 × 290 mm, Musée des Beaux-Arts et
d’Archéologie de Valence, inv. D28 As Winckelmann famously stated in his
Reflections on the Painting and Sculpture of the Greeks (1755): ‘There is but
one way for the moderns to become great, and perhaps unequalled; I mean, by
imitating the ancients’ (see Appendix, no. 15). Although in 1775 new
regulations for the Académie de France in Rome stressed again the centrality in
the curriculum of study of the live model, most pupils now favoured the study
of the Antique, an evident sign of the evolution of taste towards a new radical
classicism.224 Of all the artists converging on Rome, Jacques-Louis David
(1748–1825), was one of the most prolific in making copies after the
Antique.225 Leaving Paris in 1775 with the firm resolution of maintaining his
independence and avoiding the seductions of the Antique, his arrival in Rome,
according to his own words, opened his eyes.226 He started his artistic
education again by spending the next five years as a pension- naire obsessively
copying from modern masters and classical statues, reliefs and sarcophagi with
an attention to detail that recalls Poussin’s approach to antiquity (fig.
98).227 Generally speaking, between the end of the 18th century and the
beginning of the 19th, artists copying from the Antique concentrated progressively
on the outlines of statues rather than on the modelling or the chiaroscuro, as
the neo-classical aesthetic valued the purity of the line over any other
pictorial element, accentuating the stress on disegno inaugurated by Vasari
more than two centuries before. Fig. 98. Jacques-Louis David, Drawing of a
Relief with a Distraught Woman with Her Head Thrown Back, 1775/80, pen and
black ink with gray wash over black chalk, 196 × 150 mm, National Gallery of
Art, Washington D.C., Patrons’ Permanent Fund1998.105.1.bbb But coinciding with
David’s residence in Rome, other interpretations of the Antique started to
emerge within a circle of artists that included Tobias Sergel (1740–1814) and
Thomas Banks (1735–1805) and which revolved around the Swiss painter Henry
Fuseli (1741–1825).228 The approach of this ‘Poetical circle’ was utterly
anti-academic and prefigures some of the principles that would be embraced by
Romantic artists a few years later. For them ancient sculptures were
embodiments of the emotions of the artists who created them, rather than models
of ideal beauty and proportional perfection. Fuseli’s extraordinary drawing,
The Artist Moved by the Grandeur of Antique Fragments (cat. 22), which he
produced immediately after leaving Rome in 1778, perfectly expresses this more
empathic and meditative relation with classical antiquity and its lost
grandeur. The attitude of Fuseli and his friends represents a turning point in
the relation of the artist with ancient statuary, stressing the creative genius
of the artist, his or her individuality and, in general, the subjective values
of art: all principles that would contribute to the decline of the classical
model in the following century. The Antique in Britain: The eighteenth century
Of the various nationalities of artists resident in Rome during the 18th
century, the British were among the most numerous. Britain had arrived late on
the international artistic stage. Until the late 17th century, several factors,
including the theological disapproval of pagan and Catholic imagery of large
sections of Protestant society, had made Britain, outside the confined
patronage of the Court, a virtual backwater in the visual arts. There was no
established national school of painting or sculpture and no academy; painters were
tied to the craft guild of the Painter Stainers’ Company; it was illegal to
import pictures for sale, and there was no proper art market.229 However, by a
century later, things had changed radically: following the nation’s dramatic
political liberalisa- tion and economic expansion, Britain had one of the most
dynamic national art schools in Europe and a Royal Acad- emy, founded in 1768.
Several hundred thousand artworks – including a multitude of original
antiquities and copies – had been imported to adorn the urban townhouses and
country mansions of the upper classes; and London had become the centre of the
international art market, displacing Antwerp, Amsterdam and Paris.230 The new
ruling class that had emerged from the Glorious Revolution of 1688 embraced
classicism, defined as the ‘Rule of Taste’; at the same time artists started
gathering to form private academies where they could study together and where
beginners could receive at least some training, based, 56 57 of course,
on the continental model, with the copy after the Antique as one of its
cornerstones.231 Many British artists also travelled to Rome, where they
participated in the Concorsi of the Accademia di San Luca or attended the
Accademia del Nudo in the Capitoline and several built national and interna-
tional reputations thanks to their success in the city.232 In Rome,
furthermore, artists encountered British travellers and potential future
patrons. Plaster casts must already have been relatively widely available
during the first half of the 18th century.233 Drawings after classical
sculptures survive by British artists who did not travel to Italy: among them
some fascinating, rough, early studies by Joseph Highmore (1692–1780), possibly
from casts in the Great Queen Street Academy – which operated under Sir Godfrey
Kneller and Sir James Thornhill between 1711 and 1720 – where he enrolled in
1713 (fig. 99).234 But the insular situation of the British art world, where
many painters struggled in vain to create a modern and national school and
genre of painting, plus an innate distrust of cultural models imported from the
Continent, especially France, meant that copying the Antique encountered strong
criticism. The most vociferous opponent was William Hogarth, who, as director
of the second St Martin’s Lane Academy from 1735, became increasingly hostile
to a curriculum based on the French Académie model and to history painting in
general, although, paradoxically, he demonstrated great admiration for a few
classical statues in his writings (see Appendix, no. 14).235 His war against
fashionable imported taste and didactic principles is well Fig. 99. Joseph
Highmore, Study of a Cast of the Borghese Gladiator, Seen from Behind, c. 1713,
graphite, ink and watercolour on paper, 354 × 230 mm, Tate, London, inv. T04232
expressed by the celebrated first plate in his Analysis of Beauty (1753), where
the Antique, anatomy and the study of proportions evocated in the centre of the
composition are surrounded by vignettes illustrating Hogarth’s own aesthetic ideas
(fig. 100).236 But despite such discontented voices, fascination with the
Antique would only intensify, and educational curricula based on French or
Italian models would gradually impose themselves. In 1758, a ‘continental’
enterprise was launched by the 3rd Duke of Richmond with the opening of a
gallery attached to his house in Whitehall ‘containing a large collec- tion of
original plaister casts from the best antique statues and busts which are now
at Rome and Florence’.237 With a curriculum based on the ‘alphabet of drawing’
and under the directorship of the Italian painter Giovanni Battista Cipriani
(1727–85) and the sculptor Joseph Wilton (1722–1803) – the first Englishman to
receive, in 1750, the prestigious first prize of the Accademia di San Luca –
the gallery was set up specifically with the didactic purpose of training
youths on the basis of the Antique (fig. 101).238 To compensate for the absence
of a national Academy, a semi-formal system developed probably inspired by the
joint model of the Accademia di San Luca and the Capitoline, where many British
artists had worked.239 Students would have started by copying drawings, prints
and parts of the body in the private drawing school set up in 1753 by the
entrepreneur and drawing master William Shipley (1714– 1803); they would then
progress to the Duke of Richmond’s Academy when they were ready to study
three-dimensional forms; finally they would proceed to the study of the live
model in the second St Martin Lane’s Academy.240 Competi- tions were set up and
the Society for the Encouragement of Arts, Manufactures and Commerce, which was
founded Fig. 100. William Hogarth, The Analysis of Beauty (Plate 1), 1753,
etching and engraving, 387 × 483 mm, private collection, London Fig. 101. John
Hamilton Mortimer, Self-portrait with Joseph Wilton, and an Unknown Student
Drawing at the Duke of Richmond’s Academy, c. 1760–65, oil on canvas, 76 × 63.5
cm, Royal Academy of Arts, London, inv. 03/970 in 1754, awarded prizes for the
best drawings after casts and copies, several of which survive in the
institution’s archive (figs 102–03).241 The continental system also reached
cities outside London. For example, academies and artists’ societies were set
up in Glasgow – in an image of the Foulis Academy of Art and Design founded
there in 1752 we see the familiar presence of the Borghese Gladiator (fig. 104)
– and in Liverpool (see cat. 24).242 But it was with the foundation of the
Royal Academy in London in 1768 that Britain finally had a national institution
with a formal curriculum based on continental models (see cats 25–27). Directed
by Sir Joshua Reynolds (1723–92) – its first president between 1768 and 1792 –
the Academy had a teaching structure that centred on the Antique or ‘Plaister’
Academy and the Life Academy, to which students would progress after having
practised for years on plaster casts.243 To advance from one stage to another,
they had to supply a presentation drawing showing their skills in depicting
antique forms: one by the young Turner (1775–1851), who enrolled in the Academy
in 1789 as a boy of fourteen, proba- bly belongs to this category (cat. 27a).
Several evocative images testify to the study of the growing collection of
plaster casts, both in daylight and at night (fig. 105 and cats 25–27),244
while the Life Academy is evoked in the famous painting by Johan Zoffany
(1733–1810) which shows the first academicians in discussion around two male
models – one glancing at us in the pose of the Spinario – surrounded by
familiar plaster casts of classical and Renaissance sculpture (fig. 106). In
the background, on the right, an écorché appears among the other casts, to
remind us that anatomy lessons were delivered in the Academy by the physician
William Hunter (1718–83). By bringing together plaster casts, anatomy and the
study of the live model, Zoffany’s image declared unmistakably the Royal
Academy’s affinity with continental academic models of teaching. The two female
members, Mary Moser (1744–1819) and Angelica Kauffmann (1741–1807) are evoked
through their portraits, as their presence in the Life Academy was considered
improper.245 A system of discourses, competitions and exhibitions, complemented
and completed the teaching curriculum. The official theoretical line of the
Academy, fixed in Reynolds’ celebrated Discourses – which were delivered
between 1769 and 1790 – was a distillation of the idealistic theory of the
previous centuries and included frequent references to the Antique (see
Appendix, no. 17). Reynolds’ highest praise was reserved for the Belvedere
Torso, which embodied the Fig. 102. William Peters, Study of a Cast of the
‘Borghese Gladiator’, c. 1760, pencil, black and white chalk on coloured paper,
410 × 450 mm, Royal Society of Arts, London, inv. PR/AR/103/14/621 Fig. 103.
William Peters, Study of a Cast of the ‘Callipygian Venus’, c. 1760, pencil,
black and white chalk on coloured paper, 525 × 355 mm, Royal Society of Arts,
London, inv. PR/AR/103/14/669 58 59 Fig. 104.
David Allan, The Foulis Academy of Art and Design in Glasgow, c. 1760,
engraving, 134 × 168 mm, Mitchell Library, Glasgow, inv. GC ILL 156 Fig. 105.
Anonymous British School, The Antique School of the Royal Academy at New
Somerset House, c. 1780–83, oil on canvas, 110.8 x 164.1 cm, Royal Academy of
Arts, London, inv. 03/846 Fig. 106. Johan Zofany, The Portraits of the
Academicians of the Royal Academy, 1771–72, oil on canvas, 100.1 × 147.5 cm,
The Royal Collection, Windsor Castle ‘superlative genius’ of ancient art, and
this judgement is reflected in the official iconography of the Royal Academy,
as the Torso appeared, significantly below the word ‘Study’, on the silver
medals awarded in the Academy’s competitions (see cat. 27a).246 The muscular
fragment reappears as well in one of the female allegories of Invention,
Composition, Design and Colour, commissioned by the Royal Academy from Angelica
Kauffman in 1778 to decorate the ceiling of the Academy’s new Council Chamber
and to provide a visual manifesto for Reynolds’ theory of art (fig. 107).247
Showing her wit and erudition, Kauffman’s Design is a significant image, as she
took the traditional personification of Disegno, depicted as male (the word is
masculine in Italian), and transformed it into a woman copying the ideal male
body – thereby asserting the right of women to study the Antique and pursue a
traditional artistic career. Although increasingly questioned by anatomists and
by a growing number of artists, plaster casts were used in the Academy’s
curriculum well into the 19th century and beyond. In London the didactic role
of original sculptures and casts was also exploited outside official
institutions. This was the case of the antiquities assembled by the influential
antiquar- ian and collector Charles Townley (1737–1805) at his house on 7 Park
Street, which became a sort of alternative academy where artists, amateurs –
and also women – could study the statues he had imported from Italy (cat.
28).248 Another private space set up with the specific intention of training
young architects in the study of the Antique was the house- academy established
by Sir John Soane (1754–1837) at No. 13 Lincoln’s Inn Fields (cat. 29). In the
labyrinthine spaces of Soane’s interiors, which were constantly enlarged to
house Fig. 107. Angelica Kaufman, Design, 1778–80, oil on canvas, 130 × 150.3
cm, Royal Academy of Arts, London, inv. 03/1129 his growing collections, he
obsessively juxtaposed paintings, architectural fragments, copies of celebrated
classical statues, drawings and objects of all sorts.249 Architecture,
sculpture and painting were seamlessly integrated to create a whole and to
express the qualities of ‘variety and intricacy’, advocated by Reynolds in his
13th Discourse (1786). This variety was intended to stimulate the imagination
of Soane’s students – in 1806 he was appointed the Royal Academy’s Professor of
Architecture – and to invite would-be architects not to limit themselves but to
train in the three sister arts, as recommended by Vitruvius.250 Academic
training continued as students gathered to copy the Antique in the newly built
galleries of the British Museum,251 but, as the 19th century progressed, its
authority faded dramatically as young artists looked increasingly to the modern
world for their inspiration. Dissenting Voices and Seeds of Decline The linear
evolution of the classical ideal from the early Renaissance to the beginning of
the 19th century was in reality punctuated by several opposing voices. But none
of them, with rare exceptions, ever questioned the greatness and authority of
classical art. What was at times disputed was the didactic value of copying
from the Antique or the slavish dependence on its forms demonstrated by some of
the most dogmatic devotees of classicism. We have seen that even in the 16th
century, art critics like Vasari, Dolce and Armenini had warned against
excessive dependence on classical forms and had advocated an independent and
creative approach based on the artist’s own judgement. Rubens and Bernini too
had warned against the ‘smell of stone’ in painting or psycho- logical dependence
on the model. This balanced approach to the Antique would become a leitmotif
among later genera- tions of art theorists. Furthermore, artistic traditions
outside Central Italy had always demonstrated a good dose of scepticism towards
the dependence of the Florentine and Roman schools on the forms and ideals
embodied by classical statuary. One of the most intelligent expressions of this
attitude is the famous woodcut by Nicolò Boldrini, almost certainly after an
original drawing by Titian, in which Laocoön and his sons are transformed into
three monkeys and set in a bucolic landscape (fig. 108).252 In this complex
image Titian, one of the greatest creative geniuses of the Renaissance, who
him- self had a profound and fruitful relationship with the Antique, was
presumably issuing an ironic statement against the faithful artistic imitation
of the classical models – a behav- iour similar to that of mimicking monkeys.
Fig. 108. Nicolò Boldrini after Titian, Caricature of the Laocoön, c. 1540–50,
woodcut, 267 × 403 mm, private collection In the 17th century the pernicious
effect on painting from too-slavish imitation of sculptural forms would be
summa- rised by the Bolognese art theorist Carlo Cesare Malvasia (1616–93) with
the specific neologism ‘statuino’ or ‘statue- like’ (see cats 9 and 15).253 But
during the 17th and 18th centuries even the most outspoken critics of the
perfection of the Antique, such as the champion of colore versus disegno Roger
de Piles, or the defender of a modern and independent artistic language like
Hogarth, always demonstrated great admiration for classical statues, especially
in terms of their proportions (see Appendix, no. 14).254 According to Bellori,
the only great master who showed no interest at all in them was the ultra-naturalist
Caravaggio. In a famous passage of his Vite, the champion of classicism
reported that Caravaggio expressed ‘disdain for the superb marbles of the
ancients and the paintings of Raphael’ because he had decided to take ‘nature
alone for the object of his brush’. ‘Thus’, Bellori continues, ‘when he was
shown the most famous statues of Phidias and Glycon so that he might base his
studies on them, his only response was to gesture toward a crowd of people,
indicating that nature had provided him with masters enough’.255 But this
anecdote must not be taken too literally, as it certainly contains Bellori’s
defence of idealism against the dangers of the unselective imitation of Nature,
as repre- sented by Caravaggio and his followers. In fact, although it is not
immediately obvious, Caravaggio had a profound under- standing of antique
forms, and was deeply conscious of High Renaissance prototypes by Michelangelo
(his namesake) and by Raphael. Even if Bellori’s account of Caravaggio had been
accurate, such a radical attitude would have to be considered an exception in
the long period covered here. In the 18th century criticism of the academic
curriculum, in particular that of the Parisian Académie, and the art that it
produced, increased. But, once again, two of its sternest 60
61 critics, Diderot and David, had an immense admiration for classical
statuary and Diderot’s attack was directed at the codified and repetitive
nature of academic practices, in particular the drawing lessons, and at the
slavish dependence on the Antique at the expense of Nature of most of his
contemporaries, not at classical models as such (see Appen- dix, no. 16).256
Significantly David, who played a crucial role in the closure of the Parisian
Académie in 1793 during the French Revolution, would become the hero of the
refounded École des Beaux-Arts in the 19th century. More significant criticism
came from the students forced to copy casts for sessions on end. The great
French painter Jean-Siméon Chardin recalled the frustration that many artists
must have felt by being forced to follow the oppressive ‘alphabet of drawing’,
as powerfully evoked in his recollections (see also cat. 26): We begin to draw
eyes, mouths, noses and ears after patterns, then feet and hands. After having
crouched over our portfolios for a long time, we’re placed in front of the
Hercules or the Torso, and you’ve never seen such tears as those shed over the
Satyr, the Gladiator, the Medici Venus, and the Antinous [...]. Then, after
having spent entire days and even nights by lamplight, in front of an immobile,
inanimate nature, we’re presented with living nature, and suddenly the work of
all preceding years seems reduced to nothing.257 But even the painter of
still-lifes and domestic genre scenes Chardin recognised the greatness of the
original statues. The appeal of the forms and principles of the Antique was
still supreme within an aesthetic system – the humanistic theory of art – that
placed the representation of mankind and its most noble behaviours at the centre
of the artistic mission, and this was true even for painters, like Chardin, who
did not abide by the academic hierarchy of genres. The real beginning of the
decline of the authority of the Antique started when these premises began to be
challenged by artists who felt at odds with a conception of art that they
perceived as increasingly inadequate. Romanticism landed a first, but
eventually fatal, blow by challenging the rationalistic, idealistic and
supposedly ‘universal’ principles of classicism, in the name of subjective
emotion and individ- ual genius. The drastic changes imposed by
industrialisation and urbanisation accelerated the process. Opie’s outline of
what constitutes art, with which this essay began – a pedantic and codified
version of Reynolds’ aesthetic – came to be perceived as increasingly
irrelevant by students exposed to urban life in London, Paris or any other
modern city, as the words of the painter James Northcote (1746–1831) in 1826
clearly express (see Appendix, no. 19). But if various ‘progres- sive’
avant-gardes rejected more decisively the principles of classicism and academic
art, one need only remember that artistic education remained almost everywhere
based on the traditional curriculum and that casts were used in academies and art
schools until a few decades ago. Some of the greatest modern painters, such as
Cézanne, Degas, Van Gogh and Picasso, spent portions of their youth copying
plaster casts. And, as the last part of this exhibition shows (cats 32, 34–35),
with mass-production casts became ever more available to wider audiences,
including women and the bourgeoisie, entering the realm of the private home,
often in a reduced format. But an assault on the canonical status of many of
the most famous sculptures also came from another ‘academic’ direction, as a
new archaeological precision recognised them as more or less accurate Roman
copies of Greek originals. If art education remained solidly structured around
the traditional curriculum, becoming more and more conserva- tive, the creative
forces of European art placed themselves firmly outside the academic system,
and principles of ideal imitation would become progressively irrelevant. An
image that perfectly visualises the dawn of the new aesthetic era, and an ideal
conclusion to our journey, is a painting produced by Thomas Couture as a satire
against the Realist fashion of the mid-19th century (fig. 109) – a preparatory
study for which is in the Katrin Bellinger collection.258 Couture, who ran a
successful studio in Paris, described his own painting in his Methodes et
Entretiens d’Atelier published in 1867: I am depicting the interior of a studio
of our time; it has nothing in common with the studios of earlier periods, in
which you could see fragments of the finest antiquities. At one time, you could
see the head of the Laocoön, the feet of the Gladiator, the Venus de Milo, and
among the prints covering the walls there were Raphael’s Stanze and Poussin’s
Sacraments and landscapes. But thanks to artistic progress, I have very little
to show [...] because the gods have changed. The Laocoön has been replaced by a
cabbage, the feet of the Gladiator by a candle holder covered with tallow or by
a shoe [...]. As for the painter [...], he is a studious artist, fervent, a
visionary of the new religion. He copies what? It’s quite simple – a pig’s head
– and as a base what does he choose? That’s less simple, the head of Olympian
Jupiter.259 Couture’s image, wherein a once revered antique frag- ment of the
Olympian god, Jupiter, has been relegated to a mere stool and the object of
study is now the severed head of a pig, encapsulates the decline of the Antique
in the 19th century and the shift of interest from the ‘ideal’ to the ‘real’.
Little did Couture kn0w that in a few decades not only the traditional role of
imitation would be subverted, but that the principle of imitation itself –
formulated by Alberti four hundred years before – would be questioned in favour
of expressive or abstract values, leaving even less space for the previously
revered Laocoön, Borghese Gladiator and the Venus de Milo. The Antique
continued its life in the 20th century in many, often unexpected ways: quoted,
subverted and deconstructed by many avant-garde artists; in the official art of
totalitarian regimes; in the ironic and playful, but often shallow game of
post-modernism; and even, one may say, in much of the aesthetic of fashion
advertisement. The relation of the classical model and ideal with modernity is
a story that still needs to be written fully and would be a fascinating subject
for another exhibition. Fig. 109. Thomas Couture, La Peinture Réaliste, 1865,
oil on panel, 56 × 45 cm, National Gallery of Ireland, Dublin, inv. 4220.NOTES 1
2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 Hoare 1809, p. 11. See also Opie 1809, pp. 3–52. The
italics are the author’s. On the Renaissance or humanistic theory of art good
overviews are: Lee 1967; Schlosser Magnino 1967; Blunt 1978; Williams 1997;
Barasch 2000, vol. 1. Anthologies of primary sources in English translation
are: Gilbert 1980; Gilmore Holt 1981–82; Harrison, Wood and Gaiger 2000.
Alberti 1972. See also M. Kemp’s introduction, in Alberti 1991, pp. 1–29.
Although initially circulating only in manuscript form, Alberti’s treatise had
an immense impact on artists and successive art theoreticians. The first Latin
(Basel, 1540) and Italian (Venice, 1547) editions, and subsequent ones,
influenced the earliest academies such as Vasari’s Accademia del Disegno,
founded in 1563. The first French translation (Paris 1651) took shape in the
environment of the French Académie Royale, founded just three years before
(1648). The first English translation (London, 1726) was motivated by the
aspirations of English artists towards the foundation of a national academy
based on continental standards. Innumerable transla- tions and editions
contributed to the diffusion of Albertian principles well into the 19th
century. See Alberti 1991, pp. 23–24. Alberti 1972, p. 53 (book 1, chap. 18).
Alberti quotes Protagoras, probably through Diogenes Laertius, De Vitis ...
philosophorum, 9.51: Alberti 1991, p. 53, note 11. On the sources and structure
of De Pictura see especially Spencer 1957 and Wright 1984. Alberti 1972, p. 97
(book 3, chap. 55). Ibid., p. 101 (book 3, chap. 58). Ibid., p. 99 (book 3,
chap. 55). Ibid., p. 99 (book 3, chap. 56). Albertis’s sources are Cicero, De
inventione, 2.1.1–3 and Pliny, Naturalis Historia, 35.36 (with differences in
detail). Alberti 1972, p. 75 (book 2, chap. 36). See also Alberti 1988, p. 156
(book 6, chap. 2) and pp. 301–09 (book 9, chaps 5–6), esp. p. 303. On the
theory of proportions see Panofsky 1955; R. Klein’s introduction to ‘De
Symmetria’ in Gaurico 1969, pp. 76–91; Gerlach 1990. On Leonardo’s Vitruvian
Man see Kemp 2006, pp. 71–136; Salvi 2012, with previous bibliography. Other
ancient surviving sources on the Canonical ideal are Cicero, Brutus, esp.
69–70, 296; Pliny, Naturalis Historia, 34.55; Galen’s treatises, esp. De 13 14
15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 Placitis Hippocratis et Platonis, 5, and De
Temperamentis, 1.9; Quintilian, Institutio Oratoria, esp. 5.12.21 and
12.10.3-9; Vitruvius’ De Architectura, 3.1. For Alberti’s concept of historia,
see Alberti 1972, pp. 77–83 (chaps 39–42). The clearest definition of history
painting according to the academies of the 17th and 18th centuries is provided
by Félibien 1668, Preface (not paginated). The Codex Coburgensis is preserved
in the Kunstsammlungen der Veste Coburg: see Wrede and Harprath 1986; Davis
1989. Cassiano dal Pozzo’s Paper Museum is divided between several collections
but mainly concen- trated in the Royal Collection, Windsor Castle and the
British Museum, London: see Herklotz 1999; Claridge and Dodero forthcoming.
Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor 2013. London and Rome 1996–97, pp.
257–69; Bignamini and Hornsby 2010. General introductions to drawing techniques
in the Renaissance and beyond are Joannides 1983, pp. 11–31; Bambach 1999, esp.
pp. 33–80; Ames Lewis 2000a; Petherbridge 2010; London and Florence 2010–11.
See Ames-Lewis 2000b, pp. 36–37. Recent general introductions to drawing after
the Antique and the training of young artists in the 15th century include Rome
1988a; Ames-Lewis 2000b, pp. 35–60, 109–40; Jestaz 2000–01; Chapman 2010–11,
pp. 46–60. More focused on the 16th century is Barkan 1999. Haskell and Penny
1981, pp. 252–55, no. 55 (Marcus Aurelius), 308–10, no. 78 (Spinario), 167–69,
no. 16 (Camillus), 136–41, no. 3 (Horse Tamers); Buddensieg 1983; Nesselrath
1988; Rome 1988a, pp. 232–38 (Marcus Aurelius); Paris 2000–01, pp. 200–25 and
pp. 417–20, nos 221–24 (Spinario); Bober and Rubinstein 2010, pp. 223–25, no.
176 (Marcus Aurelius), 254–56, no. 203 (Spinario), 192–93, no. 192 (Camillus),
172–75, no. 125 (Horse Tamers). Dacos 1969; Morel 1997; Miller 1999. Alberti
calls the relief of a sarcophagus in Rome representing the death of Meleager a
historia, specifically praising it as a source for the compositio: see Alberti
1972, pp. 74–75 (chap. 37). Cavallaro 1988b; Cavallaro 1988c; Scalabroni 1988.
Cavallaro 1988b; Scalabroni 1988; Bober and Rubinstein 2010, passim. On
Brunelleschi and Donatello’s Roman trip see the famous account by Antonio di
Giannozzo Manetti: Manetti 1970, pp. 53–57. See also Vasari’s anecdote of
Donatello producing a pen drawing after a sarcophagus that he saw in Cortona on
his way back from Rome to Florence: Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 3, pp.
151–52. See also Micheli 1983, p. 93. On the drawings after the Antique
produced in the workshops of Gentile of Pisanello see: Degenhart and Schmitt
1960; Cavallaro 1988a; Degenhart and Schmitt 1996, pp. 81–117; Paris, 1996,
Appendix IX, ‘Le “Carnet de voyage dessins sur parchemin”’, pp. 465–67;
Cavallaro 2005. 26 Rome 1988a, pp. 95–96, no. 24 (A. Cavallaro); Paris 1996,
pp. 180–81, no. 100. 27 See Rome 1988a, pp. 158–59, no. 51, see also pp.
155–56, no. 49; Bober and Rubinstein 2010, p. 87, no. 38. 28 Wegner 1966, pp.
88–89, no. 228; Bober and Rubinstein 2010, pp. 86–87, no. 38. 29 Weiss 1969. 30
London and New York 1992, pp. 445–48, no. 145 (D. Ekserdjian); Paris 2008–09b,
pp. 378–79, no. 159 (C. Elam); Bober and Rubinstein 2010, p. 207, no. 158iii
(158c). 31 Bober and Rubinstein 2010, pp. 207–08, no. 158iii. 32 Alberti 1972,
pp. 80–81 (chap. 41). 33 See Lightbown 1986, pp. 140–53, 424–33; Elam 2008–09.
34 For the drawing after the Marcus Aurelius see Rome 1988a, pp. 232–33, no. 80
(A. Nesselrath); Rome 2005, p. 263, fig. II.10.7, pp. 267–68, no. II.10.7 (A.
Nesselrath). For the drawing after the Horse Tamers see Rome 1988a, pp. 211–12,
no. 61 (A. Nesselrath); Paris 1996, pp. 153–54, no. 84; Rome 2005, p. 334, fig.
III.8.1, pp. 338–39, no. III.8.1 (A. Cavallaro). 35 On the fame of their nudity
see the contemporary comments by Angelo Decembrio in his De Politia litteraria,
written in the central decades of the 15th century: Baxandall 1963, p. 312. For
other mentions in contemporary written sources see Nesselrath 1988, pp. 196–97.
36 Nesselrath 1988, p. 197, fig. 61; Cole Ahl 1996, p. 6, pl. 1; Ames-Lewis
2000b, p. 120, fig. 57; Cavallaro 2005, p. 330; London and Florence 2010–11,
pp. 118–19, no. 14 (M.M. Rook). On Gozzoli and the Antique see Pasti 1988. 37
For a notable exception see Gozzoli’s faithful drawing of a fragmentary
classical Venus: Pasti 1988, p. 137, fig. 38; Ames-Lewis 2000b, p. 121, fig.
59. 38 For a general overview see Weiss 1969, pp. 180–202; Ames-Lewis 2000b,
pp. 52–60, 79–85. 39 Gaurico 1969, pp. 62–63; Gaurico 1999, pp. 142–43,
providing a less accurate translation. 40 Cennini 1933, vol. 2, pp. 123–31. 41
Fiocco 1958–59; Lightbown 1986, p. 18; Favaretto 1999. On Ghiberti’s col-
lection of casts see Ames-Lewis 2000b, p. 81, with previous bibliography. 42
Ames-Lewis 1995. 43 Fusco 1982; Ames-Lewis 2000b, pp. 52–55. 44 Ragghianti and
Dalli Regoli 1975; Ames-Lewis 2000a, pp. 91–123; Forlani- Tempesti 1994. 45
Ames-Lewis 1995, pp. 394, 397, fig. 10. For the practice see Schwartz 2000–01.
46 For an overview see Nesselrath 1984–86. Lists of sketchbooks are provided in
Nesselrath 1993, pp. 225–48 and Bober and Rubinstein 2010, pp. 473–96. 47 The
first printed edition of Biondo’s Roma Instaurata was published in Rome in
1471: Weiss 1969, esp. pp. 59–104. 48 On Michelangelo’s and Raphael’s attitude
towards the Antique the bibliogra- phy is vast. For Michelangelo good surveys
are Agosti and Farinella 1987 (pp. 12–13, note 3, with the most exhaustive
bibliography to date); Florence 1987; Haarlem and London 2005–06, pp. 58–68;
Parisi Presicce 2014. On Raphael: Becatti 1968; Jones and Penny 1983, pp.
175–210; Burns 1984 (p. 399, footnote 2, with exhaustive bibliography to date);
Nesselrath 1984; Dacos 1986. 49 Clark 1969b; Marani 2003–04; Marani 2007. 50
Leonardo 1956, vol. 1, p. 51, no. 77. 51 Ibid., vol. 1, p. 45, no. 59, p. 64,
no. 112. 52 Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 21. On other sources on
the para- gone between Michelangelo and the ancients see Florence 1987, pp.
107–08. 53 Elam 1992; Florence 1992; Joannides 1993; Baldini 1999–2000;
Paolucci 2014. 54 Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, pp. 9–12; Condivi
1998, pp. 10–11; Condivi 1999, p. 10. 55 Knab, Mitsch and Oberhuber 1984, pp.
51–54; Ferrino Padgen 2000. 56 See Franzoni 1984–86; Cavallaro 2007; Christians
2010. A list of collec- tions with essential bibliography is providedalso in
Bober and Rubinstein 2010, pp. 497–507. 57 For the Nile and the Tiber see Bober
and Rubinstein 2010, pp. 112–13, no. 65. 58 The Apollo Belvedere was discovered
in 1489, the Laocoön in 1506, the Cleopatra in the first decade of the 16th
century, the Hercules Commodus in 1507, the Tiber in 1512 and Nile probably in
1513: see Haskell and Penny 1981, respec- tively pp. 148–51, no. 8, pp. 243–47,
no. 52, pp. 184–87, no. 24, pp. 188–89, no. 25, pp. 310–11, no. 79, pp. 272–73,
no. 65; Bober and Rubinstein 2010, respectively pp. 76–77, no. 28, pp. 164–68,
no. 122, pp. 125–26, no. 79, pp. 180–81, no. 131, pp. 113–14, no. 66, pp.
114–15, no. 67. The discovery date of the Venus Felix is not known, but it was
placed in the Belvedere Courtyard in 1509: Haskell and Penny 1981, pp. 323–25,
no. 87; Bober and Rubinstein 2010, pp. 66–67, no. 16. For the Belvedere
Courtyard see Brummer 1970; Winner, Andreae and Pietrangeli 1998. The first
mention of the Belvedere Antinous-Hermes is in 1527 and it was placed in the
Belvedere Courtyard by 1545; the Belvedere Torso is recorded from 1432 and by
the middle of the 16th century it was displayed in the Courtyard: see Haskell
and Penny 1981, respectively pp. 141–43, no. 4 and pp. 311–14, no. 80; Bober
and Rubinstein 2010, respectively p. 62, no. 10 and pp. 181–84, no. 132. The
first mention of Michelangelo’s praise of the Torso is in Aldrovandi 1556, p.
121. For a selection of other primary sources see Barocchi 1962, vol. 4, pp.
2100–03; Agosti and Farinella 1987, pp. 43–44. For the Torso as ‘School of
Michelangelo’ see Haskell and Penny 1981, p. 313. Schwinn 1973, pp. 24–37.
Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 108. Bober and Rubinstein 2010, p.
126, no. 79. Joannides 1983, p. 192, no. 240r; Knab, Mitsch and Oberhuber 1984,
p. 615, no. 375. In this drawing Raphael also references Michelangelo’s Sistine
Adam. Golzio 1971, pp. 38–40, 72–73; Nesselrath 1984. The original Italian is
in Camesasca 1994, pp. 257–322 (esp. pp. 290–98); Shearman 2003, pp. 500–45.
For an English translation, see Holt 1981–86, vol. 1, pp. 289–96. See also
Frommel, Ray and Tafuri 1984, p. 437, no. 3.5.1. (H. Burns and H. Nesselrath).
Nesselrath 1982, p. 357, fig. 37; Frommel, Ray and Tafuri 1984, p. 422, no.
3.2.10 (A. Nesselrath); Jaffé 1994, p. 187, no. 315 617*. For the few other
surviving Raphael drawings after Roman antiquities see Frommel, Ray and Tafuri
1984, p. 438, no. 3.5.3 (A. Nesselrath). Bober and Rubinstein 2010, pp. 172–75,
no. 125. This consideration is already in Jones and Penny 1983, p. 205. The
practice of measuring classical statues would become widespread from the 17th
century onwards: see pp. 46–49 in the present volume. A good selection is in
Mantua and Vienna 1999. Check also Bober and Rubinstein 2010, pp. 473–96.
Oberhuber 1978; Mantua and Vienna 1999; Viljoen 2001; Pon 2004. Boissard
1597–1602, vol. 1, pp. 12–13, translated by Bober and Rubinstein 2010, p. 165.
According to a letter by Francesco da Sangallo of 1567, Michel- angelo and
Giuliano da Sangallo were sent by the Pope to witness and comment upon the
unearthing of the Laocoön on the Esquiline in 1506: Fea 1790–1836, vol. 1, pp.
cccxxix–cccxxxi, letter XVI. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 109. An
opinion then appropri- ated by Vasari himself in the introduction to his
chapter on Sculpture: Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, pp. 84–86. This
was repeated later by many authors see for instance Lomazzo 1584, p. 332,
reprinted in Lomazzo 1973–74, vol. 2, p. 288. Wilde 1953, pp. 79–80, nos 43–44,
pls lxx–lxxi; Agosti and Farinella 1987, pp. 33–36, figs 11–14; Tolnay 1975–80,
vol. 2, pp. 51–53, nos 230–34; Florence 2002, pp. 150–51, nos 2–5 (P.
Joannides); Haarlem and London 2005–06, pp. 64–66. Wilde 1953, pp. 9–10, no. 4,
pl. vi; Tolnay 1975–80, vol. 1, pp. 58–59, no. 48; Haarlem and London 2005–06,
pp. 88–89, 285, no. 13. On the restoration of classical statues, see Rossi
Pinelli 1984–86; Howard 1990; Pasquier 2000–01a. Specifically on Montorsoli’s
restorations: Haskell and Penny 1981, pp. 148, 246; Vetter 1995; Nesselrath
1998b; Winner 1998; Bober and Rubinstein 2010, pp. 77, 165. See Haskell and
Penny 1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1. On
the Wrestlers see Haskell and Penny 1981, pp. 337–39, no. 94; Cecchi and
Gasparri 2009, pp. 62–63, no. 50 (71). For the Niobe Group see Haskell and
Penny 1981, pp. 274–79, no. 66; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 316–26, nos 596
(1251) (1–14). On Guido Reni using the Niobe Group as a source for the
expression of many of his figures see Bellori 1976, p. 529. See Haskell and
Penny 1981, pp. 16–22. Haskell and Penny 1981, pp. 16–22. On Lafréry see
Chicago 2007–08. On Cavalieri see Pizzimano 2001. See Lee 1967, esp. pp. 3–16;
Blunt 1978, esp. pp. 137–59; Barasch 2000, vol. 1, pp. 203–309. Armenini 1587,
pp. 136–37 (book 2, chap. 11). Lee 1967, p. 7, note 23. See also Weinberg 1961,
pp. 361–423. The first commentary appeared only in 1548 and the first Italian
translation in 1549. Horace, Ars Poetica, 361. See Lee 1967, esp. pp. 3–9.
Aristotle, Poetics, see esp. 9; 15.11; 25.1–2; 25.26–28. Lomazzo 1590, see esp.
chap. XXVI; Zuccaro 1607. On this see Lee 1967, pp. 13–14; Panofsky 1968, esp.
pp. 85–99; Blunt 1978, pp. 137–59. Also in Bettarini and Barocchi 1966–87, vol.
1, p. 110. The definition of Disegno was added only to the second edition of
the Lives in 1568. On Vasari and the Antique see Barocchi 1958; Cristofani
1985. Puttfarken 1991; Rosand 1997, pp. 10–24. Walters 2014, p. 57. Whitaker
1997. See for instance Vasari’s comments in the lives of Andrea Mantegna and
Battista Franco: Bettarini and Barocchi 1966–87, respectively vol. 3, pp.
549–50 and vol 5, pp. 459–61. Armenini 1587, see esp. pp. 59–60 (book I, chap.
8), pp. 86–89 (book II, chap. 3). See also Lomazzo’s treatment of the Antique:
Lomazzo 1584, p. 481 (book VI, chap. 64). General surveys about the development
of European academies include Pevsner 1940; Goldstein 1996. See also Levy 1984;
Olmstead Tonelli 1984; Boschloo 1989. On images of academies see
Kutschera-Woborsky 1919; Pevsner 1940, passim; Roman 1984. On the Florentine
Accademia del Disegno see Pevsner 1940, pp. 42–55; Goldstein 1975; Dempsey
1980; Wa ́zbin ́ski 1987; Barzman 1989; Barzman 2000. On the Carracci Academy
see Dempsey 1980; Goldstein 1988, esp. pp. 49– 88; Dempsey 1989; Feigenbaum
1993; Robertson 2009–10. On the Accademia di San Luca the bibliography is vast.
On its early history see Pevsner 1940, pp. 55–66; Pietrangeli 1974; Lukehart
2009. On the teaching in the first decades of the Accademia see Roccasecca
2009. On Alberti’s print see Roccasecca 2009, p. 133. Olmstead Tonelli 1984.
Alberti 1604, esp. pp. 2–15. Jack Ward 1972, pp. 17–18; Olmstead Tonelli 1984,
pp. 96–97. On the donation of the Salvioni collection of casts in 1598 see
Missirini 1823, p. 73. On the inventories see Lukehart 2009, Appendix 7, esp.
pp. 368–69, 371–73, 379–80. On the drawing see Bora 1976, p. 125, no. 126.
Malvasia 1678, vol. 1, p. 378; Goldstein 1988, esp. pp. 49–50. On this see
Meder 1978, vol. 1, pp. 217–95; Amornpichetkul 1984; Bleeke- Byrne 1984; Roman
1984, p. 91; Bolten 1985, p. 243. Alberti 1972, p. 97 (book 3, chap. 55).
Alberti 1972, p. 75 (book 2, chap. 36). Cellini 1731, pp. 156–59. Leonardo
1956, vol. 1, p. 45, chaps 59–61, and esp. p. 64, chap. 112; Bettarini and
Barocchi 1966–87, vol. 1, p. 112; Armenini 1587, pp. 51–59, esp. p. 57 (book 1,
chap. 7); See Bleeke-Byrne 1984. Armenini 1587, see esp. p. 86 (book 2, chap.
3). The necessity of exercising one’s memory recurs in Alberti (Alberti 1972,
p. 99, book 3, chap. 55); Leonardo (Leonardo 1956, vol. 1, p. 47, chaps 65–66);
Vasari (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 1, pp. 114–15); Cellini (Cellini
1731, p. 157); and Armenini (Armenini 1587, p. 53, book 1, chap. 7). Gombrich
1960; Rosand 1970; Maugeri 1982; Amornpichetkul 1984; Bolten 1985. On Dürer in
Italy see Rome 2007. Dacos 1995; Meijer 1995; Dacos 1997; Dacos 2001. Van
Mander 1994-99, vol. 1, pp. 342–45 (fols 271r–v). See Meijer 1995, p. 50, note
18. Dacos 1995, pp. 19–20; Dacos 2001, pp. 23–34. Hülsen and Egger 1913–16;
Veldman 1977; Dacos 2001, pp. 35–44; Bartsch 2012; Christian 2012; Veldman
2012. On Beatrizet see Bury 1996; on Lafréry see Chicago 2007–08; on Dupérac
see Lurin 2009. For the print attributed to Beatrizet see Paris 2000–01, pp.
378–79, no. 184 (C. Scailliérez). On the Marforio see Haskell and Penny 1981,
pp. 258–59, no. 57; Bober and Rubinstein 2010, pp. 110–11, no. 64. ‘I disagi e
li affanni tutti del mondo non stima un quattrino’. On the so-called Haarlem
Academy see Van Thiel 1999, pp. 59–90. Veldman 2012, p. 21, with previous
bibliography. Reznicek 1961, vol. 1, pp. 89–94, pp. 319–46, nos. 200–38,
245–48. 127 128 129 130 131 132 133 134 135 On Rubens in Rome and his approach
to the Antique see esp. Stechow 1968; Jaffé 1977, pp. 79–84; Muller 1982; Van
der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 41–81; Muller 2004, pp. 18–28; London 2005–06,
pp. 88–111. Jaffé 1977, p. 79; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 42, note 6.
Copies of Lafréry’s Speculum Romanae Magnificentiae and De Cavalieri’s
Antiquarum statuarum urbis Romae, are listed in Rubens’ son Albert’s library:
Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 42, note 6. It is most likely that they were
originally in Peter Paul’s possession, although we do not know whether he
acquired them before, during or after his Italian years. See Van der Meulen
1994–95, vol. 1, pp. 69–74. Armenini 1587, see esp. pp. 59–60 (book I, chap.
8), pp. 86–89 (book II, chap. 3). On the ultimate Aristotelian character of
this principle see Muller 1982. See also Cody 2013. On Rubens’ handwritten
Notebook, lost in a fire in Paris in 1720, but known through several
transcriptions and partial publications see Van der Meulen 1994–95, vol. 1,
esp. p. 71, note 11 and pp. 77–78, note 44, with previous bibliography; Jaffé
and Bradley 2005–06; Jaffé 2010. On the drawing after the Torso see Van der
Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 70–71, vol. 2, pp. 56–59, nos 37–39; New York
2005a, pp. 140–44, no. 34. On the Laocoön drawings see: Van der Meulen 1994–95,
vol. 2, p. 98, no. 81, vol. 3, fig. 153 (father), vol. 2, pp. 103–04, no. 93,
vol. 3, fig. 164 (son); London 2005– 06, pp. 90–91, nos 24 (son), 25 (father);
Bora 2013. The question of whether he copied the original Laocoön in Rome, or a
cast derived from it, possibly Federico Borromeo’s in Milan, remains open: see
Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 48; London 2005–06, pp. 90–91, no. 25.
Muller 2004, p. 22; Edinburgh 2002, pp. 43–46, nos 8–14; Wood 2011, vol. 1, pp.
129–241; Cody 2013. Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 80–81. Muller 2004, p.
22. On Rubens’ collection see Antwerp 2004, with previous bibliography. Jaffé
1977, p. 80; Healy 2004. On the Bamboccianti see Briganti, Trezzani and
Laureati 1983; Cologne and Utrecht 1991–92; Rome and Paris 2014–15. On the
fierce criticism by artists see Malvasia 1678, vol. 2, pp. 267 (Sacchi), 268–69
(Albani); Cesareo 1892, vol. 1, pp. 223–55 (Rosa); Castiglione 2014–15. On
Bellori’s condemna- tion see Bellori 1976, p. 16. On Goubau see Briganti,
Trezzani and Laureati 1983, pp. 295–99. On the painting see Paris 2000–01, pp.
382–83, no. 188 (J. Foucart); Cappel- letti 2014–15, pp. 48–50. Vlieghe 1979.
On other Dutch artists copying the Antique in Rome in the 17th century see Van
Gelder and Jost 1985, pp. 35–36. Already at the beginning of the 17th century
Karel Van Mander explicitly laments the poor state of the visual arts in the
Netherlands, blaming the ‘shameful laws and narrow rules’ by which in nearly
all cities save Rome ‘the noble art of painting has been turned into a guild’:
Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 264–65 (fol. 251v). See also Bleeke-Byrne 1984.
On the Antwerp Academy see Pevsner 1940, pp. 126–29; Van Looij 1989. See Emmens
1968, pp. 154–59; Bleeke-Byrne 1984, pp. 30, 38, notes 76–77. Van Mander
1994–99, vol. 1, pp. 448–49 (fol. 297v); Bolten 1985, p. 248. De Klerk 1989.
Bolten 1985, pp. 248–50. For Bisschop’s school see Van Gelder 1972, p. 11.
Bolten 1985. Bolten 1985, pp. 119, 131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207,
243–56; Walters 2009, vol. 1, p. 79. Bolten 1985, pp. 159–60. Also many Dutch
theoretical treatises on the art of painting and drawing insisted on the human
form and on the stages of the learning process. For instance William Goeree’s
influential Inleydinge tot de al-gemeene Teycken-Konst, Middelburgh, 1668,
revised and reprinted many times, lays out the five stages of artistic
training: copy of prints, drawings, paintings, plaster casts and the life model
(pp. 31–37). See Bleeke- Byrne 1984, p. 34 and note 45; De Klerk 1989, p. 284.
On Perrier’s diffusion in the Netherlands see Bolten 1985, pp. 257–58; Van
Gelder and Jost 1985, pp. 51–52; Van der Meulen 1994–95, p. 76. For Van
Haarlem’s 1639 inventory see Van Thiel 1965, pp. 123, 128; Van Thiel 1999, p.
84, and Appendix II, pp. 254–255, 257, 270–71, 273. For van Balen’s 1635 and
1656 inventories, see Duverger 1984–2009, vol. 4, pp. 200–11. For Rembrandt’s
1656 bankruptcy inventory see Strauss and Van der Meulen 1979, pp. 349–88. For
Rembrandt’s use of statues, casts and models, see Gyllenhaal 2008. See also
cat. 23 in this catalogue, note 18. For the use of plaster casts in 17th- and
18th-century artists’ studios in Antwerp and Brussels, see Lock 2010. Also
collections of original antiquities were formed in the 17th century, especially
in the Southern Netherlands and in Antwerp: Van Gelder and Jost 1985, pp.
35–50, esp. p. 35, note 65. 64 65 151 For a copy in reverse, dated 1639,
see Bolten 1985, pp. 133–34, and p. 138, fig.a. 152 On Jan ter Boch’s painting
(fig. 49) see Paris 2000–01, pp. 401–02, no. 207 (J. Foucart). On Van Oost the
Elder’s painting (fig. 50), see Antwerp 2008, p. 77, no. 20 (S. Janssens). On
Vaillant’s painting (fig. 51), see MacLaren 1991, vol. 1, p. 440, note 8;
Amsterdam 1997, p. 349, fig. 2. On the painting attrib- uted to Sweert (fig.
52) see Waddingham 1976–77; Amsterdam 1997, pp. 348–52, under no. 74; Paris
2000–01, pp. 400–01, no. 206 (J. Foucart); Houston and Ithaca 2005–06, pp.
134–36, no. 40 (J. Clifton), where the painting is attributed to Wallerant
Vaillant. On Balthasar Van den Bossche’s paintings of artists’ workshops see
Mai 1987–88; Paris 2000–01, pp. 402–03, no. 208 (J.-R. Gaborit and J.-P.
Cuzin); Lock 2010. 153 For the Borghese Gladiator see Haskell and Penny 1981,
pp. 221–24, no. 43; Paris 2000–01, no. 1, pp. 150–51 (L. Laugier); Pasquier
2000–01c. For the Dying Gladiator see Haskell and Penny 1981, pp. 224–27, no.
44; Mattei 1987; La Rocca and Parisi Presicce 2010, pp. 428–35. For the Venus
de’ Medici, see Haskell and Penny 1981, pp. 325–28, no. 88; Cecchi and Gasparri
2009, pp. 74–75, no. 64 (137). 154 See Haskell and Penny 1981 esp. pp. 23–30.
On the Medici collection of classical sculptures see Cecchi and Gaspari 2009.
On the Farnese’s see Gasparri 2007. On the Borghese’s: Rome 2011–12; on the
Ludovisi’s: Rome 1992–93; on the Giustiniani’s Rome 2001–02. 155 Haskell and
Penny 1981, pp. 16–22; Coquery 2000; Picozzi 2000. 156 Picozzi 2000;
Laveissière 2011; Di Cosmo 2013; Fatticcioni 2013. 157 Haskell and Penny 1981,
p. 21; Goldstein 1996, p. 144; Coquery 2000, pp. 43–44. On Perrier’s success in
the Netherlands see Bolten 1985, pp. 257–58; Van Gelder and Jost 1985, pp.
51–52; Van der Meulen 1994–95, p. 76. 158 Boyer 2000; Montanari 2000; Rome
2000a; Bonfait 2002; Bayard 2010; Bayard and Fumagalli 2011. 159 Bertolotti
1886; Bousquet 1980; Coquery 2000. 160 Herklotz 1999; see also the ongoing
catalogue raisonné of Cassiano dal Pozzo’s Paper Museum: http://warburg.sas.ac.uk/research/projects/
cassiano 161 For the text of Bellori’s Idea see Bellori 1976, pp. 13–25, and
for an English translation see Bellori 2005, pp. 55–65. On it see Mahon 1947,
esp. pp. 109– 54, pp. 242–43; Panofsky 1968, pp. 103–11; Bellori 1976, esp.
XXIX–XL; Barasch 2000, vol. 1, pp. 315–22; Cropper 2000. 162 Bellori 1976, p.
299. 163 See Barasch 2000, vol. 1, pp. 310-72. 164 Bellori mentions many of
these artists devoting time and efforts in the copying of celebrated classical
statuary, such as the Farnese Hercules, the Belvedere Torso, the Niobe Group,
the Borghese Gladiator: Bellori 1976, pp. 75, 90–91 (Annibale Carracci), pp.
529–30 (Guido Reni), p. 625 (Carlo Maratti). For Rubens, Bernini and Cortona
see Bellori 1976, p. XXXI. For Annibale Carracci and the Antique see also
Weston-Lewis 1992. For his drawing (fig. 58) see Washington D.C. 1999–2000, p.
177, no. 50 (G. Feigenbaum). For Poussin and the Antique the literature is
vast: see Bull 1997; Bayard and Fumagalli 2011; Henry 2011, with previous
literature. For his drawing (fig. 59) see Rosenberg and Prat 1994, vol. 1, pp.
312–13, no. 161. For Maratti’s drawings (figs 60–61) see Blunt and Cooke 1960,
p. 63, nos 378, 380. On Pietro da Cortona and the Antique see Fusconi 1997–98.
Some of his drawings after the Antique were commissioned for the Paper Museum
of Cassiano dal Pozzo. On the drawing (fig. 62) see Rome 1997–98, p. 71, no.
2.4 (G. Fusconi). 165 Wittkower 1963; Princeton, Cleveland and elsewhere
1981–82, pp. 159–73; New York 2012–13, pp. 234–38, no. 25. 166 Pevsner 1940,
pp. 82–114; Goldstein 1996, pp. 40–45. On the Académie Royale de Peinture et de
Sculpture in Paris see Vitet 1861; Montaiglon 1875–92; Hargove 1990; Tours and
Toulouse 2000; Michel 2012. On the Académie de France in Rome see Montaiglon
and Guiffrey 1887–1912; Lapauze 1924; Henry 2010–11; Coquery 2013, pp. 173–219,
with previous bibliography. 167 Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 346. 168 Women
were admitted to the Académie, then named École des Beaux- Arts, only in 1896
and allowed to enrol for the Prix de Rome in 1903: Goldstein 1996, p. 61. 169
Montaiglon 1875–92, vol. 1, pp. 315–17. 170 Félibien 1668, Preface (not
paginated). 171 Le Brun 1698. On it see Montagu 1994. 172 Félibien 1668, pp.
28–40; Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.1, pp. 127–35. 173 Félibien
1668, Preface (not paginated). 174 Lichtenstein and Michel 2006–12, see esp.
vols 1-2, passim. 175 Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.1, pp. 316–22,
374–77; vol. 1.2, pp. 667–71; vol. 2.2, p. 583. 176 Lichtenstein and Michel
2006–12, vol. 1.1, pp. 374–77. See also Goldstein 1996, p. 150. 177 Montaiglon
and Guiffrey 1887–1912, vol. 1, pp. 129–32. 178 Montaiglon 1875–92, vol. 1, p.
293 (for a Venus donated by Chantelou in 1665), pp. 300, 330–31 (for the cast
of the Farnese Hercules ordered in 1666 and delivered in 1668), p. 366 (for
several casts after ancient reliefs and statues copied for the Académie from
the Royal collection on the order of Colbert). 179 See Foster 1998; Schnapper
2000 and Macsotay 2010. 180 Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 1, p. 36.
181 Goldstein 1978, esp. pp. 2–5. 182 Golzio 1935. 183 Boyer 1950, p. 117;
Goldstein 1970; Bousquet 1980, pp. 110–11; Goldstein 1996, pp. 45–46. 184 Mahon
1947, pp. 188–89. 185 Missirini 1823, pp. 145–46 (chap. XCI); Mahon 1947, p.
189; Goldstein 1996, p. 46. 186 Teyssèdre 1965; Puttfarken 1985; Montagu 1996;
Arras and Épinal 2004. 187 Armenini 1587, pp. 93–99, esp. p. 96 (book 2, chap.
5). 188 See esp. Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 69–75; Muller 2004, esp.
pp. 18–21; Jaffé and Bradley 2005–06; Jaffé 2010. For the drawing (fig. 67) see
Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 71–72, notes 11, 14, 16 with previous
literature. Rubens applied this method to several other statues. 189 Bellori
1976, pp. 451, 473–77, ; Bellori 2005, p. 311, and for the plates pp. 334–37.
See Rome 2000b, vol. 2, pp. 403–04, no. 9 (V. Krahn); Henry 2011; Coquery 2013,
p. 361, nos G. 179–80. 190 The surviving 39 drawings are today preserved in an
‘Album de dessins et mesures de statues romaines...’ at the École nationale
supérieure des Beaux-Arts in Paris: Coquery 2000, pp. 48–50; Paris 2000–01, pp.
389–90, no. 195; Coquery 2013, pp. 37–40; Stanic 2013. For the three drawings
repro- duced here see Coquery 2013, p. 281, no. D114 (Laocoön), p. 283, no.
D130 (Belvedere Antinous), p. 283, no. D131 (Venus de’Medici). 191 Bosse 1656.
See the Conférences by Sébastien Bourdon, Charles Le Brun, Henri Testelin,
Michel Anguier, etc.: Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.1, esp. pp.
161–66 (Charles Le Brun), 316–33 (Charles Le Brun), 332–35 (Michel Anguier),
374–77 (Sébastien Bourdon); vol. 1.2, pp. 636–38 (Michel Anguier), 667–71
(Henry Testelin). 192 On De Wit’s Teekenboek (fig. 74) see Bolten 1985, pp.
82–86. On Nollekens’ drawing (fig. 75) see Blayney Brown 1982, p. 484, no.
1460; Nottingham and London 1991, pp. 58–59, no. 31 (Venus de’ Medici); Lyon
1998–99, pp. 123–24, no. 101. On Volpato’s and Morghen’s print annotated by
Canova (fig. 76) see Rome 2008, p. 144, no. 25, with previous bibliography. 193
On the study of anatomy in the Renaissance and the 17th century see Schultz
1985; Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97; London, Warwick and elsewhere
1997–98; and the excellent essays in Paris 2008– 09a, esp. Carlino 2008–09. On
the combination of the study of anatomy and of the Antique between the 17th and
19th centuries see esp. Schwartz 2008–09. 194 Paris 2000–01, pp. 391–92, no.
197; Coquery 2013, pp. 195–200; Paris 2008–09a, pp. 222–23, no. 79. 195 For the
skeletons (figs 77–78) and anatomical figures (figs 79–80) of the Laocoön and
Borghese Gladiator see Coquery 2013, respectively p. 384, no. G.416, p. 383,
no. G.413, p. 381, no. G.400, p. 382, no. G.408. A series of Conférences at the
Académie Royale in Paris had been devoted to the Antique and anatomy: see esp.
Lichtenstein and Michel 2006–12, vol. 1.2, pp. 581–93 (Pierre Monnier, ‘Sur les
muscles du Laocoon’, 2 May 1676). 196 See Paris 2000–01, pp. 393–94, no. 199,
with previous bibliography; Paris 2008–09a, pp. 226–27, no. 85. 197 See Paris
2000–01, pp. 392–93, no. 198, with previous bibliography; Paris 2008–09a, pp.
226–27, no. 82. Sauvage also made écorchés of other classical prototypes. 198
The original cast appears to have been destroyed. The écorché preserved at the
Royal Academy of Arts is a 19th-century copy by William Pink: see Postle 2004,
esp. pp. 58–59, with previous bibliography. 199 See Jordan and Weston 2002, p.
97, fig. 4.7. 200 For the practice see Paris 2000–01, pp. 415–29; Schwartz
2008–09; London 2013–14, pp. 62–69. On Paillett’s drawing (fig. 87) see London
2013–14, p. 21, pl. 1, p. 96, no. 1. For Bottani’s (fig. 88) see Philadelphia
1980– 81, pp. 59–60, no. 47. For David’s painting (fig. 89) see Rome 1981–82,
pp. 101–02, no. 25. 201 202 203 204 205 206 207 Pevsner 1940, pp. 140–41. On
the diffusion of academies in the 18th century see Boschloo 1989, passim. A
good recent overview is Brook 2010–11. Diderot’s remark appeared in an article
in the Correspondance littéraire, philos- ophique et critique, no. 13, 1763:
‘Sur Bouchardon et la sculpture’, p. 45. See an English translation in Diderot
2011, p. 19. On the diffusion of casts in the 18th century see Haskell and
Penny 1981, esp. pp. 79–91, chap. 11; Rossi Pinelli 1984; Rossi Pinelli 1988;
Pucci 2000a; Frederiksen and Marchand 2010. London 2013–14, pp. 36, 46–47. See
the explanatory text for the plate: Diderot and D’Alembert 1762–72, vol. 20,
entry ‘Dessein’, pp. 1–20, esp. pp. 2–5. See also Michel 1987, pp. 284, 288.
Locquin 1912, pp. 5–13; Toledo, Chicago and elsewhere 1975–76; Plax 2000.
Locquin 1912, pp. 5–13; Schoneveld-Van Stoltz 1989, pp. 216–28, with previ- ous
bibliography. Excellent introductions to the art world of Rome in the 18th
century are the essay contained in Philadelphia and Houston 2000 (see esp.
Barroero and Susinno 2000) and in Rome 2010–11b. Goethe 2013, vol. 2, p. 373.
Overviews on the Grand Tour are Black 1992; London and Rome 1996–97; Chaney
1998; Black 2003. On Panini’s painting see London and Rome 1996–97, pp. 277–78,
no. 233; Philadelphia and Houston 2000, p. 425, no. 275, with previous
literature. Macandrew 1978; Connor Bulman 2006; Windsor 2013, with previous
bibliography. Haskell and Penny 1981, esp. pp. 23–30, 43–52; Paris 2010–11,
with previous bibliography. On drawing in Rome in the 18th century see Bowron
1993–94; Percy 2000, with previous bibliography. On collections of casts in
private academies see Bordini 1998, p. 387. On the Concorsi see Cipriani and
Valeriani 1988–91; Rome, University Park (PA) and elsewhere 1989–90; Cipriani
2010–11. On the early years of the Capitoline as a public museum see Arata
1994; Franceschini and Vernesi 2005; Arata 2008. See Arata 1994, p. 75. On the
Accademia del Nudo see Pietrangeli 1959; Pietrangeli 1962; MacDonald 1989;
Barroero 1998; Bordini 1998. Haskell and Penny 1981, pp. 62–63; Raspi Serra
1998–99; Macsotay 2010; Henry 2010–11. The main source for Vleughels’ reform,
rich in information on the study of the Antique in the Académie under his
directorship, is Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vols 7–9, passim (for
description of the collection of casts see vol. 7, pp. 333–37). Boyer 1955;
Loire 2005–06, pp. 75–81. Caviglia-Brunel 2012, pp. 115–63. For Natoire’s
drawing (fig. 94) see Paris 2000–01, p. 372, no. 177; Caviglia- Brunel 2012,
pp. 415–16, no. D.558. On Robert’s drawings (figs 95–96) see Paris 2000–01, pp.
373–74, nos 178–79; Rome 2008, pp. 132–33, nos 12–13; Ottawa and Caen 2011–12,
pp. 22–23, nos 1a–1b. For fig. 97 see Paris 2000– 01, p. 384, no. 190. On
Robert in Rome see Rome 1990–91. On Piranesi and his influence on artists see
Fleming 1962; Wilton Ely 1978; Rome, Dijon and elsewhere 1976; Brunel 1978. On
Winckelmann see Potts 1994, with previous bibliography. Henry 2010–11. For
David in Rome see Rome 1981–82. For his drawings after the Antique see Sérullaz
1981–82; Rosenberg and Prat 2002, passim, esp. vol. 1, pp. 391– 746, vol. 2,
pp. 754–866. Sérullaz 1981–82, p. 42. For David’s drawing (fig. 98) see
Rosenberg and Prat 2002, p. 499, no. 642. See Pressly 1979; Valverde 2008;
Busch 2013. On all these aspects see Pears 1988, esp. pp. 1–26. As general
introductions see Denvir 1983; Solkin 1992; Brewer 1997; Bindman 2008. On the
‘Rule of Taste’ see Lipking 1970; Barrell 1986, esp. 1–68; Pears 1988, pp.
27–50; Ayres 1997. For a recent overview see Aymonino 2014. On academies in
Britain before the foundation of the Royal Academy see Bignamini 1988;
Bignamini 1990. See MacDonald 1989. An excellent introduction to the use of the
Antique in artists’ education in 18th-century Britain is Postle 1997. For casts
in Britain in the first half of the 18th century see: Bignamini 1988, p. 59,
note 63, p. 65, p. 77, note 9, p. 81, note 65, p. 88, p. 103. Einberg and
Egerton 1988, pp. 64–71. Kitson 1966–68, esp. pp. 85–86; Postle 1997, esp. pp.
83–84. See Paulson 1971, vol. 2, pp. 168–71; Nottingham and London 1991, p. 62,
no. 37. Coutu 2000, p. 47; Kenworthy-Browne 2009. On Mortimer’s painting see
Nottingham and London 1991, p. 45, no. 11, with previous bibliography.
MacDonald 1989. Allan 1968, pp. 76–88; Bignamini 1988, p. 108; Postle 1997, pp.
85–87; Coutu 2000, p. 52; Kenworthy-Browne 2009, pp. 43–44. Ibid. On the
Glasgow Foulis Academy see Pevsner 1940, p. 156; MacDonald 1989, pp. 84–85;
Fairfull-Smith 2001. On the Royal Academy see Hutchison 1986. On its regulations
see also Abstract 1797. On the Antique School at the Royal Academy (fig. 105)
see Nottingham and London 1991, p. 43, no. 7; Rome 2010–11b, p. 432, no.V.6. On
Zoffany’s painting see New Haven and London 2011–12, pp. 218–21, no. 44, with
previous bibliography. For the medal see Hutchison 1986, p. 34. On Kauffman’s
painting see Rome 2010–11b, pp. 325, 432–33, no. V.7. For Townley see
particularly Coltman 2009. On Soane’s collection of plaster casts see Dorey
2010. De Architectura, 1.1, esp. 1.1.13; Watkin 1996. Jenkins 1992, pp. 30–40.
Venice 1976, pp. 114–15, no. 49. Malvasia 1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. On
the 17th-century neologism ‘statuino’ see Pericolo’s forthcoming article. See
De Piles 1677, pp. 253–54; De Piles 1708, esp. pp. 128–38. Bellori 1976, p.
214; Bellori 2005, p. 180. See Pucci 2000a; Bukdahal 2007 Diderot 1995, p. 4.
See also Haskell and Penny 1981, p. 91. Boime 1980, pp. 330–35, pl. ix.47.
Couture 1867, pp. 155–56. 6609a, pp. 226–27, no. 85. 197 See Paris 2000–01, pp.
392–93, no. 198, with previous bibliography; Paris 2008–09a, pp. 226–27, no.
82. Sauvage also made écorchés of other classical prototypes. 198 The original
cast appears to have been destroyed. The écorché preserved at the Royal Academy
of Arts is a 19th-century copy by William Pink: see Postle 2004, esp. pp.
58–59, with previous bibliography. 199 See Jordan and Weston 2002, p. 97, fig.
4.7. 200 For the practice see Paris 2000–01, pp. 415–29; Schwartz 2008–09;
London 2013–14, pp. 62–69. On Paillett’s drawing (fig. 87) see London 2013–14,
p. 21, pl. 1, p. 96, no. 1. For Bottani’s (fig. 88) see Philadelphia 1980– 81,
pp. 59–60, no. 47. For David’s painting (fig. 89) see Rome 1981–82, pp. 101–02,
no. 25. Pevsner 1940, pp. 140–41. On the diffusion of academies in the 18th
century see Boschloo 1989, passim. A good recent overview is Brook 2010–11.
Diderot’s remark appeared in an article in the Correspondance littéraire,
philos- ophique et critique, no. 13, 1763: ‘Sur Bouchardon et la sculpture’, p.
45. See an English translation in Diderot 2011, p. 19. On the diffusion of
casts in the 18th century see Haskell and Penny 1981, esp. pp. 79–91, chap. 11;
Rossi Pinelli 1984; Rossi Pinelli 1988; Pucci 2000a; Frederiksen and Marchand
2010. London 2013–14, pp. 36, 46–47. See the explanatory text for the plate:
Diderot and D’Alembert 1762–72, vol. 20, entry ‘Dessein’, pp. 1–20, esp. pp.
2–5. See also Michel 1987, pp. 284, 288. Locquin 1912, pp. 5–13; Toledo,
Chicago and elsewhere 1975–76; Plax 2000. Locquin 1912, pp. 5–13;
Schoneveld-Van Stoltz 1989, pp. 216–28, with previ- ous bibliography. Excellent
introductions to the art world of Rome in the 18th century are the essay
contained in Philadelphia and Houston 2000 (see esp. Barroero and Susinno 2000)
and in Rome 2010–11b. Goethe 2013, vol. 2, p. 373. Overviews on the Grand Tour
are Black 1992; London and Rome 1996–97; Chaney 1998; Black 2003. On Panini’s
painting see London and Rome 1996–97, pp. 277–78, no. 233; Philadelphia and
Houston 2000, p. 425, no. 275, with previous literature. Macandrew 1978; Connor
Bulman 2006; Windsor 2013, with previous bibliography. Haskell and Penny 1981,
esp. pp. 23–30, 43–52; Paris 2010–11, with previous bibliography. On drawing in
Rome in the 18th century see Bowron 1993–94; Percy 2000, with previous
bibliography. On collections of casts in private academies see Bordini 1998, p.
387. On the Concorsi see Cipriani and Valeriani 1988–91; Rome, University Park
(PA) and elsewhere 1989–90; Cipriani 2010–11. On the early years of the
Capitoline as a public museum see Arata 1994; Franceschini and Vernesi 2005;
Arata 2008. See Arata 1994, p. 75. On the Accademia del Nudo see Pietrangeli
1959; Pietrangeli 1962; MacDonald 1989; Barroero 1998; Bordini 1998. Haskell
and Penny 1981, pp. 62–63; Raspi Serra 1998–99; Macsotay 2010; Henry 2010–11.
The main source for Vleughels’ reform, rich in information on the study of the
Antique in the Académie under his directorship, is Montaiglon and Guiffrey
1887–1912, vols 7–9, passim (for description of the collection of casts see
vol. 7, pp. 333–37). Boyer 1955; Loire 2005–06, pp. 75–81. Caviglia-Brunel
2012, pp. 115–63. For Natoire’s drawing (fig. 94) see Paris 2000–01, p. 372,
no. 177; Caviglia- Brunel 2012, pp. 415–16, no. D.558. On Robert’s drawings
(figs 95–96) see Paris 2000–01, pp. 373–74, nos 178–79; Rome 2008, pp. 132–33,
nos 12–13; Ottawa and Caen 2011–12, pp. 22–23, nos 1a–1b. For fig. 97 see Paris
2000– 01, p. 384, no. 190. On Robert in Rome see Rome 1990–91. On Piranesi and
his influence on artists see Fleming 1962; Wilton Ely 1978; Rome, Dijon and
elsewhere 1976; Brunel 1978. On Winckelmann see Potts 1994, with previous
bibliography. 224 225 226 227 228 229 230 231 232 233 234 235 236 237 238 239
240 241 242 243 244 245 246 247 248 249 250 251 252 253 254 255 256 257 258 259
Henry 2010–11. For David in Rome see Rome 1981–82. For his drawings after the
Antique see Sérullaz 1981–82; Rosenberg and Prat 2002, passim, esp. vol. 1, pp.
391– 746, vol. 2, pp. 754–866. Sérullaz 1981–82, p. 42. For David’s drawing
(fig. 98) see Rosenberg and Prat 2002, p. 499, no. 642. See Pressly 1979;
Valverde 2008; Busch 2013. On all these aspects see Pears 1988, esp. pp. 1–26.
As general introductions see Denvir 1983; Solkin 1992; Brewer 1997; Bindman
2008. On the ‘Rule of Taste’ see Lipking 1970; Barrell 1986, esp. 1–68; Pears
1988, pp. 27–50; Ayres 1997. For a recent overview see Aymonino 2014. On
academies in Britain before the foundation of the Royal Academy see Bignamini
1988; Bignamini 1990. See MacDonald 1989. An excellent introduction to the use
of the Antique in artists’ education in 18th-century Britain is Postle 1997.
For casts in Britain in the first half of the 18th century see: Bignamini 1988,
p. 59, note 63, p. 65, p. 77, note 9, p. 81, note 65, p. 88, p. 103. Einberg
and Egerton 1988, pp. 64–71. Kitson 1966–68, esp. pp. 85–86; Postle 1997, esp.
pp. 83–84. See Paulson 1971, vol. 2, pp. 168–71; Nottingham and London 1991, p.
62, no. 37. Coutu 2000, p. 47; Kenworthy-Browne 2009. On Mortimer’s painting
see Nottingham and London 1991, p. 45, no. 11, with previous bibliography.
MacDonald 1989. Allan 1968, pp. 76–88; Bignamini 1988, p. 108; Postle 1997, pp.
85–87; Coutu 2000, p. 52; Kenworthy-Browne 2009, pp. 43–44. Ibid. On the
Glasgow Foulis Academy see Pevsner 1940, p. 156; MacDonald 1989, pp. 84–85;
Fairfull-Smith 2001. On the Royal Academy see Hutchison 1986. On its
regulations see also Abstract 1797. On the Antique School at the Royal Academy
(fig. 105) see Nottingham and London 1991, p. 43, no. 7; Rome 2010–11b, p. 432,
no.V.6. On Zoffany’s painting see New Haven and London 2011–12, pp. 218–21, no.
44, with previous bibliography. For the medal see Hutchison 1986, p. 34. On
Kauffman’s painting see Rome 2010–11b, pp. 325, 432–33, no. V.7. For Townley
see particularly Coltman 2009. On Soane’s collection of plaster casts see Dorey
2010. De Architectura, 1.1, esp. 1.1.13; Watkin 1996. Jenkins 1992, pp. 30–40.
Venice 1976, pp. 114–15, no. 49. Malvasia 1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. On
the 17th-century neologism ‘statuino’ see Pericolo’s forthcoming article. See
De Piles 1677, pp. 253–54; De Piles 1708, esp. pp. 128–38. Bellori 1976, p.
214; Bellori 2005, p. 180. See Pucci 2000a; Bukdahal 2007 Diderot 1995, p. 4.
See also Haskell and Penny 1981, p. 91. Boime 1980, pp. 330–35, pl. ix.47.
Couture 1867, pp. 155–56. 66 67. Primary Sources On The Antique. Rome to copy
its antiquities as a source of inspiration, a phenomenon that increased over
the subsequent four hundred years. Bembo is, in addition, one of the earliest
writers to rank Raphael and Michelangelo on the level of artists from
antiquity. Excerpt from P. Bembo, Prose . . . della volgar lingua, Venice,
1525, p. XLII r (translation Michael Sullivan). At all times of day [Rome]
witnesses the arrival of artists from near and far, intent on reproducing in
the small space of their paper or wax the form of those splendid ancient
figures of marble, sometimes bronze, that lie scattered all over Rome, or are
publicly and privately kept and treasured, as they do with the arches and baths
and theatres and the other various sorts of buildings that are in part still
standing: and hence, when they mean to produce some new work, they aim at those
examples, striving with their art to resemble them, all the more so since they
believe their efforts merit praise by the closeness of resemblance of their new
works to ancient ones, being well aware that the ancient ones come closer to
the perfection of art than any done afterwards. These have succeeded more than
others, Messer Giulio [de’ Medici], your Michelangelo of Florence and Raphael
of Urbino [...] so outstanding and illustrious that it is easier to say how
close they come to the good old masters than decide which of them is the
greater and better artist. 4. Ludovico Dolce (1508–68) on the necessity for
artists copying from antique statues to learn how to correct the defects of
Nature and to aim for perfect beauty. In his treatise Dialogo della pittura . .
. (1557), the humanist, writer and art theorist Lodovico Dolce upheld a strong
defence of the Venetian school of painting, based on colour, against the
Florentine and Roman ones, based on drawing, supported by Giorgio Vasari. At
the same time he included one of the earliest theoretical statements on the
necessity to study the Antique as a model of idealised nature and perfect
beauty – especially in the study of the proportions of the human figure.
However, in Dolce, one finds also a warning against the indiscriminate copying
of classical sculptures – which should always be imitated with the correct
artistic judgement to avoid eccen- tricities – a principle that would become a
leitmotif in subsequent art literature, as shown here in excerpts from Rubens
(no. 8) or Bernini (no. 10). For Dolce a slavish dependence on the Antique can
lead to the excesses of Mannerism. Exerpts from Ludovico Dolce, Dialogo della
pittura intitolato l’Aretino . . . , Venice, 1557, pp. 32r–33r. The following
translation is from the first English edition: Aretin: A Dialogue on Painting.
From the Italian of Ludovico Dolce, London, 1770, pp. 127–32. Whoever would do
this [to form a justly proportioned figure] should chuse the most perfect form
he can find, and partly imitate nature, as Apelles did, who, when he painted
his celebrated Venus emerging from the sea [...] [p. 128] drew her from Phryne,
the most famous courtesan of the age; and Praxiteles also formed his statue of
the Venus of Gnidus, from the same model. Partly he should imitate the best
marbles and bronzes of the [p. 129] antient masters, the admirable perfection
[p. 130] of which, whoever can fully taste and posses, may safely correct many
defects of Nature herself, and make his pictures universally pleasing and
grateful. These contain all the perfection of the art, and may be properly
proposed as examples of perfect beauty. [...] [p. 131] Proportion being the
principal foundation of design, he who best observes it, must always be the
best master in this respect: and it being necessary to the forming of a perfect
body, to copy not only nature but the antique, we must be careful that we do this
with judgement, lest we should imitate the worst parts, whilst we think we are
imitating the best. We have an instance of this, at present, in a painter, who
having observed that the [p. 132] antients, for the most part, designed their
figures light and slender, by too strict an obedience to this custom, and
exceeding the just bounds, has turned this, which is a beauty, into a very
striking defect. Others have accustomed themselves in painting heads
(especially of women) to make long necks; having observed that the greatest
part of the antique pictures of Roman ladies have long necks, and that short
ones are generally ungrace- ful; but by giving into too great a liberty, have
made that which was in their original pleasing, totally otherwise in the copy.
5. Giorgio Vasari (1511–74) on drawing as the intellectual foundation of all
arts; on grace, and on the classical sculptures in the Belvedere Courtyard in
the Vatican as the source for the ‘beautiful style’ of High Renaissance
masters. Giorgio Vasari’s Lives of the Most Eminent Painters, Sculptors and
Architects – published first in 1550 and in an expanded edition in 1568 – is
arguably the most influential example of art literature of the Renaissance.
Vasari’s biographies of the most famous modern artists set the standard for a
progressive conception of the history of art, with the Florentine and Roman
schools representing its culmination. At the start of his essay on painting, in
a section added to the 1568 edition of the Lives, he provides a definition of
disegno, drawing, to give a theoretical underpinning to his defence of the
Central Italian schools of painting. Vasari’s conception of drawing as the
first physical manifestation of the artist’s idea – the intellectual part of
art common to painting, sculpture and architecture – would provide the founda-
tion for the centrality of drawing in the curriculum of future acade- mies. In
another passage to be found in both editions, Vasari praises the best ancient
sculptures, as they embodied the supreme quality of grazia, or grace, which
cannot be attained by study but only by the judgement of the artist – a concept
that remained one of the central tenets of Italian art theory for the next two
centuries. He attributes the rise of the modern manner or ‘bella maniera’, and
the great achievements of Raphael and Michelangelo, to their familiarity and
exposure to the best examples of classical sculpture in the Belvedere Courtyard
in the Vatican. Excerpts from Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti
pittori, scultori et architettori, Florence, 1568, part 1, p. 43. The following
translation is from Vasari on Technique, ed. G. Baldwin Brown, trans. L. S.
Maclehose, London, 1907, pp. 205–06. 69 SOURCE #1 VITRUVIO (80–70 bc – post c.
15 bc) On harmonic proportions as the principle of ideal beauty. Marcus
Vitruvius Pollio’s De Architectura, c. 30–20 bc, is the only complete treatise
on classical architecture to have survived from antiquity and its impact on
Western architecture from the Renaissance onwards is paramount. Manuscript
copies of the treatise circulated widely in the 15th century and were well
known to Filippo Brunelleschi, Leon Battista Alberti, Donatello and to
subsequent generations of early Renaissance artists and architects. The first
printed Latin edition appeared in 1486, followed by a more popular version in
1511 (edited by Fra Giovanni Giocondo). Italian translations appeared in 1521
(by Cesare Cesariano) and in 1556 (edited and translated by Daniele Barbaro
with illustrations by Andrea Palladio). The first chapter of book 3, provided
architects and artists with an authoritative account of the principle of
harmonic proportions based on commensurability which had inspired ancient
sculptors and paint- ers in search of ideal beauty. The celebrated passage on
the perfect proportions of the human body was visualised by Leonardo in his
‘Vitruvian Man’ (see p. 17, fig. 2). The following translation is from the
first integral English edition: The Architecture of M. Vitruvius Pollio.
Translated from the Original Latin, by W. Newton Architect, London, 1771, book
3, chapter 1, pp. 45–46: ‘On the Composition and Symmetry of Temples’.1 The
composition of temples, is governed by the laws of symmetry; which an architect
ought well to understand; this arises from pro- portion, which is called by the
Greek, Analogia. Proportion is the correspondence of the measures of all the
parts of a work, and of the whole configuration, from which correspondence,
symmetry is produced; for a building cannot be well composed without the rules
of symmetry and proportions; nor unless the members, as in a well formed human
body, have a perfect agreement. For nature as so composed the human body, that
the face from the chin to the roots of the hair at the top of the forehead, is
the tenth part of the whole height; and the hand, from the joint to the
extremity of the middle finger, is the same; the head, from the chin to the
crown, is an eight part; [...] the rest of the members have their measures also
proportional; this the ancient painters and statuaries strictly observed, and
thereby gained universal applause. [...] The central point of the body is the
navel: for if a man was laid supine with his arms and legs extended, and a
circle was drawn round him, the central foot of the compasses being placed over
his navel, the extremities of his fingers and toes would touch the circumferent
line; and in the same manner as the body is adapted to [p. 46] the circle, it
will also be found to agree with the square; for, if the measure from the
bottom of the feet to the top of the head is taken, and applied to the arms
extended, it will be found that the breadth is equal to the height, the same as
in the area of a square. Since, therefore, nature has so composed the human
body, * All sentences in Italics are by the present author throughout. 68 that
the members are proportionate and consentaneous to the whole figure, with
reason the ancients have determined, that in all perfect works, the several
members must be exactly proportional to the whole object. 1 The Latin word
‘symmetria’ of Vitruvius’ text has often been translated in English with
‘symmetry’, while commensurability – the mathematical relation between the part
and the whole within a given body or building resulting in overall harmonic
proportions – would be a better translation. 2. Cennino d’Andrea Cennini (c.
1370–c. 1440) on drawing as the foundation of art and on the advantage for
young artists of copying from other masters. Written around 1390 possibly in
Padua, Cennini’s Il Libro dell’Arte is the first art treatise composed in
Italian. Although mainly concerned with practical advice to painters, Cennini
also devoted some of the chapters to the education of the young artist, ofering
the first written evidence of the importance of drawing in the apprenticeship
of the aspiring painter, and especially the copying of works by other artists.
Later, in early Renaissance workshop practices, this increasingly included
antique sculpture. Although not published until 1821, manuscript copies of the
Libro circulated widely in the 16th and 17th centuries, evidenced by the fact
that references to it and passages from it reappear in subsequent art
treatises. Excerpts from Cennino Cennini, Il Libro dell’Arte, ed. F. Brunello,
Vicenza, 1971 (translation, present author). [P. 6, chapter 4] The foundations
and the principles of art, and of all these manual works, are drawing and
colouring. [P. 27, chapter 27] If you want to progress further on the path of
this science [...] you must follow this method: [...] take pain and pleasure in
constantly copying the best things that you can find done by the hands of the
great masters. And if you are in a place where many masters have been, so much
better for you. But I will give you some advice: be careful to imitate always
the best and the most famous; and progressing every day, it would be against
nature that you will not eventually be infused by the master’s style and
spirit. 3. Pietro Bembo (1470–1547) on artists going to Rome to copy the
Antique, and on Michelangelo and Raphael having equalled the ancient masters.
Italian scholar, poet, literary theorist, collector and cardinal, Pietro Bembo
was a central figure in the cultivated antiquarian milieu at the court of Pope
Leo X (r. 1513–21) and a personal friend of Raphael and Michelangelo. His Prose
. . . della volgar lingua, a treatise published in 1525, but composed over the
previous two decades, contains one of the earliest and most eloquent reports of
artists converging on Seeing that Design, the parent of our three arts,
Architecture, Sculpture and Painting, having its origin in the intellect, draws
out from many single things a general judgement, it is like a form or idea of
all the objects in nature, most marvellous in what it compasses, for not only
in the bodies of men and of animals but also in plants, in buildings, in
sculpture and in painting, design is cognizant of the proportions of the whole
to the parts and of the parts to each other and to the whole. Seeing too that
from this knowledge there arises a certain conception and judgement, so that
there is formed in the mind that something which afterwards, when expressed by
the hands, is called design, we may conclude that design is not other than a
visible expression and declaration of our inner conception and of that which
others have imagined and given form to their idea. And from this, perhaps,
arose the proverb among the ancients ‘ex ungue leonem’ when a certain clever
person, seeing carved in a stone block the claw only of a lion, apprehended in
his mind [p. 206] from its size and form all the parts of the animal and then
the whole together, just as if he had had it present before his eyes. Excerpts
from Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori et
architettori, Florence, 1568, part 3, vol. 1, pp. 2–3 of the Preface
(unpaginated). The following translation is from Lives of the Most Eminent
Painters, Sculptors and Architects by Giorgio Vasari, ed. and trans. by G. du
C. de Vere, London 1912–14, vol. 4, pp. 81–82. [Fifteenth-century artists] were
advancing towards the good, and their figures were thus approved according to
the standards of the works of the ancients, as was seen when Andrea Verrocchio
restored in marble the legs and arms of the Marsyas in the house of the Medici
in Florence. But they lacked a certain finish and finality of perfection in the
feet, hands, hair, and beards, although the limbs as a whole are in accordance
with the antique and have a certain correct harmony in the proportions. Now if
they had had that minuteness of finish which is the perfection and bloom of
art, they would also have had a resolute boldness in their works; and from this
there would have followed delicacy, refine- ment, and supreme grace, which are
the qualities produced by the perfection of art in beautiful figures, whether
in relief or painting; but these qualities they did not have, although they
give proof of diligent striving. That finish, and that certain something that
they lacked, they could not achieve so readily, seeing that study, when it is
used in that way to obtain finish, gives dryness to the manner. After them
indeed, their successors were enabled to attain to it through seeing excavated
out of the earth certain antiquities cited by Pliny as amongst the most famous,
such as the Laocoön, the Hercules, the Great Torso of the Belvedere, and
likewise the Venus, the Cleopatra, the Apollo, and an endless number of others,
which, both with their sweetness and their severity, with their fleshy
roundness copied from the great beauties of nature, and with certain attitudes
which involve no distortions of the whole figure but only a movement of certain
parts, [p. 82] and are revealed with a most perfect grace, brought about the
disappearance of a certain dryness, hardness, and sharpness of manner, which
had been left to our art by the excessive study [...]. 6. Giovan Battista
Armenini (c. 1525–1609) on assimilating the principles of the Antique through
constant drawing as a safe guide for artistic creation. Giovan Battista
Armenini’s De veri precetti della pittura (1587), consti- tutes one of the most
systematic art treatises of the second half of the 16th century. In it we find
the clearest formulations of a progressive method of learning, later defined as
the ‘alphabet of drawing’ (see no. 7), and of the necessity of assimilating the
principles of the Antique through drawing. Armenini is also the first to
provide a proper canon of sculptures and reliefs in Rome that students should
copy and to praise the didactic use of plaster casts. Excerpts from Giovan Battista
Armenini, De veri precetti della pittura, Ravenna, 1587, book 1, ch. 8, pp.
61–63. The following translation is from G. B. Armenini, On the True Precepts
of the Art of Painting, ed. and trans. by J. Olszewski, New York, 1977, pp.
130–34. [To obtain a good style] it is the general and universal rule only to
draw those things which are the most beautiful, learned and most like the good
works of ancient sculptors. Having familiarised him- self with them through
continual study, the student must know these things so thoroughly that when the
occasion demands he can reproduce one or more of these compositions. He must be
so familiar with them that whatever is good in the old works will be
marvellously reflected in his rough sketches, as well as in finished drawings,
and consequently in large paintings [...]. For the con- tinual drawing and
copying of things which are well made ensures that one has a proper guide to
follow and executes his own work very well. [...] In order that you may fully
know the basis of art, make it the foundation of your own works, and learn how
to recognise excellence with certainty, particularly in figures, we shall place
before you as principal models some of the most famous ancient sculp- tures
which most closely approach the true perfection of art and are still intact in
our own days. [p. 131] For it is well known that the ancients who fashioned
these statues first chose the best that nature offered in diverse models and
then, guided by their excellent judgement, combined the best perfectly into one
work. [...] These ancient statues are as follows: the Laocoön, Hercules,
Apollo, the great Torso, Cleopatra, Venus, the Nile, and some others also of
marble, all of them to be found in the Belvedere in the papal palace in the
Vatican. Some others are scattered throughout Rome and among the [p. 132]
foremost is the Marcus Aurelius in bronze, now in the square of the
Campidoglio. Then there are the Giants of Monte Cavallo, and the Pasquino, and
others not as good as these. Also well known because of the histo- ries
depicted thereon are those in the arches with very beautiful manner of half and
low relief as in the two columns, the Trajan and the Antonine, which still
stand, even though time is hostile to human work. [...] And even though this study
we have been discussing is not in the power of all students, since as is well
known not all can stay in Rome labouring long and at great expense, yet even
they have many of these works in their own homes. I am speaking of those copies
of the originals fashioned by the masters in plaster or other material. I have
seen a wax copy of the Roman Laocoön, not larger than two spans, but one could
say that it was the original in small size. Still, if those parts that are
modelled in gesso from these works can be obtained, they are better without
doubt since every detail is there precisely as in the marble, so that they can
be scrutinised and serve the student’s needs excellently. Also, they are very
convenient because they are light and easily handled and transported. And, as
for price, one can say it is very cheap, that is, in comparison with the
originals. Therefore, with such excellent aids available, there is no excuse
for anyone who really wishes to learn the good and ancient path. I have seen
studios and chambers in Milan, Genoa, Venice, Parma, Mantua, Florence, Bologna,
Pesaro, Urbino, Ravenna and other minor cities full of such well formed copies.
Looking at these, it seemed to me that they were the very works found in Rome.
Nor is any beautiful living model excluded from these, and the closer it is to
the aforementioned [p. 133] sculptures, the better it may be considered to be,
but this is rarely the case. Now, with so many examples and reasons, such as
these, I believe [p. 134] you should have a good idea of all that you must
consider and observe carefully. 7. The ‘alphabet of drawing’ and the role of
the Antique in the first orders and statutes of the Roman Accademia di San Luca
(1593). The first ‘orders and statutes’ of the Roman Accademia di San Luca, laid
out by Federico Zuccaro (c. 1541–1609) in 1593 and published by Romano Alberti
(active 1585–1604) in 1604, codified a progressive method in learning how to
draw the human figure, considered as the central subject of art: from details,
like the eye, to the whole body. This ‘alphabet of drawing’, based on
Renaissance workshop practices, would become enormously influential in the
teaching of art in Europe well into the 20th century. The Antique had a crucial
role in it, as it gave students the possibility to learn how to approach the
third dimension of the human body through models of idealised beauty, anatomy
and proportions, and the role of ancient statuary is clearly specified in
another passage of the Accademia’s rules and regulations. Excerpts from Romano
Alberti, Origine, et progresso dell’Academia del Dissegno, de’ Pittori,
Scultori, et Architetti di Roma, Pavia, 1604, pp. 5–8 (translation, present
author). [P. 5] Another hour will be devoted to practice and to teaching
drawing to young students, showing them the way and the good path of study, and
for this purpose we have appointed twelve Academicians, one for each month of
the year, in charge of taking particular care and responsibility in assisting
the students in this task. [...]. The Principal will order the young students
to produce something by their hand, while he will draw himself, and he will
award his resulting drawings to the best students. The first figures – to start
from the Alphabet of Drawing (so to speak) – will be the A, B, C: eyes, noses,
mouths, ears, heads, hands, feet, arms, legs, torsos, backs and other similar
parts of the human body, as well as any other sort of animals and figures,
architectural elements, and reliefs in wax, clay and similar exercises. [P. 8]
[The Academician in charge] will start instructing the students in what to
study, assigning to each of them a different task according to his individual
disposition and talent: some will draw from drawings, others from cartoons or
from reliefs; others will copy heads, feet, hands; others will go out during
the week drawing after the antique or the facades by Polidoro, or land- scapes,
buildings, animals and other similar things; other students in convenient times
will draw after live models, and they must copy them with grace and judgement.
Others will do exercises in architecture and in perspective, following its
correct and good rules, and the best students shall always be rewarded [...].
8. Peter Paul Rubens (1577–1640) on the usefulness and dangers of copying from
the Antique. The great Flemish artist Peter Paul Rubens spent two extended
periods in Rome, between 1601 and 1602 and from late 1605 to late 1608, with
short interruptions. His erudite approach towards the Antique and his desire to
assimilate its principles resulted in many extraordinary drawings after
classical statues, mostly in black and red chalk. In his theoretical treatise,
De Imitatione Statuarum (‘On the Imitation of Statues’), c. 1608–10, he warned
against the dangers of slavishly copying the Antique and transferring the
characteristics and limits of one medium – marble – into another – drawing or
painting. Although Rubens’ manuscript remained unpublished in his lifetime, it
was owned by the influential French art theorist Roger de Piles (1635–1709), who
first published it in his Cours de peinture par principles, Paris, 1708, pp.
139–47. The following translation is from the first English edition: Roger de
Piles, The Principles of Painting, London, 1743, pp. 86–92. To some painters
the imitation of the antique statues has been extremely useful, and to others
pernicious, even to the ruin of their art. I conclude, however, that in order
to attain the highest perfection in painting, it is necessary to understand the
antiques, nay, to be so thoroughly possessed of this knowledge, [p. 87] that it
may diffuse itself everywhere. Yet it must be judiciously applied, and so that
it may not in the least smell of stone. For several ignorant painters, and even
some who are skilful, make no distinction between the matter and the form, the
stone and the figure, the necessity of using the block, and the art of forming
it. It is certain, however, that the finest statues are extremely beneficial,
so the bad are not only useless, but even pernicious. For beginners learn from them
I know not what, that is crude, liny, stiff, and of harsh anatomy; and while
they take themselves to be good proficient, do but disgrace nature; since
instead of imitating flesh, they only represent marble tinged with various
colours. For there are many things [p. 88] to be taken notice of, and avoided,
which happen even in the best statues, without the workman’s fault: especially
with regard to the difference of shades [...]. [p. 89] He who has, with
discernment, made the proper distinctions in these cases, cannot consider the
antique statues too attentively, nor study them too carefully; for we of this
erroneous age, are so far degenerate, that we can produce nothing like them. 70
71 9. Gianlorenzo Bernini (1598–1680) described as a young boy devoting his
days to copying the statues in the Belvedere Courtyard in the Vatican. In 1713
Gianlorenzo Bernini’s son Domenico (1657–1723) published a biography of his
father that constitutes, with Filippo Baldinucci’s Vita del cavaliere . . .
Bernino (MS. 1682), one of the most important sources on the life and art of
the great Baroque sculptor and architect. A passage describing the impact of
the art of Rome on Gianlorenzo, after his arrival from his native Naples,
vividly evokes the dedication and devotion of the young sculptor in
assimilating day and night the principles of the great classical examples in
the Belvedere Courtyard – especially the Antinous Belvedere, the Apollo
Belvedere and the Laocoön. Excerpts from Domenico Bernini, Vita del cavalier
Gio. Lorenzo Bernino, Rome, 1713, pp. 12-13. The following translation is from
Domenico Bernini, The Life of Gian Lorenzo Bernini, ed. and trans. by F.
Mormando, University Park (PA), 2011, p. 101. There now opened before him in
Rome a marvellous field in which to cultivate his studies through the diligent
observation of the precious remains of ancient sculpture. It is not to be
believed with what dedication he frequented that school and with what profit he
absorbed its teachings. Almost every morning, for the space of three years, he
left Santa Maria Maggiore, where Pietro, his father, had built a small
comfortable house, and travelled on foot to the Vatican Palace at Saint
Peter’s. There he remained until sunset, drawing, one by one, those marvellous
statues that antiquity has conveyed to us and that time has preserved for us,
as both a benefit and dowry for the art of sculpture. He took no refreshment
during all those days, except for a little wine and food, saying that the
pleasure alone of the lively instruction supplied by those inanimate statues
caused a certain sweetness to pervade his body, and this was sufficient in
itself for the maintenance of his strength for days on end. In fact, some days
it was frequently the case that Gian Lorenzo would not return home at all. Not
seeing the youth for entire days, his father, however, did not even interrogate
his son about this behaviour. Pietro was always certain of Gian Lorenzo’s
whereabouts, that is, in his studio at Saint Peter’s, where, as the son used to
say, his girlfriends (that is, the ancient statues) had their home. The
specific object of his studies we must deduce from what he used to say later in
life once he began to experience their effect on him. Accordingly, his greatest
attention was focussed above all on those two most singular statues, the
Antinous and the Apollo, the former miraculous in its design, the latter in its
workmanship. Bernini claimed, however, that both of these qualities were even
more perfectly embodied in the famous Laocoön of Athen0dorus, Hagesander, and
Polydorus of Rhodes, a work of so well-balanced and exquisite a style that
tradition has attributed it to three artists, judging it perhaps beyond the
ability of just one man alone. Two of these three marvellous statues, the
Antinous and the Laocoön, had been discovered during the time of Pope Leo X
amid the ruins of Nero’s palace in the gardens near the church of San Pietro in
Vincoli and placed by the same pontiff in the Vatican Palace for the public
benefit of artists and other students of antiquity. 10. Gianlorenzo Bernini
(1598–1680) on the formative role of ancient sculpture in the education of
young artists. In 1665 Bernini visited France at the invitation of Louis XIV to
discuss designs for the completion of the Palais du Louvre. His five-month stay
was recorded by his guide Paul Fréart, Sieur de Chantelou in his lively Journal
du voyage du Cavalier Bernin en France. The advice given by Bernini on his
visit to the Académie Royale de peinture et de sculpture is among the clearest
statements on the formative role assigned to antique statuary in the education
of young artists in 17th- century Rome. At the same time it reveals the opinion
of the great Baroque sculptor on the dangers of copying from classical models
without also involving independent inspiration and artistic creations. The
manuscript of the Journal du voyage du cavalier Bernin en France par M. de
Chantelou was published for the first time by Ludovic Lalanne in a series of
articles in the Gazette des Beaux-Arts in 1877–84 (a new edition by M. Stanic ́
was published in Paris in 2001). The following translation is from Paul Fréart
de Chantelou, Diary of the Cavaliere Bernini’s Visit to France, ed. by A.
Blunt, trans. by M. Cornbett, Princeton, 1985, pp. 165–67. 5 September: The
Cavaliere worked as usual, and in the evening went to the Academy [...] [p.
166]. The Cavaliere glanced at the pictures round the room: they are not by the
most talented mem- bers. He also looked at a few bas-reliefs by various
sculptors of the Academy. Then, as he was standing in the middle of the hall
sur- rounded by members, he gave it as his opinion that the Academy ought to
possess casts of all the notable statues, bas-reliefs, and busts of antiquity.
They would serve to educate young students; they should be taught to draw after
these classical models and in that way form a conception of the beautiful that
would serve them all their lives. It was fatal to put them to draw from nature
at the beginning of their training, since nature is nearly always feeble and
niggardly, for if their imagination has nothing but nature to feed on, they
will be unable to put forth anything of strength or beauty; for nature itself
is devoid of both strength or beauty, and artists who study it should first be
skilled in recognis- ing its faults and correcting them; something that
students who lack grounding cannot do [...] [p. 167]. He said that when he was
very young he used to draw from the antique a great deal, and, in the first
figure he undertook, resorted continually to the Antinous as his oracle. Every
day he noticed some further excellence in this statue; certainly he would never
have had that experience had he not himself taken up a chisel and started to
work. For this reason he always advised his pupils, and others, never to draw
and model without at the same time working either at a piece of sculpture or a
picture, combining creation with imitation and thought with action, so to
speak, and remarkable progress should result. For support of his contention
that original work was absolutely essential I cited the case of the late
Antoine Carlier, an artist known to most of the members of the Academy. He
spent the greater part of his life in Rome modelling after the statues of
antiquity, and his copies are incomparable: and they had to agree that, because
he had begun to do original work too late, his imagination had dried up, and
the slavery of copying had in the end made it impossible for him to produce
anything of his own. 11. Giovanni Pietro Bellori (1613–96): his ‘Idea of the
painter, the sculptor and the architect, selected from the beauties of Nature,
superior to Nature’ as the manifesto of the classicist doctrine. Giovanni
Pietro Bellori, a central figure in 17th-century art theory and the champion of
classicism, delivered his epochal speech, the ‘Idea’, in front of the Roman
Accademia di San Luca in 1664 and later published it as a preface to his
influential Vite of 1772. In this he provided one of the clearest and most
influential systematisations for the concept of the idealistic mission of art,
already formulated by various Renaissance art theorists such as Dolce, Vasari,
Armenini and Zuccaro. Joining Aristotelian and neo-Platonic premises, for
Bellori God’s perfect Ideas become corrupted in our world because of accidents
and the innate imperfection of the ‘matter’. The role of ‘noble’ artists is
therefore to aim at recreating the perfection of the original divine ideas in
their works by selecting the best parts of nature. Classical statues ofer the
best guide and example for the modern artists as they are the result of this
process of selection already achieved by ancient artists. In the final
paragraph quoted here, Bellori stresses the value of the imitation of the
Antique against some contemporary artists and theorists, like the Venetian
painter and writer Marco Boschini (1605–81), who criticised the practice.
Excerpts from Giovan Pietro Bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti
moderni, Rome, 1672, pp. 3–13. The following translation is from G. P. Bellori,
The Lives of the Modern Painters, Sculptors and Architects: a New Translation
and Critical Edition, ed. by H. Wohl, trans. by A. Sedgwick Wohl, introduction
by T. Montanari, Cambridge, 2005, pp. 57–61. [P. 57] The supreme and eternal
intellect, the author of nature, looking deeply within himself as he fashioned
his marvellous works, established the first forms, called Ideas, in such a way
that each species was an expression of that first Idea, thereby forming the
wondrous context of created things. But the celestial bodies above the moon,
not being subject to change, remained forever beautiful and ordered, so that by
their measured spheres and by the splendour of their aspects we come to know
them as eternally perfect and most beautiful. The opposite happens with the
sublunar bodies, which are subject to change and to ugliness; and even though
nature intends always to make its effects excellent, nevertheless, owing to the
inequality of matter, forms are altered, and the human beauty in particular is
confounded, as we see in the innumerable deformities and disproportions that
there are in us. For this reason noble painters and sculptors, imitating that
first maker, also form in their minds an example of higher beauty, and by
contemplating that, they emend nature without fault of colour or of line. This
Idea, or rather the goddess of painting and sculpture [...], reveals itself to
us and descends upon marbles and canvases; originating in nature, it transcends
its origins and becomes the original of art; measured by the compass of the
intellect, it becomes the measure of the hand; and animated by the imagination
it gives life to the image. [P. 58] Now Zeuxis, who chose from five virgins to
fashion the famous image of Helen that Cicero held up as an example to the
orator, teaches both the painter and the sculptor to contemplate the Idea of
the best natural forms by choosing them from various bodies, selecting the most
elegant.1 For he did not believe that he would be able to find in a single body
all those perfections that he sought for the beauty of Helen, since nature does
not make any particular thing perfect in all its parts. [...] Now if we wish
also to compare the precepts of the sages of antiquity with the best of [p. 59]
those laid down by our modern sages, Leon Battista Alberti teaches that one
should love in all things not only the likeness, but mainly the beauty, and
that one must proceed by choosing from very beautiful bodies their most praised
parts.2 [...] Raphael of Urbino, the great master of those who know, writes
thus to Castiglione about his Galatea: In order to paint one beauty I would
need to see more beauties, but as there is a dearth of beautiful women, I make
use of a certain Idea that comes to into my mind.3 [P. 61] It remains for us to
say that since the sculptors of antiquity employed the marvellous Idea, as we
have indicated, it is therefore necessary to study the most perfect ancient
sculptures, in order that they may guide us to the emended beauties of nature;
and for the same purpose it is necessary to direct our eye to the contemplation
of other most excellent masters; but this matter we shall leave to a treatise
of its own on imitation, to meet the objections of those who criticise the
study of ancient statues. 1 Cicero, De inventione, II, 1, 1–3. 2 Alberti 1972,
p. 99 (book 3, chap. 55). 3 Quoted the first time in Pino 1582, vol. 2, p. 249.
12. A Conférence of the Parisian Académie Royale de peinture et de sculpture on
the artistic excellence of the Laocoön, 1667. Among the celebrated seven
Conférences given at the Académie in 1667, devoted to the analysis of famous
paintings of the Italian and French schools, the third, held by the sculptor
Gerard van Opstal (1594–1668), was specifically dedicated to the Laocoön.
Opstal’s approach, in which each aspect of the famous statue, from its anatomy,
to its proportions, character and expressions, is discussed in detail, clearly
expresses the analytical and didactic approach of the Académie to the Antique.
Excerpts from André Félibien, Conférences de l’Académie Royale de Peinture et
de Sculpture, pendant l’année 1667, Paris, 1668, pp. 28–40. The following
translation is from the first English edition: Seven Conferences held in the
King of France’s Cabinet of Paintings . . . , London, 1740, pp. 33–42
(pagination is discontinuous). [Gerard van Opstal] examined all the Parts of
this Figure in order to shew the Excellence of it: and observed with what Art
the Sculptor had given in a large Breast and Shoulders, all the Parts of which
are expressed with a great deal of Exactness and Tenderness. He also took
Notice of the Height of the Hips, and the Nervousness of the Arms: the Legs
neither too thick nor too lean but firm 72 73 and well muscled; and in
general he observed that in all the other Members, the Flesh and Nerves were
expressed with as much strength and sweetness as in Nature herself, but in
Nature well formed. [...] [p. 34]. He did not forget to shew likewise the
strong Expressions which appear in this admirable Figure, where Grief is not
only diffused over the Face, but also over all the other Parts of the Body, and
to the Extremities of the Feet, the Toes of which violently contract
themselves. [p. 35] As every thing about this Statue is contrived with
surprising Art, every one will own that it ought to be the chief study of
Painters and Sculptors: But which they should not consider chiefly as a Model
that only serves to design by; they ought to observe exactly all the Beauties,
and imprint on their Minds an Image of all that is excellent in it: because it
is not the Hand that is to be employed if one desires to make himself perfect
in this Art, but Judgement to form these great Ideas and Memory carefully to
retain them. But as those strong Expressions cannot teach one to design after a
Model, because we cannot put such a Person in a State where all the Passions
are in him at once, and it is likewise difficult to copy them in Persons who
are really active because of the quick Motion of the Soul: It is therefore of
great Importance for Artists to study Causes, and then to try with how great
Dignity [p. 30] they can represent their Effects, and we may aver that it is
only to these fine Antiques they must have recourse since there they will meet
with Expressions which it will be difficult to draw after nature. [P. 31] Every
one will agree that it is from this Model [that] we may learn to correct the
Faults which are commonly found in Nature; for here all appears in a State of
Perfection [...]. 13. Gérard Audran (1640–1703) on the perfect proportions of
antique sculptures. Gérard Audran, engraver and conseiller of the Parisian
Académie Royale, published the most popular illustrated manual on the measured
proportions of selected canonical ancient statues in 1682 (see p. 48, figs
72–73). We find in the Preface one of the clearest expressions of the
rationalistic attitude of the Académie: the Antique here represents an
infallible standard of perfect proportions, which Audran has made available,
‘compass in hand’, for young artists, providing them with precise references on
which to base their own figures. Excerpts from Gérard Audran, Les proportions
du corps humain mesurées sur les plus belles figures de l’antiquité, Paris,
1683, pp. 1-4 of the Preface (unpaginated). The following translation is from
The Proportions of the Human Body, measured from the most Beautiful Statues by
Mons. Audran . . . , London,There will be, I think, but little occasion to
enlarge upon the Necessity of a perfect Knowledge of the PROPORTIONS, to every
Person conversant in Designing; it being very well known, that without
observing them they can make nothing but mon- strous and extravagant Figures.
Everyone agrees to this Maxim generally consider’d, but everyone puts it
differently in practice; and here lies the Difficulty, to find certain Rules
for the Justness and Nobleness of the Proportions; which, since Opinions are
divided, may stand as an infallible Guide, upon whose Judgement we may rely
with Certainty. This appears at first very easy; for since the Perfection of
Art consist in imitating Nature well, it seems as if we need consult no other
Master, but only work after the Life; nevertheless, if we examin the Matter
farther, we shall find, that very few Men, or perhaps none, have all their
Parts in exact Proportion without any Defect. We must therefore chuse what is
beautiful in each, taking only what is called the Beautiful Nature. [...] I see
nothing but the Antique in which we can place an entire confidence. These
Sculptors who have left us those beautiful Figures [...] have in some sort
excell’d Nature; for [...] there never was any Man so perfect in all his Parts
as some of their Figures. They have imitated the Arms of one, the Legs of
another, collecting thus in one Figure all the Beauties which agreed to the
Subject they represented; as we see in the Hercules all the Strokes that are
Marks of Strength; and in the Venus all the Delicacy and Graces that can form
an accomplished Beauty. [...] [p. 2]. I give you nothing of myself; everything
is taken from the Antique: but I have drawn nothing upon the Paper till I had
first mark’d all the Measures with the Compasses, in order to make the
Out-Lines fall just according to the Numbers. 14. William Hogarth (1697–1764)
against fashionable taste and the uncritical cult of the Antique. The celebrated
painter and engraver William Hogarth played a crucial role in establishing an
English school of painting in the 18th century. As director of the second St
Martin’s Lane Academy from 1735, he became increasingly hostile to a curriculum
based on the French Académie model. In his theoretical treatise The Analysis of
Beauty, published in 1753, he attacked the idealistic concept of art – as a
selection of the best parts of nature – in favour of a more naturalistic
approach. At the same time he disputed the validity of studies on proportion
such as those produced by Dürer and Lomazzo in the 16th century. Hogarth
retained a bold independent-minded position towards the Antique, criticising
the slavish reverential attitude of connoisseurs and men of taste, while
recognising the greatness of certain antiquities. Their peculiar elegance,
according to Hogarth, is the expression of the ‘serpentine line’, the central
principle of his own aesthetic. Excerpts from William Hogarth, The Analysis of
Beauty, London, 1753. [P. 66] We have all along had recourse chiefly to the
works of the ancients, not because the moderns have not produced some as
excellent; but because the works of the former are more generally known: nor
would we have it thought, that either of them have ever yet come up to the
utmost beauty of nature. Who but a bigot, even to the antiques, will say that
he has not seen faces and necks, hands and arms in living women, that even the
Grecian Venus doth but coarsely imitate? [p. 67] And what sufficient reason can
be given why the same may not be said of the rest of the body? [P. 77, ‘On
Proportions’] Notwithstanding the absurdity of the above schemes [of Dürer and
Lomazzo], such measures as are to be taken from antique statues, may be of some
service to painters and sculptors, especially to young beginners [...] [p. 80].
I firmly believe, that one of our common proficients in the athletic art, would
be able to instruct and direct the best sculptor living, (who hath not seen, or
is wholly ignorant of this exercise) in what would give the statue of an
English-boxer, a much better proportion, as to character, than is to be seen,
even in the famous group of antique boxers, (or some call them, Roman
wrestlers) so much admired to this day. [P. 91] As some of the ancient statues
have been of such singular use to me, I shall beg leave to conclude this
chapter with an observation or two on them in general. It is allowed by the
most skilful in the imitative arts, that tho’ there are many of the remains of
antiquity, that have great excellencies about them; yet there are not,
moderately speaking, above twenty that may be justly called capital. There is
one reason, nevertheless, besides the blind veneration that generally is paid
to antiquity, for holding even many very imperfect pieces in some degree of
estimation: I mean that peculiar taste of elegance which so visibly runs
through them all, down to the most incorrect of their basso-relievos: [p. 92]
which taste, I am persuaded, my reader will now conceive to have been entirely
owing to the perfect knowledge the ancients must have had of the use of the
precise serpentine-line. But this cause of elegance not having been since
sufficiently understood, no wonder such effects should have appeared
mysterious, and have drawn mankind into a sort of religious esteem, and even
bigotry, to the works of antiquity. 15. Johan Joachim Winckelmann (1717–68) on
the Antique. Winckelmann, the greatest art historian of the 18th century, moved
to Rome from Dresden in 1755 and soon established himself as one of the leading
antiquarians and scholars of Europe. His powerful and intimate descriptions of
ancient sculptures, especially those in the Belvedere Courtyard, had a
tremendous impact on the European public and contributed decisively to the
difusion of the classical ideal and the airmation of the neo-classical
aesthetics. His analysis of Greek art provided a stylistic classification of
antiquities by period, stressing the importance of contextual conditions such
as the climate and political freedom of the ancient Greek city states. This
revolutionised the approach to the Antique and contributed to the establishment
of a modern art historical method. He recommended to artists the imitation of
ancient statuary as the only way to achieve perfection, in both aesthetic and
moral terms. Excerpts from Johan Joachim Winckelmann, Gedanken über die
Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst, ed. by C.
L. von Ulrichs, Stuttgart, 1885, pp. 6–12, 24. The following translation is from
the first English edition: J. J. Winckelmann, Reflections on the Painting and
Sculpture of the Greeks . . . , trans. by Henry Fuseli, London, 1765. [P. 1] To
the Greek climate we owe the production of Taste, and from thence it spread at
length over all the politer world. [P. 2] There is but one way for the moderns
to become great, and perhaps unequalled; I mean, by imitating the antients. And
what we are told of Homer, that whoever understands him well, admires him, we
find no less true in matters concerning the antient, especially the Greek arts.
But then we must [p. 3] be as familiar with them as with a friend, to find
Laocoon as inimitable as Homer. By such intimacy our judgment will be that of
Nicomachus: Take these eyes, replied he to some paltry critick, censuring the
Helen of Zeuxis, Take my eyes, and she will appear a goddess. With such eyes
Michael Angelo, Raphael, and Poussin considered the performances of the
antients. They imbibed taste at its source; and Raphael particularly in its
native country. We know, that he sent young artists to Greece, to copy there,
for his use, the remains of antiquity. [...] Laocoon was the standard of the
Roman artists, as well as ours; and the rules of Polycletus became the rules of
art. [P. 4] The most beautiful body of ours would perhaps be as much inferior
to the most beautiful Greek one, as Iphicles was to his brother Hercules. The
forms of the Greeks, prepared to beauty, by the influence of the mildest and
purest sky, became perfectly elegant by their early exercises. Take a [p. 5]
Spartan youth, sprung from heroes, undistorted by swaddling-cloths; whose bed,
from his seventh year, was the earth, familiar with wrestling and swimming from
his infancy; and compare him with one of our young Sybarits, and then decide
which of the two would be deemed worthy, by an artist, to serve for the model
of a Theseus, an Achilles, or even a Bacchus [...] [p. 6]. By these exercises
the bodies of the Greeks got the great and manly Contour observed in their
statues, without any bloated corpulency. [P. 9] Art claims liberty: in vain
would nature produce her noblest offsprings, in a country where rigid laws
would choak her progressive growth, as in Egypt, that pretended parent of
sciences and arts: but in Greece, where, from their earliest youth, the happy
inhabitants were devoted to mirth and pleasure, where narrow- spirited
formality never restrained the liberty of manners, the artist enjoyed nature
without a veil. [P. 30] The last and most eminent characteristic of the Greek
works is a noble simplicity and sedate grandeur in Gesture and Expression. As
the bottom of the sea lies peaceful beneath a foaming surface, a great soul
lies sedate beneath the strife of passions in Greek figures. ’ Tis in the face
of Laocoon this soul shines with full lustre, not confined however to the face,
amidst the most violent sufferings. 16. Denis Diderot (1713–84) on the
excessive dependence on the Antique at the expense of the study of Nature.
Philosopher, polymath and editor of the Encyclopédie, Diderot is one of the
central figures of the French Enlightenment. His celebrated art criticism was
directed towards the biennial Salons organised by the Académie Royale de
peinture et de sculpture in Paris, and covered the period from 1759 to 1781.
His review of the 74 75 1765 Salon included a section on sculpture in
which he criticised Winckelmann’s semi-religious dependence on the Antique and
instead urged artists to return to the study of Nature, as the source of all
excellence in art, classical statues included. Diderot’s ‘naturalistic’ and
anti-academic approach – already difused into European art theory at least from
the 17th century onwards – became predominant in the 19th century.
Nevertheless, Diderot had an immense admiration for classical sculpture in
itself; for him it represented the best result of that fruitful study of Nature
and freedom of artistic creativity that he advocated for contemporary French
art. Diderot’s review of the Salon of 1765 was written for Melchior Grimm’s
Correspondence littéraire, which circulated in manuscript form. It was printed
for the first time in Jacques-André Naigeon, Oeuvres de Denis Diderot publiés
sur les manuscrits de l’auteur, 15 vols, Paris, 1798, vol. 13, pp. 314–16. This
translation is from Diderot on Art – 1: The Salon of 1765 and Notes on
Painting, ed. and trans. by J. Goodman, New Haven and London, 1995, pp. 156–57.
I am fond of fanatics [...] [p. 157]. Such one is Winckelmann when he compares
the productions of ancient artists with those of modern artists. What doesn’t
he see in the stump of a man we call the Torso? The swelling muscles of his
chest, they’re nothing less than the undulation of the sea; his broad bent
shoulders, they’re a great concave vault that, far from being broken, is
strengthened by the burdens it’s made to carry; and as for his nerves, the
ropes of ancient catapults that hurled large rocks over immense distances are
mere spiderwebs in compari- son. Inquire of this charming enthusiast by what
means Glycon, Phidias, and the others managed to produce such beautiful,
perfect works and he’ll answer you: by the sentiment of liberty which elevates
the soul and inspire great things; by rewards offered by the nation, and public
respect; by the constant observation, study and imitation of the beautiful in
nature, respect for poster- ity, intoxication at the prospect of immortality,
assiduous work, propitious social mores and climate, and genius [...]. There is
not a single point of this response one would dare to contradict. But put a
second question to him, ask him if it’s better to study the antique or nature,
without the knowledge and study of which, without a taste for which ancient
artists, even with all the specific advantages they enjoyed, would have left us
only medio- cre works: The antique! He’ll reply without skipping a beat; The
antique! [...] and in one fell swoop a man whose intelligence, enthusiasm, and
taste are without equal betrays all these gifts in the middle of the Toboso.
Anyone who scorns nature in favour of the antique risks never producing
anything that’s not trivial, weak, and paltry in its drawing, character,
drapery, and expression. Anyone who’s neglected nature in favour of the antique
will risk being cold, lifeless, devoid of the hidden, secret truths which can
only be perceived in nature itself. It seems to me that one must study the
antique to learn how to look at nature. 17. Sir Joshua Reynolds (1723–92) on
the role of the Royal Academy and on the study of the Antique. Sir Joshua
Reynolds, the foremost portrait painter in England in the 18th century, served
as first president of the Royal Academy between 1768 and 1792. His fifteen
Discourses on Art, delivered to the students and members of the Academy between
1769 and 1790, became widely popular in Britain and abroad. They represent a
distillation of the idealistic and academic art theory of the previous
centuries in support of the ‘Grand manner’, mixed with his personal views, such
as Reynolds’ huge admiration for Michelangelo. The Discourses range from
didactic guidelines for the Academy to more theoretical discussions, and
references to the Antique can be found throughout, especially in Discourse 10,
devoted to sculpture. Excerpts from Discourses of Art. Sir Joshua Reynolds, ed.
by R. R. Wark, New Haven and London, 1997. [P. 15] Discourse 1 (1769): The
principal advantage of an Academy is, that, besides furnishing able men to
direct the student, it will be a repository for the great examples of the Art.
These are the materials on which genius is to work, and without which the
strongest intellect may be fruitlessly or deviously employed. By studying these
authentic models, that idea of excellence which is the result of the
accumulated experience of past ages may be at once acquired; and the tardy and
obstructed progress of our predecessors may teach us a shorter and easier way.
The student receives, at one glance, the principles which many artists have
spent their whole lives in ascertaining; and, satisfied with their effect, is
spared the painful investigation by which they come to be known and fixed. [P.
106] Discourse 6 (1774): All the inventions and thoughts of the Antients,
whether conveyed to us in statues, bas-reliefs, intaglios, cameos, or coins,
are to be sought after and carefully studied: The genius that hovers over these
venerable reliques may be called the father of modern art. From the remains of
the works of the antients the modern arts were revived, and it is by their
means that they must be restored a second time. However it may mortify our
vanity, we must be forced to allow them our masters; and we may venture to
prophecy, that when they shall cease to be studied, arts will no longer
flourish, and we shall again relapse into barbarism. [P. 177] Discourse 10
(1780): As a proof of the high value we set on the mere excellence of form, we
may produce the greatest part of the works of Michael Angelo, both in painting
and sculpture; as well as most of the antique statues, which are justly
esteemed in a very high degree [...]. But, as a stronger instance that this excellence
alone inspires sentiment, what artist ever looked at the Torso without feeling
a warmth of enthusiasm, as from the highest efforts of poetry? From whence does
this proceed? What is there in this fragment that produces this effect, but the
perfec- tion of this science of abstract form? A MIND elevated to the
contemplation of excellence perceives in this [p. 178] defaced and shattered
fragment, disjecti membra poetae, the traces of superlative genius, the
reliques of a work on which succeeding ages can only gaze with inadequate
admiration. 18. The Encyclopédie by Denis Diderot (1713–84) and Jean-Baptiste
le Rond d’Alembert (1717–83) on the advantages for artists to go to Rome to
experience the Antique and modern works of art. The second edition of Diderot’s
and D’Alembert’s epochal Encyclopédie included an entry on the Académie de
France in Rome, in which the role and mission of the institution is celebrated
in superlative terms. A period in Rome was still considered, even by the
anti-academic Diderot, to be essential for young artists to round of their
education in the physical and spiritual presence of the Antique and the great
Renaissance masters. This apology and defence of the Roman Académie was also
perhaps intended to counter the opinion of those, such as the sculptor
Etienne-Maurice Falconet (1716–91), who judged the trip to Rome no longer
necessary, given the quantity of plaster casts available in France. Excerpt
from D. Diderot and J.-B. le Rond D’Alembert, Encyclopédie ou dictionnaire
raisonné des sciences, des arts et des metiers . . . , new ed., Geneva, vol. 1,
1777, pp. 238–39 (translation Barbara Lasic). The French Academy in Rome is a
school of painting that King Louis XIV established in 1666, & one of the
most beautiful institu- tions of this great monarch for the glory of the
kingdom and the progress of the fine arts [...]. It was one of the greatest
causes for the perfection of art in France [...]; thus Le Brun thought that
young Frenchmen who intended to study the fine arts should go to Rome and spend
some time there. This is where the works of Michelangelo, Vignola, Domenichino,
Raphael and those of the ancient Greeks give silent lessons far superior to
those that our great living masters could give [...]. Italy has the uncontested
advantage and glory of having the richest mine of antique models that can serve
as guides to the modern artists, and enlighten them in the quest for ideal
beauty; of having revived in the world the arts that had been lost; of having
produced excellent artists of all types; and finally of having given lessons to
other people to whom it had previously given laws [...] [p. 139]. Italy is for
artists a true classical land as an Englishman calls it. Everything there
entices the eye of the painter, everything instructs him, everything awakens
his attention. Aside from modern statues, how many of those antiques, which by
their exact proportions and the elegant variety of their forms, served as
models to past artists and must serve to those of all centuries, does not the superb
Rome contain amid its walls? Although there are in France some very fine
statues like the Cincinnatus and a few others, we can state, without fear of
being mistaken, that there are none of the first rate, or of those that the
Italians call preceptive and that can be put in parallel with the Apollo, the
Antinoüs, the Laocoon, the Hercules, the Gladiator, the Faun, the Venus and
many more that decorate the Belvedere, the Palazzo Farnese, the Borghese
grounds and the gallery of Florence. The gallery Giustiniani alone is perhaps
richer in antique statues than the entire French kingdom. 19. James Northcote
(1746–1831) on the decline of the Antique as a model and on the thirst for
novelty in art. The pungent and lively conversations between the writer and art
critic William Hazlitt (1778–1830), and the painter James Northcote, were
published in various articles in The New Monthly Magazine in 1826 and then
collated in 1830, causing scandal for their frankness among contemporaries. The
passage selected is one of the most revealing testimonies on the growing
dissatisfaction with the Antique and the widespread demand for new forms of
art. Excerpts from William Hazlitt, Conversations of James Northcote, Esq.,
R.A., London, 1830, pp. 51–53. ‘Did you see Thorwaldsen’s things while you were
there? A young artist brought me all his designs the other day, as miracles
that I was to wonder at and be delighted with. But I could find nothing in [p.
52] them but repetitions of the Antique, over and over, till I was surfeited.’
‘He would be pleased at this.’ ‘Why, no! that is not enough: it is easy to
imitate the Antique: – if you want to last, you must invent something. The
other is only pouring liquors from one vessel into another, that become staler
and staler every time. We are tired of the Antique; yet at any rate, it is
better than the vapid imitation of it. The world wants something new, and will
have it. No matter whether it is better or worse, if there is but an infusion
of new life and spirit, it will go down to posterity; otherwise, you are soon
forgotten. Canova too, is nothing for the same reason – he is only a feeble
copy of the Antique; or a mixture of two things the most incompatible, that and
opera-dancing. But there is Bernini; he is full of faults, he has too much of
that florid, redundant, fluttering style, that was objected to Rubens; but then
he has given an appearance of flesh that was never given before. The Antique
always looks like marble, you never for a moment can divest yourself of the
idea; but go up to a statue of Bernini’s, and it seems as if it must yield to
your touch. This excellence [p. 53] he was the first to give, and therefore it
must always remain with him. It is true, it is also in the Elgin marbles; but
they were not known in his time; so that he indisputably was a genius. Then
there is Michael Angelo; how utterly different from the Antique, and in some
things how superior!’ 76 77. CATALOGUE. Notes to the reader support. All
drawings and prints are on paper. measurements: Mesurements of all works, both
exhibited and reproduced as comparative illustrations, are given height before
width, in millimeters for drawings and prints and in centimeters for paintings
and sculpture. inscriptions: Recto and verso indications for inscriptions are
given only for drawings. For prints it is assumed they are on the recto.
Abbreviations: u.l.: upper left; u.c.: upper centre; u.r.: upper right; c.l.:
centre left; c.r.: centre right; l.l.: lower left; l.c.: lower centre; l.r.:
lower right. The original spelling is always respected. provenance: Provenance
is given in chronological sequence, as completely as possible. Collectors’
names are given as listed in Lugt (abbreviated L., L. suppl.)
literature/exhibitions: Prints are included in the Exhibition references when
the actual impression catalogued here was shown; when another impression was
exhibited, it is mentioned under Literature. For exhibition catalogue entries
included in the Literature and Exhibition references, the author or authors are
given only when their initials are specified at the end of the entry. Otherwise
it is assumed that the entry was written by the compilers of the catalogue. If
an object has been illustrated in a publication, a figure or plate number is
included. If the object has been illustrated without a figure or plate number,
‘repr.’ is used. If nothing is specified, the object was not illustrated. For
exhibition catalogues, only the catalogue number is provided, as it is assumed
that it was reproduced. Otherwise, ‘not repr.’ is used. #1 Agostino dei
Musi, called Agostino Veneziano (Venice c. 1490–after 1536 Rome) After Baccio
Bandinelli (Gaiole, near Chianti 1493–1560 Florence) The Academy of Baccio
Bandinelli in Rome 1531 Engraving, state II of III 274 × 299 mm (plate), 278 ×
302 mm (sheet) Inscribed recto, l.c., on front of table support: ‘ACADEMIA . DI
BAC: / CHIO . . MDXXXI. /. A. V.’ selected literature: Heinecken 1778–90, vol.
2, p. 98; Bartsch 1803–21, vol. 14, pp. 314–15, no. 418; Pevsner 1940, pp.
38–42, fig. 5; Ciardi Duprè 1966, p. 161; Wittkower 1969, p. 232, fig. 70;
Oberhuber 1978, 314.418, repr.; Florence 1980, p. 264, no. 687; Roman 1984, pp.
81–84, fig. 62; Weil-Garris Brandt 1989, pp. 497–98, fig. 1; Landau and
Parshall 1994, p. 286, fig. 304; Barkan 1999, pp. 290–98, fig. 5.12; Fiorentini
1999, pp. 145–46, no. 29; Munich and Cologne 2002, p. 319, no. 110; Thomas
2005, pp. 3–14, figs 1–3; Hegener 2008, pp. 396–403 and 624–25, pl. 228;
Antwerp 2013, p. 26, repr.; Florence 2014, pp. 528–29, no. 77. BRANDIN .
provenance: Elizabeth Harvey-Lee, North Aston (Oxfordshire), from whom acquired
in 1995. IN . / ROMA . / IN LUOGO . DETTO / . BELVEDERE . / exhibitions:
Not previously exhibited. The Bellinger Collection, inv. no. 1995-047 This
renowned print by Agostino Veneziano after a design by Baccio Bandinelli, the
Florentine sculptor and draughts- man, depicts Bandinelli’s academy for artists
in the Belvedere in Rome, where he was granted the use of rooms by Pope Leo X
(r. 1513–21) and Pope Clement VII (r. 1523–34).1 We are informed of this by the
prominent inscription below the table, which renders this engraving a
particularly appropri- ate work to begin this catalogue, because as well as
being the first known representation of artists copying from statuettes
modelled after antique prototypes, it is the first recorded use of the word
‘accademia’ in conjunction with art and the training of artists.2 This term had
previously been used to describe informal gatherings of men to discuss liberal
or intellectual subjects, such as philosophy or literature.3 Though the scene
does not depict an art academy in the modern sense – the origins of which are
found some thirty years later in Vasari’s Accademia del Disegno4 – Bandinelli
made the association between art and intellectual endeavour very clear. His
design focuses on the fundamental elements of a young artist’s training,
namely, intensive study and copying of the antique sculptures in miniature
scattered around the room, replicated on the artists’ tablets. It is there-
fore evident that artistic academies were from the beginning conceived of as
humanistic educational institutions, reliant, among other things, on ancient
statues as sources of inspira- tion. There is a conspicuous absence here of
drawing from life, which would later become one of the central elements of
Italian and French academic practices.5 The scene also places emphasis on
disegno, a word that encompasses much more than its mere translation as
‘drawing’. It comprises the intellectual capacity to create any kind of art,
including painting and sculpture, as well as drawing itself.6 In Bandinelli’s
own words, his was an ‘Accademia par- ticolare del Disegno’.7 In the print
exhibited here, the almost claustrophobic room and closely bunched apprentices
imply that study was a collaborative endeavour in Bandinelli’s academy, with
discussion among the students encouraged in order that they might better
comprehend the objects of their study, and capture them more effectively on
paper. Bandinelli himself is seated on the right, wearing a fur-lined collar,
holding a statuette of a female nude for his students’ contem- plation. The
results of their efforts are drawn on paper placed on drawing boards, using
quills and ink pots; what appears to be a blotter rests on the near edge of the
table. The noctur- nal setting evokes an atmosphere of mystery and a sense that
the central candle, with its forcefully radiating light, has, as well as a
physical function, a symbolic one, to illuminate the secrets of art and
disegno. The theme of drawing at night recurs throughout this exhibition (cats
2, 23, 24, 34) and reflects a persistent belief that such a setting is
essential for stimulating the introspection necessary for artistic success. It
also implies diligence and commitment, the ability and will to continue working
through day and night, that is required from a master artist.8 For these
reasons, a candle or lamp often symbolises ‘Study’, as seen in Federico
Zuccaro’s allegorical drawing (see cat. 5, fig. 5). It also reveals a didactic
reliance on artificial light as preferable to natural light to emphasise the
contours of the sculptures and the contrasts of their planes, thereby
facilitating the copying process, an idea earlier espoused by Leonardo da Vinci
(with whom the young Bandinelli had personal contact) and later by Benvenuto
Cellini (1500–71).9 There is a striking interplay of the shadows cast by the
candlelight on the back walls, with the heads of both statues 80 81 and
artists overlapping one another. This may refer to a well- known passage from
Pliny’s Natural History: ‘The question as to the origin of the art of painting
is uncertain [. . .] but all agree that it began with tracing an outline around
a man’s shadow’.10 The central figure on the rear shelf casts an improbable
shadow, as the hand held perpendicular to the body is reflected on the wall as
upright and perpendicular to the ground. This was corrected in a copy after the
second state (British Museum, London), which is slightly smaller.11 The design
of this copy is more crudely executed than the original, and there are a number
of significant changes to the scene that are unique to this plate, which
suggests that it was created by someone other than Bandinelli.12 This
demonstrates the relative freedom of printmakers to make adjustments to
designs, and may help us to infer that this print was especially popular; such
changes would have necessitated a new plate, which would imply that demand
outstripped the supply, or that the original plate was under especially tight
control by a single owner.13 The male and female statues on the table are the
focus of the artists’ devotion, and are reminiscent of Apollo and Venus,
specifically of the Venus Pudica type.14 They are probably inspired by the
famous statues of the Apollo Belvedere (see p. 26, fig. 18 and cat. 5, fig. 1)
and Venus Felix (fig. 1), which stood in the Belvedere Court and were
constantly used by artists as ideal models.15 They would have been easily
acces- sible to Bandinelli while lodging at the Belvedere. The male figures may
alternatively be types after Hercules, a figure Fig. 1. Venus Felix and Cupid,
c. 200 ad, marble, 214 cm (h), Museo Pio-Clementino, Vatican Museums, Rome,
inv. 936 that is prevalent throughout Bandinelli’s work (see cat. 3). In fact,
Maria Grazia Ciardi Duprè identified the upper left male figure on the shelf as
a bronze statuette of Hercules Pomarius, now at the Victoria and Albert Museum,
London, and on that basis suggested the statuette be newly attributed to
Bandinelli.16 Many subsequent scholars have accepted this,17 but the
differences in the two figures’ poses leaves the present author unconvinced,
and it seems more likely that the figures in the print are generic, idealised
types. In an almost meta-narrative, the intense focus on antique statuary is
echoed even by the central male statuette, as he gazes at a miniature statuette
poised on his own outstretched palm, which twists back to face him, returning
his gaze (fig. 2). The three statues arrayed on the shelf along the back wall –
two male and one female – are all of the same type as those on the table, and
may be either copies or casts of them in wax or clay. The statuettes probably
represent objects sculpted by Bandinelli himself referencing the Antique;
Vasari tells us that while using the rooms at the Belvedere, Bandinelli made
‘many little figures [. . .] as of Hercules, Venus, Apollo, Leda, and other
fantasies of his own’.18 One of these survives in bronze, a Hercules Pomarius
at the Bargello, in Florence (fig. 3), and it resembles the figures in the
engraving.19 The produc- tion of small models in wax, clay or bronze –
many modelled on ancient prototypes – for young artists to practice drawing in
the workshop, was already common in the 15th century. Several were created, for
instance, by Lorenzo Ghiberti (c. 1381–1455) and Antonio Pollaiuolo (c.
1431–98).20 They Fig. 2. Detail of Veneziano’s engraving, statue gazing at an
even smaller statuette Fig. 3. Baccio Bandinelli, Hercules Pomarius, c. 1545,
bronze, 33.5 cm (h), Museo Nazionale del Bargello, Florence, inv. 281 Bronzi
served the purpose of familiarising young artists with the forms and poses of
antique models, allowing them to learn how to draw the three-dimensional human
figure from different angles on a flat surface. The juxtaposition of the
statuettes with several antique-style pots and vessels in the engraving
reinforces the connection between Bandinelli’s ‘academy’ and the classical
past, as does the fragment of a foot on the book that serves as a plinth for
the male figure on the right. The statuettes are positioned so that each faces
a slightly different direction, enabling the viewer to observe them from all
angles, just as the artists are instructed to do. Our participation is further
encouraged by the figure on the far left and by Bandinelli: both gaze outward
and seem to acknowledge our presence. The viewer is thus accorded a role as a
fellow student among the apprentices learning from Bandinelli in his academy.
This link with the academy was less explicit in the original version of
Bandinelli’s design. Ben Thomas drew attention to the first state of the print
(Ashmolean Museum, Oxford),21 in which the inscription – so prominent below the
table in the print exhibited here – was presented only in an abbreviated form
on the tablet hanging on the wall at the far right, without the word
‘academia’, and with only Veneziano’s monogram and the date 1530, a year
earlier than the present engraving. This tablet, deprived of the inscription in
the later states, became an awkwardly superfluous element of the composition.
Also missing in the first state are the drawings on the sheets of the artists
gathered around the table. In changing these elements in the second state, as
represented here,22 Bandinelli deliberately ensured there was no possibil- ity
of misinterpreting this as a literary, rather than artistic, endeavour; it also
serves as propaganda for the artist himself, as a dissemination of not only his
powers of design, but his role as a teacher and an innovator. This makes it all
the more surprising that on the current print, his name is inscribed as
‘Bacchio Brandin.’ rather than Bandinelli. He adopted the Bandinelli surname in
1529 to align himself with a noble family from Siena, thereby making himself
eligible for the Order of Santiago, which he was awarded by Emperor Charles V
in 1530.23 The inscription dates the print to 1531, after his adoption of this
new genealogy, and so must reflect an error on the part of the engraver,
Veneziano.24 In his self-portrait, seated at the table, Bandinelli also does
not wear the insignia of the Order of Santiago, as he does in his other
self-portraits (cats 2 and 3), and so the design for this print most likely
dates prior to the granting of this award in 1530. Tommaso Mozzati suggested a
date earlier than 1527, when the sack of Rome forced both artists to flee the
city, Veneziano to Mantua, Bandinelli first to Lucca and then Genoa.25 The
inscription itself tells us the design was made in Rome, depicting a room in
the Belvedere. If Veneziano engraved the design after the two artists went
their separate ways, it could explain how the mistake in nomenclature was
allowed to occur.26 Bandinelli’s relentless self-promotion and willingness to
rewrite his family tree to achieve noble status can be explained by his
upbringing. His father, Michelangelo di Viviano (1459–1528), was a prominent
goldsmith in Florence, but the family had lost much of its wealth and prestige
by the time his son was born in October 1493.27 As Bandinelli’s three siblings
left home or died young, he was essentially the only child, charged with
restoring the family’s social standing. His father encouraged his training as
an artist from an early age, as an apprentice within his own workshop.
Bandinelli also worked with the sculptor Gian Francesco Rustici (1474–1554),
learning from him the process of model- ling sculptures in wax and clay for
casting into bronze. This association no doubt provided the opportunity to meet
Rustici’s collaborator at the time on St John the Baptist Preaching (Florence
Cathedral, Baptistry), Leonardo da Vinci (1452– 1519). Bandinelli was a staunch
Medici supporter, even throughout the family’s exile, and this cemented his
financial success as soon as two Medici popes came to power (Giovanni de’
Medici as Leo X in 1513 and Giulio de’ Medici as Clement VII in 1523). However,
it also inspired rabid criticism from many Florentines, who were Republican by
nature. 82 83 Our view of him is also coloured by Vasari’s
biography, in which Bandinelli is treated as the villain to his heroic rival,
Michelangelo.28 Such a bias is perhaps not completely unwar- ranted, as all
three prints on display here by Bandinelli reflect his insistence not only on
publicising his own image, but in vaunting his abilities as both a teacher of
the next generation of artists, as well as having a special and privi- leged
relationship to the Antique. This betrays the arrogance 29 that is also evident
in his writings, and may well have contributed to the negative opinions of his
character that persist to this day. rh 1 Vasari tells us that Bandinelli was
given use of the Belvedere (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 5, pp. 246,
250) but he never mentions an academy (Barkan 1999, p. 290). This engraving and
cat. 2, as well as Bandinelli’s own account in his autobiographical Memoriale
(which exists in a single manuscript in the Biblioteca Nazionale in Florence,
Cod. Pal. Bandinelli 12, and is transcribed in Colasanti 1905 and Barocchi
1971–77, vol. 2, pp. 1359– 1411) are the only evidence we have for the existence
of Bandinelli’s academy. 2 A less explicit link between art and the term
‘accademia’ is found on engravings after Leonardo da Vinci’s designs of knot
work, which are inscribed ‘Academia Leonardi Vinci’ (see Pevsner 1940, p. 25;
Roman 1984, p. 81; and Goldstein 1996, p. 10 and frontispiece). For Bandinelli
as the first to use this word in conjunction with art training, see Pevsner
1940, p. 39; Barkan 1999, p. 290; Munich and Cologne 2002, p. 319 under no.
110; Thomas 2005, p. 8; Hegener 2008, pp. 401 and 403. 3 Visual arts were
regarded as applied disciplines rather than liberal arts and thus unsuitable
for intellectual discussion (Pevsner 1940, pp. 30–31; Goldstein 1996, p. 147;
Cologne and Munich 2002, p. 319 under no. 110; Thomas 2005, pp. 8–9). 4
Although Vasari was the instigator and organiser of the Accademia, officially
it was opened in 1563 by Cosimo de Medici (Pevsner 1940, p. 42). For more about
the Accademia see Goldstein 1975; Waz ́bin ́ski 1987; Barzman 1989; Barzman
2000. 5 Goldstein 1996, chap. 8; Barkan 1999, p. 292; Costamagna 2005. 6
Goldstein 1996, p. 14. 7 Barocchi 1971–77, vol. 2, pp. 1384–85. 8 Roman 1984,
p. 83; Munich and Cologne 2002, p. 319; Thomas 2005, pp.6–7. 9 Weil-Garris
1981, pp. 246–47, note 39; Barkan 1999, p. 292; Hegener 2008, p. 401. 10 ‘De
picturae initiis incerta [...] quaestio est [...] omnes umbra hominis lineis
circumducta, itaque primam talem’: Pliny the Elder, Nat. Hist., 35.5. See Pliny
1999, pp. 270–71. 11 The British Museum print’s inventory number is V,2.136. 12
Some changes are: the removal of Veneziano’s monogram, the underlining of
‘Belvedere’ in the inscription and the figure sketches on the artists’ sheets
(Thomas 2005, p. 12). 13 Thomas 2005, p. 12. 14 For other statues of the Venus
Pudica type known in the early Renaissance, see Tolomeo Speranza 1988. 15 16 17
18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 Hegener 2008, p. 401. For Venus Felix, see
Spinola 1996–2004, vol. 1, p. 97, PN 23 and fig. 14 on p. 98. Ciardi Duprè
1966, p. 161. The inventory number of the statuette is A.76-1910. Or they have
at least restated Ciardi Duprè’s thesis without contestation. This includes
Fiorentini 1999, p. 145; Thomas 2005, p. 11, note 21; and Hegener 2008, p. 403.
Paul Joannides disagrees and attributes the statuette in the Victoria and
Albert Museum to Michelangelo, saying that it in turn inspired Bandinelli to
create his own version of Hercules Pomarius, now in the Bargello, in Florence
(fig. 3), which is widely accepted as by Bandinelli (Joannides 1997, pp.
16–20). Volker Krahn also expressed doubt that it is by Bandinelli (Florence
2014, p. 374). ‘Fece molte figurine [...] come Ercoli, Venere, Apollini, Lede,
ed altre sue fantasie’ (Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 5, p. 251). See
Florence 2014, pp. 372–75, no. 32. Fusco 1982; Ames-Lewis 2000b, pp. 52–55. See
also Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 22–23. Thomas 2005, p. 11. The
print’s inventory number is WA1863.1759. There is also a third state owned by
the Davison Arts Center of Wesleyan University, CT, in which the publisher
Antonio Salamanca’s name is added at the bottom right (Thomas 2005, p. 12).
Bartsch noted only one state (the second), but was also aware of the copy of
the second state discussed here (Bartsch 1803–21, pp. 314–15, no. 418). The
sheet exhibited here may repre- sent a later impression of the second state, as
the underlining of ‘Belvedere’ has become so worn that it is only visible below
the first ‘el’ and the ‘r’. There is some debate as to when Bandinelli received
this honour. Scholars usually agree on 1529, but in his autobiography,
Bandinelli said it occurred in the same year as the emperor’s coronation, which
was in February 1530. According to Weil-Garris Brandt, the confusion arose
because the Florentine year ended in March (Weil-Garris Brandt 1989, p. 501,
note 26). Ben Thomas agrees with her and says the emperor sent news of the
honour to Bandinelli from Innsbruck, after departing from Bologna on 22 March
1530 (Thomas 2005, p. 9 and note 12). This is perhaps not the only print to exhibit
such a mistake, as Bandinelli, in his Memoriale, bemoaned a similar error that
had to be corrected on a print of his Martyrdom of St Lawrence (Barocchi
1971–77, vol. 2, p. 1396). However, this complaint itself is inaccurate, as the
inscription of ‘Baccius Brandin. Inven.’ on the St Lawrence print would have
been a correct appella- tion at the time of its execution in 1524, well before
Bandinelli’s adoption of his new name. Such an anachronism has prompted
speculation that the Memoriale is not actually by Bandinelli, but rather a
forgery by one of his descendants (Thomas 2005, p. 10); nevertheless, it
represents a familial dissatisfaction with the dissemination of Bandinelli’s
designs once removed from his control. Minonzio 1990, p. 686 and Florence 2014,
p. 528 under no. 77. However, by 1530, the date on the first state of this
print, both Veneziano and Bandinelli had returned to Rome (Thomas 2005, p. 11).
This does not preclude Veneziano from having engraved the design during their
separa- tion. It is unlikely that the design was executed at this later date
because of the absence of the insignia of the Order of Santiago; even if the
image were retrospective, it seems unlikely that Bandinelli would miss an
opportunity for self-aggrandisement. For Bandinelli’s biography, see
Bandinelli’s own Memoriale (see note 1), Vasari’s account in Bettarini and
Barocchi 1966–87, vol. 5, pp. 239–76, and more concise surveys in Weil-Garris
1981, pp. 224–42 and Waldman 2004, pp. xv–xxviii. Weil-Garris 1981, p. 224.
Pevsner 1940, p. 42. 2. Enea Vico ( Parma 1523–1567 Ferrara) After Baccio
Bandinelli (Gaiole, near Chianti 1493–1560 Florence) The Academy of Baccio
Bandinelli c. 1545/50 Engraving, state II of III 314 × 486 mm (sheet) Inscribed
recto, u.r., on left page of open book: ‘Baccius / Bandi: / nellus / invent’;
on right page: ‘Enea vi: / go Par: / megiano / sculpsit.’ Inscribed verso, l.
c., on additional paper fragment, now attached, in pencil: ‘Eneas Vico ca 1520
– ca 1570 / Nagler XXII/515 bl 49 / Ein Hauptblatt’; and below, in pencil, ‘B.
Vol 15 B 305 No. 49’; l.l. in pencil: ‘£ 3013 60’ [the rest illegible]
provenance: Venator & Hanstein, Cologne, 3 November 1998, lot 2722, from
whom acquired. selected literature: Heinecken 1778–90, vol. 2, pp. 98–99;
Bartsch 1803–21, vol. 15, pp. 305–06, no. 49; Passavant 1860–64, vol. 6, p.
122, no. 49; Pevsner 1940, pp. 40–42, fig. 6; Ciardi Duprè 1966, pp. 163–64,
fig. 26; Goldstein 1975, p. 147, fig. 1; Weil-Garris 1981, pp. 235–36, fig. 14;
Roman 1984, pp. 84–87, fig. 66; Spike 1985, 305.49-I and 305.49-II, repr.;
Landau and Parshall 1994, p. 286, fig. 303; Barkan 1999, pp. 290–98, fig. 5.13;
Fiorentini 1999, pp. 146–47, no. 30; Houston and Ithaca 2005–06, pp. 86–88, no.
21; Thomas 2005, pp. 12–14, fig. 5; Hegener 2008, pp. 404–12 and 625–26, pl.
232; Compton Verney and Norwich 2009–10, p. 18, fig. 15; Florence 2014, pp.
530–31, no. 78. 84 85 exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger
collection, inv. no. 1998-039 This print by Enea Vico after a design by Baccio
Bandinelli depicts a scene similar to that in his earlier self-styled acad- emy
(cat. 1), but it has been expanded and amplified: the table which occupies all
of the space in Agostino Veneziano’s engraving has been moved to the right side
of Vico’s print, and the perspective is widened to allow a larger room to come
into view. The number of apprentices has grown from six to twelve, the books
from one to six and the antique sculptures from five to ten. The style of the
print, as well as Vico’s chronology, suggest that it is not the Belvedere acad-
emy that is depicted here, but a second academy, established by Bandinelli some
twenty years later after his return to Florence in 1540.1 As in the earlier
print, the classical figu- rines appear to be generalised interpretations of
antique statuary rather than exact copies of specific models, although they
have been diversified here by the addition of a horse’s head and a bust of a
Roman emperor on the shelf. Added to the fragments strewn about the room are
skeletons and skulls, which are now given a status equal to classical sources
as inspiration for artists. These refer to the growing tendency to study the
anatomy of the human body in Italian work- shops around the mid-16th century,
mainly through skele- tons, a practice that was codified by Benvenuto Cellini
(1500–71) some twenty years later in his Sopra i Principi e l’ Modo d’Imparare
l’Arte del Disegno, in which he advised artists to copy anatomical parts in
order to attain skill as draughts- men.2 While Bandinelli’s representation is
one of the first to document the spread of anatomical study among young
artists, the practice was formalised in the second half of the 16th century in
the curricula of the first academies, where sophisticated anatomy lectures were
given and dissections were performed.3 Both antique sculptures and skeletons
became common elements in subsequent representations of artists’ workshops,
studios and academies, as seen in Stradanus’ studio image and Cort’s engraving
after it (cat. 4). This is also reflected in an etching by Pierfrancesco
Alberti of a painter’s studio or academy (fig. 1), which shows a more
structured curriculum of studies involving anatomical dissection, geometry, the
Antique and architectural drawing, closely reflecting the disciplines taught in
the earliest Italian academies, particularly the Roman Accademia di San Luca.4
The light source is another difference between the two prints after Bandinelli.
The single candle in Veneziano’s engraving has become three forcefully radiating
fires, with the candle on the table now partially dissolving the face of the
student standing to its right. The importance of studying at night, and the
diligence and introspection this implies, is again a primary theme. Another
engraving after a Bandinelli design, The Combat of Cupid and Apollo,5 also
places impor- tance on fire as a source of not only visual illumination, but as
a symbol of philosophical and spiritual revelation. The recurrence of this
motif has been regarded as indicative of Bandinelli’s neo-Platonic leanings;
the flame symbolises divine Reason and its power to defeat the darker, profane
vices of the human condition, allowing man to perceive true, celestial beauty,
even while bound to the terrestrial realm.6 Indeed, the very concept of an
academy is closely inter- twined with Neo-Platonism, as it was widely
considered that the first academy founded since the end of classical times was
that of Marsilio Ficino (1433–99) in Florence, which was specifically based on
the philosophy and teachings espoused by Plato.7 Bandinelli himself is
again represented, but he now stands at the far right, instructing the two
students who face him. He also now wears the cross of St James, as befits a
knight of the Order of Santiago, which he was awarded in 1530, and which is
seen in his other self-portrait (cat. 3). The same insignia is placed
prominently above the fireplace between the two cupids. Bandinelli’s design
therefore takes on a more propagandistic role, and has been described by some
scholars as a ‘manifesto’ for his academy.8 The staging here stresses
Bandinelli’s nobility, humanism and sophistication, while the importance of
copying from antique sculpture is rather downplayed, with the casts relegated
to the margins of the scene. None of the artists is now looking at the casts;
their focus is instead inward, as best exemplified by the figure who sits at
the centre of the composition, with his head in his hand. Only one of the
students’ drawings is visible, on the tablet of the standing apprentice at the
centre of the scene, and the female nude emerging from his stylus is unrelated
to any of the sculptures surrounding him, although clearly referring to a model
all’antica. She must therefore be a product of his mind, and so the emphasis
here is on the artist’s memory and imagination; the skeletons and antique
sculptures were essential for building his graphic vocabulary of the human
form, but they have been discarded now that he has successfully internalised
them and no longer needs to copy them directly.9 The exercise of memory was one
of the central principles of the pedagogical practices of the Italian
Renaissance, going back as far as Leon Battista Alberti (1404– 72) and Leonardo
(1452–1519).10 Giorgio Vasari (1511–74), in his Vite explicitly recommended
that ‘the best thing is to draw men and women from the nude and thus fix in the
memory by constant exercise the muscles of the torso, back, legs, arms and
knees, with the bones underneath. Then one may be sure that, through much
study, attitudes in any position can be drawn by help of the imagination
without one having the living forms in the view’.11 The importance of memory
was also stressed by Cellini in his treatise.12 There are three states of this
print, differentiated by the inscriptions.13 In the first state, the
inscription identifying Bandinelli as the designer on the left page of the book
on the upper right is included, as is the address of the Roman pub- lisher,
Pietro Palumbo, below the sleeping dog in the lower centre (not seen here). In the
second state, Enea Vico’s name is added on the right-hand page of the same
book, in a differ- ent script. In the final state, the name of Palumbo’s
successor as the publisher of this print, Gaspar Alberto, is added below the
skulls in the lower centre. Nicole Hegener believed there was an additional
state between the first and second, repre- sented by a version at Yale in which
Agostino’s Veneziano’s name was inscribed on the right-hand page of the book
before it was replaced by Vico’s.14 However, it was noted in 2005 that this was
added by hand in pen-and-ink, and was therefore just a modification of the
first state of the print.15 The print exhibited here was also believed to be a
unique 86 87 Fig. 1. Pierfrancesco Alberti, Painters’ Academy, c.
1603–48, etching, 412 × 522 mm, Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-1952-373
example of a state between the first and second, as both Bandinelli’s and
Vico’s names are present on the book, but Palumbo’s is missing.16 However,
close examination of the verso reveals extensive abrasion over the area where
Palumbo’s address would have been. The inscription was therefore erased from
this sheet, and does not reflect any changes to the original plate. It must,
therefore, be an example of the second state, which was subsequently altered
for an unknown reason. Palumbo’s name on the first state also makes the dating
of this print difficult. On stylistic grounds, most scholars date it to c.
1545/50,17 but Palumbo was not active 1731: Cellini 1731, pp. 155–62 (on the
study of the bones and muscles, pp. 157–62). See Olmstead Tonelli 1984, esp. p.
101. See also Schultz 1985; Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97; London,
Warwick and elsewhere 1997–98; Carlino 2008–09. Roman 1984, p. 91. See
Appendix, no. 7 for the statutes of the Accademia di San Luca. Repr. in
Panofsky 1962, fig. 107. Panofsky 1962, pp. 148–51. Goldstein 1996, p. 14. For
the neo-Platonic movement during the Renais- sance, see Panofsky 1962, chap. 5.
Compton Verney and Norwich 2009–10, p. 18; Florence 2014, p. 520. Thomas 2005,
pp. 13–14; Houston and Ithaca 2005–06, p. 87. Alberti 1972, pp. 96–99 (book
3.55); Leonardo 1956, vol. 1, p. 47, chap. 65–66. See also Aymonino’s essay in
this catalogue, p. 33. Brown 1907, p. 210; Bettarini and Barocchi 1966–87, vol.
1, pp. 114–15. Cellini 1731, p. 157. Bartsch mistakenly conflated the second
and third states and therefore only listed two states (Bartsch 1803–21, vol.
15, pp. 305–06). He was corrected by Passavant (1860–64, vol. 6, p. 122, no.
49) and this is accepted by subsequent scholarship (i.e. Thomas 2005, p. 13).
Hegener 2008, p. 405. Houston and Ithaca 2005–06, p. 88, note 1. See also
Florence 2014, p. 530. Venator & Hanstein sale, Cologne, 3 November 1998,
lot 2722. Pevsner remarks on the characteristic ‘Mid-Cinquecento Mannerism’ of
Vico’s print in contrast to Veneziano’s style, which is reminiscent of Raimondi
(Pevsner 1940, p. 40). The following agree on the approximate dates c. 1545/50:
Weil-Garris 1981, p. 235; Thomas 2005, p. 13; Houston and Ithaca 2005–06, p.
86; Florence 2014, p. 530. Fiorentini suggested c. 1550 because after that date
Vico used ‘sculptere’ on his works, rather than ‘sculpsit’ as here (Fiorentini
1999, p. 147). However, the form of Vico’s inscription as ‘Enea Vigo’ on this
print is completely unique, as his other extant works are signed either ‘E.V.’,
‘Enea Vico’ or variations on ‘AENEAS VICUS’ (Thomas 2005, p. 13). Therefore we
must be very cautious in making any assumptions based on this particular
inscription. London 2001–02, p. 230. He continued working until c. 1586.
Florence 2014, p. 531. 3. Anonymous, 16th-century Italian Artist After Niccolò
della Casa (Lorraine fl. 1543–48) After Baccio Bandinelli (Gaiole, near Chianti
1493–1560 Florence) Self-Portrait of Baccio Bandinelli, Seated 1548 Engraving,
416 × 306 mm
Datedl.c.:‘1548’;inscribedl.r:‘A.S.Excudebat.’;inscribedl.c.inpencil:‘No
7.’andbelowtor.inpencil:‘No 7’. With the initials of the publisher, probably
Antonio Salamanca (1478–1562). provenance: Léon Millet, Paris (his stamp, not
in Lugt, in blue ink on the verso: ‘Léon Millet / 13 rue des Abbesses’ and
below, printed in black ink: ‘12 Mars 1897’);1 Bassenge, Berlin, 3 December
2003, lot 5155, from whom acquired. selected literature: Heinecken 1778–90,
vol. 2, p. 90; Bartsch 1854–76, vol. 15, pp. 279–80; Nagler 1966, vol. 1, p.
542, under no. 1266; Le Blanc 1854-88, vol. 3, p. 414, nos. 1–2; Steinmann
1913, pp. 96-97, note 8; Florence 1980, pp. 264, 266, no. 690; Los Angeles,
Toledo and elsewhere 1988–89, p. 76–77, no. 20; Fiorentini 1999, pp. 153–54,
no. 34, fig. 34 (see also pp. 150–53, under no. 33); Fiorentini and Rosenberg
2002, p. 37, fig. 20, pp. 38, 42, 44; Houston and Ithaca 2005–06, pp. 32–34,
no. 1 (J. Clifton); Hegener 2008, pp. 391–96, version II, fig. 57, p. 617–18,
no. 16 (see also pp. 380–91, under version I); Florence 2014, pp. 526–27, no.
76 (T. Mozzati). before c. 1562 at Sant’ Agostino in Rome, Bandinelli’s death.
Tommaso Mozzati speculated that Bandinelli transferred his design to Vico
before 1546, when the engraver left Florence for Rome, and that the publication
may have been delayed by a deteriorating relationship between the two
artists.19 If Vico intentionally withheld the design until after Bandinelli’s
death, it might explain how Palumbo became its first publisher more than a
decade later. 1 2 Pevsner 1940, pp. 40–41; Houston and Ithaca 2005–06, p. 86.
This engrav- ing, cat. 1 and Bandinelli’s own writings in his Memoriale are the
only evidence we have for the existence of his academies (see cat. 1, note 1).
Weil-Garris 1981, pp. 246–47, note 39. Cellini’s fragmentary treatise was
probably written during the last two decades of his life but published only 88
89 which post-dates rh exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger
collection, inv. no. 2003-020 This engraving reproduces, in reverse and with
variations in detail, an unfinished engraving by Niccolò della Casa, based on a
lost drawing by Bandinelli.2 It is unclear why the Della Casa engraving, which
is known in only a few impressions, was never finished. The present engraving
is smaller than its model, resulting in a few compositional differences. It was
attributed to Nicolas Beatrizet (c. 1507/15–1573) by Erna Fiorentini and
Raphael Rosenberg and while this was accepted by James Clifton, it was rejected
by Nicole Hegener and Tommaso Mozzati.3 Until further information comes to
light, it is perhaps safer to attribute it to an unidentified Italian engraver
working in Rome in the mid-16th century. Hegener identified a further state
with the added inscription at centre right, ‘effigies / Bacci Bandinelli sculp
/ florentini’ and Karl Heinrich von Heinecken mentioned yet another without
inscriptions (untraced).4 If Bandinelli’s self-portrait inserted among his
students in his academies (cats 1–2) emphasises his role as teacher and mentor,
this image speaks of a solitary and relentless self-promoter.5 By 1548, the
engraving’s date, Bandinelli had achieved great success. He had served two
Popes, Leo X (Giovanni de’ Medici) and Clement VII (Giulio de’ Medici), for
whom he had carried out several important commissions including the
classicising Orpheus and Cerberus (Palazzo Medici Riccardi, Florence, c. 1519)
modelled after the Apollo Belvedere, the monumental Hercules and Cacus (Piazza
della Signoria, Florence, 1523–34) and the papal tombs in Santa Maria sopra
Minerva (1536–41).6 He was currently serving the Grand Duke Cosimo I de’
Medici. And yet, it was Baccio’s close alliance with the Medici, coupled with
his on- going rivalry with Michelangelo, a staunch anti-Medicean Republican,
and others, like Benvenuto Cellini (1500–71) that denied him the full respect
and admiration of his Florentine contemporaries. His intense competitiveness
and difficult character only exacerbated his contemporaries’ widespread dislike
of him.7 Projecting strength, power and authority, this arresting image,
clearly intended for circulation, was no doubt Baccio’s attempt to right those
perceived wrongs.8 By fusing motifs from his own work with motifs from antique
sculpture – absorbed and recast – Bandinelli sought to elevate his status and
rank and to assert his position while defending his work by associating it with
the art of Greece and Rome.9 The multi-layered and intertexual combination of
themes and references that resulted contributes to the engraving’s enigmatic
allure and demands careful interpretation. Significantly, it is the first image
in the exhibition to demon- strate how Antique imagery could be used by an
artist to promote his own art and his own achievements. The engraving shows us
a man of great physical presence, seated as though enthroned. His elevation is
enhanced by a rich costume – the luxurious fur-lined cloak nonchalantly slides
off one shoulder – more typical of an aristocrat than an artist. Emblazoned on
his chest is the cross of St James, the emblem of the prestigious 12th-century
Spanish military Order of Santiago, conferred on Bandinelli in 1530 by the Holy
Roman Emperor Charles V who over- ruled protests that it was unmerited.
Bandinelli took great pride in the honour, justifiably, since he was the only
artist to be awarded the cross of St James, which he included in other
self-portraits (see cat. 2).10 Immediately below the sharp lower point of the
cross his prominent codpiece protrudes through the folds of his tunic, an
unsubtle reference to his virility. His ‘progeny’ – a selection of his small
models and statu- ettes – are seen throughout. Proprietorially and prominently
cradled, and elevated on its own column base, is the figure of Hercules, the
son of Zeus, who heroically carried out the Twelve Labours. Hercules played a
central role in Bandinelli’s work.11 His near obsession with the demi-god, the
embodi- ment of strength in the face of adversity, is demonstrated in Hercules’
constant appearance – in bronze, marble, stucco and drawing – throughout
Bandinelli’s career.12 And since Hercules was the mythical founder of Florence
and an exemplum much favoured by the Medici, in linking his own image so
closely to the hero, Bandinelli was also referencing his association with his
native city and its ruling house.13 Hercules was the perfect foil to David,
another protector of Florence, and to represent the hero gave Baccio the
opportu- nity to display his mastery of the muscular male nude in heroic and
often violent action. Bandinelli also holds a rather different figure of
Hercules in the della Casa engraving, c. 1544 and in his grand painted
self-portrait of c. 1550 (Isabella Stewart Gardner Museum, Boston) he proudly
displays a preparatory drawing for the Hercules and Cacus his most spectacular
and ambitious sculpture.14 This colossal group, – a pendant to Michelangelo’s
David – and a commission that he had taken away from Michelangelo, brought him
considerable fame despite the unfavourable reception that it received on its
unveiling in 1534.15 In effect, Hercules was Bandinelli’s calling card and his
prominence in his self-portraits is unsurprising.16 Small-scale, classicising
models made in wax and terra- cotta such as those seen here and in his other
prints (cats 1–2), were central to Bandinelli’s work as tools for teaching, and
as preparation for large-scale sculpture; many were translated into bronze, as
independent statuettes.17 Here, for example, the pose of the male nude seen
from behind standing in contrapposto at the right anticipates that of Adam in
Baccio’s Adam and Eve group of 1551 (Bargello, Florence).18 Perhaps because
Bandinelli was still working out the pose or perhaps to give the figure the
aura of a damaged antique, the left arm is missing below the elbow; several of
the other figurines in the engraving derive from the Antique but have been, as
it were, naturalised into Bandinelli’s own idiom. On equal footing with the
statuette of Hercules that he holds are the two standing female nudes on the
left, also elevated on a column shaft. They derive from the Cnidian Venus of
the 4th century bc, among the most famous works of the Greek sculptor,
Praxiteles, which was probably known Fig. 1. Baccio Bandinelli, A
Standing Female Figure, c. 1515, red chalk, 410 × 242 mm, private collection,
Switzerland Fig. 2. Giulio Bonasone, Saturn Seated on a Cloud Devouring a
Statue, c. 1555–70, etching and engraving, 254 × 154 mm, The British Museum,
Department of Prints and Drawings, London, H,5.137 Fig. 3. Anonymous, Ferrarese
School, Fortitude, playing card, c. 1465, engraving, 179 × 100 mm, The British
Museum, Department of Prints and Drawings, London, 1895,0915.36 90
91 Fig. 4. Amico Aspertini, Lion Attacking a Horse, pen and light
brown ink, 107 × 146 mm, Staatliche Museen, Kupferstichtkabinett, Berlin, KdZ
25020 to Bandinelli through a Roman copy.19 Intent on demonstrat- ing his full
knowledge of the statue Baccio presents one woman frontally, while the other,
headless, is seen from behind.20 Slim and regularly proportioned, the Cnidian
Venus was Bandinelli’s preferred female type and examples abound in his
sculpted and graphic work.21 A highly finished red chalk drawing (private
collection Switzerland, fig. 1) compares well with the engraved nude on the
left.22 The foreground is occupied with further statuettes: another Hercules
stands on a pedestal on the left and five male torsos are scattered on the
ground at his feet. While they loosely evoke the Antique – the two on the lower
left, for example, recall the Belvedere Torso (p. 26, fig. 23), they have
become generalised.23 Headless and limbless, like antique fragments, they
suggest once more that Bandinelli was equating his work with that of the
ancients. The lion has been interpreted diversely and Bandinelli may well have
intended multi-layered interpretation. It has widely been seen as a heraldic
Medici lion (marzocco) and, as such, a reference to Bandinelli’s favoured
position with the Medici as well as his loyalty to their regime.24 Interpreted
as devour- 25 ing a lower thigh and knee, the lion has also been seen as a
symbol of the artist’s prowess in sculpture. A more complex explanation
suggests a link with Saturn devouring a boulder, a subject illustrated in a
print by Giulio Bonasone (fig. 2), which is accompanied by the motto, ‘in
pulverem reverteris’ (‘unto dust shalt thou return’).26 As such, Bandinelli is
not merely subjugating a wild animal but also triumphing over Time.27 More
simply, the lion may also refer to Bandinelli’s favourite hero, Hercules, who
conquered the Nemean lion, or evoke Fortitude whose traditional attributes were
a lion and a broken column, here transformed into a plinth (fig. 3).28 Finally,
it may be that Bandinelli was again referencing the Antique: the Lion Attacking
a Horse – part of a colossal Hellenistic group (Palazzo dei Conservatori, Rome)
– in Bandinelli’s day, a limbless fragment on the The fragment was considered
‘of such excellence that Michelangelo judged it to be most marvellous’.31 There
has been much speculation about Bandinelli’s pose in the engraving. It might,
in fact, refer to the Belvedere Torso,32 as ‘restored’ in an engraving by
Giovanni Antonio da Brescia (1485–1525) of c. 1515 (fig. 5).33 The arrangement
of his legs is also close, in reverse to that of Laocoön, (p. 26, fig. 19), a
direct copy of which, in marble (c. 1520–25, Florence, Uffizi) com- missioned
by Leo X, was one of Baccio’s greatest successes.34 His preparatory drawing for
the sculpture also in the Uffizi (fig. 6) shows him seated in a comparable pose
as seen here.35 Once again, therefore, we see the sculptor referencing and
promoting his own work, employing the associative authority of Antique imagery.
In sum, Bandinelli presents himself here not only with the strength and
fortitude of a modern Hercules who successfully vanquished his adversaries but
also as the greatest, most recognisable hero- martyr and father from antiquity,
Laocoön, with his sculpted ‘offspring’ triumphant. Weil-Garris 1981, pp.
236–37. For the painting, see O. Tostmann, in Florence 2014, pp. 510–13, no.
69, repr.; Mozzati 2014, pp. 458–63. For a full discussion of the statue, see
Vossilla 2014, pp. 156–67, repr.; Florence 2014, p. 573, no. VII. For Herculean
imagery in the engraving, see Hegener 2008, pp. 382–86, 389–91, 395–96. Barkan
1999, p. 304; Krahn 2014, pp. 324–31. As first observed by Bruce Davis in Los
Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, p. 77. For the sculpture, see D.
Heikamp, in Florence 2014, pp. 314–15, no. 22, repr. He also appears, in
adapted form, in other works by the sculptor (Fiorentini 1999, p. 152). First
noted by B. Davis, in Los Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, p. 77; Barkan
1999, pp. 308–09, fig. 5.19. One half expects to see to a third figure to
complete the ‘Three Graces’. On the use of this double-view and his drawings
that may relate to these figures, see Fiorentini 1999, pp. 151–52. Barkan 1999,
pp. 309–12; V. Krahn, in Florence 2014, pp. 356–59, no. 28. B. Davis in Los
Angeles, Toledo and elsewhere 1988–89, p. 77. The drawing was formerly with
Yvonne Tan Bunzl (Bunzl 1987, no. 5, repr.; see also V. Krahn, in Florence
2014, p. 356, fig. 1). Other copies by Bandinelli after the same statue, one in
red chalk, the other, in pen and ink, are on a double- sided sheet in in the
Biblioteca Reale, Turin (Bertini 1958, p. 17, no. 37; Barkan 1999, p. 311,
figs. 5.21, 5.22). The same Cnidian Venus type occurs at left in his drawing,
Four Female Nudes, in the Art Gallery of Toronto, 2006/432 (repr. in Aldega and
Gordon 2003, p. 8, no. 1). A woman very similar to that engraved at left both
in pose, body type and hairstyle, appears on a sheet in the Louvre, formerly
classed as Bandinelli and now given to Giovanni Bandini (1540–1599), Viatte
2011, pp. 246–47, R2, repr. Houston and Ithaca 2005–06, p. 34. Of course, they
could also be a further Herculean reference, as the Torso was in the
Renaissance believed to be that of Hercules (Haskell and Penny 1981, p. 313).
Fiorentini 1999, p. 150, followed by Hegener 2008, p. 388, considered one of
the torsos, the second from the left, to be based on the torso of a satyr now
in the Villa Barbarini, Castel Gandolfo, Rome, which was in the Ciampolini
collection in the Renaissance (Liverani 1989, pp. 92, no. 34, 94–95, figs.
34.1–4). Given the differences in pose, the present author cannot accept this
view. Bandinelli adapted the pose of the Torso Belvedere for his red chalk
drawing, A Nude Man, Seated on a Grassy Bank in the Courtauld Gallery, as noted
by Ruth Rubinstein (Cambridge 1988, pp. 26–27, no. 8, repr.); see also Barkan
1999, pp. 308–09, fig 5.17. Hegener 2008, p. 383. Houston and Ithaca 2005–06,
p. 34. T. Mozzati, in Florence 2014, p. 527, who reports that this view is
shared by Mino Gabriele. That author notes (repeating Massari 1983, p. 125)
that the concept is paralleled in a passage from Ovid’s Metamorphosis
(15.236–38). However, it is also part of a famous passage from Genesis 3:19:
‘In the sweat of thy face shalt thou eat bread, till thou return unto the
ground; for out of it wast thou taken: for dust thou art, and unto dust shalt
thou return.’ For the print, see Massari 1983, vol. 1, p. 125, no. 223, repr.
T. Mozzati, in Florence 2014, p. 527, who also considers that Bandinelli holds
a complete statuette, not a fragment like the others in the print, as a modern manifestation
of classicism. Zucker 1980, p. 185, no. 53-A (136), repr.; Zucker 2000, p. 47,
.036a. See also Ripa’s illustrated edition of 1603 (Buscaroli 1992, pp. 142–44,
repr.). Fiorentini 1999, p. 151; Hegener 2008, p. 383. For the statue: Haskell
and Penny 1981, pp. 250–51, no. 54, fig. 128; Bober and Rubinstein 2010, pp.
236–37, no. 185. Faietti and Kelescian 1995, pp. 220–21, no. 4; Bober and
Rubinstein 2010, p. 237, fig. 185a. Aldrovandi 1556, p. 270, cited and
translated by Bober and Rubinstein 2010, p. 236. As proposed by Hegener (2008,
pp. 380, 382, 389–90) who considered his arms to be based on those of Christ in
Michelangelo’s Last Judgment. Zucker 1980, p. 78, no. 5 (100), repr.; Zucker
1984, pp. 350–51, .028, repr. The pose also anticipates Bandinelli’s God the
Father sculpture of the 1550s in S. Croce, Florence (Florence 2014, pp. 595–98,
no. XVIII, repr.). Although intended as a gift for François I, it never reached
its intended recipient and remained with the next Pope Clement VII, in Florence.
Bober and Rubinstein 2010,pp. 165–66, no. 122b. Capecchi (2014, pp. 129–55)
provides a thorough account of the project. D. Cordellier, in Paris 2000–01,
pp. 237–40, no. 74, repr. 29 Aspertini (1472–1552) (fig.4;
Kupferstichtkabinett, Berlin).30 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 avl Rhea Blok
has noted (e-mail, 12 August 2014) that the same collector’s mark is found on
Henri Mauperché’s etching, L’Ange conseillant Tobie, with A. & D. Martinez
(Paris 2003, p. 5, no. 20) and a print by Vincenzo Mazzi (Stage Set from the
Caprici Teatrali, Bologna, 1776) in the Metropolitan Museum of Art, New York,
66.500.27. It also appears on the reverse of the drawing by Hubert Clerget, La
Maison de Boucher, rue Carnot à la Ferte-Bernard, with C. J. Goodfriend, New
York, in 2014. Fiorentini 1999, pp. 150–53, no. 33; Fiorentini and Rosenberg
2002, p. 36, fig. 19; Hegener 2008, pp. 380–91, version I, fig. 221, p. 617,
no. 15. J. Clifton in Houston and Ithaca 2005–06, pp. 32–34, no. 1; Hegener
2008, p. 391; Mozzati in Florence 2014, pp. 526–27, no. 76. Erna Fiorentini
previously attributed it to Casa with a query (1999, p. 153). Hegener 2008 p.
618, no. 17, fig. 226; Heinecken (1778–90, vol. 2, p. 90). For his portraiture
and use of it for self-promotion, see Weil-Garris 1981, pp. 237–38; Weil-Garris
Brandt 1989; Mozzati 2014, pp. 452–63. Florence 2014, p. 568, no. III; p. 573,
no. VII; pp. 576–81, nos IX.-X. (R. Schallert). The Orpheus and his copy of the
Laocoön (ibid., p. 571, no. V) earned his reputation as ‘a great young talent
who can export the Belvedere’. (Barkan, 1999, p. 279). His personality is
revealed in his letters and the lengthy account in Vasari’s Lives (Bettarini
and Barocchi 1966–87, vol. 5, pp. 238–76). See also Weil-Garris 1981, pp.
223–24; Weil-Garris Brandt 1989, p. 497. Along with the date, 1548, the
engraving bears the initials and inscription, ‘A.S.Excudebat.’, presumably
Antonio Salamanca, the leading publisher of prints in Rome in the mid-16th
century (Fiorentini and Rosenberg 2002, p. 38). Many of the prints he published
were of Roman antiquities. See London 2001–02, p. 233; Pagani 2000; Witcombe
2008, pp. 67–105. Weil-Garris 1981, p. 231; Weil-Garris Brandt 1989, p. 497.
For a fundamental discussion of Bandinelli and the Antique, see Barkan 1999,
pp. 271–408. Weil-Garris Brandt 1989, pp. 497, 499–500. Weil-Garris 1981, p.
237. See V. Krahn, in Florence 2014, pp. 372–75, cat no. 32 who further notes
the similarity between the Hercules appearing in outline leaning on his club at
right in the unfinished print by Niccolò della Casa (Fiorentini and Rosenberg
2002, p. 36, fig. 19), and Bandinelli’s Hercules with the Apple of the
Hesperides, c. 1545, in the Bargello in Florence (ibid., pp. 372–75, cat. no.
32, repr.). There are many other engraved representations of Hercules subjects
by or based on Bandinelli, who evidently planned a series, as noted by Roger
Ward (in Cambridge 1988, p. 74, under cat. no. 42). See also M. Zurla, in
Florence 2014, pp. 388–93, cat. nos 37–39. Weil-Garris 1981, p. 237; Houston
and Ithaca 2005–06, p. 34. Campidoglio – freely interpreted by artists like
Amico 92 93 Fig. 5. Giovanni Antonio da Brescia (fl. 1490–1519),
The Belvedere Torso with Legs and Feet, as Hercules, c. 1500–20, engraving, 166
× 103 mm, The British Museum, Department of Prints and Drawings, London,
1845,0825.258 Fig. 6. Baccio Bandinelli, Laocoön, pen and brown ink, 1520s, 417
× 265 mm, Uizi, Florence, inv. 14785 F (recto) 4a. Jan van der Straet,
called Johannes Stradanus (Bruges 1523–1605 Florence) The Practice of the
Visual Arts 1573 Pen and brown ink with brown wash and white heightening with
touches of grey, incised for transfer 436 × 293 mm Inscribed recto, l.c., in
pen and brown ink, in reverse sense: ‘io stradensis flandrvs in 1573 cornelie
cort excv’ provenance: Sir H. Sloane bequest, 1753. literature: Hind and Popham
1915–32, vol. 5, p. 182, no. 1; Ameisenowa 1963, p. 58; Wolf-Heiddeger and
Cetto 1967, p. 171, no. 73, repr. on p. 431; Heikamp 1972, p. 300 and fig. 1 on
p. 302; Heidelberg 1982, p. 29, no. 52, pl. 1 on p. 17; Sellink 1992, p. 46;
Rotterdam 1994, pp. 195–99 (in Dutch), pp. 200–05 (in English), fig. a on p.
204; Baroni Vannucci 1997, pp. 63–64, 247, no. 313, repr. on p. 246.
exhibitions: Florence 1980, p. 213, no. 523, not repr. (G. G. Bertelà); London
1986, no. 144, repr. on p. 193 (N. Turner); Ottawa, Vancouver and elsewhere
1996–97, pp. 148–49, no. 39 (M. Kornell); London, Warwick, and elsewhere
1997–98, pp. 19, 25, 119, no. 142 (D. Petherbridge and L. Jordanova); London
2001–02, p. 21, no. 4 (M. Bury); Bruges 2008–09, pp. 227–28, no. 20 (A.
Baroni). The British Museum, Department of Prints and Drawings, London,
SL,5214.2 exhibited in london only 4b. Cornelis Cort (Hoorn 1533–before 1578
Rome) After Jan van der Straet, called Johannes Stradanus (Bruges 1523–1605
Florence) The Practice of the Visual Arts 1578 Engraving State I of II1 432 ×
295 mm Inscribed recto, l.c., on wooden box: ‘Cornelius Cort fecit. / 1578’;
along bottom: ‘Illmo et Exmo Dn ́o Iacobo Boncompagno Arcis Praefecto,
ingenior, ac industriae fautori, Artiú nobiliú praxim, á Io, Stradési Belga
artifiosè expressá, Laureti’ Vaccarius D.D. Romae Anno 1578.’; u.r.: ‘PICTVRA’;
c.l. on table in background: ‘FVSORIA’; u.c. below statue: ‘STATV ARIA’; l.l.
on table: ‘ANATOMIA’; below statue of horse: ‘SCVLPTVRA’; c.r. on book on
table: ‘ARCHITECTVRA’; r. on paper on table: ‘Typorum eneorum / INCISORIA’;
l.c. on stool: ‘Tyrones pi / cture’. provenance: possibly entered Rijksmuseum
collection late 19th century (L.2228)2 literature: Hind and Popham 1915–32,
vol. 5, p. 182; Bierens de Haan 1948, p. 199, no. 218, fig. 53; Hollstein
1949–2001, vol. 5, p. 58, no. 218, repr.; Ameisenowa 1963, p. 58;
Wolf-Heiddeger and Cetto 1967, pp. 171–72, no. 74, repr. on p. 431; Heikamp
1972, p. 300, fig. 2 on p. 302; Strauss 1977, vol. 1, pp. 278–79, repr.;
Florence 1980, p. 213; Parker 1983, pp. 76–77, repr. (as state II); Roman 1984,
pp. 88–91, fig. 69; Strauss and Shimura 1986, p. 249, 218.199; Liedtke 1989, p.
190, no. 53, repr. on p. 191; Sellink 1992, p. 46, fig. 18 on p. 47; Rotterdam
1994, pp. 195–99 (in Dutch), pp. 200–205 (in English), no. 69; Ottawa,
Vancouver and elsewhere 1996–97, pp. 148–51, no. 40; Baroni Vannucci 1997, pp.
63–64, 436, no. 772; Sellink and Leeflang 2000, part 3, pp. 118–19, no. 210; London
2001–02, pp. 18–21, no. 3; Munich and Cologne 2002, pp. 321–22, no. 112; Wiebel
and Wiedau 2002, p. 154, repr. on p. 155; Perry Chapman 2005, p. 116, fig. 4.7
on p. 117. exhibitions: Vienna 1987, p. 320, no. VII.25 (M. Boeckl); Amsterdam
2007, no. 5 (C. Smid and A. White); Bruges 2008–09, no. 21 (A. Baroni); Compton
Verney and Norwich 2009–10, pp. 18–19, no. 16. their careers in Italy. Jan van
der Straet was born in Bruges in 1523, but we know very little of his life
before he arrived in Italy around 1545.4 He settled in Florence but worked in
both Rome and Naples, and became a close collaborator of Giorgio Vasari
(1511–74), assisting him in the decoration of the Palazzo Vecchio and at Poggio
a Caiano. Like Vasari, Van der Straet was immensely versatile, working on
paintings and portraits, making cartoons for tapestries and creating hundreds
of designs for prints. He died in Florence in 1605, and is better known to
posterity by the Italianised version of his name, Johannes Stradanus. He
nevertheless maintained his Flemish identity by signing his works with
variations of ‘FLANDRUS’, as seen in the exhibited drawing; however, it is
difficult to decipher, because Stradanus wrote the inscrip- tion in reverse.
This is clear evidence that the drawing was intended as a design for a print.
All the figures use their left hands, which is further proof, as are the clear
indentation lines made to transfer the design to the plate. Stradanus’
inscription is dated 1573, and includes the name of the Dutch- man Cornelis Cort,
who would engrave the drawing five years later, in 1578.5 Cort is first
documented working in the printing house of Hieronymous Cock (c. 1510–70) in
Antwerp, around 1553, before he travelled to Italy in 1565.6 At first he worked
in Venice, where he formed a famous partnership with Titian (c. 1488–1576), but
he later moved to central Italy. Cort probably met Stradanus in 1569 in
Florence, where the Medicis had requested his presence to engrave their family
tree.7 In the engraving, Cort moved his own name to the block at the centre
foreground, where he also inscribed the date 1578. Stradanus’ inscription was
replaced by one from the publisher, Lorenzo Vaccari (active 1575–87),
dedicating the work to Giacomo Boncampagni, Prefect of the Castel Sant’Angelo
and son of the newly appointed Pope Gregory XIII (r. 1572–85).8 Cort made
several further changes to Stradanus’ design, the most obvious of which are the
inscriptions added to clarify the various activities being conducted around the
room. Thus we can identify the three arts of disegno taking place in one
institution, with painting (‘PICTVRA’) on the wall, sculpture (‘STATVARIA’ and
‘SCVLPTVRA’) on the plinths in the centre, and architecture (‘ARCHITECTVRA’),
which is given short shrift, repre- sented only by the man seated at the table
before the Venus, holding a pair of dividers. The architect is in fact
overshad- owed by the unusual addition beside him of a seated engraver, whose
burin rests on the corner of the table next to the more prominent inscription
‘Typorum eneorum INCISORIA’. Michael Bury thought this focus on engraving was
added at Cort’s urging,9 but Stradanus, as the inventor of more than 560
designs for prints, may himself have decided to place unprecedented emphasis on
the graphic arts.10 Of the three genres of painting – landscape, portraiture
and history paint- ing – the latter was considered the most admirable, and so
it is appropriate that the painting on the wall depicts an ancient battle
scene. Sculpture is depicted hierarchically, with prom- inence given to the
grand marble sculptures atop the plinth, distinguished from the lesser arts of
wax modelling and bronze casting, embodied by the rearing horse below. While
the older bearded masters are at work within their individual disciplines, their
true purpose is to guide the next generation of artists – the young,
clean-shaven students scattered around the room. The foreground is therefore
occupied with training exercises, as the pupils learn to draw after the Antique
and the human body before attempting the loftier projects of sculpture and
painting, exemplified in the upper back registers of the scene. The role of the
Antique is actually more prominent in the print than in the drawing, as the
statuette of Venus – which, like the statuettes in Bandinelli’s academies (cats
1 and 2), is probably all’antica rather than an antique original – meets the
gaze of a young pupil, whose quill is poised to draw her. This same youth in
Stradanus’ design has already filled his sheet with repeated sketches of eyes.
This reflects a different practice, referred to as the ‘alphabet of drawing’,
in which students were encouraged to start with the smallest part of the human
body, usually the eyes, gradually building up a repertoire of the individual
parts before assembling them into more complex configurations. In the same way,
a writer must first learn the alphabet and how to form indi- vidual letters
into words before being able to construct sentences. Benvenuto Cellini
(1500–71) described this as a common practice: ‘The teachers would put a human
eye in front of those poor and most tender youths as their first step in
imitating and portraying; this is what happened to me in my childhood, and
probably happened to others as well’ . 1 1 His statement is corroborated not
only by Stradanus’ drawing, but by a similar youth in Pierfrancesco Alberti’s
(1584–1638) etching of a studio (cat. 2, fig. 1) and by a sheet of eyes from
Odoardo Fialetti’s (1573–1638) drawing-book (p. 34, fig. 37). Stradanus
repeated the youth and his drawing of eyes in another design for a print, which
appeared in a series called Nova Reperta, published by Philips Galle (1537–
1612) in the 1590s (fig. 1). This ‘A B C ’ technique of drawing, as well as the
important role of the Antique, were codified in Federico Zuccaro’s (c.
1540–1609) first statutes for the Accademia di San Luca, ‘re-founded’ in Rome
in 1593.12 The idea of progressing from simple elements to a complex whole
originated with Leon Battista Alberti (1404–72), and he recommended a similar
method for the study of human anatomy, starting with the bones before adding
muscles and Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-BI-6381 exhibited in haarlem only This
crowded, idealised vision of a workshop for training artists is the natural
successor to the earlier academies depicted by Baccio Bandinelli (cats 1 and
2). The Antique still plays a prominent role, seen in the large marble statues
in the centre depicting Rome personified next to the river god Tiber, both
based on the well-known sculptures in the Capitoline,3 and by the statuette of
a Venus Pudica type with her back to us standing on the table in the
foreground. Equal importance, however, is accorded to the study of anatomy, 94
and the young pupils in the foreground focus their attention on the skeleton
and cadaver suspended from ropes and pulleys. This reflects the later
16th-century emphasis on the study of anatomy as an integral part of the
artist’s education , a tendency that was already evident in the skeletons
added to Bandinelli’s second academy print (cat. 2), and which is fully
realised in this scene. The drawing and print catalogued here were produced in
close collaboration by two Northern artists who both made 95 96
97 finally flesh.13 The students in Stradanus’ drawing are dili- gently
following these instructions by examining the bones of a skeleton, while a
bespectacled tutor flays the arm of a corpse to grant them a view of the
musculature. Regardless of which object they are studying, all the pupils are
engaged in drawing, considered to be the essential element in their education.
Stradanus’ design is therefore an allegory of the ideal academy, in which all
of the arts are improbably combined under one roof to offer the most
well-rounded and comprehensive instruction to the next generation of artists.
Detlef Heikamp, however, believed it to represent a specific academy, the
Accademia di San Luca in Rome, and to be the pendant to another drawing by
Stradanus, now in Heidelberg, depicting the Accademia del Disegno in Florence
(fig. 2).14 Most other scholars disagree, however, as the Accademia di San Luca
was not officially founded until 1593, exactly 20 years after the drawing was
made.15 The drawing also predates a Breve issued by Pope Gregory XIII in 1577,
urging the foundation of such an academy.16 Heikamp was correct, however, in
pointing out the Roman symbolism of this drawing, evident in the grand statue
of Rome personified, based iconographically on Minerva, flanked by the river
god Tiber and the she-wolf suckling Romulus and Remus. The Heidelberg drawing,
by contrast, is decidedly Florentine, showing Brunelleschi’s dome, the river
god of the Arno and the Florentine lion, the Marzocco. However, the two
drawings are very different Fig. 2. Johannes Stradanus, Allegory of the
Florentine Academy of Art, c. 1569–70, pen and brown ink, brown wash and white
heightening, 465 × 363 mm, Kurpfälzisches Museum der Stadt Heidelberg, Inv. Nr.
Z 5425 in size,17 and the consensus of opinion is that they are not a pair,
representing separate allegorical, idealised Roman and Florentine teaching
traditions.18 Stradanus himself was a founding member of the Accademia del
Disegno, which opened in 1563 in Florence. The study of anatomy was a central
precept of the Acca- demia, and, while acting as a consul in the winter of
1563, Stradanus was responsible for organising a dissection for the students.19
His experience guiding and shaping young Florentine artists must have informed
his designs. Perhaps Stradanus was compelled to portray such an academy in
which the three arts of disegno are exalted and glorified in order to allay
growing concerns about the status of art and artists.20 Alessandra Baroni made
the radical proposal that Cort was the driving force behind the project, and
that it was conceived around 1569 when he and Stradanus were both working in
Florence.21 The Medicis commissioned Cort to engrave their family tree, and
while he was in Florence he created a series of prints with Florentine and
Medici themes, including engravings of tombs in the Medici Chapel. Cort may
have undertaken these projects on his own initiative, and the Heidelberg
drawing would have made a fitting addition to the series. An engraving of it,
however, was never executed, perhaps because a receptive audience could not be
found, but in Rome four years later, Cort may have found a more conducive
atmosphere and convinced Stradanus to resume the endeavour. Whatever the
motiva- tion, the design proved very popular, as evidenced by the existence of
two early copies of the engraving, the first of 22 which was published in
Venice around 1580. Clearly, Italian audiences were fascinated by the subject
of art and the requisite training necessary for its creation, in which the
Antique played a pivotal role. The second state was printed 200 years later,
when the plate came into the possession of Carlo Losi, who changed the date on
it to 1773 (Bruges 2008–09, p. 229). I am grateful to Erik Hinterding, Curator
of Prints at the Rijksmuseum, for his correspondence regarding this provenance.
Bober and Rubinstein 2010, pp. 89–90, no. 42 and pp. 113–14, no. 66. Janssens
2012, pp. 9–10. Karel van Mander’s biography of Van der Straet is very brief
(Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 326–29). A better source is Borghini 1584, pp.
579–89. There is an excellent chronology of his life, including lists of the
related archival documents, in Baroni Vannucci 1997, pp. 446–51. The
inscription ‘CORNELIS CORT EXCV’ suggests that Cort had intended to publish the
print himself. He may have struggled to do so, explaining the five-year gap
between the date of the drawing and the pub- lication of the print, and it was
published by another man, Lorenzo Vaccari (Bruges 2008–09, pp. 228–29). It may
even have been published post- humously, as Cort died in 1578 (Sellink and
Leeflang 2000, part 3, p. 119). For Cort’s biography, see Thieme-Becker
1907–50, vol. 12, pp. 475–77. Cock was also the first publisher with whom
Stradanus worked, in 1567, and they had a long partnership (Baroni 2012, p.
91). Bruges 2008–09, p. 228. Boncompagni was appointed to this post in 1572,
and in April 1573 was promoted to Governor General of the Church. It is strange
that the inscrip- tion added to the print in 1578 refers to Boncompagni by the
lesser title of Prefect, which Michael Bury took as proof that the print was
more likely to have been executed in 1573, the same year as the drawing. He
thought it possible that the ‘3’ had simply been changed to an ‘8’ in the date
1578 on the stool; however there are no extant 1573 versions of the print
(London 2001–02, pp. 18, 21). London 2001–02, p. 18. Leesberg 2012a, p. 161.
Amornpichetkul 1984, p. 117 and Cellini 1731, p. 141. Cellini went on to say he
considered this a ‘poor method’ but he agreed on the means of building up the
bones of a skeleton in order to draw a successful nude. See also Aymonino’s
essay in this catalogue, pp. 33–34. Appendix, no. 7. Alberti 1972, p. 75 (book
2, chap. 36) and p. 97 (book 3, chap. 55). Heikamp 1972, p. 300. It is true
that for decades the idea for such an institution had been simmer- ing,
especially at the behest of Federico Zuccaro, a founding member of the
Accademia del Disegno in Florence. He was unhappy with its tenets and sought
reforms, eventually simply founding the Accademia di San Luca instead (Pevsner
1940, pp. 59–60). Heikamp’s theory has been rejected in London 2001–02, p. 21
and Bruges 2008–09, p. 226. The Pope decried the level of decadence in
contemporary art and blamed it on defective training of young artists, arguing
that if they had been properly instructed in both art and religion, they would
not sink to such lows (Pevsner 1940, p. 57). The Heidelberg drawing is much
larger and measures 465 × 363 mm. The figures in the Heidelberg drawing also
all use their left hands, so it must have been intended for a print; however,
no such print has come to light (London 2001–02, p. 21). Ottawa, Vancouver and
elsewhere 1996–97, p. 148. Rotterdam 1994, p. 200. Bruges 2008–09, pp. 226–27.
Bruges 2008–09, p. 229. For a list of the copies, see Sellink and Leeflang
2000, part 3, p. 119. For the practice of copying after Stradanus’ prints, see
Leesberg 2012a. 98 99 Fig. 1. Published by Philips Galle after a
design by Johannes Stradanus, Color Olivi, plate 14 in Nova Reperta series, c.
1580–1600, engraving, 201 × 271 mm, private collection 5. Federico
Zuccaro (Urbino c. 1541–1609 Rome) Taddeo in the Belvedere Court in the Vatican
Drawing the Laocoön c. 1595 Pen and brown ink, brush with brown wash, over
black chalk and touches of red chalk, 175 × 425 mm Inscribed recto in brown pen
and ink by the artist on the building in the background: ‘le camore di
Rafaello’; on the figure’s tunic in capital lettering, ‘THADDEO ZUCCHARO’;
numbered u.r. in brown ink: ‘17’. provenance: Gilbert Paignon Dijonval
(1708–92); Charles-Gilbert, Vicomte Morel de Vindé (1759–1842), see L. 2520;
Samuel Woodburn (1786–1853), 1816; Thomas Dimsdale (1758–1823), see L. 2426;
Samuel Woodburn, 1823; Sir Thomas Lawrence (1769–1830), L. 2445; Samuel
Woodburn, 1830; Sold Christie’s, London, 4 June 1860, part of lot 1074; bought
by Sir Thomas Phillipps (1792–1872); Thomas Fitzroy Fenwick (1856–1938); Dr A.
S. W. Rosenbach (1876–1952), 1930; Philip H. and A. S. W. Rosenbach Foundation
until 1978; The British Rail Pension Fund, 1978; Their sale, Sotheby’s, New
York, 11 January 1990, lot 17; Finacor, Paris; Their sale, Christie’s, London,
28 January 1999, part of lot 35 (no. 17), from whom acquired. selected
literature:1 Rossi 1997, p. 64; Acidini Luchinat 1998, vol. 1, pp. 14, 16, 22,
fig. 20; vol. 2, p. 225; Paul 2000, pp. 5–6, fig. 1; Paris 2000–01, pp. 379–80,
under no. 185 (C. Scailliérez); Silver 2007–08, p. 86; Lukehart 2007–08, p.
105; Cavazzini 2008, p. 50, fig. 26; Tronzo 2009, pp. 49, fig. 6, 52–54;
Deswarte-Rosa 2011, pp. 27–28, 31, fig. 4; Pierguidi 2011, pp. 29–30, fig. 3;
Luchterhandt 2013–14, pp. 38–39, fig. 11. exhibitions: London 1836, p. 11, no.
17, not repr.; Los Angeles 1999 (no catalogue); Rome 2006–07, pp. 159–60, no.
51 (M. Serlupi Crescenzi); Los Angeles 2007–08, pp. 24, 33–34, no. 17 (see
also, pp. 7, 40, 70, 86, 127). Fig. 1. Apollo Belvedere, Roman copy of the
Hadrianic period (117–138 ad) from a Greek original of the 4th century bc,
marble, 224 cm (h), Vatican Museums, Rome inv. 1015 Fig. 2. Laocoön, possibly a
Roman copy of the 1st century ad after a Greek original of the 2nd century bc,
marble, 242 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 1064 The J. Paul
Getty Museum, Los Angeles, 99.GA.6.17 exhibited in london only Look here, O
Judgment, how he observes the antique and Polidoro’s style as well as Raphael’s
work he studies. (Ecco qui, o Giuditio, osservando Va de l’antico, e Polidoro
il fare E l’opre insiem di Rafael studiando)2 The series of twenty drawings by
Federico Zuccaro of his older brother, Taddeo (1529–66), is a unique treasure
of Renaissance drawing.3 With cinematic realism and narrative flair, the
drawings tell the story of Taddeo’s travails and even- tual success as a young
artist in Rome in the 1540s. It begins with his heart-rending departure at
fourteen from the family home in S. Angelo in Vado, a provincial town in the
Marches, and his arrival in the Eternal City. There Taddeo sets about following
the prescribed course of study typical for any aspir- ing painter of the
period. First, he apprentices with a local painter, performing menial tasks –
preparing pigments and household chores – and finding time to draw, mostly only
at night. After being mistreated by the painter’s wife, he escapes to discover
Rome for himself. He assiduously copies statues and reliefs from classical
antiquity and the work of contem- porary masters including the frescoes in the
Logge and the Stanze of the Vatican by Raphael, the Last Judgment by
Michelangelo and façade paintings by Polidoro da Caravaggio. After much focused
and disciplined study, he triumphs victoriously with his first major success:
the painted façade of Palazzo Mattei (1548). And this is where the story ends
(Taddeo would die prematurely of illness at the age of thirty-seven). In this
drawing, number seventeen, we enter the story in medias res. Here Taddeo,
affectionately identified by name on his tunic, is at Vatican Belvedere Statue
Court studying the most iconic antique sculptures of the day: the Apollo
Belvedere on the left (fig. 1; see also pp. 25–26), the Nile and Tiber in the
centre and the object of his attention, possibly the most famous work in the
collection, the Laocoön on the right (fig. 2; see also pp. 25–26).4 With his
back turned, we peer voyeuristi- cally over his shoulder as he draws intently.
He has settled in for a day of intense study; his meagre sustenance, a small
loaf of bread and flask of wine on the ground next to him, has remained
untouched. The notion of the artist drawing inces- santly with little to eat or
drink anticipates the vivid descrip- tion of the young Gian Lorenzo Bernini
(1598–1680) who as a boy spent dawn to dusk at the statue court making copies.5
Significantly, this is the earliest known image of an artist at work at the
Belvedere, the most important and certainly the most influential collection of
classical antiquities assem- bled in the Renaissance.6 Given its unique
accessibility – unlike the collections housed in private aristocratic palaces –
it provided a sanctuary for the unencumbered study of antique statuary, which
also included recently excavated works. Thus, it served a key role in providing
an artistic instruction not just direct but exhilaratingly au courant. It also
meant that the sculptures displayed there would become famous as their images
were disseminated through prints and drawings. When Taddeo visited the
sculpture court in the 1540s, it had undergone a major renovation.7 In 1485,
under Pope Innocent VIII (r. 1484–92), a private villa was built on the hill
behind the old Vatican place, named the Belvedere (‘fair view’), for its position.
In 1503, Pope Julius II (r. 1503–13) commis- sioned the architect, Donato
Bramante (1444–1514), to incor- porate the house with the Vatican complex
thereby creating an enclosed rectangular garden courtyard, the Cortile del
Belvedere, to display his expanding antiquities collection. Wishing it to be
accessible to the public, the Pope had Bramante construct a spiral staircase
that enabled visitors to arrive at the courtyard directly, without having to
enter the palace proper.8 The courtyard was an enchanted world filled with
orange trees, fountains, an elegant loggia, and displayed in the centre of the
court, the colossal marble statues of the Nile and Tiber mounted as fountains.9
Statues including the celebrated Apollo Belvedere and the Laocoön were displayed
in especially created niches.10 Maarten van Heemskerck’s drawing in the British
Museum, c. 1532–33 (fig. 3), the earliest known view of the Cortile, gives a
sense of the space and the disposition of the sculpture displayed there.11
Immediately evident is that Federico’s al fresco evocation bears little
resemblance to Heemskerck’s and to other con- temporary descriptions of the
courtyard. The setting is now a sun-drenched rise with a vista, no t an
enclosed garden, and the statues are freed from the confines of their niches.
And yet in other ways Federico has gone to lengths to convince us of the time
period – 1540s – as we will see. In fact, so well-known was this space that
Federico needed only to refer to it in short-hand. The statues depicted would
have been instantly recognisable to any viewer and Taddeo’s location in the
Belvedere understood. Since its discovery in January of 1506 in the ground of a
private vineyard on the Esquiline near the remains of the so-called Baths of
Titus, the Laocoön group, comprising the ill-fated Trojan priest and his two
sons violently struggling to free themselves from two serpents who devour them,
was immediately venerated.12 While still in the ground, the architect and
antiquarian, Giuliano di Sangallo, sent to inspect it by Pope Julius II,
identified it as the famous statue singled out by Pliny the Elder as ‘of all
paintings and sculptures the most worthy of admiration’ (Natural History
36.37–38).13 It was installed in the Belvedere in a chapel-like recess.14 The
sculpture’s fame was instant and far-reaching. Entranced by it, Michelangelo
proclaimed it an inimitable miracle.15 Collectors eagerly sought copies,
commissioning Jacopo Sansovino (1486–1570), Baccio Bandinelli (see cat. 3) and
others to make replicas of various sizes in bronze, marble, wax, terracotta,
even gold.16 For artists, its effect was manifold. It provided an anatomical
model for the male nude that was strong, forceful and capable of dynamic
movement. The range of ages and emotions conveyed and symbolised – fear, agony,
heroism in death – also inspired emulation. Fig. 3. Maarten van Heemskerck
(1498–1574), View of the Belvedere Sculpture Court, c. 1532–36/37, pen and
brown ink, brush with brown wash, 231 × 360 mm, Department of Print and
Drawings, British Museum, London, 1946,0713.639 100 101 102
103 Epitomising human suffering, the statue became a model for portraying
martyrs from Christendom, especially in the Counter-Reformation.17 For
centuries that followed artists would imitate and infuse this muscular body
type and expres- sions in their work (cat. 16). The group’s influence endured
well into the 19th century.18 When the Laocoön was first discovered, his right
arm and that of his youngest son on the left were missing, as were among other
losses the fingers of the eldest son’s right hand. By the 1530s, the missing
appendages were restored including a terracotta arm by the sculptor, Giovanni
Antonio Montorsoli (1507–63).19 Federico’s drawn version is something of an
enigma. In some respects it appears pre-restoration: the fingers of the eldest
son on the right are still missing. But he has included part of the previously
absent right arm of the son on the left but made him hand-less. Laocoön is
shown with his right arm restored but it is out of view so the angle cannot be
determined. In any case, it seems that Federico has attempted to represent the
sculpture as he thought Taddeo and others of his generation might have first
seen it, undoubt- edly to create an air of authenticity. It is possible that he
consulted print sources such as Marco Dente da Ravenna’s ( f l . 1515–27)
Laocoön of c. 1520–23, which makes a compelling comparison.20 The perfect foil
for the Laocoön is the commanding figure of the Apollo Belvedere anchoring the
composition on the left.21 So instantly recognisable was he that Federico
needed only to indicate his lower half. Discovered at S. Lorenzo in Panisperna
in 1489, the statue was acquired by Giuliano della Rovere, Cardinal of S.
Pietro in Vincoli, the future Pope Julius II, who displayed it in the garden of
his palace next to SS. Apostoli.22 After he became Pope, it was brought to the
Vatican in 1508 and installed in a niche in the Belvedere cortile in 1511.
Based on a lost Greek bronze original, it became one of the most famous statues
to survive from antiquity and was copied by innumerable artists (see cats 6,
25, 26).23 If the Laocoön exemplified the powerful male nude body in action,
the Apollo encapsulated the qualities of its counterpart, the perfect male
youth: elegant, graceful, confident and restrained; in repose yet poised for
action. As the god Apollo he was thought to have just discharged his arrow at
the python of Delphi (see cat. 6) or else, to be on the verge of killing the
sons of Niobe with his arrows, as punishment for her boasting.24 Praised by
Vasari for its instructive importance, every aspiring artist visited the Apollo
in the Belvedere.25 The statue retained immense popularity in the centuries
that followed.26 Federico’s abbreviated description of the Belvedere Courtyard
is a clever device as it allows him to combine several episodes of Taddeo’s
self-education in the same 104 drawing and a highly sophisticated continuous
narration.27 All show Taddeo studying the Antique in various forms – free-
standing statues, narrative reliefs and contemporary works in an all’antica
style. So while the most prominent Taddeo is at work copying the Belvedere
statues, a second Taddeo is visible in the distance, perched on a window ledge
copying Raphael’s celebrated Stanze frescoes in the papal apartments in the
Vatican.28 At the far left is Trajan’s Column of 113 ad under which are
figures, including an artist sketching the famous reliefs carved on the column
shaft, presumably Taddeo again. These monuments were very distant from one
other and yet, countering this artificial structure, Federico has striven for
local historical accuracy. For example, he shows the column as it would have
appeared in Taddeo’s day, omitting the bronze statue of St Peter at the top
that was added by Sixtus V in 1588.29 Lightly sketched in the left distance is
the dome of the Pantheon and on the far right, what appears to be the Mausoleum
of Augustus of 28 bc identifiable by the trees on the summit.30 Another drawing
from the series (fig. 4) further demon- strates the importance Federico
attributed to copying after the Antique, one of the pillars of artistic
education.31 It shows Taddeo studying a relief – perhaps the right-hand front
section of a Muse sarcophagus of a type similar to an example now in the
Kunsthistorisches Museum, Vienna (p. 20, fig. 5).32 Having already sketched the
figures – possibly a Muse holding a mask and Apollo – in black chalk, he is
about to go over the contours with pen and ink. Resting on the relief is the
armless body of a male youth similar in type to the Torso of Apollon
Sauroktonos, the so-called Casa Sassi Torso now in the Museo Archeologico
Nazionale in Naples.33 In the back- ground, in another example of continuous
narration, Taddeo copies façade paintings by Polidoro da Caravaggio, who,
specialising in monochrome frescoes imitating marble or bronze reliefs,
represented another type of contemporary all’antica style, one which would
exert an enormous influence on Taddeo’s own approach to painting.34 It is
significant that Federico executed the Taddeo series in the mid-1590s, around
the time that he established a reformed Accademia di San Luca of which he was
elected president in 1593. Learning to draw by copying the work of others – the
Antique, Michelangelo, Raphael and Polidoro da Caravaggio – was already a key
phenomenon of Renaissance workshop practice. Federico codified this practice
further by making such a disciplined approach to drawing central to the
curricu- lum.35 Successful learning also required virtue and hard work – fatica
– both physical and intellectual, and such quali- ties are extolled in
Federico’s drawings of Taddeo.36 According to the guidelines Federico wrote for
the academy, students were required to ‘go out during the week drawing after
the antique’ (see Appendix, no. 7).37 It is significant that in the final image
of the series (fig. 5), an allegorical personification of Study – represented
by a young man diligently copying an antique male torso with other sculptures –
flanks the left side of the Zuccaro family emblem.38 He is joined by
Intelligence on the right. Along with training, Federico was also concerned
with the welfare of young artists and proposed reforms to the artists’ academy
in Florence, the Accademia del Disegno.39 At his death in 1609, he intended the
family palace, the Palazzo Zuccari (now the Bibliotheca Hertziana, Max Planck
Institute for Art History) to house young, struggling artists in Rome, so that
they would not suffer as Taddeo had.40 Appropriate in subject matter, the
drawings may well have prepared a complex arrangement of paintings for the
walls of the palace’s Sala del Disegno.41 This might account for the present
drawing’s unusual dumbbell format.42 Regardless of its intended purpose, the
Early Life of Taddeo series, a touching tribute to one brother from another,
sends a clear message. Drawing, especially after the Antique in all its various
forms, was the cornerstone of artistic education in 16th-century Italy and was
to become a canonical activity throughout Europe in the centuries that
followed. As one of the first great illustrations of this phenomenon in
practice, the present drawing is an ideal visual representation of this
exhibition’s theme. avl Fig. 4. Federico Zuccaro, Taddeo Drawing after
the Antique; in the Background Copying a Façade by Polidoro, c. 1595, pen and
brown ink, brush with brown wash, over black chalk and touches of red chalk,
423 × 175 mm, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, 99.GA.6.12 Fig. 5.
Federico Zuccaro, Allegories of Study and Intelligence Flanking the Zuccaro
Emblem, c. 1595, pen and brown ink, brush with brown wash, over black chalk and
touches of red chalk, 176 × 425 mm, The J. Paul Getty Museum, Los Angeles,
99.GA.6.20 105 1 Additional bibliography for the drawings in the series
up to 1999 is given in the catalogue of the Christie’s sale, London, 28 January
1999, p. 70, lot 35. 2 This poem written by Federico Zuccaro to accompany this
drawing appears on the back of another sheet in the series (Los Angeles
2007–08, p. 34, no. 18, 40). Translation by J. Brooks (ibid., pp. 33–34). 3 The
Early Life of Taddeo series, acquired by the J. Paul Getty Museum in 1999, was
the subject of an exhibition and in-depth catalogue by J. Brooks (Los Angeles
2007–08). 4 For the Tiber and the Nile see Haskell and Penny 1981, pp. 272–73,
no. 65 and pp. 310–11, no. 79; Klementa 1993, pp. 9–51, nos A1–A39, pls 1–18;
pp. 52–71, nos B1–B15, pls 19–23. 5 See Appendix, no. 9. 6 For essential
reading on the Cortile and its history, see Ackerman 1954; Brummer 1970; Coffin
1979, pp. 69–87; Haskell and Penny 1981, pp. 7–11; Nesselrath 1994, pp. 52–55;
Nesselrath 1998a, pp. 1–16. 7 See Coffin 1979, pp. 69–87; Haskell and Penny
1981, p. 7. 8 Coffin 1979, p. 82. 9 For the two Rivers, see above, note 4. 10
For statues in their niches, see Haskell and Penny 1981, p. 11, fig. 4, and
Bober and Rubinstein 2010, fig. 122c. 11 First published as Heemskerck in
Winner and Nesselrath 1987, p. 867; see also M. Serlupi Crescenzi, in Rome
2006–07, pp. 148–49, no. 37. For a sense of the atmosphere, see the painting by
Hendrik III van Cleve (1524–89), 1550, in the Musées Royaux des Beaux-Arts de
Belgique, Brussels (M. Serlupi Crescenzi, in Rome 2006–07, pp. 146–47, no. 34),
see Aymonino’s essay in this catalogue, p. 26, fig. 21. 12 For the group, see
Haskell and Penny 1981, pp. 243–47, no. 52; Bober and Rubinstein 2010, pp.
164–68, no. 122, Pasquier 2000–01b and the exhibition catalogue devoted to it,
Rome 2006–07. 13 Haskell and Penny 1981, p. 243; M. Buranelli, in Rome 2006–07,
pp. 127–28, no. 13. 14 Coffin 1979, p. 82; Haskell and Penny 1981, p. 243. 15
Bober and Rubinstein 2010, p. 165, see also Aymonino’s essay in this catalogue,
p. 28. 16 Haskell and Penny 1981, p. 244 and Settis 1998, pp. 129–60. 17
Ettlinger 1961, pp. 121–26; Brummer 1970, pp. 117–18; Bober and Rubinstein
2010, p. 166. 18 For the statue’s critical reception, see Bieber 1967;
Brilliant 2000; Décultot 2003 and Rome 2006–07. 19 Haskell and Penny 1981, pp.
246–47; Nesselrath 1998b, pp. 165–74; Bober and Rubinstein 2010, p. 165.
Montorsoli’s additions were removed in 1540 when Primaticcio made a mould of
the group unrestored to prepare a cast in bronze for Francis I (Rome 2006-07,
pp. 150–51, no. 40). The additions were then put back. 20 Oberhuber 1978, p.
50, no. 353 (268); T. Schtrauch, in Rome 2006–07, pp. 152–53, no. 42. 21 For
their juxtaposition, see Tronzo 2009, pp. 49–55. 22 According to a document
published by Fusco and Corti 2006 (Appendix I, 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33
34 35 36 37 38 39 40 41 42 p. 309, doc. 112; see also pp. 52–56). For the
statue, see Haskell and Penny 1981, pp. 148–51, no. 8; Bober and Rubinstein
2010, pp. 76–77, no. 28. In 1532–33 Montorsoli replaced the existing right arm
and restored the hands (Bober and Rubinstein 2010, p. 77). Federico presents it
in its restored state with bow. Haskell and Penny 1981, p. 150. Bober and
Rubinstein 2010, p. 76; Vasari’s preface to Part III of the Lives, 1568 ed.
(Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 4, p. 7). See Roettgen 1998, pp. 253–74.
He employs the same device in other drawings in the series (Los Angeles
2007–08, p. 7). Federico indicates the location on the drawing itself with the
inscription, le camore di Rafaello (the rooms of Raphael). Another drawing in
the series shows him copying the frescoes in the loggia of the Villa Farnesina,
see Los Angeles 2007–08, pp. 20, 32, no. 13. For the column, its reliefs and
history, see Bober and Rubinstein 2010, pp. 208–10, no. 159. Francesco Soderini
purchased the Mausoleum in 1546 in order to transform the tomb into a garden
museum with antique statuary. See Riccomini 1995, especially p. 267, fig. 91
(Etienne Du Pérac’s engraving, 1575) and p. 271, fig. 95 (Alò Giovannoli’s
engaving, 1619) and Riccomini 1996. Los Angeles 2007–08, pp. 19, 31–32, no. 12.
For essential reading on Taddeo, Federico and the antique and the absorption of
it in their work, see Silver 2007–08, pp. 86–91. Wegner 1966, pp. 88–89, no.
228, plates 11–12. Los Angeles 2007–08, p. 31. In Taddeo’s time the torso
(CensusID 159347 and Ruesch 1911, p. 158, no. 491) was in the courtyard of the
Sassi family palace displayed in a niche as seen in Heemskerck’s famous view
reproduced in etching (Paris 2000–01, pp. 360–62, no. 169, entry by C.
Scailliérez). For Polidoro and the Zuccari, see Los Angeles 2007–08, pp. 71–77.
Armenini had already advised artists to copy Polidoro’s frescoes (1587, p. 58,
book 1, chap. 7). Alberti 1604, p. 7. See also Armenini, 1587, pp. 52–59 (book
1, chap. 7). See also Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 32–33 Rossi 1997,
pp. 66–68. Alberti 1604, p. 8 (‘e chi andarà frà la settimana dissegnando
all’antico’), cited and translated in Silver 2007-08, p. 86). Los Angeles
2007–08, pp. 27, 35, no. 20. Ibid., p. 2. Ibid. For previous arguments on the
topic and a fascinating hypothetical recon- struction of the Sala del Disegno,
see Strunck 2007–08, pp. 113–25. The shape is adapted slightly in a version of
the present drawing in the Uffizi, Florence, of similar dimensions (Paris
2000–01, pp. 379–80, no. 185 (entry by C. Scailliérez), believed by Gere to be
autograph (1990, under no. 17) but by Brooks as unlikely to be and the present
author agrees. See Los Angeles 2007– 08, p. 45, note 48, where two other copies
are also noted: Biblioteca Nacional, Madrid 7656 and the other sold Phillips,
London, 9 July 2001, lot 148. 6. Hendrick Goltzius (Bracht-am-Niederrhein
1558–1617 Haarlem) a. The Apollo Belvedere 1591 Black and white chalk on blue
paper indented for transfer; 388 × 244 mm provenance: Queen Christina of Sweden
(1626–89)1; Cardinal Decio Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini
(1654–1706); Don Livio Odescalchi (1658–1713); purchased from the Odescalchi
family by the Teylers Foundation, 1790. selected literature: Reznicek 1961,
vol. 1, p. 326, no. 208, vol. 2, fig. 170; Van Regteren Altena 1964, fig. 19,
pp. 101–02, no. 32; Miedema 1969, pp. 76–77; Brummer 1970, pp. 70–71, repr.;
Stolzenburg 2000, pp. 426–27, repr., p. 439, no. 173; Brandt 2001, p. 148;
Hamburg 2002, p. 114, repr. under no. 33; Amsterdam, New York and elsewhere 2003–04,
p. 269, repr.; Bober and Rubinstein 2010, p. 77, under no. 28; Leesberg 2012b,
vol. 2, p. 370 under no. 380; Göttingen 2013–14, pp. 22–23, fig. 6; Nichols
2013a, pp. 56, 84, fig. 54; Veldman 2013–14, p. 105. exhibitions: Münster 1976,
p. 138, no. 111, p. 140, repr. Teylers Museum, Haarlem, inv. no. K III 23
exhibited in haarlem only b. Apollo Belvedere 1592 Engraving, 412 × 300 mm
State II of II Inscribed on the base of the statue: ‘HG sculp. APOLLO PYTHIUS
Cum privil. Sa. Cæ. M.’. With the address of the printer at right ‘Herman
Adolfz excud. Haerlemens.’. Inscribed with two lines in the lower margin, at
centre: ‘Statua antiqua Romae in palatio Pontificis belle vider / opus
posthumum HGoltzij iam primum divulgat. Ano. M.D.C.X.VII.’.2 Two Latin distichs
by Theodorus Schrevelius in margin l.l. and l.r.: ‘Vix natus armis Delius
Vulcaniis / Donatus infans, sacra Parnassi iuga’ / ‘Petii. draconem matris
hostem spiculis / Pythona fixi: nomen inde Pythii. Schrevel’.3 Numbered in l.l.
corner: ‘3’. Published by Herman Adolfsz. (fl. 1607) in 1617 provenance: P.
& D. Colnaghi Co., London, from whom acquired in 1854. literature: Bartsch
1854–76, vol. 3, p. 45, no. 145; Hirschmann 1921, pp. 60–61, no. 147; Hollstein
1949–2001, vol. 8, p. 33, no. 147.II, repr.; Strauss 1977, vol. 2, pp. 566–67,
no. 314, repr.; Leesberg 2012b, vol. 2, p. 370, no. 380, pp. 373–74, repr.
exhibitions: Not previously exhibited. The British Museum, Department of Prints
and Drawings, London, 1854,0513.106 106 107 It was undoubtedly at the urging of
Karel van Mander (1548– 1606), his friend and fellow Haarlem artist, that
Hendrick Goltzius left for Rome in 1590 in order to study the remnants of
classical antiquity and the works of modern Italian masters.4 He was already
thirty-two years old. Northern artists usually went south when they were much
younger, sometimes even half that age. The tradition of artists travel- ling
from Northern Europe to Italy, eager to learn, had begun almost a century
earlier with Jan Gossaert, called Mabuse (c. 1472–1532). Other well-known Dutch
artists who had derived inspiration from antique remains in Rome and who had
produced drawings after them, were Jan van Scorel (1495–1562) and above all,
Maarten van Heemskerck (1498– 1574), also a native of Haarlem.5 Like these
artists Goltzius travelled to Rome as a mature draughtsman, eager to deepen his
knowledge and see with his own eyes the works of art of which he had heard so
much. It was probably family obligations and his flourishing print workshop
that had delayed his Italian trip for so long. Finally in 1590–91, hoping for
relief from the consumptive state of his health, Goltzius made the long
anticipated journey.6 We know from Van Mander that on arriving in Rome,
Goltzius concentrated almost exclusively on drawing the most important
classical sculptures carefully and industri- ously.7 Goltzius was now a
celebrity, for his prints had spread his fame throughout Europe, but he
travelled largely incognito. In Rome, for example, he donned rustic garb in
order to blend in with pupils and amateurs drawing from the Antique. According
to Van Mander, they looked at him pityingly until they saw what he was capable
of, whereupon they started asking him for advice.8 Although this story may be a
topos – art-loving Italy values a gifted outsider – it is not hard to imagine
such an encounter when one considers Goltzius’ Roman drawings.9 Forty-three of
Goltzius’ drawings after thirty different classical statues survive, plus one
after Michelangelo’s Moses; all are preserved in the Teylers Museum in
Haarlem.10 In the short time at Goltzius’ disposal – he was only in Rome for
seven months – he managed to copy all the most impor- tant sculptures, in both
public and semi-public locations 108 109 such as churches
and papal palaces, and in some private collections.11 He must have prepared
thoroughly for his drawing expedition and have studied travel books and prints
before his departure. Certainly at his disposal would have been Maarten van
Heemskerck’s Roman sketchbook, now in the Berlin Kupferstichkabinett, but then
owned by his fellow Haarlem artist, Cornelis Cornelisz. van Haarlem (1562–1638)
(see p. 35, figs 39–43 and cat. no. 8).12 Strikingly Goltzius’ selection more
or less corresponded with the antique statues described in travel literature.13
Evidently, a canon of the most outstanding classical statues in Rome had
already been established and disseminated to the North and although this canon
would later be expanded, most of the statues drawn by Goltzius in 1591
continued to remain popular models for artists in subsequent centuries (see
cat. nos 14–16, 21, 25–27 and 31). Goltzius did not make his drawings merely as
an exercise. The artist and printshop owner was well aware of the importance of
those statues for their reproductive potential. He must have envisaged a series
of engravings from the very outset and that is why he went to such lengths to
select the most celebrated and, by then, canonical sculptures. The series he
had in mind would have rivalled existing print series of antique sculptures in
Rome, such as Antoine Lafréry’s Speculum Romanae Magnificentiae, published
between 1545 and 1577 (fig. 1), or Giovanni Battista de’ Cavalieri’s Antiquarum
Statuarum Urbis Romae, published between the 1560s and the 1590s.14 Cavalieri’s
reproductions were printed on small plates, without backgrounds, and
incorporated little information about the sculptures in their locations; the
lighting is not consistent and there is a lack of naturalism in the statues’
rendering. While the differences between Lafréry’s reproductions and what
Goltzius planned to create are less striking, the burin technique is more
refined in Goltzius’ works, his rendering of the statues more realistic and his
prints fractionally larger; moreover, he generally represented the statues from
closer vantage points, thereby creating more engaging compositions.15 What
audience did Goltzius have in mind when he produced his drawings and his
prints? While Cavalieri and Lafréry’s publications were mainly intended for
antiquaries and art lovers, Goltzius seems to have aimed at a broader audience
encompassing artists as well as amateurs. This is supported by his
emphasis on anatomical precision and the sculptures’ three-dimensional
character, rather than accu- racy of reproduction – he sometimes omitted
inscriptions, for example (see cat. 8); the presence of the draughtsman in the
print displayed is also significant in this connection. Goltzius’ project was
timely for around this period a market seems to have been developing for prints
after 110 publication, but found himself overwhelmed with other projects. In
most of his drawings after antique sculpture, Goltzius began with a sketch in
black and white chalk on bluish-grey paper, like this drawing of Apollo
Belvedere. The trial-and- error lines by the figure’s legs and waist suggest
that he had difficulty deciding on a vantage point. He would then have used a
stylus to indent the contours of that sketch onto a second sheet of paper, on
which he subsequently produced an extremely precise drawing of the statue. That
second version in red chalk, unfortunately now lost, would have served as the
model for the engraver. Teylers Museum has both drawings for the Farnese
Hercules Seen from Behind (see cat. 7a and fig. 2) but at some point Goltzius’
second version of the Apollo Belvedere was separated from the group that ended
in the Teylers Museum,20 for in the early 18th century it belonged to the
famous collector Valerius Röver (1686– 1739) of Delft,21 and was listed in his
inventory: ‘The Apollo, with red chalk, transferred to the copper by Goltzius,
which print is herewith attached, fl. 3:10’.22 The engraving is in the same
direction as the black chalk drawing, and the size of the statue is identical
in both.23 The most striking difference between them is the rendering of
volume. The statue appears a little flat in the drawing, while in the print it
is highly sculptural, with a keenly observed interplay between light and shade
across the form lending relief and depth to the engraving. As noted above,
Goltzius would have developed these features in the lost red chalk version of
the subject. It may be that this lost drawing also incorporated the draughtsman
seen in the lower right corner of the print, and the large cast shadow on the
left, accessories and details that Goltzius tended to vary from work to work.
In any event, these added elements reinforce the sense of depth; the
draughtsman also conveys an idea of the scale of the statue (see cat. 7). But
perhaps Goltzius added the young draughtsman for yet another reason. His
rendering of this figure is so direct, so true to life, that it appears to be a
portrait. The two small figures in his reproduction of the Farnese Hercules are
also represented in a fashion which suggests that these too are portraits (cat.
7, fig. 4). It seems that in Rome Goltzius asked a local artist, Gaspare Celio
(1571–1640), to draw copies of both classical and modern artworks for him and
they may have drawn some works together.24 Could this figure be Celio? Pure
speculation, of course, for remarkably little is known about this mysterious
individual.25 At any rate the figure of the draughtsman is seated exactly as
Goltzius must have positioned himself, although at a different angle, employing
the same technique (n.b. the porte-crayon), the same format paper and probably
the same travel board. And this may point to another reason for Goltzius’
introduction of the young draughtsman: to emphasise the didactic inten- tion of
the series and to convey the message that these prints allowed artists to draw
the finest Roman sculptures, just like the draughtsman in the image, without
having to go to Rome. Whatever the reason for this figure’s inclusion, his
presence demonstrates – as does Van Mander’s story of Goltzius amidst younger
artists – that during this period the copying of antique sculptures in Rome was
very widespread. The Apollo Belvedere is a Roman copy of a Greek original by
Leochares from c. 330–320 bc. The copy probably dates from the reign of Hadrian
(117–138 bc). In the late 15th cen- tury the Apollo was in the collection of
Cardinal Giuliano della Rovere, who, as Pope Julius II, placed it in the
Belvedere, where it was displayed in the small Cortile delle Statue (see p. 26,
fig. 21 and cat. 5). The Apollo Belvedere soon became one of the most famous
sculptures in the collection and was drawn by many artists. Prints of the
sculpture by Agostino Veneziano (c. 1518–20, see p. 28, fig. 29), Marcantonio
Raimondi (c. 1530) and Goltzius himself (c. 1617), among others, ensured that
its fame spread throughout Europe. However, the Apollo’s prestige began to fade
in the 19th century and nowadays the sculpture, while well-known to art
historians is less appreciated by the general public.26 Fig. 1. Anonymous
engraver after Marcantonio Raimondi, published by Antoine Lafréry, Apollo
Belvedere, 1552, engraving, 323 × 228 mm, Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-H-232
antique statues for artists to employ as models. Between 1599 and 1616
Goltzius’ stepson Jacob Matham published the first known printed sketchbook
after the Antique, Verscheijden Cierage,16 intended, according to its title
page, for an interna- tional public of artists and amateurs.17 And it seems
likely that Goltzius envisaged the same international audience for his
projected series, perhaps particularly young students in Northern Europe – and
no doubt his own pupils – who were not able to undertake the trip to Rome but
could use his engravings as models.18 It was probably in 1592, soon after his
return from Italy, that Goltzius embarked on the print series, engraving after
his own drawings three of the statues: the Farnese Hercules Seen from Behind
(cat. 7), Hercules and Telephus and this Apollo Belvedere. It is unlikely that
Goltzius was disappointed with the results but he progressed no further with
the project and never officially printed the plates which were published
posthumously in 1617, bearing the address of the Haarlem publisher Herman
Adolfsz.19 We do not know why Goltzius did not publish these prints in his
lifetime but it may have been the result of excessive ambition. He probably
hoped to market a much longer series of prints in a single 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
11 12 13 14 15 16 mp I. M. Veldman revealed the Rudolf II provenance for
Goltzius’ Roman portfolio to be a myth. A more logical provenance might be, as
Veldman suggests, through Jacob Matham (1571–1631), Theodor Matham (1605/06–
76), Joachim von Sandrart (1606–88) and/or Pieter Spiering (1594/97–1652):
Veldman 2013–14, pp. 109–13. ‘An antique statue in Rome, in the Pope’s
Belvedere Palace; a work by H. Goltzius that is now being published
posthumously for the first time, in the year 1617’. ‘Barely born, I, Apollo of
the island of Delos, received arms from Vulcan; I sought the sacred heights of
Parnassus; with my arrows I pierced the dragon Python, my mother Leto’s enemy;
thus it is that I bear the name “Pythian”’. I wish to thank Professor Ilja
Veldman, who generously put at my disposal her Goltzius entries for the
forthcoming catalogue of the 16th-century Netherlandish drawings in the Teylers
Museum, which she is preparing with Yvonne Bleyerveld. For the early tradition
of Northern European artists going to Rome (includ- ing Gossaert, Van Scorel
and Van Heemskerck), see Brussels and Rome 1995. Van Mander 1994–99, vol. 1,
pp. 388–89 (fol. 282 verso). Ibid., pp. 390–91 (fol. 283 recto). Ibid. Luijten
2003–04, p. 123. Reznicek 1961, vol. 1, pp. 89–94, pp. 319–46, nos 200–38;
245–48. From the 1689–90 inventory of Goltzius drawings owned by Queen
Christina of Sweden it is known that Goltzius also produced (now lost) drawings
of two famous antique figures, the Spinario (now in the Capitoline Museums,
Rome, see p. 23, fig. 15) and the Farnese Bull (now in the Museo Archeologico
Nazionale, Naples); see Stolzenburg 2000, p. 437, nos. 140–41, p. 440, no. 180
and Veldman 2013–14, p. 101. Veldman 2012, pp. 11–23. Reznicek 1961, p. 90;
Brandt 2001, p. 136. Haskell and Penny 1981, p. 18; Brandt 2001, p. 136. Brandt
2001, pp. 143–46. Fuhring 1992, pp. 57–84. 111 17 Ibid., pp. 64–65, p.
76, pl. 1. 18 It is tempting at this point to think of the ‘Haarlem Academy’,
of which Goltzius was a member before his departure for Italy as a true
academy, where artists could draw from life and presumably also after
sculptures. However, in all probability this ‘academy’ comprised no more than
three artists: Karel van Mander, Cornelis Cornelisz. and Goltzius. See also
cat. 8. 19 Leesberg 2012b, vol. 2, pp. 368–75, nos 378–80; Luijten 2003–04, pp.
119–20. 20 For the provenance of the drawings see Stolzenburg 2000 and Veldman
2013–14. 21 Van Regteren Altena 1964, pp. 101–02, under no. 32. 22 ‘De Apollo,
met rootaarde, door Goltzius int koper gebragt, welke print hierbij gevoegt is,
f 3:10.’ See the manuscript catalogue by Valerius Röver in the Amsterdam University
Library, inv.no. II A 18: Catalogus van boeken, schilderijen, teekeningen,
printen, beelden, rariteiten [1730], portefeuille 2, no. 3. 23 In view of the
incomplete right hand and the missing left hand it seems likely that the sheet
has been trimmed on the right and left, and possibly at the top as well. 24
Baglione 1642, p. 377. 25 26 All we really know is that Celio must have drawn a
copy of Raphael’s fresco, The prophet Isaiah in the San Agostino in Rome for
Goltzius (see Luijten 2003, p. 118). Goltzius used this copy for his engraving;
see Leesberg 2012b, vol. 2, pp. 292–93, no. 333, repr. For a recently published
drawing by Celio in the Uffizi Gallery in Florence, with a parade carriage of
his own design incorporating pyrotechnic features, see Stemerding 2012, pp.
13–17. For the history and the fortuna critica of the Apollo Belvedere: Haskell
and Penny 1981, pp. 148–51, no. 8; Bober and Rubinstein 2010, pp. 76–77, no.
28. Regarding the sculpture’s reputation today, which some describe as
bordering on total neglect, Kenneth Clark observed in 1969: ‘. . . for four
hundred years after it was discovered the Apollo was the most admired piece of
sculpture in the world. It was Napoleon’s greatest boast to have looted it from
the Vatican. Now it is completely forgotten except by the guides of coach
parties, who have become the only surviving transmitters of traditional
culture.’ Clark 1969a, p. 2. 7. Hendrick Goltzius (Bracht-am-Niederrhein
1558–1617 Haarlem) a. The Farnese Hercules Seen from Behind 1591 Red chalk,
indented for transfer, 390 × 215 mm. Verso: Design lightly traced in black
chalk from recto. The upper corners cut. literature: Scholten 1904, p. 40, cat.
N 19; Hirschmann 1921, p. 59; Reznicek 1961, vol. 1, p. 337, cat. K 227, vol.
2, fig. 179; Miedema 1969, pp. 76–77, repr. (recto and verso); Schapelhouman
1979, p. 67, note 3; Amsterdam 1993–94, pp. 361–62, under no. 24 (B. Cornelis);
Stolzenburg 2000, p. 439, no. 164; Brandt 2001, pp. 139, 144, fig. 132, p. 148;
Hamburg 2002, p. 116, under no. 34 (A. Stolzenburg) ; Leeflang 2012, pp. 24–25,
fig. 5; Leesberg 2012b, vol. 2, pp. 368–69, under no. 378; Göttingen 2013–14,
p. 210; Veldman 2013–14, pp. 102–05. exhibitions: New York 1988, pp. 58–60, no.
12; Brussels and Rome 1995, p. 204, no. 101; Luijten 2003–04, pp. 132–36, no.
42.2. Teylers Museum, Haarlem, inv. N 19 exhibited in haarlem only b. The
Farnese Hercules, 1592 (published 1617) Engraving Only state 416 × 300 mm
Lettered on the base of the statue: ‘HERCULES VICTOR’. Lettered in l.l. corner:
‘HGoltzius sculpt. Cum privilig. / Sa. Cæ. M.’ and ‘Herman Adolfz / excud.
Haerlemen’. Inscribed with two lines in the lower margin, at centre: ‘Statua
antiqua Romae in palatio Cardinalis Fernesij / opus posthumum H Goltzij iam
primum divulgata Ano M.D.CXVII.2 Two Latin distichs by Theodorus Schrevelius in
margin l.l. and l.r.: ‘Domito triformi rege Lusitaniae / Raptisque malis, quae
Hesperi sub cardine / Servarat hortis aureis vigil draco, / Fessus quievi
terror orbis Hercules.’3 Numbered in l.l. corner: ‘1’. provenance: Bequest of
Carel Godfried Voorhelm Schneevoogt (1802–77), Haarlem. literature: Bartsch
1803–21, vol. 3, pp. 44–45, no. 143; Hirschmann 1921, pp. 58–59, no. 145;
Hollstein 1949–2001, vol. 8, p. 33, no. 145, repr.; Strauss 1977, vol. 2, pp. 562–63,
no. 312, repr., p. 569; Leesberg 2012b, vol. 2, pp. 368–69, no. 378, repr. 112
113 1 Odescalchi (1658–1713); purchased from the Odescalchi family by the
Teylers Foundation, 1790. provenance: Queen Christina of Sweden (1626–89);
Cardinal Decio Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini (1654–1706); Don
Livio exhibitions: Not previously exhibited. Teylers Museum, Haarlem, inv. KG
02263 The Farnese Hercules, which bears a Greek inscription naming ‘Glykon of
Athens’, a sculptor unknown in classical litera- ture, was one of the most
famous statues in Rome from the time of its discovery until the end of the 19th
century (fig. 1).4 The first certain mention of it dates from 1556, when it
stood in Palazzo Farnese.5 The fragments, unearthed at different times, must
have been reassembled shortly before. The head was found in a well in
Trastevere, probably around 1540. The torso was discovered six years later in
the Baths of Caracalla, followed by the legs.6 However, the legs emerged too
late to be incorporated in the statue because it had already been ‘restored’
and given new ones by Guglielmo della Porta (1500/10–1577). Oddly enough,
Michelangelo allegedly appealed to the Farnese family to leave the new legs in
place and not replace them with the originals, ‘in order to show that works of
modern sculpture can stand in compari- son with those of the ancients’.7 The
statue recovered its original legs only in the 18th century. In addition to the
Palazzo Farnese, Goltzius drew studies on the Capitol, the Quirinal and in the
Belvedere statue court (see cats 6, 8). He had an ambitious plan for his
drawings: they were to prepare a series of high-quality and accurate engravings
of the most important classical statues, on a scale not previ- ously
attempted.8 The importance he attached to the project is evident from the care
he lavished on many of his drawings. In preparation for this one, which is in
red chalk, he first made an equally large, slightly freer and more loosely
drawn black chalk version on blue paper (fig. 2; see cat. 6a). He then indented
the contours through onto the white sheet on which he made the present drawing.
The contours are conse- quently razor-sharp. He then exercised phenomenal skill
in depicting the statue’s volume and the smooth texture of the marble with a
subtle interplay of light and shade. He achieved this by leaving reserves of
white paper, by alternating pressure on the chalk and by stumping it here and
there so that individual strokes are no longer visible.9 114
115 Fig. 1. The Farnese Hercules, back view, Roman
copy of the 3rd century ad of a Greek original of the 4th century bc, 317 cm
(h), Museo Archeologico Nazionale, Naples, inv. 6001 Fig. 2. Hendrick Goltzius,
The Farnese Hercules seen from Behind, 1591, black and white chalk on blue
paper indented for transfer, 360 × 210 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. K III
30 Fig. 3. Hendrick Goltzius, The Farnese Hercules, black and white chalk on
blue paper, indented for transfer, 382 × 189 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv.
N 20 Fig. 4. Hendrick Goltzius, Two Male Heads: Jan Matthijsz Ban and Philips
van Winghen (?), metalpoint on an ivory-coloured prepared tablet, 92 × 117 mm,
Amsterdam Museum, inv. A 10180 demonstrate that he had seen the sculpture in
the round, making this clear by depicting the figure’s ‘alien’ back as well as
its usual front. His choice was probably inspired by a combination of these
factors. The Amsterdam Museum houses Goltzius’ preparatory drawing (fig. 4) of
the two men whose admiring, upturned gazes provide such a fine connection
between the front and back of the Farnese Hercules.16 In the engraving they are
repre- sented in mirror image and have been exchanged for each other. They have
portrait-like features and their identities have been a subject for
speculation. The most serious suggestion made so far, dating from the end of
the 19th century, is that they were Goltzius’ temporary travelling companions:
Jan Matthijsz Ban on the left and Philips van Winghen (d. 1592) on the right;
they may even have witnessed him drawing this statue.17 It is difficult to
verify this sugges- tion, but it is certainly interesting and plausible.
Goltzius had produced, albeit on a larger scale, several portraits of his
circle of acquaintances in Rome and elsewhere such as Giambologna (1529–1608),
Dirck de Vries ( fl. 1590–92) and Jan van der Straet, also called Stradanus
(1523–1605; see cat. 4).18 Most of his sitters, like Ban and Van Winghen, were
northern artists active in Italy. Ban was a silversmith, and Van Winghen is
described by Karel van Mander as ‘a learned young nobleman from Brussels [ . .
. ] who was a great archaeologist’.19 According to Van Mander the three of them
made an excursion from Rome to Naples in the spring of 1591.20 Van Winghen died
unexpectedly in 1592,21 and it was maybe as a tribute to his friend that
Goltzius included him in the plate that he cut that same year. mp 1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 See footnote 1 in cat. 6. ‘An antique
statue in Rome, in the palace of Cardinal Farnese; a work by H. Goltzius that
is now being published posthumously for the first time, in the year 1617’. ‘Now
that I have vanquished the King of Spain with his three bodies [Geryon] and
have stolen the apples that were guarded by a vigilant dragon under the western
heaven in the golden garden, I, Hercules, the terror of the world, rest from my
labours’. I wish to thank Professor Ilja Veldman, who generously put at my
disposal her Goltzius entries for the forthcoming catalogue of the sixteenth-
century Netherlandish drawings in the Teylers Museum, which she is preparing
with Yvonne Bleyerveld. U. Aldrovandi, ‘Delle statue antiche, che per tutta
Roma ... si veggono’, in Mauro 1556, pp. 157–58. The Hercules, today in the
Museo Archeologico Nazionale in Naples, is regarded as an enlarged copy of the
3rd century ad after an original by Lysippos or someone from his school of the
4th century bc. For its history and fortuna critica see Haskell and Penny 1981,
pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1. Haskell and
Penny 1981, p. 229. Baglione 1642 (facsimile edition, Rome 1935), p. 151: ‘. .
. per mostrare con quel rifarcimento si degno al mondo, che le opere della
scultura moderna potevano stare al paragone de’lavori antichi’. Reznicek 1961,
vol. 2, pp. 89–94; Brandt 2001, passim; Luijten 2003–04, pp. 117–25. For both
drawings see Luijten 2003–04, pp. 132–36. Göttingen 2013–14, pp. 210–11. For
the prints by Bos and Ghisi see Göttingen 2013–14, pp. 205–07, no. II. 18
(Ghisi) and pp. 285–86, no. IV.09 (Bos). Brandt 2001, pp. 143–46. It has been
suggested that Goltzius was prompted to make his unorthodox choice by a
description in Pliny of a painting by Apelles of Hercules with Face Averted,
whose features could nevertheless be guessed. Goltzius may have known the
related engraving by G. J. Caraglio after Rosso Fiorentino: see Luijten
2003–04, p. 134 (with previous literature). For the dating of the three prints
see Reznicek 1961, p. 419; Boston and St. Louis 1981–82, p. 12, under no. 6.
See the painting Rest by Nicolaes Berchem the Elder (1620–83) dated 1644 in the
Metropolitan Museum of Art in New York and the painting The Return from the
Hunt, also by Berchem, from c. 1670 in The J. Paul Getty Museum, Los Angeles,
both of which include a male figure whose attitude is clearly based on that of
the Farnese Hercules (Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, p. 67, fig. 2;
Haarlem, Zurich and elsewhere 2006–07, p. 85, cat. 45, repr.). A drawing by
Berchem, Standing Herdsman from the Back in the Rijksmuseum, prepares the
figure of the standing herdsman in the New York painting (see Amsterdam and
Washington D.C., 1981–82, p. 67, fig. 1). Schapelhouman 1979, p. 67 (with
earlier literature); Luijten 2003–04, pp. 135–36. Hymans 1884–85, p. 187, note
1. Schapelhouman (1979, p. 67) does not believe this, while Luijten (2003–04,
pp. 135–36) considers it plausible. It is curious that Goltzius altered the
preparatory drawing of the two men’s heads in the engraving (fig. 3): in
addition to representing them in mirror image and swopping them over, he
depicted them in the same scale as well. Ban (if it is indeed Ban) is now
somewhat taller than Van Winghen, which would reflect reality for Van Mander
reports that Ban was a sizeable man (Van Mander 1994–99, vol. 1, pp. 392–93,
fol. 283v). Schapelhouman 2003–04, pp. 147–58. Van Mander 1994–99, vol. 1, pp.
392–93 (fol. 283v). Ibid. Between 1592 and 1597 Jacob Matham engraved a
portrait of Philips van Winghen after another (unknown) drawing by Goltzius;
see Widerkehr and Leeflang 2007, vol. 2, p. 256, no. 263. However beautiful the
two drawings in black and red chalk may be, it is only in Goltzius’ engraving
that we really see what he intended. The backlit effect of the Farnese Hercules
is seen to best advantage in the print, in which the added clouds have a
functional role by creating a sense of depth and atmosphere. It is enhanced by
the two observers, also only introduced in the print stage, who help to convey
the statue’s scale. As we view Hercules from behind, the two admirers are gazing
upon the sunlit front. The resulting interaction between front and back,
between seeing and imagining, gives the print an agreeable tension that is
missing in the drawings.10 Goltzius was probably familiar with the Farnese
Hercules even before he went to Italy from descriptions in travel guides to
Rome, through prints of 1562 and around 1575 by Jacobus Bos (c. 1520–c. 1580)
and Giorgio Ghisi (1520–82)11 and possibly also from the larger print series by
Giovanni Battista de’ Cavalieri (1570–84) and Antoine Lafréry (c. 1575).12 All
showed the Hercules from the front, but Goltzius drew it from both sides (fig.
3). He seems to have been the first artist to appreciate its beauty from the
back, or, at least, the first to record it on paper. He must have been very
pleased with the 116 unorthodox view13 because he chose this viewpoint in 1592
when he issued the engraving, one of the only three that he engraved from his
series of drawings (see also cat. 6b).14 It was thanks to Goltzius’ engraving
that the back view of the statue became as popular as the front (see cats 16
and 21). Something of this popularity is revealed by the fact that by the
mid-17th century the Hercules Farnese seen from the rear, bending slightly
forwards with his arm on his back, had permeated Dutch genre painting.15 The
question arises: why did Goltzius choose to adopt this angle? Could it be that
he had a didactic purpose in mind when he produced the first rendering in a
print series of the back of a muscular male body at rest? With Goltzius’ magnificent
print in hand, young artists could now study the anatomy of a ‘hero’s’ back and
use this in their own work. Goltzius’ print of the Apollo Belvedere (cat. 6b)
offered a similar aid with the anatomy of an elegant youth. Goltzius also drew
other figures, such as the Belvedere Torso (cat. 8), from several angles, but
in these he was probably experi- menting with different points of view rather
than having a didactic aim in mind. Goltzius might also have chosen to
represent both sides of the Farnese Hercules expressly to 117 8. Hendrick
Goltzius (Bracht-am-Niederrhein 1558–1617 Haarlem) The Belvedere Torso 1591 Red
chalk, 255 × 166 mm provenance: Queen Christina of Sweden (1626–89)1; Cardinal
Decio Azzolini (1623–89); Marchese Pompeo Azzolini (1654–1706); Don Livio
Odescalchi (1658–1713); purchased from the Odescalchi family by the Teylers
Foundation, 1790. literature: Scholten 1904, p. 42, no. N 31; Reznicek, 1961,
vol. 2, pp. 321–22, no. 201, vol. 2, fig. 156; Miedema 1969, pp. 76–77; Brummer
1970, pp. 146, note 27, 148, repr.; Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, p. 109;
Stolzenburg 2000, p. 437, no. 143; Brandt 2001, p. 148; Goddard 2001–02, p. 39
(erroneously as a drawing in black chalk); Florence 2008, p. 62, under no. 33
(M. Schapelhouman); Bober and Rubinstein 2010, p. 183, under no. 132; Nichols
2013a, pp. 56, 146, under no. A-37, fig. 31. exhibitions: Recklinghausen 1964,
no. 87 [unpaginated]; Munich and Rome 1998–99, pp. 44, fig. 43, 160, no. 49;
Luijten 2003–04, pp. 130–31, no. 41.1. Teylers Museum, Haarlem, inv. no. N
31 From the High Renaissance onwards the Belvedere Torso was one of the
most celebrated of ancient statues, despite its fragmentary state.2 In the past
it was identified as the torso of Hercules because of the anatomy and the
lion’s skin on which it is seated. However, in the late 19th century doubts
were raised as to whether the skin really was that of a lion, making the
Hercules identification uncertain.3 Although the Torso is comprehensively
signed ‘Apollonius, son of Nestor, of Athens’, his name is not found in
classical literature. It is assumed that he lived in the 1st century bc and
that the Torso is a repetition or paraphrase of an earlier model. Although the
statue was known from the 1430s, it was only when it was in the collection of
the sculptor Andrea Bregno in the later 15th century that it began to arouse
interest; in the early 16th century the sculpture entered the papal collections
and was placed in the Belvedere (see p. 26, fig. 23). Direct correspondences
with many of Michelangelo’s painted and drawn nude figures demonstrate the
importance of the Belvedere Torso for the great Italian artist and shortly
after Michelangelo’s death a number of stories emerged connecting him with the
Torso.4 According to such one tale, he had been surprised by a cardinal
kneeling before the statue (though only in order to examine it as closely as
possible).5 In 1590 Giovanni Paggi wrote from Florence to his brother Girolamo:
‘Michelangelo called himself a pupil of the Belvedere Torso, which he said he
had studied greatly, and indeed that he speaks the truth of this is to be seen
in his works.’6 Describing the statue as ‘the school of Michelangelo’ took this
association a step further.7 And yet the Renaissance artist appears to have
spoken only once about the Torso, albeit in highly positive language: Ulisse
Aldrovandi (1522– 1605) noted, in 1556 when the artist was still alive, that
the Torso was ‘singularmente lodato da Michel’Angelo’.8 Not surprisingly the
statue acquired great status both north and south of the Alps. This status
probably preserved it from the restoration suffered by many antique sculptures
in later centuries. Goltzius also seems to have felt the mysterious beauty of
the Torso, for he drew it no less than four times. All four drawings were
together in the collection of Queen Christina of Sweden (1626–89).9 But while
two are now in the Teylers Museum (fig. 1) the other two have been lost.
Goltzius undoubtedly knew the Torso even before he arrived in Italy, for
reduced copies after the sculpture circulated throughout Europe in the 16th
century; thus Goltzius’ friend and fellow Haarlem artist, Cornelis Cornelisz.
van Haarlem (1562–1638), had used the Torso as the model for a nude figure in a
painting Fig. 1. Hendrick Goltzius, The Belvedere Torso, c. 1591, black chalk,
253 × 175 mm, Teylers Museum, Haarlem, inv. no. K I 30 118 119 of
the late 1580s.10 It is reasonable to suppose that the Torso would have been
discussed at meetings of the ‘Haarlem Academy’,11 which Karel van Mander,
Cornelis Cornelisz. van Haarlem and Goltzius had set up in the mid-1580s. One
of the purposes of their ‘academy’ was to allow them to ‘study from life’ (om
nae ‘t leven te studeeren), which meant they drew from nude models and probably
from sculpture, plaster casts or other three-dimensional specimens as well.12
We may assume that during these drawing sessions they discussed human anatomy
and the exemplary way classical artists had depicted it. All three were able to
quote directly from the antique with the aid of Maarten van Heemskerck’s Roman
sketchbook (now Kupferstichkabinett, Berlin), which was then owned by Cornelis
Cornelisz. van Haarlem13 and which contained two views of the Torso.14 It is
noteworthy that Goltzius, who was generally meticulously faithful in his
depiction of classical sculptures, was not always so precise in his treatment
of the inscrip- tions on their pedestals.15 In his red chalk drawing of the
Belvedere Torso from the front he has omitted the signature, which would have
been clearly visible on the base. Even more curious is the fact that he
completely ignored the wear suffered by the statue, the result of decades spent
outdoors. Instead his drawings give the sculpture a freshness that makes it
seem alive. This emphasis on the statue’s lifelikeness and beauty can probably
be explained by Goltzius’ intention that these drawings should serve as
preparations for prints with an educational purpose: the study of anatomy based
on ideal models. The muscles of Goltzius’ Torso appear to be tensed, the skin
lifelike and infused with warmth. The muscles’ extreme exaggeration and
restless tension clearly display a Mannerist emphasis.16 Once in Rome,
surrounded by the clear, classic, ideal vocabulary of ancient statuary,
Goltzius would reject Mannerist exaggeration so the fact that he did not decide
to do so here may indicate that these two studies after the Torso were among
the first drawings he produced after his arrival in Rome. It is interesting to
note that Goltzius clearly used the Belvedere Torso in his fine Back of an
Athletic Man, now in the Uffizi Gallery in Florence (fig. 2).17 This drawing is
one of his Federkunststücke, or virtuoso drawings in pen, whose linear
execution often imitates engravings, with lines that swell and taper. Curiously,
the backbone in this drawing curves slightly to the left, while that of the
sculpture curves to the right. Is this a conscious change by Goltzius or did he
recall the statue in mirror image? The suggestion has sometimes been made that
Goltzius produced this great drawing in Italy to display his virtuosity with
the pen;18 however, we know that Goltzius travelled incognito to avoid admirers
(see cat. 6), 120 9. Peter Paul Rubens (Siegen 1577–1640 Antwerp) Two Studies
of a Boy Model Posed as the ‘Spinario’ c. 1600–02 Red chalk with touches of
white chalk, 201 × 362 mm Inscribed recto, l.r., in pen and brown ink by a late
17th- or early 18th-century hand: ‘Rubens’ provenance: Gabriel Huquier
(1695–1772); William Fawkener; his bequest to Museum, 1769. literature: Hind
and Popham 1915–32, vol. 2, p. 22, no. 52; Burchard and D’Hulst 1963, vol. 1,
pp. 34–35, no. 16 and vol. 2, pl. 16; Stechow 1968, pp. 53–55, fig. 43; Held
1986, p. 82, no. 39, pl. 23 on p. 172; New York 1988, p. 77, under no. 18, fig.
18-I; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 80; Paris 2000–01, p. 419, under no.
222, fig. 222a. exhibitions: London 1977, pp. 28–29, no. 14 (J. Rowlands);
London 2009–10 (no catalogue). Department of Prints and Drawings, The British
Museum, London, inv. T,14.1 Fig. 2. Hendrick Goltzius, Back of an
Athletic Man, pen and brown ink, 150 × 165 mm, Uizi, Florence, inv. no. 2365 F
so he is unlikely to have felt a need to demonstrate his virtuoso skills.
Perhaps Goltzius created this virtuoso draw- ing after his Italian trip, or
even before he went to Italy as he was already producing pen work of this
quality in the 1580s.19 The son of a wealthy Antwerp family, Rubens was born in
the German city of Siegen in 1577 but in 1589 returned with his family to
Antwerp where he received a humanistic education at the Latin School run by
Rumoldus Verdonck (1541–1620) and an artistic one with the painters Tobias
Verhaeght (1561–1631), Adam van Noort (1561–1641) and Otto van Veen (c.
1556–1629). After entering the Guild of St Luke as an established painter in
1598, Rubens set out for Italy in May 1600. This fundamental step in Rubens’
training had been carefully prepared not only by the study of engravings of
classical statues and Renaissance masters by Marcantonio Raimondi (c. 1480–1527/34)
and his pupils assembled by van Veen in his workshop, but also by eager reading
of Roman texts such as Suetonius, Tacitus and Pliny the Elder.1 The impact of
classical antiquity on Rubens’ art and theory of art was immense. Before
arriving in Rome in 1601, Rubens spent time in Venice, then Mantua, in the
service of the Duke Vincenzo I Gonzaga (r. 1587–1612) as a painter and a
curator of his collections, and also in Florence. Although based in Mantua,
Rubens spent two extended periods in Rome, first from July 1601 until April
1602 and again from late 1605 (or early 1606) until October 1608.2 During this
second period he shared a house with his scholarly elder brother Philip
(1574–1611), a pupil of the Flemish philologist and humanist Justus Lipsius (1547–1606).
In Rome Philip Rubens worked on the Electorum Libri duo published in Antwerp in
1608, an influential study of the customs, morals and dress of the ancients.
Peter Paul assisted Philip in making drawings from ancient monuments in
prepara- tion for the plates, and he also contributed to their explanatory
notes. Rubens’ commitment to the systematic study of classical antiquities, and
in particular of sculpture in the round, is testified to by the large number of
sketches and drawings he made during his Italian period, but also by those he
executed after his return to Antwerp in 1608.3 In Rome Rubens visited the
Belvedere Courtyard and some of the most important private aristocratic
collections, such as the Borghese, the Medici, the Farnese, the Mattei and the
Giustiniani. His drawings after the Antique are among the most extraordi- nary
ever produced, most of them in red or black chalk; they show Rubens’ great
virtuosity in handling the medium and, at the same time, his deep understanding
of the formal principles of the antique statues. He obsessively sketched some
of the most ‘muscular’ masterpieces of classical statuary, such as the Laocoön
(see p. 26, fig. 19) and the Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32), from all
sides, many angles and in great detail, in order to assimilate thoroughly the
anatomical structure and the mathematical proportions of the human body as part
of his search for the rules of perfection achieved by ancient artists.4
Returning to Antwerp in 1608, Rubens established his own studio in an
Italianate villa in the centre of the city – today the Rubenshuis. His drawings
after the Antique, bound in several books, remained in his studio and continued
to serve not only as an important reference and source of inspiration for
Rubens himself, but probably also as teaching tools for his pupils. The
purchase in 1618 by Rubens of the collection of ancient sculptures owned by the
English diplomat and collector Sir Dudley Carleton (1573–1632) represented the
first step towards the formation of one of the most important – but short-lived
– collections of antiqui- ties in Northern Europe, which Rubens sold on to the
1st Duke of Buckingham in 1626.5 The pre-eminent figure of the Flemish Baroque,
a universal genius, Rubens also had an active diplomatic career which in the
1620s led him to travel between the courts of Spain and England. His last
decade, the 1630s, was mostly spent in Antwerp, where he devoted himself
entirely to painting. Rubens’ theory on both the usefulness and dangers of
copying after the Antique are effectively expressed in his essay De Imitatione
Statuarum, a short treatise on the imitation of sculpture that remained in
manuscript in Rubens’ lifetime 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19
mp See footnote 1 in cat. 6. Haskell and Penny 1981, pp. 311–14, no. 80, fig.
165; Munich and Rome 1998–99; Bober and Rubinstein 2010, pp. 181–84, no. 132.
Wünsche 1998–99, p. 67. Michelangelo did indeed use the Torso directly as a
model; see Wünsche 1998–99, pp. 31–37; Haarlem and London 2005–06, pp. 116–17.
Haskell and Penny 1981, p. 312. Guhl 1880, vol. 2, p. 42; Schwinn 1973, pp.
36–37. Wright 1730, vol. 1, p. 268; Haskell and Penny 1981, pp. 312–13; Schwinn
1973, p. 172; Montreal 1992, pp. 76–77. ‘... un torso grande di Hercole ignudo,
assiso sopra un tronco del medisimo marmo: non ha testa, ne braccia, ne gambe.
È stato questo busto singularmente lodato da Michel’Angelo’. U. Aldrovandi,
‘Delle statue antiche, che per tutta Roma ... si veggono’, in Mauro 1556, p.
115. For Aldrovandi’s complete text ‘nel giardino di Belvedere, sopra il
Palagio del Papa’, see Brummer 1970, pp. 268–69. Stolzenburg 2000, pp. 437, nos
142–44, 439, no. 161. Van Thiel 1999, pp. 79, 294, no. 7, pl. 34. According to
an anonymous biographer, shortly after arriving in Haarlem, around 1583, Karel
van Mander entered into a collaboration with Goltzius and Cornelis Cornelisz.
van Haarlem, described as follows: ‘the three of them maintained and made an
Academy, for studying from life’, see Van Mander 1994–1999, vol. 1, pp. 26–27
(fol. S2 recto), vol. 2, pp. 70–72; Van Thiel 1999, pp. 59–90. It should be
stressed that this academy was in no way an institution for advanced
professional training: such institutions came into being only in the 18th
century (see Van Mander 1994–99, vol. 2, p. 70). It is unclear how and for what
length of time this ‘Haarlem Academy’ exactly functioned (see also Leeflang
2003–04a, p. 16; Leeflang 2003–04b, p. 252. Veldman 2012, pp. 11–23. Hülsen and
Egger 1913–16, vol. 1, p. 34 (fol. 63), p. 40 (fol. 73). See also Brummer 1970,
pp. 144–45, figs 125–26. Brandt 2001, p. 143. Reznicek 1961, vol. 1, pp.
321–22, no. K 201; Luijten 2003–04, p. 131. Reznicek 1961, vol 1, p. 452, no.
431, vol. 2, fig. 132; Florence 2008, pp. 61–62, no. 33 (M. Schapelhouman). Reznicek
1961, vol. 1, p. 452. Schapelhouman (in Florence 2008, p. 62) has previously
questioned the Italian dating for Back of an Athletic Man; for pen works by
Goltzius from the 1580s see: Amsterdam, New York and elsewhere 2003–04, pp.
238–39, figs 93–94, 242–46, nos 84–85. 121 but was published by the art
theorist Roger de Piles in his Cours de peinture par principles of 1708 (see
Appendix, no. 8).6 While emphasising the importance for an artist of becoming
deeply familiar with the perfection embodied in ancient models, Rubens warned
that ‘[the imitation of antique statues] must be judiciously applied, and so
that it may not in the least smell of stone’.7 The warning against the risk of
hardening one’s style by copying ancient sculptures, thus creating paintings
that looked ‘dry’ and eccentric, had already been pointed out by several
16th-century artists and theore- ticians, such as Giorgio Vasari (1511–74),
Ludovico Dolce (1508–68) and Giovanni Battista Armenini (1530–1609).8 Later in
the 17th century the pernicious effect on painting of too-slavish imitation of
antique statuary would be summa- rised by the Bolognese art theorist Carlo
Cesare Malvasia (1616–93) with the specific neologism ‘statuino’ or ‘statue-
like’.9 As stressed by Rubens in the De Imitatione, young artists needed to
learn how to transform marble into flesh instead of depicting figures as
‘coloured marble’. The two studies on one sheet presented here perfectly
express Rubens’ views: they are in fact an example of a practice – setting live
models in the poses of famous ancient statues – already diffused from the Early
Renaissance (see p. 23, fig. 14) and common practice within the curricula of
the French and Italian academies.10 Through this exercise Rubens could
concentrate on the classical pose and disre- gard the ‘matter’, something that
he repeated in modified form several times, in studies of live models in poses
remi- niscent of the Belvedere Torso, the Laocoön and other canonical
statues.11 In the present drawing, the young model is seen from his left side
in the pose of one of the most celebrated bronzes in Rome, the Spinario
(‘Thorn-puller’), recorded in the city as early as the 12th century among the
antiquities at the Lateran Palace and donated by Pope Sixtus IV (r. 1471– 84)
to the Palazzo dei Conservatori in 1471 (fig. 1, see also p. 23, fig. 15).12
Interpreted in the Renaissance as the personifi- cation of the month of March
or a shepherd, the Spinario has been recently recognised as the young Ascanius,
the son of Aeneas and founder of the gens Iulia.13 The right-hand drawing
faithfully imitates the pose of the statue, with the head looking down towards
the gesture of extracting a thorn from the foot; the left-hand drawing, in
contrast, modifies the original by turning the head towards the spectator and
altering the action so that the youth no longer withdraws a thorn from his
foot, but dries it with a towel. Two similar studies, presumably after the same
young model, are preserved in the Musée des Beaux-Arts, Dijon (fig. 2) and in
London (private collection): the former, in red chalk, shows the model from his
back and his right;14 the latter, in black chalk, from his left.15 The three
drawings were probably done in the same session and they have been dated to one
of Rubens’ two Roman periods, probably the first one (1600–02).16 As long ago
noted by Wolfgang Stechow,17 the pose of 122 123 Fig. 1. (left)
Spinario (Thorn-Puller), 1st century bc, bronze, 73 cm (h), Capitoline Museums,
Sala dei Trionfi, Rome, inv. 1186 Fig. 2. (above) Peter Paul Rubens, Two
Studies of a Young Model Posing as the Spinario, red chalk with touches of
black chalk, 246 × 382 mm, Musée des Beaux-Arts, Dijon, inv. sup. 49D the
Spinario was employed by Rubens for a young man drying his feet in the Baptism
of Christ, painted for the Jesuit church of Santa Trinità in Mantua in 1605 and
now in the Royal Museum of Fine Arts in Antwerp, a preparatory drawing for
which is in the Louvre,18 as well as for Susanna in Susanna and the Elders, a
painting executed in Rome about 1606–08, 19 ed 1 For Rubens’ early years see
Muller 2004, pp. 13–15. 2 On Rubens in Rome and his approach to the Antique see
esp. Stechow 1968; Jaffé 1977, pp. 79–84; Muller 1982; Van der Meulen 1994–95,
vol. 1, pp. 41–81; Muller 2004, pp. 18–28. 3 On Rubens’ drawings after the
Antique see the fundamental catalogue in Van der Meulen 1994–95, vol. 2. 4 See
Ayomonino’s essay in this catalogue, pp. 46–52. 5 See Muller 1989, passim;
Muller 2004, pp. 35–56. On the collection of antiquities see in particular
Muller 1989, pp. 82–87; Antwerp 2004, pp. 260–63 (F. Healy). On the sale to the
1st Duke of Buckingham see Muller 2004, pp. 62–63. 6 On the De Imitatione see
Muller 1982; Van der Meulen 1994–95, vol. 1, esp. note 11, pp. 77–78, note 44;
Antwerp 2004, pp. 298–99; Jaffé and Bradley 2005–06; Jaffé 2010. Transcribed in
Appendix, no. 8, from De Piles 1743, pp. 87–88. For Vasari see Bettarini
Barocchi 1966–87, for instance vol. 3, pp. 549–50 and vol. 5, pp. 495–61. For
Dolce see Appendix, no. 4. See Armenini 1587, esp. pp. 59–60 (book I, chap. 8),
pp. 86–89 (book II, chap. 3). The concept was repeated later also by Bernini
during his visit to Paris in 1665: see Appendix, no. 9. See also Van der Meulen
1994–95, vol. 1, pp. 77–78. Malvasia 1678, vol. 1, pp. 359, 365, 484. On the
17th-century neologism ‘statuino’ see Pericolo, forthcoming. See Aymonino’s
essay in this volume, pp. 50–52. Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 80–81. The
statue is traditionally considered to be an eclectic work of the 1st century bc:
see Stuart Jones 1926, pp. 43–47, no. 2; Haskell and Penny 1981, pp. 308–10,
no. 78; Bober and Rubinstein 2010, p. 254, no. 203. Recent analysis has proved
that the classicistic head, dating to the 5th century bc, was added to the
Hellenistic body and given a Roman subject presumably in the 1st century bc,
see Rome forthcoming. Rome forthcoming. Held 1986, p. 82; Paris 2000–01, pp.
417–18, no. 222. Held 1986, p. 82; Paris 2000–01, p. 418, fig. 222b. Held 1986,
p. 82. Stechow 1968, pp. 54–55. See also Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp.
80–81. Lugt 1949, pp. 12–13, no. 1009, pl. XIV; Antwerp 1977, p. 129, no. 121.
Coliva 1994, p. 170, no. 88. 10. Odoardo Fialetti (Bologna 1573–c. 1638 Venice)
Artist’s Studio c. 1608 Etching in Odoardo Fialetti, Il vero modo et ordine per
dissegnar tutte le parti et membra del corpo humano, Venice, Justus Sadeler,
1608 110 × 152 mm (plate); 194 × 238 mm (sheet) Inscribed l.l. with Fialetti’s
monogram and ‘A 2’ and ‘No 208’. provenance: Elmar Seibel, Boston, from whom
acquired. literature: Rosand 1970, pp. 12–22, fig. 10; Buffa 1983, pp. 315–37,
nos 198 (295) – 243 (301), repr. (for the Artist’s Studio, p. 321, no. 210
(298), repr.); Amornpichetkul 1984, pp. 108–09, fig. 83; Bolten 1985, pp.
240–43, 245 and 248; Boston, Cleveland and elsewhere 1989, pp. 248–49, no. 130
(D. P. Becker); London 2001–02, pp. 198–200, no. 143; Houston and Ithaca
2005–06, pp. 94–96, no. 24 ( J. Clifford); Walters 2009, vol. 1, pp. 68–79,
vol. 2, pp. 254–76, figs. 3.9–3.53; Walters 2014, pp. 62–63, fig. 59; Whistler
2015 (forthcoming). and now in the Borghese Gallery. 124 125 exhibitions: Not
previously exhibited. Katrin Bellinger collection, London, 2002–013 A prolific
artist whose large and diverse body of work comprises some fifty-five paintings
and about 450 prints, Fialetti was born in Bologna in 1573 but moved to Venice
where he was apprenticed to Jacopo Tintoretto (1519–94) and where he later
collaborated with Palma Giovane (c. 1548– 1628).1 By 1596 he was listed as a
printmaker and, from 1604 to 1612, a member of the Venetian painters’ guild,
the Arte dei Pittori; he joined the Scuola Grande di San Teodoro between 1620
and 1622.2 His wide-ranging graphic oeuvre comprises religious, mythological,
and literary subjects as well as landscapes, portraits, depictions of sport
(fencing and hunt- ing), ornamental motifs and anatomical studies, and appears
in different formats and genres, from single or series of prints to complete
illustrations for books.3 His etchings remained influential for decades after
his death not only in Venice and northern Italy, but even in France and
England.4 Without doubt Fialetti’s most admired and influential works were his
two volumes of etchings: Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le parte et
membra del corpo humano (‘The true means and method to draw all the parts of
the human body’) and Tutte le parti del corpo humano diviso in piu pezzi . . .
(‘all the parts of the human body divided into multiple pieces’). The first was
published in Venice in 1608 by Justus Sadeler (Flanders 1583–1620), and the
second, which is undated, presumably appeared in Venice shortly thereafter. The
two books are varied in their plates and paginations and exist in different
compilations, sometimes confusingly, combining elements of both as in the
example shown here.5 The first of their kind to be published in Italy, these
books served as portable instruction manuals in drawing for beginners and
amateurs. They provided techniques for the correct construction of the human
face and body and they also illustrate the crucial role of copying plaster
casts in work- shop practice at the end of the 16th and beginning of the 17th
centuries. The Bellinger volume includes a frontispiece dedication to Cesare
d’Este, the Duke of Modena and Reggio (1561–1628), a leaf with a further
dedication to Giovanni Grimani (the Venetian patrician and collector of
antiquities, 1506–93), six pages with step-by-step instructions on draw- ing
eyes, ears and faces, another title page, Tutte le parti . . . and thirty
leaves of further faces, various parts of the body – arms, legs, torsos –
grotesque heads and portraits.6 The volume concludes with two religious
etchings by Palma Giovane.7 Unusual for manuals of the period is the scene
depicted on the first plate following the dedications: a lively and infor- mal
artists’ workshop, sometimes thought to be Tintoretto’s.8 In the foreground,
young students seated on low wooden benches draw diligently before models and
assorted plaster casts of body parts arranged on and below a table, while two
older artists are painting at large easels in the background.9 At the far left,
an apprentice grinds pigments. Scattered on the ground are various artists’
tools including compasses, an inkwell and feather quill pen. Boy draughtsmen
representing three different ages – roughly from six to sixteen – diligently
record a cast of the young Marcus Aurelius, similar in type to the marble of
161– 180 ad now in the Capitoline Museum in Rome (fig. 1).10 Behind them, two
slightly older boys enthusiastically discuss a completed copy. The torso next
to the bust, although reminiscent of the Belvedere Torso, (p. 26, fig. 23),
appears to be based on a different antique sculpture, which seems to be the
subject of a drawing of seven male torsos in various positions in a sketchbook
by an unidentified Northern artist working in Rome in the mid- to late 16th
century (Trinity College Library, Cambridge, fig. 2).11 The torso seen in
Fialetti’s etching is comparable to the one with the upraised right arm placed
at the lower centre of the Trinity page;12 it was evidently a favourite of
Fialetti’s as it reappears later in his book (fig. 3). The cast of the
armless female torso on the floor on the right in the etching also derives from
an antique prototype. She is probably based on a now-lost version of Venus
Tying her Sandal, a Hellenistic type well known in the Renaissance and one that
inspired many adaptations,13 such as that in an anonymous Italian drawing in
the Fitzwilliam Museum, Cambridge (fig. 4). The male torso depicted in that
drawing is also very similar to that in the etching. Fialetti would have had
ample opportunity to study Antique statuary first-hand during a trip to Rome,
made before he settled in Venice, though plaster casts were an integral part of
Venetian workshop practice from the 16th century onwards.14 They were in wide
use in Tintoretto’s studio where Fialetti trained. According to his biographer,
Carlo Ridolfi, Tintoretto collected plaster casts of ancient and Renaissance
marbles avidly and at great expense: ‘Nor did he cease his continuous study of
whatever hand or torso he had collected’.15 From the chalk drawings he
produced, ‘thus did he learn the forms requisite for his art’.16 The casts
remained in the Tintoretto family workshop when Domenico (1560–1635), his son,
took it over and are Fig. 1. Portrait of Marcus Aurelius as a Boy, 161–180 ad,
marble, 74 cm (h), Capitoline Museums, Palazzo Nuovo, Albani Collection, Rome,
MC 279 Fig. 2. Anonymous artist working in Rome, Studies of Male Torsos, mid to
late 16th c., pen and brown ink, 280 × 450 mm, folio 47v from the Cambridge
Sketchbook, Trinity College Library, Cambridge, R. 17.3 recorded in his will of
1630.17 The younger Tintoretto for a period considered bequeathing to painters
his house and studio with its contents – reliefs, drawings and models – so that
an academy could be established to train future generations of Venetian
artists, although nothing came of this scheme.18 Whether the Artist’s Studio
seen here is actually Tintoretto’s or simply a generalised venue, Fialetti
asserted the centrality of drawing, especially for young artists.19 This also
recorded his own experience: when as a boy, he asked what he should do in order
to make progress, he was advised by Tintoretto that he ‘must draw and again
draw’.20 By the early 17th century, repeated and systematic study from studio
drawings, plaster casts, sculpture, as well as anatomy and the live model was
deemed essential preparation for the accurate portrayal of the human figure.21
But in order to depict the body as a whole, students first had to master its
individual parts, a tenet of Central Italian working practice that was
perpetuated throughout the 16th century by artists and writers like Giovan
Battista Armenini (1525–1609) and Federico Zuccaro (c. 1541–1609), who
instructed pupils to draw parts of the body, an ‘alphabet of drawing’.22
Similar principles were espoused by the Carracci Academy in Bologna, of which
Fialetti was no doubt aware.23 While precedents for instructional drawing books
are found in 15th-century model and pattern books containing motifs that
artists could copy into their compositions (p. 20, figs 3–4),24 Fialetti’s were
the first aimed at students and amateurs as well as art lovers and
collectors.25 They also seem to be the first of their kind to be printed in
Venice.26 Other publications modelled after them soon followed in the Veneto
and elsewhere in Italy, notably De excellentia et nobilitate delineationis
libri duo, published 126 127 by Giacomo Franco (1573–1652)
in 1611 based on designs by Palma Giovane and prints by Battista Franco (c.
1510–1561) as well as Gasparo Colombina’s Paduan publication of 1623.27 Like
Fialetti’s compendia, Giacomo Franco’s treatise featured several plates
incorporating antique motifs: busts of the Laocoön (p. 26, fig. 19), the
Emperors Vitellius (p. 40, fig. 52) and Galba were inserted among the etched
portraits on plates 18 and 20 while plates 14 and 25 showed torsos of a female
Venus Tying her Sandal type much like that seen in Fialetti’s etching.28 In the
decades that followed, the Antique would assume a greater role in drawing
manuals.29 Several published at the end of the 17th century, like Gérard
Audran’s Les Proportions du corps humain mesurées sur les plus belles figures
de l’antiquité,1683 (p. 48, figs 72–73) and Jan de Bisschop’s Icones, 1668/69
(see cat. 13) and into the 18th century, such as Giovanni Volpato and Raffaello
Morghen’s Principi del disegno, 1786 (p. 49, fig. 76), would focus on
antiquities exclusively. The influence of Fialetti’s books was far-reaching and
persisted long after his death. Plates from them were copied and adapted for
publications appearing both in Italy and elsewhere:30 for example Johannes
Gellee copied the Artist’s Studio and other etchings in his Tyrocinia artis
pictoriae caelatoriae published in Amsterdam in 1639.31 Fialetti’s vol- umes
also influenced a great many other books published in the Netherlands, paving
the way for Abraham Bloemaert’s Tekenboek of 1740 (cat. no. 11).32 Furthermore,
Fialetti’s manuals catered to a new demo- graphic – the connoisseur, gentleman
scholar and mature artist – and would inspire similar books printed in
England.33 With the growing market for Venetian art in England during the first
decades of the 17th century and accelerated interest in drawing, Fialetti’s
work was esteemed not just by Venetians but by aristocratic collectors visiting
Venice like Sir Henry Fig. 3. Odoardo Fialetti, Two Male Torsos Seen from
Behind, c. 1608, etching, 103 × 142 mm, plate 30 from Il vero modo...1608,
Katrin Bellinger collection Fig. 4. Anonymous, Roman School, Studies after
Antique Statuary (Fragments), c. 1550, pen and brown ink and brown wash, black
chalk, heightened with white on blue-green paper, 294 × 212 mm, Fitzwilliam
Museum, Cambridge, inv. 2978. © The Fitzwilliam Museum, Cambridge Wotton
(1568–1639) and Thomas Howard, the 2nd Earl of Arundel (1585–1646), among
others, who undoubtedly admired his facile draughtsmanship.34 Interestingly,
Fialetti’s biographer, Malvasia, who praised his versatility, mentioned that as
well as giving drawing lessons to Venetians, he also instructed Alethea Talbot,
the Earl of Arundel’s wife, whose grandson owned one of Fialetti’s books.35
Through connections like these, Fialetti attracted the attention of
English-based artists and architects including Edward Norgate (c. 1580–1650),
Inigo Jones (1573–1652) and Anthony Van Dyck (1599–1641).36 Copied and
emulated, Fialetti’s plates would play a key role in the development of the
drawing book in England.37 Treatises by Norgate (1627–28, 1st ed.; 1648–49, 2nd
ed.), Isaac Fuller (1654), Alexander Brown (1660), and others helped to further
the principles set forth in Fialetti’s books, which were copied well into the
19th century.38 avl 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 For a full appraisal
of his life and work on which this biographical account is based, see Walters
2009 and Walters 2014, pp. 57–67. Walters 2009, vol. 1, pp. 6–7; Walters 2014,
p. 58. Walters 2014, p. 57. Walters 2009, vol. 1, p. vi. Beginning with
Bartsch, there has been considerable confusion over the size and content of the
two editions. See Walters 2009, vol. 1, pp. 68–70, particularly note 40 and
Walters 2014, pp. 66–67, note 23; Greist 2014, pp. 14–15. Alexandra Greist
(ibid., pp. 12–18) published a little-known instruc- tional text by Fialetti
dictating how he wished the manual to be used, printed on the versi of nine
prints bound together with early editions of both books (Rijksmuseum,
Amsterdam, C/RM0024.ASC/552*1, Shelfmark 325G6). Among the plates not included
in the present volume is the painter’s studio showing artists measuring human
proportions: Buffa 1983, p. 321, no. 211 (298). The Holy Family and Christ
Preaching. Boston, Cleveland and elsewhere 1989, p. 248; Nichols 2013b, pp.
195, 236, note 134. The standing painter in profile is believed by some
scholars to be Tintoretto (Ilchman and Saywell 2007, p. 392; Nichols 2013b, p.
236, note 134). Nichols points to the similarity with the painter as seen in
Francesco Pianta the Younger’s wood-carving, Tintoretto as ‘Painting’, in the
Scuola Grande di San Rocco, Venice (Nichols 1999, p. 238, fig. 212). His
elongated body, unlike the others in the etching, and his energetic pose and
outstretched right arm, recall Tintoretto’s studies of single figures.
Alternatively, Catherine Whistler (2015, forthcoming) has suggested that the
studio may evoke Palma Giovane ‘given that there is something of his panache in
the figure of the painter at work and in the costume of the seated artist’. She
further noted their similarities to his self-portrait in the Brera (Mason
Rinaldi 1984, pp. 92–93, 213, fig. 117). Fittschen and Zanker 1985, vol. 1, pp.
67–68, no. 61, vol. 2, pls 69, 70, 72. CensusID: 46328. Michaelis 1892, p. 99,
no. 60v; Dhanens 1963, p. 185, no. 52v, fig. 30; Fileri 1985, pp. 39–40, no.
48, repr. Given in the 19th c. to a Flemish artist working in Rome around 1583
(Michaelis 1892), more recently the sketchbook has been associated with the
sculptor, Giambologna (1529– 1608), and his Roman trip of 1550 (Dhanens 1963
and Fileri 1985). As pointed out by Eloisa Dodero (personal communication).
Künzl 1970; Bober and Rubinstein. 2010, p. 69, no. 20; CensusID: 58121. Walters
2014, p. 57. Ridolfi 1984, p. 16. Ridolfi 1914, vol. 2, p. 14; Whitaker 1997.
Ridolfi 1914, vol. 2, p. 14; Ridolfi 1984, p. 16. 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26
27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 Tozzi 1933, p. 316. Ridolfi 1914, vol. 2,
pp. 262–63. Rosand 1970; Walters 2009, vol. 1, p. 73. Because ‘drawing was what
gave to painting its grace and perfection’, Ridolfi added (Ridolfi 1914, vol.
2, p. 65; Ridolfi 1984, p. 16). Muller 1984; Bolten 1985; Walters 2009, vol. 1,
p. 73. Armenini 1587, pp. 52–59 (book 1, chap. 7); Alberti 1604, p. 5 (quoting
Federico Zuccaro); Amornpichetkul 1984; Bleeke-Byrne 1984; Roman 1984, p. 91;
Greist 2014, p. 15. Gombrich 1960, p. 161–62; Rosand 1970, pp. 7, 14–15; Bolten
1985, p. 245; Boston, Cleveland and elsewhere 1989, p. 248 (D. P. Becker);
Houston and Ithaca 2005–06, p. 95 (J. Clifford); Walters 2009, vol. 1, p. 74;
Walters 2014, pp. 62, 66, note 6. On the Carracci’s influence on model books,
see Amornpichetkul 1984, pp. 113–16. For model books, see Gombrich 1960, pp.
156–72; Rosand 1970, p. 5; Ames- Lewis 2000a, pp. 63–69; Nottingham and London
1983, pp. 94–101; Amornpichetkul 1984, p. 109. D. P. Becker, in Boston,
Cleveland and elsewhere 1989, p. 248; J. Clifford, in Houston and Ithaca
2005–06, p. 95. Catherine Whistler has argued persua- sively that the book was
aimed at a growing market of virtuosi, art lovers and collectors, who placed a
social value on the knowledge of drawings (Whistler 2015, forthcoming). Walters
2009, vol. 1, p. 69; Walters 2014, p. 62. For the growing interest in
publishing prints at this time in Venice, see Van der Sman 2000, pp. 235–47.
Rosand 1970, p. 17–19; Amornpichetkul 1984, p. 110–12; Walters 2009, vol.
1,p.74. Rosand 1970, pp. 15, 27. Amornpichetkul 1984, p. 115. Ibid., p. 112; D.
P. Becker in Boston, Cleveland and elsewhere 1989, p. 248 (D. P. Becker); Walters
2009, vol. 1, p. 75–79. Bolten 1985, pp. 132–39. Ibid., pp. 119, 131, 133–34,
141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56; Walters 2009, vol. 1, p. 79. Whistler 2015
(forthcoming). For a fundamental discussion of Fialetti and his impact in
England, see Walters 2009, vol. 1, Chapter 5, pp. 152–197. See also Walters
2014, pp. 64–65. Malvasia 1678, vol. 2, p. 312; Greist 2014, p. 12. Walters
2009, vol. 1, p. 152; Walters 2014, pp. 64–65 Amornpichetkul 1984, p. 112;
Walters 2009, vol. 1, pp. 78, 152. Walters 2009, vol. 1, pp. 78, 180–97; Greist
2014, p. 14. 128 129 11. Frederick Bloemaert (Utrecht c.
1616–90 Utrecht) after Abraham Bloemaert (Gorinchem 1566–1651 Utrecht) A
Student Draughtsman, Drawing Plaster Casts 1740 Engraving and chiaroscuro
woodcut with two-tone blocks (brown and sepia), titlepage from Het Tekenboek
(‘The Drawing Book’), Amsterdam, Reinier and Josua Ottens, 1740 303 × 222 mm
(image); 378 × 286 mm (sheet) provenance: Elmar Seibel, Boston, from whom
acquired. literature: Strauss 1973, p. 348, no. 1 64, repr.; Lehmann-Haupt
1977, pp. 155–57, fig. 125; Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, pp. 16–17;
Bolten 1985, p. 49, repr., pp. 57–67; Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p.
395, vol. 2, fig. T1a; Bolten 2007, vol. 1, pp. 362, 366, under no. 1150.
exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no.
1995-071 Abraham Bloemaert, a prolific artist by whose hand over two hundred
paintings and sixteen hundred drawings are known, was born in Gorinchem in
1566.1 From the age of 15 or 16, he spent three years in Paris from 1581–83,
studying for six weeks with the otherwise unknown Jehan Bassot and then for two
and a half years with the similarly obscure ‘Maistre Herry’. His third teacher
in Paris was his fellow countryman Hieronymus Francken I (1540–1610).2 In 1611,
along with Paulus Moreelse (1571–1638) and several colleagues, Bloemaert
founded the new painters’ guild in Utrecht, the Guild of St Luke, and became
its deacon in 1618.3 Shortly after the guild’s foundation, around 1612, some
form of drawing academy must have been established in Utrecht, again with
Bloemaert’s involvement. We learn about this from a letter to the Utrecht
antiquarian Arnout van Buchell (1565–1641) and in Van ’t Light der Teken en
Schilder konst (‘About the Light of the Art of Drawing and Painting’) of
1643–44, by Crispijn de Passe the Younger (c. 1597– c. 1670).4 In the
introduction to his book De Passe recalls how he learned his art together with
the son of Paulus Moreelse ‘in a famous drawing school which was, at that time
organized by the most eminent masters’.5 The well-known print Modeltekenen
(‘Model Drawing’) from De Passe’s book is thought to repre- sent this school
(fig. 1) and it has even been suggested that one of the two tutors looking over
the students’ work is Abraham Bloemaert himself.6 We do not know how long this
‘Academy’ existed. Bloemaert had a large studio of his own with many pupils,
including his four sons and many well-known Dutch artists, such as the
Italianate painters Cornelis van Poelenburgh (1594/95–1667), Jan Both (c.
1618–52) and Jan Baptist Weenix (1621–60/61), as well as the Caravaggists
Gerrit van Honthorst (1590–1656) and Hendrick ter Brugghen (1588–1629).7 A
development can be traced in Bloemaert’s work from a robust Mannerism,
influenced by artists such as Joachim van Wtewael (c. 1566–1638), towards a
more classicist style which he presumably derived from Hendrick Goltzius
(1558–1617) and his Haarlem colleagues. Caravaggism made a brief appearance in
Bloemaert’s work during the early 1620s, when his first pupils returned from
Italy – which, inciden- tally, he never visited himself. At the end of
Bloemaert’s life his style grew smoother and more even. In teaching, Bloemaert
undoubtedly used his own drawings as examples for his many pupils to copy.8 He
found this approach so productive – and perhaps commercially attractive – that
towards the end of his life he joined forces with his son Frederick (c.
1616–90) in the publication of the Tekenboek or ‘Drawing Book’, a compilation of
specimen drawings.9 The prints in the Tekenboek, which were cut by Frederick
after drawings by his father, were published in instalments from c. 1650.10
Abraham’s reversed preparatory drawings, which he probably began around 1645
and some of which reproduce earlier work, are preserved en groupe in the
Fitzwilliam Museum in Cambridge,11 including that for Fig. 1. Crispijn de
Passe, Model Drawing, from: Van ’t Light der Teken en Schilder konst (‘About
the Light of the Art of Drawing and Painting’), 1643, engraving, 330 × 390 mm,
Rijksmuseum Research Library, Amsterdam, inv. no. 330B13 130 131
Fig. 2. Abraham Bloemaert, A Student Draughtsman, Drawing Plaster Casts, pen
and brown ink, 397 × 301, Fitzwilliam Museum, Cambridge, Inv. PD 166–1963.5. ©
The Fitzwilliam Museum, Cambridge the title page displayed here (fig. 2).12 The
title page of Bloemaert’s Tekenboek, catalogued here in the most popular
18th-century edition (1740), shows an artist seated on the floor of an
imaginary studio, drawing 13 artist has again created the suggestion of antique
pieces. Images of artists drawing in a studio combined with assem- blages of
plaster casts are highly appropriate subjects for drawing books. In earlier
Italian and Netherlandish examples we encounter similar images, such as
Modeltekenen (‘Model Drawing’) by De Passe from 1643 (fig. 1), by Petrus Feddes
(1586–c. 1634) from around 1615, and especially by Odoardo Fialetti (1573–c.
1638), in his highly influential Il vero modo et ordine per dissegnar tutte le
parte et membra del corpo humano (‘The true means and method to draw all the
parts of the human body’) and Tutte le parti del corpo humano diviso in piu
pezzi . . . (‘all the parts of the human body divided into multiple pieces’) of
c. 1608 (also featured here as cat. 10).18 For apprentices the copying of
two-dimensional works, such as prints and drawings – and also paintings – was
followed by drawing from plaster casts, a crucial activity in the work- shop
practice. Ideal examples were employed to prepare the student for drawing from
life, from the real world and especially from clothed and nude models.14 Such
plaster casts invariably included copies of well-known classical statues, plus
copies of more modern works and casts of limbs and body parts taken from live
models, such as those seen here hanging on the wall behind the draughtsman. In
this image the casts do not include any firmly identifiable antique statues,
although a number are clearly intended to suggest them, such as the female head
at lower right with the short, rounded hairstyle and the male torso beside it,
which resembles the Belvedere Torso (p. 26, fig. 23); the pose of the reclining
man is reminiscent of an antique River God. In this image Bloemaert made clear
his allegiance to classical tradition, and the importance of antique works as
the Bloemaert’s Tekenboek, which only contains specimens Fig. 3. Frederick
Bloemaert after Abraham Bloemaert, A Draughtsman Sitting at a Table, Drawing
after Plaster Casts, engraving, 280 × 165 mm, Katrin Bellinger collection,
London from the plaster figure of an elderly, reclining man. foundation for the
learning of art.15 Midway through the Tekenboek, Bloemaert reiterates this 132
133 sentiment regarding the importance of antique works by incorporating a
similar title page, A Draughtsman Sitting at a Table, Drawing after Plaster
Casts (fig. 3), in the section on ‘Mannelijke en Vrouwelijke Academie Figuren’
(‘Male and Female Academy Figures’).16 This features the same or a similar
draughtsman, now seated at a table in a more realistic setting and drawing from
a plaster model of a nude male torso. Around him lie other casts: a male head,
a foot and a further torso seen from the back. As in the first title page, no
recognisable antique sculptures can be seen, although the 17 of heads, faces,
body parts and figures, is a product of direct studio practice. It is thus
different in approach from the other important mid-17th century Netherlandish
drawing book, mentioned above, Van ’t Light der Teken en Schilder konst (‘About
the Light of the Art of Drawing and Painting’; 1643), by De Passe the Younger.
De Passe primarily focuses on the structure, proportion and anatomy of the
human body;19 examples of models and ways to learn to draw them are of
secondary importance. Bloemaert’s Tekenboek is actually closer in character in
its approach and images to the two volumes of etchings produced by Fialetti,
which were probably known to the Bloemaerts in one of the Dutch editions.20 The
Bloemaerts’ publication might well be described as the Northern counterpart to
Fialetti’s books.21 And as in those the emphasis in the Tekenboek is on
providing many practical examples of heads, faces and limbs to draw. Like
Fialetti’s works it may be regarded as a portable instruction manual for
drawing. Bloemaert’s Tekenboek was exceptionally popular from the time of its
publication around 1650 to the end of the 18th century.22 Many editions
followed the first (very rare) editio princeps, which probably contained 100
plates arranged in five parts.23 After his father’s death in 1651, Frederick
must have published one or more sub-editions with 120 plates in six parts and
around 1685 Nicolaes II Visscher (1649–1702) another with 160 plates. Several
decades later, in 1723, an edition by Louis Renard (dates unknown) appeared (of
which only one copy is known), with 166 plates in eight parts arranged by
Bernard Picart (1673–1733).24 The same arrangement was retained in the
best-known edition of Bloemaert’s work, published by Reinier and Josua Ottens,
the magnificent 1740 volume displayed here. At that time the title was changed
to Oorspronkelyk en vermaard konstryk tekenboek van Abraham Bloemaert
(‘Original and famous artful drawing book of Abraham Bloemaert’). Bloemaert’s
popula- rity was certainly not restricted to the Dutch Republic: artists such
as François Boucher (1703–70) and Balthasar Denner (1685–1749) also took the
Utrecht master as a model for their own work.Teekenschool/die op dien tijt van
de voornaamste meesters wiert gehouden heb gedaan’. Schatborn suggests that
this drawing school might have been in France where Van de Passe spent a long
period, 1617–30 (see Amsterdam and Washington D.C. 1981–82, p. 21). Veldman
emphasises that De Passe’s book is a tribute to the city of Utrecht, thanking
the city for spiritual nourishment including the Utrecht Drawing School
(Veldman 2001, pp. 337–38). Suggestion by Bok in Roethlisberger and Bok 1993,
vol. 1, p. 571. Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, pp. 645–51. Such a group
of drawings (mixed with prints) occurs for example in the estate of the painter
Gaspar Netscher (1639–84): ‘In the brown portfolio [ ] are 327 both prints and
drawings [ ] serving for disciples to copy’; see Amsterdam and Washington D. C.
1981–82, p. 17; Plomp 2001, p. 37. For artists’ practical education in the
Netherlands and Italy in the 16th and 17th centuries see Bleeke-Byrne 1984, pp.
28–39. Bloemaert’s Tekenboek was published with the Latin title: Artis Apellae,
liber hic, studiosa juventus, / Aptata ingenio fert rudimenta tuo ... (This
book, studious youths, brings to your minds the appropriate rudiments of the
art of Apelles ...); see Bolten 1985, p. 51; Roethlisberger and Bok 1993, vol.
1, p. 395 [translation]). It is possible that Abraham Bloemaert conceived the
idea of producing such a Tekenboek much earlier in his career: the Giroux
album, containing many figure studies, may well constitute Bloemaert’s initial
selection for such a didactic project; see Bolten 1993, p. 9, note 6; Bolten
2007, vol. 1, pp. 350–61. For the publication in instalments see: Bolten 2007,
vol. 1, p. 362. Bolten 1985, p. 66; Bolten 2007, vol. 1, pp. 362–97, nos.
1150–1311. For doubts regarding Bloemaert’s authorship of the drawings in
Cambridge see Bolten 1985, p. 48 (‘A. or F. Bloemaert’); Roethlisberger 1992,
p. 30, note 41; Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 391; Bolten 1993, pp.
6–8. Bolten 2007, vol. 1, p. 363, no. 1150, vol. 2, fig. 1150. The scene was
engraved, then supplemented with a chiaroscuro woodcut with two-tone blocks
(brown and sepia). This technique and the dimen- sions (303 × 222 mm [image])
are the same in the editio princeps from c. 1650 and the 1740 edition displayed
here (see Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, p. 395). See Aymonino’s essay in
the present volume, pp. 15–77. According to Roethlisberger and Bok (1993, vol.
1, p. 395), there is little or no discernible influence of ancient sculpture in
his own work. The engraving, A Draughtsman Sitting at a Table, Drawing after
Plaster Casts (fig. 3), does not appear in the editio princeps from circa 1650,
but does feature in the 1685 edition and later ones (Bolten 2007, vol. 1, p.
392, under no. 1290). The original drawing for this engraving is also in the
Fitzwilliam Museum, Cambridge: Bolten 2007, vol. 1, p. 392, no. 1290, vol. 2,
fig. 1290. For Feddes, see Bolten 1985, p. 18, repr.; Roethlisberger and Bok
1993, vol. 1, p. 395. For De Passe’s Tekenboek see: Amsterdam and Washington
D.C. 1981–82, pp. 15–17, 21, repr. For Dutch editions of Fialetti and for Dutch
publications based or partially reprinting Fialetti see Bolten 1985, pp. 119,
131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56. According to Strauss (1973,
p. 348) Bloemaert’s title page was ‘patterned partly on the frontispiece of
Odoardo Fialetti’s Vero modo et ordine per dessignar Tutte le parti et membra
del corpo humano, Venice (Sadeler), 1608’. See also Lehmann-Haupt 1977, p. 157.
For Bloemaert’s fortuna critica see: Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1, pp.
47–50. Regarding the Tekenboek Roethlisberger surmises that the 1740 edition was
intended for print and book collectors, rather than artists: ibid., vol. 1, p.
394. For the various reprints of Bloemaert’s Tekenboek cited in this paragraph
see Bolten 2007, vol. 1, p. 362. There were also various editions of sets of
prints copied after Frederick’s engravings [consequently printed in reverse]
during the second half of the 17th century and in the 18th century (see ibid.,
p. 362, note 22). The only known copy of the 1723 edition is in the Centraal
Museum in Utrecht (see Bolten 2007, vol. 1, p. 362). Slatkin, 1976; Gerson
1983, pp. 109–10 (Boucher and Fragonard), p. 189 (Piazzetta). 1 2 3 4 5
mp For Bloemaert’s life on which this biographical account is based, see
Roethlisberger and Bok, 1993, vol. 1, pp. 551–87; Bolten 2007, vol. 1, pp. 3–5.
For ‘new’ Bloemaert paintings, see Roethlisberger, 2014, pp. 79–92. Van Mander
1994–99, vol. 1, pp. 448–49 (fol. 297v). Roethlisberger and Bok 1993, vol. 1,
p. 570. Ibid., vol. 1, p. 571. Verbeek and Veldman 1974, p. 146, no. 191; De
Passe 1643–44, unpaginated introduction, Aen de Teekunst-lievende en-gunstige
lezers, to the first part, met de zoon van Paulus Moreelse en anderen) in een
vermaarde 12. Michael Sweerts (Brussels 1618–1664 Goa, India) A Painter’s
Studio c. 1648–50 Oil on canvas, 71 × 74 cm provenance: Private collection,
Moscow; acquired by Dr Abraham Bredius (1855–1946); purchased by the
Rijksmuseum in 1901 for f. 400. selected literature: Martin 1905, pp. 127, 131,
pl. II [a]; Martin 1907, pp. 139, 149, no. 10; Horster 1974, pp. 145, 147, fig.
2; Van Thiel 1976, p. 532, A 1957, repr.; Döring 1994, pp. 55–58, fig. 2,
60–62; Kultzen 1996, pp. 88–89, no. 6, repr., with previous bibliography.
exhibitions: Milan 1951, no. 166, pl. 117; London 1955, pp. 90–92, no. 77 (D.
Sutton), not repr.; Rome 1958–59, pp. 32–34, no. 4 (R. Kultzen); Rotterdam
1958, pp. 36–37, no. 4; Toyko 1968–69, no. 63; Cologne and Utrecht 1991–92, pp.
270–72, no. 33.1 (R. Kultzen); Hannover 1999, pp. 18–20, fig. 9; Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, pp. 97–99, no. VII (G. Jansen); Antwerp 2004–07
(no catalogue); Brussels 2007–08 (no catalogue); Doha 2011 (no
catalogue). Amsterdam, Rijksmuseum, SK-A-1957 We have entered the shadowy
inner sanctum of a painter’s studio in mid-17th-century Rome. A young
draughtsman perched on a wooden stool to the left studies a life-size model of
a flayed nude écorché, assuming a balletic pose at centre right. Behind it,
another boy draughtsman, younger still, sketches a classical female bust
resting on a table, which is shared on the right by the studio assistant who
grinds red-hued pigments. Working at an easel in the left back- ground is a
painter, perhaps the master of the studio, capturing the likeness of a male
nude posed in the corner. Partly obscured in the shadows on the far left are
two gentle- men visitors in Dutch dress. One glances in our direction while the
other gestures to our right, perhaps towards the painter or the écorché. The
main attraction, however, is the abundant array of plaster casts, mostly
antique, piled up in the foreground – heads, torsos, limbs and a relief – all
bathed in warm, golden light. Though widely admired in his lifetime, Sweerts
remains a somewhat enigmatic figure about whom relatively little is known.1 He
was born in Brussels in 1618, but is first docu- mented from 1646 to 1651 as
residing on the Via Margutta in the parish of S. Maria del Popolo in Rome, an
area favoured by Dutch and Flemish expatriates.2 Already twenty-eight when he
arrived in the city, he would have had at least some artistic training before
then, probably in the North, though his early teachers have not been
identified. Neither signed nor dated, this canvas was probably executed by
Sweerts c. 1648–50 in Rome, where he remained until 1652 or later.3 In
travelling south, Sweerts was following a long-standing educational tradition,
one succinctly articulated by Dutch painter and art theorist Karel van Mander
(1548–1606) who stated: ‘Rome is the city where before all other places the
Painter’s journey is apt to lead him, since it is the capital of Pictura’s
Schools’.4 It is evident from the Painter’s Studio and other depictions of the
same or similar theme of the artist at work, a subject that clearly fascinated
him, that Sweerts was well aware of artistic theory of the day, particularly
the importance placed on learning through drawing.5 Karel van Mander recom-
mends beginning artists to ‘seek a good master’, one who has decent works of
art in his workshop, that is, an ample supply of study materials such as books,
prints, drawings and plaster casts. The pupil must learn to draw ‘first with
charcoal, then with the chalk or pen’.6 After making copies of prints and
drawings by various masters, the student should progress to plaster casts, an
important step. On equal footing with the copying of casts was the study of
anatomy. However, given the difficulty of procuring corpses, artists at this
time copied anatomical figures in plaster or ‘flayed plaster casts’.7 This was
followed by study of the living figure before the student finally proceeded to
painting. Written at the beginning of the 17th century, Van Mander’s book thus
made available for Northern artists those principles of artistic education, the
‘alphabet of drawing’ that had been codified in Italy during the 15th and 16th
centuries.8 By clearly setting out the stages of study established by Van
Mander and others, first drawing from casts and anatomical figures in plaster,
then the live model, Sweerts’ composition is a visual lesson in the main
principles of studio practice required to become a successful painter.9 The
goal is manifested in Sweerts’ completed Wrestling Match canvas of c. 1648–50
displayed on the wall in the back- ground, which features figures based on
classical models.10 His didactic intent to illustrate the step-by-step approach
to learning recalls Odoardo Fialetti’s Artist’s Studio, c. 1608, from Il vero
modo, the instructional manual on drawing published in Venice about forty years
earlier (cat. 10), no doubt known to Sweerts through one of the Dutch publica-
tions that reproduced plates from it.11 Plaster casts and models were in
constant use in Northern workshops from the late 16th century onwards.12 Though
he never travelled to Italy, Van Mander’s friend, Cornelis Cornelisz. van
Haarlem (1562–1638), had a collec- tion of ninety-nine casts after antique and
anatomical 134 135 models.13 Van Mander praised his colleague (with whom
he started, along with Hendrick Goltzius, an informal academy in Haarlem in
1583) for selecting for his work ‘from the best and most beautiful living and
breathing antique sculptures’.1 4 Sumptuously displayed in a large pile in the
foreground, a veritable feast for the eyes, casts play a starring role in
Sweerts’ painting (detail, fig. 1). While light enters both from the window and
the open door, which reveals an urban view, that light that illuminates the
sculptures so brilliantly and mysteriously emanates from an unseen source, over
the viewer’s shoulder. The casts are presented with clarity and in sharp focus,
in marked contrast to the more generalised treatment of most of the other
elements in the composi- tion.15 While the human expressions seem almost blank,
those of the casts are animated and alive: the comment often made about
Sweerts, that ‘his people often look like sculptures and his plaster casts seem
almost human’, rings very true here.16 Several sources for the antique casts
can be identified, beginning with the head of a woman on the table, the subject
of study for the young boy sketching in the middle distance. As noted previously,17
she is a much reduced copy of the colossal so-called Juno Ludovisi (considered
now to be a portrait of Antonia Augusta, daughter of Octavia Minor and Mark
Antony), which, from 1622, was in the Ludovisi collection in Rome and is now in
the Palazzo Altemps in Rome.18 The most prominent among the jumble of casts in
the foreground on the right is the head of a woman, usually identified as Niobe
from the famous group in the Uffizi (fig. 2, see also p. 30, fig. 34), but
equally, the head could be that of one of her daughters from the same group.19
They were discovered together with the Wrestlers (p. 30, fig. 33) on a vineyard
outside Rome.20 Immediately to the left of the Niobe, is a cast of a limbless
Apollo based on a model by François Duquesnoy (1597–1643).21 The head of an old
woman in profile at the back of the pile to the left is inspired by the Roman
copy of a Hellenistic original donated in 1566 by Pius V to the Con-servatori
Palace and today in the Capitoline Museum (fig. 3).22 She contrasts with the youthful
beauty to her right, the head of the celebrated Venus de’ Medici (Florence,
Uffizi, see p. 42, fig. 56). Behind the old woman is a head of the Laocoön,
‘bronzed’ in effect, while the rest of his body, seen from behind, rests on the
top of the pile of casts (p. 26, fig. 19).23 The relief propped up against the
table at the back is a cast of a Roman terracotta plaque, Winter and Hercules,
from the Campana collection and acquired by the Louvre in 1861 Fig. 2. Niobe,
from the Niobe Group, possibly a Roman copy of a Greek original of the 4th
century bc, marble, 228 cm (h), Uizi, Florence, inv. 294 Fig. 3. Statue of an
Old Woman, Roman copy of a Hellenistic original, marble, 145 cm (h), Capitoline
Museums, Rome, inv. Scu 640 Fig. 1. Michael Sweerts, A
Painter’s Studio (detail) 136 (fig. 4).24 It was admired by artists like
Giovanni da Udine (1487–1564) in the 16th century when it was recorded in the
collection of Gabriele de’ Rossi (1517),25 and into the 17th by others such as
Pietro da Cortona (1596–1669) and Pietro Testa (1612–50), whose copies after it
are preserved respec- tively in the Uffizi, Florence, and in the Royal
Collection at Windsor Castle.26 That this collection of casts was an important
part of Sweerts’ working practice is suggested by their regular appearance in
other compositions. Some familiar faces – the head of the old woman, the Juno
Ludovisi, the Niobe and others – return in Sweerts’ later Artist’s Studio,
signed and dated 1652, in the Detroit Institute of Arts (fig. 5). They are seen
among examples, including a cupid and torso by François Duquesnoy; this is
being scrutinised by an elegant young man, probably in Rome on the Grand Tour,
while the painter appears to be explaining how Duquesnoy’s Fig. 4. Winter and
Hercules, Roman, 1st century ad, terracotta, 60 × 52 cm, Louvre, Paris, inv. Cp
4169 figures once formed part of a group.27 Closer to the present composition
in conception, is the Artist’s Studio with a Woman Sewing in the Collection Rau
Foundation UNICEF, Cologne (fig. 6).28 Though almost certainly a workshop
picture, it evidently documents Sweerts’ original design and intention. There
is a similar haphazard arrangement of casts, with many of the same specimens
reappearing, including the bronzed head of Laocoön and his torso, placed beside
modern works, including the copy after a marble relief of François Duquesnoy,
Children Playing with a Goat.29 Many other celebrated compositions by Sweerts
feature antique casts (see p. 40, fig. 52). It is not known why he chose to
display them with such prominence and so frequently, but he may well have been
catering to a new class of patron, the Dutch Grand Tourist.30 Among Sweerts’
most important benefactors in Rome in the 1640s were Dutch tourists, especially
merchants.31 Thus three of five brothers from the Deutz textile merchant family
were in Italy between 1646 and 1650, and that is when they probably acquired
the many paintings by Sweerts listed in their inventories, including an
Artist’s Studio owned by Joseph Deutz.32 Significantly, the documents also
suggest that Sweerts acted as the Deutz’s agent for purchasing antique
sculpture as well as modern pictures, as so many other painters were to do in
the next century.33 Another important patron in Rome, Prince Camillo Pamphilj,
the nephew of Pope Innocent X (r. 1644–55), may have involved Sweerts in
teaching. He painted a range of works for the Prince, who, interestingly,
possessed a version in porphyry of the ever-present Head of the Old Woman; he
137 also owned the Duquesnoy relief that occurs in Sweerts’
Artist’s Studio now in Cologne (fig. 6).34 An intriguing pay- ment recorded in
the Pamphilj account book to Sweerts on 21 March of 1652 for ‘various amounts
of oil used since 17th February in His Excellency’s academy’, suggests Sweerts’
direct involvement with an academy in Rome.35 By the summer of 1655, Sweerts
had returned to Brussels where he founded ‘an academy of life drawing’,
primarily to educate tapestry and carpet designers.36 Something of its original
appearance might be gleaned from Sweerts’ Drawing School in the Frans Hals
Museum in Haarlem (c. 1655–60), where students of various ages draw from a live
male nude.37 In this painting, conspicuously absent are plaster casts; the
animation is now provided by the more than twenty young students assuming
various attitudes, some concentrating on the task at hand, others less focused.
However, there was probably another version by Sweerts of this painting, now
known only in a copy, where the live nude has been substi- tuted by a cast of a
classical female sculpture.38 Evidently plaster models were never far from his
mind. aa & avl 1 For his life and work, see Kultzen 1996 and Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, with previous literature. 2 Sutton 2002, p. 12;
Bikker 2002, pp. 25–26. 3 Sutton 2002, p. 21. 4 In his ‘Foundation of the
Painter’s Art’ (Grondt der Schilder-Const), published together with his ‘Lives’
and his two other theoretical treatises in the Schilder-Boeck (1604). See Van
Mander 1604, fol. 6v, chap. 1, no. 66; Van Mander 1973, vol. 1, pp. 92–93,
chap. 1, no. 66; Stechow 1966, pp. 57–58. Van Mander further noted, ‘From Rome
bring home skill in drawing, the ability to paint from Venice, which I had to
bypass for the lack of time.’: Stechow 1966, p. 58; Sutton 2002, pp. 12–13. 5 6
7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 Sutton 2002, pp. 11, 17. In
the preface to his book on painters: Van Mander 1604, fol. 9r, chap. 2, no. 9;
Van Mander 1973, pp. 102–03, chap. 2, no. 9; Martin 1905, p. 126. Martin 1905, p.
127. See Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 33–34. Martin 1905, p. 127.
Staatliche Kunsthalle Karlsruhe; Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002,
pp. 94–96, no. VI (G. Jansen). For example, Johannes Gellee’s Tyrocinia artis
pictoriae caelatoriae published in Amsterdam in 1639 where copied versions of
the Artist’s Studio and other etchings appear: see Bolten 1985, pp. 132–39 and
for other publications based or reprinting parts of Fialetti’s treatise see
Bolten 1985, pp. 119, 131, 133–34, 141, 143, 153, 157, 188–207, 243–56. For the
use of plaster casts in 17th- and 18th-century artists’ studios in Antwerp and
Brussels, see Lock 2010. Rembrandt’s bankruptcy inventory of 1656 lists
numerous plaster casts, from life as well as from the Antique, which were
doubtless an essential part of his workshop practice (Strauss and Van der
Meulen 1979, pp. 349–88; Gyllenhaal 2008). See also cat. 23, note 18. Van Thiel
1965, pp. 123, 128; Van Thiel 1999, p. 84, and Appendix II, pp. 254–55, 257,
270–71, 273; Sutton 2002, p. 18. Van Mander 1604, fol. 292v; Van Mander 1973,
pp. 428–29. Sutton 2002, p. 18. This also may be due, in part, to the
compromised condition of the canvas. Sutton 2002, p. 20. Martin 1905, p. 127;
Horster 1974, p. 145. Haskell and Penny 1981, p. 100; Palma and de Lachenal
1983, pp. 133–37, no. 58 (de Lachenal). Horster 1974, pp. 145; Döring 1994, p.
60; Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, p. 97. For the group, see
Haskell and Penny 1981, pp. 274–79, no. 66, figs 143–47, and for the daughter that
it resembles the most, fig. 145; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 318–19, no.
596.1. Haskell and Penny 1981, p. 274; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 62–63, no.
50. Noted by Döring 1994, pp. 60–61. For the Duquesnoy sculpture, see
Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, p. 122, no. XV-2. On Duquesnoy’s
fame as a ‘classical’ sculptor during the 17th century and later see
Boudon-Mauchel 2005, pp. 175–210. As first observed by Döring 1994, p. 62. For
the statue see Stuart Jones 1912, pp. 288–89, no. 22. Döring 1994, p. 63. The
subject was noted by Denys Sutton (London 1955, p. 91) and Marita 138 139 Fig.
5, Michael Sweerts, An Artist’s Studio, 1652, oil on canvas, 73.5 × 58.8 cm,
The Detroit Institute of Arts, inv. 30.297 Fig. 6, After Michael Sweerts, Artist’s
Studio with a Woman Sewing, c. 1650, oil on canvas, 82.5 × 106.7 cm, Collection
RAU-Fondation UNICEF, Cologne, inv. GR 1.874 25 26 27 28 29 Horster (1974, p.
145) who both identified the motif from a sketchbook by Francisco de Hollanda.
Sutton and Guido Jansen (Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, p. 97)
believed the plaster relief to combine scenes from two separate ones: the
Winter and Hercules and the Cretan Bull. However, as Eloisa Dodero has noted
(personal communication), it is based on the single terracotta relief in the
Louvre, see Christian 2002, pp. 181–84 no. II.15, fig. 25; De Romanis 2007, pp.
235–238, fig. 1. For the acquisition by the Louvre, see Sarti 2001, p. 121.
Dacos 1986, p. 222; Christian 2002, pp. 181–86. For the Cortona drawing:
Briganti 1982, fig. 286.27; for the Testa sheet at Windsor: Christian 2002, pp.
181–82, fig. 26. See Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, pp. 120–23,
no. XV, where the painting is discussed at length. Amsterdam, San Francisco and
elsewhere 2002, p. 110, fig. xii–i (as by or after Sweerts). Many copies are
known suggesting it was a much-admired composition. Bikker 2002, p. 29, fig.
27. 30 31 32 33 34 35 36 37 38 Ibid., p. 27. Ibid., p. 27. Sutton 2002, pp.
15–16; Bikker 2002, pp. 27–28. Described in documents in general terms as ‘Ein
Schildersacademetje’, it is not known which of the surviving studio pictures it
was. According to the collections database, Detroit Institute of Arts website,
it was theirs (fig. 5). Bikker 2002, pp. 27–28. Ibid., pp. 28–31, figs 25, 27.
Ibid., p. 29. This was probably a private academy and not the Accademia di San
Luca, of which Sweerts was possibly a member. He was responsible for collecting
membership dues from his compatriots: see Bikker 2002, pp. 25–26. Lock 2010, p.
251; Bikker 2002, p. 31. Amsterdam, San Francisco and elsewhere 2002, pp.
133–35, no. xix (G. Jansen). Present whereabouts unknown; see Amsterdam, San
Francisco and elsewhere 2002, p. 133, fig. xix–i. 13. Jan de Bisschop
(Amsterdam 1628–1671 The Hague) Two Artists Drawing an Antique Bust (recto); A
Reclining Man seen from Behind (verso) c. 1660s Pen and brown ink, brushed with
brown wash, 91 × 135 mm Inscribed recto l.r. in pencil: J. Bisschop. watermark:
part of the crowned coat of arms of Amsterdam.1 provenance: Private collection,
Germany; Sotheby’s, London, 13 April 1992, lot 260, from whom acquired.
literature: London 1992 (unpaginated), repr.; Broos and Schapelhouman 1993, p.
51, under no. 34, fig. b. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin
Bellinger collection, inv. no. 1992-012 Born in Amsterdam in 1628, Jan de
Bisschop was among a group of talented amateur artists, including his immediate
contemporaries and friends Constantijn Huygens the Younger (1628–1697) and
Jacob van der Ulft (1627–1689) who all worked in Netherlands around the
mid-17th century.2 De Bisschop was classically educated and trained as a
lawyer; he became an advocate at the judicial court of The Hague. But he also
distinguished himself as a writer, theoretician, literary scholar, and as a
connoisseur of the Antique. And although without formal artistic training, he
was an accomplished draughtsman and etcher who, through his publications
reproducing ancient sculpture and Old Master drawings, disseminated in the
Netherlands an anti- quarian culture and an aesthetic based on the works of
classical antiquity. He also helped introduce the practice of drawing after
both antique sculpture and live models in the Hague.3 His large corpus of
drawings, numbering in the upper hundreds, consists of sun-infused, Italianate
land- scapes, lively figure and genre studies, portraits, and many copies after
antique sculpture and paintings by Old Masters, Fig. 1. Bust of the so-called
Lysimachus, Roman copy of the Augustan period from a Greek original of the 2nd
c. bc, marble, 49 cm (h), Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv. 6141
usually executed in pen and brush and wash with a distinc- tive warm,
golden-brown ink, referred to from the late 17th century as bisschops-inkt
(Bisschop’s ink).4 As in the examples illustrated here, he often effectively
combined dense washes with reserves of untouched paper to create a
light-drenched, fresh out-of-doors effect. In this lively and rapid sketch,
probably made on the spot, two seated draughtsmen, seen from the back, draw
after an antique bust of a man. On the reverse one of them is sketched again,
casually reclining. The object of their gaze is a bust nowadays identified as
of Lysimachus, the Greek successor to Alexander the Great, who from c. 306 to
281 bc reigned as King of Thrace, Asia Minor and Macedonia.5 Discovered c.
1576, it was acquired by Cardinal Odoardo Farnese from the Giorgio Cesarini
collection, and is preserved today in the Museo Archeologico Nazionale di
Napoli (fig. 1). Doubt- less known to de Bisschop through one of the plaster
casts which circulated in Northern Europe at the time, the bust was in the 17th
century thought to represent a philosopher; from the 18th century he was
identified more specifically – but wrongly – as the Athenian legislator, Solon.
It was copied profusely from the 17th century onwards, and was included, for
example, in a portrait painted by Isaac Fuller (1606–72) in c. 1670 (Yale
Center for British Art, New Haven) of the architect and sculptor, Edward Pierce
(c. 1635–95), who rests one hand on the bust while gesturing to it with the
other.6 Admiration for the sculpture continued in the 18th century, in France,
where a red chalk copy of it was made by the sculptor, Edmé Bouchardon
(1698–1762) or a member of his circle,7 and particularly in England, where,
catering to a n emerging neo-classical aesthetic, a blemish-free replica of the
Lysimachus was carved in 1758 by Joseph Wilton (1722– 1803); this was acquired
by Charles Watson-Wentworth, the second Marquess of Rockingham, for his country
house in Wentworth and is now in the The J. Paul Getty Museum, Los Angeles.8
Another copy of the bust, made by the sculptor and restorer of ancient statues,
Bartolomeo Cavaceppi (see 140 141 cat. 18), was mentioned in
a letter, dated 6 June 1775, from the dealer and agent, Thomas Jenkins, to his
client, Charles Townley, as a possible acquisition. His scheme involved fusing
Cavaceppi’s bust with the body of a statue of Achilles; mercifully, this was
abandoned when the original head of Achilles was recovered.9 Its diminutive
size and spontaneous style of execution would suggest the present sheet came
from a sketchbook, probably one like that held by the artist on the right. The
draughtsmen have not been securely identified but they are no doubt to be found
among de Bisschop’s friends and associ- ates; one may be Huygens the Younger,
with whom he made sketching excursions in and around The Hague and Leiden. In
fact, drawings by de Bisschop are often mistaken for works by Huygens, to whom
this sheet was previously assigned.10 A treatment of a similar theme, of two
draughtsmen from the front seated in a landscape but without an antique model
to study, is found in de Bisschop’s drawing in the Amsterdam Museum (fig. 2).11
Executed with the same loose pen work and spontaneous handling of the brush,
characteristic of de Bisschop after 1660, it shows one artist on the left
gazing downwards to – or reading from – a loose sheet held in both hands, while
the other appears to be sketching in a small book. A third rendering of two
artists sketching out of doors, one, with hat removed, holding a drawing board,
is among the sheets by Huygens the Younger in the Municipal Archives of The
Hague (fig. 3).12 As with the present study, the figures are seen from behind
in a sunlit setting but on a bench, near the entrance to the country house,
Zorgvliet, near The Hague, and the subject of their attention is out of view.
De Bisschop’s drawings were admired by collectors and connoisseurs from John
Barnard (1709–84) to Horace Walpole (1717–97), but his main contribution to
scholarship was the publication of two influential books. The first was the
Signorum veterum icones issued in two volumes in 1668–69; Fig. 2. Jan de
Bisschop, Two Draughtsmen Seated Outdoors, pen and brown ink with the brush and
brown wash, grey ink, 97 × 149 mm, Amsterdam Museum, inv. nr. A 18179 142 Fig.
4. Jan de Bisschop, Allegory of Sculpture, title page to the Signorum veterum
icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, etching, 245 × 114 mm, Warburg Institute
Library, London also consulted prints by François Perrier (1590–1650), who had
published a selection of antique statuary in Paris and Rome in 1638 (Segmenta
nobilium signorum et statuarum . . .).18 An album of 140 drawings by de Bisschop
suggests that he intended to publish a third volume of Icones on antique Roman
reliefs, based largely on another publication by Perrier of 1645 (Icones et
segmenta . . .).19 However, de Bisschop’s death from tuberculosis at
forty-three meant that the third volume was never realised. In addition to his
writings on art, de Bisschop contrib- uted in other ways to furthering artistic
education in the Netherlands. He participated in local confraternities of
artists and co-founded a private drawing academy with his friends, including
Huygens the Younger; they met several times a week in the evenings, often
drawing after a live model.20 In 1682, eleven years after de Bisschop’s death,
the first drawing academy in the Northern Netherlands – includ- ing in its curriculum
the study of plaster casts after the Antique – was established in The Hague.21
De Bisschop’s influence may have extended further, perhaps as a direct
consequence of the Icones. Of significance is a letter dated 1688 from the
artist Romeyn de Hooghe (1645–1708) to the burgermasters of Haarlem, asking
their assistance in setting up an academy for students to study ‘the best
ancient statues, such as Venus, Apollo, Laocoön, in order to familiarise
themselves with the idea of classical beauty’.22 Although that request was
turned down, a Haarlem Drawing Academy was founded in 1772 and although it was
closed in 1795, in the following year, the Haarlem Drawing College was
established, with the study of the Antique remaining a vital part of the
curriculum (see cat. 31).23 Fig. 3. Constantijn Huygens, the
Younger, Two Draughtsmen near Zorgvliet, detail, pen and brown ink and
wash with the brush over traces of graphite, 243 × 373 mm, Municipal Archives
of The Hague, Gr. A 110 the first volume was dedicated to his friend, Huygens
the Younger and the second, to Johannes Wtenbogaard, the Receiver-General of
Holland and a neighbour of his parents. In 1671, de Bisschop published the
Paradigmata graphices variorum artificum, which he dedicated to the collector
Jan Six; this comprised forty-seven etchings based on Italian Old Master
drawings and ten antique busts.13 The two volumes of the Icones were
republished together with the Paradigmata, in later editions.14 Of particular
relevance to us is de Bisschop’s Icones, featuring one-hundred etched plates
after antique sculpture (fig. 4). Its purpose was didactic: to provide a
compilation of the best-known works and to establish norms of classical beauty
for artists, amateurs and collectors. In de Bisschop’s words, they were
‘sculptures and reliefs of the greatest perfection in art and the best sources
for students’.15 The book proved to be an enormously useful resource especially
as it featured, in some cases, the same sculpture seen from different angles;
in essence, in the round. For instance, de Bisschop’s presented five views of
the celebrated Wrestlers sculpture in the Uffizi (see p. 30, fig. 33, and cats
16 and 27), two of which are shown here (figs 5–6).16 In the Icones, the
unusual left profile view of the Farnese Hercules, in reverse was probably
known to Jan Claudius de Cock (1667–1735) and Wallerant Vaillant (1623–77), who
reproduced it from the same viewpoint (see cat. 14, fig. 4). In fact, Cock took
inspiration from several of the Icones plates for his Allegory of the Arts
series (cat. 14). As de Bisschop probably never travelled to Italy, many of his
prints relied on antique sculptures in Dutch collections, or on casts, and
especially on drawings by artists who had travelled south to visit collections
in Florence and Rome, such as Willelm Doudijns (1630–97), Pieter Donker (1635–
68), Adriaen Backer (1635/35–84) and others.17 De Bisschop avl 1 2 3 4 5 6 7 8
9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 See Churchill 1967, pl. 8, no. 9,
date: 1665 or pl. 9, no. 11, date: 1670. For this life and work, see Van Gelder
1972. Van Gelder 1972, p. 27. Goeree 1697, p. 91. Gasparri 2009–10, vol. 2, pp.
55–57, no. 32 (F. Coraggio), and pp. 188–89, pl. XXXII, figs 1–4.
Charlton-Jones 1991, pp. 100–01, pl. 89. The subject of the Louvre drawing
(Guiffrey and Marcel 1907–75, vol. 1, no. 1353) was identified by Rausa 2007a,
p. 172, no. 165.1. Fusco 1997, p. 56. Coltman 2009, p. 87. Sold as Huygens at
Sotheby’s, London, 13 April 1992, lot 260. Broos and Schapelhouman 1993, p. 51,
no. 34 (B. Broos). Amsterdam 1992, p. 37, no. 22 (R. E. Jellema and M. Plomp).
Van Gelder 1972, pp. 1–2. Both books are published in their entirety with
commentary by Van Gelder and Jost 1985, 2 vols. See also Bolten 1985, pp.
257–58 and Plomp 2010, pp. 39–47. Bolten 1985, p. 71. Van Gelder 1972, p. 19.
Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 106–08, nos 18–22, vol. 2, pls 18–22.
Further plates are after other artists as well as drawings by Jacob de Gheyn
III (1596–1641), who is not known to have travelled to Italy but visited
collections in England (Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 15–16, 155). Van
Gelder 1972, pp. 19–20. The album of classical statues, reliefs, Roman
architecture and contempo- rary Dutch figures and scenes is at the Victoria and
Albert Museum, London, inv. D.1212:1 to 141-1989. On it see Van Gelder 1972,
pp. 8–9 and especially Turner and White 2014, vol. 1, pp. 25–67, no. 23. Van
Gelder 1972, p. 11. Van Gelder 1972, p. 27. Van der Willigen 1866, p. 137;
Washington D.C. 1977, under no. 69 (F. W. Robinson). Haarlem 1990, pp. 16–17,
34–38. Fig. 5. Jan de Bisschop, The Wrestlers, from the Signorum veterum
icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, pl. 18, etching, 164 × 215 mm, Warburg
Institute Library, London Fig. 6. Jan de Bisschop, The Wrestlers, from the
Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, pl. 21, etching, 199 ×
133 mm, Warburg Institute Library, London 143 14. Attributed
to Jan Claudius de Cock (Brussels 1667–1735 Antwerp) An Allegory of Painting c.
1706 Etching, 141 × 100 mm watermark: possibly part of a coat of arms.
provenance: Bassenge, Berlin, 6 December 2001, lot 5452 (as Anonymous, Southern
German, c. 1700), from whom acquired. literature:None. exhibitions: Not
previously exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2001-037 In
the corner of a painter’s workshop, students draw after plaster casts, selected
according to their age and level of study. The youngest, wearing a Roman-style
toga and stand- ing at a pedestal, which supports his open sketchbook, records
the likeness of the head of a boy similar to him in age. He may be copying the
bust itself, or more likely, the drawing after the bust, propped up next to it.
At the left, another pupil, a pre-teen representing a higher level of study,
thoughtfully examines a reduced model, in reverse, of a rather unfit Farnese
Hercules (see p. 30, fig. 32 and cats 7, 16, 21) elevated on a plinth, and
shown in a similar pose as illustrated by Jan de Bisschop’s Icones (fig. 1).
The student and Fig. 1. Jan de Bisschop, The Farnese Harcules, from the
Signorum veterum icones, part 1, Amsterdam (?), 1668, pl. 8, etch- ing, 221 ×
105 mm, Warburg Institute Library, London the statuette are so posed that they
appear to exchange glances. In the background, partially obscured by the sculp-
ture’s base, is a third boy, probably midway in age between the others, who
bows his head in concentration. Displayed on the shelf and walls above are
workshop props – a globe, hourglass, books, compass and additional fragments of
plaster casts, included a female torso and a male one which may be based on the
Belvedere Torso (p. 26, fig. 28). Presiding over the scene is a voluptuously
dressed female figure with an elaborate hairstyle and bared breasts, who holds
a palette with brushes in one hand, and gestures to the statue of Hercules with
the other. She is leaning on a richly carved wooden table bearing bottles of
spirit, compasses and completed figural drawings. She is an Allegory of
Painting, as described by Cesare Ripa in his Iconologia, the widely consulted
emblematic handbook first published in 1593 – and probably known to de Cock
through the Dutch editions of 1698 or 1699: a beautiful woman with twisted,
unruly hair, holding the tools of the painter.1 She represents the goal; once
pupils had completed their prescribed course of study, mastering the succession
of stages dictated by the established norms of 16th-century studio practice –
first, drawing the individual parts of the body through drawings of others,
prints, fragments and casts, and finally, the entire figure, a statue or live
model – only then, may they progress to painting (see also cat. 10).2 The
attainment of the goal is encapsulated in the prominently displayed picture on
the wall above Hercules, probably a Mars and Venus. Though acquired as by an
anonymous southern German artist, c. 1700, the etching shares similarities with
the work of the Flemish painter, sculptor, etcher and writer, Jan Claudius de
Cock.3 It is particularly close in style and execution to his drawing of the
Allegory of Sculpture drawing, signed and dated 1706 (Metropolitan Museum of
Art, New York, fig. 2), which is carried out with the same meticulous handling
and degree of finish.4 Direct references to antique sculpture abound in the New
York sheet with plaster casts freely modelled after the Pan and Apollo from the
Cesi collection (Museo Nazionale 144 145 Fig. 2. Jan Claudius de
Cock, Allegory of Sculpture, 1706, pen and brown ink, 317 × 195 mm, The
Metropolitan Museum of Art, New York, 2010.533 Romano, Rome) at right and, at
the left, the Wrestlers, acquired by the Medici in 1583 (Uffizi, Florence; see
p. 30, fig. 33).5 Antique-inspired motifs – busts, putti, fragments and a
strigilated krater – are also visible throughout. As with the etching, there is
a female personification – in this case, of sculpture – her hand resting on one
bust and pointing to a second with the other, just as Painting does here in the
etching. At her feet are the tools of her trade: scalpels, mallet and a drill.
Other drawings of similar subject matter, format and date suggest de Cock
planned a series on the Allegories of the Arts, perhaps intending them to
appear as etchings in a book. His drawing of a female sculptor modelling a
recumbent Venus (fig. 3), another Allegory of Sculpture, is also signed, and
dated (1706) and is numbered like the New York drawing.6 Further studies by de
Cock no doubt relate to the same series.7 However, while the drawings are
roughly the same size, the present etching is considerably smaller. The
colossal Farnese Hercules became enormously popular immediately after its
discovery in the 16th century, and 146 Fig. 3. Jan Claudius de Cock, An
Allegory of Sculpture, 1706, pen and brown ink, black chalk, 321 × 192 mm,
Christie’s, London, 19 April 1988, lot 140 numerous copies after it were
produced, often reduced to life-size or the scale seen here, to make it more
manageable and portable.8 A model strikingly similar to that in the etching
occurs in a mezzotint of a boy drawing in a studio, c. 1660–75, by the Dutch painter
and engraver, Wallerant Vaillant (1623–77), where it is perched on a table at a
nearly identical angle (fig. 4).9 Both prints suggest that by the early 18th
century, plaster models of the Hercules were commonplace in Flemish and
Netherlandish workshops.10 Several of the antiquities in both the etching, here
attrib- uted to de Cock, and his two related drawings discussed above, argue
knowledge of Jan de Bisschop’s Icones (1668–69), by then the standard reference
for antique sculptures in the Netherlands (see cat. 13). For example, the
rather unusual left-profile view of the Farnese Hercules in the etching and the
pose of the Wrestlers in the New York drawing (fig. 2), both shown reversed in
respect to the antique originals, find their counterparts in the Icones (fig. 1
and cat. 13, fig. 5).11 And the pensive Muse, possibly Clio, at the upper right
of the Fig. 4. Wallerant Vaillant, A Boy Drawing in a Studio, c. 1660–75,
mezzotint, 324 × 300 mm, Rijksmuseum, Amsterdam, RP-P-1889-A-14489 second
Allegory of Sculpture drawing (fig. 3), is a literal quotation from a plate in
the second volume of Bisschop’s 12 Born in Brussels, de Cock was apprenticed in
the workshop of Peeter Verbrugghen the Elder (c. 1609–86) in Antwerp. After
Verbruggen’s death, he established himself in that city, although he later
moved to Breda, where King William III Stadholder of the Netherlands
commissioned him to work on sculpture for a courtyard in the town.14 However,
by 1697 or 1698, de Cock had returned to Antwerp and devoted himself more to
teaching, establishing a large workshop with many pupils, some learning
drawing, others, goldsmithing.15 In 1720, he wrote a didactic poetical treatise
for his students, Eenighe voornaemste en noodighe regels van de beeldhouwerije
om metter tijdt en goet meester te woorden (‘Some 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13
14 15 16 17 avl For Pittura from Ripa’s first illustrated edition (1603), see
Buscaroli 1992, p. 357 and in the Dutch edition of 1698, reprinted in 1699, see
Hoorn 1698, II, p. 515 [c]. Armenini 1587, pp. 52–59 (book 1, chap. 7); Alberti
1604, p. 5 (quoting Federico Zuccaro); Roman 1984, p. 91. Nagler (1966, vol. 3,
no. 2100) and Wurzbach (1906–11, vol. 1, pp. 304–05) only briefly mention his
etchings and this subject does not occur. Acquired Christie’s, London, 7 July
2010, lot 328. It is signed at lower left: ‘Joannes Claud: de Cock invenit
delineavit Anno= MDCCVI’ and numbered below, ‘4’. A further inscription by the
artist on the verso, “Sculptura Pace, et Abondante=”/[. . .], may refer to another
drawing in the series, perhaps an Allegory of Peace and Abundance or a
Concordia. Haskell and Penny 1981, pp. 286–88, no. 70; pp. 337–39, no. 94.
Christie’s, London, 19 April 1988, lot 140. According to the catalogue, it is
signed and dated, ‘Joan Claudius de Cock/invenit delineavit/AoMDCCVI’ and
numbered ‘3’ below. They include another signed Allegory of Sculpture close to
the New York drawing in composition, with differences and executed in pencil,
326 × 194 mm (Christie’s, Amsterdam, 15 November 1993, lot 115) and a signed
Allegory of Architecture, pen and brown-grey ink and wash, 328 × 234 mm
(Christie’s, Amsterdam, 21 November 1989, lot 52). Haskell and Penny 1981, p.
232; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1, repr. on pp. 207–13. Hollstein
1949–2001, vol. 31, p. 119, no. 96. The 1635 studio inventory of the painter,
Hendrik van Balen (1575–1632) mentions a cast of the Hercules among other
antique works (Duverger 1984–2009, vol. 4, p. 208). The torso of a draped male
statue on the shelf at upper right in the drawing probably derives from a
further etching by Bisschop, based on copies by Willelm Doudijns (1630–97),
reproducing a marble in the Pighini collection and now in the Vatican (Van
Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 110–11, no. 26, vol. 2, pl. 26; Helbig
1963–72, vol. 1, p. 194, no. 250). Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp.
184–85, no. 98, vol. 2, pl. 98. In that drawing, the male torso seen from the
back on the shelf at right recalls de Bisschop’s etching of the Belvedere Torso
(Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 108–10, no. 24, vol. 2, pl. 24). Van
Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 184–85; Haynes 1975, pl. 18. De Gheyn was in
London in the summer of 1618 and his drawing (untraced), was in the collection
of J. A. Wtenbogaert in Amsterdam (Van Gelder and Jost 1985, vol. 1, pp. 16,
155, 185). For his life and work, see C. Lawrence, “Cock, Jan Claudius de”.
Grove Art Online. Oxford Art Online, accessed December 10, 2014,
http://www.oxford- artonline.com/subscriber/article/grove/art/T018366. Pauwels
1977, p. 37. Published in Brussels by Mertens 1865; Lawrence 1986, p. 283.
Mertens 1865; Lawrence 1986, p. 283. The original marble from the Earl of
Arundel’s collection, known to de Bisschop through a drawing after it by
Jacques de Gheyn III, is now in the Ashmolean Museum, Oxford.13 publication.
chief and notable rules from the sculptor in order to become a good master in
due course’) although it remained unpublished until the 19th century.16 It is
entirely possible that he intended the Allegory of Arts series to illustrate
this treatise, in which he expressed his great admiration for classical
sculpture, namely the Laocoön, the Medici Venus – and, most importantly – the
Farnese Hercules.17 147 15. Nicolas Dorigny (Paris 1658–1746
Paris), after Carlo Maratti (Camerano 1625–1713 Rome) The Academy of Drawing c.
1702–03 Etching and engraving, 470 × 321 mm (plate); 503 × 331 mm (sheet) State
I of II (second state dated 1728 with the address of Jacob Frey). Inscribed on
the plate, l.l. on the ground: ‘TANTO CHE BASTI’, same inscription repeated
l.r. on the perspective drawing on the easel, and c.l. on the pedestal of the
anatomical model. Inscribed u.c. above the statue of Apollo: ‘NON / MAI
ABASTANZA’; u.r. above the Three Graces: ‘SENZA DI NOI OGNI FATICA E VANA’.
Inscribed l.c. with the title, ‘A Giovani studiosi del Disegno’, followed by
ten lines explaining the scene: ‘La Scuola del Disegno, che s’espone delineata
con le presenti Figure dal Sig.r Cavalier Carlo Maratti, può molto contribuire
al’disinganno di coloro che credono di potere con la cognizione, e studio di
molte Arti divenir perfet.ti nell’Arte del dipingere senza procurare in primo
luogo d’esser perfettissimi nel Disegno, e senza il dono naturale, et un
particolare istinto di saper con grazia, e facilità animare, e disporre
vagamente le parti di quell’Opera, che prenderanno a delineare, e và figurando
questo suo nobil pensiero con il mezzo dell’azzioni, che qui si additano.
Vedonsi alcuni studiosi delle mathematiche in quella parte, che spetta alla
Geometria, et Ottica, che conferiscono alla Prospettiva: dall’altro lato, altri
applicati all’osservazione d’un Corpo anatomico, dà cui si apprende la giusta
proporzione delle membra, e sito de’muscoli, e nervi, che compongono una
figura, dimostrato eruditame-te dà Leonardo da Vinci espresso co- la propria
effige, con il motto . Tanto che basti . per dimostrare, che di tali
professioni basta, che quello, che attenderà al Disegno sia mediocrem.te
erudito, per ridurre ad un’perfetto fine qualunque Idea. Mà per coloro, che si
esprimono attenti allo studio delle statue antiche, non serve una leggiera
applicazione alle mede, essendo lor d’uopo di farvi sopra una lunga, et esatta
riflessione, e studio per apprendere le belle forme; e si pone l’esemplare
delle statue antiche, come le più perfette, nelle quali quei grandi Huomini
espressero ì Corpi nel più perfetto grado, che possano dalla natura istessa
crearsi, e perciò vi si pone il motto . Non mai abastanza . Tutto però
riuscirebbe vano di conseguire senza l’assistenza delle Grazie, che intende,
come accennammo, per quel natural gusto di disporre, et atteggiare con grazia,
e delicatezza le positure, et ì movimenti delle Figure, dalle quali poi risulta
quella vaghezza, e leggiadria, che destano meraviglia, e piacere in chiunque le
mira, ponendosi queste a tal oggetto in alto, e sù le nuvole per significare,
che questo dono non viene che dal Cielo, con il motto . Senza di noi ogni
fatica e vana . Vivete felici.’1 Inscribed l.l. margin: ‘Eques Carolus Maratti
inven. et delin. Cum privil Summi Pont. et Regis Christ.mi’, and l.r.: ‘N.
Dorigny sculp.’. watermark: Possibly a four-legged animal inscribed in a double
circle. provenance: Possibly Hugh Howard (1675–1737); Charles Francis Arnold
Howard, 5th Earl of Wicklow (1839–81), from whom acquired in 1874. literature:
Le Blanc 1854–88, II, p. 140, no. 51; Mariette 1996–2003, vol. 3, p. 511, no.
76, fig. 189; Kutschera-Woborsky 1919, pp. 9–28, fig. 5; Goldstein 1978, p. 1,
fig. 1; Rudolph 1978, Appendix, p. 203, n. 38; Philadelphia 1980–81, pp.
114–16, no. 101 A (A. E. Golahny); Johns 1988, pp. 17–21, fig. 5; Goldstein
1989, p.156, fig. 1; Winner 1992, fig. 1; Jaffé 1994, p. 128, under no. 251
646; Mertens 1994, pp. 222–24, fig. 94; Goldstein 1996, p. 47, fig. 14; Rome
2000b, vol. 2, pp. 483–84, no. 2 (S. Rudolph); Pierguidi 2014. exhibitions: Not
previously exhibited. The British Museum, Department of Prints and Drawings,
London, 1874,0808.1713 This intriguing and complex image has a central
role in this catalogue, as it represents the most eloquent visual expres- sion
of the classicistic credo of the Roman Accademia di San Luca in the final
decades of the 17th century. More generally, it is a strong defence of the
Florentine and Roman academic traditions, with their stress on drawing, their
celebration of Raphael and, above all, on the study, copy and reverence of the
Antique. As we shall see, the original drawing from which the print is derived
was most likely conceived in 1681–82, at a time when the aesthetic belief
supported by the Accademia di San Luca was being challenged by other
pedagogical methods and criticised from other theoretical viepoints, hence its
programmatic nature and didactic aim. Carlo Maratti was the most authoritative
painter in Rome during the final decades of the 17th century and the beginning
of the 18th and the champion of classicism.2 As a boy of twelve he had entered
the large workshop of Andrea Sacchi (1599–1661), where he remained until the
master’s death in 1661. His training followed the usual curriculum of 148 Roman
studios, centred on drawing, and on the copy of the Antique, and of Renaissance
and early 17th-century masters.3 His lifelong friend, mentor and biographer,
the great art theorist and antiquarian, Giovanni Pietro Bellori (1613–96),
tells us that he concentrated especially on copying Raphael’s frescoes.4 He
pursued this commitment throughout his life, incorporating the essential
qualities of the great Renaissance champion of classicism into his own
painting, to the point that he became known as the Raphael of his time.5 In
1664 Maratti became ‘principe’, or president, of the Accademia di San Luca,
where, in the same year, Bellori’s discourse, the ‘Idea of the painter, the
sculptor and the archi- tect, selected from the beauties of Nature, superior to
Nature’, was publicly delivered (see Appendix, no. 11).6 Bellori’s theoretical
statement, then published as a prologue to his Vite in 1672, was to become
enormously influential in defin- ing and diffusing the central tenets of the
classical ideal, preparing the ground for the eventual affirmation of classi-
cism in the 18th century.7 Maratti remained an influential 149 figure
within the Accademia for almost fifty years – while Bellori held the position
of secretary several times – playing a vital role in reorganising its
curriculum according to a comprehensive pedagogical programme, based on the
exer- cise of drawing from drawings, from casts after the Antique and from the
live model, and on students’ competitions and regular lectures.8 The print,
which embodies this theoretical and didactic approach, is based on a drawing
now preserved at Chatsworth (fig. 1), commissioned from Maratti by one of his
most faithful patrons, Gaspar Méndez de Haro y Guzmán, 7th Marquis of Carpio,
(1629–87), Spanish ambassador in Rome between 1677 and 1682.9 A sketchier
version, in the same direction as the print but with differences in detail, is
at the Wadsworth Atheneum (fig. 2).10 Art lover, collector and patron, Carpio
commissioned from contemporary Roman artists a large series of drawings with
the practice, theory, and nature of painting as their subject.11 The result was
a sophisticated collection of allegories of art, of which Maratti’s drawing is
by far the most celebrated, largely due to Dorigny’s print.12 Another drawing
with the Allegory of Ignorance Ensnaring Painting and Massacring the Fine Arts,
now in the Louvre, was probably produced by Maratti for Carpio as a pendant to
the Academy of Drawing, and as such was later engraved by Dorigny with a
similar explanatory inscription devoted to the ‘Lovers of the Fine Arts’ (fig.
3).13 Possibly intended from the beginning to be printed, Maratti’s drawing for
the Academy of Drawing was later engraved by the Parisian printmaker, Nicolas
Dorigny, Fig. 1. Carlo Maratti, The Academy of Drawing, c. 1681–82, pen and
brown ink with brown wash, heightened with white gouache, over black chalk, 402
× 310 mm, Chatsworth, The Duke of Devonshire and the Chatsworth Settlement
Trustees, inv. 646 Fig. 2. Carlo Maratti, The Academy of Drawing, c. 1681–82,
pen and brown ink and red chalk, 505 × 355 mm, Wadsworth Atheneum Museum of
Art, Hartford, CT, inv. 1967.309a who spent the years 1687–1711 in Rome. The
rare first state, exhibited here, was probably published around 1702–03 under
the supervision of Maratti, who owned the copper- plates and who, no doubt, was
the author of the explanatory inscriptions below this print and its pendant.14
The reason why it took twenty years for the original drawing and its pendant to
be engraved, may be due to the fact that Carpio left Rome in 1683 to become
Viceroy of Naples and his move might have brought the original publication
project to a halt. After Maratti’s death in 1713, the plates were purchased by
Jacob Frey (1681–1752) who published a second state in 1728.15 The image is a
very condensed and crowded composi- tion, in line with similar examples by
Stradanus (cat. 4), Pierfrancesco Alberti (cat. 2, fig. 1), and others, which
would certainly have been known to Maratti.16 The Academy of Drawing is
presented as an antique academy devoted to intellectual pursuits, clearly
reminiscent of Raphael’s School of Athens in the Vatican Stanze, and in general
subtle refer- ences to Raphael’s works are ubiquitous throughout.17 We are invited
to follow the different disciplines and principles essential for the education
of the young artists, distributed visually and symbolically in an ascent: from
the technical and mathematical rudiments for the representation of space in the
foreground, to the ideal models for the depiction of the human figure in the
upper left part of the composition, and finally to the divinely inspired grace
and artistic talent on the upper left background, without which all the
previous learning would be useless. Bellori, in his biography Fig. 3. Nicolas
Dorigny after Carlo Maratti, Allegory of Ignorance ensnaring Painting and mas-
sacring the Fine Arts, 1704–10, etching and engraving, 468 × 319 mm, The
British Museum, Department of Prints and Draw- ings, London, inv. 1874,0808.1714
that. We know from another passage in Bellori that Maratti, although he ‘always
considered [...] perspective and anat- omy necessary to the painter’, abhorred
some ‘masters, or rather modern censors who, having learned a line or two of
perspective or anatomy, the minute they look at a picture look for the
vanishing point and the muscles, and [...] scold, correct, accuse and criticise
the most eminent masters’.23 Maratti’s attitude was, in fact, very much in line
with the Italian art theory of the second half of the 16th century.24 Most
writers agreed that, although the knowledge of mathematical sciences was vital,
the artist’s judgement and his eye must be the ultimate criteria in the
artistic process. Giorgio Vasari (1511–74) clearly formulated this concept,
paraphrasing Michelangelo’s famous saying that ‘it was necessary to have the
compasses in the eyes and not in the hand, because the hands work and the eyes
judge’.25 This opinion was rephrased by Giovanni Paolo Lomazzo (1538– 1600) who
wrote precisely that ‘all the reasoning of geome- try and arithmetic, and all
the proofs of perspective were of no use to a man without the eye’, and shared
also by Federico Zuccaro (c. 1540–1609) the founder and first principal of the
reformed Accademia di San Luca in 1593 (see cat. 5).26 A similar approach was
reserved for the study of anatomy, the excess of which, as represented by
Michelangelo – who is not alluded to in the print – was explicitly condemned by
Giovan Battista Armenini (c. 1525–1609) and others, an opinion supported by
Bellori and Maratti.27 The ‘Young Students of Drawing’, to which the print is
dedicated, need instead to focus their attention on, and constantly draw from,
ancient statues, here represented by Fig. 4. Raphael, Apollo, detail, School of
Athens, 1509–11, fresco, Stanza della Segnatura, Apostolic Palace, Vatican
City of Maratti, left unfinished at his death in 1696, provides a
description of one of Maratti’s original drawings (figs 1–2) and this, plus the
explanatory inscription on the print, constitute the best guide to interpret
the composition.18 At the centre a ‘master of perspective’ indicates to a young
disciple the visual pyramid and various geometrical figures traced on a canvas
placed on an easel, at the bottom of which we read: ‘TANTO CHE BASTI’, ‘Enough
to suffice’.19 The same inscription recurs on the ground on the left, in front
of another pupil intent at drafting geometrical figures on the abacus with his
compass, a gesture evoking that of Archimedes in Raphael’s School of Athens. As
Bellori explains, this is to signify that ‘once the young have learned the
rules necessary to their studies’ – geometry and perspec- tive – ‘they should
pass on without stopping’.20 On the right, below the easel, we see a stool
supporting the physical tools of the art of painting: another compass and a
palette with various brushes. Behind them a ruler leans diagonally against the
canvas. The same warning ‘TANTO CHE BASTI’ reappears on the left on the
pedestal supporting a life-size anatomical écorché, in a pose reminiscent of
the Borghese Gladiator (see p. 41, fig. 54 and cat. 23, fig. 1). Several
students draw its muscles, directed by Leonardo, whose anatomical studies were
very well known, especially after the first publication of his treatise on
painting in 1651.21 ‘Anatomy and the drawing of lines’ continues Bellori, ‘do
indeed fall under definite rules and can be learned perfectly by anyone, just
as geometry used formerly to be learned in school from childhood’.22 They
therefore constitute those sciences that can be taught by rational precepts.
But if the young students want to become great artists they need much more
than 150 151 the gigantic Farnese Hercules (see p. 30, fig.
32 and cat. 7, fig. 1), by a Venus Pudica reminiscent of the Venus de’Medici
(see p. 42, fig. 56) and by an Apollo, the latter clearly derived from the
statue presiding over the philosophers in the School of Athens (fig. 4).28
Apollo, as patron of the arts, combining together a reference to the Antique
and to Raphael, conveniently substitutes for the Belvedere Antinous (see p. 26,
fig. 22 and cat. 19) seen on the earlier sketch (fig. 2).29 The study of
classi- cal sculptures, as the inscription on the wall behind the Apollo
instructs us, is ‘NON MAI ABASTANZA’, ‘Never enough’, as they contain ‘the
example and the perfection of painting [...] together with good imitation
selected from nature’ as Bellori tells us.30 In other words, they materialise
Bellori’s concept of the ‘Idea’, intended as the selection of the best parts of
Nature according to the right judgement of the artist in order to create ideal
beauty (see Appendix, no. 11). If a young artist assimilates their principles,
he will have a secure guide towards artistic perfection. On the left, sitting
on clouds, the Three Graces – again referring to the similar figures painted by
Raphael in the Villa Farnesina in Rome – are there to remind us: ‘SENZA DI NOI
OGNI FATICA E VANA’, ‘Without us, all labour is in vain’. Without natural
talent and divine inspiration, all the efforts and studies depicted below would
be ultimately useless. The concept of grace was one of the crucial features in
Vasari’s theory of art, intended as a certain sweetness and facility of
execution, dependent on natural talents – namely judgement and the eye – as
opposed to beauty which is based on the rules of proportions and mathematics.31
But the great artist must cultivate this natural gift through constant study
and, for Bellori, constant imitation of the Antique and of the great masters,
especially Raphael, the excellence and grace of whom he exalted in several of
his publications.32 Therefore our print reminds us in its subject of the
necessary union of natural talent and study. At the same time it provides in
its very forms an ideal example of inventive imitation, namely Maratti’s
assimilation of the Antique and Raphael. The need to insist on these very
points reflects the particular moment in which our image was created. In 1676
the Accademia di San Luca and the Parisian Académie Royale were formally
amalgamated and at times French painters became principals of San Luca –
Charles Errard (1606/09– 89) in 1672 and 1678, and Charles Le Brun (1619–90) in
1676–77.33 While sharing the same values and attitudes, the Italian could never
feel comfortable with the extreme ration- alisation of art characteristic of so
much French theory and academic approach.34 The methodical and precise
dissection of painting into its main components, as expressed for instance in
the Académie’s Conférences, is in fact probably 152 alluded to in the speaker
seen below the Graces in our image, who uses his fingers to enumerate the main
points of his arguments – referring to Socrates in the School of Athens. The
early Académie’s Conférences were published by André Félibien (1619–95) in
1668, and their official presentation at San Luca in 1681 generated a
discussion that was most likely at the origin of Maratti’s Academy of Drawing,
as reported by Melchior Missirini (1773–1849) in his history of the Accademia
di San Luca.35 After the reading of the last two Conférences, devoted to the
analysis of the drawing, colour, composition, proportions and expressions of
Poussin’s paintings, one of San Luca’s members, Giovanni Maria Morandi
(1622–1717), raised the objection that the French had left out art’s most
important and beautiful element: grace, that sublime and delicate quality of
the ‘imitative practice’, which appeals to the heart rather than the mind.36
The elderly Bellori, present in the audience, interrupted the speech remarking
that grace was indeed Apelle’s and Raphael’s best quality, ‘and it is well
known’, continues Missirini, ‘that Maratti, who also devoted every effort to
obtain this quality, induced by these words painted his three graces with the
motto ‘Without you, everything is worthless’.37 No doubt conceived as a
response to this intellectual debate, as a defence of the Florentine and Roman
attitude and tradition versus its French counterpart, Maratti’s Accademia must
be understood also as a celebration of classicism against those painters and
theorists who were at that time criticising its values and outcomes. In
particular the Venetian Marco Boschini (1515–80) and the Bolognese Cesare
Malvasia (1613–93) in their treatises published in the 1770s had attacked the
pictorial tradition based on disegno and imitation of the Antique, supporting
instead colore and naturalism.38 They, as Bellori remarks right before his
discus- sion of Maratti’s drawing, taught ‘in their schools and in their books
that Raphael is dry and hard, that his style is statue- like’.39 This dispute
had its counterpart in France where the Querelle du coloris had been fiercely
debated in the 1770s.40 The theoretical battle escalated further with the
publication in 1681 of the Notizie de’ professori del disegno by the Florentine
Filippo Baldinucci (1625–97), who strongly defended Vasari and the Central
Italian tradition, at the same time directly attacking Malvasia.41 The early
1680s were therefore a moment of intense debate within and between the Italian and
French artistic schools and theoretical traditions, of which this image is one
of the most telling documents. In the following decades Maratti became the
leading artistic authority in Rome. His devotion to Raphael was rewarded in
1693 when he was appointed Keeper of the Vatican Stanze, which he then restored
in 1702–03, having already worked on the restoration of Raphael’s frescoes in
the Farnesina from 1693.42 In 1699 he was re-elected principal of San Luca, a
position he held until his death in 1713. Pope Clement XI (r. 1700–21)
nominated Maratti Director of the Antiquities in Rome in 1702, and officially
sanctioned support for his classicism by establishing papal-sponsored
competitions, the Concorsi Clementini, at the Academy.43 It is probably in celebration
of the final affirmation of this classicist aesthetic that Maratti decided to
finally print in 1702, or soon after, the complex drawing celebrating above all
the study of Antique that he had produced twenty years 44 ‘The School of
Drawing, a figurative drawing by Cavalier Carlo Maratti, can contribute much to
the disenchantment of those who believe that through knowledge and study of
many arts they can become most accomplished in the art of painting without
first acquiring the highest skill in drawing and without the natural gift and
innate capacity to give, with grace and ease, life and shapeliness to the parts
of a work they set out to depict. In addition, he [Maratti] gives form to his
fine thought through the activities pointed out here. To one side there are
some students of the mathematics of Geometry and Optics that feed into
Perspective: elsewhere there are others intent on the observation of an
anatomical model, from which can be learned the just proportions of the limbs,
the placement of the muscles and sinews that compose a figure, as set out with
precision by Leonardo da Vinci, a likeness of whom is given, with the motto
‘Enough to suffice’, to evince that, of these professional skills, he who
pursues drawing must be competent enough to bring any idea to a perfect
outcome. But for those shown engaged in the study of classical statues, slight
attention to the same is of no use since the point is to make a long and
detailed study so as learn the forms of the beautiful; and classical statues are
given as the most perfect for this since those great sculptors gave shape to
bodies in the most perfect state that Nature herself can create, which explains
the presence of the motto: ‘Never enough’. Everything, however, would be futile
without the assistance of the Graces, understood, as mentioned, as a natural
bent for composing and arranging with grace and delicacy those postures and
movement of figures from which derive the beauty and allure that stir wonder
and pleasure in the spectator, wherefore they are set for that purpose up above
on the clouds as indication that this gift comes only from heaven, and are
given the motto: ‘Without us all labour is in vain’. Live happily’ (translation
by Michael Sullivan). For a biographical summary see Rudolph 2000. Schaar and
Sutherland Harris 1967. See Bellori 1976, pp. 625, 636, 639. See Baldinucci
1975, p. 307. On Maratti’s cult for and imitation of Raphael see also Mena
Marqués 1990. Goldstein 1978, p. 3. For the text of Bellori’s Idea see Bellori
1976, pp. 13–25, and for an English translation see Bellori 2005, pp. 55–65. On
it see Mahon 1947, esp. pp. 109– 54, 242–43; Panofsky 1968, pp. 103–11; Bellori
1976, esp. xxix–xl; Barasch 2000, vol. 1, pp. 315–22; Cropper 2000. On
Maratti’s role within the Accademia see Goldstein 1978, esp. pp. 2–5. On
Bellori’s see Cipriani 2000. Jaffé 1994, p. 128, no. 251 646. It is not fully
clear whether Dorigny used the Chatsworth drawing or a lost copy of it, as he
arrived in Rome in 1687, five years after Del Carpio had left the city to
become Viceroy of Naples: see Rome 2000b, vol. 2, p. 483, no. 1 (S. Rudolph).
Philadelphia 1980–81, p. 116, note 3 and 4; Winner 1992, p. 512, fig. 5.
Bellori 1976, pp. 629–31. On Del Carpio’s commission see Haskell 1980, pp.
190–92; Pierguidi 2008; Frutos Sastre 2009, pp. 369–71. For other drawings of
the series, see Winner 1992. For the drawing (Louvre, Paris, inv. 17950) see
Rome 2000b, vol. 2, p. 484, no. 3 (S. Rudolph). For the print see Philadelphia
1980–81, pp. 114–16, no. 101 B (A. E. Golahny); Rome 2000b, vol. 2, pp. 484–85,
no. 4 (S. Rudolph). For the transcription of the print’s inscription see Winner
1992, pp. 517–18, note 7. See Philadelphia 1980–81, pp. 114–16, no. 101 A and B
(A. E. Golahny); Rome 2000b, vol. 2, p. 483, no. 2 (S. Rudolph). This second
state contains the address of Frey. Rudolph (Rome 2000b, vol. 2, p. 483, no.
2), supposes that the long explanatory inscription was added only to this
second state, while the impression exhibited here proves that it was inserted
in the first state as well. The inscription is mentioned also in a
chronological list of Maratti’s prints produced in 1711: see Rudolph 1978,
Appendix, p. 203, no 38. Kutschera-Woborsky 1919; Winner 1992, especially pp.
521–22, 531. Although some will be discussed here, the references to Raphael
are too many to be covered comprehensively. For a fuller discussion see Winner
1992. Bellori 1976, pp. 629–31. For an English translation, see Bellori 2005,
pp. 422–23. Bellori’s unfinished biography of Maratti was first published with
modifications in 1731 and independently in 1732. See Bellori 1976, p. 571, note
1; Bellori 2005, p. 435, note 4. For modern critical editions of the text, see
Bellori 1976, pp. 569–654; Bellori 2005, pp. 395–440. Winner (1992, p. 524)
suggests that the ‘master of perspective’ could be Vitruvius, as the
geometrical figures on the canvas are similar to those illustrated by Andrea
Palladio in Daniele Barbaro’s edition of Vitruvius’ De architectura (1556). On
the other hand the visual pyramid clearly refers to Albertian perspective, as
it had been recently republished and illustrated in Dufresne 1651, see
especially pp. 17–18. Bellori 1976, p. 630; Bellori 2005, p. 423. Dufresne
1651: see esp. the ‘Vita di Lionardo da Vinci descritta da Rafaelle du Fresne’,
at the beginning of the volume (not paginated) and p. 5, ch. XXII, p. 12, ch.
LVII. Bellori 1976, p. 631; Bellori 2005, p. 423. Bellori 1976, p. 629; Bellori
2005, p. 422. On Bellori’s sources in general see esp. Barocchi 2000; Perini
2000a. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 6, p. 109. See also Vasari’s
introduction to his chapter on Sculpture: Bettarini and Barocchi 1966–87, vol.
1, pp. 84–86. Lomazzo 1584, p. 262 (book V, chap. 7). Zuccaro 1607, vol. 2, pp.
29–30 (book II, chap. 6). See Armenini 1587, pp. 63–67 (book I, chap. 8);
Bellori 1976, p. 630; Bellori 2005, p. 423. On this see also Pierguidi 2014.
Bellori had specifically praised the Farnese Hercules and the Venus de’Medici
in his Idea: Bellori 1976, p. 18; Bellori 2005, p. 59. On this see also Winner
1992, p. 532. On the Farnese Hercules see Haskell and Penny 1981, pp. 229–32,
no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1. On the Venus de’ Medici see
Haskell and Penny 1981, pp. 325–28, no. 88; Cecchi and Gasparri 2009, pp. 74–75,
no. 64 (137). On the Belvedere Antinous see Haskell and Penny 1981, pp. 141–43,
no. 4; Bober and Rubinstein 2010, p. 62, no. 10. Bellori 1976, p. 630; Bellori
2005, p. 423. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 3, p. 399, vol. 4, pp. 5–6.
See also Blunt 1978, pp. 93–99. Bettarini and Barocchi 1966–87, vol. 3, p. 399;
Bellori 1976, pp. 625–26; Bellori 2005, p. 421. Also for Armenini ‘una bella e
dotta maniera’ could be acquired only if the artist has a natural gift
cultivated by study (Armenini 1587, see esp. p. 6 of the Proemio and pp. 51–69,
book I, chs 7 and 8). Bellori’s essays on Raphael, written at various dates,
were published in Bellori 1695. On Raphael and grace in Bellori see Maffei
2009. On the cult of Raphael in the 17th century see Perini 2000b. Boyer 1950,
p. 117; Goldstein 1970, pp. 227–41; Bousquet 1980, pp. 110–11; Goldstein 1996,
pp. 45–46. Mahon 1947, pp. 188–89. Missirini 1823, pp. 145–46 (ch. XCI); Mahon
1947, p. 189; Goldstein 1996, p. 46. Missirini 1823, p. 145. Ibid., p. 146.
Boschini 1674; Malvasia 1678. Bellori 1976, p. 627; Bellori 2005, p. 421. On
the ‘statuelike’ concept, or ‘statuino’ see esp. Malvasia 1678, vol. 1, pp.
359, 365, 484. See also Pericolo’s forthcoming article. I wish to thank Dr
Lorenzo Pericolo for generously putting this study at my disposal. See
Teyssèdre 1965; Puttfarken 1985; Arras and Épinal 2004 with previous
bibliography. Baldinucci 1681, see esp. his ‘Apologia’ at pp. 8–29. On the
controversy between Malvasia and central Italian art theorists see Perini 1988;
Rudolph 1988–89; Emiliani 2000. See Zanardi 2007. See Johns 1988. The second
state of both prints, published by Jacob Frey in 1728 was explic- itly issued
in parallel to the reward ceremony of the 1728 Concorso Clementino: see Rome
2000b, vol. 2, pp. 484–85, no. 4. earlier, with the Allegory of Ignorance as
its pendant (fig. 3). aa 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 1 153 16.
Charles-Joseph Natoire (Nîmes 1700–1777 Castel Gandolfo) The Life Class at the
Royal Academy of Painting and Sculpture 1746 Pen, black and brown ink, grey
wash and watercolour and traces of graphite over black chalk 453 × 322 mm
Signed and dated by the artist on recto, on the box at l.c., in pen and dark
grey ink: ‘C. NATOIRE f. 1746’. provenance: Possibly sold at the artist’s
posthumous sale, Alexandre-Joseph Paillet, Paris, 14 December 1778, lot 100;1
purchased Aubert for 120 livres; Gilbert Paignon-Dijonval (1708–92); Bruzard,
Paris, 23–26 April 1839, part of lot 208; Walker Gallery, acquired Sir Robert
Witt (1872–1952) (L. suppl. 2228b); Sir Robert Witt Bequest, 1952. selected
literature: Bérnard 1810, p. 142, no. 3348; Mirimonde 1958, p. 282, fig. 3;
Princeton 1977, pp. 22–23, fig. 3; Troyes, Nîmes and elsewhere 1977, p. 80,
under no. 42; Roland Michel 1987, pp. 58–59, fig. 45; Foster 1998, pp. 55–56,
fig. 13; Amsterdam and Paris 2002–03, pp. 85–88, under no. 25; Paris 2009–10,
p. 40, fig. 13; Petherbridge 2010, p. 222, pl. 152; Caviglia-Brunel 2012, p.
122, repr., p. 336, no. D. 370, repr.; Rowell 2012, pp. 179–80, fig. 9; London 2013–14,
p. 8, repr., p. 69, fig. 24. selected exhibitions: London 1950, p. 18, no. 54;
London, York and elsewhere 1953, pp. 27–28, no. 79, not repr.; London 1953, pp.
91–92, no. 391, not repr. (K. T. Parker and J. Byam Shaw); Los Angeles 1961,
pp. 51, 58, no. 25; London 1962, pp. 9–10, no. 37, not repr.; Swansea 1962,
unpaginated, no. 38; London 1968a, p. 101, no. 490 (D. Sutton); King’s Lynn
1985, p. vi, no. 33, not repr.; London 1991, p. 80, no. 35 (G. Kennedy); Paris
2000–01, pp. 405–06, no. 210 (J.-P. Cuzin); London and New York 2012–13, pp.
161–65, no. 33 (K. Scott). The Courtauld Gallery, Samuel Courtauld Trust,
London, D. 1952.RW.397 exhibited in london only Painter, draughtsman and
educator, Natoire was a contem- porary of François Boucher (1703–70) and like
him, executed both cabinet pictures and decorative schemes, as well as history
paintings.2 Trained in the studio of François Lemoyne (1688–1737), Natoire
started his career with a series of successes: having won in 1721 the Prix de
Rome of the Académie Royale, he spent the years 1723–28 in Rome where in 1727
he received the most prestigious reward for a young painter, the first prize of
the Accademia di San Luca. Back in Paris in 1730, he was received (reçu) as a
full member of the Académie in 1734 and spent the following two decades
executing decorative ensembles in Royal Palaces and various hôtels and châteaux
of the aristocracy, such as the celebrated Hôtel de Soubise (now the Archives
Nationales) in Paris. In 1751 he was appointed Director of the Académie de
France in Rome and spent the rest of his life there, dying at Castel Gandolfo
in the Alban Hills in 1777. Natoire’s large and beautifully preserved drawing –
of which there is another version, dated 1745, almost identical but less
finished, in the Musée Atger in Montpellier – offers a rare glimpse of the
École du modèle of the Académie royale de peinture et de sculpture in Paris,
where young students spent hours copying the live model.3 But rather than a
faithful view of the École du modèle, which was a similar but rather different
space,4 it is an idealised representation of how Natoire thought it ought to
be. In essence, it is a visual manifesto for the Académie’s reform at a time,
as we shall see, when many of its original practices had been abandoned or
neglected. Trying, in a programmatic image, to convey as much infor- mation as
possible, Natoire ingeniously reconfigures the 154 space for his purpose: a
very high ceiling and an angular point of view allow maximum concentration and
display of objects. Crammed together, one on top of the other, we see drawings,
bas-reliefs, paintings of different format and size and, most importantly,
plaster casts after the Antique. Our attention is immediately drawn to the
seated figure at the lower left-hand corner wearing a bright red cloak, no
doubt Natoire himself: he had been appointed assistant pro- fessor at the
Académie royale in 1735, professor in 1737 and from 1736 was instructor in the
life class for the month of February.5 Comfortably seated in an armchair, his
tricorne hat resting on the box in the centre, he carefully corrects the black
chalk drawings after the two live models presented by his pupils. At the centre
of the composition, the attention of all students is directed to the two models
posed together, a monthly event at the Académie that had been introduced in the
mid-1660s.6 The teacher was responsible for placing the models ‘in an attitude’
for afternoon classes lasting two hours, using sunlight during the summer and
artificial light during the winter months.7 The sunlight filtering in from the
left is therefore imaginary, as in February, when Natoire was in charge of the
École du modèle, illumination would have been from lamps. Only male models were
allowed, despite repeated requests for female models from the students, all of
whom were also male since women were not allowed to join the Académie until the
end of the 19th century.8 The same pose was retained for three days in a row
for a total of six hours and students were supposed to produce two study
drawings of the figures each week.9 As in this case, a curtain was usually
placed behind the model or models, to enhance 155 the contours and
isolate the figure from the background. The plinth supporting the model had
hooks at the corner to allow the professor to move it according to the fall of
the light. In addition to posing the model, the ‘duty teacher’ from 1664
onwards was supposed to make his own drawing to serve as an example for the
students and to devote part of each session to correcting students’ works, as
we see represented in this drawing.10 Natoire’s own drawing of the two models
may be in the portfolio leaning against the box in the centre; indeed an
identical red chalk composition survives – although reversed – proving that this
pose was actually used during one of his sessions (fig. 1).11 The models’
attitude in the middle follows the well- established practice within the
Académie of adopting and adapting poses to recall ancient statuary.12 In this
case they evoke the dynamic, interlocking bodies of the Wrestlers (see p. 30,
fig. 33), of which the Académie possessed a plaster cast, or possibly the pose
of the so-called Pasquino.13 The main purpose of the practice was to pose the
live model with the same tension and flexing of muscles as the ancient statues,
so that students could then correct their drawings from ‘fallible Nature’
against the perfection of the antique exam- ple. The practice was diffused
already in the 17th century and explicitly recommended by Sébastien Bourdon (1616–71),
in his famous Conférence Sur les proportions de la figure humaine expliquées
sur l’Antique delivered at the Académie in 1670.14 We Fig. 1. Charles-Joseph
Natoire, Two Models, c. 1745, red chalk, 490 × 420 mm, sold Sotheby’s, Paris,
18 June 2008, lot 101 know from the influential Abrégé de la vie des plus
fameux peintres, published by the art writer Antoine-Joseph Dezallier
d’Argenville (1680–1765) in 1745, that the great painter Philippe de Champaigne
(1602–74) devoted ‘his evenings [...] to drawing at the Académie and, on his
return, he would correct from the Antique what he had done from the model’.15
Natoire was exposed to a similar exercise during the years he spent at the
Académie de France in Rome during the 1720s and he must often have returned to
this practice during his sessions at the Académie in Paris.16 Distributed in a
semi-circle around the models are students of different ages, busy drawing the
figures. Most of them are using chalk in porte-crayons, drawing on large sheets
of paper. The exceptions are the two more mature students on the right who are
modelling bas-reliefs in clay with their fingers and wooden sticks; the one on
the right holds a sponge in his hand to clean the clay with water as seen in
the drawing by Cochin engraved for the Encyclopédie (p. 52, fig. 91).17 The
process is clearly described in the Istruzione elementare per gli studiosi
della scultura, the famous manual for students of sculpture published by
Francesco Carradori (1747–1824) in 1802, and illustrated with a strikingly
similar image (fig. 2).18 A third student, in the lower right corner, is
wetting rags in a bucket to keep the clay damp and avoid cracks, as Carradori
advised. On his left a dog – could it be Natoire’s? – stares at us from its
sheltered position. The Fig. 2. Francesco Carradori, Istruzione elementare per
gli studiosi della scultura . . . , Florence, 1802, detail of plate 5
disposition of the students reflects the admission conditions and entrance
hierarchy of the École du modèle: two-thirds were painters and one-third
sculptors, placed in the back rows.19 Behind the semi-circle of students we see
life-size plaster casts of four of the most canonical classical sculptures:
from left to right the Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32; cat. 7), the Laocoön
(see p. 26, fig. 19; cat. 5), the Venus de’ Medici (see p. 42, fig. 56) and the
Borghese Gladiator (see p. 41, fig. 54; cat. 23).20 The Hercules and the Venus
are looking away from the viewer, as if to signal that the study of the Antique
constitutes a different – though inextricably connected – practice from the
study of the live model. The four statues provided the students with idealised
models of human proportions, anatomy, beauty and emotion: the muscular strength
of the heroic male body at rest, embodied by the Hercules, the complex pose and
the pathos and drama of the Laocoön, the grace and beauty of the female body
ideally incarnated by the Venus and, finally, the active anatomy of the
muscular man in motion as expressed by the Gladiator. They repre- sented a sort
of ‘canon within the canon’ of classical sculptures for artists, and their
choice here is not accidental. These four statues – plus the Belvedere Torso
and an antique Bacchus at Versailles – had been specifically selected as
subjects of the Conférences devoted to the Antique held at the Académie Royale
during the 1660s and 1670s; the text describing them was constantly being
re-read by academi- cians since then.21 At the time this drawing was made, the
Académie owned casts of all four statues – among many others – but Natoire
ingeniously concentrates here what was actually distributed over various
rooms.22 Significantly, all the statues in the drawing are in reverse as
Natoire did not copy them from the casts but from prints in François Perrier’s
celebrated Segmenta nobilium signorum et statuarum of 1638 (figs 3–6).23
Perrier’s collection of engravings after ancient statues had been for more than
a century the standard work of reference for students beginning their study of
the Antique, providing them with images in two dimensions that they could
master before approaching the three-dimensional casts. This course was firmly
recommended at the time of the foundation of the Académie in 1648 by Abraham
Bosse (1602–76), its first professor of perspective.24 References to the
glorious past of the Académie continue on the walls, where we are invited to
ascend from drawings and bas-reliefs to paintings. On the lower tier are the
designs and reliefs after the model that teachers had to produce from 1664
onwards (although this requirement was eventually abolished in 1715).25 Above
these are displayed a series of canvases representing some of the greatest
triumphs of modern French painting: the largest and most prominent, on the
left, is Charles Le Brun’s Alexander at the Tent of Darius (1661); to its
right, Jean Jouvenet’s Deposition (1697) and below it, barely discernible,
Eustache Le Sueur’s Solomon and the Queen of Sheba (1650). Above, in the upper
register, is hung another Le Sueur, the circular Alexander and His Doctor
(1648– 49). On the right is François Lemoyne’s Annunciation (1725); and
finally, below it Sébastien Bourdon’s Holy Family (1660– 70).26 The two square
paintings on the upper left, probably a reclining Nymph or Venus and a Cupid
and Psyche, have not been identified; it would be tempting to think that they
might be Natoire’s own creations, but they do not correspond to any of his
known works.27 None of the paintings were displayed at that time in the
Académie and all are reversed, meaning that Natoire deliberately assembled them
in this crowded space from prints.28 All were revered examples of history
paintings by famous past academicians, ranging from Le Brun, Le Sueur and
Bourdon, who had been among the twelve original founding members of the
Académie in 1648, to Lemoyne, Natoire’s own teacher. Showing different kinds of
history painting – Biblical subjects, Mythology and secular history – they here
provide the young students with models both to imitate and aspire to. On the
central pier, presiding over all the artistic activity below, is Bernini’s 1665
bust of Louis XIV, of which the Académie then displayed a plaster cast,29
reminding us of the glories of the institution under the reign of the Sun King.
Such a deliberately programmatic image, which assem- bles so many references
from different places and times, must be understood as a visual manifesto in
favour of a retour à l’ordre within the Académie. At the time Natoire conceived
it, many of the original academic practices and credos had long been neglected.
After the late 17th century almost no new Conférences were held, and teachers
simply re-read the old ones and the biographies of past academicians.30 Nor
does it seem that the study of the Antique was much promoted and certainly the
collection of casts was not integrated with the École du modèle.31 Finally, and
most impor- tantly, during the first half of the 18th century, history painting
had lost its place of pre-eminence within the Académie, a process foreshadowed
by the success of Jean- Antoine Watteau (1684–1721) and his acceptance into the
Académie in 1717 as a painter of fêtes galantes, a new category that encouraged
the development of the ‘lesser genres’ of painting.32 At the same time, because
of the popularity of ‘the Rococo interior’, history painters were often obliged
to adapt their canvases for decorative schemes, to the point that Natoire
complained in 1747 that his painting was regarded as mere furniture.33
Significantly, a completely different model was in place in Rome during the
years spent by Natoire in the city as a young 156 157
Fig. 3. (top left) François Perrier, Farnese Hercules, plate 4, from Segmenta
nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 Fig. 4. (top right) François
Perrier, Laocoön, plate 1, from Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome,
1638 Fig. 5. (bottom left) François Perrier, Venus de’Medici, plate 83, from
Segmenta nobilium signorum et statuarum, Rome, 1638 Fig. 6. (bottom right)
François Perrier, Borghese Gladiator, plate 28, from Segmenta nobilium signorum
et statuarum, Rome, 1638 years implemented a series of radical changes – such
as the re-establishment of the Conférences, the acquisition of new casts, and
making the history paintings of the Royal Collection accessible to students –
which paved the way to the triumph of the highest genre in the second half of
the century.36 It is at this moment that Natoire’s drawing was conceived,
probably as a statement in support of Tournehem’s reforms. These, in essence,
involved a return to the original credo and mission of the Académie as devised
by Louis XIV’s Minister Jean-Baptiste Colbert (1619–83) and his Premier Peintre
Charles Le Brun (1619–90): a royal institu- tion intended to support and
cultivate History Painting through the practice of drawing and the study of the
live model and the Antique. Natoire would apply many of the principles
proclaimed in his drawing during his tenure as director of the Académie de
France in Rome after 1751. The fact that everything in the Courtauld drawing –
statues, paintings and even models – appears in reverse would suggest that it
was intended to be engraved.37 How- ever, the students hold the porte-crayons
in their right hands, which would seem to contradict this theory. In any case,
it is highly likely that this complex image was conceived to be diffused for
promotional purposes, possibly on the example of Dorigny’s engraving after
Maratti (cat. 15), which Natoire would certainly have known.38 It would have
been a persuasive way to promote the study of the live model together with the
study of the Antique, a training that would effectively prepare young artists
to revive those noble forms of painting that had been the glory of the Grand
Siècle. London 2013–14, p. 33. See the 11th article of the 1664 reformed
statutes of the Académie: Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 253. See also London
2013–14, pp. 33–34. The fact that the drawing is in reverese seems to suggest
that it is a counter- proof. For the drawing see Caviglia-Brunel 2012, p. 481,
no. D.794, repr. in colour at p. 128. The drawing was sold at Sotheby’s, Paris,
18 June 2008, no. 101. Some of Natoire’s drawings after the live model were
published in 1745: Huquier 1745. Paris 2000–01, pp. 415–29; London 2013–14, pp.
62–69. Guérin 1715, p. 148, no. 49; London 2013–14, p. 94, note 62. On the pose
of the two models see also Foster 1998, pp. 56–57. On the Pasquino see Haskell
and Penny 1981, pp. 291–96, no. 72; Bober and Rubinstein 2010, p. 202, no. 155
Lichtenstein and Michel 2006-12, vol. 1.1, pp. 374–77. See also Goldstein 1996,
p. 150. Dezailler d’Argenville 1745–52, vol. 2, p. 182. Macsotay 2010, pp.
189–90. As noted by Gillian Kennedy in London 1991, p. 80, no. 35. I wish to
thank Camilla Pietrabissa for a fruitful discussion on the subject. Carradori 1802,
esp. pp. 3–4, article 2, and plate 5; Carradori 2002, pp. 23–24, and pp. 60–61,
plate 5. London 2013–14, p. 34. On the Farnese Hercules see Haskell and Penny
1981, pp. 229–32, no. 46; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1. On the
Laocoön see Haskell and Penny 1981, pp. 243–47, no. 52; Bober and Rubinstein
2010, pp. 164–68, no. 122. On the Venus de’ Medici see Haskell and Penny 1981,
pp. 325–28, no. 88. On the Borghese Gladiator see Haskell and Penny 1981, pp.
221–24, no. 43; Paris 2000–01, no. 1, pp. 150–51 (L. Laugier); Pasquier
2000–01c. Lichtenstein and Michel 2006–12, see esp. vols 1–2, passim. See also
Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 45–46. Guérin 1715, p. 62, no. 35, pp.
105–06, nos 1–2, p. 185, no. 41; London and New York 2012–13, p. 162; London
2013–14, p. 94, note 62. On Perrier’s Segmenta see Picozzi 2000; Laveissière
2011; Di Cosmo 2013; Fatticcioni 2013. Bosse 1649, p. 98. On the success of the
Segmenta see Haskell and Penny 1981, p. 21; Goldstein 1996, p. 144; Coquery
2000, pp. 43–44. See also Aymonino’s essay in this catalogue, p. 42. London
2013–14, p. 53. On a similar display in the real École du modèle see Guérin
1715, p. 258 London 1991, p. 80, no. 35; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no.
D.362; London and New York 2012–13, p. 161. The Montpellier version also shows
Poussin’s circular Time defending Truth against the Attacks of Envy and Discord
on the ceiling: see Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362. I would like to
thank Alastair Laing for discussing these two paintings with me. London 1991,
p. 80, no. 35. It was previously thought that the print from Lemoyne’s
Annunciation was not in reverse but this has been disproven by Rowell 2012, see
p. 178, fig. 7 and p. 180, note 27. Guérin 1715, p. 165, no. 1. See
Lichtenstein and Michel 2006–12, passim. Guérin 1715, pp. 257–60. See also
Foster 1998, pp. 56–57; Schnapper 2000; Macsotay 2010. Locquin 1912, pp. 5–13;
Plax 2000. Jouin 1889; London 1991, p. 80, no. 35. On the Concorsi Clementini
see Cipriani and Valeriani 1988–91 and Aymonino’s essay in this catalogue, p.
54. See also cat. 15. Macsotay 2010; Henry 2010–11. Locquin 1912, pp. 5–13;
Schoneveld-Van Stoltz 1989, pp. 216–28; Caviglia- Brunel 2012, pp. 86–87. As
already noted in Troyes, Nîmes and elsewhere 1977, p. 80, no. 42. Dorigny’s
print was reissued in 1728, in parallel to the award ceremony of the Concorsi
Clementini, when Natoire was still in Rome (see cat. 15). student.
The Accademia di San Luca officially supported the copying of the Antique and
the production of history painting through the system of the Concorsi
Clementini, established in 1702, of which, as we know, Natoire obtained the
first prize.34 At the same time the Académie de France in Rome saw a complete
reorganisation under the directorship of Nicholas Vleughels (1668-1737) between
1725 and 1737. Its enormous collection of casts was redisplayed and integrated
with the Ecole du modèle and its students, like Natoire, were strongly
encouraged to compare the ideal of casts from the Antique against nature in the
form of the live model, as we see promulgated in our drawing.35 These
principles began to be re-introduced in Paris after the election in 1745 of
Charles- François-Paul Le Normant de Tournehem – the uncle of Madame de
Pompadour – as director of the Bâtiments du Roi, the official protector of the
Académie Royale on behalf of the king. Tournehem initiated a reform aimed at
the rehabilitation of history painting, and in the following 158 159 1 2 3 4 5
6 7 8 aa Lot 100 is probably this drawing but it could also refer to the very
similar version of this sheet now preserved at the Musée Atger, Montpellier,
inv. MA1, album M43 fol. 26: see Troyes, Nîmes and elsewhere 1977, p. 80, no.
42; London 1991, p. 80, no. 35; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362 and p.
336, no. D. 370, where the lot description is transcribed in full. On Natoire
see Troyes, Nîmes and elsewhere 1977; Caviglia-Brunel 2012. For the Monpellier
drawing see above note 1. Guérin 1715, pp. 257–60, plate between pp. 256–57;
Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362; London and New York 2012–13, pp.
161–62, fig. 68. Montaiglon 1875–92, vol. 5, pp. 171, 193; London 1991, p. 80,
no. 35; Caviglia-Brunel 2012, p. 334, no. D.362. Guérin 1715, p. 259; London
1991, p. 80, no. 35; London 2013–14, pp. 46, 62. See the 4th article of the
1648 statutes of the Académie: Montaiglon 1875–92, vol. 1, p. 8. See also
Guérin 1715, p. 258. London 2013–14, p. 40. Women were admitted to the
Académie, then named École des Beaux-Arts, only in 1896 and allowed to enrol
for the Prix de Rome in 1903: Goldstein 1996, p. 61. 17. Hubert Robert
(Paris 1733–1808 Paris) The Artist Seated at a Table, Drawing a Bust of a Woman
c. 1763–65 Red chalk, 333 × 441 mm provenance: Poulet, whence acquired by
Pierre Decourcelle (1856–1926), Paris in October 1912 for 300 francs;1 by
descent; Decourcelle sale, Christie’s, Paris, 21 March 2002, lot 317, from whom
acquired. literature: Paris 1933, p. 124, under no. 197; Rome 1990–91, p. 191,
under no. 135; Ottawa, Washington D.C., and elsewhere 2003–04, p. 308, under
no. 92, fig. 142. exhibitions: Paris 1922, p. 16, no. 85, not repr.
Katrin Bellinger collection, inv. no. 2002–012 Hubert Robert received a
classical education at the Collège de Navarre before studying drawing in the
studio of the sculptor, Michel-Ange Slodtz (1705–64). Even during this early
period, he showed an interest in ‘architecture in ruins’.2 Although not
eligible for a place at the Académie de Rome – he had not attended the
requisite École Royale des élèves protégés – family connections allowed him to
bypass this regulation and on 4 November 1754 Robert arrived in Rome in the
retinue of the new French ambassa- dor, Étienne-François, comte de Stainville
(1719–85), later duc de Choiseul. The diplomat sponsored Robert for the first
three years of his stay before he was granted pensionnaire status at the
Academy in 1759, under the directorship of Joseph-Charles Natoire (see cat.
16).3 Robert remained in Rome – with intermittent study trips to Naples,
Florence and elsewhere in Italy – for eleven years, responding to the fertile
archaeological climate, sparked by recent excavations at Pompeii and
Herculaneum as well as the newly opened Capitoline Museum, and indulging his
fascination for classical ruins. Natoire encouraged Robert and the other
students to sketch antiquities outdoors in situ, in the Roman campagna and
beyond. Robert also took inspiration from the work of other mentors including
the celebrated vedu- tista, Giovanni Paolo Panini (c. 1692–1765), and the
printmaker and draughtsman, Giovanni Battista Piranesi (1720–78). With his
friend and compatriot, Jean-Honoré Fragonard (1732–1806), Robert
enthusiastically sketched classical monuments and antiquities in and around
Rome, later fusing real and imagined elements to create highly original
compositions – often punctuated by ancient ruins or dilapidated architectural
fragments – that would become a trademark of his work. The vast repository of
motifs amassed by him during this productive Roman period, coupled to his
facile draughtsmanship, would serve him well for years to come. He became a
star pupil of the Academy and his drawings in particular would be eagerly
sought after before he returned to France in 1765, where he entered the
Académie Royale and successfully exhibited at the Salons.4 160 Undoubtedly one
of his finest red chalk drawings, the present study shows the artist in a rare
moment of casual repose, seated at a table and drawing, legs casually extended
and crossed, stockinged feet resting carelessly on a large portfolio of drawings
lying open on the floor.5 His relaxed, almost dishevelled appearance and level
of undress – the fallen left knee-sock slumped around his ankle, the unbut-
toned breeches and the disregarded, rumpled, coat, strewn on a chair opposite
alongside his hat and the long shadows cast – all suggest that it is the end of
a long day and he is at home, resuming a favourite activity: drawing. The focus
of Robert’s gaze is the bust of an attractive young woman in right profile
placed on the table. With his chalk-filled porte-crayon in hand, he stares
intently at her, poised to sketch. Her head titled downwards, she returns his
steady gaze; there is a palpable tension between them. However, the presence of
a third figure threatens to interrupt their private moment. With a side-glance,
a bearded man drawn on a sheet pinned up on the wall between them also watches
the young woman, thereby completing an amusing love triangle of Robert’s
invention. The object of the men’s attention is the Roman Empress, Faustina the
Younger (c. ad 125/30–175), daughter of Emperor Antonius Pius and Faustina the
Elder (fig. 1). She married Emperor Marcus Aurelius, perhaps the bearded rival
in the drawing on the wall.6 Her marble bust was discovered in Hadrian’s Villa
at Tivoli and in 1748 presented by Benedict XIV to the Capitoline Museum where
Robert would have seen it.7 Bartolomeo Cavaceppi, the Roman sculptor and
antiquities restorer, who worked on the original for a year after its discovery
and made several copies after it, was an acquaintance of Robert’s who
occasionally visited his studio (cat. 18).8 In fact, his red chalk drawing in
the Château Borély in Marseilles (cat. 18, fig. 6) records an antiquities
restorer, quite possibly Cavaceppi himself, working on a female bust.9 The present
composition is repeated in a small signed painting in the Museum Boijmans Van
Beuningen in 161 room’s generous proportions, the beamed ceiling and for-
mal window, the elegant Louis XV-style table– are consistent with those found
in Robert’s detailed sanguine of Breteuil’s grand Salone.13 Thus, it is highly
likely that the composition was conceived during his stay at the Ambassador’s
residence, 1763–65, and that it is Breteuil’s guest room that is shown. Perhaps
the drawing, more a ricordo than a preliminary study for the painting, was
intended as a gift to the host, as a gesture of gratitude and friendship. A
highly regarded collector and patron of the arts, Breteuil was an ardent
admirer of Robert’s work.14 At the outset of his posting in Rome, Natoire
praised the diplomat as an informed collector who already owned ‘quelque chose’
by Robert.15 Breteuil would later procure many of Robert’s drawings as well as
paintings.16 A close friendship between patron and artist followed, evidently
based on a shared love of art and antiquity in all its forms.17 Together they
translated texts by Virgil and took sightseeing trips in Rome, and at least one
to Florence.18 The Ambassador asked Robert to accompany him to Sicily ‘pour
visiter et dessiner les beaux morceaux antiques qui sont dans ses cantons-là’,
but, it seems, the trip never took place.19 Representations of artists in the
act of drawing antique sculpture and other works of art are recurrent in
Robert’s oeuvre along with representations of classical architecture in ruin.
Detailed studies made on the spot such as The Draughts- man at the Capitoline,
c. 1763 (p. 56, fig. 95) convey something of the wonder and excitement that he
must have felt at 20 encountering these celebrated sights for the first time.
He often represented himself or his associates in grandiose, stage-like
settings or as art tourists, of the sort that he would frequently have
encountered. But as an intimate scene of private contemplation, the present
drawing stands apart Fig. 2. Hubert Robert, The Artist in his Studio, c.
1763–65, oil on canvas, 37 × 48 cm, Museum Boijmans van Beuningen, Rotterdam,
2586 (OK) Fig. 3. Hubert Robert, Young Artists in the Studio, red chalk, with
framing lines in pen and brown ink, 352 × 412 mm, Metropolitan Museum of Art,
New York, 1972.118.23 from these. It bears a close resemblance to a composition
in the Metropolitan Museum of Art (fig. 3) showing the same room but on another
day with visitors: a bare-footed servant and two artists – one drawing, the
other inspecting the portfolio.21 A little-known red chalk study formerly in
the Camille Groult collection in Paris (fig. 4) probably preceded 22 the
present drawing. It shows the same relaxed figure alone – Robert – in identical
attire but fully dressed and outdoors, lying on the ground and sketching,
presumably after his favourite subject: the Antique. Fig. 4. Hubert Robert, Le
Dessinateur, red chalk, 300 × 400 mm, present whereabouts unknown
Fig. 1. Bust of Empress Faustina the Younger, 147–48 ad, marble, 60 cm (h), Musei
Capitolini, Rome, inv. MC449 Rotterdam (fig. 2).10 It is of similar dimensions
to the drawing but a few modifications were made: Robert no longer has a full
head of hair and the open portfolio used as a foot rest is now safely closed,
while another leans against his chair. The view of the room is wider and
includes a high, beamed ceiling, a generously sized window and a table on the
right, on which rest tools and utensils. A further nod to antiquity is a lively
copy after the celebrated Roman sculpture, Germanicus (cat. 33, fig. 4) on a
pedestal on the left. While it was found in Rome, in Robert’s time the statue
was already in Versailles.11 But its fame endured in Italy and a plaster cast
was available for study at the French Academy in Rome. Further playful details
were introduced: a framed picture and precariously hung drawings (including a
possible por- trait of Faustina); a charming dog that takes a keen interest in
Robert’s casually flung slippers. While the intimate nature of the scene, bordering
on genre, suggests this is indeed Robert’s private space, its spacious grandeur
is not that of his student lodging at the Academy. When his official term as
pensionnaire ended in October 1763, his stay was extended by the largesse of
the French Ambassador of the Order of Malta to the Holy See, the Bailli de
Breteuil (1723–85), who housed him at his palace on the Via dei Condotti until
he returned to Paris in July 1 2 3 4 5 6 7 8 avl According to N. Schwed
(e-mail, 30 July 2014), this information was provided to Christie’s at the time
of the Decourcelle sale in 2002. Taillasson 1808, p. 473. Letters exchanged
between the influential Marquis de Marigny, Director General of King Louis XV’s
buildings (and brother of his mistress, Madame de Pompadour), and Charles-Joseph
Natoire, Director of the French Academy in Rome published by A. de Montaiglon
and J. Guiffrey between 1887–1912 provide essential details about Robert and
his stay in Italy. For Robert and Choiseul, see ibid., vol. 11, p. 262, no.
5331. Collector and connoisseur, Pierre-Jean Mariette preferred Robert’s draw-
ings to his paintings: ‘ses tableaux est fort inferieur à ses desseins [sic],
dans lesquels il met beaucoup d’esprit’ (Mariette 1850–60, vol. 4, p. 414).
Letters between Marigny and Natoire mention requests from Mariette for
drawings: Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 11, p. 365, no. 5477; p. 367,
no. 5483; p. 388, no. 5521; p. 428, no. 5589. The traditional view that the
drawing is a self-portrait (Paris 1922, p. 16, no. 85; Paris 1933, p. 124,
under no. 197), upheld in the recent literature, need not be questioned. The
figure resembles Augustin Pajou’s marble bust of Robert (1780) in the École
Nationale Supérieure des Beaux-Arts and Elisabeth Vigée-Lebrun’s 1788 portrait
of him in the Louvre. He has all the characteristics of an emperor from the
Antonine period. It could well be a reference to the bust of Marcus Aurelius in
the Capitoline Museum. See Fittschen and Zanker 1985, vol. 1, pp. 76–77, no.
69, vol. 2, pls 79, 81–82. A copy by Cavaceppi in terracotta is preserved in
the Museo del Palazzo di Venezia, see Rome 1994, p. 104, no. 19, repr. For the
bust, see Fittschen and Zanker 1983, vol. 1, pp.20–21, no. 19, vol. 2, pls
24–26. For its restoration, see London 1983, pp. 66–67. Cavaceppi’s posthumous
inventory of 1802 mentions two marble Faustinas and one plaster cast 9 10 11 12
13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 (Gasparri and Ghiandoni 1994, p. 264, no. 310, p.
270, no. 624 and p. 286, no. 109). For surviving copies by Cavaceppi, predominantly
acquired by English collectors, see Howard 1970, p. 123, figs 8 and 9, p. 128;
Howard 1982, p. 240, no. 6, p. 313, fig. 133, pp. 83, 251, nos. 25–26, p. 326,
fig. 211, p. 264, no. 14, p. 268, no. 15, p. 419; I. Bignamini, in London and
Rome 1996–97, pp. 211–12, no. 159; D. Walker, in Philadelphia and Houston 2000,
p. 242, no. 120. This is not, however, Faustina, as Marianne Roland Michel
proposed (Marseille 2001, p. 96, no. 109). For the painting, see J. Ebeling, in
Ottawa, Washington D.C. and elsewhere 2003–04, pp. 308–09, no. 92, 372, with
select previous literature listed. See Haskell and Penny 1981, pp. 119–20, no.
42, fig. 114. Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 12, p. 86, no. 5856.
Paris, Louvre. Méjanès 2006, p. 77, no. 33 and Ottawa and Caen 2011–12, pp.
140–41, no. 53. The connection was first noted by J. de Cayeux in Rome 1990–91,
p. 191, under cat. no. 135. On Breteuil, see Yavchitz-Koehler 1987, pp. 369–78,
Depasquale 2001, and Ottawa and Caen 2011–12, pp. 13–17 and 140–41, no. 53. Letter
from Natoire to Marigny, 25 April 1759 (Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol.
11, pp. 272–73, no. 5346). For the drawings, see letter from Natoire to
Marigny, 5 January 1763, Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 11, p. 455,
no. 5636. Compositions by Robert are among the copies made in 1770 by
Jean-Robert Ango (active 1759 – after 1773) after works in Breteuil’s
collection (Choisel 1986, nos 23–26, 44, 80). Their close rapport was recorded
by Robert’s friend, the painter Elisabeth Vigée-Lebrun (Gabillot 1895, pp.
80–81). Breteuil owned antique works as well as copies after the antique by
contemporary artists. Some are recorded in drawings by Ango (Choisel 1986, nos.
29, 45, 47, 51, 54–57, 71–72, 74–75, 83 and 125) including a small bronze Venus
Pudica, no. 56, and a copy by Laurent Guiard (1723–88) after the Venus
Calllypige from the Farnese collec- tion (no. 75). Additional antique works and
copies are listed in Breteuil’s posthumous sale in Paris of 16 January 1786,
including a copy of the Gladiator by Luc-François Breton (1731–1800), no. 135,
and a copy of the bust of Germanicus in the Capitoline, no. 143. Although no
bust of Faustina is listed, he may have owned the copy that Robert draws in the
present drawing. Gabillot 1895, pp. 61, 81–82. Letter from Natoire to Marigny,
5 January 1763 and another from Marigny to Natoire, 20 February 1763.
Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 11, p. 455, no. 5636 and p. 462, no.
5649. J.-P. Cuzin, in Paris 2000–01, p. 373, no. 178. Michel 1998–2000, pp. 60,
62, fig. 13. Sold Galerie Charpentier, Paris, 21 March 1952, lot 52. Present
whereabouts unknown. 163 of 1765. 162 12 Certain decorative features in
the painting – the 18. Hubert Robert (Paris 1733–1808 Paris) The Roman
Studio of Bartolomeo Cavaceppi c. 1764–65 Black chalk, 339 × 443 mm Inscribed
verso l.r. in pencil: ‘Salon de 1783 / No. 61 Intérieur d’un atelier à Rome /
dans lequel on restaure des statues / antiques / Cet atelier est pratiqué et
construit / dans les debris d’un ancien temple / 5 pieds de large sur 3 pieds 9
pounces de haut’ watermark: A coat of arms, possibly containing a star, three
hills and the initials ‘CB’ below, surmounted by a Cardinal’s hat with tassels
on each side (see Heawood 1950, nos 791–99). provenance: Charles Albert de
Burlet (1882–1956), Berlin, around 1910; Sold Galerie Fischer, Lucerne, 13
November 2006, lot 1944; Private collection, Switzerland, in 2006; Le Claire
Kunst, Hamburg, in 2011; Sold Villa Grisebach, Berlin, 28 November 2013, lot
307R, from whom acquired. literature: Le Claire Kunst 2011, no. 13
(unpaginated), repr.; Yarker and Hornsby 2012-13, pp. 65–66, fig. 37; Körner
2013, lot 307R, repr. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin Bellinger
collection, inv. no. 2013-030 A visit to the studio of Bartolomeo
Cavaceppi (1716–99) the sculptor, dealer, antiquarian, collector and
especially, restorer of ancient sculpture was essential for any serious art
tourist or collector in Rome on the Grand Tour.1 Known as the ‘Museo
Cavaceppi’, by the 1770s it was listed in guide- books as among the top sights
of the Eternal City.2 Johann Wolfgang von Goethe (1749–1832), who lived nearby,
and visited it in 1788 noted that one could experience in the studio ancient
sculpture from close proximity in all its gran- deur and beauty.3 The painters,
Henry Fuseli (1741–1825) and Giovanni Casanova (1728/30–1795) and the sculptor,
Antonio Canova (1757–1822), also came to see the collection.4 The ‘Museo’ was
an international meeting place, frequented by many artists including the English
sculptor, Joseph Nollekens, who worked for Cavaceppi as an assistant in the
1760s, and the English painter, Charles Grignoin, who resided with him in
1787.5 Strategically located between the Spanish Steps and the Piazza del
Popolo and thus in the social hub of Rome, the sprawling workshop was graced by
European royalty – Catherine the Great, Maria Christina, Duchess of Teschen,
Princess Sophia Albertina of Sweden, her brother, King Gustav III – and a
steady stream of English Grand Tourists like Charles Townley (see cat. 28),
many of whom became important clients.6 From a modest background, Cavaceppi
trained as a sculp- tor before enrolling in the Accademia di San Luca in 1732.
Two years later, Cardinal Alessandro Albani (1692–1779), the nephew of Pope
Clement XI and then the most respected private collector of antiquities in
Rome, appointed Cavaceppi as his personal restorer. The association brought him
many profitable commissions from foreign tourists for whom he found antique
statues, restored them, or made copies, in marble or plaster. He also created
original works, rarely signed, that were often confused with authentic antique
originals. Through his friend, the art historian and archaeol- 164 ogist,
Johann Joachim Winckelman (1717–68), who, in 1764, published The History of Art
in Antiquity (Geschichte der Kunst des Alterthums), Cavaceppi secured many
English clients, taken with the current mania for classical antiquity. He later
served as chief restorer to the Pope at the Museo Clementino and was made Knight
of the Golden Spur in 1770. In 1768 Cavaceppi published the first volume of his
Raccolta d’antiche statue, busti, teste cognite ed altre sculture antiche con-
taining sixty plates of antique statues that had been repaired in his studio,
often ‘corrected’ with missing or broken parts filled in. Over half of these
had been acquired by English collectors.7 A year later, he published the second
volume, essentially a promotional catalogue with works available for purchase,
followed by a third in 1772. Illustrating a total of 196 works, these
influential volumes, the first of their kind, helped to satisfy the seemingly
insatiable demand for unblemished antique sculpture – free of fragmentary
vestiges or other perceived flaws – and to encourage an emerging neo-classical
aesthetic. For modern scholars they serve as an indispensible tool for
identifying works he restored. By 1756 Cavaceppi established his vast studio on
the Via del Babbuino, a workshop and showroom. Cavaceppi employed a range of
skilled and unskilled workers with different roles and specialisations, fifteen
of whom have been identified by name, with Giuseppe Angelini and Carlo Albacini
being the most accomplished.8 The frontispiece to the first volume of
Cavaceppi’s Raccolta provides a fascinating look at his active studio with
assistants exercising different techniques of restoration and antiques in
various stages of completion (fig. 1). It offers a glimpse at what must have
been a sprawling complex of rooms with distinctive architectural details – high
ceilings, lattice windows and an enfilade of vaulted archways connecting each
room, one leading to an open garden courtyard at the back.9 165
Fig. 1. View of Cavaceppi’s Roman Studio, engraving, in Raccolta
d’antiche statue, vol. 1, frontispiece, Rome, 1768. Photo: Warburg Institute,
London Hubert Robert certainly encountered Cavaceppi during his Roman sojourn,
1754–65 (see cat. 17), and visited his studio on occasion, as this drawing
testifies. Executed in soft black chalk, it offers a view of one of the many
rooms in the Cavaceppi workshop. As in the engraving, there is a high ceiling
with lattice windows, statues and blocks of stone are scattered about, and
affixed to the wall on the left, is the same type of wooden structure and lead
point suspended on a cord used for measuring sculpture.10 With a chisel in one
hand and a mallet in the other, a restorer dressed in formal attire, perhaps
Cavaceppi himself, is busy worker-cutting on the cascading drapery of an
enormous statue of an armless woman. We can identify this as Cavaceppi’s studio
with virtual certainty as two works in the drawing were illustrated in perhaps
Cavaceppi himself, working on a female bust (fig. 6). Captivated by the theme
of the artist at work, Robert would return to the subject of the restorer’s
studio. In 1783 he successfully showed the impressive, rather generically
entitled, The Studio of an Antiquities Restorer in Rome at the Salon (Toledo
Museum of Art), which, though clearly an idealised vision featuring some of the
most famous antique works of the day (including the River Nile, Cupid and
Psyche, etc.), is also a wistful reminiscence of the artist’s own Roman years
and passionate study of antique statuary: a diminutive figure of an artist
sketching is visible in the foreground.18 In another little-known privately
owned picture attributed to Robert, well-clad visitors admire antique statues
in a sculptor’s studio while the ubiquitous artist is seen drawing (fig. 7).
Though certain features suggest the small painting may also represent
Cavaceppi’s studio, as with the Toledo canvas, topographical exactitude is
tempered with a more generalised, romantic – and highly saleable view – of
remnants from Rome’s ancient. For his life and work, see especially Howard
1970, Howard 1982, London 1983, Howard 1991, Gasparri and Ghiandoni 1994, Rome
1994, Piva 2000, Barr 2008, Weiss and Dostert 2000, Bignamini and Hornsby 2010,
pp. 252–55; Piva 2010–11, C. Piva in Rome 2010–11, pp. 418–19, no. IV.1 and
Meyer and Piva 2011, pp. 149–55 (for essential bibliography). Howard 1988, p.
479; Piva 2000, p. 5; Barr 2008, p. 86. Goethe 1827–42, p. 540, cited in C.
Piva in Rome 2010–11b, pp. 418–19, no. IV.1. Piva 2000, pp. 6, 17, note 4;
Honour and Mariuz 2007, pp. 26, 60–63. For Nollekens, see Howard 1964, pp.
177–89; Coltman 2003, pp. 371–96. For Grignoin, see Ingamells 1997, pp. 433–34.
Howard 1988, p. 479. For Cavaceppi’s works from British collections, see London
1983. Haskell and Penny 1981, p. 68. Barr 2008, p. 104 and p. 184, Appendix B.
Some of the same topographical details are discernible in a little-known floor
plan of the building (Piva 2000, p. 10, fig. 7). For more on this device and an
engraving demonstrating its use (published by D. Diderot and J. le Rond
d’Alembert in the Encyclopédie in 1765), see Myssok 2010, pp. 272–73, fig.
13.2. As first noted by Stefan Körner (Körner 2013, under lot 307R). Ibid.,
under lot lot 307R; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009, p. 416, no. 270. Körner
2013, under lot lot 307R; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009, p. 430, no. 283.
Müller-Kaspar 2009, p. 395. D. Kreikenbom, in Hüneke 2009, pp. 578–79, no. 357.
According to Winckelmann, many statues (including Kalliope and possibly also
Lucilla) were acquired by Bianconi in 1766 from the sale of Cavaliere Pietro
Natali’s collection in Rome. Conceivably, they were brought to Cavaceppi’s
studio while they were still in Natali’s possession (Müller- Kaspar 2009, p.
395; U. Müller-Kaspar, in Hüneke 2009, pp. 416, 430). Marseille 2001, p. 96,
no. 109. Guiffrey 1869–72, vol. 32, p.25, no. 61: ‘L’intérieur d’un Attelier à
Rome, dans lequel on restaure des statues antiques. Cet Attelier est pratiqué
& construit dans les debris d’un ancien Temple’. Fig. 2. Lucilla Sotto
sembianza d’Urania, anch’essa or esistente in Germania, engraving in Raccolta
d’antiche statue, vol. 1, Rome, 1768, pl. 58. Photo: Warburg Institute, London
Fig. 3. Kore as Urania, body, Antonine, c. 150 ad after a Greek model, 4th
century bc; head, 160–170 ad; marble, 270 cm (h), Berlin, SMBPK, Antikensammlung,
Sk 379 in the drawing, to the right, the muse Kalliope, lost in Berlin during
World War II, was also restored by Cavaceppi (figs 4–5).13 Both were acquired
in 1766 by the Bolognese doctor and antiquarian, Giovanni Ludovico Bianconi,
another friend of Winkelmann’s, for King Frederick William II of Prussia and
assigned to Cavaceppi for restoration before being sent to the Sansssouci
Palace in Potsdam in 1767.14 The child’s sarcophagus visible in the drawing on
the left wall is also similar to that preserved today in Charlottenhof Palace
in Potsdam though it does not appear in the Raccolta.15 The dating of Robert’s
drawing is problematic as in 1766, the year Lucilla and Kalliope were acquired
by Bianconi, the Fig. 4. Kalliope, engraving in Raccolta d’antiche statue, vol.
1, Rome, 1768, pl. 45. Photo: Warburg Institute, London Fig. 5. Kalliope,
Roman, marble, 98 cm, formerly Berlin, SMBPK, Antikensammlung, Sk 600, lost c.
1945 Fig. 6. Hubert Robert, L’Atelier du restaurateur de sculptures antiques,
black chalk, 368 × 323 mm, Château Borély, Marseilles, Inv. 68-194 painter was
already back in Paris, having left Rome in July 1765. However, it seems highly
likely that the works were lodged in Cavaceppi’s studio before their
acquisition and, indeed, they are drawn in their pre-restoration state.16
During the same period Robert probably made the black chalk drawing now in
Marseille showing an antiquities restorer, 17 Fig. 7. Hubert Robert, Studio of
a Sculpture Restorer, oil on panel, 13 × 10 cm, private collection. Photo: Witt
Library his Raccolta. 166 11 One of them, the monumental female
statue in the centre, re-appears in the publication, with arms added and an
entirely different head (fig. 2). Cavaceppi identified her as Lucilla, daughter
of Marcus Aurelius, with the attrib- utes of Urania, the muse of Astronomy
(‘Lucilla Sotto sembian- za d’Urania, anch’essa or esistente in Germania’). A
staggering 220-cm in height she is preserved today, with further restorations,
in Berlin (fig. 3).12 The seated figure behind her past. avl 167 19.
Georg Martin Preissler (Nürnberg 1700–54 Nürnberg) after Giovanni Domenico
Campiglia (Lucca 1692–1775 Rome) Self-Portrait of Campiglia Drawing 1739
Engraving, first state (before the lettering) 226 × 167 mm (image); 315 × 223
mm (sheet) Inscribed l.l. below image in pencil: ‘Campiglia se ipse del.’;
l.r.: in pencil: ‘G. M. Preisler.Sc.Nor.; and l.c. in pencil: ‘Joh. Dominicus
Campiglia, / Pictor Florent. Delineator / Musei Fiorentini.’ provenance:
Trinity Fine Art, London, 1999, from whom acquired. literature: Le Blanc
1854–88, vol. 3, p. 244, no. 6, ‘Campiglia (Giov. – Dom.). 1739. In – fol. -1er
état : avant le lettere.’ exhibitions: London 1999b, p. 8, no. 16, not repr.
Katrin Bellinger collection, inv. no. 1999–054 A prolific and
accomplished draughtsman, painter and reproductive engraver, Campiglia was a
central figure in promoting and disseminating images of the Antique during the
middle decades of the 18th century and therefore, is a key figure in the
present exhibition.1 His formative years were spent training with his uncle and
local painters in Lucca, Bologna and Florence where he studied drawing, as well
as anatomy and perspective and made copies after the Old Masters. By 1716, he
was residing in Rome studying the most important collections of antique
sculpture. That year he received a first prize for painting and for drawings to
illustrate a booklet for the Accademia di San Luca. He was already respected
for his wide culture and his work was admired by English collectors like Richard
Topham, who esteemed his refined and highly finished chalk studies of antique
sculpture, as well as his portraits.2 His close involve- ment in two lavishly
illustrated and highly successful and influential publications largely devoted
to antique sculpture – the Museum Florentinum and the Museo Capitolino (cat.
20) – brought him lasting fame and consolidated the taste for classical
antiquity that continued through the rest of the 18th century and beyond.3 In
the early 1730s the Florentine antiquarian, Anton Francesco Gori (1691–1757),
began to assemble a set of vol- umes that aimed to provide a visual record of
the art collec- tions of Florence, mainly those of the Medici, the ruling
dynasty. He commissioned Campiglia, already in the city in 1726, and others to
make drawings of the works selected to be engraved. The Museum Florentinum was
published between 1731 and 1766. It comprised twelve large volumes divided into
four parts: Gemmae antiquae ex Thesauro Mediceo et privatorum dactyliothecis
florentiae..., devoted to engraved gems (1731–32); Statuae antiquae deorum et
virorum illustrium, on antique statues and monuments (1734), Antiqua numismata
aurea et argentea, dedicated to ancient coins (1740–42) and, lastly, Serie di
ritratti degli eccellenti pittori, illustrating 320 portraits of prominent
artists, published in 1752–66. This last volume, based on art- ists’
self-portraits in the Uffizi’s collection, is of particular relevance here, as
we shall see later. This rare engraving by Preissler, hitherto unpublished and
known only in a single impression of the first state, is probably based on a
now untraced self-portrait of Campiglia.4 Without explanation, Le Blanc dates
the print to 1739 – when the artist was 47.5 Wearing an ermine collar with a
crisp, white, open-necked shirt and directly engaging the viewer, he presents
himself as straightforward, successful and brim- ming with confidence. Assuming
that Le Blanc’s date is cor- rect, the print appeared at time when Campiglia
was enjoying considerable success. The first two parts of the Museum
Florentinum had already been published, he had begun work on the Capitolino in
1735 (see cat. 20) and, precisely in 1739, he had been appointed Superintendent
of the Calcografia Camerale, the papal printing press. These successes culmi-
nated in his nomination for membership of the Accademia di San Luca in November
of that same year.6 Resting a sheet of paper against a drawings portfolio held
in his left hand, with his right hand he is drawing with a porte-crayon a model
of the Belvedere Antinous standing on the table before him (fig. 1). At the
statue’s feet is a figurine of a herm with the head of a youth, perhaps
Mercury, and two medals, one showing a man holding a lyre, who may be Homer.7
It is not surprising that Campiglia, whose reputation was established through
skilfully reproducing artefacts from the ancient world, should present himself
with the Belvedere Antinous, one of the most celebrated statues to survive from
antiquity. Renowned since its discovery in the 16th century and for its
placement in the Belvedere court, it soon ranked among the most famous statues
of Rome.8 Casts of the statue of the handsome youth, the lover of the Roman
emperor, Hadrian, who drowned himself in the Nile and was deified by 168same
year.6 Resting a sheet of paper against a drawings portfolio held in his left
hand, with his right hand he is drawing with a porte-crayon a model of the
Belvedere Antinous standing on the table before him (fig. 1). At the statue’s
feet is a figurine of a herm with the head of a youth, perhaps Mercury, and two
medals, one showing a man holding a lyre, who may be Homer.7 It is not
surprising that Campiglia, whose reputation was established through skilfully
reproducing artefacts from the ancient world, should present himself with the
Belvedere Antinous, one of the most celebrated statues to survive from
antiquity. Renowned since its discovery in the 16th century and for its
placement in the Belvedere court, it soon ranked among the most famous statues
of Rome.8 Casts of the statue of the handsome youth, the lover of the Roman
emperor, Hadrian, who drowned himself in the Nile and was deified by 168
169 adopts the same pose in the print as he did for his person- ification
of painting in the little-known Il Genio della Pittura of around 1739–40 in the
Accademia Nazionale di San Luca (fig. 2).13 The chalk holder becomes a paint
brush and the drawings portfolio a canvas. Not coincidentally, Campiglia seems
to have donated this painting as his entry work to the Academy c. 1740, about
contemporary with the present engraving.14 He cleverly fuses iconographic
elements in an amusing black chalk study of c. 1737–38 in the British Museum
(fig. 3) acquired by Charles Frederick (1709–85) while in Rome on the Grand
Tour, where he depicts himself drawing in the company of a seated monkey who
playfully holds up a paint brush, a clear allegorical reference to art
imitating nature or ‘art as the ape of nature’ as Aristotle describes it in the
Poetics.15 Characterised as ‘a very well-bred communica- tive man’, Campiglia
and his portraits were enormously popular with English collectors.16 Campiglia
made several other self-portraits throughout his career.17 Of particular
relevance is the painting made around 1766 for his pupil and collaborator,
Pietro Antonio Pazzi (c. 1706–after 1766) and now in the Uffizi.18 It shows the
artist at ease, his hands casually resting on his ever-present portfolio. The
picture appears, like so many of the Uffizi self-portraits, as an engraving by
the same Pazzi in the final volume of the Museum Florentinum (fig. 4).19 In
Pazzi’s engraving the format and central image dimensions are nearly identical
to our print of Campiglia by Georg Martin Preissler, who, not coincidentally,
engraved other portrait plates in the Museum Florentinum. Furthermore, the
pencil lettering, Joh. Dominicus Campiglia, / Pictor Florent. Delineator,
beneath the image in our engraving is similar in style and format to the
engraved inscriptions accompanying the other portraits in the book. Also
telling is the final pencil inscription, Delineator Musei Fiorentini, under his
name in the print. All this evidence strongly suggests that Campiglia intended
to use the present image for the Museum Florentinum – and had it engraved by
Preissler for that purpose – but he decided not to use it. Perhaps it served as
a kind of test-print for the engraved self-portraits in the volume. Although
the portrait series was not published until 1752–66, by 1739, Gori and
Campiglia would already have started to plan the format of the later sections.
Interestingly, Charles Le Blanc similarly describes Preissler’s engravings of
Dürer, Eglon van der Neer, Rubens and Raphael, all destined for the Museum
Florentinum, as first states ‘before the lettering’.20 But whatever our print’s
true purpose, by the time the portrait volumes appeared, Campiglia, then well
into his sixties and in the twilight of his career opted to present a more
recent and relaxed version of himself. avl Fig. 2. Giovanni Domenico Campiglia,
Genius of Painting, c. 1739–40, oil on canvas, 48 × 63.3 cm, Accademia
Nazionale di San Luca, Rome, Inv. 0075 Fig. 3. Giovanni Domenico Campiglia,
Self-Portrait of Campiglia Drawing, with a Monkey Seated on the Table at Left,
c. 1737–38, black chalk, 417 × 258 mm, Department of Prints and Drawings,
British Museum, London, 1865,0114.820 Fig. 4. Pietro Antonio Pazzi after
Giovanni Domenico Campiglia, Self-Portrait of Campiglia, engraving in Museum
Florentinum, Florence, vol. 12, 1766, plate XXII, 274 × 176 mm (plate), Sir
John Soane’s Museum Library, London, 2848 Fig. 1. Belvedere
Antinous, Roman copy of the Hadrianic period (117–138 ad) from a Greek original
of the 4th century bc, marble, 195 cm (h), Vatican Museums, Rome, inv. 907 the
grief-stricken emperor, were produced almost immedi- ately after its discovery
and copies in marble and bronze were made through the 17th century.9 Considered
to embody perfection, according to Bellori the statue was the subject of
studies in ideal proportion by François Duquesnoy (1597– 1643) and Nicolas
Poussin (1594–1665) (p. 47, fig. 68). The figure had wide-reaching appeal to
collectors and connois- seurs, and enticed a range of artists, who, from the
16th century included it in portraits.10 During the 18th century small-scale models
in bronze or marble, like that seen in the engraving, were produced in large
numbers with ‘restored’ arms, as seen here. Archaeologist and art historian,
Winckelmann, no doubt contributed to the statue’s elevated status even more
with his claim, ‘our Nature will not easily create a body as perfect as that of
the Antinous admir- andus’.11 The widely held belief that the statue was the
embodiment of ideal beauty would be upheld into the 19th century: even the
usually acerbic William Hogarth admitted its proportions were ‘the most perfect
. . . of any of the antique statues’.12 Campiglia was not shy and his other
self-portraits make a compelling comparison with this one. Interestingly, he 1
2 3 4 5 6 7 For essential biography, see Prosperi Valenti 1974, pp. 539–41;
Quieto 1984a; Quieto 1984b. Through his agent, Francesco Ferdinano Imperiali,
Topham commis- sioned Campiglia and others, including the young Pompeo Batoni,
to make dozens, if not hundreds of drawings with the aim of systematically
illus- trating Roman collections of antiquities. Many of these drawings are now
preserved at Eton College. See Connor Bulman 2002, pp. 343–57 and Windsor 2013,
pp. 11, 14–15. The corpus of his drawings for the Museum Florentinum are in the
Uffizi in Florence (Quieto 1984b, p. 10) and for the Museo Capitolino, in the
Istituto Nazionale per la Grafica in Rome (Quieto 1984b, pp. 10, 17–26, 29–36;
I. Sgarbozza in Rome 2010–11b, p. 402, no. II.15a-b). It is listed by C. Le
Blanc (1854–88, vol. 3, p. 244, no. 6) among the prints by G. M. Preissler:
‘Campiglia (Giov. – Dom.). 1739. In – fol. -1er état : avant le lettere.
Frauenholz, 4 flor.’ To the knowledge of the present writer, no impression of
the second state exists nor, for that matter, has either state previously been
published or discussed. The name and price Le Blanc men- tions – Frauenholz, 4
florins – refer to the Nuremberg-based print dealer and publisher, Johann
Friedrich Frauenholz (1758–1822), who may have owned the catalogued impression
and who sold (or acquired) it for the price of 4 florins. While it is possible
that the present impression is the one described, none of Frauenholz’s
collector’s marks or inscriptions (L. 951, L. 994, L. 1044 and L. 1458) appear
on it. Campiglia’s relatively youthful appearance suggests the drawn or painted
original may have been executed a decade or so earlier. He was proposed by
Sebastiano Conca on 15 November 1739 and his mem- bership confirmed, 3 January
1740 (Quieto 1983, p. 3). As noted by Eloisa Dodero (personal communication),
the herm is similar to the one seen in the background of Campiglia and Pazzi’s
engraving, Students Copying Antiquities at the Capitoline Museum (see following
entry, cat. no. 20). 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 Haskell and Penny
(1981, pp. 139–42, no. 4) give a full account of the sculp- ture’s history and
reception. See also Krahn 1996. See V. Krahn in Rome 2000b, vol. 2, pp. 403–04,
no. 9. Haskell and Penny 1981, p. 142 and Krahn 1996. Haskell and Penny 1981,
p. 142; and Winckelmann 1968, p. 153. Hogarth 1753, pp. 81–83. Faldi 1977, pp.
504, 508, fig. 8. Quieto 1983, p. 5; Rome 1968, p. 22, no. 5. Liverpool
1994-95, p. 72, no. 19. Ibid., p. 72. Gentleman’s Magazine 1853, vol. 40, p.
237, as quoted by H. Macandrew 1978, p. 138. Painted self-portraits are in the
Palazzo Altieri, Viterbo (formerly Faldi collection, Rome; Quieto 1983, pp.
5–6, 8, fig. 3, c. 1726–28), the Lemme collection, Rome (ibid., 1983, pp. 5,
7–8, fig. 4, 1732–34). See also the two mentioned in note 18, below. Drawn
self-portraits of a later date have appeared on the London art market: Chaucer
Fine Arts, 2003 (London 2003a, no. 12), Christie’s, December 6, 2012, lot 56
and Christie’s, April 21 1998, lot 126. See Quieto 1983, pp. 4–5, fig. 2 and
Quieto 2007, pp. 93–94, fig. 27. As that author noted, it reprises the
composition of an earlier work painted for the Accademia di San Luca (1983, p.
5, cover). Although in 1766 the painting was not yet in the Uffizi – it was not
left by Pazzi to the Grand Ducal collection until 1768 (Quieto 1983, p. 5) – it
is likely that at that date he had already planned to bequeath it, given the
self- portraits in the Museum Florentinum are based on the Uffizi’s collection.
Le Blanc 1854–88, vol. 3, p. 244, nos. 8, 23, 28, 30. Interestingly, Le Blanc indicates
that the Dürer and Raphael were also once owned by Frauenholz. It seems that
all these early first states were in a folio together. 170 171 20. Pietro
Antonio Pazzi (Florence c. 1706 – after 1766 Florence) after Giovanni Domenico
Campiglia (Lucca 1692–1775 Rome) Students Copying Antiquities at the Capitoline
Museum 1755 Engraving in Giovanni Gaetano Bottari, Musei Capitolini, vol. 3,
Rome, 1755, p. 1 99 × 186 mm (plate), 444 × 287 mm (sheet) Inscribed l.l.:
‘Gio. Dom. Campiglia inv. e disegn.’; and l. r.: ‘P. Ant. Pazzi incis.’
provenance: Robert Adam (1728–92); his sale, Christie’s, London, 20–21 May
1818; purchased by Sir John Soane (1753–1837), not listed in the Christie’s
sale catalogue (according to hand list, Sir John Soane’s Museum, Priv. Corr.
XVI.E.3.12: ‘Books purchased at Mr Adam’s sale’). literature: Haskell and Penny
1981, p. 84, fig. 46; Lyon 1998–99, pp. 109–10, under no. 89, not repr. (A.
Themelly); Paris 2000–01, p. 370, fig. 2; Macsotay 2010, p. 194, fig.
9.3. exhibitions: Not previously exhibited. Sir John Soane’s Museum
Library, London, 4033 exhibited in london only Few images capture the process
of learning to draw after the Antique in 18th-century Rome as vividly as
Campiglia and Pazzi’s densely populated engraving. More readily accessible than
the Belvedere Courtyard in the Vatican (cats 5 and 6) and the private
aristocratic collections, such as the Borghese and Farnese (cats 6 and 21), the
Capitoline Museum was the ideal venue for students to draw in situ from some of
the most celebrated antiquities preserved in Rome. Founded in 1471 with Pope
Sixtus IV’s (r. 1471–84) dona- tion of several important ancient bronzes – the
She Wolf, the colossal bronze head and hand of Constantine, the Spinario and
the Camillus – all preserved until then in the Lateran Palace, the Capitoline
grew in time to become one of the largest and most prestigious collections of
classical antiqui- ties ever assembled in Rome.1 In 1734, in conjunction with
the recent acquisition of the celebrated collection of Cardinal Alessandro
Albani, and thanks to the enlightened policy of Pope Clement XII (r. 1730–40),
the Capitoline opened as a public museum.2 Established with the two-fold civic
and educational purpose of preserving and making accessible to the public the city’s
antiquities and to cultivate ‘the practice and advancement of young students of
the Liberal Arts’, the museum soon became a lure for Italian and foreign
antiquar- ians and artists alike.3 The didactic function of the museum was
emphasised further by Pope Benedict XIV (r. 1740–58) with the opening of the
Pinacoteca Capitolina in 1748, the first public collection of painting in Rome,
and, in 1754, the establishment of the Accademia del Nudo.4 The Capitoline thus
became the first public museum in Europe in the modern sense of the word and an
ideal academy where art students could copy concurrently from the Antique, Old
Master paintings and the live model. The museum’s educational mission was
sanctioned by its growing associa- tion with the Accademia di San Luca. Academy
members 172 presided over the life classes at the Accademia del Nudo (Campiglia
directed classes there in April 1757 and November 1760)5 and prizes for the
student competitions at the Accademia di San Luca, the Concorsi, were awarded
in sump- tuous ceremonies in the rooms of the Capitoline palaces.6 This image
is the engraved vignette that introduces the volume devoted to ancient statues
of the Musei Capitolini, an ambitious publication produced with the pedagogical
intent of spreading knowledge of the museum and its collection of antiquities.7
Conceived by Cardinal Neri Maria Corsini, the nephew of Pope Clement XII, it
consisted of large engraved plates (fig. 1), all based on designs by Campiglia,
accompa- nied by a substantial commentary by the antiquarian Giovanni Gaetano
Bottari (1689–1775); both artist and writer had worked together previously on
the monumental Museum Florentinum (cat. 19). First published in Italian as Del
Museo Capitolino (4 vols, Rome, 1741–82) and then translated into Latin as
Musei Capitolini (4 vols, Rome, 1750–82) in order to reach a wider foreign
audience, the large volumes can be Fig. 1. Carlo Gregori after Giovanni
Domenico Campiglia, The Dying Gladiator, engraving, 202 × 300 mm, plate 68 from
Giovanni Gaetano Bottari, Musei Capitolini, vol. 3, Rome, 1755 173
considered the first systematic catalogue of a public museum.8 The prestige of
the publication, the clarity and neatness of the illustrations – produced by
many of the engravers who, like Pietro Antonio Pazzi, had participated in the
Museum Florentinum – soon made it a celebrated and indispensible reference work
that greatly contributed to the diffusion of the classical taste in Europe. It
was a familiar presence in the libraries of connoisseurs and artists as this
copy, owned by Sir John Soane (1753–1837) and before him by Robert Adam
(1728–92), testifies. The engraving is a celebration of the new educational
role of the museum and its association with the Academy of San Luca, of which
Campiglia had been a member since 1740 (see cat. 19). In a crowded space, a
group of students is seen sketching and modelling in clay after two of the most
famous statues that had been recently acquired for the museum: the so-called
Dying Gladiator (fig. 2) and the Capitoline Antinous (fig. 3), now believed to
represent respectively a Gaul and Hermes. The former, discovered around 1623,
and already famous in the 17th century when it was in the Ludovisi collection,
had been acquired in 1737 by Clement XII for the 9 Capitoline. Placed at the
centre of the composition, with Fig. 2. The Dying Gladiator, Roman copy of a
Pergamene original of the 3rd century bc, marble, 93 cm (h), Capitoline
Museums, Rome, inv. MC0747 Fig. 3. The Capitoline Antinous, Roman copy of the
2nd century ad of a Greek original of the 4th century bc, marble, 180 cm (h),
Capitoline Museums, Rome, inv. MC0741 the young artists assembled in a
semi-circle around it as if in a life class, the Gladiator invited analysis and
study of the male anatomy in a complex pose, as well as offering an example of
a noble and heroic death. The Capitoline Antinous, recorded in Cardinal
Albani’s possession from 1733, had been acquired with the rest of the
Cardinal’s collection in the same year and was displayed in the museum a few years
later.10 Quickly eclipsing the Belvedere Antinous (see p. 26, fig. 22 and cat.
19, fig. 1), it represented a perfect image of the male body in its youth. It
is not by chance that the young students are focusing on these two statues
among the many towering over them in the room, for the Dying Gladiator and the
Capitoline Antinous were the chosen subjects for the third class of the
Concorso Clementino – reserved for the copy – either drawing or modelling –
usually after the Antique, organised by the Accademia di San Luca for the year
1754 (fig. 4).11 But if the engraving alludes to a contemporary event, the
establishment of the museum as a ‘Scuola del Disegno’,12 it is also a
capriccio, as it gathers together sculptures that were in fact displayed elsewhere
in various rooms and collections, much as Hubert Robert would do in his
beautiful red chalk drawing of almost ten years later (p. 56, fig. 96). The
Dying Gladiator, the Capitoline Antinous and the two stand- ing statues behind
him, the Antinous Osiris and the Wounded Amazon, could all be admired and
studied in the privileged space of the Salone of the Palazzo Nuovo, which
housed some of the best masterpieces of the collection.13 The so- called Albani
Crater, half visible on the far left, and the seated Agrippina behind the
Antinous, were however, displayed elsewhere in the Palazzo Nuovo, respectively
in the Stanza del Vaso and in the Stanza dell’Ercole.14 Moreover, Campiglia did
not confine himself to depicting only works from the Capitoline collections: even
more out of place are the two figures on the right, who turn their backs to
Fig. 4. Giovanni Casanova, Drawing of the Capitoline Antinous (third award for
the third class in painting of the Concorso Clementino), 1754, red chalk on
brown prepared paper, 510 × 290 mm, Accademia Nazionale di San Luca, Rome, inv.
A.380 Fig. 5. Giovanni Paolo Panini, View of Ancient Rome or Roma Antica,
detail, c.1755, oil on canvas, 169.5 × 227 cm, Staatsgalerie Stuttgart inv. Nr.
3315 us as if to signify that they belong elsewhere. These are the much revered
Antinous Belvedere and the Venus de’ Medici – dis- played at that time
respectively in the Vatican and in the Tribuna of the Uffizi.15 Their presence
here probably served to sanction and affirm the canonical status of their
Capitoline companions, all recently excavated or acquired. What we see is
therefore a symbolic space, where reality and fantasy are combined to
legitimise and promote the relatively new collection of the museum. The volumes
of the Musei Capitolini served as a reference tool for many artists and no
doubt inspired the scene showing young students drawing the Dying Gladiator in
the foreground of Giovanni Paolo Panini’s renowned View of Ancient Rome (fig.
5, and p. 53, fig. 92), the first version of which, not coincidentally, was
painted at about the same Fig. 6. Carlo Gregori after Giovanni Domenico
Campiglia, Young Artists Copying the ‘Arrotino’, engraving, 118 × 151 mm, page
225 in Anton Francesco Gori, Museum Florentinum . . . , vol. 8, Florence, 1754 time
as the publication of this particular volume. Campiglia devised similar
graceful allegorical vignettes for the contemporary volumes of the Museum
Florentinum.16 One in particular, engraved by Carlo Gregori (1719–59), seems to
be the Florentine counterpart of the Roman image, showing students sketching
the Arrotino, surrounded by the symbols of the arts and books on anatomy and
geometry (fig. 6).17 Although in the second half of the 18th century access to
the museum sometimes proved difficult due to lack of personnel, and while
artists had to go through the bureau- cratic process of applying to the papal
camerlengo or to the director of the museum for licence to make copies, the
Capitoline remained one of the most popular sites among artists and travellers,
as the many views of its interiors testify (pp. 55–56, figs 94–96).For recent
and brief introductions on the history of the Capitoline collec- tions, with
previous bibliography, see Parisi Presicce 2010; Paul 2012. On the early years
of the Capitoline as a public museum see Arata 1994; Franceschini and Vernesi
2005; Arata 2008. Document dated 5 December 1733 quoted in Arata 1994, p. 75.
On the Pinacoteca see Marinetti and Levi 2014. On the Accademia del Nudo see
Pietrangeli 1959; Pietrangeli 1962; MacDonald 1989; Barroero 1998. On
Campiglia’s supervision of life classes at the Accademia del Nudo see Pirrotta
1969. On the Concorsi see Cipriani and Valeriani 1988–91; Rome, University Park
(PA) and elsewhere 1989–90; Cipriani 2010–11. See Quieto 1984b; Kieven 1998;
Philadelphia and Houston 2000, pp. 484– 86, no. 329 (S. Prosperi Valenti
Rodinò); Rome 2004, pp. 96–108, nos 1–7 (A. Gallottini); Rome 2010–11b, p. 401,
no. II.14 (I. Sgarbozza). Campiglia started working on his designs for the
plates in 1735: see Franceschini and Vernesi 2005, pp. 59–60. See Haskell and
Penny 1981, pp. 224–27, no. 44; Mattei 1987; La Rocca and Parisi Presicce 2010,
pp. 428–35. See Haskell and Penny 1981, pp. 143–44, no. 5; La Rocca and Parisi
Presicce 2010, pp. 500–01. The statue was exhibited in the museum from 1739 or
1742. Cipriani and Valeriani 1988-91, vol. 2, pp. 219–20, 228. While the 1754
prize drawings depicting the Antinous survive in the archives of the Accademia,
the terracottas representing the Dying Gladiator are lost. The Dying Gladiator
was also chosen as the subject for the third class in painting in 1758 and the
Capitoline Antinous for the third class in sculpture in 1779, and in painting
in 1783: ibid., vol. 3, pp. 9–22, 120, 129–30, 141–46. It was referred to as such
in the award ceremony for the Concorso: see Belle Arti 1754, p. 36. On the
Antinous-Osiris, donated to the museum by Benedict XIV in 1742 and from 1838 in
the Vatican Museum, see Paris, Ottawa and elsewhere 1994– 95, pp. 78–79, no. 24
(M. Pantazzi). On the Wounded Amazon, acquired in 1733 as part of Albani
collection, see Weber 1976, pp. 46–56. On the Albani Crater and its base, both
previously in the Albani collection, see Grassinger 1991, pp. 189–90, no. 32.
On the so-called Agrippina, already recorded in the Capitoline collections in
1566, see Haskell and Penny 1981, pp. 133–34, no. 1; Rome 2011, pp. 324–25, no.
5.9 (A. Avagliano). On their display at that time, see Venuti 1750, pp. 23, 30,
33–34; Arata 1994. For the Antinous Belvedere and the Venus de’ Medici see
above p. 26, fig. 22 and p. 42, fig. 56. Many are found in volumes 8 to 12. On
the so-called Arrotino or Knife Grinder, once in the Villa Medici in Rome and
from 1680 in the Tribuna of the Uffizi see Haskell and Penny 1981, pp. 154–56,
no. 11; Bober and Rubinstein 2010, pp. 83–84, no. 33. On access to the
Capitoline Museum in the 18th century see Sgarbozza 2010–11.
174 175 21. Louis Chays (Aubagne c.1740–1811 Paris) The Courtyard
of the Farnese Palace in Rome with the Hercules Farnese 1775 Pen and brown ink,
brown wash, pencil and white gouache, 434 × 534 mm Inscribed recto, l.l., in
pen and black ink: ‘chaÿs f. a rome 1775.’; and l.c., in pencil, possibly by
different hand: ‘Cour du Palais Farnése’. provenance: Hippolyte Destailleur
(1822–93) collection (no. 110). literature: Berckenhagen 1970, p. 394, no.
3027, repr.; Giuliano 1979, p. 100, fig. 13; Michel 1981b, p. 584, fig. 8; De
Seta 1992, p. 240, repr.; Gasparri 2007, p. 53, fig. 45 and p. 178, no. 273.4;
Macsotay 2010, p. 194; Göttingen 2013–14, p. 208, fig. 53. exhibitions:
Not previously exhibited. Kunstbibliothek, Berlin, Hdz 3027 exhibited in london
only Private aristocratic collections of antiquities in Rome contin- ued to
attract large numbers of artists and visitors during the 18th century. The
Farnese Palace, with its group of canon- ical ancient sculptures – the Farnese
Hercules (see p. 30, fig. 32) the Farnese Bull and the Farnese Flora among
others – and its Gallery with the Loves of the Gods, the widely admired fresco
cycle by Annibale Carracci (1560–1609), offered the ideal opportunity to copy
the Antique and a tour de force of early 17th-century mythological decoration
at the same time.1 Drawings after the famous Farnese statues by Maarten van
Heemskerck (1498–1574), Hendrick Goltzius (1558–1617) (see cat. 7), Annibale
Carracci (see p. 43, fig. 58), Peter Paul Rubens (1577–1640; see p. 46, fig.
67), Nicolas Poussin (1594–1665), Anthony van Dyck (1599–1641), Carlo Maratti
(1625–1713; see p. 43, figs 60–61), Hubert Robert (1733–1808), Jacques Louis
David (1748–1825) and Jean-Auguste-Dominique Ingres (1780– 1867), to name just
a few, testify to the enduring fame of the palace and its legendary collection
of antiquities among European artists residing in Rome.2 In the 18th century
the palace went through changes of ownership, passing in 1731 from the Farnese
to the Bourbon, but it remained a lively envi- ronment, with many artists and
others residing in its rooms, and was readily accessible for those who wished
to draw or model.3 Between 1786 and 1800 all the ancient statues of the
collection were removed by the Bourbon King Ferdinand IV to Naples – where they
can be seen today in the National Archaeological Museum – a decision that
marked the end of the palace as a privileged place for studying the Antique.4
Louis Chays is one of the lesser-known figures among the French artists who
gravitated towards the Académie de France in Rome in the 1770s. He studied at
the Academy in Marseille under Jacques-Antoine Beaufort (1721–84), before
moving to Rome thanks to the patronage of Louis-Joseph Borély, a wealthy
Marseille merchant.5 His five years in Rome, between 1771 and 1776, were
probably spent in the company of such pensionnaires of the Academy as
Joseph-Benoît Suvée (1743–1807), Jean-Simon Berthélemy (1743–1811), Pierre-
Adrien Pâris (1745–1819) and François-André Vincent (1746–1816). These young
artists were of the same generation, they all arrived in Rome in 1771 and
stayed there for a similar span of years. They seem to have travelled around
the city and the Roman campagna as a group, sketching sites, ruins and
landscapes, and they naturally shared a similar style and repertoire.6 The
result of Chays’ artistic wanderings consists mainly of evocative drawings in
the manner of Hubert Robert and Jean-Honoré Fragonard (1732–1806) though Chays’
drawings lack their characteristic vivacity. The corpus of his drawings is
preserved in the Kunstbibliothek in Berlin.7 This study, with its companion,
The Colonnade of St Peter’s Square, stands apart in Chays’ known graphic
production in being a large-scale and highly finished pen-and-wash draw- ing.8
The lively view is the only known representation of groups of students, rather
than just individuals, at work in the courtyard of the Palazzo Farnese; nor
does the present writer know of any similar record of study in other private
collections of antiquities in Rome. It is also an important historical
document, being one of the last images to show the statues in their original
location before their removal to Naples, from 1786 onwards. Chays cleverly
chose a low view- point and an angle that allows for maximum drama: the
receding pillars of the portico frame the focus of our atten- tion, the massive
statue of the Farnese Hercules. We are standing in the shadowy passage leading
to the gardens of the palace and we see the Hercules from behind, by then a
view as successful as the front (see cats 7 and 16). Other images of the
Hercules from the back in the Farnese courtyard had been produced decades earlier
by Giovanni Paolo Panini (1691–1765) (fig. 1), Giacomo Quarenghi (1744–1817)
(fig. 2) and Frédéric Cronstedt (1744–1829), and one wonders whether Chays had
seen any of them.9 In any case, to animate his composition Chays certainly took
inspiration from the many capricci by Panini where the Hercules towers over
groups of wanderers and also from such drawings showing artists at 176
177 Fig. 1. Giovanni Paolo Panini, View of the Courtyard of the
Palazzo Farnese with the ‘Hercules’ seen from Behind, c. 1730, pen and black
and grey ink and wash, and coloured wash, heightened with white, 419 × 417 mm,
private collection work in Rome produced by Charles-Joseph Natoire (see p. 55,
fig. 94) or Hubert Robert (see p. 56, figs 95–97). We see here the usual cast
of characters familiar from Robert’s drawings: a combination of artists,
beggars, dogs, young children, and bystanders, some of them dressed in the
current fashion, like the elegant aristocratic couple in the centre, no doubt
accompanied by a tour guide or cicerone. Others are presented in all’antica
dress, such as the beggar and muscular male student on the right, both of whom
wear Roman togas and gaze intently at the sculpture from behind. But among the
many visitors to the courtyard, the true protagonists are the students, busy at
work, sketching on large sheets resting on drawing boards or modelling in clay,
as in Campiglia’s and Pazzi’s engraving (cat. 20). Some focus on the Hercules,
while others, seated on chairs or on the ground in the middle of the courtyard,
turn towards the other star of the collection, the Farnese Flora, visible to
the right of the Hercules.10 The entire palace seems to have been turned into
an academy, with animated conversations taking place throughout: particularly
intriguing is the lively discus- sion taking place around a large drawing in
the central bay of the first floor loggia. In the distance, through the
entrance vestibule on the lower right, we have a glimpse of the Piazza Farnese
and the external world. While the technique in this drawing is precise and
although the details are lively, the rendering of the architec- ture, which was
evidently drawn first and before the figures were superimposed, is less
successful. It is notable that the Fig. 2. Giacomo Quarenghi, View of the
‘Farnese Hercules’ in the Portico of the Courtyard of the Farnese Palace, c.
1775–79, pen and black ink and wash and coloured wash, 304 × 233 mm, private
collection scale of the two sides of the courtyard visible behind the por- tico
does not quite correspond. In fact, Chays’ real forte was landscape rather than
accurate architectural views, although reasonably faithful depictions of the
Villa Madama and other Roman buildings survive.11 Although this view is largely
imaginary, it seems to evoke the spirit of the courtyard as it appeared to
pupils of the Accademia di San Luca and pensionnairesof the Académie de France
in Rome who frequented the palace regularly. Visits to grandiose palaces such
as this must have left a lasting impression on these young students. The
Accademia di San Luca sent its students around Rome to copy the Antique,
especially on the occasion of academic competitions, the Concorsi.12 In the
18th century the Hercules and the Flora were chosen several times as subjects
for the third class of the Concorso Clementino – reserved for the copy, a
drawing or a model, usually after the Antique – and the students’ gather- ings
in those occasions must have offered a scene as animated as that we see in
Chays’ drawing.13 Most of the artists depicted here are sketching on large
sheets of paper, generally reserved in the 18th century for academic drawings
after the Antique, as seen also in Campiglia’s and Pazzi’s engraving (cat.
20).14 The Académie de France in Rome had been founded in 1666 with the specific
intent of shaping the taste and manner of young artists ‘sur les originaux et
les modèles des plus grands maîtres de l’Antiquité et des siècles derniers’ and
of furnishing the royal gardens at Versailles with copies of the most famous
antiquities from Rome.15 Although the direct copy from antique statuary had
been neglected for certain periods since the Académie’s founding, it had once
again gained a central place in the official curriculum of the pensionnaires
during the direc- torates of Nicolas Vleughels (1725–37) and Charles-Joseph
Natoire (1751–75) (see cat. 16). Although no surviving drawings after the
Antique by Chays are known, he probably produced them as he spent considerable
time in Rome copying Old Master paintings, such as those by Raphael, Titian and
Guido Reni.16 He returned to Marseilles in 1776 and spent the following years
decorating the château of his patron, today the Musée Borély, where he put into
practice the lessons and skills he had acquired in Rome.17 After becoming one
of the professors of the Académie in Marseilles, Chays participated in the
Revolution and as sergeant-major took part in 1790 in the occupation of the
fort of Notre-Dame de la Garde by the Garde National.18 He later published a
collection of etchings some of which he based on the views that he had
assembled in his Roman years.19 Among the last mentions we have of him are his
Paris Salon entries of 1802 and 1804: perspective drawings of the antiquities
collection of the Louvre. SeeMéjanès1976;WashingtonD.C.1978–79,pp.148–155.
Berckenhagen1970,pp.393–96,nos3026–3074and3673–3674. Ibid.,p.394,no.3026. For
Panini’s drawing see Arisi 1961, p. 245, no. 80, fig. 359; Sotheby’s New York,
29–30 January 2013, lot 113. Two paintings attributed to Panini (wrongly, in
the opinion of the present writer) in a French private collec- tion show
similar views: see Munich and Cologne 2002, pp. 408–10, nos 187 a/b. For
Quarenghi’s drawing see Sotheby’s New York, 27 January 2010, lot 90. Another,
almost identical version is in the Hermitage, St Petersburg (inv. 25819):
Bergamo 1994, pp. 185–86, no. 234. For Cronstedt’s drawing, executed in 1772,
now in the National Museum, Stockholm see Palais Farnèse 1980–94, vol. 2, p.
131, fig. b. Before the 18th century the same viewpoint had been represented in
a drawing by an anonymous Dutch draughtsman of c. 1540–60, now in the Herzog
Anton Ulrich-Museum, Braunschweig (inv. Z 320r): see Gasparri 2007, p. 17, fig.
4 and p. 178, no. 273.1. The Flora is here shown with its Renaissance
restorations by Guglielmo Della Porta and Giovanni Battista de Bianchi and
before Carlo Albacini’s new restorations undertaken after 1787: see Gasparri
2009–10, vol. 3, esp. pp. 38–40. See for instance, Berckenhagen 1970, p. 395,
no. 3030. On the Concorsi see cat. 20, note 6. Both were chosen for the third
class in sculpture in 1703: Cipriani and Valeriani 1988-91, vol. 2, pp. 26–27.
The Hercules was chosen for the third class in both painting and sculpture in
1728 and later on in sculpture in 1783 and in 1789 (this time from a plaster
since the statue had been transported to Naples in 1787): ibid., vol. 2, p.
182, vol. 3, pp. 130, 153. The Flora was chosen for the third class in painting
in 1750: ibid., vol. 2, pp. 209–10. See the size of the drawings for the third
class of the Concorsi Clementini of the Accademia di San Luca in Cipriani and
Valeriani 1988–91, vols 2–3. See also Macsotay 2010, pp. 193–94. ‘On the
originals and the examples of the greatest Antique masters and those of
preceding centuries’: letter from Jean-Baptiste Colbert to Nicolas Poussin,
1664, mentioned in Montaiglon and Guiffrey 1887–1912, vol. 1, p. 1 and in
Lapauze 1924, vol. 1, p. 2. See Aymonino’s essay in this catalogue, pp. 44–46.
These copies now survive in the Musée des Beaux-Arts and in the Musée Borély in
Marseille: Paris 1989, pp. 268–69, no. 113 (J.-F. Méjanès). Benoît 1964. Vialla
1910, p. 484. ‘Ouvrage de 36 feuilles tirées des Porte-feuilles du C[itoye]n S.
[sic] Chays...’. See Thieme-Becker 1907–50, vol. 6, p. 445. See also Le Blanc
1854–88, vol. 1, p. 625. ‘Dessins perspectives de différens points de vue, qui
donnent le développe- ment de toutes les figures antiques du Musée [du Louvre],
ainsi qu’une juste idée du local et de la décoration du palais’: Sanchez and
Seydoux 1999– 2006, vol. 1, p. 46, no. 58 (1802), p. 76, no. 105 (1804). See
also Paris 1989, pp. 268–69, no. 113 (J.-F. Méjanès). 178 179 1 2 3 4 5 aa On
the Farnese Hercules see above p. 30 and cat. 7. On the Farnese Flora see
Haskell and Penny 1981, pp. 217–19, no. 41; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp.
37–42, no. 8, pl. VI, 1–5 (C. Capaldi). On the Farnese Bull see Haskell and
Penny 1981, pp. 165–67, no. 15; Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 20–25 no. 2, pl.
II, 1–16 (F. Rausa). See Gasparri 2007, p. 11 and pp. 157–78. See Michel 1981b
and La Malfa 2010–11. In 1775, the year of this drawing, the palace had 180
inhabitants. See the list in Michel 1981a, p. 565. For a list of artists
residing in the palace see Michel 1981b, table between pp. 610–11. Rausa 2007b,
pp. 57–60. On Chays (often spelled differently, Chaÿs, Chais, Chaix) see:
Thieme- Becker 1907–50, vol. 6, p. 445; Benoît 1964; Toronto, Ottawa and
elsewhere 1972–73, pp. 143–44, no. 23; Paris 1989, pp. 268–69, no. 113 (J.-F.
Méjanès); Raspi Serra 1997. 22. Henry Fuseli (Zürich 1741–1825 London)
The Artist Moved by the Grandeur of Antique Fragments; The Right Hand and Left
Foot of the Colossus of Constantine c. 1778–79 Pen and sepia ink and wash, red
chalk, 420 × 352 mm Inscribed recto on the pedestal of the foot: ‘S.P.Q.R’,
followed by illegible characters and l.r. in pencil: ‘85 W. Blake’ (false
signature, perhaps 19th century) watermark: ‘ZP’ and the coat of arms of the
city of Zurich1 provenance: Susan Coutts, Countess of Guildford (1771–1837)
(her stamp on the verso2); Paul Hürlimann, from whom acquired in 1940. selected
literature: Irwin 1966, p. 47, pl. 32; Schiff 1973, vol. 1, pp. 115, 478–79,
no. 665, vol. 2, p. 145, fig. 665; Tomory 1972, pp. 49, 90, fig. 4; Füssli
1973, pp. 60–61, repr.; Schiff and Viotto 1980, pl. viii, no. D35 on p. 112;
Klemm 1986, no. 4; Lindsay 1986, pp. 483–84, fig. 1; Taylor 1987, p. 125,
repr.; Noch- lin 1994, pp. 7–8, fig. 1; Rossi Pinelli 1997, pp. 15, 18, repr.;
Bartels 2000, p. 23, note 2; Patz 2004, p. 271, fig. 3; Bungarten 2005, cover;
Pacini 2008, pp. 55–56, fig. 4; Valverde 2008, pp. 163–64, fig. 5; Trumble
2010, pp. 6–7, repr.; Barroero 2011, no. 22, repr.; Mongi-Vollmer 2013, p. 294,
fig. 127. selected exhibitions: Zurich 1941, no. 251; New York 1954, no. 31;
Zurich 1969, no. 165; Copenhagen 1973, p. 55, no. 21, not repr. (B. Jørnæs);
Hamburg 1974–75, p. 129, no. 45 (G. Schiff); London 1975, pp. 54–55, no. 10 (G.
Schiff ); Paris 1975, unpag., no. 10 (G. Schiff ); Milan 1977–78, pp. 19–20,
no. 6 (L. Vitali); Geneva 1978, p. 8, no. 3; Munich 1979–80, pp. 279–80, no.
154 (J. Gage); Tokyo 1983, pp. 62–63, no. 7 (G. Schiff ); Zurich 1984, pp. 49,
179, no. 25; Stockholm 1990, p. 33, no. 3 (G. Cavalli-Björkman and R. von
Holten); Stuttgart 1997–98, pp. 5–7, no. 10 (C. Becker); Zurich 2005, p. 256,
no. 1, frontispiece 2; Paris 2008, p. 120, no. 36 (B. von Waldkirch). The
Kunsthaus, Graphische Sammlung, Zürich, inv. no. 1940/144 exhibited in london
only This celebrated drawing is one of the most powerful images ever produced
on the relationship of the artist with the Antique. It presents a very
different response to classical antiquity from the many didactic compositions
shown in this catalogue, expressing the extremism and the Sturm und Drang that
imbued early Romanticism. The artist here confronts the Antique not as a source
of information or inspiration but on a deeper level: he meditates on the
grandeur of a lost past both as a philosopher, considering the fragility of the
human condition and, more powerfully still, as a creator in despair at his own inability
to match the achievements of classical antiquity. Fuseli’s evocative image
effectively summarises the dramatic change in the approach to the Antique which
took place in Rome in the late 18th century within a circle of anti-academic
and largely self-taught artists, such as Alexander Runciman (1736–85), John
Brown (1749–87), Tobias Sergel (1740–1814) and Thomas Banks (1735–1805), among
whom Fuseli was the most influential.3 For them the ancient sculptures were
alive, a tangible expression of the emotions and individuality of their
creators, rather than models of ideal beauty and proportional perfection. Born
Johann Heinrich Füssli in 1741 in Zurich into a fam- ily of artists, his
father, Caspar (1706–82), a painter and histo- rian, was one of the Swiss
correspondents of Anton Raphael Mengs (1728–79) and Johann Joachim Winckelmann
(1717– 68).4 Fuseli’s early education benefited from the teaching of Johann
Jakob Bodmer (1698–1783) and Johann Jakob Breitinger (1701–76), forerunners of
the literary and artistic movement Sturm und Drang, who introduced the young
artist to the study of Homer, Dante, Shakespeare, Milton and the
Niebelungenlied, decisively contributing to the eclecticism of his imaginative
sources. Fuseli moved to London in 1764 and soon became well acquainted with
the city’s lively cultural milieu and quickly acquired fame as a painter. In
1770, on the advice of Sir Joshua Reynolds (1723–92), Fuseli travelled to Rome.
He stayed there for eight years, with very few inter- ruptions, leaving in 1778.
After spending a few months in Zurich, he returned to London where he was
destined to spend the rest of his life. Elected academician at the Royal
Academy of Art in 1790 and Professor of Painting in 1799, Fuseli became one of
the most acclaimed artists of his generation; he died in the residence of the
Countess of Guilford, one of his patrons and previous owner of the pre- sent
drawing, in Putney Hill in south-west London, in 1825. The eight years Fuseli
spent in Rome were of great impor- tance for the development of his artistic
language and theory of art. Fascinated by the majestic relics of imperial Rome,
but even more impressed by Michelangelo’s masterpieces, Fuseli soon distanced
himself from the idealised and harmonious view of the Antique espoused in the
theoretical works of Gotthold Ephraim Lessing (1729–81) and of Winckelmann, who
had been murdered in Trieste two years before Fuseli arrived in Rome. This
death was symbolic for, although ini- tially a great enthusiast for
Winckelmann’s writings, some of which he translated into English, Fuseli became
one of his most radical detractors by asserting the importance of appreciating
the emotions and conflicts that ran through 180 181 ancient works of
art.5 As Fuseli stated many years later in the introduction to his Lectures on
Painting presented at the Royal Academy, German critics had taught the artist
‘to substitute the means for the end, and, by a hopeless chase after what they
call beauty, to lose what alone can make beauty interest- ing – expression and
mind’.6 ‘Expression animates, convulses, or absorbs form. The Apollo is
animated; the warrior of Agasias is agitated; the Laocoon is convulsed; the
Niobe is absorbed’. This is one of the Aphorisms on Art compiled by Fuseli in
the late 1780s, although it was first published only in 1831 by John Knowles in
his The Life and Writing of Henry Fuseli.7 These famous masterpieces of ancient
sculpture, the Apollo Belvedere, the Borghese Gladiator, the Laocoön and the
Niobe Medici, are not seen by Fuseli simply as the embodiment of a canon of
perfection, models to imitate, or points of reference in the academic education
of a young artist; they are treated as animated forms of the subjectivity of
the artists who created them and, ultimately, of their ways of expressing
feeling and emotion.8 Fuseli’s many studies after the Antique are never an end
in themselves, they are rather means of expression and, because of that,
ancient statues can be adapted, distorted, even desecrated by him.9 A
homosexual scene depicted on an ancient Greek red-figured vase can become the
model for a Shakespearean composition showing the King of Denmark poisoned by
his brother in his sleep.10 Likewise, one of the Horse Tamers on the Quirinal
Hill (see p. 22, fig. 10), reproduced and adapted many times by Fuseli, can be
turned into Odin receiving the Prophecy of Balder’s Death.11 If Winckelmann
praised the Laocoön for his dignified grandeur,12 in two of his late sketches
Fuseli transformed the Trojan priest into the object of a courtesan’s sexual
desire.13 Even the famous Nightmare (1781),14 one of the most disquieting
compositions ever created by Fuseli, still retains memories of the Antique,
from the devilish head of the horse peeping out of the curtain, so like those
of the Quirinal horses, to the reclining figure in which one can recognise a
transposition of the celebrated Cleopatra in the Belvedere Court (see p. 26,
fig. 20).15 The Artist Moved by the Grandeur of Antique Fragments per- fectly
embodies the artist’s revolutionary approach to the Antique. Although no doubt
based on sketches made on the spot, and using a technique, sepia ink and wash,
often used by Fuseli in Rome, the watermark with the coat of arms of the city
of Zurich suggests that the drawing was made during or soon after his brief
stay in his home town after he left Rome in 1778.16 The drawing shows a
scantily clad figure seated on a block dwarfed by two adjacent marble
fragments, the left foot and the right hand of a gigantic statue set on plinths
before a wall composed of majestic, square blocks.17 The pose of the artist,
loosely inspired by Michelangelo’s Ancestors of Christ on the Sistine Ceiling,
is deeply expressive; he cradles his head in deep grief and anguish, and his
mood, with his legs casually and unguardedly crossed, is one of total
surrender; the forlornness is enhanced by the wild weed that audaciously pushes
its way up against the colossal marble hand. The antique fragments are easily
recognisable as the left foot and the right hand of a colossal statue of the emperor
Constantine the Great (r. 306–37 ad; figs 1–2) which were found in the west
apse of the Basilica of Maxentius in 1486 under the papacy of Innocent VIII (r.
1481–92) along with other fragments including the head (fig. 3) and the right
foot. By Fuseli’s time they could be admired in the courtyard of the Palazzo
dei Conservatori on the Capitoline hill, where they are still preserved
today.18 The monumental scale of these fragments fascinated generations of
artists from the Renaissance onwards, but they became increasingly a focus of
attention in the 17th and Fig. 1. Colossal Statue of Constantine the Great:
Right Hand, 313–24 ad, Luna marble, 166 cm (h), Capitoline Museums, Courtyard
of the Palazzo dei Conservatori, Rome, inv. MC0786 Fig. 2. Colossal Statue of
Constantine the Great: Left Foot, 313–324 ad, Parian marble, 120 cm (h),
Capitoline Museums, Courtyard of the Palazzo dei Conservatori, Rome, inv.
MC0798 Fig. 3. Colossal Statue of Constantine the Great: Head, 313–24 ad,
marble, 260 cm (h), Capitoline Museums, Courtyard of the Palazzo dei
Conservatori, Rome, inv. MC0757 in the drawing (‘S.P.Q.R.’) can actually be
found on the pedestal supporting the right foot and not the left one, as Fuseli
represents it here. The detail, however, is not irrelevant, since it is part of
the inscription, commemorating a restoration of the fragments promoted by Pope
Urban VIII (r. 1623–44) in 1635 and 1636, so that one can read a clear
reference to the awe inspired by the greatness of the ‘Res Romana’.22 Awe of
the Antique is expressed in the drawing by the contrast between the muscular
fragments of the colossus and the diminutive, frail and almost abstract figure,
who can be interpreted both as a personification of a modern man in general and
as a symbolic self-portrait of the artist – ‘Füssli’ in German means ‘little
foot’, thus suggesting a visual word- play.23 However, the title of the drawing
given by Gert Schiff, The Artist Moved by the Grandeur of Antique Fragments,
captures only one aspect of the composition, that is, the feeling of artistic
and intellectual inadequacy before the sublime Past.24 Possibly, even the
inconsistent perspective of the pedestal of the foot was consciously introduced
to express the artistic inferiority of the moderns compared to the ancients.
But the pose, which recurs many times in Fuseli’s works, can convey at the same
time other meanings.25 It could cause a deep Fig. 5. Hubert Robert, Ancient
Sculptures of the Capitoline, red chalk, 442 × 330 mm, Staatliche Museen,
Kunstbibliothek, Berlin, Inv. Hdz 3076 18th centuries: two wanderers are
shown among the colossal ruins in a drawing by Stefano della Bella (1610–64;
fig. 4),19 while the foot and hand appear in an evocative capriccio by Hubert
Robert (1733–1808; fig. 5).20 As in their studies, Fuseli’s drawing shows the
base sustaining the colossal upward pointing right hand on the pedestal
supporting the left foot; only in the early 19th century was the hand moved to
its present location along the wall of the courtyard. Fuseli, however, modifies
the disposition of the fragments in order to create a perfect triangle, whose
apex coincides with the index finger of the hand, pointing authoritatively
upward. The fact that the drawing was made when Fuseli had already left Rome
may account for a few inconsistencies, such as swapping the right foot – flat
on the ground – and the left foot – with the heel slightly raised and set on a
support.21 Moreover, the first line of the inscription roughly transcribed Fig.
4. Stefano della Bella, Courtyard of the Palazzo dei Conservatori, after 1659,
pen and grey ink and grey wash, 152 × 194 mm, Istituto Nazionale per la
Grafica, Rome, inv. FC 126001 182 183 sense of loss
before the dismembered statue as well as a melancholic frustration at the
impossibility of achieving a whole, satisfactory knowledge of the ancient
world. Finally this evocative image is clearly a grim meditation on human
Vanitas, on the cruelty of time and its inevitability, capable of destroying
even the most impressive human creations.26 In his vision of antiquity Fuseli
was following in the footsteps of Giovanni Battista Piranesi (1720–78), the
great engraver of ancient Rome, who populated his images with similar figures
dwarfed and seemingly lost among the colossal remains of Rome’s decaying
statues and buildings. Piranesi’s ancient ruins, the gigantic stones of which
fill his modern onlookers with wonder, are evoked by Fuseli in the massive
blocks of the background wall, which are not part of the courtyard of the
Palazzo dei Conservatori. Piranesi died in 1778, the year that Fuseli left Rome
for Zurich where he created this harrowing memory of the city he had just left
behind him. Could the present drawing be a posthumous homage to the great
Italian artist, with whom Fuseli shared the same inventive, original and
imaginative vision of the Antique? aa & ed 1 Schiff 1973, p. 479. 2 Ibid.,
p. 479. 3 See Pressly 1979; Valverde 2008; Busch 2013. 4 For Fuseli’s biography
see Tomory 1972, pp. 9–46; Schiff 1973, vol. 1; Zurich 2005, pp. 13–31. 5 See
Pucci 2000b and Busch 2009. During his London years between 1764 and 1770,
Fuseli translated into English Winckelmann’s Beschreibung des Torso del
Belvedere Zu Rom (1764, translated as Description of the Torso Belvedere in
Rome in 1765) and the Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in
der Malerei Und Bildhauerkunst (1755, translated as Reflections on the Painting
and the Sculpture of the Greeks in 1765). 6 See Wornum 1848, p. 345. On
Fuseli’s Lectures see in particular Bungarten 2005. 7 Knowles 1831, vol. 3, p.
90, aphorism no. 88. 8 For these statues see respectively p. 26, fig. 18; p.
41, fig. 54; p. 26, fig. 19; p. 30, fig. 34. 9 For a checklist of Fuseli’s
drawings of ancient sculptures see Schiff 1973, vol. 1, pp. 475–79, nos 634–65.
10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 Schiff 1973, vol. 1, p. 450,
no. 445 (dated 1771); the ancient scene is taken from D’Hancarville 1766–67,
vol. 2, pl. 32. Schiff 1973, pp. 456–57, nos 485 and 487 (c. 1776). See in
particular Winckelmann 2002, pp. 674, 676 (original pagination pp. 347–49). See
also Appendix, no. 15. Schiff 1973, vol. 1, p. 547, nos 1072 and 1072a
(1801–05). Schiff 1973, vol. 1, p. 496, no. 757. See Powell 1973, pp. 67–75.
See in particular Waldkirch 2005, pp. 63–78. For a drawing showing a figure in
a similar attire see Schiff 1973, vol. 1, p. 476, no. 561 (1777–79); and for
one with similar blocks in the background ibid., vol. 1, p. 447, no. 425. For
the right hand and the left foot see Stuart Jones 1926, p. 11, no. 13, pl. 5 (hand),
pp. 13–14, no. 21, pl. 5 (foot). For a discussion on the original colos- sal
statue see Fittschen and Zanker 1985, pp. 147–52, pls 151–52; Deckers 2005;
Parisi Presicce 2007 (in particular for the history of the display); Bardill
2012, pp. 203–17. The provenance of the colossus from the Basilica is testified
to by a caption on a drawing by Francesco di Giorgio Martini (1439–1501)
(Morgan Library & Museum, New York, Codex Mellon, fol. 54r), see Buddensieg
1962; http://census.bbaw.de/easydb/censusID= 233951. See Paris 2000–01, p. 371
no. 176 (J.-P. Cuzin); Rome 2004, p. 346, no. 46 (V. Di Piazza); another
similar drawing is in the Louvre, see Viatte 1974, p. 63 no. 46, p. 65, fig.
46. See Berckenhagen 1970, p. 332; Paris 2000–01, p. 374, no. 180 (J.-P.
Cuzin). These details are clearly rendered on the drawings by Della Bella and
Robert. Bartels 2000, p. 23 no. 1.7: ‘S(enatus) P(opulus) Q(ue) R(omanus)/
APOLLINIS COLOSSUM A M(arco) LUCULLO/ COLLOCATUM IN CAPITOLIO/DEIN TEMPORE AC
VI SUBLATUM EX OCULIS/ TU TIBI UT ANIMO REPRAESENTES PEDEM VIDE/ET ROMANAE REI
MAGNITUDINEM METIRE’. (‘The Senate and the People of Rome; that you may bring
before your mind’s eye the colossal statue of Apollo set by Marcus Lucullus on
the Capitol Hill, later removed from sight by the violence of time; look at
this foot and be aware of the greatness of Rome’: translation Eloisa Dodero).
Lindsay 1986, p. 483. Schiff 1973, vol. 1, pp. 115, 478–79, no. 665, vol. 2, p.
145, fig. 665. The pose finds parallels in other works by Fuseli chiefly
illustrating mourn- ful scenes, such as the painting showing Milton Dreaming of
His Dead Wife Catherine (1799–1800): Schiff 1973, vol. 1, pp. 523–24, no. 920;
Zurich 2005, p. 223, no. 184. Remarkable is the closeness of Fuseli’s figure
with the famous Democritus by Salvator Rosa (Statens Museum, Copehangen; see
Scott 1995, p. 97, fig. 101; the composition was known also through a number of
etchings, see for instance Naples 2008, p. 281, no. 8). The philosopher in
Rosa’s composition is shown deep in thought and surrounded by several symbols
of mortality including antiquities; the caption on the etchings describes the
scene as ‘Democritus omnium derisor/in omnium fine defigitur’ (‘Democritus, who
used to laugh about everything, here meditates on the end of every- thing’).
23. Philippe Joseph Tassaert (Antwerp 1732–1803 London) A Drawing Academy 1764
Pen and black ink, grey and black wash drawn with the brush over black chalk,
331 × 309 mm provenance: Private collection, Vienna; Gallery Kekko, Lucerne, 2004,
from whom acquired. literature:None. exhibitions: Brussels 2004, pp. 75–76,
repr.; London 2007–08, no. 59, not repr. Katrin Bellinger collection, inv. no.
2004-004 Although Tassaert was born in Flanders, he moved at a young age to
London where he trained with the expatriate Flemish drapery painter, Joseph van
Aken (c. 1699–1749), and where he established his career; aside from occasional
trips to the continent, Tassaert remained in London until his death.1 Van Aken
had a large practice executing draperies for most of the major British portrait
painters active during the 1730s and 1740s, and after his death, Tassaert seems
to have followed his example, assisting especially the portrait painter, Thomas
Hudson (1701–79). In 1769, Tassaert joined the Society of Artists of Great
Britain and served as its presi- dent from 1775–77; he exhibited with the
Society until 1785.2 Also active as a dealer and picture restorer, Tassaert
worked as an agent for the auctioneer, James Christie (1730–1803), valuing
paintings in French and English collections, includ- ing that of Sir Robert
Walpole at Houghton Hall, for sale to Catherine the Great in 1779.3 He later
moved for a period to Italy, residing in Rome between 1785 and 1790.4 As a
mezzotinter, Tassaert reproduced many composi- tions after earlier painters,
especially those by Peter Paul Rubens (1577–1640). The present drawing – a
relatively rare survival compared with his production of prints – shows young
students, dressed in the costumes of Rubens’ era, sketching a reduced model of
the Borghese Gladiator (fig. 1), illuminated by candlelight from above.5 Two
instructors, including the imposing figure of Rubens him-self in the doorway on
the right, inspect drawings made by two pupils who await their verdict. Casts
of busts and statuettes are placed on the shelf above the lamp, as seen in
artists’ work- shops from the Renaissance onwards (see cats 2, 10, 14).6 The
present drawing is closely related to another, rather larger and more loosely
executed, representation of an academy by Tassaert now in the British Museum
(fig. 2), that is observed from a closer viewpoint and is horizontal rather
than vertical in format.7 Rendered in warm brown instead of grey ink, the
British Museum drawing focuses on the group clustered around the sculpture on
the left. The master, in the doorway in our drawing, now leans against a chair
gesturing towards the sculpture and the copy of it made by one of the pupils.
But that student, seen in left profile studying the Gladiator intently, remains
essentially unchanged in both sheets. The British Museum drawing is signed and
dated, ‘Tassaert. del Bruxelles. 1764’, and the Bellinger drawing was no doubt
made at the same time. Both were probably made in preparation for a painting,
now lost, but described in a 1774 review of the Society of Artists’ exhibition
at the Strand in London: ‘Mr. TASSAERT, Director, F.S.A. [ . . .] 285. An
academy with youth’s [sic] at study. -Yellow shaded with black, has a starved
effect’, a description which suggests that it may have been monochrome. 8 A
keen admirer and copyist of Rubens’ work, Tassaert clearly intended to evoke
the atmosphere of the master’s studio. A drawing by Tassaert, ‘Rubens
instructing his pupils’ Fig. 1. Agasias of Ephesus, Borghese Gladiator, c. 100
bc, marble, 199 cm (h), Louvre, Paris, inv. Ma 527 184 185
Fig. 2. Philippe Joseph Tassaert, A Drawing Academy, 1764, pen and brown ink
and brown wash over black chalk, 330 × 406 mm, The British Museum, Department
of Prints and Drawings, London, 2003,1129.1 which was sold in London in 1785
was probably one of the two drawings under consideration.9 The master in both
is physiognomically identical, and wears the wide-brimmed hat and voluminous
cloak seen in Rubens’ mature self-portraits, such as that of 1623 in the Royal
collection, Windsor Castle, an image widely disseminated through engravings.10
Another self-portrait,showingtheartistatsixty,intheKunsthistorisches Museum,
Vienna (1633–35), may also have been known to Tassaert through prints.11 No
doubt Tassaert’s drawings and the lost painting for which they presumably
prepared, were intended to commemorate the fact that Rubens’ studio in Antwerp,
founded on his return from Italy in 1608, was one of the first in Northern
Europe to be organised on the ‘academic’ Italian model. Ruben’s studio – much
more than a workshop – encouraged the intellectual as well as practical
ambitions of young artists, who vied with each other to become his pupils. The
purpose of Tassaert’s lost painting is not certain, but one possibility is that
he intended to present it to the recently revamped Brussels art school. It may
be significant that Tassaert, who hailed from Antwerp (where he became a member
of the Guild of St Luke in 1756), signed the British Museum drawing ‘Tassaert.
del Bruxelles’, and dated it, 1764, the year the Brussels school began to
flourish under new stewardship.12 Reportedly discovered in Nettuno in 1611, the
Borghese Gladiator, signed by Agasias of Ephesus, is thought to copy a statue
of the school of Lysippus.13 It was acquired by Cardinal Scipione Borghese
(1576–1633), and between 1650 and 1807, was displayed in a room bearing its
name on the ground floor of the Casino Borghese before it was sold to
Napoleon.14 The statue was keenly admired by artists from the mid-17th century
onwards as it embodied the male nude in an active, heroic and resolute pose.
François Perrier (1590–1650) ranked it among the finest statues in Rome and
published four views of it in his influential collection of etching after antique
sculpture (Segmenta nobilium signorum et statuarum . . . , Paris, 1638, pls.
26–29), more than he devoted to any other figure. Casts of it were made for
Philip IV of Spain and for the Académie Royale in Paris (see cat. 16) and the
Académie de France in Rome.15 It became a standard presence in artists’ manuals
from the 17th century onwards, as the perfection of its anatomy and proportions
made it an ideal model for young pupils to copy. Its fame endured well into the
18th century as many of the objects in this catalogue make clear (cats 16, 24,
26).16 Rubens, who was thirty-four when the statue was found, revered it
greatly. Although his two Roman sojourns (1601– 02 and 1600–08) pre-date its
discovery in 1611, he certainly knew the statue through copies and probably
owned a cast of it.17 That plaster casts came to be widely used in Northern
workshops of the period is shown in the 1635 and 1656 studio inventories of
Rubens’ contemporary, Hendrik van Balen (1575–1632) and of Rembrandt (1606–69)
and by the many paintings that depict artists making copies of them (see p. 40,
figs 49–53 and cat. 14).18 Rubens’ deep interest in antique sculpture, which he
collected enthusiastically, is well-documented.19 In one of his theoretical
notebooks, De Imitatione Statuarum (‘On the Imitation of Ancient Statues’),
recording his observations from 1600 to 1610 on the proportions of the human
form, symmetry, perspective, anatomy and architecture, he defined canonical
male body types of the first rank: the strongest and most robust, the Farnese
Hercules (see cats 7, 14, 16, 21); the less muscular and fleshy, Commodus in
the Guise of Hercules and the River Nile (see cat. 5) and the third, lean and
slender, with prominent bones and a longer face, the Borghese Gladiator, which
he analysed in a diagram.20 Finally, there was the slim and handsome type, less
strong, among which statues of Apollo and Mercury were classed.21 Rubens
referred to the Gladiator again in another of his notebooks and he adapted it
in some of his paintings, such as the Mercury and Argus of 1636–37 (Prado,
Madrid) where Mercury in a pose strongly reminiscent of the Gladiator, is about
to behead the multi-eyed giant.22 Although Tassaert would not have known
Rubens’ manuscript, parts of it were published in 1708 by Roger de Piles in his
Cours de peinture par principles, translated into English in 1743 as The
Principles of Painting (see Appendix, no. 8).23 Within twenty years of its
discovery, casts of the Borghese Gladiator were commissioned by Charles I and
other English patrons and it soon became one of the most celebrated 186
187 antique sculptures in the British Isles.24 By the 18th century,
copies of it had becoming a mainstay of country house collections.25 Joseph
Wright of Derby (1734–1797) depicted a reduced model of the Gladiator studied
by candlelight (private collection; see cat. 24, fig. 2), exhibiting it at the
Society of Artists in 1765, just a year after Tassaert’s drawings and William
Pether made a mezzotint after Wright’s painting in 1769.26 When Tassaert showed
his painting of a similar subject, probably based on his earlier studies, at
the same venue in 1774 he may have been responding to the challenge of his
English colleagues, particularly the fellow mezzotinter, Pether.27 Indeed, it
is tempting to suppose that Tassaert, by exhibiting the finished painting, was
asserting the suprem- acy of Flemish academies over the English ones by
establish- ing that the sculpture was well-known and used as a teaching tool
already in Rubens’ time. As will be seen later (see cats 24–26), study after
plaster casts increasingly became an indispensible part of artistic training in
the English Academies as the 18th century progressed. It is especially
significant in the present context that the catalogue of the posthumous sale of
the effects of Tassaert’s master, Joseph Van Aken, in 1751 in London, lists no
fewer than sixty models in terracotta and plaster after the Antique, among
them, the Laocoön, the Farnese Hercules, heads of Antinous and, significantly,
two Gladiators.28 It is well known that antique models were widely diffused in
England in the first half of the 18th century, well before the foundation of
the Royal Academy in 1768 (see cat. 25), but Van Aken’s collection and
Tassaert’s preoccupations suggest that interest in the Antique had a
particularly Flemish dimension. Of course, such models served a vital role for
artists in helping to achieve an idealised representation of the anatomy, poses
and expressions of the human body, but also, as in the case of Van Aken, they
could act as lay-figures for the arrangement of drapery.29 avl 1 For brief
accounts of Tassaert’s life and work, see Edwards 1808, who, on pp. 282–83,
asserts that Tassaert was ‘the scholar’ of van Aken; Redgrave 1874, vol. 2, p.
402; Wurzbach 1906–11, vol. 2, pp. 689–90; Thieme-Becker 1907–50, vol, 32, p.
456; Bénézit 2006, vol. 13, pp. 708–09; Wallens 2010, p. 328. Edwards (1808, p.
282) reports his association with van Aken though the latter had already moved
to London in 1720, before Tassaert was born. They probably met there though he
was only about seventeen when van Aken died. According to Bénézit (2006, p.
708), Tassaert was the brother of the sculptor, Jean Pierre Antoine Tassaert
(1727–1788). 2 For his involvement with the Society (and disagreements with),
see Hargraves 2005, pp. 141–43, 152–53, 158–72. His paintings were shown also
at the Royal Academy. 3 He is listed frequently as buyer/seller in Christie’s
sale catalogues of c. 1779– 82 (see Kerslake 1977, vol. 1, p. 337). For
Tassaert at Houghton, see Twist 2008, p. 106–07. 4 Wallens. For his engravings,
see Le Blanc 1854–88, vol. 4, p. 9; Wurzbach 1906–11, vol. 2, pp. 689–90; Smith
1878–83, vol. 3, pp. 1354–56. A further drawing by Tassaert of an artist’s
studio, but with figures in contemporary dress, is in Tate Britain, from the Oppé
collection, black chalk on blue paper, 490 × 317 mm, inv. no. T09847. They may
also be seen lightly sketched at upper right in Tassaert’s drawing of an
artist’s studio in the Tate (see note 5 above). Lock 2010, p. 255, fig. 12.4;
Phillips 2013, p. 127, fig. 5. ‘Conclusion of the Account of the Pictures now
exhibiting at the Artist’s [sic] great Room near Exeter Exchange, Strand’,
published in The Middlesex Journal, 30 April – 3 May 1774, p. 2 (as noted by
Elizabeth Barker, under inv. no. 2003,1129.1, British Museum collection
database). The same subject painted by Tassaert, probably more than once, is
listed in several Christie’s sales in London between 1805–12: 1805 (1–2 March,
lot 69, seller: John Mayhew; unsold; 14–15 June, lot 40, seller: John Mayhew;
unsold); 1806 (7–8 March, lot 33, seller: John Mayhew; unsold); 1808 (11–12
March, lot 18, seller: Adam Callander; unsold; 14 May, lot 33, seller: Rev.
Philip Duval; bought by Daubuz); 1809 (17–18 November, lot 65, seller: Adam
Callander; bought by J. F. Tuffen) and 1812 (22 May, lot 44, seller: John
Mayhew; unsold; 18–19 December, lot 80, seller: John Mayhew; bought by J. F.
Tuffen). Source: Getty Provenance Index. Jean-Baptiste-Guillaume de Gevigney,
his sale, Greenwood, London, 14–15 April 1785, lot 44. Presumably the same
drawing was sold two years later: ‘An academy by Tassaert, washed in bisque,
fine’, Greenwood, London, 14–15 March 1787, lot 29 to John Thomas Smith for
£1.0. Jaffé 1989, p. 281, no. 764. Ibid., p. 371, no. 1379. Between 1764 and
1768, the school was revitalized under Count Charles Cobenzl (Phillips 2013,
pp. 127–28). Paris 2000–01, no. 1, pp. 150–51 (L. Laugier); Pasquier 2000-01b.
Haskell and Penny 1981, p. 221; Laugier 2000–01. See also Aymonino’s essay in
this catalogue, p. 41. Haskell and Penny 1981, p. 221. Ibid., pp. 221–24, no.
43, fig. 115. For Rubens’ study of sculpture in Roman collections, see Van der
Meulen 1994-95, vol. 1, pp. 41–68. For van Balen’s inventory, see Duverger
1984–2009, vol. 4, pp. 200–11. Among the casts listed are the Laocoön,
Hercules, Apollo, Athena and Mercury (ibid., p. 208). Rembrandt’s 1656
bankruptcy inventory (Strauss and Van der Meulen 1979, pp. 349–88) mentions
several plaster casts from life, including hands, heads and arms (ibid., pp.
365, 383), and after the antique (‘A plaster cast of a Greek antique’ (Een
pleijster gietsel van een Griecks anticq), p. 383, no. 323). Also mentioned are
antique statues of unspecified medium, including a Faustina, Galba, Laocoön,
Vitellius (ibid., pp. 365, nos 166, 168; 385, nos 329, 331) and several others.
For Rembrandt’s use of statues, casts and models, see Gyllenhaal 2008. For his
collection, see Muller 1989, Appendix C, pp. 82–87 and Muller 2004, especially,
pp. 18–23. The Johnson manuscript (manuscript transcript of the Rubens
Pocketbook), mid-18th century, Courtauld Gallery, London, MS.1978.PG.1, fols
4v-5r, cited in Muller 2004, p. 19. See also Muller 1982, pp. 235–36 and Van
der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 72–73. Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 73.
Ms de Ganay (formerly Paris, Marquis de Ganay), fols 22r–23r, transcribed and
translated in Van der Meulen 1994–95, vol. 1, pp. 254–58. In addition to the
Madrid painting (Georgievska-Shine and Silver 2014, p. 136, fig. 5.3), the pose
of the sculpture was utilised in other drawn and painted composi- tions by the
artist (Van der Meulen 1994–95, vol. 1, p. 239, note 9). De Piles 1708, pp.
139–48; De Piles 1743, pp. 86–92. . Haskell and Penny 1981, p. 221. However,
due to the demand for casts the Borghese tried to stop moulds from being made
(Haskell and Penny 1981, p. 221). Liverpool 2007, p. 132, no. 10; Clayton 1990,
p. 236, no. 154, P3. Tassaert and Pether, both members of the Society of
Artists, had a disagree- ment over the latter’s proposed exhibition fee for
fellows (Hargraves 2005, pp. 141–42). Landford’s, London, 11–25 February 1751,
among lots 1–77. It has been suggested that Rembrandt worked from draped
plaster casts, especially during his Leiden years (Gyllenhaal 2008, p. 51). 24.
William Pether (Carlisle 1731–1821 Bristol) after Joseph Wright of Derby (Derby
1734–1797 Derby) An Academy 1772 Mezzotint, 579 × 458 mm Inscribed l.l.:
‘Iosh., Wright, Pinxt.’; and l.r.: ‘W. Pether, Fecit.’; on the boy’s portfolio
in the centre: ‘An / Academy / Published by W Pether, / Feby, 25th / 1772’; td
and l.c., at the foot of the seated artist: ‘Done from a Picture in / the
Collection of the R . Hon. / L . Melburne.’ provenance: The Hon. Christopher
Lennox-Boyd (1941–2012), from whom acquired by the British Museum in 2010.
literature: Chaloner Smith 1883, vol. 2, p. 46, not repr.; Clayton 1990, p.
240, no. 159, P9, this impression listed under II, not repr.; Liverpool 2007,
pp. 159–62, no. 33. exhibitions: Not previously exhibited. The British Museum,
Department of Prints and Drawings, London, 2010,7081.2228 In 1769 Joseph Wright
of Derby exhibited An Academy by Lamplight (private collection) at the Society
of Artists in London.1 The painting depicted six young boys drawing from casts
of antique sculpture in a vaulted space lit only by a concealed lamp. Wright
repeated the composition the following year for his patron, Peniston Lamb, 1st
Viscount Melbourne (Yale Center for British Art, fig. 1) and it was from this
second version that William Pether took the present mezzotint, renamed simply
An Academy, published in its first state in February 1772.2 The subject-matter
is related to Wright’s earlier painting, Three Persons Viewing the Gladiator by
Candlelight (private collection, fig. 2),3 but, by showing a group of students
at work, addresses more directly the theme of education by studying casts of
antique sculpture by candlelight. Artistic education was of paramount
importance to Wright. In December of 1769, the year he settled in Liverpool,
twenty-two men in the burgeoning city formed a Society of Artists that gathered
at a member’s house to make drawings from a substantial collection of prints
and, more signifi- cantly, thirty-five plaster casts.4 These casts had been
pur- chased from John Flaxman senior, a plaster-cast salesman in Covent Garden,
for £8.8.3, and were intended specifically for furnishing an academy.5 While
Wright is not listed as a member of the Society of Artists, his friend, the
engraver Peter Perez Burdett (c. 1735–93), was its first President and Wright’s
landlord in Liverpool, Richard Tate (1736–87), was an amateur painter who
showed works at the Society’s first public exhibition in 1774, so he was
certainly aware of the group’s aspirations. Wright seems also to have had at
least one student in Liverpool, Richard Tate’s brother, William, who was
described by Wright in a letter in 1773 as ‘a pupil of mine’.6 Artistic
education would therefore have been a pressing concern when he was conceiving
An Academy by Lamplight. Wright no doubt encouraged William Tate to take the
same route that he had followed as a pupil of Thomas Hudson (1701–79): first
copying drawings by accomplished masters (which for Tate would have included
works by Wright him- self) as well as prints, before moving to the study of
plaster casts and, ultimately, the life model.7 In 1774 Tate exhibited ‘Venus
with a Shell, a drawing in black chalk’ at the first Fig. 1. Joseph Wright of
Derby, An Academy by Lamplight, 1770, oil on canvas, 127 × 101 cm, Yale Center
for British Art, Paul Mellon Collection, New Haven, inv. B1973.1.66 Fig. 2.
Joseph Wright of Derby, Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight,
1765, oil on canvas, 101.6 × 121.9 cm, private collection 188
189 Liverpool Society of Artists exhibition, and a sheet in the Derby
Museum and Art Gallery of this subject has been recently been identified as
Tate’s drawing.8 This title of that drawing is highly suggestive as it is pre-
cisely the so-called Nymph with a Shell that the students are shown drawing in
Wright’s painting and Pether’s mezzotint. Housed in the Borghese collection
during the 18th century, the sculpture is now in the Louvre (fig. 3).9 While a
cast of this statue is not listed among those purchased by the Liverpool
Society of Artists, one was probably owned by Wright himself. The other statue
shown in the background on the right is the familiar Borghese Gladiator (see p.
41, fig. 54 and cat. 23) – the sculpture being studied in Wright’s earlier
Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight (fig. 2). Wright’s
composition depicts young students in different attitudes, some at work drawing
the Nymph, which is illumi- nated by a hanging lamp, from varying angles, while
others merely admire her. Wright has created an ideal representation of an
academy of young men, precisely the environment which his contemporaries were
attempting to create in Liverpool. The students’ visible drawings are in black
chalk similar to Wright’s own and those of his ‘pupil’, Tate. The varying ages of
the students, from young boys to young men, also suggests an ideal academic
establishment. The date of the work has further resonance: 1769 was the year
after the foundation of the Royal Academy in London, where a precise programme
of artistic education, which included drawing from antique sculpture, was being
formulated (see cat. 25). The composition continues a theme Wright addressed in
Three Persons Viewing the Gladiator by Candlelight (fig. 2), the first painting
he exhibited in London, showing it at the Society of Artists in 1765. Such was
its popularity that Pether produced a mezzotint of it in 1769 and we can
suppose that our Fig. 3. Nymph with the Shell, Roman copy of the 1st century ad
after a Hellenistic type of the 2nd century bc, marble, 60 cm (h), Louvre,
Paris, inv. MR 309-N 247 (Ma 18) mezzotint, published three years later, was
conceived as a pendant.10 Wright’s Three Persons Viewing the Gladiator by
Candlelight depicts three men – traditionally identified as Wright himself,
Peter Perez Burdett (c. 1735–93) and John Wilton – comparing a reduced model of
the Borghese Gladiator with a drawn copy of it in black chalk. We know Wright
made drawings of the sculpture; and a study in pen and brown ink on brown paper
by him is preserved at Derby.11 Dating from before his journey to Italy, it
seems likely to have been made from a reduced model. Whilst there is no
evidence that Wright owned a model of the Gladiator, it seems likely that he
did: reduced models of it appear in numerous artists’ sales during the 18th
century and they were also readily available in Derby at the time.12 Viewing
and drawing sculpture by candle-light was a feature of many European academies
as for example those of Bandinelli and Tassaert (see cats 1 and 23).13 This was
intended to emphasise the contrast of the sculpture’s anatomy and facilitate
its copy. There were many perceived artistic benefits in owning models. William
Hogarth noted in his Apology for Painters: ‘the little casts of the gladiator
the Laocoon or the venus etc. if true copies – are still better than the large
as the parts are exactly the same [–] the eye [can] comprehend them with most
ease and they are more handy to place and turn about’.14 It therefore seems
likely that Wright’s picture depicts an evening viewing of his own cast.
Burdett was an amateur draughtsman and printmaker, and the comparison between
Wright’s own drawing and the model is the probable topic of their conversation.
This was the theme that Wright developed more fully in An Academy. Liverpool
2007, p. 159, no. 31. For Yale version of the painting ibid., p. 159, no. 32.
Nicolson 1968, vol. 1, p. 234, no. 188; London 1990, pp. 61–63, no. 22;
Liverpool 2007, p. 132, no. 10. For a discussion of the foundation of the
Society of Artists and a list of the casts it acquired see Mayer 1876, pp.
67–69. Ibid., p. 5. Joseph Wright to William Thompson, Derby 25 March, 1773, in
Barker 2009, p. 72. Wright’s work in Hudson’s studio is remarkably well
documented in an archive of his drawings as a student preserved in Derby Museum
and Art Gallery: see Derby 1997, pp. 49–65. Liverpool 2007, p. 162, no. 34. For
the relationship between Tate, Wright and the Liverpool Society of Artists see
Barker 2003, pp. 265–74. For the Nymph with the Shell see Haskell and Penny
1981, pp. 281–82, no. 67; Rome 2000b, vol. 2, p. 335, no. 10 (F. Rausa);
Gaborit and Martinez 2000–01; Paris 2000–01, pp. 327–28, no. 147 (J.-L.
Martinez); Rome 2011–12, pp. 402–05 (I. Petrucci, M.-L. Fabréga-Dubert, J.-L.
Martinez). Clayton 1990, p. 236, no. 154, P3. Derby 1997, p. 88, no. 152. An
Italian plaster-modeller based in Oxford, ‘Mr Campione’ is recorded selling: ‘a
large and curious collection of statues, modelled from the Antiques of Italy
... in fine plaister paris work’ in the Red Lion in Derby. See Barker 2003, p.
25. On this see Roman 1984, p. 83. See also cat. 1, p. 80, note 8. Kitson
1966–68, p. 86. 190 191 25. Edward Francis Burney (Worcester
1760–1848 London) The Antique Academy at Old Somerset House 1779 Pen and grey
ink with watercolour wash, 335 × 485 mm Signed recto, on the portfolio depicted
in the drawing at l.c., in pen and black ink: ‘E.F.B. 1779’; and inscribed
verso, in pen and black ink, with a key identifying the casts and objects shown
on recto, numbered 1–43: ‘View of the Plaister Room in the Royal Academy old
Somerset House / 1. Cincinnatus / 2. Apollo Belvedere / 3. Meleager / 4. Biting
Boy / 5. Foot of the Laocoon / 6. Arm of M. Angelo’s Moses / 7. Paris / 8. Faun
/ 9 Anatomy of a Horse / 10. Head of Antinous / 11. A young Orator by M. Angelo
/ 12. Antoninus Pius / 13. Bacchus / 14. Pompey / 15. Alexander / 16. Model of
a Cow / 17. Agrippa / 18. Nero / 19. Augustus / 20. Cicero / 21 Other Roman
Emperors / 22. Door of Mr Mosers little Room / 23. Heads. Casts from Trajans
pillar / 24. Table for Drawing Hands Heads etc. on / 25. Screens to prevent
Double Lights / 26. Modelers stands / 27. Large chalk Drawing of the Virgin
etc. by Leon: da Vinci / 28. Homer / 29. Laocoon / 30. Esculapius / 31.
Proserpine / 32. Carracalla / 33. Mithridates / 34. Bacchus / 35. Antinous /
36. River Gods from M. Angelo / 37. Boys by Fiamingo / 38. Dying Gladiator /
39. Lamps for lighting the figures in Winter / 40. Antique Bass Relieves / 41.
Laughing Boys / 42. Head of a Wolf / 43. Legs cast from nature etc. etc. etc.’
provenance: From an album of drawings in the possession of the Burney family;
P. & D. Colnaghi, London, from whom acquired 5 July 1960. literature: Byam
Shaw 1962, pp. 212–15, figs 54–55; Hutchison 1986, p. 192, fig. 27; Wilton 1987,
p. 26, fig. 25; Rossi Pinelli 1988, p. 255, fig. 4; Nottingham and London 1991,
p. 63, under no. 39, fig. 3; Fenton 2006, pp. 98–99, 100–01, repr.;
Kenworthy-Browne 2009, pp. 45–46, pl. 16; Wickham 2010, pp. 300–01, fig. 14;
Brook 2010–11, p. 158, fig. 5. exhibitions: London 1963, p. 34, no. 87, not
repr.; London 1968b, pp. 211–12, no. 651, not repr.; London 1971, p. 18, no.
71, not repr.; London 1972, p. 316, no. 521, not repr. (R. Liscombe); York
1973, p. 40, no. 98, not repr.; London 2001, p. 46, no. 85. Royal Academy
of Arts, London, 03/7485 With its companion The Antique Academy at New Somerset
House (fig. 1), this drawing constitutes one of the best and most evocative
visual records of the Antique or ‘Plaister’ Academy at the Royal Academy of
Arts in London.1 The Academy was founded in 1768 and initially occupied rooms
in Pall Mall before moving to Somerset House in 1771. The rather chaotic early
records of the Academy means that Burney’s detailed drawings are fundamental in
establishing precisely which antiquities were available to the first generation
of students at the Academy. Although copying after casts had been a practice
fol- lowed in previous British academies and schools of art – such as the Duke
of Richmond’s Academy – it was only with the foundation of the Royal Academy
that it became part of an extended curriculum modelled on the Roman and
Parisian Academies.2 The first Academicians draughted surprisingly few rules
governing the education of students, other than the requirement that a student
have a ‘Drawing or Model from some Plaister Cast’ approved for admission to the
Antique Academy, and again to progress into the Life Academy.3 For at least the
first fifty years of its existence there was no stipulation about the length of
time students should spend in either School. The timetable itself was fairly
minimal, follow- ing the traditional model in which the purpose of an Academy
was to provide instruction in draughtsmanship and theory whilst the student
learned his chosen art of painting, sculpture or architecture with a master.
The Antique or Plaister Academy was open from 9 to 3 pm with a two-hour session
in the evening, while the Life Academy consisted of only a two- hour class each
night. Until 1860, both were attended by male students only. The collection of
casts was under the control of the Keeper, while a Visitor attended monthly to
examine and correct the students’ drawings and to ‘endeavour to form their
taste’.4 Following the theoretical model of continental academies, the main
didactic purpose of drawing from plaster casts was to teach young students to
become acquainted with and to internalise ideal beauty before being exposed to
Nature in the Life Academy. As Benjamin West (1738–1820), president of the
Royal Academy for almost thirty years from 1792, put it, pro- ficiency was ‘not
to be gained by rushing impatiently to the school of the living model,
correctness of form and taste was first to be sought by an attentive study of
the Grecian figures’.5 Edward Francis Burney studied at the Royal Academy
Schools from 1777 and left in the 1780s to become a suc- Fig. 1. Edward Francis
Burney, The Antique Academy at New Somerset House, c. 1780, pen and grey ink
with watercolour wash, 335 × 485 mm, Royal Academy of Arts, London, cessful
book illustrator.6 As a young pupil of the Antique Academy, he recorded in the
present drawing of 1779 and its companion the rebuilding of Somerset House
begun in 1776 by Sir William Chambers (1723–96). This drawing shows the Academy
before Chambers’ intervention in a room that was probably designed by John Webb
(1611–72) in 1661–64, on the south side of the building facing the Thames.
These rooms had windows exposed to direct sunlight and therefore may have
required the ‘Screens to prevent Double Lights’, visible in the upper left
corner of the drawing and annotated on the verso. The drawing depicts four
students at work, the one on the right in the middle distance being guided by
George Michael Moser (1706–83), the first Keeper of the Royal Academy Schools,
including the Antique Academy.7 In the room everything was moveable. Boxes
could be used as seats or as supports for drawing boards, as one is by the
student in the foreground on the left, while rails were used for holding the
individual students’ candles (see cat. 26). Even the pedestal of the casts
could be moved on castors, so that the Keeper could change their position
weekly. The collection of plaster casts was one of the largest assembled in
Britain in the 18th century.8 Many came from the second St Martin’s Lane
Academy, brought by Moser who had been one of its directors.9 The collection
was then expanded considerably thanks to donations from aristocratic collectors
and acquisitions on the London market.10 Among the most easily identifiable
casts are those ubiqui- tous in European workshops and academies from the 17th
century onwards, all listed in the long inscription on the verso of the
drawing: the Apollo Belvedere (p. 26, fig. 18) at left centre, behind, in the
background, the Faun with Kid, and on the far right, the Dying Gladiator (p.
41, fig. 55), which a student is copying, as innumerable other students had
done before him (see cat. 20).11 In addition, a series of peculiarly ‘English’
casts are on display, some donated, others copied from origi- nals recently
brought to England from Rome. Partly obscured in shadow on the left is a cast
of Cincinnatus – which still survives in the collection of the Royal Academy
(fig. 2) – close Fig. 6. Relief from an Honourary Monument to Marcus Aurelius:
Triumph, 176–180 ad, marble, 324 × 214 cm, Capitoline Museums, Rome, inv.
MC0808 Fig. 7. Relief with Warriors, Roman, 1st or 2nd century ad, marble, 93 ×
82 cm, San Nilo Abbey, Grottaferrata, inv. 1155 Academy’s collection (figs
8–9). Finally, between the shelves and the door on the right, it is possible to
discern Leonardo’s cartoon of The Virgin and Child with St Anne and St John the
Baptist, today one of the most celebrated works in the National Gallery in
London – the present drawing is the earliest to document its presence in the
collection of the Royal Academy.16 The cast collection was of paramount
importance to the Royal Academy during its first decades, but the ad hoc nature
of its accumulation and the inclusion of casts of ‘Grand Tour’ souvenirs – such
as Lord Shelburne’s Cincinnatus – left it open to criticism. In 1798 the
Academy’s Professor of Painting, James Barry (1741–1806), launched a stinging
public attack complaining that the Academy was ‘too ill supplied with materials
for observations’ lamenting ‘the miserable beggarly state of its library and
collection of antique vestiges’.17 As a direct result, the sculptors John
Flaxman (1755–1826) and John Bacon the Younger (1777–1859) were charged with
purchasing new casts from the sale of George Romney’s (1734–1802) collection.18
Flaxman spent much of the rest of his career attempting to improve the
Academy’s cast collection; after 1815, he finally convinced the Prince Regent
to sponsor the Fig. 8. Plaster Cast of Head of a Roman Soldier in Helmet, from
Trajan’s Column, 15.7 × 15.4 × 4.4 cm, Royal Academy of Arts, London, inv.
10/3267 Fig. 9. Plaster Cast of the Head of Trajan, from Trajan’s Column, 15.5
× 15.4 × 4.6 cm, Royal Academy of Arts, London, iaa&jy
FortheearlyhistoryoftheRoyalAcademysee Hutchison1986,pp.23–54. For drawing
after casts in Britain before the foundation of the Royal Academy see esp.
Postle 1997; Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. Hutchison 1986, pp. 29–31. For
the full admission process see London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council
minutes, vol. 1, p. 4, 27 Dec. 1768; Abstract 1797, pp. 18–19.
Hutchison1986,p.27.Forthe‘RulesandOrders,forthePlaisterAcademy’, see London,
Royal Academy of Arts, PC/1/1 Council minutes, vol. 1, p. 6, 27 Dec. 1768, and
p. 17, 17 March 1769; Abstract 1797, pp. 22–23. For the role of the visitors
see ibid., p. 8. Hoare1805,p.3. SeeRogers2013. The identification of the
teacher with Moser is confirmed by other like- nesses: see Edgcumbe 2009. The
only other collection that could compete in numbers of casts was the Duke of
Richmond’s Gallery: see Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. On the Royal Academy
collection of casts see Baretti [1781], esp. pp. 18–30. See Thomson 1771, pp.
42–43; Strange 1775, p. 74. We would like to thank Nick Savage for pointing out
these two sources to us.
OnplastershopsandtradersinBritaininthesecondhalfofthe18thcentury see Clifford
1992. Among private donors, Thomas Jenkins, the Rome based dealer, sent a cast
of the so-called Barberini Venus shortly after the Royal Academy’s foundation:
London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 38, 9 Aug.
1769. Jenkins in turn encouraged many of his clients in London to donate casts,
including John Frederick Sackville, Duke of Dorset who sent in 1771 ‘a Bust of
Antinous in his collection’ and ‘a cast of Pythagoras’: ibid., p. 111, 25 Oct.
1771, and p. 118, 18 Dec. 1771. Other early donors were Sir William Hamilton,
the Rome-based dealer Colin Morrison and the Anglo-Florentine painter Thomas
Patch. FortheFaunwithKidseeHaskellandPenny1981,pp.211–12,no.37. The Council
Minutes record on 11 June 1774: ‘Resolved that casts be made from three statues
in the possession of Lord Shelburne, viz the Meleager, the Gladiator putting on
his sandals, & the Paris, leave having been already obtained from his
lordship’, London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p.
179. The three sculptures had recently been sup- plied by Gavin Hamilton
(1723–98) from Rome and were largely recently excavated pieces: the Meleager
had been found at Tor Columbaro; the Paris and the so-called Cincinatus had
both come from an excavation at Hadrian’s Villa near Tivoli, called Pantanello.
See Bignamini and Hornsby 2010, vol. 1, pp. 321–22 for Shelburne; for the
excavation and purchase of the Cincinnatus and Paris see vol. 1, pp. 162–64,
nos 1 and 12; for the excavation and purchase of the Meleager see vol. 1, pp.
180–81, no. 7. London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1,
p. 38, 9 Aug. 1769 ‘Charles Townly Esq. having presented the Academy with a
cast of the Lacedemorian Boy ... ordered that letters of thanks should be
wrote.’ On the original relief see Boudon-Mauchel 2005, pp. 251–52, no. 43 and
on Duquesnoy’s fame as a ‘classical’ sculptor ibid., pp. 175–210. The cast of
the relief had been sent by Sir William Hamilton, then British ambassador to
the court of Naples, in 1770 together with a cast of ‘Apollo’: see Ingamells
and Edgcumbe 2000 p. 32, no. 25, 17 June 1770; see also London, Royal Academy
of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 72, 17 March 1770. For the Marcus
Aurelius relief see Haskell and Penny 1981, pp. 255–56, no. 56; Rome 1986–87.
For the relief with warriors see Musso 1989–90, pp. 9–22. The relief was
illustrated in Winckelmann 1767, pl. 136. The same cast appears in Zoffany’s
celebrated Portrait of the Academicians of the Royal Academy, 1771–72, in the
Royal Collections. See Webster 2011, pp. 252–61; New Haven and London 2011–12,
pp. 218–21, no. 44 (M. A. Stevens). For Leonardo’s cartoon see London 2011–12,
pp. 289–91, no. 86 (L. Syson). Barry 1798, p. 7. London, Royal Academy of Arts,
PC/1/3, Council minutes, vol. 3, pp. 99–100, 22 May 1801. They purchased 16
casts in total for £68.10.3. WindsorLiscombe1987. Fig. 2. Plaster Casts of the
So-Called Lansdowne ‘Cincinnatus’, 1774, 162 cm (h), Royal Academy of Arts,
London, inv. 03/1488 Fig. 3. Lansdowne Paris, Roman copy of the Hadrianic
Period (117–138 ad) from a Greek original of the 4th century bc, marble, 165 cm
(h), Louvre, Paris, inv. MNE 946 (n° usuel Ma 4708) Fig. 4. Lansdowne
Hermes/Meleager, Roman copy of the Hadrianic Period (117–138 ad) of a Greek
original of the 4th century bc, marble, 219 cm (h), Santa Barbara Museum of
Art, Gift of Wright S. Ludington, inv. 1984.34.1 to the Faun with Kid is a
Paris (fig. 3), and behind Moser the so-called Lansdowne Meleager (fig. 4). All
of these were cast in 1774 from the originals in the collection of William
Petty, 2nd Earl of Shelburne (1737–1805), recently returned from his Grand
Tour.12 Behind the Cincinnatus is partly discernible a cast of the Knucklebone
Players given by Charles Townley in 1769, the antique original of which could
be admired in his London town-house at 7 Park Street (cat. 28, fig. 1).13 As
was customary, the Academy’s collection included also casts of busts and
statuettes distributed on shelves and of ‘dismembered’ body parts – arms, legs
and feet – hung on the wall, so that students could learn how to draw
anatomical details before approaching the whole human figure. Pupils were also
required to draw from reliefs, to become acquainted with the composition of
historie, or narrative scenes, based on classical models. Above the
chimneypiece is a large cast of a relief with music-making angels by François
Duquesnoy (1597–1643) – the Boys by Fiamingo identified on the reverse of the
drawing – whose most classicising works had, by the end of the 17th century,
acquired the same status of antique statuary (fig. 5).14 Above was displayed a
reduced version of one of the Marcus Aurelius reliefs in the Capitoline Museum
(fig. 6), and a comparatively obscure relief with warriors, which had clearly
gained fame because of its inclusion in Winckelmann’s Monumenti Antichi
Inediti, published in 1767 (fig. 7).15 Further identifiable casts included a
series of heads from Trajan’s Column, which we can see hanging from the shelves
on the end wall, many of which remain in the Fig. 5. François Duquesnoy, Relief
with Music-Making Angels, 1640–42, marble, 80 × 200 cm. Filomarino Altar,
Church of Santi Apostoli, Naples commissioning of a series of new casts from
Antonio Canova (1757–1822) in Rome.19 Burney’s image illustrates both the Royal
Academy’s aspiration to offer an ‘academic’ education in line with great
Continental examples, but also its differ- ences from them, as a private organisation
sponsored by the monarch rather than a state-run academy. 194
195 26. Anonymous British School, 18th century A View of the Antique
Academy in the Royal Academy c. 1790s Pen and brown ink and grey wash, with
watercolour, over graphite, 294 × 223 mm Stamped recto, l.l., in brown ink:
‘J.R’; on separate piece of paper now attached to the reverse of the mount, in
pen and black ink: ‘Henry Fuseli R A / 1741–1825. / Bought at Sir J. Charles
Robinson’s sale 1902 / E.M.’ provenance: Charles Heathcote Robinson; Sir John
Charles Robinson (1824–1913) (not listed in his sales: Christie’s 12–14 May
1902; or Christie’s 17–18 April 1902); Sir Edward Marsh (1872–1953); his
bequest through The Art Fund (then called National Art Collection Fund),
1953. literature:None. exhibitions: London 1969, no.1 (unpaginated), not
repr. The British Museum, Department of Prints and Drawings, London,
1953,0509.3 This satirical drawing, probably made by a distracted student who
ought to have been studying diligently from one of the casts, shows an
imposing, heavy-set man towering physi- cally and psychologically over three
young seated pupils drawing in the Antique Academy. While traditionally he has
been identified as the painter Henry Fuseli (1741–1825), Keeper of the Royal Academy
Schools from 1803 to 1825, given the style of the drawing and the subject’s
dress he is more likely to be either Agostino Carlini (c. 1718–90), Keeper
between 1783 and 1790, or Joseph Wilton (1722–1803) who held the position
between 1790 and 1803.1 The view shows one of the end walls of the Antique, or
‘Plaister’ Academy, housed from 1780 in a purpose-built room in Somerset
House.2 The same wall, with a similar arrangement of casts, appears in the
evocative candlelight view of the room by an anonymous British artist (see p.
60, fig. 105). The young students are busy at work, copying from casts of the
Belvedere Torso (p. 26, fig. 23), the Apollo Belvedere (p. 26, fig. 18) and the
Borghese Gladiator (p. 41, fig. 54), models of different ideal types of beauty,
masculinity and anatomy, repeatedly praised by Sir Joshua Reynolds in his third
Discourse of 1770. It is likely that the three moveable casts were often set
side by side by the Keepers to reflect Reynolds’ conception of ideal beauty and
of the ‘highest perfection of the human figure’, which ‘partakes equally of the
activity of the Gladiator, of the delicacy of the Apollo, and of the muscular
strength of the Hercules’, as expressed in his third Discourse.3 On the wall
behind the casts, are two cupboards possibly containing students’ drawings,
which support smaller casts and busts. Whilst the Antique Academy was a
serious, professional space, it was naturally the focus of humour from the
students, who ranged in ages from fourteen to thirty-four. Several other
caricatures exist testifying to the lighter side of academic life, including an
earlier study by Thomas Rowlandson (1756–1827) showing a bench of students at
work in the Life Academy in 1776 and including mocking depictions of
Rowlandson’s fellow students (fig. 1).4 In terms of its public image the cast
collection was an important symbol of the Academy’s prestige but this view does
not seem to have been shared by some of the students, many of whom must have
considered the long hours spent copying after the Antique as a constraining and
repetitive exercise. Joseph Wilton was a crucial figure within the acad- emy in
promoting a rigid curriculum based on the classical ideal. He never abandoned
his firm belief in the didactic value of plaster casts, established while he
was director of the Duke of Richmond’s Gallery in the late 1750s.5 His strict
teaching methods must have generated discontent and considerable derision,
brilliantly visualised in a satirical print by Isaac Cruikshank (1756–1811)
(fig. 2) which shows Wilton – trans- formed into Bottom with the head of an ass
– inspecting the drawing of an irritated student in the Antique Academy.6
Wilton’s exacting standards, as the lines below the cartoon make clear, would
prevent him from seeing the genius of a modern day Raphael and it is clear that
some students of the Academy saw him as a ‘formal old fool’. Unlike the Life
Academy, where the Visitor presided, setting the model and frequently drawing
from it himself, the Antique Academy was presided over by the Keeper of the
Schools. Each week the Keeper would set out specific casts and direct and
comment on the students’ work. According to Fig. 1. Thomas Rowlandson, A Bench
of Artists, 1776, pen and grey and black ink over pencil, 272 × 548 mm, Tate
Gallery, London, inv. T08142 196 197 Fig. 2. Isaac Cruikshank,
Bless The Bottom, bless Thee-Thou art translated – Shakespere, 1794,
hand-coloured etching, 295 × 212 mm, G. J. Saville the rules, students did not
choose which casts to draw and they were not allowed to move them without
permission.7 But depictions of the Antique Academy suggest that the situation
was probably more flexible and may have allowed for individually tailored
study. Several anecdotes point to the unruly life of the Academy and its
students, who were allowed to choose their own seats, with utter chaos
resulting. Joseph Farington (1747–1821) noted in 1794, that they behaved like
‘a mob’: Hamilton says the life Academy requires regulation: but the Plaister
Academy much more. The Students act like a mob, in endeavouring to get places.
The figures also are not turned so as to present different views to the 8 The
reason for the commotion was that once a student had a seat, he was expected to
retain it for the week. The atmos- phere seems to have been generally
boisterous and there are numerous reports in the Council Minutes of the Academy
of misbehaviour, high spirits and students throwing at each. It would be
productive of much good to the Students to deprive them of the use of bread; as
they would be induced to pay more attention to their outlines; and would learn
to draw more correct, when they had not the perpetual resource of rubbing
out.11 aa&jy For the traditional attribution of the sitter see the entry on
the collection online database of the British Museum. The identification of the
sitter with Joseph Wilton has been proposed already by Andrew Wilton in London
1969, no. 1. For a list of Keepers of the Royal Academy see Hutchison 1986, pp.
266–67. Both Carlini and Wilton presented similar physical character- istics as
the man in the drawing. For a list of their likenesses see respectively Trusted
2006 and Coutu 2008. See Baretti [1781], pp. 18–30. See Reynolds 1997, p. 47.
London 1997, pp. 170–71, no. 67. See Coutu 2000; Kenworthy-Browne 2009. George
1870–1954, vol. 7 (1793–1800), p. 118, no. 8519. See ‘Rules of the Antique
Academy’: Royal Academy of Arts PC/1/1, Council Minutes, vol. 1, pp. 4–6, 27
Dec. 1768, quoted in Hutchison 1986, p. 31. Farington 1978–98, vol. 1, p. 281.
Pressly 1984, p. 87. Farington 1978–98, vol. 2, pp. 461–62. Ibid., vol. 2, p.
462. These two drawings by Turner epitomise the two principal stages of
education provided by the Royal Academy Schools during the late 18th century:
the Antique, or Plaister, Academy and the Life Academy. Turner enrolled as a
student in the Schools in December 1789 as a boy of fourteen, spent more than
two years in the Antique Academy, and then progressed to the Life Academy in
June 1792, presumably after presenting a drawing for inspection by the Visitor.1
Although there is no record of the drawing Turner submitted, it may well have
been this finished study of the Belvedere Torso (see p. 26, fig. 23) a
sculpture of enduring popu- larity among artists as demonstrated by Goltzius’
drawing made almost exactly two hundred years earlier (cat. 8). Turner copied
the same cast of the Torso shown in the satiri- cal view of the Academy (cat.
26). He is recorded as having visited the Antique Academy on 137 separate
occasions during his studentship but only some twenty of his drawings after the
Antique survive (figs 1–4) – many from the casts seen in Burney’s drawing (cat.
25) – and none as highly ren- dered as the present study.2 Turner’s signature
at the lower right also suggests it was esteemed by the artist himself and
prepared for some formal purpose. Whilst the surviving Academy Council Minutes
do not record in detail the process of progression from the Antique Academy to
the Life Academy, contemporary accounts offer some insight. Turner’s
contemporary, Stephen Rigaud noted: I was admitted as a Student in the Life
Academy by Mr Wilton the Keeper, and Mr Opie, the Visitor for the time being,
on the presentation of a drawing from the Antique group of the Boxers, in which
I had copied the strong effect of light and shade in the whole group coming out
by strong lights on one side, and reflected lights on the other, with which Mr
Opie expressed himself much pleased.3 The study of the Torso has all the
characteristics of a presenta- tion drawing. It is on better, more regularly
cut paper than Turner’s other drawings after the Antique and the figure is
highly worked and boldly modelled with hatching and cross- hatching in chalk to
convey the ‘strong effects of light and shade’ mentioned by Rigaud. This is in
keeping with the established tradition of copying casts by candlelight to
enhance contrast, so that the students could learn how to render planes and
anatomical details. Unlike Goltzius’ Torso, being copied in daylight after the
original in the Belvedere Courtyard in Rome, Turner’s cast is strongly lit from
above by an oil lamp and set against a neutral screen to provide a uniform
background – as clearly visible in the view of the Antique Academy (p. 60, fig.
105). Furthermore, this is the only drawing from the Antique where Turner
employed trois crayons, adding red to black and white chalk, a technique he
usually reserved for studies from life. Might it be that Turner was attempting
to turn marble into flesh, the practice 198 199 students. other the lumps of
bread they were given to erase their draw- ings. Stephen Francis Rigaud
(1777–1862), son of the Royal Academician, John Francis Rigaud (1742–1810) and
a student in the early 1790s, wrote that the Schools were also the forum for
political agitation: The peaceable students in the Antique Academy being
continually interrupted in their studies by others of an opposite character,
who used to stand up and spout forth torrents of indecent abuse against the
King [. . .] One evening [. . .] I rose and protested that if they continued to
use such abominable language in a Royal Academy I would denounce every one of
them to the Council and procure their expulsion [. . .] this threat checked
them a little; but they shewed their spite by pelting me well with [. . .]
pieces of bread.9 This incident reached the ears of the Academy Council from
which the Keeper was excluded. Wilton told Joseph Farington in 1795: The
Students in the Plaister Academy continue to behave very rudely; and that they
have a practise of throwing the bread, allowed them by the Academy for rubbing
out, at each other, so as to waste so much that the Bill for bread sometimes
amounts to Sixteen Shillings a week.10 The Council took the decision to stop
the allowance of bread altogether, as the President, Benjamin West, noted: 27.
Joseph Mallord William Turner (London 1775–1851 London) a. Study of a Plaster
Cast of the Belvedere Torso c. 1792 Black, red and white chalk, on brown paper,
331 × 235 mm Signed recto, l.r., in pen and black ink: ‘Wm Turner.’ literature:
Postle 1997, pp. 91–93, repr.; Owens 2013, pp. 102–03, pl. 76. exhibitions:
Nottingham and London 1991, p. 51, no. 18 (M. Postle); Munich and Rome 1998–99,
p. 49, fig. 50, p. 164, no. 62 (M. Ewel and I. von zur Mühlen); Munich and
Cologne 2002, p. 414, no. 192 (J. Rees); London 2011 (no catalogue). Victoria
and Albert Museum, Prints & Drawings Study Room, London, 9261 b. The
Wrestlers c. 1793 Black, red and white chalks, on brown paper, 504 x 384 mm
Signed recto, l.r., in pen and black ink: ‘Wm Turner.’ literature: Wilton 2007,
p. 16, repr. exhibitions: Not previously exhibited. Victoria and Albert Museum,
Prints & Drawings Study Room, London, 9262 provenance: Both drawings
purchased by the Museum in 1884 from R. Jackson with four other academic
drawings by different artists (Victoria and Albert Museum Register of Drawings
1880–1884, pp. 171, 174). 200 201 prescribed by Rubens
(see Appendix, no. 8), something he may have thought would demonstrate that he
was ready to progress to the Life Academy? The Torso would have been a clever
choice for a presentation drawing, since the antique fragment held a position
of great prominence in the mission and the iconography of the Royal Academy.
According to Reynolds the Torso was the greatest exemplar of classical art.
‘What artist’, he asked in his 10th Discourse of 1780, ‘ever looked at the
Torso without feeling a warmth of enthusiasm, as from the highest efforts of
poetry?’ For him only ‘a MIND elevated to the contemplation of excel- lence
perceives in this defaced and shattered fragment [...] the traces of
superlative genius, the reliques of a work on which succeeding ages can only
gaze with inadequate admi- ration’ (see Appendix, no. 17).4 The muscular figure
featured prominently under the words ‘STUDY’ on the obverse of several medals
annually distributed as premiums to the students and in Angelica Kauffman’s
Design for the ceiling of the Council Chamber, which served also as a second
room of the Antique Academy (see p. 60, fig. 107).5 In Turner’s time as a student,
the Academy possessed two casts of the Torso, one of which we know was
presented by the dealer Colin Morrison in 1770, and significantly Turner
himself donated a further cast in 1842.6 The second drawing exhibited here was
made from posed models in the Life Academy. The model would be set by the
Visitors and Turner studied under a number of them, including Henry Fuseli,
James Barry and Thomas Stothard (1755–1834). This drawing possibly dates from
1793 and may represent an unusually elaborate pose set by the sculptor John
Bacon (1740–99). Stephen Francis Rigaud, who entered the Life Academy a year
after Turner, noted: I remember Mr Bacon once setting a well composed group of
two men, one in the act of slaying the other; or a representation of the
history of Cain and Abel, which was continued for double the time allowed for a
single figure, and which gave general satisfaction to the students.7 This
precisely accords with the present group, which shows specific models engaged
in combat. Although designed to represent a biblical subject, the pose of the
two figures was reminiscent of antique groups, especially the Wrestlers (see p.
30, fig. 33) which had already served as inspiration for posing the live models
in the Italian and French academies – as seen for instance in Natoire’s
imaginary view of the Académie Royale (cat. 16). Turner continued to attend the
Schools throughout the 1790s until he was awarded Associateship of the Academy
in 1799; he would continue to visit the Life Academy intermit- tently for the rest
of his life.8 He was made inspector of the cast collection of the Royal Academy
in 1820, 1829 and 1838 and served as Visitor in the Life Academy for a total of
eight years between 1812 and 1838.9 In the latter role he became famous for
setting the live model in postures reminiscent of classical sculpture, clearly
recalling what he had learned during his time as a student. Lauding this
practice and lamenting its decline, the artists and essayists Richard
(1804– Fig. 1. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster
Cast of the Apollo Belvedere, c. 1791, black and white chalks on brown laid
wrapping paper, 419 × 269 mm, Tate Gallery, London, inv. D00057 (Turner Bequest
V D) Fig. 2. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster Casts of
Marquess of Shelbourne’s Cincinnatus, c. 1791, pencil with black and white
chalks and stump on laid buf paper, 425 × 267 mm, Tate Gallery, London, inv.
D00055 (Turner Bequest V B) Fig. 4. Joseph Mallord William Turner, Study of a
Plaster Cast of a Helmeted Head from the Trajan Column, with Other Studies, c.
1791, black, red and white chalks and stump on dark buf paper, 337 × 269 mm,
Tate Gallery, London, inv. D40220 (Turner Bequest V R, verso) 88) and Samuel
(1802–76) Redgrave noted: When a visitor in the life school he introduced a
capital practice, which it is to be regretted has not been contin- ued: he
chose for study a model as nearly as possible corresponding in form and
character with some fine antique figure, which he placed by the side of the
model posed in the same action; thus, the Discobulus (sic) of Myron contrasted
with one of our best trained soldier; the Lizard Killer with a youth in the
roundest beauty of adoles- cence; the Venus de’ Medici beside a female in the
first period of youthful womanhood. The idea was original and very instructive:
it showed at once how much the antique sculptors had refined nature; which, if
in parts more beautiful than the selected form which is called ideal, as a
whole looked common and vulgar by its side.10 aa & jy For Turner’s
attendance at the Academy see Hutchison 1960–62, p. 130. Finberg 1909, vol. 1,
pp. 6–8. See also Wilton 2012. Pressly 1984, p. 90. Reynolds 1997, pp. 177–78.
On the medals see Hutchison 1986, p. 34; Baretti [1781], p. 28; see also
London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 24, 20 May
1769. For the Council Chamber see Baretti [1781], pp. 25–26. On the two copies
of the Torso in the Royal Academy see Baretti [1781], pp. 9, 28. On Colin
Morrison’s donation of a cast of the Torso, together with ‘Cast of a Bust of
Alexander’ in 1770 see London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes,
vol. 1, p. 70, 17 March 1770; on Turner’s donation see Gage 1987, p. 33.
Pressly 1984, p. 90. Hutchison 1960–62, p. 130. See Gage 1987, pp. 32–33.
Redgrave and Redgrave 1890, p. 234, quoted in Gage 1987, p. 33. 202
203 Fig. 3. Joseph Mallord William Turner, Study of a Plaster Casts of the
Borghese Gladiator, c. 1791–92, black and some white chalk on buf wove paper,
580 × 457 mm, Tate Gallery, London, inv. D00071 (Turner Bequest V S) 1 2 3 4 5
6 7 8 9 10 28. William Chambers ( fl.1794) The Townley Marbles in the
Dining Room of 7 Park Street, Westminster 1795 Pen and grey ink with
watercolour and touches of gouache, indication in graphite, heightened with gum
Arabic, 390 × 540 mm provenance: Charles Townley (1737–1805); by descent to
Lord O’Hagan (b. 1945); Sotheby’s, London, 22 July 1985, lot 559; Frederick R.
Koch; Sotheby’s, London, 12 April 1995, lot 90, from whom acquired by the British
Museum. literature: Cook 1977, pp. 8–9, fig.1; Cook 1985, pp. 44–45, fig. 41;
Walker 1986, pp. 320–22, pl. A; Cruickshank 1992, pp. 60–61, fig. 5; Morley
1993, pp. 228, 285, pl. LVII; Webster 2011, p. 425, fig. 321. exhibitions:
Essen 1992, pp. 432–36, no. 360a (C. Fox and I. Jenkins); London 1995 (no
catalogue); London and Rome 1996–97, pp. 258–60, no. 214 (I. Jenkins); London
2000, pp. 229–30, no. 167; London 2001, p. 42, no. 72; London 2003b, p. 143,
fig. 117. The British Museum, Department of Prints and Drawings, London,
1995,0506.8 Charles Townley (1737–1805) was the most influential collec- tor of
antique sculpture in Britain during the second half of the 18th century.1 From
1777 Townley’s considerable collection was arranged in his London residence, 7
Park Street (now 14 Queen Anne’s Gate), a proto-house-museum praised both for
the strength of its collections and their display. It was to become one of the
principal tourist sites in London. Writing about the house, James Dallaway
claimed that ‘the interior of a Roman villa might be inspected in our own
metropolis’.2 Park Street was also a centre of antiquari- anism and Townley –
particularly after 1798, when wars with France curtailed travel to the
Continent – was a hugely Fig. 1. Johann Zofany, Charles Townley and Friends in
His Library at Park Street, Westminster, 1781–90 and 1798, oil on canvas, 127 ×
99.1 cm, Towneley Hall Art Gallery & Museum important figure in promoting
the study and interpretation of classical sculpture in Britain initiating numerous
publica- tions, including the Society of Dilettanti’s Specimens of Antient
Sculpture (1809). Townley also formed a famous library and an immense archive
of drawings – in effect a ‘paper museum’ – recording antiquities in both
British and European collections. To complete this ‘paper museum’ and to
prepare publications such as the Specimens, Townley employed numerous young
artists to record his own collection. It is clear from the surviving portions
of his diary and other records that 7 Park Street became, in effect, an
alternative academy in London. Writing in 1829, the then Keeper of Prints and
Drawings at the British Museum, J. T. Smith, published a description of 7 Park
Street and its contents, observing: I shall now endeavour to anticipate the
wish of the reader, by giving a brief description of those rooms of Mr
Townlye’s house, in which that gentleman’s liberality employed me when a boy,
with many other students in the Royal Academy, to make drawings for his
portfolios.3 Townley’s surviving drawings, housed, along with his sculp- ture
collection, in the British Museum, testify to the range of artists he employed
and demonstrate the popularity of Park Street as a venue for artists both to
meet and to draw. Records show that William Chambers – not to be confused with
the architect of the same name – was one of the draughtsmen employed by Townley
to prepare drawings for his ‘portfo- lios’. A payment of £5.5.0 to Chambers is
recorded on 21 October 1795 for the pendant to this drawing, a view of sculp-
ture in the hall at 7 Park Street, also in the British Museum.4 Townley’s diary
records the comings and goings of painters, particularly his friend, Johann
Zoffany (1733–1810) who painted the iconic, largely imaginary view of Townley’s
library filled with his sculpture collection and with the owner in conversation
with his unofficial curator, the Baron d’Hancarville, and two other friends
(fig. 1).5 204 205 The dining room was one of the principal public
spaces of the house and contained some of the largest sculptures in the
collection. These included the Townley Venus, the Discobolus (fig. 2), the
Townley Caryatid, the Townley Vase, and the Drunken Faun, which Chambers places
in the foreground. The modish decoration reflected both advanced neo-classical
thinking and Townley’s own passions; the walls were articulated by simulated
porphyry columns surmounted by capitals whose design came from Terracina; as
d’Hancarville explained: ‘the ove is covered with three masks representing the
three kinds of ancient drama, the comic, tragic and satyric [...] the choice
and disposition of these ornaments leave no doubt that this capital was
intended to characterise a building con- secrated to Bacchus and Ceres’.6
Visitors are shown admiring the collection while a woman seated in the
foreground is drawing from the Drunken Faun. A drawing attributed to Chambers
of the same sculpture, taken from the same angle, made for Townely’s
portfolios, is also in the British Museum (fig. 3). Townley’s wide circle of
acquaintances included a number of amateur and professional female artists,
includ- ing Maria Cosway (1760–1838), whom Townley first met in Florence in
1774. His interest in encouraging young artists led to the publication by
Conrad Metz of a drawing manual based on studies of the sculpture in Park
Street: Studies for Drawing, chiefly from the Antique. 30 plates (1785).
Townley’s support of artists resulted in his taking an active role in the Royal
Academy of Arts from its foundation. He donated casts of his own sculpture and
solicited dona- tions from friends. The Academy’s Council Minutes record his
first donation in August 1769 of a ‘cast of the Lacedemonian Boy’ the so-called
Knucklebone Players which appears in Edward Burney’s view of the RA’s Antique
Academy on the far left, behind the Cincinnatus (cat. 25).7 One of the artists
who appears regularly in Townley’s diary was the sculptor Joseph Nollekens
(1737–1823) who is recorded donating to the Academy a ‘cast in plaister of the
head of Diomede’ belonging to Townley in 1792.8 Townley also donated casts of
sculptures in other collections, among them, in 1794 one ‘of the celebrated Bas
relief in the Capitol, of Perseus & Andromeda’, a cast still in the
collection of the Academy.9 Townley’s solicitude for the Royal Academy and the
educa- tion of young artists continued throughout his life; in 1797 the painter
and diarist Joseph Farington noted: ‘Townley [...] thinks the Academy should
have additional rooms for Statues &c’.10 29. Joseph Michael Gandy (London
1771–1843 Plympton) View of the Dome Area by Lamplight looking South-East 1811
Pen and black ink, watercolour, 1190 × 880 mm selected literature: Lukacher
2006, pp. 132–33, fig.150 exhibitions: London 1999a, p. 160, no. 68 (H. Dorey);
Munich 2013–14, p. 43; London 2014, (unpaginated). Sir John Soane’s Museum,
London, For Townley see particularly Coltman 2009. Dallaway 1816, pp. 319, 328.
Smith 1829, vol. 1, p. 251. In February that year he had also paid Chambers
£2.2.0. for some unspeci- fied drawings, and in August £1.1.0. for ‘drawing
gems’: see London 2000, p. 229. Townley’s diary records Chambers returned in
May 1798 when he began to make a record of an altar of Lucius Verus Helius
which Townley had recently acquired from the Duke of St Albans; he finished the
study on Sunday 7 July: London, British Museum, Townley Archive, TY/1/10. For
William Chambers’ pendant to this drawing see London 2001, p. 42, no. 71 (with
previous bibliography). Webster 2011, pp. 419–43. London and Rome 1996–97, pp.
258–60. London, Royal Academy of Arts, PC/1/1, Council minutes, vol. 1, p. 38,
9 Aug. 1769. It arrived with a cast of a Venus donated by Townley’s principal
antiquities dealer in Rome, Thomas Jenkins. The original Knucklebone Players is
in the British Museum, Department of Greek & Roman Antiquities, inv.
1805,0703.7. London, Royal Academy of Arts, PC/1/2, Council minutes, vol. 2,
pp. 173–4, 3 Nov. 1792. The original marble bust is in the British Museum,
Department of Greek & Roman Antiquities, inv. 1805,0703.86, now called the
Head of a follower of Ulysses. London, Royal Academy of Arts, PC/1/2, Council
minutes, vol. 2, p. 201, 7 Feb. 1794. The cast is in the Royal Academy, inv.
03/2018. The original is in the Capitoline Museums, Rome, inv. 501: see Helbig
1963–72, vol. 2, pp. 156–57, no. 1330. Farington 1978-98, vol. 3, p. 840. Fig.
2. The Townley Discobolus, Roman copy of the 2nd century ad after a Greek
original of the 5th century bc by Myron, marble, 170 cm (h), British Museum,
Department of Greek & Roman Antiquities, London, inv. 1805,0703.43 Fig. 3
Attributed to William Chambers, Drawing of a Statue of an Intoxicated Satyr,
1794–1805, black chalk and grey wash, 280 × 193 mm, British Museum, Department
of Greek & Roman Antiquities, London, inv. 2010,5006.87 The Royal Academy
School of Architecture was central to the formation of the professional career
and teaching of Sir John Soane (1754–1837), who is chiefly remembered today as
architect to the Bank of England, of Dulwich Picture Gallery and of his
incomparable house-museum at No. 13 Lincoln’s Inn Fields, London. The unique
installations of antiquities and casts after the Antique in the Museum, which
he built at the back of the house, and which J. M. Gandy so atmospherically
evokes in this drawing, also attest to the influence of the Academy on Soane’s
pattern of collecting and his own role as a teacher. Soane entered the Academy
in 1771 at the age of eighteen; he was the 141st pupil since the Academy’s
foundation in 1768 and amongst the first students of the School of
Architecture, the earliest institution in Britain to teach architecture in a
formalised way. The School was modelled by Sir William Chambers (1723–96) on
his own experience of studying architecture in Jean-François Blondel’s École
des Arts in Paris, in 1749–50, when the status of the architect and teaching
methods in Britain were then very different from those in France. The Académie
Royale d’Architecture, of which Chambers became a member in 1762, had been
founded in 1671 and was followed, in 1743, by Blondel’s more progressive École.
The École’s curriculum was rigorous; it was open for study from Monday to
Saturday and from eight in the morning until nine in the evening. The students’
day began with formal discussion of various topics, followed by lectures on set
matters relating to drawing such as mathe- matics, geometry, perspective, or to
building types such as military architecture, or to practical issues such as
drainage and water supply. In the spring, students would undertake site visits
to notable buildings in Paris and its environs.1 In Britain, by contrast, the
professional status of architect was ill-defined, and was not always
distinguished from that of the builder or mason. The ambiguous status of
architecture was not entirely clarified by the time Soane entered the architecture
school. It was the smallest of the departments at the Royal Academy and Soane
was one of only nine pupils admitted in 1771. And although inspired by
Blondel’s École, the programme of the architecture school was nothing like so
rigourous. Students of architecture were required to attend only six lectures
per year.2 The reason for this very limited formal teaching was that most
students were attached to a professional archi- tect’s office during the day;
when Soane enrolled at the Royal Academy he was working for George Dance the
Younger (1741–1825).3 Nor were the teaching collections available to students
at all extensive. The collections of plaster casts after the Antique (and
antiquities) were dominated by the requirements of painters and sculptors; in
the 1810 inventory of 385 casts, only nineteen can be identified as being
architec- tural.4 It is against this backdrop that we must understand Soane’s
own founding of an ‘academy of architecture’ in his house-museum. The history
of Soane’s collections of casts and the manner in which they were installed,
deinstalled and reinstalled over a period of time and over three different
properties belonging to Soane (two at Lincoln’s Inn Fields and one in Ealing,
London) is not straightforward. From the 1790s, Soane started collecting and
displaying casts for the use of the young pupils and assistants working in his
first office in No. 12 Lincoln’s Inn Fields.5 However, as his collection grew
and as his career as an architect developed, the function of the collection of
antiquities and of casts after the Antique changed. Gandy’s drawing shows the
Dome Area of Soane’s Museum as it appeared in 1811 (a year after the 1810 Royal
Academy inventory of casts was com- piled).6 In this view, atmospherically lit
from below by an undisclosed light source, we can readily identify a number of
casts of antique sculpture and of architectural fragments. The largest casts
are the Corinthian capital shown on the south wall, and a fragment of
entablature, shown on the east wall, both taken from the Temple of Castor and
Pollux in Rome, which Soane had purchased in 1801 from the sale of the
architect Willey ‘the Athenian’ Reveley.7 Below the capital, and forming part
of the parapet of the Dome we see a cast of one of the panels, decorated with a
festoon, from the portico of the Pantheon, purchased from the sale of the
architect James Playfair.8 Sculpture is also represented in the casts, and a
number of well-known antiquities can be 206 207 described.
Just visible through the arch in the lower right- hand corner, is an
arrangement of four casts taken from the base of one of the so-called Barberini
Candelabra, among the most prized antiquities in the Museo Pio-Clementino,
Rome, which shows the gods Minerva, Jupiter (twice), and Mercury in low
relief.9 On the east wall, below the entablature of the Temple of Castor and
Pollux, is a cast of a relief of two of the ‘Corybantes’, taken from the marble
original in the Vatican Museums and also purchased from the Playfair sale.10
Although Soane would rearrange these casts and antiquities as his ‘Museum’
expanded, most are still to be found at No. 13 Lincoln’s Inn Fields and the
general impression of a dense, ‘romantic’ arrangement remains. If, originally,
Soane’s collection of casts and antiquities was intended to provide exemplars
for the architects training and working in his office, by the time Gandy drew
the arrangements as they appeared in 1811 a shift in their purpose had
occurred. In 1806, Soane became Professor of Architecture at the Royal Academy
and, as a former student, he was well aware of the relatively meagre resources
allocated to the School. He comments on this in his 6th lecture, given to his
students at the RA.11 The arrangement of casts shown by Gandy was installed
between 1806 and 1809, when Soane was preparing his Royal Academy lectures, of
which he gave the first in 1809.12 It has been argued that they are a
three-dimensional analogue of the lectures and their drawn illustrations.13
Indeed, Soane saw the casts as being central to his teaching: ... I propose in
future that the various drawings and models, shall, on the day before, and if
necessary, the day after the public reading of each lecture, be open at my
house for the inspection of the students in architecture, where at the same
time, they will likewise have an oppor- tunity of consulting the plaster casts
and architectural fragments.14 Shortly after Gandy completed this view of the
Dome Area, the European Magazine and London Review described Soane’s
house-museum as an ‘... Academy of Architecture’.15 At the same time as he was
responding to the lack of architectural casts and fragments in the collections
of the Royal Academy, Soane’s ‘academy’ should also be seen as Soane’s
reflection on the ways in which he himself had come to experience Roman
architecture. Unlike the Royal Academy lectures, which Soane arranged
programmatically, the ‘Piranesian’ displays of antiquities, casts and
architectural 16 to recreate the experience of visiting Rome and to recall the
excitement of viewing there the disorganised remains of antiquity.17 However,
another reason why Soane rejected a rational academic approach to the
arrangements of antiquities in his house-museum might lie in the way that Soane
used the collections to form his own identity as an architect. In our drawing
Gandy includes a portrait of Soane who is illuminated from the same undisclosed
light source as his casts, gesturing in, by 1811, the slightly archaic manner
of an interlocutor. He is at once teacher, architect and collector.18 The
arrangements of casts and antiquities are not just for the use of his students
and pupils but also, as he put it, ‘... studies for my own mind’.19 They
reflect one individual’s view of art and architecture through the idiosyncratic
juxtapositions that he created. However, there is yet another level of
self-identification in Soane’s collection and display of antiquities and
architec- tural fragments. In Gandy’s drawing, far above Soane on a shelf, can
be seen a row of Roman antique cineraria and cinerary vases. That at the far
left, decorated with Ammon masks, came from the ‘Museum’ of the great Italian
architect and etcher, Piranesi, as did the cinerary vase decorated with
griffins seen on top of the cinerarium in the middle, and the cinerarium
decorated with genii on the far right. Though it is not seen in this view, in
1811, a full-size cast of the Apollo Belvedere would join the collections of
the ‘academy’. Dating to 1717, it had formerly been owned by Lord Burlington
and displayed in his villa at Chiswick. In 1818, further antiquities – this
time from the sale of the effects of Robert and James Adam – would enhance the
installations. The names of these prominent antiquaries and architects are
significant: they create an intellectual genealogy for Soane, who was born the
son of a bricklayer. Sir John Soane’s Museum is a very rare survival of an
early 19th-century private ‘academy’ in which his collections of casts and of
antiquities can be experienced much in the same manner as his own pupils and
his Royal Academy students experienced them. It also demonstrates how Soane
drew upon the Antique to create his intellectual persona. fragments are
set out idiosyncratically and imaginatively. Why did Soane reject a more
conventional arrangement of casts and antiquities in his ‘academy’? Perhaps he
wished 208 1 2 3 4 j k-b See Bingham 1993, p.5. ‘In regard to the students in
architecture, it is exacted from them only that they attend the library and
lectures, more particularly those on Architecture and Perspective...’.
Reprinted, La Ruffinière du Prey 1977, p. 47. Soane subsequently entered the
office of Henry Holland in 1772. Bingham 1993, p. 7. The lack of collections of
casts or of architectural fragments in public collections in Britain, until Sir
John Soane formed his collection, was also commented upon by John Britton in
the preface to his 1827 ‘guide’ to Soane’s house-museum, Britton 1827, p.viii.
209 5 Soane had originally started collecting and displaying casts for
the use of the architects working in his first office in No.12 Lincoln’s Inn
Fields in the 1790s. He also hoped to inspire his eldest son – John Soane
Junior – to become an architect and arranged antiquities and casts at his
country villa, Pitzhanger Manor in Ealing, acquired in 1800 and rebuilt by
Soane, to act as an ‘academy’ for John. For a full description of Soane’s
acquisition and installation of casts in his house-museum and his use of them
see: Dorey 2010. 6 This part of the house was in fact behind No. 13 Lincoln’s
Inn Fields. 7 Reveley had collected these casts in Italy and Soane purchased
every cast from this sale. Dorey 2010, p. 600. 8 Dorey 2010, p.600. 9 These
were found in the remains of Hadrian’s Villa at Tivoli in 1730 and were heavily
restored by Bartolomeo Cavaceppi. The British antiquary Thomas Jenkins acted as
agent for the Pope when negotiating their acquisition. 10 This had been found
in 1788 near Palestrina. The subject of the relief is also sometimes identified
as the Pyrrhic Dance. 11 ‘...I have often lamented that in the Royal Academy
the students in architecture have only a few imperfect casts from ancient
remains, and a very limited collection of works on architecture to refer to.’
Reprinted in Watkin 1996, p. 579. 12 As Soane explained in his 6th Royal Academy
lecture: ‘On my appoint- ment to the Professorship I began to arrange the
books, casts, and models, 13 14 15 16 17 18 19 in order that the students might
have the benefit of easy access to them.’ Reprinted in Watkin 1996, p. 579.
See: Dorey 2010, p. 606. Watkin 1996, p.579. Observations 1812, p. 382. In
fact, Soane does seem to have entertained the idea of creating a more
‘rational’ Museum where casts, antiquities and fragments would be arranged
according to academic taxonomies. A drawing by George Bailey, also dating to
1811 and showing the Dome Area (SM 14/6/3), includes a plan relating to a
scheme of c. 1809–11 whereby both Nos 12 and 13 Lincoln’s Inn Fields would be
used by Soane. In this proposed scheme, the whole of No. 13 would become the
Museum with the collections displayed according to type. As Soane explained in
a rejected draft of his sixth Royal Academy lecture, No. 13 would incorporate:
‘... a gallery exceeding one hundred feet in length for the reception of
architectural drawings and prints, another room of the same extent over it, to
receive models and parts of buildings ancient and modern’. Reprinted in Watkin
1996, p. 356. Soane even used plain yellow glass in the skylights that
illuminated the Dome Area, perhaps to evoke the light of the Mediterranean
world rather than that of London. Soane explores the use of architecture as a
type of ‘self-portrait’ in notes he made when preparing his Royal Academy
lectures. See: Soane. J., Extracts, Hints, Etc. for Lectures, 1813–18, SM Soane
Case 170, f.135. Soane, Gijsbertus Johannus Van den Berg (Rotterdam 1769–1817
Rotterdam) The Drawing Lesson c. 1790s Black and red chalk, 483 × 375 mm.
Framing lines in black chalk. Signed recto l.r. in black chalk: GVD Berg. fecit
provenance: Paris, Drouot, 26 March 1924, part of lot 55, La Leçon de Dessin
(sold as a pair with another drawing, La Marchande de frivolités); Private
collection, France; Private collection, England; Florian Härb, London, from
whom acquired. literature:None. exhibitions: Not previously exhibited. Katrin
Bellinger collection, inv. no. 2011-013 Born in Rotterdam, Van den Berg was a
pupil of Johannes Zaccarias Simon Prey (1749–1822), a leading portrait and
decorative painter in that city.1 In the 1780s, he studied for three years in
Antwerp where he received special recogni- tion for his drawings after live
models and casts; he also resided for a time in Düsseldorf and Mannheim.2 In
1790, he returned to Rotterdam where he established himself as a portrait
painter and miniaturist. The same year he was appointed ‘Corrector’, a judge
and arranger of poses for live models, of the Rotterdam Drawings Society, whose
motto was Hierdoor tot Hooger (‘From Hereby to Higher’).3 For the remainder of
his career, he devoted himself to teaching. His pupils included his son,
Jacobus-Everardus-Josephus (1802–61), who also became a professional painter
and from 1844, director of the Teeken-Akademie in the Hague.4 One of Van den
Berg’s biographers makes special mention of the finished portrait studies in
black and red chalk that he made after his return to Rotterdam; the present
drawing is certainly one of them.5 Berg preferred studying female models,
usually posing two together: here, two elegantly dressed women in a panelled
interior focus their attention on an idealised head, probably a variant of the
head of an antique Venus.6 The seated draughtswoman holds up her chalk-filled
porte-crayon above an angled drawing-board, intently appraising her subject.
She engages with it much in the same way as Hubert Robert did some thirty years
earlier in his self-portrait with the Faustina bust (cat. 17). The second woman
appears to be commenting on the work in progress. A portfolio leans against a
table leg on the floor below. Comparably attired women – possibly the same ones
– are shown reading a letter in a sheet by Van den Berg in a private
collection.7 The present composition is similar in style and format to several
other chalk studies by the artist of the 1790s. It is especially close to his
drawing of a female artist seated at a table in the Rijksmuseum, Amsterdam
(fig. 1). But instead of holding a porte-crayon, this young woman operates a
zograscope, an optical device invented in the mid-18th century that included a
magnifying lens to enhance an image’s depth and relief; the subject of her
scrutiny remains out of view.8 Another comparable drawing, signed and dated
1791 (Royal Collection, Windsor Castle; fig. 2), shows an elderly man, perhaps
a drawing instructor, inspecting a portrait study from a portfolio.9 He is seated
at a table which is nearly identical to that in the Bellinger example, but Berg
shows him in a less formal attitude, holding a long clay pipe and resting his
feet on a portable stove, in a manner reminis- cent of Dutch 17th-century genre
subjects. This drawing, plus a number of other figure drawings by Van den Berg
preserved at Windsor, were probably obtained as a group by Fig. 1. Gijsbertus
Johannus Van den Berg, Study of a Woman Seated at a Table, with an Optical
Mirror, black and red chalk, 396 × 303 mm, Rijksmuseum, Amsterdam
RP-T-1997-10 210 211 Fig. 2. Gijsbertus Johannus Van
den Berg, A Connoisseur Examining Drawings, 1791, black and red chalk, 407 ×
284 mm, Royal Collection, RL 12865 King George III around 1810.10 Most are
probably studies after live models set in poses determined in advance in
classes at the Rotterdam Drawings Society.11 Draped plaster casts were used
when models were unavailable.12 As with the Bellinger drawing, their style,
with their sensitive employment of black chalk and red accents for the skin, is
strongly reminiscent of portrait drawings by the English artist Richard Cosway
(1742–1821) and no doubt register the prevailing taste for English art in
Rotterdam at the time.13 It is possible that Van den Berg intended his figure
studies to be engraved, perhaps for a series on the art of drawing.14 Women
artists did not begin to acquire the same privileges and educational advantages
as men until the end of the 19th century; as a general rule they were denied
membership of academies and were not permitted to draw after nude or anatomical
models.15 They were largely confined to producing art in private studios and
especially in aristocratic houses, where drawing tutors were sometimes hired to
supplement the education of young women.16 For the most part, they were
restricted to producing non-histor- ical, non-mythological and non-biblical
subjects, such as portraits and still-lifes, as their exclusion from study of
the live model and anatomy was thought to – and generally did Fig. 3. Georg
Melchior Kraus, Corona Schröter Drawing a Cast of the ‘Eros of Centocelle’,
1785, watercolour, 380 × 315 mm, Klassik Stiftung Weimar, KHz/01632 – prevent
them from acquiring full mastery of the human form.17 Instead, they studied
sculptural models and espe- cially antique casts, often ones deemed
thematically appro- priate for their gender, such as the ideal head featured in
the Van den Berg drawing catalogued here. A comparable situa- tion is depicted
in a watercolour close in date by Georg Melchior Kraus (1737–1806), then
director of the Weimar drawing school, in which a beautiful and smartly dressed
young lady, Corona Schröter, draws after a cast of the girlish son of Venus,
the Eros of Centocelle (1785; Klassik Stiftung Weimar; fig. 3), a statue known
through Roman copies – namely, the example discovered by Gavin Hamilton in 1772
in the outskirts of Rome and now in the Vatican – after a lost bronze original
by Praxiteles.18 The tradition of women drawing from antique plaster casts in
Holland, which began in the 17th century,19 was well advanced by the first
quarter of the 18th century, evidenced in Pieter Van der Werff’s portrayal of a
girl draw- ing after the Venus de’ Medici (1715; Rijksmuseum, Amsterdam; p. 40,
fig. 53). Van den Berg’s drawing, and others like it, confirm that the practice
developed further during the latter part of the century, and became still more
widespread in the 19th. The importance of plaster casts in artistic training in
212 213 Holland at this time is indicated by the activities of the
Rotterdam Drawing School, but also by Van den Berg’s own self-portrait of 1794,
where a reduced model of the Dying Gladiator and others are given prominence of
place on the shelf directly behind the artist (Museum Rotterdam).20 avl 1 For his
life and work, see Van der Aa 1852–78, vol. 2, pp. 368–69; Thieme- Becker
1907–50, vol. 3, p. 387; Scheen 1981, p. 35. 2 Van der Aa 1852–78, vol. 2, pp.
368–69. 3 Ibid., vol. 2, p. 369; For the society and his involvement therein,
see Amsterdam 1994, pp. 2–3 [unpaginated]. 4 Ibid. 5 Ibid.; Amsterdam 1994, p.
3 [unpaginated]. 6 Amsterdam 1994, p. 3 [unpaginated]; Berg also oversaw
private classes where students drew after nude female models. 7 Ibid., pp. 3–4
[unpaginated], no. 9. 8 Bulletin van het Rijksmuseum, 45, no. 3, 1997, p. 239,
fig. 9. For an in-depth study of this device, known in the 18th century as an
‘optical machine’, see Koenderink 2013, pp. 192–206. 9 Puyvelde 1944, p. 20,
no. 81, pl. 142; Amsterdam 1994, p. 2 [unpaginated]. 10 Puyvelde 1944, pp.
20–21, nos. 75–83. See also on-line collections database:
http://www.royalcollection.org.uk 11 For the society’s use of posed models, see
Amsterdam 1994, p. 2 [unpagi- nated]. 12 On the role of casts, see Amsterdam
1994, p. 2 [unpaginated]. An intrigu- ing view of the society’s drawing room,
on the upper floor of the Delftse Poort in Rotterdam, was published in Plomp
1982, pp. 11–12 (drawn by an anonymous artist, 1780, whereabouts unknown).
Casts of the Laocoön, the Apollo Belvedere, and L’Ecorché (Figure of a Flayed
Man), 1767 by Jean-Antoine Houdon (1741–1828) are clearly visible. For the
latter, see Washington D.C., Los Angeles and elsewhere 2003–04, pp. 62–66, no.
1 (A. L. Poulet). It has also been suggested that the finished quality of Van
den Berg’s drawings are reminiscent of engravings by George Morland (Amsterdam
1994, p. 3 [unpaginated]; Bulletin van het Rijksmuseum, 45, no. 3, 1997, p.
239). As proposed by Florian Härb, unpublished fact sheet on the Bellinger
drawing, c. 2011. For essential reading on the subject of women artists from
the Renaissance to the mid-20th century, see Los Angeles, Austin and elsewhere
1976–77 and especially the authors’ introductory essay, pp. 12–67. See also
Goldstein 1996, pp. 61–66. A very small number of women artists managed to get
elected to the French academy including Adélaïd Labille-Guiard (1749– 1803) and
Elisabeth Vigée Lebrun (1755–1842) in 1783. But from 1663 to the dissolution of
the Academy in 1793, only fourteen in total were accepted (Montfort 2005, pp.
3, 16, note 8). The French Salon in Paris was not open to non-Academy members
until 1791, when women were permitted to exhibit their work. Goldstein 1996,
pp. 62–64. See Los Angeles, Austin and elsewhere 1976–77, especially pp. 13–58;
Goldstein 1996, pp. 62–63. Söderlind 1999, p. 23. For the statue, see Spinola
1996–2004, vol. 2, p. 61, fig. 11, p. 63, no. 85; Piva 2007, pp. 48–49, fig. 7.
See for example, A Young Woman Seated Drawing, 1655–60, by Gabriel Metsu
(1629–67) in the National Gallery, London (NG 5225; Waiboer 2012, pp. 205–06,
A-62) and A Lady Drawing, c. 1665, by Eglon van der Neer (1635/36– 1703) in the
Wallace Collection, London (inv. no. P243; Schavemaker 2010, p. 462, no. 29).
Dordrecht 2012–13, no. 64A (F. Meijer). 31. Wybrand Hendriks (Amsterdam
1744–1831 Haarlem) The Haarlem Drawing College 1799 Oil on canvas, 63 × 81 cm
Signed and dated lower left: ‘W. Hendriks Pinxit 1799’ provenance: Wybrand
Hendriks (1744–1831); his sale, R.W.P. de Vries & C.F. Roos, Amsterdam, 27–29
February 1832, lot 30; private collection, Paris; Adolph Staring (1890–1980),
Vorden; given to the Teylers Museum in 1987 by Mrs. J.H.M. Staring-de Mol van
Otterloo. literature: Knoef 1938, repr.; Knoef 1947a, pp. 11–13; Staring 1956,
p. 174, fig. LIV; Van Regteren Altena 1970, pp. 312, 316; Praz 1971, p. 37; Van
Tuyll 1988, pp. 17–18, fig. 21; Haarlem 1990, pp. 35–36. exhibitions: Rotterdam
1946, p. 8, no. 13; London 1947, p. 4, no. 2; Amsterdam 1947–48, p. 8, no. 10;
Haarlem 1972, pp. 25–26, no. 29, fig. 44; Munich and Haarlem 1986, pp. 96–97,
no. 13. 214 215 Teylers Museum, Haarlem, KS 1987 002 exhibited in haarlem only
In this painting we have been admitted to a gathering at the Haarlem Drawing
College. In the 18th and early 19th century every self-respecting Dutch town
had its own drawing ‘college’ or ‘academy’. It was where artists and wealthy
amateurs met, drew together from the nude or draped model, and where they
looked at drawings together during so-called art viewings or
‘kunstbeschouwingen’. In 1799, the year this picture was painted, the Haarlem
Drawing College had twenty-six working (as opposed to honorary) members, and
this is very probably a group portrait of them and their committee (leaving
aside the boy playing marbles on the left, who may be the son of one of the
members). The setting is a house that the Haarlem artists rented in Klein
Heiligland. The question that immediately arises is: ‘who’s who?’ Although the
label listing the sitters that was still with the painting at the sale of Hendriks’s
estate in 1832 is no longer preserved, many of the figures can nevertheless be
identified with a fair degree of certainty. The two in the middle are very
probably the secretary, Jan Willem Berg who gestures to the viewer’s left, and
the balding treasurer, Pieter S. Crommelin. On the far right, beneath the
bas-relief on the wall, is Hendriks himself.1 The man in the left background,
pointing at one of the plaster casts on the mantelpiece, has been recognised as
Adriaan van der Willigen (1766–1841), author and art historian avant la
lettre.2 Prominently displayed against the chimneybreast are various plaster
casts. The large head of the famous Apollo Belvedere in the middle is the most
eye-catching (see p. 26, fig. 18). To the right of it is the classical
Callipygian Venus and to the left, the crouching Nymph Washing Her Foot after
Adriaen de Vries (1556–1626).3 Of the two male casts seen frontally, that on
the right is after the classical Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32), while
that on the left is probably after a Mercury by François Duquesnoy
(1597–1643).4 Hanging on the wall above Hendriks’s head is Vulcan’s Forge, also
after Adriaen de Vries, and in the corner on the left is the life-sized cast of
another classical statue: the Venus de’ Medici (see p. 42, fig. 56).5 The casts
displayed, therefore, reproduce as a whole or in part, statues from classical
antiquity and from 16th- and 17th-century Netherlandish sculpture, which in
turn reference the Antique. The casts depicted belonged to the Haarlem Drawing
Academy, the forerunner of the College. Hendriks had bought them and the rest
of the inventory in 1795 to help pay off the academy’s debts, and he donated
everything to the Drawing College when it was founded the following year. The
prime mover behind the gift was probably the Teylers Foundation, a Haarlem body
that had been set up in 1778 to stimulate the arts and sciences. The foundation
subsidised art education in Haarlem for decades, and Hendriks was the curator
of its art collection, which was housed in the Teylers Museum.6 The fact that
these plaster casts were transferred immediately to the Drawing College
indicates how impor- tant they were for a society that promoted drawing, and
this is confirmed by the prominence they are accorded in this group portrait.
On the other hand, it should be appreciated that the supremacy of classical art
and the rules of classicism, which in fact had never been applied very strictly
in the Dutch Republic, were no longer so sacred in the Netherlands by 1800. Members
of some drawing academies often argued that genres like landscape and scenes
from everyday life in which nature was imitated literally and not idealised,
should be valued as highly as history paintings, which were generally inspired
by classical or neo-classical principles. The idea that Adriaan van der
Willigen is the man point- ing at the casts is intriguing. He was a learned
amateur and the best-versed person in the gathering when it came to the history
of the arts. He was very well aware how much they owed to the example of
ancient Greece and Rome. A few years after this painting was executed he
wrote an essay in the Verhandelingen uitgegeven door Teyler’s Tweede
Genootschap (Discourses published by Teylers Second Society) discussing ‘the
cause of the lack of superior history painters in the Netherlands, and the
means suitable for their training’. He praised his countrymen for their
colouring, chiaroscuro, fidelity to nature and brushwork, yet accused them of
impre- cise drawing, inelegant compositions and bad taste. What, Van der
Willigen asked, could be done to overcome these defects? To draw from the
‘purest casts in plaster of the finest classical statues, busts and
bas-reliefs’! And he then gave a list of the well-known canon of classical
sculpture, which included the Apollo Belvedere, the Laocoön, the Venus de’
Medici and the Belvedere Torso.7 In short, he was utterly convinced of the
importance of classical sculpture and its formative nature. For him, it was
clearly still of paramount importance. mp 1 2 3 4 5 6 7 For the various
identifications see Haarlem 1972, p. 25 and Haarlem 1990, pp. 35–36. The Van
der Willigen identification was made by A. Staring (1956, p. 174) and has been
adopted by other authors (see above, note 1). According to Staring, some of the
portraits were added later, when the composition had already been determined,
including that of Van der Willigen, who was not yet living in Haarlem in 1799.
Van der Willigen is best known today for writing a comprehensive collection of
biographies of artists living in the Netherlands from 1750 onwards, together
with Roeland van Eynden: Van Eynden and Van der Willigen 1816–40. For the
Callipygian Venus see Haskell and Penny 1981, pp. 316–18, no. 83; Gasparri
2009–10, vol. 1, pp. 73–76, no. 31 and repr. on pp. 267–69. For the Nymph
Washing Her Foot after Adriaen de Vries: Amsterdam, Stockholm and elsewhere
1998, pp. 131–33, no. 10. For Duquesnoy’s Mercury, of which there are several
versions, some of them slightly different, see Boudon-Mauchel 2005, pp. 264–70.
For the Farnese Hercules see Haskell and Penny 1981, pp. 229–32, no. 46;
Gasparri 2009–10, vol. 3, pp. 17–20, no. 1, pp. 208–13. For the Venus de’
Medici see Haskell and Penny 1981, pp. 325–28, no. 88, and for De Vries’
Vulcan’s Forge see Amsterdam, Stockholm and elsewhere 1998, pp. 187–89, no. 27.
The plaster casts stood in the top front room of the house in Klein Heiligland.
For a description of the house and of Hendriks’ involvement with the casts, see
Sliggers 1990, no. 26, pp. 16–17. Van der Willigen 1809, p. 282 (colouring
etc.), p. 298 (plaster casts). 216 217 32. Woutherus Mol (Haarlem
1785–1857 Haarlem) The Young Draughtsman c. 1820 Oil on canvas 52.3 × 42.6 cm
provenance: A. Pluym; his sale, R.W.P. de Vries, A. Brondgeest, C.F. Roos,
Amsterdam, 24 November 1846, p. 7, no. 22; sold to Gerrit Jan Michaëlis
(1775–1856) for the Teylers Foundation (f 400,-) literature: Van Eynden and Van
der Willigen 1816–40, vol. 4, p. 244; Huebner 1942, p. 69, fig. 63; Knoef
1947b, pp. 8–10, repr.; Van Holthe tot Echten 1984, pp. 60–63, fig. 4; Jonkman
2010, p. 35; Geudeker 2010, p. 60, p. 78, fig. 74. exhibitions: Amsterdam 1822,
no. 222; Moscow and Haarlem 2013–14, p. 50 (not numbered). Teylers Museum,
Haarlem, KS 015 exhibited in haarlem only A young draughtsman sitting by
an open window is engrossed in his work. He seems to be copying the object
leaning against the wall in front of him, but whether it is a drawing or a
bas-relief is not entirely clear. The tree visible through the window and the
building beyond it stand in a garden or by a narrow canal-side street. The
colourful flowers in a vase on the windowsill bring a touch of that outside
world indoors. The leaded windows, ceiling beams, whitewashed walls and above
all the ornately carved cup- board show that this is an old Dutch interior.
Standing on the cupboard are imposing plaster casts of famous classical
statues: the Dancing Faun, the Venus de’ Medici (p. 42, fig. 56) Fig. 1.
Woutherus Mol, Painter and Draughtsman in a Studio, c. 1820, oil on canvas,
43.5 × 37 cm, present whereabouts unknown and an unidentified statue of the
Apollo Citharoedus type.1 It is difficult to make out whether the other objects
also record classical prototypes: a bas-relief, a baby’s head, a couching lion
and a vase with prominent handles. The interior is bathed in a serene calm, so
much so that the song of the little bird in the cage high up on the wall is
almost audible. One scholar recently put forward a fascinat- ing argument that
the picture is a commentary on the Classicist view of art.2 If the tree and the
bouquet of flowers are interpreted as ‘nature’, and the plaster casts as
‘classical antiquity’, then the young draughtsman is occupying a special
position, mid-way between them. According to that view of art, nature had to be
idealised with the aid of beautiful examples, and such examples were available
in abundance in classical antiquity. Statues like the Venus de’ Medici, the
Apollo Belvedere and the Dancing Faun had been for centuries part of the canon
of the most treasured sculptures. At the same time, however, Mol is remaining
true to his Dutch origins, for he has very clearly set The Young Draughtsman in
a traditional Dutch interior. A similar painting by him, Painter and
Draughtsman in a Studio (fig. 1), is again set in a typical 17th-century Dutch
space, with a wooden cross window, ‘Kussenkast’ cupboard, and a massive table
with ball feet. It too contains a prominent display of classical sculpture.3
The apprentice draughtsman is copying a plaster cast of the Dancing Faun, and
on the cupboard are casts of the same Apollo Citharoedus that we see in our
picture, a reproduction of the so-called Priestess in the Capitoline Museum,
and another of the Farnese Hercules (see p. 30, fig. 32 and cat. 7, fig. 3). Standing
beside the cupboard there is even a copy after a classical vase, probably the
famous Borghese Vase.4 Deliberately or not, the combination of classical art
and a 17th-century Dutch setting relates Mol’s two studio scenes directly to
the debate about the ‘national taste’ being con- ducted in the Netherlands
around 1800 and for some decades 218 219 thereafter. It was felt
that Dutch painting was in a deplorable state: essays were written about how
standards could be raised and competitions were held to encourage improve-
ments. Classical sculpture was regularly invoked: it was only logical that
Dutch painters were lagging behind, it was said, given the absence of classical
statues in Holland, and drawing academies should therefore acquire copies after
antique statues (see cat. 31), and so on.5 Reading between the lines, though,
one sees that the same writers were often great admirers of 17th-century Dutch
painting. The painters of that Golden Age had paid little heed to Classicist
art theory; they imitated nature and did not idealise it. Mol’s two studio
scenes contain elements that can be associated with both artistic theories. He
was very much at home in both worlds. Born in Haarlem, he had received an old-
fashioned Dutch training with the landscapist Hermanus van Brussel (1763–1815).
In 1806, however, he went to Paris, where he worked for several years, partly
as an élève in the framework of the new arts policy of King Louis Napoleon of
Holland (1778–1846), apprenticed to none other than Jacques Louis David
(1748–1825). In other words, classicist views about art were well-known to him.
33. Anonymous, Danish School, 19th century Two Artists and a Guard in the
Antique Room at Charlottenborg Palace c. 1835 Oil on canvas, 38.6 × 33.9 cm
provenance: Private collection, Denmark; Thomas Le Claire Kunsthandel, Hamburg
with Daxer & Marschall, Munich in 2003 (as Knud Andreassen Baade), from
whom acquired. literature: Zahle 2003, p. 271, fig. 117 (as Julius Friedlænder
(?)); Copenhagen 2004, pp. 110–11, no. 8, fig. 16 (as unknown artist); Fuchs
and Salling 2004, vol. 3, pp. 194–95, repr. (as unknown artist). 1 2 3 4 5 mp
Haskell and Penny 1981, respectively pp. 205–08, no. 34 (Dancing Faun), pp.
325–28, no. 88 (Venus de’ Medici). T. van Druten, in Moscow and Haarlem 2013–14,
p. 50. Mak van Waay sale, Amsterdam, 26 May 1964, lot 366. Haskell and Penny
1981, pp. 205–08, no. 34 (Dancing Faun), pp. 229–32, no. 46 (Farnese Hercules),
pp. 314–15, no. 81 (Borghese Vase). For the Priestess in the Capitoline Museum
see Stuart Jones 1912, p. 345, no. 6, pl. 86; Helbig 1963–72, vol. 2, no. 1227.
Koolhaas-Grosfeld and De Vries 1992, pp. 119, 128. exhibitions: Not previously
exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2003-028 The Antique Room of
the Copenhagen Academy of Fine Arts, housed in Charlottenborg Palace, was a
popular choice of subject for 19th-century Scandinavian art students, such as
H. D. C. Martens (1795–1864), Martinus Rørbye (1803–48) and Christian Købke
(1810–48). The Academy was founded in 1754 by King Frederik V, but an informal
art school had been established in 1740 by his predecessor, Christian VI, so
that there was already a small collection of casts for the students to study,
including one of the Laocöon, but with the older son missing.1 The Academy’s programme
was modelled on those of others across Europe, especially that in Paris, in
which plaster copies after antique models served as the basis for the
instruction of artists; in some cases casts were even valued above the
originals because they made details more readily accessible to copyists. The
expansion of the collection was primarily due to the efforts of three mem- bers
of the Academy: a professor of sculpture, Christoph Petzholdt (1708–62), who
contributed twenty-five casts and restored many others that had suffered from
being moved too often;2 the sculptor and Academy Fellow Johannes Wiedewelt
(1731–1802), who in 1758 sent three large chests of casts back to Denmark from
Rome;3 and the painter and sculptor Nicolai Abildgaard (1743–1809), who was
appointed Director in 1789 and purchased several casts, including Germanicus
and the Belvedere Torso, and the missing son of the Laocoön.4 The cast
collection focused mainly on Roman copies, and it was not until the first
decades of the 19th century that casts of Greek originals were added.5 This was
characteristic of academies across Europe, which began to recognise the value
of the Greek originals over their Roman derivations, thus diverging from
Italian academic tradition. In the painting on display, an artist in his
work-robe holds up a plumb-line to check the vertical axis of the cast that he
is sketching. He draws his copy on a sheet attached to a drawing-board that
rests on his lap, and his portfolio crammed with other drawings leans against a
stool in front of him, along with his discarded top hat and cravat. A fellow
artist considers his handiwork, but they are about to be interrupted by a
museum guard bearing a scroll. When it was acquired in 2003, this canvas was
attributed to the Norwegian artist, Knud Andreassen Baade (1808–79), whose
painting of the same room now belongs to the National Museum of Art,
Architecture and Design in Oslo (fig. 1), and also features a draughtsman at
work, holding up a stylus to check the horizontal reference line of his
subject. The depic- tion of the room in the Oslo painting, which is dated 1828,
just precedes its renovation later that year when, under the direction of the
architect C. F. Hansen (1756–1845), the walls were plastered smooth, as seen in
the painting on display here.6 A comparison of the two canvases shows the way
the room was modified to accommodate the growing collection, as casts were
shifted around according to aesthetic, thematic or chronological principles. In
the Oslo painting, the Borghese Gladiator (see p. 41, fig. 54 and cats 16,
23–24) is placed in the extreme left foreground, creating a diagonal
perspective. The same technique is used in the present painting, though it is
now a statue of Perseus that anchors the work, with his outstretched hand
grasping a missing Medusa’s head. The Perseus was created in 1801 by Antonio
Canova (1757–1822), Fig. 1. Knud Andreassen Baade, Scene from the Academy in
Copenhagen, 1828, oil on canvas, 32.4 × 23.8 cm, The National Museum of Art,
Architecture and Design, Oslo, inv. no. NG.M.01589 220 221
Fig. 2. Relief of an Eagle with a Wreath, 2nd century ad, marble, church of
Santi Apostoli, Rome who donated a cast of it to the Academy in 1804, thereby
becoming a member. Another modern sculpture hangs on the upper wall at left,
which is a roundel with an allegory of Justice, in which Nemesis reads a list
of the guilty to Jupiter, who sits in judgment. This was the work of Bertel
Thorvaldsen (1770–1844), the leading sculptor in Europe after Canova’s death,
who had been trained in the Academy.7 Also modern is the bust of Frederik V at
the end of the room by the sculptor J. F. J. Saly (1717–76).8 The remaining
casts in the room are of antique statues and reliefs, and extant inventory
lists attest to the dates of their acquisition.9 The relief of the eagle in a
wreath, after the original in the church of Santi Apostoli in Rome (fig. 2), is
displayed on the wall above a reduced copy of a frieze, taken from the
Parthenon, both of which were transferred to this southern wall as part of the
1828 reconstruction.10 Facing the viewer and leaning on a column is a
reproduction of the Marble Faun (fig. 3). This was a relatively overlooked
sculp- ture, more valued for its conjectural attribution to Praxiteles Fig. 3.
Marble Faun, Roman copy, c. 2nd century ad, after a Greek original of the 4th
century bc, marble, 170.5 cm (h), Capitoline Museums, Rome, inv. no. S.739 Fig.
4. Germanicus, Roman, c. 20 ad, after a Greek original of the 5th century bc,
marble, 180 cm (h), Louvre, Paris, inv. no. MA1207 than for its aesthetic
significance. It did not achieve world- renown until the publication of The
Marble Faun by Nathaniel Hawthorne in 1860, after which it became one of the
highlights of the Capitoline Museum.11 Behind the Faun stands a cast of
Germanicus (fig. 4), which, in contrast to the Faun, was one of the most
revered antiquities almost from its discovery in the mid-17th century.12 Casts
of it were commissioned for collections across Europe, including Florence,
Mannheim, Madrid and the Duke of Devonshire’s collection at Chatsworth in
Derbyshire. The identity of this figure is uncertain, and it has been thought
by different scholars to represent Augustus, Brutus, Mercury or an anonymous
Roman general; however, its identification as Germanicus, nephew of Tiberius,
has persisted since 1664.13 Between Perseus and the Faun is the seated figure
of Mercury, cast after the bronze original discovered in Herculan- eum in 1758
(fig. 5). It was one of the most celebrated archaeo- logical discoveries of the
18th century, and its presence is critical to the dating of the Bellinger
painting because the cast was only acquired by the Academy in 1834, thus
provid- ing a terminus post quem and supporting for it a date of c. 1835.14
This precludes the authorship of Baade, who left Copenhagen in 1829 and spent
the early 1830s travelling in his native Norway. In 1836 he followed his
mentor, the landscapist J. C. C. Dahl (1788–1857), to Germany, where he lived
until his death in 1879.15 Jan Zahle tentatively proposed that the painter was
Julius Friedlænder (1810–61),16 who is also thought to be the artist of another
painting of the Antique Room in Charlottenborg, dated 1832 (current whereabouts
unknown).17 To commemorate the 250th anniversary of the 222
223 Fig. 5. Seated Mercury, Roman copy, 1st century ad, after a Greek
original of the late 4th century or early 3rd century bc, bronze, 105 cm (h),
Museo Archeologico Nazionale, Naples, inv. NM 5625 Academy in 2004, the
Bellinger painting was presented in the accompanying exhibition catalogue as by
an unknown artist,18 and until further evidence comes to light, it is prudent
to maintain its anonymity. While the Academy continues to function, the cast
collection was relocated and dispersed several times; first in 1883, due to
lack of space, to a new building. The pieces by Thorvaldsen were transferred to
his eponymous museum, founded during his lifetime in 1839 and opened to the
public in 1848. In 1895 the rest of the collection was absorbed into the newly
created Royal Cast Collection, which shared a building with the newly founded
National Gallery of Art, in Copenhagen.19 These casts were neglected over the
subse- quent years, as interest in plaster copies waned in favour of original
and unique works of art. When the museum under- went renovations from 1966 to
1970, the majority of the casts were packed away and allowed to deteriorate.
Only in 1984, due to the combined efforts of concerned art historians,
classical archaeologists and artists, were thousands of casts rescued and
restorations begun. They were rehoused in the West India Company Warehouse,
Fig. 6. Antique Room in Charlottenborg Palace recreated in 2004, curated by
Pontus Kjerrman and Jan Zahle, with sculptor Bjørn Nørgaard originally a
storehouse for products of the slave trade, and approximately 2,000 casts can
be seen on display there. The Faun and Germanicus both belong to this
collection, while Canova’s Perseus was transferred to the Ny Carlsberg
Glyptotek. However, in 2004, as part of the anniversary exhibition, replicas of
these casts were reunited in the Antique Room of the Palace, just as seen in
numerous 19th-century paintings, such as this one. A visitor in 2004,
therefore, could stand in the very same spot as our anony- mous painter, and witness
a nearly identical scene (fig. 6). literature:None. exhibitions: Not previously
exhibited. Katrin Bellinger collection, inv. no. 1997-020 In this striking
candlelight view of a 19th-century bourgeois interior by the little-known
artist, Desflaches,1 a man examines a work of art displayed on an easel but
hidden from our view. In one hand he holds an oil lamp or candle, illuminating
the corner of the room in soft, golden light and casting strong and dramatic
shadows. It is exactly 10:30, according to the clock on the mantle, and the
visitor, proba- bly a connoisseur, has called on the artist at home, presum-
ably to inspect his latest work. He has removed his hat and cloak, placed on
the chair on the left, and with a pipe in hand, assumes a relaxed yet concentrated
stance. Viewing and producing art by candlelight is a tradition that hearkens
back to the Renaissance when artist-theorists, Leon Battista Alberti (1404–72),
Leonardo da Vinci (1452– 1519), Benvenuto Cellini (1500–71) and others, advised
students to draw sculpture by artificial light, to enhance the effects of
relief, three-dimensionality and shadow.2 Baccio Bandinelli put this concept
into practice, and drawing by candlelight was central to artistic training at
his academy (see cats 1–2). Others followed suit including Jacopo Tintoretto
and his followers who used an oil lamp when making studies after casts of
Michelangelo’s Medici tomb figures and other models ‘so that he could compose
in a powerful and solidly modelled manner by means of those strong shadows cast
by the lamp’.3 The practice of drawing after models, especially casts, at night
continued in the 17th century, as seen in Rembrandt’s small etching, Man
Drawing from a Cast, (c. 1641).4 Nocturnal viewings became common in the late
18th century; white casts were popularly studied by flickering torchlight
because it made them appear animated.5 Indeed, the spectators’ delight is
clearly evident in William Pether’s mezzotints, Three Persons Viewing the
Gladiator by Candlelight (1769) 6 and An Academy (1772; cat. 24), both after
Joseph Wright of Derby. The female model in the Bellinger painting is a reduced
plaster cast of the Crouching Venus – a Hellenistic original of which several
antique variations are known (fig. 1).7 The figure was enormously popular,
especially in the 17th and 18th centuries when many artists produced imitations
of her, the most celebrated being the marble completed in 1686 by the French
sculptor, Antoine Coysevox (1640–1720), also reproduced in bronze.8 She is
generally believed to represent Venus in, or emerging from, the bath, her head
turned sharply to the right and her arms sensuously and protec- tively crossing
her body, suggesting that her ablutions have been interrupted. In Desflaches’
canvas the Crouching Venus has been brightly lit and given primacy of place,
suggesting she may be the subject of the canvas displayed on the easel; her
animation is enhanced by the direct gaze with which she engages the viewer.
While the cast in our painting probably ultimately derives from the antique
marble in the Uffizi, it seems to have been idealised and modified, to reflect
a dis- tinctively Coysevesque sensibility, evidenced in the refined and
delicate features of her face.9 Other identifiable works in the Desflaches
composition include a second plaster cast – a male portrait bust – partly
visible on the covered table in the background, to the visitor’s right. He
probably derives from the marble head of a young man in the Museo
Pio-Clementino in the Vatican (Roman, 1st Fig. 1. Crouching Venus, Roman copy,
1st c. ad after Hellenistic original, marble, 78 cm (h), Uizi, Florence, inv.
no. 188 Zahle 2003, p. 272. For the
history of the Copenhagen Academy see Meldahl and Johansen 1904. Saabye 1980,
p. 6 and Zahle 2003, p. 272 Zahle 2003, p. 272. Jørnæs 1970, p. 52. Zahle 2003,
p. 275. Jørnæs 1970, p. 58. Helsted 1972, p. lxxxvi. Copenhagen 2004, p. 201
(S85). An inventory from 1809 is especially extensive (Fortegnelse over
Marmor-og Gibs-Figurerne, samt Receptions-Stykkerne og flere Konstsager i Den
Kongelige Maler-, Billedhugger- og Bygnings-Academie paa Charlottenborg,
partially transcribed in Zahle 2003, p. 269) and records were kept for several
years by the art historian Julius Lange (see, for example, Lange 1866).
Copenhagen 2004, p. 198 (S51) and p. 199 (S61). Haskell and Penny 1981, p. 210;
La Rocca and Parisi Presicce 2010, pp. 446–51, no. 5. Haskell and Penny 1981,
p. 219. Ibid., p. 220. Copenhagen 2004, p. 200 (S72). Thieme-Becker 1907–50,
vol. 2, p. 297. Zahle 2003, p. 271. Copenhagen 2004, p. 110, no. 7. Ibid., p.
110, no. 8. Zahle 2003, p. 278. 34. Desflaches (Christian name unknown;
probably Belgian, fl. 19th century) The Connoisseur c. 1850 Oil on canvas, 60 ×
50 cm Signed recto lower right, Desflaches provenance: Galerie Fischer-Kiener,
Paris; property of a European Foundation; their sale, Sotheby’s, New York, 26
October 1990, lot 144; Didier Aaron Inc., New York; Harry Bailey, New York;
Didier Aaron Inc., New York; Their sale, Christie’s, New York, 22 May 1997, lot
116, from whom acquired. 224 225 Fig. 2. Head of
Lucius or Gaius Caesar, or the Young Octavian (Augustus), 52 cm (h), marble,
possibly end of the 1st c. ad or later, Museo Pio-Clementino, Vatican Museums,
Rome, inv. 714 Fig. 3. Godfried Schalcken (1643–1706), An Artist and a Young
Woman by Candlelight, oil on canvas, 44 × 35 cm, private collection, New
York century ad; fig. 2).10 This bust, believed to be either one of the
brothers, Lucius or Gaius Caesar, or a rare depiction of the young Octavian before
he became Emperor Augustus in 27 bc,11 enjoyed considerable popularity and was
copied by many artists, particularly in the 19th century. Its authen- ticity
has occasionally been doubted – at one point it was even attributed to the
neo-classical sculptor, Antonio Canova (1757–1822) – but the confirmation of
its discovery by Robert Fagan in the ruins of Tor Boacciana (Ostia) in 1800–02,
supports its antique origin despite it being consid- erably reworked.12 In
addition to works deriving from antique sources are others that directly
reference Dutch art of the 17th century. Immediately behind the Crouching Venus
is what appears to be a pencil drawing after Rembrandt’s celebrated etching,
Self Portrait Leaning on a Stone Sill (1639).13 It is in the same direction as
the etching though the line is faint and the lower half of the figure, with the
distinctively posed left arm, has been omitted altogether, suggesting the
source was either a later impression of the print or a further, reduced copy of
the original. To the right of the Rembrandt, is a moonlit landscape strongly
reminiscent of the work of Aert van der Neer (1603/4–77). On the opposite wall
is a portrait of a man, possibly by, or at least in the manner of, the
portraitist and genre painter, Frans Hals (1582/83–1666). Partly obscured in
shadow below appears to be a drawing, possibly by Jan van Goyen (1596–1656), or
one of his contemporaries. As the distinctive trappings would suggest, the
artist may well be Dutch, and this is supported further by a com- parison with
a painting by Godfried Schalcken (1643–1706) in a private collection, New York
(fig. 3), which may have been known to Desflaches. A pupil of Gerrit Dou
(1613–75), Schalcken specialised in night scenes; here a man, drawing in hand,
presumably the artist, with his female pupil, points suggestively to a small
but lively model of the Crouching Venus, animatedly illuminated by an oil lamp;
clearly there is more 226 than just a drawing lesson at play here. An antique
head lies dormant, face-up on the table below. By the 19th century, the Antique
was readily available, even to amateur artists, via plaster casts, as
Desflaches’ composition suggests. Ancient sculpture could now readily be
combined with art of different types and in diverse settings, both on the
continent – seen, for instance, in the work of Woutherus Mol (cat. 32), which
also features Dutch and antique motifs – and in England (cat. 35). As the canon
became more diffuse, the standing of the Antique also declined, as other
styles, historical and modern, became increasingly more dominant as the century
progressed. The painting bears that name at lower right. In the Christie’s
catalogue, New York, 22 May 1997, lot 116, the initial of the first name is
given as ‘P’, without explanation, and the nationality, French/Belgian. A
painting attributed to the artist, Still Life with Brass Oil Lamp, Skeleton Key
and Pitcher, oil on canvas, 33 × 29.2 cm, was sold New Orleans Auction
Galleries, 20 July 2002, lot 324 (as P. Desflaches). Weil-Garris 1981, pp. 246–47,
note 39; Roman 1984, p. 83; Hegener 2008, p. 401. Ridolfi 1914, vol. 2, p. 14;
Ridolfi 1984, p. 16. White and Boon 1969, vol. 1, p. 68, no. B130, vol. 2, p.
119, repr. Borbein 2000, p. 31 (see also note 23 listing further bibliography
on night- time viewing of casts). Clayton 1990, p. 236, no. 154, P3. Haskell
and Penny 1981, pp. 321–23, no. 86, fig. 171. The authors catalogue the example
in the Uffizi, Florence, but discuss the other extant versions as well. See
Lullie 1954, pp. 10–17 and Havelock 1995, pp. 80–83. Haskell and Penny 1981,
pp. 40, fig. 22, 323. The marble version is in the Louvre and the bronze, at
Versailles (Souchal 1977–93, vol. 1, pp. 191–92). The cast in the painting
bears a striking resemblance to one preserved in the Salzburg Museum, Austria,
another idealisation of the original in the Uffizi, see
http://www.salzburgmuseum.at/972.0.html It was in the collection of the
painter, Anton Raphael Mengs (1728–79). In 1782, the Court of Saxony acquired
it, among other casts from his estate, for the Dresden Academy of Art. Spinola
1996–2004, vol. 2, pp. 131, fig. 22, 137–38, no. 123 with previous
bibliography. Spinola 1996–2004, vol. 2, p. 137. Ibid. White and Boon 1969,
vol. 1, pp. 9–10, no. B21, vol. 2, p. 10, repr. 227 35. William Daniels (Liverpool
1813–1880 Liverpool) Self-Portrait with Casts: The Image Seller c. 1850 Oil on
canvas, feigned circle, 43.3 × 43.3 cm provenance: Richard S. Timewell,
Tangier, by descent; Timewell family sale, Brissonneau & Daguerre, Paris,
15 June 2005, lot 56; W. M. Brady & Co., New York, 2005, from whom
acquired. literature: Bowyer 2013, pp. 49–50, fig. 36. exhibitions: New York
2005b, no. 13, repr.; Compton Verney and Norwich 2009–10, pp. 12–16, fig. 9, p.
98. Katrin Bellinger collection, inv. no. 2005-016 Born into a modest
working-class family in Liverpool, Daniels was apprenticed to his father, a
brick maker, loading and arranging new stock; in his spare time, he drew faces
on the bricks and carved and modelled small figures in wood and clay.1 His
artistic talents were recognised by Alexander Mosses (1793–1837), a local
painter, who encouraged him to take evening classes in drawing at the Royal
Institution in Liverpool. The young Daniels was awarded first prize for a large
study ‘in black and white’ of the Dying Gladiator ‘drawn from the round’ which,
allegedly, Mosses ‘begged ... off the lad and had ... framed’.2 Daniels later
became apprenticed to the painter but was confined to menial tasks, and could
only paint at night, slyly returning the cleaned brushes in the morning.3 The
resulting night scenes or ‘candlelight pic- tures’, primarily portraits and
genre subjects, would become his trademark and he achieved considerable local
success, exhibiting at the Liverpool Academy, Post Office Place and the Liverpool
Society of Fine Arts, and then in London at the Royal Academy in 1840, 1841 and
1846.4 He became known as the ‘Liverpool Rembrandt’ or the ‘English Rembrandt’,
according to one source reputedly quoting John Ruskin.5 Daniels also shared
with the Dutch master a life-long pre- occupation with his own image; ‘many of
his finest painting were portraits of himself’, as noted in one of his
obituaries.6 And like the youthful Rembrandt he was particularly fond of
depicting those on the fringes of society with whom he seemed to share a
certain affinity, often representing himself in the guise of the urban poor –
beggars, gypsies, brigands and others.7 Described by one biographer as ‘of
fine, manly form, very handsome’ with ‘a profusion of jet black curly hair’ and
a swarthy complexion, it was sometimes said of him that there was ‘gypsy blood
in his veins’ and that wear- ing earrings only enhanced his ‘resemblance to the
wander- ing tribe.’8 In the striking example seen here, Daniels has fashioned
himself as an Italian travelling salesman of plaster casts, a popular subject
for Victorian artists.9 With the increasing demand for images in museums,
schools and academies but also as adornments in ordinary homes, celebrated 228
sculptures from antiquity, together with portraits of modern worthies, were
mass-produced in plaster, generally in reduced form.10 The technique was simple
and inexpensive: a mixture of marl and clay was poured into a slip mould of
plaster of Paris that absorbed the water, leaving a thin layer of clay inside
the mould that could be easily removed, lightly fired, producing a brittle but
light-weight and easily portable cast.11 Favourite antique and contempo- rary
subjects – including the Farnese Hercules and the Apollo Belvedere as well as
busts of Byron, Milton, Napoleon and Queen Victoria – were now displayed and
offered for sale together.12 While English firms had been manufacturing casts
since the 18th century, the market became increasingly dominated by Italian
makers, particularly from around Lucca who organised large groups to sell their
wares on the streets of London and beyond.13 Having considerable reach through
their travels, these vendors played a seminal role in disseminating knowledge
of the iconic works of antiquity through all classes of society.14 The British
public regarded the image-makers and sellers, men and boys from forty to
fifteen with curiosity and with some suspicion.15 One of the earliest images of
them is an amusing caricature by Thomas Rowlandson (1757–1827) in the Victoria
and Albert Museum, London (c. 1799, fig. 1). Appearing dishevelled with
unbuttoned shirt and jacket, the salesman peddles his wares to an enthusiastic
family while a woman watches a peep show in the background. A slightly later
example, accompanied by the title, Very Fine. Very Cheap, was etched by John
Thomas Smith (1766–1833), known as ‘Antiquity Smith’, the writer, poet and
Keeper of Prints and Drawings at the British Museum from 1816 to 1833 (fig.
2).16 On the seller’s board, a reduced cast of the Farnese Hercules (see p. 30,
fig. 32) has been relegated to the background, obscured by a cast of a Roman
vase. With a slightly sinister glint in his eyes, this figure was included in
Smith’s Etchings of Remarkable Beggars, Itinerant Traders and other Persons,
published in London, 1815. William James Muller (1812–45) produced a more
sympathetic, even romantic portrayal of the itinerant cast seller in 1843 (fig.
3). More closely allied to the Daniels’ 229 Copyright: © Christie’s
Images Limited (2012) painting than the others, this hawker is less an object
of derision than one of wonder, even admiration.17 In the present example,
Daniels, dressed in modest work- man’s attire and silhouetted against a dark
backdrop, bal- ances on his head a board fully loaded with a casts of every
shape and size, securing it with one hand. Many were based on examples in his
own collection, probably used in his studio to prepare accessories in his
portrait commissions. Immediately recognisable in the centre right is the bust
of Shakespeare, whom Daniels particularly admired. He was said to have a deep
familiarity with the poet’s work and could identify the exact source for every
quotation, ‘without a moment’s hesitation’.18 In fact, busts of the bard are
listed in Daniel’s posthumous sale of 1880, one of which is likely to be the
example seen here.19 With the other arm, he cradles a bust of Homer, the blind
epic poet of the Iliad and the Odyssey, another favourite of Daniel’s as noted
by his biographer.20 The source for this cast was a Roman marble of the
Antonine period (138-93 ad, after a lost Hellenistic original of c. 300 bc),
probably the version preserved in the Museo Archeo- logico Nazionale di Napoli
(fig. 4).21 Known in several variants after the same lost Greek original, this
is arguably the most celebrated image of Homer from antiquity and was used by
many artists; arguably the most famous example is Rembrandt’s Aristotle with a
Bust of Homer which passed through various English private collections in the
19th century (now Metropolitan Museum of Art, New York), and 230 which Daniels
was probably referencing, reinforcing his association with both poet and
artist.22 The other casts on the tray in the painting appear to reproduce a
mixture of English and French works of the mid- to late 18th and 19th century.
They include the brightly coloured parrot, probably based on a Staffordshire
porcelain example, c. 1850, after a Meissen original of the 18th century, and
the hooded figure on the front left, possibly an adapta- tion of ‘La Nourrice’
(Nurse and Child) modelled by Joseph Willems at Chelsea (c. 1752–58), after a
French terracotta original of the 17th century.23 Popular images of the three
Fig. 4. Bust of Homer, marble, 72 cm (h), Roman Antonine period after a lost
Hellenistic original of c. 300 bc, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, inv.
6023 theological virtues, Faith, Hope and Charity, made by the Wood family at
Burslem in Staffordshire, 1800–10, appear to be the inspiration behind some of
the other figures on the tray: Hope at the far right, seen in profile with
hands clasped; Faith, directly behind the parrot; and Charity, seen from the
back, behind the Nurse and Child.24 It has also been suggested that the bust of
a boy seen from the back, directly above Daniels’ right hand, might be
Alexandre Brongniart (1777) by Jean-Antoine Houdon (1741–1828), known in
examples in marble, terracotta, bronze, plaster and biscuit porcelain.25
Daniels appears to be between thirty-five and forty years old in this painting,
slightly older than his self-portrait at the easel of c. 1845 in the Walker Art
Gallery, Liverpool (fig. 5); a completion date of around 1850 therefore seems
likely.26 The theme of the cast vendor clearly intrigued Daniels for he would
return to it again about twenty years later. In An Italian Image Seller (1870;
Walker Art Gallery, Liverpool; fig. 6), the protagonist (probably Daniels
again) rests on the wall of an 27 English country lane. The tray is no longer
present but on the ground to his right are two casts, one, a Mercury, the
other, the nymph, Clytie (sometimes identified as Antonia, daughter of Mark
Antony and mother of the Emperor Claudius). The marble original of the nymph,
acquired in Naples by the Grand Tour collector, Charles Townley (1737– 1805)
and reportedly his favourite, is now in the British Museum.28 Copies of the
popular statue were made in porce- lain by the firm Copeland from 1855 and it
has been suggested that Daniels based his depiction on one of them.29 Daniels
certainly owned a copy of the Clytie and other busts after the Antique
including a Jupiter, Apollo, Diana and Laocoön, ‘which he treated with almost
reverential admiration’.30 As Daniels’ Image Seller shows, by the mid-19th
century iconic antique statues, once rarefied models of ideal beauty, were now
commercialised and readily available on the open Fig. 5. William Daniels,
Self-Portrait, c. 1845, oil on canvas, 91.5 × 71.7 cm, Walker Art Gallery,
Liverpool, WAG 1724 Fig. 6. William Daniels, An Italian Image Seller, 1870, oil
on canvas, 80 × 63.5 cm, Walker Art Gallery, Liverpool, WAG 3114 market through
mass-produced casts. While the Antique continued to be central to the education
of artists both in the studio and in the academy, it became an ubiquitous
presence in the home, especially in middle-class interiors where reductions of
famous statues were displayed alongside works from other periods, sometimes
even assuming a secondary role to them. The amalgamation of styles and
influences, in which Ancient, Byzantine, Gothic, Renaissance and Modern were
placed on equal footing, was, by the mid-19th century, the result of an
historicist aesthetic in which the Antique had become just one of the possible
artistic references, thus losing its canonical status and aesthetic
primacy. Rowlandson, An Image Seller, c. 1799, watercolour, 326 × 264 mm,
Victoria and Albert Museum, London, no. 1820-1900 Fig. 2. John Thomas Smith,
Very Fine. Very Cheap, c. 1815, etching, 192 × 114 mm (plate); 267 × 185 mm
(sheet), from Etchings of Remarkable Beggars, Itinerant Traders and other
Persons, published in London, 31 December 1815, National Portrait Gallery,
London, Reference collection D40098 Fig. 3. William James Muller, The Plaster
Figure Seller, oil on canvas, 82.5 × 52.1 cm, sold Christie’s, London, 6
November 2012, lot 333. avl An extensive tribute to Daniels was published
anonymously in serial form in the Liverpool Lantern (1880), by his friend, K.
C. Spier, editor of the paper. It may be consulted at:
http://art-science.com/WDaniels/LLessay.html where the artist’s obituaries and
private letters and notes also are transcribed, some of which are referred to
in Spier’s essay (cited here as Spier 1880). For other accounts of his life and
work, see Tirebuck 1879; The Magazine of Art, 5, June 1882, pp. 341–43; Marillier
1904, pp. 95–98; Thieme- Becker 1907–50, vol. 8, pp. 362–63; Fastnege 1951;
Bennett 1978, vol. 1, p. 79. Spier 1880, chapter 4. The drawing, presumably
after a cast of the famous sculpture in the Capitoline Museum, Rome (see cat.
20, fig. 2) remains untraced. Spier 1880, chapter 4. Marillier 1904, pp. 96–97;
Fastnege 1951, p. 80; Bennett 1978, vol. 1, p. 79. Obituary, Liverpool Journal,
16 October 1880; Liverpool Mercury 15 April 1884; Daily Post Liverpool, June
1908. Liverpool Journal, 16 October 1880. Representations of the urban poor in
British art was an increasingly popu- lar genre from around the mid-18th
century onwards. See Hansen 2010. Spier 1880, chapter 5. Lambourne 1982;
Compton Verney and Norwich 2009–10, p. 13. For the history and use of casts,
see Borbein 2000. For a translation in English by Bernard Fischer, see
http://www.digitalsculpture.org/casts/ borbein/index.html For British cast
makers and/or sellers in the 18th to early 19th c., see Clifford 1992 and for
the 19th c., Haskell and Penny 1981, pp. 117–24; Lambourne 1982; and Simon
2011. Lambourne 1982, p. 119. Ibid. Clifford 1992; Simon 2011. Lambourne 1982,
p. 121. Simon 2011 [unpaginated]. Ibid., fig. 3. For other images of the
subject, see Lambourne 1982, pp. 118–23, figs 1–10. Spier 1880, chapter 2; New
York 2005b, under no. 13. Walker & Ackerley, Liverpool, 6 December 1880,
discussed in in Spier 1880, chapter 24. The present writer has not been able to
locate a copy of this catalogue. Spier 1880, chapter 2. Richter 1965, vol. 1,
p. 50, no. IV, no. 7, figs 70–72; Gasparri 2009–10, vol. 2, pp. 15–16, no. 2
(M. Caso), pl. II, 1–4. Liedtke 2007, vol. 2, pp. 629–54, no. 151. Kindly
pointed out by Paul Crane (personal communication), who notes the following
example: Melbourne 1984–85, no. 56. As noted further by Paul Crane, who points
out their similarity to examples sold at Sotheby’s, New York, 15 April 1996,
lot 73 (personal communication). According to George Shackelford (personal
communication). See Washington D.C., Los Angeles and elsewhere 2003-04, pp.
127–32, no. 15 (G. Scherf). Bennett 1978, vol. 1, p. 80, no. 1724, vol. 2, p.
129; New York 2005b, under no. 13. Bennett 1978, vol. 1, p. 83, no. 3114, vol.
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83. Spier 1880, chapter 17. 231 abbreviations L. — F. Lugt,
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Medici, Groeningemuseum, Bruges (eds A. Baroni and M. Sellink), 2008–09
(published 2012). Brussels 2004 — Old Master Drawings. Organization of Antique
Fairs, Gallery Kekko, Thurn and Taxis, Brussels, 2004. Brussels 2007–08 — Alle wegen
leiden naar Rome. Reizende kunstenaars van de 16de tot de 19de eeuw,
Gemeentelijk Museum van Elsene, Brussels (D. Vautier), 2007–08 (no catalogue).
Brussels and Rome 1995 — Fiamminghi a Roma 1508–1608. Artisti dei Paesi Bassi e
del Principato di Liegi a Roma durante il Rinascimento, Palais des Beaux-Arts,
Brussels; Palazzo delle Esposizioni, Rome (eds N. Dacos and B. W. Meijer),
1995. Cambridge 1988 — Baccio Bandinelli 1493–1560: Drawings from British
Collections, Fitzwilliam Museum, Cambridge (R. Ward), 1988. Chicago 2007–08 —
The Virtual Tourist in Renaissance Rome: Printing and Collecting the ‘Speculum
Romanae Magnificentiae’, Special Collections Research Center, University of
Chicago (eds R. Zorach et al.), 2007–08. Choisel 1986 — Un Grand Collectionneur
sous Louis XV: Le cabinet de Jacques-Laure de Breteuil, Bailli de l’Ordre de
Malta 1723–1785, Château de Breteuil, Choisel, 1986. Cologne 1977 — Peter Paul
Rubens, 1577–1640, Museen der Stadt, Cologne, 1977. Cologne and Utrecht 1991–92
— I Bamboccianti: niederländische Malerrebellen im Rom des Barock,
Wallraf-Richartz-Museum, Cologne; Centraal Museum, Utrecht (eds D.A. Levine and
E. Mai), 1991–92. Compton Verney and Norwich 2009–10 — The Artist’s Studio,
Compton Verney and Sainsbury Centre for Visual Arts, Norwich (ed. G.
Waterfield), 2009–10. Copenhagen 1973 — ‘Maegtige Schweiz’. Inspirationer fra
Schweiz. 1750–1850, Thorvaldsens Museum, Copenhagen, 1973. Copenhagen 2004 —
Spejlinger i Gips, Det Kongelige Danske Kunstakademi, Copenhagen (eds P.
Kjerrman et al.), 2004. Derby 1997 — Joseph Wright of Derby: 1734–1797, Derby
Museum & Art Gallery (J. Wallis), 1997. Doha 2011 — The Golden Age of Dutch
Painting: Masterpieces from the Rijksmuseum Amsterdam, Museum of Islamic Art,
Doha, 2011 (no catalogue). Dordrecht 2012–13 — Portret in portret in de
Nederlandse kunst 1550–2012, Dordrechts Museum (S. Craft-Giepmans and A. de
Vries), 2012–13. Edinburgh 2002 — Rubens Drawing on Italy, National Gallery of
Scotland, Edinburgh (J. Wood), 2002. Essen 1992 — London World-City, 1800–1840,
Villa Hügel, Essen (ed. C. Fox), 1992. Florence 1980 — Il primato del Disegno,
Palazzo Strozzi, Florence (ed. L. Berti), vol. 4 of the exhibition Firenze e la
Toscana dei Medici nell’Europa del Cinquecento, 4 vols, 1980. Florence 1987 —
Michelangelo e l’arte classica, Casa Buonarroti, Florence (eds G. Agosti and V.
Farinella), 1987. Florence 1992 — Il Giardino di San Marco. Maestri e compagni
del giovane Michelangelo, Casa Buonarroti, Florence (ed. P. Barocchi), 1992.
Florence 1999-2000 — Giovinezza di Michelangelo, Palazzo Vecchio and Casa
Buonarroti, Florence (eds K. Weil-Garris Brandt et al.), 1999–2000. Florence
2002 — Venere e amore: Michelangelo e la nuova bellezza ideale, Gallerie
dell’Accademia, Florence (eds F. Falletti and J. Katz Nelson), 2002. Florence
2008 — Fiamminghi e Olandesi a Firenze. Disegni dalle collezioni degli Uffizi,
Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Florence (eds W. Kloek and B. W.
Meijer), 2008. Florence 2014 — Baccio Bandinelli: scultore maestro (1493–1560),
Museo Nazionale del Bargello, Florence (eds D. Heikamp and B. P. Strozzi),
2014. Geneva 1978 — Johann Heinrich Füssli, Musée d’Art et d’Histoire, Musée
Rath Genève, Geneva, 1978. Göttingen 2012–13 — Abgekupfert. Roms Antiken in den
Reproduktionsmedien der Frühen Neuzeit, Kunstsammlung und Sammlung der
Gipsabgüsse, Universität Göttingen (eds M. Luchterhandt et al.), 2012–13.
Göttingen 2013–14 — Roms Antiken in den Reproduktionsmedien der frühen Neuzeit,
Kunstsammlung und Sammlung der Gipsabgüsse, University of Göttingen (eds M.
Luchterhandt et al.), 2013–14. Haarlem 1972 — Wybrand Hendriks 1744–1831. Keuze
uit zijn schilderijen en tekeningen, Teylers Museum, Haarlem (I. Q. van
Regteren Altena, J. H. van Borssum Buisman and C. J. de Bruyn Kops), 1972.
Haarlem 1990 — Augustijn Claterbos 1750–1828. Opleiding en werk van een
Haarlems kunstenaar, Teylers Museum, Haarlem (B. Sliggers), 1990. Haarlem and
London 2005–06 — Michelangelo Drawings: Closer to the Master, Teylers Museum,
Haarlem; British Museum, London (ed. H. Chapman), 2005–06. Haarlem, Zurich and
elsewhere 2006–07 — Nicolaes Berchem. Im Licht Italiens, The Frans Hals Museum,
Haarlem; The Kunsthaus, Zürich; The Staatliches Museum Schwerin (P. Biesboer et
al.), 2006–07. Hamburg 1974–75 — Johann Heinrich Füssli. 1741–1825, Hamburger
Kunshalle, Hamburg (ed. W. Hofmann), Munich, 1974–75. Hamburg 2002 — Die Masken
der Schönheit. Hendrick Goltzius und das Kunstideal um 1600, Hamburger
Kunsthalle, Hamburg (eds J. Müller et al.), 2002. Hannover 1999 — Künstler, Händler,
Sammler: zum Kunstbetrieb in den Niederlanden im 17. Jahrhundert,
Niedersächsischen Landesmuseum, Hanover (U. Wegener), 1999. Harvard and
Evanston 2011–12 — Prints and the Pursuit of Knowledge in Early Modern Europe,
Harvard Art Museums, Cambridge (MA); Mary and Leigh Block Museum of Art,
Evanston (IL) (ed. S. Dackerman), 2011–12. Heidelberg 1982 — 100 unbekannte
Zeichnungen und Aquarelle des 16.-18. Jahrhunderts, Kurpfälzisches Museum,
Heidelberg (S. Wechssler), 1982. Houston and Ithaca 2005–06 — A Portrait of the
Artist 1525–1825. Prints from the Collection of the Sarah Campbell Blaffer
Foundation, Museum of Fine Arts, Houston; Herbert F. Johnson Museum of Art,
Cornell University, Ithaca (NY) (ed. J. Clifton), 2005–06. King’s Lynn 1985 —
French Drawings of the 17th and 18th Century, Fermoy Gallery, Guildhall of St
George, King’s Lynn (ed. G. Agnew), 1985. Liverpool 1994–95 — Face to Face:
Three Centuries of Artists’ Self-Portraiture, Walker Art Gallery, Liverpool (X.
Brooke), 1994–95. Liverpool 2007 — Joseph Wright of Derby in Liverpool, Walker
Art Gallery, Liverpool (eds E. E. Barker and A. Kidson), 2007. London 1836 —
The Lawrence Gallery, One Hundred Original Drawings by Zucchero, Andrea del
Sarto, Polidore da Caravaggio and Fra Bartolomeo Collected by Sir Thomas
Lawrence, Late President of the Royal Academy, London, 1836. London 1947 —
Dutch Conversation Pieces of the 18th & 19th Centuries, The Allied Circle,
London, 1947. London 1950 — French Master Drawings of the 18th Century,
Matthiesen Gallery, London, 1950. London 1953 — Drawings by Old Masters, Royal
Academy of Arts, London (K. T. Parker and J. Byam Shaw), 1953. London 1955 — A
Loan Exhibition: Artists in 17th century Rome: to Save Gosfield Hall for the
Nation as a Residential Nursing Home . . . , Wildenstein & Co., London (D.
Mahon and D. Sutton), 1955. London 1962 — A Selection of Drawings from the Witt
Collection: French Drawings, c. 1600–c. 1800, Courtauld Institute Galleries,
London, 1962. London 1963 — Treasures of the Royal Academy, Royal Academy of
Arts, London, 1963. London 1968a — France in the Eighteenth Century, Royal
Academy of Arts, London (ed. P. Sutton), 1968. London 1968b — Royal Academy of
Arts Bicentenary Exhibition, Royal Academy of Arts, London, 1968. London 1969 —
Royal Academy Draughtsmen, 1769–1969, Royal Academy of Arts, London (A.
Wilton), 1969. London 1971 — Art into Art: Works of Art as a Source of
Inspiration, Sotheby’s, London (ed. K. Roberts), 1971. London 1972 — The Age of
Neo-Classicism, The Royal Academy of Arts and The Victoria and Albert Museum,
London, 1972. London 1975 — Henry Fuseli. 1741–1825, Tate Gallery, London,
1975. London 1977 — Rubens. Drawings and Sketches, British Museum, London (ed.
J. Rowlands), 1977. London 1983 — Bartolomeo Cavaceppi: Eighteenth-century
Restorations of Ancient Marble Sculpture from English Private Collections, The
Clarendon Gallery Ltd., London (C. A. Picón), 1983. London 1986 — Florentine
Drawings of the Sixteenth Century, British Museum, London (N. Turner), 1986.
London 1990 — Wright of Derby, Tate Gallery, London (ed. J. Egerton), 1990.
London 1991 — French drawings, XVI–XIX centuries, Courtauld Institute
Galleries, London (eds G. Kennedy and A. Thackray), 1991. London 1992 —
Drawings Related to Sculpture, 1520–1620, Katrin Bellinger at Harari &
Johns, London, 1992. London 1995 — Prints and Drawings, Recent acquisitions
1991–1995, British Museum, London, 1995 (no catalogue). London 1997 — British
Watercolours from the Oppé Collection, Tate Gallery, London (A. Lyles and R. Hamlyn),
1997. London 1999a — John Soane Architect. Master of Space and Light, Royal
Academy, London (eds M. Richardson and M. Stevens), 1999. London 1999b —
Portraits of Artists and Related Subjects, Trinity Fine Art, London, 1999.
London 2000 — A Noble Art: Amateur Artists and Drawing Masters c. 1600–1800,
British Museum, London (K. Sloan), 2000. London 2001 — Marble Mania. Sculpture
Galleries in England, 1640–1840, Sir John Soane’s Museum, London (R. Guilding),
2001. London 2001–02 — The Print in Italy 1550–1620, British Museum, London (M.
Bury), 2001–02. London 2003a — Artists by Artists, Chaucer Fine Arts Inc.,
London, 2003. London 2003b — The Museum of the Mind. Art and Memory in World
Cultures, British Museum, London (J. Mack), 2003. London 2005–06 — Rubens: A
Master in the Making, National Gallery, London (eds D. Jaffé and E. McGrath),
2005–06. London 2007–08 — The Artist in Art, Colnaghi in association with
Emanuel von Baeyer, London, 2007–08. London 2009–10 — Rubens Drawings, British
Museum, Department of Prints and Drawings, London, 2009–10 (no catalogue).
London 2011 — Art School Drawings from the 19th Century, Victoria and Albert
Museum, London, 2011 (no catalogue). London 2011–12 — Leonardo da Vinci.
Painter at the Court of Milan, National Gallery, London (ed. L. Syson with L.
Keith), 2011–12. London 2013–14 — The Male Nude. Eighteenth-Century Drawings
from the Paris Academy, Wallace Collection, London (eds E. Brugerolles et al.),
2013–14. London 2014 — Diverse Maniere: Piranesi, Fantasy and Excess, Sir John
Soane’s Museum, London (ed. A. Lowe), 2014. London and Florence 2010–11 — Fra
Angelico to Leonardo. Italian Renaissance Drawings, British Museum, London;
Galleria degli Uffizi, Florence (eds H. Chapman and M. Faietti), 2010–11.
London and New York 1992 — Andrea Mantegna, Royal Academy of Arts, London;
Metropolitan Museum of Art, New York (ed. J. Martineau), 1992. London and New
York 2012–13 — Master Drawings from the Courtauld Galleries, The Courtauld
Gallery, London; The Frick Collection, New York (eds C. B. Bailey and S. Buck),
2012–13. London and Rome 1996–97 — Grand Tour. The Lure of Italy in the
Eighteenth Century, Tate Gallery, London; Palazzo delle Esposizioni, Rome (eds
A. Wilton and I. Bignamini), 1996–97. London, Warwick and elsewhere 1997–98 —
The Quick and the Dead: Artists and Anatomy, Royal College of Art, London; Mead
Gallery, Warwick Arts Centre; Leeds City Art Gallery (D. Petherbridge and L.
Jordanova), 1997–98. London, York and elsewhere 1953 — Drawings from the Robert
Witt Collection at the Courtauld Institute of Art, London, Courtauld Institute
of Art, London; York City Art Gallery; Peterborough Art Gallery, 1953. Los
Angeles 1961 — French Masters: Rococo to Romanticism, University of California,
Los Angeles, 1961. Los Angeles 1999 — The Early Life of Taddeo Zuccaro, The J.
Paul Getty Museum, Los Angeles (A. V. Lauder; no catalogue), 1999. Los Angeles
2000 — Making a Prince’s Museum: Drawings for the Late-Eighteenth-century
Redecoration of the Villa Borghese, Getty Research Institute, Los Angeles (C.
Paul), 2000. Los Angeles 2007–08 — Taddeo and Federico Zuccaro. Artist-Brothers
in Renaissance Rome, J. Paul Getty Museum, Los Angeles (ed. J. Brooks),
2007–08. Los Angeles, Austin and elsewhere 1976–77 — Women Artists, 1550–1950,
Los Angeles County Museum of Art; University Art Museum, The University of
Texas at Austin; Museum of Art, Carnegie Institute, Pittsburgh; The Brooklyn
Museum (A. Sutherland Harris and L. Nochlin), 1976–77. Los Angeles,
Philadelphia and elsewhere 1993–94 — Visions of Antiquity. Neoclassical Figure
Drawings, Los Angeles County Museum of Art; Philadelphia Museum of Art;
Minneapolis Institute of Arts (ed. R. J. Campbell), 1993–94. Los Angeles,
Toledo and elsewhere 1988–89 — Mannerist Prints: International Style in the Sixteenth
Century, The Los Angeles County Museum of Art; The Toledo Museum of Art; John
and Mable Ringling Museum of Art, Sarasota; Arthur M. Huntington Art Gallery,
University of Texas at Austin; The Baltimore Museum of Art (B. Davis), 1988–89.
Lyon 1998–99 — La fascination de l’antique: 1700-1770. Rome découverte, Rome
inventée, Musée de la civilisation gallo-romaine, Lyon (eds F. De Polignac and
J. Raspi Serra), 1998–99. Mantua and Vienna 1999 — Roma e lo stile classico di
Raffaello, 1515–1527, Palazzo Te, Mantua; Graphische Sammlung Albertina, Vienna
(eds A. Oberhuber and A. Gnann), 1999. Marseille 2001 — Maurice et Pauline
Feuillet de Borsat collectionneurs. Dessins français et étrangers du XVIIe au
XIXe siècle, Château Borély, Marseille (M. Roland Michel), 2001. 250 251
Melbourne 1984 — Flowers and Fables. A Survey of Chelsea Porcelain 1745–69,
National Gallery of Victoria, Melbourne (M. Legge), 1984. Milan 1951 — Mostra
del Caravaggio e dei Caravaggeshi, Palazzo Reale, Milan (R. Longhi), 1951. Milan
1977–78 — Johann Heinrich Füssli. Disegni e dipinti, Museo Poldi-Pezzoli, Milan
(ed. L. Vitali), 1977–78. Milan 2007–08 — Leonardo. Dagli studi di proporzioni
al trattato della pittura, Castello Sforzesco, Milan (eds P. C. Marani and M.
T. Fiorio), 2007–08. Milan 2013 — La Biblioteca delle meraviglie: 400 anni di
Ambrosiana, Biblioteca Ambrosiana, Milan (eds C. Continisio, M. L. Frosio and
E. Riva), 2013. Montreal 1992 — The Genius of the Sculptor in Michelangelo’s
Work, The Montreal Museum of Fine Arts (P. Théberge), 1992. Moscow and Haarlem
2013–14 — De romantische ziel. Schilderkunst uit de Nederlandse en Russische
romantiek, The Tretjakov Gallery, Moscow; Teylers Museum, Haarlem (T. van
Druten and L. Markina), 2013–14. Munich 1979–80 — Zwei Jahrhunderte englische
Malerei. Britische Kunst und Europa 1680 bis 1880, Haus der Kunst, Munich,
1979–80. Munich 2013–14 — In the Temple of the Self. The Artist’s Residence as
a Total Work of Art, Villa Stuck, Munich (eds M. Brandhuber and M. Buhrs),
2013–14. Munich and Cologne 2002 — Wettstreit der Künste: Malerei und Skulptur
von Dürer bis Daumier, Haus der Kunst, Munich;
Wallraf-Richartz-Museum-Fondation Corboud, Cologne (eds E. Mai and K.
Wettengl), 2002. Munich and Haarlem 1986 — Op zoek naar de Gouden Eeuw: Nederlandse
schilderkunst 1800–1850, Neue Pinakothek, Munich; Frans Hals Museum, Haarlem
(L. van Tilborgh and G. Jansen), 1986. Munich and Rome 1998–99 — Der Torso.
Ruhm und Rätsel / Il Torso del Belvedere. Da Aiace a Rodin, Glyptothek, Munich;
Musei Vaticani, Rome (ed. R. Wünsche), 1998–99. Münster 1976 — Bilder nach
Bilder. Druckgrafik und die Vermittlung von Kunst, Westfälisches Landesmuseum
für Kunst und Kulturgeschichte Münster, Münster (G. Langemeyer and R.
Schleier), 1976. Naples 2008 — Salvator Rosa: tra mito e magia, Museo di
Capodimonte, Naples (eds A. B. de Lavergnée and S. Bellesi), 2008. New Haven
and London 2011–12 — Johan Zoffany, RA: Society Observed, Yale Center for
British Art, New Haven; Royal Academy of Arts, London (ed. M. Postle), 2011–12.
New York 1954 — Fuseli Drawings, a Loan Exhibition, organized by the Pro
Helvetia Foundation and circulated by the Smithsonian Institution, Pierpont
Morgan Library, New York, 1954. New York 1988 — Creative Copies. Interpretative
Drawings from Michelangelo to Picasso, The Drawing Center, New York (E.
Haverkamp-Begemann and C. Logan), 1988. New York 2005a — Peter Paul Rubens. The
Drawings, Metropolitan Museum of Art, New York (ed. A.-M. Logan with M. Plomp),
2005 New York 2005b — Pictures & Oil Sketches 1775–1920, W. M. Brady &
Co., New York, 2005. New York 2012–13 — Bernini: Sculpting in Clay,
Metropolitan Museum of Art, New York (eds C. D. Dickerson et al.), 2012–13.
Nottingham and London 1983 — Drawing in the Italian Renaissance Workshop,
University Art Gallery, Nottingham; Victoria and Albert Museum, London (F.
Ames-Lewis and J. Wright), 1983. Nottingham and London 1991 — The Artist’s
Model: Its Role in British Art from Lely to Etty, University Art Gallery,
Nottingham; The Iveagh Bequest, Kenwood, London (I. Bignamini and M. Postle),
1991. Ottawa and Caen 2011–12 — Drawn to Art. French Artists and Art Lovers in
18th-century Rome, National Gallery of Canada, Ottawa; Musée des beaux-arts de
Caen (ed. S. Couturier), 2011–12. Ottawa, Vancouver and elsewhere 1996–97 — The
Ingenious Machine of Nature: Four Centuries of Art and Anatomy, National
Gallery of Canada, Ottawa; Vancouver Art Gallery; The Philadelphia Museum of
Art; The Israel Museum, Jerusalem (M. Cazort, M. Kornell and K. B. Roberts),
1996–97. Ottawa, Washington D.C. and elsewhere 2003–04 — The Age of Watteau,
Chardin, and Fragonard: Masterpieces of French Genre Painting, National Gallery
of Canada, Ottawa; National Gallery of Art, Washington, D.C.; Staatliche Museen
zu Berlin, Gemäldegalerie (ed. C. Bailey), 2003–04. Oxford and New Haven
2012–13 — The English Prize. The Capture of the Westmoreland. An Episode of the
Grand Tour, The Ashmolean Museum, Oxford; Yale Center for British Art, New
Haven (eds M. D. Sánchez-Jáuregui and S. Wilcox), 2012–13. Paris 1922 —
Exposition Hubert Robert et Louis Moreau: au bénénfice du foyer des Infirmières
de la Croix-Rouge et des infirmières visiteuses, Galeries Jean Charpentier,
Paris, 1922. Paris 1933 — Exposition Hubert Robert A l’occasion du Deuxième
Centenaire de sa Naissance, Musée de l’Orangerie, Paris (L. Hautecoeur et al.),
1933. Paris 1975 — Füssli, Musée du Petit Palais, Paris, 1975. Paris 1989 —
Maîtres français, 1550–1800: dessins de la donation Mathias Polakovits à
l’Ecole des beaux-arts, École nationale supérieure des beaux-arts, Paris (eds
B. de Bayser et al.), 1989. Paris 1996 — Pisanello. Le peintre aux sept vertus,
Musée du Louvre, Paris (ed. D. Cordellier), 1996. Paris 2000–01 — D’après
l’antique, Musée du Louvre, Paris (eds J. P. Cuzin, J. R. Gaborit and A. Pasquier),
2000–01. Paris 2003 — A. & D. Martinez, Estampes Anciennes & Modernes.
A Collectionner, cat. no. VIII, Paris, 2003. Paris 2008 — L’Âge d’or du
romantisme allemand, aquarelles et dessins è l’époque de Goethe, Musée de la
Vie Romantique, Paris, (ed. H. Sieveking), Paris, 2008. Paris 2008–09a —
Figures du corps: une leçon d’anatomie à l’École des beaux-arts, École
nationale supérieure des beaux-arts, Paris (ed. P. Comar), 2008–09. Paris
2008–09b — Mantegna 1431–1506, Musée du Louvre, Paris (eds G. Agosti and D.
Thiébaut), 2008–09. Paris 2009–10 — L’Académie mise à nu: l’école du modèle à
l’Académie royale de peinture et de sculpture, École nationale supérieure des
beaux-arts, Paris (ed. E. Brugerolles), 2009–10. Paris 2010–11 — Musées de
papier: l’antiquité en livres, 1600-1800, Musée du Louvre, Paris (eds É.
Décultot, G. Bickendorf and V. Kockel), 2010–11. Paris, Ottawa and elsewhere
1994–95 — Egyptomania: l’Egypte dans l’Art occidental, 1730–1930, Musée du
Louvre, Paris; National Gallery of Canada, Ottawa; Kunsthistorisches Museum,
Vienna (eds J. M. Humbert, M. Pantazzi and C. Ziegler), 1994–95. Philadelphia
1980–81 — A Scholar Collects: Selections from the Anthony Morris Clark Bequest,
Philadelphia Museum of Art (eds U. W. Hiesinger and A. Percy), 1980–81.
Philadelphia and Houston 2000 — Art in Rome in the Eighteenth Century,
Philadelphia Museum of Art; Museum of Fine Arts, Houston (eds E. P. Bowron and
J. J. Rishel), 2000. Princeton 1977 — Eighteenth-century French Life Drawing:
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University (ed. J. H. Rubin), 1977. Princeton, Cleveland and elsewhere 1981–82
— Drawings by Gianlorenzo Bernini from the Museum der Bildenden Künste Leipzig,
German Democratic Republic, The Art Museum, Princeton; Cleveland Museum of Art;
Los Angeles County Museum of Art; Kimbell Art Museum, Fort Worth; Indianapolis
Museum of Art; Museum of Fine Arts, Boston (ed. I. Lavin), 1981–82.
Recklinghausen 1964 — Torso: das Unvollendete als künstlerische Form, Städtische
Kunsthalle, Recklinghausen, 1964. Rome 1958–59 — Michael Sweerts e i
bamboccianti, Palazzo Venezia, Rome (E. Lavagnino et al.), 1958–59. Rome 1968 —
Accademia Nazionale di San Luca. Mostra di Antichi Dipinti Restaurati delle
Raccolte Accademiche, Palazzo Carpegna, Rome (I. Faldi), 1968. Rome 1981–82 —
David e Roma, Villa Medici, Rome, 1981–82. Rome 1986–87 — Rilievi storici
Capitolini: il restauro dei pannelli di Adriano e di Marco Aurelio nel Palazzo
dei Conservatori, Musei Capitolini, Rome (ed. E. La Rocca), 1986–87. Rome 1988a
— Da Pisanello alla nascita dei Musei Capitolini. L’Antico a Roma all vigilia
del Rinascimento, Musei Capitolini, Rome (eds A. Cavallaro and E. Parlato),
1988. Rome 1988b — La Colonna Traiana e gli artisti francesi da Luigi XIV a
Napoleone I, Accademia di Francia a Roma (ed. P. Morel), 1988. Rome 1990–91 —
J. H. Fragonard e H. Robert a Roma, Villa Medici, Rome (eds C. Boulot et al.),
1990–91. Rome 1992–93 — La Collezione Boncompagni Ludovisi: Algardi, Bernini e
la fortuna dell’antico, Palazzo Ruspoli, Rome (ed. A. Giuliano), 1992–93. Rome
1994 — Bartolomeo Cavaceppi scultore romano (1717–1799), Museo del Palazzo di
Venezia, Rome, (M. G. Barberini and C. Gasparri), 1994. Rome 1997–98 — Pietro
da Cortona e il disegno, Istituto nazionale per la grafica, Accademia nazionale
di San Luca, Rome (ed. S. Prosperi Valenti Rodino), 1997–98. Rome 2000a —
Intorno a Poussin. Ideale classico e epopea barocca tra Parigi e Roma,
Accademia di Francia, Rome (eds O. Bonfait and J.-C. Boyer), 2000. Rome 2000b —
L’idea del bello: viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori,
Palazzo delle Esposizioni, Rome (eds E. Borea and C. Gasparri), 2 vols, 2000.
Rome 2000c — Raffaello da Firenze a Roma, Galleria Borghese, Rome (ed. A.
Coliva), 2000. Rome 2001–02 — I Giustiniani e l’antico, Palazzo Fontana di
Trevi, Rome (G. Fusconi), 2001–02. Rome 2004 — La Collezione del Principe. Da
Leonardo a Goya. Disegni e stampe della raccolta Corsini, Istituto Nazionale
per la Grafica, Rome (eds E. Antetomaso and G. Mariani), 2004. Rome 2005 — La
Roma di Leon Battista Alberti. Umanisti, architetti e artisti alla scoperta
dell’antico nella città del Quattrocento, Musei Capitolini, Rome (ed. F. P.
Fiore), 2005. Rome 2005–06 — Il Settecento a Roma, Palazzo Venezia, Rome (eds
A. Lo Bianco and A. Negro), 2005–06. Rome 2006–07 — Laocoonte: Alle origini dei
Musei Vaticani, Musei Vaticani, Vatican, Rome (eds F. Buranelli et al.),
2006–07. Rome 2007 — Dürer e l’Italia, Scuderie del Quirinale, Rome (ed. K.
Hermann Fiore), 2007. Rome 2008 — Ricordi dell’antico: sculture, porcellane e
arredi del Grand Tour, Musei Capitolini, Rome (eds A. D’Agliano and L.
Melegati), 2008. Rome 2010–11a — Palazzo Farnèse. Dalle collezioni
rinascimentali ad Ambasciata di Francia, Palazzo Farnese, Rome (ed. F.
Buranelli), 2010–11. Rome 2010–11b — Roma e l’Antico. Realtà e visione nel
‘700, Fondazione Roma Museo, Rome (eds C. Brook and V. Curzi), 2010–11. Rome
2011 — Ritratti: le tante faccie del potere, Musei Capitolini, Rome (eds E. La
Rocca, C. Parisi Presicce and A. Lo Monaco), 2011. Rome 2011–12 — I Borghese e
l’Antico, Galleria Borghese, Rome (eds A. Coliva et al.), 2011–12. Rome 2014a —
1564/2014 Michelangelo. Incontrare un artista universale, Musei Capitolini,
Rome (ed. C. Acidini), 2014. Rome 2014b — Hogarth, Reynolds, Turner: British
Painting and the Rise of Modernity, Fondazione Roma Museo, Rome (eds C. Brook
and V. Curzi), 2014. Rome forthcoming — Spinario. Storia e fortuna, Musei
Capitolini, Rome (ed. C. Parisi Presicce), forthcoming. Rome, Dijon and
elsewhere 1976 — Piranese et les francais, 1740–1790, Villa Medici, Rome;
Palais des Etats de Bourgogne, Dijon; Hotel de Sully, Paris, 1976. Rome and
Paris 2014–15 — I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria,
Accademia di Francia a Roma – Villa Medici, Rome; Petit Palais – Musée des
Beaux-Arts de la Ville de Paris, Paris (eds F. Cappelletti and A. Lemoine),
2014–15. Rome, University Park (PA) and elsewhere 1989–90 — Prize winning
drawings from the Roman Academy, 1682–1754, Accademia Nazionale di San Luca,
Rome; Palmer Museum of Art, Pennsylvania State University; and National Academy
of Design, New York (eds A. Cipriani and G. Casale), 1989–90. Rotterdam 1946 —
Cornelis Troost en zijn tijd, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam, 1946.
Rotterdam 1958 — Michael Sweerts en Tijdgenoten, Museum Boijmans Van Beuningen,
Rotterdam (E. Lavagino), 1958. Rotterdam 1994 — Cornelis Cort ‘constich
plaedt-snijder van Horne in Holland’ – Cornelis Cort accomplished plate-cutter
from Hoorn in Holland, Museum Boijmans Van Beuningen, Rotterdam (M. Sellink),
1994. Stockholm 1990 — Füssli, Uddevalla, Stockholm (ed. G. Cavalli- Björkman),
1990. Stuttgart 1997–98 — Johann Heinrich Füssli. Das Verlorene Paradies,
Staatsgalerie Stuttgart (ed. C. Becker and C. Hattendorrf), 1997–98. Swansea
1962 — Exhibition of French Master Drawings, Glynn Vivian Art Gallery, Swansea,
1962. Toledo, Chicago and elsewhere 1975–76 — The Age of Louis XV: French
Painting, 1710–1774, The Toledo Museum of Art, Ohio; Art Institute of Chicago;
National Gallery of Canada, Ottawa (ed. P. Rosenberg), 1975–76. Tokyo 1968–69 —
The Age of Rembrandt: Dutch Paintings and Drawings of the 17th century, The
National Museum of Western Art, Toyko, and Kyoto Municipal Museum (D. A. van
Karnebeek), 1968–69. Tokyo 1983 — Henry Fuseli, National Museum of Western Art
and City Art Museum Kitakyushu, Tokyo (ed. G. Schiff), 1983. Toronto, Ottawa
and elsewhere 1972–73 — Dessins français du 17e et 18e siècles des collections
americaines. French Master Drawings of the 17th and 18th Centuries of the North
American Collections, Art Gallery of Ontario, Toronto; National Gallery of
Canada, Ottawa; California Palace of the Legion of Honor, San Francisco; New
York Cultural Center (eds C. Johnston and P. Rosenberg), 1972–73. Tours and
Toulouse 2000 — Les peintres du roi 1648–1793, Musée des Beaux-Arts de Tours;
Musée des Augustins à Toulouse (eds P. Rosenberg et al.), Paris, 2000. Troyes,
Nîmes and elsewhere 1977 — Charles-Joseph Natoire (Nîmes, 1700 – Castel Gandolfo,
1777): peintures, dessins, estampes et tapisseries des collections publiques
françaises, Musée des Beaux-Arts, Troyes; Musée des Beaux- Arts, Nîmes; Villa
Medici, Rome, 1977. Venice 1976 — Tiziano e la silografia veneziana del
Cinquecento, Fondazione Giorgio Cini, Venice (eds M. Muraro and D. Rosand),
Venice, 1976. 252 253 Vienna 1987 — Zauber der Medusa. Europäische
Manierismen, Wiener Künstlerhaus, Vienna (ed. W. Hofmann), 1987. Washington
D.C. 1977 — Seventeenth Century Dutch Drawings from American Collections: A
Loan Exhibition, organized and circulated by the International Exhibitions
Foundation, National Gallery of Art, Washington, D.C. (F. W. Robinson), 1977.
Washington D.C. 1978–79 — Hubert Robert: Drawings & Watercolors, National
Gallery of Art, Washington, D.C. (V. Carlson), 1978–79. Washington D.C.
1999–2000 — The Drawings of Annibale Carracci, National Gallery of Art,
Washington, D.C. (eds D. Benati et al.), 1999–2000. Washington D.C., Los
Angeles and elsewhere 2003–04 — Jean-Antoine Houdon: Sculptor of the
Enlightenment, National Gallery of Art, Washington, D.C.; The J. Paul Getty
Museum, Los Angeles; Musée et Domaine National du Château de Versailles (A. L.
Poulet et al.), 2003–04. Williamstown, Madison and elsewhere 2001–02 — Goltzius
and the Third Dimension, Sterling and Francine Clark Institute, Williamstown
(MA); Elvehjem Museum of Art, Madison (WI); Spencer Museum of Art, Lawrence
(KS) (eds S. H. Goddard and J. A. Ganz), 2001–02. Windsor 2013 — Paper palaces:
The Topham Collection as a Source for British Neo-Classicism, The Verey
Gallery, Eton College, Windsor (A. Aymonino et al.), 2013. York 1973 — A
Candidate for Praise. William Manson 1725–97, Precentor of York, York Art
Gallery and York Minster Library (eds B. Barr and J. Ingamells), 1973. Zurich
1941 — Johann Heinrich Füssli (1741–1825): Zur Zweihundertjahrfeier und
Gedächtnisausstellung 1951, Kunsthaus Zürich, Zurich (ed. W. Wartmann and M.
Fischer), 1941. Zurich 1969 — Johann Heinrich Füssli, 1741–1825, Kunsthaus
Zürich, Zurich, 1969. Zurich 1984 — Meisterwerke aus der
Graphischen eichnungen, Aquarelli, Pastelle, Collagen aus fünf
Jahrhunderten, Kunsthaus Zürich, Zurich, 1984. Zurich 2005 — Füssli. The Wild
Swiss, Kunsthaus Zürich, Zurich (ed. F. Lentzsch), 2005. Fig. 61. Royal
Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 Fig. 62. Royal
Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 Fig. 63. © bpk, Berlin /
Museum der bildenden Künste, Leipzig Fig. 64. © bpk, Berlin / Museum der
bildenden Künste, Leipzig Fig. 65. The Warburg Institute, Photographic
Collection Fig. 66. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 67. The Samuel Courtauld Trust, The Courtauld Gallery, London
Fig. 68. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 69. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts
de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 70. © bpk, Berlin / École nationale
supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 71. © bpk,
Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand
Palais Fig. 72. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 73. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) Fig. 74. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 75. © Ashmolean
Museum, University of Oxford Fig. 76. Su gentile concessione del Museo
Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa Fig. 77. Photo Les Arts décoratifs
Fig. 78. Photo Les Arts décoratifs Fig. 79. National Library of Medicine (NLM)
Fig. 80. National Library of Medicine (NLM) Fig. 81. The Metropolitan Museum of
Art, Gift of Lincoln Kirstein, 1952, www.metmuseum.org Fig. 82. © Royal Academy
of Arts, London Fig. 83. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des
Beaux-Arts de Paris, Dist. RMN – Grand Palais Fig. 84. © Royal Academy of Arts,
London Fig. 85. © Royal Academy of Arts, London Fig. 86. Private collection
Fig. 87. © bpk, Berlin / École nationale supérieure des Beaux-Arts de Paris,
Dist. RMN – Grand Palais Fig. 88. Philadelphia Museum of Art Fig. 89.
Cherbourg-Octeville, musée d’art Thomas-Henry © D.Sohier Fig. 90. Heidelberg
University Library Fig. 91. © The Trustees of the British Museum. All rights
reserved Fig. 92. Staatsgalerie Stuttgart © Foto: Staatsgalerie Stuttgart Fig.
93. Reproduced by permission of the Provost and Fellows of Eton College Fig.
94. © bpk, Berlin / Musée du Louvre, Dist. RMN – Grand Palais / Susanne Nagy
Fig. 95. © Musée de Valence, photo Philippe Petiot Fig. 96. © Musée de Valence,
photo Philippe Petiot Fig. 97. © Musée de Valence, photo Philippe Petiot Fig.
98. Courtesy National Gallery of Art, Washington Fig. 99. © Tate, London 2014
Fig. 100. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 101. © Royal Academy of Arts, London; Photographer: John
Hammond Fig. 102. RSA, London Fig. 103. RSA, London Fig. 104. © CSG CIC Glasgow
Museums and Libraries Collection: The Mitchell Library, Special Collections
Fig. 105. © Royal Academy of Arts, London; Photographer: Prudence Cuming Associates
Limited Fig. 106. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015
Fig. 107. © Royal Academy of Arts, London Fig. 108. Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 109. Photograph courtesy of
the National Gallery of Ireland Cat. 1 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo
out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. ©
Matthew Hollow Fig. 3. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) Cat. 2 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Rijksmuseum,
Amsterdam Cat. 3 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Courtesy Yvonne Tan Bunzl
Fig. 2. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 3. © The
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British Museum. All rights reserved Fig. 6. S.S.P.S.A.E e per il Polo Museale
della città di Firenze – Gabinetto Fotografico Cat. 4 Exhibit a. © The Trustees
of the British Museum. All rights reserved Exhibit b. Rijksmuseum, Amsterdam
Fig. 1. Private collection Fig. 2. © Kurpfälzisches Museum der Stadt Heidelberg
Cat. 5 Exhibit. Digital image courtesy of the Getty’s Open Content Program Fig.
1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig.
2. Vatican Museums and Galleries, Vatican City/ Bridgeman Images Fig. 3. © The
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courtesy of the Getty’s Open Content Program Fig. 5. Digital image courtesy of
the Getty’s Open Content Program Cat. 6 Exhibit a. Teylers Museum, Haarlem
Exhibit b. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 1.
Rijksmuseum, Amsterdam Cat. 7 Exhibit a. Teylers Museum, Haarlem Exhibit b.
Teylers Museum, Haarlem Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute,
Photographic Collection) Fig. 2. Teylers Museum, Haarlem Fig. 3. Teylers
Museum, Haarlem Fig. 4. Courtesy Amsterdam Museum Cat. 8 Exhibit. Teylers
Museum, Haarlem Fig. 1. Teylers Museum, Haarlem Fig. 2. S.S.P.S.A.E e per il
Polo Museale della città di Firenze – Gabinetto Fotografico Cat. 9 Exhibit. ©
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Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 2. © Musée des
Beaux-Arts de Dijon. Photo François Jay Cat. 10 Exhibit. © Matthew Hollow Fig.
1. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 2.
Courtesy of the Master and Fellows of Trinity College Cambridge Fig. 3. ©
Matthew Hollow Fig. 4. © The Fitzwilliam Museum, Cambridge Cat. 11 Exhibit. ©
Matthew Hollow Fig. 1. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 2. © The Fitzwilliam Museum,
Cambridge Fig. 3. © Matthew Hollow Cat. 12 Exhibit. Rijksmuseum, Amsterdam Fig.
1. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 4. The Warburg Institute, Photographic
Collection Fig. 5. Detroit Institute of Arts, USA, City of Detroit
Purchase/Bridgeman Images Fig. 6. Collection Rau for UNICEF / Gruppe Köln, Hans
G. Scheib Cat. 13 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Courtesy Amsterdam Museum
Fig. 3. Courtesy Municipal Archives of The Hague Fig. 4. Photo out of copyright
(The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 5. Photo out of copyright
(The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 6. Photo out of copyright
(The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat. 14 Exhibit. © Matthew
Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 2. © 2015 The Metropolitan Museum of Art/ Art Resource/Scala,
Florence Fig. 3. © Christie’s Images Limited (1988) Fig. 4. Rijksmuseum,
Amsterdam Photographic Credits Every effort has been made to trace copyright
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reprints or editions of this book. Ideal Beauty and the Canon in Classical
Antiquity Fig. 1. © 2015 The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala,
Florence Fig. 2. The Warburg Institute, Photographic Collection Fig. 3. The
Warburg Institute, Photographic Collection ‘Nature Perfected’: The Theory &
Practice of Drawing after the Antique Fig. 1. Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 3. © bpk, Berlin / Musée du
Louvre, Dist. RMN – Grand Palais / Gérard Blot Fig. 4. © Veneranda Biblioteca
Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 5. Photo out of copyright
(The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 6. Albertina, Vienna Fig.
7. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig.
8. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig.
9. Copyright Comune di Milano – tutti i diritti riservati Fig. 10. Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 11. © Veneranda
Biblioteca Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 12. © The
Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 13. Museum Boijmans
Van Beuningen, Rotterdam. Loan Museum Boijmans Van Beuningen Foundation
(collection Koenigs) / photographer: Studio Tromp, Rotterdam Fig. 14. © The
Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 15. Archivio
Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 16. Rijksmuseum,
Amseterdam 254 Fig. 17. The Metropolitan Museum of Art, Bequest of Phyllis
Massar, 2011, www.metmuseum.org Fig. 18. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 19. Vatican Museums and Galleries,
Vatican City/Bridgeman Images Fig. 20. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 21. © Royal Museums of Fine Arts of
Belgium, Brussels / photo: J. Geleyns / Ro scan Fig. 22. Photo out of copyright
(The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 23. Photo out of
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Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 25. Graphische
Sammlung Albertina, Vienna, Austria / Bridgeman Images Fig. 26. Vatican Museums
and Galleries, Vatican City / Bridgeman Images Fig. 27. Courtesy National
Gallery of Art, Washington Fig. 28. Albertina, Vienna Fig. 29. Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 30. © The
Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 31. © The Trustees of
the British Museum. All rights reserved Fig. 32. Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 33. Galleria degli Uffizi,
Florence, Italy / Bridgeman Images Fig. 34. S.S.P.S.A.E e per il Polo Museale
della città di Firenze – Gabinetto Fotografico Fig. 35. Photo out of copyright
(The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 36. © Veneranda
Biblioteca Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 37. Katrin
Bellinger collection Fig. 38. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Jörg P.
Anders Fig. 39. © bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Jörg P. Anders Fig. 40. ©
bpk, Berlin / Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 41. © bpk, Berlin
/ Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 42. © bpk, Berlin /
Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 43. © bpk, Berlin /
Kupferstichkabinett / Volker-H. Schneider Fig. 44. Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 45. © 2015 The Metropolitan
Museum of Art/ Art Resource/Scala, Florence Fig. 46. © Veneranda Biblioteca
Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 47. © Veneranda
Biblioteca Ambrosiana – Milano / De Agostini Picture Library Fig. 48. Royal
Museum for Fine Arts Antwerp © Lukas-Art in Flanders vzw, photo Hugo Maertens
Fig. 49. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 50. Musea Brugge © Lukas-Art in Flanders
vzw, photo Hugo Maertens Fig. 51. ©Peter Cox/Bonnefantenmuseum Maastricht Fig.
52. Minneapolis Institute of Arts, MN, USA, The Walter H. and Valborg P. Ude
Memorial Fund/ Bridgeman Images Fig. 53. Rijksmuseum, Amsterdam Fig. 54.
Louvre, Paris, France/Bridgeman Images Fig. 55. Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 56. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 57. Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 58. © bpk, Berlin / Musée du
Louvre, Dist. RMN – Grand Palais / Richard Lambert Fig. 59. © bpk, Berlin /
Musée Condé, Chantilly, Dist. RMN – Grand Palais / René-Gabriel Ojéda Fig. 60.
Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015 255 Cat. 15
Exhibit. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 1. ©
Devonshire Collection, Chatsworth / Reproduced by permission of Chatsworth
Settlement Trustees / Bridgeman Images Fig. 2. Wadsworth Atheneum Museum of
Art, Hartford, CT Fig. 3. © The Trustees of the British Museum. All rights reserved
Fig. 4. Vatican Museums and Galleries, Vatican City / Bridgeman Images Cat. 16
Exhibit. The Samuel Courtauld Trust, The Courtauld Gallery, London Fig. 1.
Image courtesy of Sotheby’s Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 3. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 4. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 5. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 6. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Cat. 17 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1.
Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 2. Museum
Boijmans Van Beuningen, Rotterdam / photographer: Studio Tromp, Rotterdam Fig.
3. The Metropolitan Museum of Art, Bequest of Walter C. Baker, 1971,
www.metmuseum.org Fig. 4. Witt Library, The Courtauld Institute of Art, London
Cat. 18 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 3. © bpk, Berlin / Antikensammlung,
SMB Fig. 4. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 5. © bpk, Berlin / Antikensammlung, SMB / Johannes Laurentius
Fig. 6. © photo Musées de Marseille Fig. 7. Photographic Survey, The Courtauld
Institute of Art, London. Private collection Cat. 19 Exhibit. © Matthew Hollow
Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection)
Fig. 2. © Accademia Nazionale di San Luca. Tutti i diritti riservati Fig. 3. ©
The Trustees of the British Museum. All rights reserved Fig. 4. By courtesy of
the Trustees of Sir John Soane’s Museum Cat. 20 Exhibit. By courtesy of the
Trustees of Sir John Soane’s Museum Fig. 1. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 4. The Warburg Institute, Photographic
Collection Fig. 5. Staatsgalerie Stuttgart © Foto: Staatsgalerie Stuttgart Fig.
6. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Cat.
21 Exhibit. © bpk / Kunstbibliothek, Staatliche Museen zu Berlin Fig. 1. Image
courtesy of Sotheby’s Fig. 2. Image courtesy of Sotheby’s Cat. 22 Exhibit. ©
2014 Kunsthaus Zürich. All rights reserved. Fig. 1. Archivio Fotografico dei
Musei Capitolini. Photo Paulo Cipollina Fig. 2. Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini. Photo Lorenzo De Masi Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei
Capitolini. Photo Lorenzo De Masi Fig. 4. Istituto Centrale per la Grafica
Canoni fotografici (MIBACT) Fig. 5. © bpk, Berlin / Kunstbibliothek, SMB /
Dietmar Katz Cat. 23 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Louvre, Paris,
France/Bridgeman Images Fig. 2. © The Trustees of the British Museum. All
rights reserved Cat. 24 Exhibit. © The Trustees of the British Museum. All
rights reserved Fig. 1. Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection
Fig. 2. Private collection Fig. 3. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Cat. 25 Exhibit. © Royal Academy of Arts,
London Fig. 1. © Royal Academy of Arts, London Fig. 2. © Royal Academy of Arts,
London Fig. 3. © bpk, Berlin / RMN – Grand Palais / Stéphane Maréchalle Fig. 4.
Santa Barbara Museum of Art, Gift of Wright S. Ludington Fig. 5. Conway
Library, The Courtauld Institute of Art, London Fig. 6. Archivio Fotografico
dei Musei Capitolini. Photo Zeno Colantoni Fig. 7. Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 8. © Royal Academy of Arts,
London; Photographer: Paul Highnam Fig. 9. © Royal Academy of Arts, London;
Photographer: Paul Highnam Cat. 26 Exhibit. © The Trustees of the British
Museum. All rights reserved Fig. 1. © Tate, London 2014 Fig. 2. Courtesy of
www.gjsaville-caricatures.co.uk Cat. 27 Exhibit a. © Victoria and Albert
Museum, London Exhibit b. © Victoria and Albert Museum, London Fig. 1. © Tate,
London 2014 Fig. 2. © Tate, London 2014 Fig. 3. © Tate, London 2014 Fig. 4. ©
Tate, London 2014 Cat. 28 Exhibit. © The Trustees of the British Museum. All
rights reserved Fig. 1. © Towneley Hall Art Gallery and Museum, Burnley,
Lancashire/Bridgeman Images Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg
Institute, Photographic Collection) Fig. 3. © The Trustees of the British
Museum. All rights reserved Cat. 29 Exhibit. By courtesy of the Trustees of Sir
John Soane’s Museum Cat. 30 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo Collection RKD,
The Hague Fig. 2. Royal Collection Trust/© Her Majesty Queen Elizabeth II 2015
Fig. 3. Klassik Stiftung Weimar, Bestand Museen. Photo Sigrid Geske Cat. 31
Exhibit. Teylers Museum, Haarlem Cat. 32 Exhibit. Teylers Museum, Haarlem Fig.
1. Photo Collection RKD, The Hague Cat. 33 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1.
The National Museum of Art, Architecture and Design, Oslo, photographer Jacques
Lathion Fig. 2. Photo out of copyright (The Warburg Institute, Photographic
Collection) Fig. 3. Archivio Fotografico dei Musei Capitolini. Photo Zeno
Colantoni Fig. 4. Louvre, Paris, France / Bridgeman Images Fig. 5. Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 6. Courtesy of
Pontus Kjerrman Cat. 34 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. Photo out of
copyright (The Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 2. Courtesy of
Olga Liubimova Fig. 3. © Tomas Abad Cat. 35 Exhibit. © Matthew Hollow Fig. 1. ©
Victoria and Albert Museum, London Fig. 2. © National Portrait Gallery, London
Fig. 3. © Christie’s Images Limited (2012) Fig. 4. Photo out of copyright (The
Warburg Institute, Photographic Collection) Fig. 5. © National Museums
Liverpool, Walker Art Gallery Fig. 6. [© National Museums Liverpool, Walker Art
Gallery Sammlung. ZMassimo Carboni. Keywords: tratto dalla vita, estetica,
arte, icona, parola, immagine, filosofia antica, il concetto dell’antico,
l’antico – l’antico e il moderno – drawing from the antique – antico –
filosofia antica, arte antica, statuaria antica, the lure of the antique – il
gusto e l’antico --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carboni” – The
Swimming-Pool Library.
levi:
filosofo italiano - Italian philosopher of Jewish descent. Author of “Storia
della filosofia romana.”
giornale
critico della filosofia italiana.
Giovanni
d. “Positivismo italiano.”
Grice
e Cassio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo
italiano. Gaio Cassio Longino. Gaio Cassio Longino Tribuno della plebe della
Repubblica romana Gaio Cassio Longino (a destra), Marco Giunio Bruto (col volto
girato) e gli altri congiurati pugnalano Giulio Cesare alle Idi di Marzo;
particolare del dipinto di Vincenzo Camuccini, Morte di Giulio Cesare. Nome
originale. Gaius Cassius Longinus Nascita: Roma Morte: Filippi Coniuge: Tertulla
Figli: Gaio Cassio Longino Gens: Cassia Tribuno militare sotto Marco Licinio
Crasso Questura. Tribunato della plebe. Gaio Cassio Longino (in latino: Gaius
Cassius Longinus, pronuncia classica o restituta: [ˈɡaːɪ.ʊs ˈkassɪ.ʊs
ˈlɔŋɡɪnʊs]; Roma, 87/86 a.C. – Filippi, 3 ottobre 42 a.C.) è stato un politico
romano, tra i promotori della congiura che causò l'uccisione di Gaio Giulio
Cesare. Appartenne alla gens Cassia, una famiglia patrizia riuscita ad accedere
al consolato. Nel sesto decennio a.C. Cassio, dopo il matrimonio con Tertulla,
figlia di Servilia, sembra avvicinarsi al partito degl’optimates guidato da
Catone Uticense. Moneta coniata da Longino Prese parte alla guerra
contro i Parti, al fianco di Marco Licinio Crasso, salvandosi dal disastro di
Carre del 53 a.C., e riuscendo a respingere una loro successiva invasione che
si era spinta fin sotto le mura di Antiochia.[1] Nominato tribuno della plebe
nel 49 a.C., allo scoppio della guerra civile si schierò dalla parte di Pompeo,
che gli affidò il controllo di parte della sua flotta nelle acque del
Mediterraneo. Dopo la battaglia di Farsalo e la morte di Pompeo in Egitto, egli
decise di beneficiare della clemenza di Cesare: lo raggiunse dunque in Cilicia,
vicino Tarso, da dove il dittatore stava pianificando l'attacco a Farnace.
Nonostante il suo rapporto con Cesare si fosse consolidato, Cassio decise, nel
44 a.C., di allontanarsi dalla corrente politica di Cesare per essere uno degli
organizzatori del complotto che portò costui alla morte. Dopo
l'assassinio del dittatore, Cassio insieme a Bruto, figlio di Servilia, fuggì
da Roma, timoroso delle rappresaglie messe in atto da Marco Antonio
(luogotenente di Cesare) e dal giovane ed emergente Ottaviano (futuro primo
imperatore di Roma con il nome di Augusto). Come si apprende da un'epistola
scritta a Cicerone poco prima della battaglia di Modena, Cassio ottenne
brillanti successi in Oriente. Recatosi ad Apamea, dove era assediata dai
cesariani una legione pompeiana al comando di Quinto Cecilio Basso, riuscì a
convincere i capi cesariani sul posto, Lucio Staio Murco e Quinto Marcio
Crispo, a defezionare con le loro sei legioni e passare dalla sua parte. Poco
dopo giunse dall'Egitto Aulo Allieno con altre quattro legioni, che a sua volta
si unì a Cassio[2][3]. Secondo alcune fonti Marcio Crispo tuttavia rifiutò di
servirlo[4]. Cassio disponeva ora di numerose legioni e si mosse per affrontare
il cesariano Publio Cornelio Dolabella, che in precedenza aveva vinto e ucciso
il cesaricida Gaio Trebonio. Tuttavia i due cospiratori non riuscirono a
farla franca. Nel frattempo era stata emanata la lex Pedia, che condannava
all'esilio i cesaricidi. Cassio e Bruto vennero affrontati nella
battaglia di Filippi il 3 ottobre del 42 a.C. da Marco Antonio e Ottaviano.
Cassio fu sconfitto da Marco Antonio; pensando che anche Bruto fosse stato
sconfitto diede ordine ad un suo schiavo, Pindarus, di ucciderlo, usando la
stessa daga con cui aveva pugnalato Cesare; Bruto, nonostante la parziale
vittoria ottenuta su Ottaviano, fu successivamente raggiunto ed accerchiato
dagli uomini di Marco Antonio. Il 23 ottobre del 42 a.C. Bruto, vedendosi
sconfitto, si suicidò. Plutarco riferisce che Cassio era seguace di
Epicuro. Cassio viene definito da più fonti come Ultimus Romanorum,
l'ultimo dei romani a incarnare i valori e lo spirito romano: il riferimento è
in Tacito, che cita a sua volta lo storico Cremuzio Cordo: «Sotto il consolato
di Cornelio Cosso e Asinio Agrippa fu sottoposto a giudizio Cremuzio Cordo per
un reato di nuovo genere, noto allora per la prima volta: negli annali da lui
scritti, dopo aver elogiato M. Bruto, aveva chiamato Cassio l'ultimo dei
romani"[5]. Letteratura Dante lo pone nell'ultimo girone
dell'Inferno (Inferno, XXXIV, 64-67), la Giudecca, ove si puniscono i traditori
dei benefattori. Assieme a Giuda Iscariota ed a Marco Giunio Bruto, è
costantemente maciullato dalle fauci di Lucifero. Cassio è uno dei
protagonisti della tragedia Giulio Cesare di William Shakespeare. Note ^
Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, XL, 28-29. ^ R. Syme, La rivoluzione
romana, p. 191. ^ Cassio, epistola a Cicerone ex castris Taricheis, in Charles
Chaulmer, Les Epitres familières de Ciceron en latin et en françois., edd.
Antoine e Horace Molin, 1689 ^ Broughton, T. Robert S., The Magistrates of the
Roman Republic, vol.III, 1986 ^ Annales, IV, 34, 1 Bibliografia Vittorio
Sermonti, Inferno, Rizzoli 2001. Umberto Bosco e Giovanni Reggio, La Divina
Commedia - Inferno, Le Monnier 1988. Voci correlate Gaio Giulio Cesare Marco
Giunio Bruto Battaglia di Filippi Marco Antonio Augusto Ultimus Romanorum Altri
progetti Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010.
Modifica su Wikidata Càssio Longino, Gàio (uomo politico e questore), su
sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) Gaius Cassius / Gaius Cassius
Longinus, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Gaio Cassio
Longino / Gaio Cassio Longino (altra versione), su Goodreads. Modifica su
Wikidata V · D · M Guerra civile romana (49-45 a.C.) V · D · M Guerra civile
romana (44-31 a.C.) V · D · M Cesaricidi Portale Antica Roma
Portale Biografie Portale Età augustea Categorie: Politici
romani del I secolo a.C.Morti nel 42 a.C.Morti il 3 ottobreNati a RomaCassiiGovernatori
romani della SiriaMorti per suicidioPersonaggi citati nella Divina Commedia
(Inferno)EpicureiCesaricidi[altre] Cassio, one of those who assassinated Giulio
Cesare, was a follower of the philosophy of The Garden. He converted to the
sect after an earlier interest in the Porch, and defended his new philosophy in
correspondence with his friend Cicerone.
cassiodoro: noble
Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cassiodoro," per
Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
casalegno,
paolo. Italian philosopher author of “H. P. Grice” in “Filosofia del
linguaggio.”
cattaneo:
essential Italian philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Cattaneo," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice,
Liguria, Italia.
Grice e Carace – Roma –
filosofia italiana – Claudio Carace – Charax – Much admired by Antonino.
Grice e Carchia: l’implicatura
conversazionale dell’ars amandi – signi d’amore – erotico del bello –
comunicazione degl’amanti primitive -- filosofia romana – filosofia italiana --
Luigi Speranza (Torino). Filosofo Italiano. Grice: “I once joked that
if I’m introduce dto Mr. Poodle as ‘our man in eighteenth century aesthetics,
the implictum is that he ain’t good at it! Not with Carchia: because (a)
Carchia is a serious philosopher (b) he conceives aesthetics alla Baumagarten,
having to do with communication (“nome e
immagine”, “interpretazione ed emancipazione”) and with not just the aesthetis
qua sensus – but its truth value (“immagine e verita,” “l’intelligible
estetico”) – a genius! On topc, my favourite piece of his philosophising is on
the torso del belvedere as representing the ‘rhetoric of the sublime’!” Si
laurea a Torino sotto Vattimo con la dissertazione “Il Linguaggio”. Insegna a Viterbo
e Roma. Studioso di filosofia antica, traduttore. Opere: Orfismo e tragedia;
Estetica ed erotica; Dall'apparenza al mistero; La legittimazione dell'arte;
Arte e bellezza; L'estetica antica, ecc.
Si è anche occupato, di arte e comunicazione dei popoli 'primitivi' e di
artisti contemporanei quali Savinio, Sbarluzzi e Lanzardo. La casa editrice
Quodlibet raccoglie le sue opere postume. Rusce ad immaginare la filosofla, a
porla in immagini -- nel solco della filosofia italiana dall'Umanesimo a Vico. Minima
immoralia. Aforismi tralasciati nell'edizione italiana (Einaudi, 1954), Milano:
L'erba voglio); Comunità e comunicazione (Torino: Rosemberg & Sellier); prefazione
e cura di Henry Corbin, L'imâm nascosto, Milano: Celuc, 1979; Milano: SE); Orfismo
e tragedia. Il mito trasfigurato, Milano: Celuc); Estetica e antropologia. Arte
e comunicazione dei primitivi, Torino: Rosemberg & Sellier); Erotica.
Saggio sull'immaginazione, Milano: Celuc) L'intelligibile (Napoli: Guida);
Dall'apparenza al mistero. La nascita del romanzo, Milano: Celuc); Il mito in
pittura. La tradizione come critica, Milano: Celuc); cura di Arnold Gehlen,
Quadri d'epoca. Sociologia e estetica della pittura moderna, Napoli: Guida) Retorica
del sublime, Roma-Bari: Laterza); Il bello (Bologna: Il Mulino); Interpretazione
ed emancipazione. Torino: Dipartimento di ermeneutica); introduzione a Karl
Löwith, Scritti sul Giappone, Soveria Mannelli: Rubbettino); “La favola
dell'essere. Commento al Sofista” (Macerata: Quodlibet); Estetica, Roma-Bari:
Laterza); L'estetica antica, Roma-Bari:
Laterza); L'amore del pensiero, Macerata: Quodlibet); Nome e immagine (Benjamin,
Roma: Bulzoni); Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Monica
Ferrando, prefazione di Sergio Givone, Roma: Edizioni di storia e letteratura,
Kant e la verità dell'apparenza, Gianluca Garelli, Torino: Ananke, 2006 88-7325-151-X introduzione a Walter Friedrich
Otto, Il poeta e gli antichi dèi, Rovereto: Zandonai. L’immaginazione
come orizzonte nomade della conoscenza. Produttività e trascendentalità dell’immaginazione
nella critica del giudizio. L’immaginazione senza immagini. La notte delle
immagini, il ricordo, la memoria. L’immaginazione come autotrasparire
dell’apparenza rappresentativa. Naturalismo simbolico e simbolica naturale.
Angelologia. Alighieri: spiritus phantasticus e alta fantasia. Gemellarità
dell’immaginazione gnostica. L’immaginazione speculativa. Simbolismo e
imagismo. Il fantastico come ideologia. Il romantico. L’immaginazione come
dimora del padre. Demone e allegoria. La forza del nome. Icona e coscienza
sofianica. Mistica. Mimesi e metessi. La nuova accademia: l’estetico.
Paradigma, schema, immagine. 1 Ovidio.
Arte amatoria. Chi peregrin nell’amorosa scuola Entra , me legga, se vuol
esser dotto. Non usansi senz’arte e vele e remi; Non
senz’arte guidar si puote il cocchio; Non senz' arte si può reggere
Amore. Ben sapeva condurre Automedonte (i) Co’ focosi,
destrieri il caiiro , e Tifi r Sedea maestro \sair emonia poppa.
Ne’ mister} d’ Àmot me fece esjperto V enere bella , e ben dirmi
poss’ io D’Aniore un altro Tifi e Automedonte. Ch^ ei sia crude!,
noi niego » e spesse volte Contro me stesso si rivolta ; pure Egli
è fiinciullo , e l’immatuTa' etàde Atta si rende al fren. Docile e
mite Rese Chiron l’ impetuoso^ Achilie (2) (i) Automédonte ,
figlio di Dioreo,fu il Cocchierò d*lAchille , Tifi condusse gli Argonauti
in Coleo sul- la nave Argo , che qui dicesi emonia , perchè era su
<mella Giasone figlio del Re di Tessaglia , e perchè la Tessaglia si
chiamala Emonia dal monte Emo. (a) Chirone figliuol di Fillira fu
il Precettore d’A’^ chille^il qual nen chiamato ^acides fia Eaep suo
Avo, Digitized by Google Col dolde suon della
canora cetra^ Ed ei, che fu il terrore e lo spavento De^suoi
compagni spessore de’nemici. Dicesi che temesse il vecchio annoso;
E quelle mani , che dovean un giorno Gettare a terra il forte Ettor
, porgea, ( 3 ) Quando Chirone le chiedea,alla sferza. Ei fu
d’ Achille, io son d’ Amor maestro; L’uno e 1^ altro è fanoiul feroce, e
traggo L’ un e r altro da Diva i suoi natali • (4) Come r aratro il
toro, e come il freno Doma il cavai focoso ; io cosi Amore Render
placido voglio ancor che il petto Con r arco mi ferisca , e con la
face Tutte ro’ abbruci le midolle e T ossa. Quanto più Amore hammi
ferito ed arso. Tanto più voglio vendicarmi . Apollo, Non io,
ché mentirei , dirò che appresi < Da tl» quest’ arte, o che fui reso
dotto Dal canto degli .augelli • A me non Clio, Né le Sorelle sue ,
come al Pastore Della valle d’ Ascrea , compatver mai ; (5) Me un
lung’ uso feMstrutto ; e fè pròstate Air esperto Poeta . <Ió cose
vere Canto : Madre d* Amor.^, siimi propizia. Gite lungi j o
Vestali., e voi Matrone, Che i piè celaté sotto lunga veste.
J3Ì Achilie uccise Ettore al assedio di Troja* ^ (4) Achille
nacque dalla Dea Tetide , Amore dalla Dea Venere, a Mentre
Esiodo , cugino e quasi contemporaneo nero , pascolava in Elicona le
pecore di suo pa* dre ^ fu dalle Muse condotto al fonte Ippocrene , e
Col hefer 4i quell* acqua divenne Poeta, Come seguir sensa
periglio Amore Si possa, eA i concessi furti io canto; Nullo i miei
carmi chiuderan delitto. Tu, che novel nell’ amorosa schiera
Entri soldato, le tue cure volgi Prima a trovar de’ voti tuoi 1’
oggetto. Indi a farlo per te amoroso, e infine Onde lunga stagìon
1’ amor si serbi. È questo 11 modo, è questo il campo, in cui
Scorrere il nostro cocchio debbo ; è questa Del corso nostro la
prescritta meta. Or che il tempo è propizio , or che si puote
Andare a briglia sciolta , una ne scegli, Cui dir tu possa ; a me tu sola
piaci. Questa dal Ciel non già pensar che scenda. Ma qui trovar la
dei con gli occhi tuoi. Onde tender le reti al cervo debba.
Sa bene il caccìator , e non ignora La valle , ove il cignal
s’asconde : i rami L’ UGcellator conosce, onde si gettano 61
’incauti augelli, e al pescator son note L’acque, che maggior copia hanno
di pesci. Tu , che d^on lungo amor cerchi materia. Impara i luoghi,
ove frequenti veggonsi Le vezzose donzelle . Io non ti dico,
Che dar le vele ti fia duopo al vento. Né córrer lunga e
faticosa strada. Perseo dall’Indie ne condusse Andromeda, E
.Paride rapì di Grecia Eléna. . Ma in Roma , in Roma ritrovar
potrai Fanciulle, che in beltà portino il vanto Più che del Mondo
in altra parte . Come (6} Gargaro, Castello sul monte Ida era
celebre V abbondanza delle sue biade , e Metinna , Città nek»
V Isola di Lesbo , per V abbondanza d^ suoi vini. Digitized
by Google 6 La gargara contrada abbonda in
biade» In uve la metinnia » in pesci U mare» In augei
il bosco s e còme nell* Olimpo Splendono stelle; così in Roma
ammiransi Amabili Fanciulle : qui sua sede Pose del grand’ Enea la
bella Madre. Se a nascente beltà ti porta il genio» Tenera
donzelletta eccoti innante; Se già formata giovine desideri»
Mille ti piaceranno » e fian costretti A rimaner sospesi i voti
tuoi; Che se a te figlia più matura e saggia Piaccia » ne
avrai, mel credi, un folto stuolo. De’ portici pompeii all’ ombra i lenti
(7) Pàssi rivolgi, allor che Febo i campi Dall’erculeo Leon saetta
ed arde, O a quel che adorno de’ più scelti marmi Da lontani
paesi a noi venuti, LaMadre aggiunseindonoa’don delFigHo.(8)
Nè quello lascerai » ohe tragge il nome Da Livia, ornato delle pinte tele
(9) De’Pittori più celebri ed antichi; (7) Uno de'piU
dtliziosi Portici di Roma ora cer^ tornente ^uet di Pompeo . Giaceva
questo in vicinanza dtl suo Veatro , « i Romani lo frequentavano
moltis'^ simo in tempo d* estate, ( 8 ) Augusto sotto il nome
d* Ottavia fabbricò un portico in vicinanza del Teatro da lui dedicato a
Mar^ cello figlio della medesirrsa ^ e però dice il Poeta , che la
Madre , cioè Ottavia , a^iunse il dono del portico al don d^figlio , cioè
al Teatro a lui innalzato da Augusto, ( 9 ) R questo il
portico che Livia moglie d* Augusto fabbricò nella Via sacra ; ne fa
menzione Svetonio , e vien riputato da Strabono uno d^più be* monumenti
di Roma, Digitized by Google Visiterai pnr anco
i Inoghi, dove (io) In atto di far strage de’ Consorti
Effigiate son P empie Danàidi; E il lor Padre crudel, che nudo
tiene L’acciajo micidial nell’ empia destra; Nè il Tempio
oblia, u’ Venere la morte Plora del caro Adon , nò il giorno
Sabbato Sacro al culto giudeo • Sarà tua cura A’xneiifitìcì templi
esser presente (ii) Della liniger’ Iside ; seconda I voti questa
Dea delle fanciulle» Che desian donne diventar, coni’ essa Lo
fu di Giove ^ Fra i clamori alterni Del Foro strepitoso ( e chi mai
fede Prestar ci puote ? ) Amor rivolta trova Atto alle fiamme sue
pascolo ed esca. In quella parte ove s’innalza al cielo (la)
L’ onda d’Appio » che giace appiè del Tempio Di ricchi marmi adorno , a
Vener sacro^ Prigioniero d’ Amore è 1 ’ Avvocato, (10) Il
portico d*Apollo palatino fabbricato da Au^ gusto in una parte della sua
casa era adornato di fiin^ ts immagini rappresentanti la strage^
che de*pro- prj Mariti fecero le Danaidi per comando di Danna loro
padre. (11) Si adorala Iside figlinola d*Inaco in Menfi Città
d^Egitto, donde furono trasportati in Roma i suoi sacrificj . Fu questa
amata impudicamente da Giove, il quale la cangiò per timor di Giunone in
una Giovenca j e poi la restitm agli Egiziani nella sua pri^ stina
forma . B^la e i suoi sacerdoti andavano coperti di lino e però si
chiamava linigera. (la) Appio Censore condusse V acqua nel Foro
di Cesare; e d* architettura d* Archelao fu ivi innalzato a Venere
un Tempio , che per somma fretta poi rimase imperfetto.
Digitized by Google 8 Che attento alla difesa
altrui, se stesso Guardar non sa • Oh quante volte, oh quante In
quel loco gli manca la favella, E deir amor che V agita
ripieno, Non della caiìsa altrui, ma della propria S’occupa
solo ! Dal propinquo Tempio Ride la Dea di Pafo, e il difensore
Trasformato veder gode in cliente. Ma più che. altrove ne'curvi
Teatri Troverai da far paghi i voti tuoi: Ivi mille bellezze
lusinghiere Si oifrìranno al tuo sguardo, e tal potrai Per stabile
passion scegliere, e tale Onde Tore passare in gioco e in festa.
Come frequente la formica in schiera Vanne al granajo a far preda di
cibo; E come Papi in olezzante suolo Volan sul timo e sopra i
fior ; le culte Donne in tal modo in folto stuolo assistono Agli
scenici ludi * È cosi grande 11 numero di questo, cho sospeso Mille
volte rimase il mio giudizio. Non a’ Teatri per mirar,
soltanto, Come per far di lor superila mosffa Vanno non senza
del pudor periglio. Tu questi giochi strepitosi il primo,
Romolo , instituisti; allor che il ratto (i 3 ) (iS) NeW anno del
mondo 3a3i. fabbricò Romolo nei monte Palatino una Città o sia Fortezza ,
che dal suo nome chiamò Roma. Per accrescere il numero dei
Cittadini ^ aprì un asilo fra il Palatino e il Campi* doglio , in cui si
ricevevano i Servi fuggitivi^, i De* hitori y i Malefici . Siccome i
Popoli confinanti , e per conseguenza i Sabini nor^ volevano con tal
gente col* Digitized by Google Segui delle
Sabine • Ancor non marmi^ E non tappeti ornavano i Teatri,
Nè il palco vago era per piote tele; Ivi semplicemente allor
far posti I virgulti eie foglie, che recava II bosco
palatino, e non si vide Decorata la scena allor con V arte*
Sopra i sedili di cespugli infesti Assistea il popol folto , uhe
all’irsuta Chioma di fronde sol cingea corona* Col
cupid’occhio ognuno intanto nota Quella, che far desia sua preda, e
molti Pensieri nel suo cor tacito volge. Mentre d’agreste
flauto il suono muove Grottesca danza, ed il confuso plauso Ferisce
il ciel, ecco che il Re dà segno Onde alla preda sua ciascun sì
volga. Rapido il proprio loco ognuno lascia, Fanne co’ gridi il suo
desio palese, E le cupide mani addosso slancia Sulle Vergin
d’insidie ignare , come Fogge la timidissima Colomba Dall’ Aquila ,
e de’ Lupi il fiero aspetto Agna novella ; di spavento piene Volean
cosi le misere Sabine De’ rapitori lor schivar gli amplessi;*
Ma da Ogni patte senza legge inondano^ Ninna serba il color , che
aveva innante; ' ' a z lòcar U lor Donne , Romito gli '
inoitò insieme con Ì 0 sorelle ,'7e moglie e le figlie a unof spettacolo,
che fe^ce* ìebrare in onore del Dio Conso , ossia di Nettuno^ €
comandò d* suoi Romani che cigscun ri rapiste fr0 quelle femmine una
Consòrte. Digitized by Google IO
Tutte assale il timore ^ e in Tarj modi: Questa il petto peroote^
il crin si straccia; Quella riman priva di sensi ; alcuna Non
{>er il duol fa proferir parola; Altra la cara madre appella
invano; Chi quale statua immobile rimane; Chi fugge, e
chi di grida il cielo assorda. Ma le rapite Oiovani condotte Son
via, qual preda geniale e cara. Dì pudico rossoj tinsero
molte Le delicate guance, e vìe più piacquero. Se troppa ripugnanza
alcuna mostra, £ seguir nega il suo compagno, questi La porta
fra le sue cupide braccia, E si le dice : a che d’amaro
pianto Da begli occhj tu versi un fiume? teco Sarò come alla Madre
è il Genitore. Romolo, fu il primiero a’tuoi soldati Vera recar
felicità sapesti; Se tal sorte goder potessi anch’io, >
Io pur non sdegnerei esser soldato. Però da quell’esempio
anco a’dì nostri Trovan le Belle ne’Teatri insidie.. D’esser
presente ognor cerca e procura ^ Alle corse de’rapidi destrieri.
Di gran popol capace il ;Circo augusto Molti a te rechei!à comodi ;
d’ uopo ^ Onde spiegare i tuoi pensieri arcani Non avrai
delle dita ; nè co* cenni Intendere dovrai. Franco t’assidi,^
Che ninno il vieta, alla* tua donna accanto. Quanto più puòi
t’accosta al di lei fiaheo\ lE procura che il loco a.nzi ti sforzi
A toccarla, quand’eUa ancor non ! voglia. Digitized by
Google Onde seco parlar cerca materia, E da’
discorsi pubblici incomincia. Quando i cavalli appariranno,
tosto Di chi sieno richiedi, e quello, a cui Dirige i voti suoi, tu
favorisci; Macon frequente pompaallor che giungono Le statue
degli Dei, fa plauso a Venere (14) Quale a tua Diva tutelar. Se mai
Della tua bella sulla veste cada Polve, la scoti con la mano , e fingi
* Scoterla quando pur netta si serbi; E sollecito ognor
prandi motivo Da leggiere cagion d’esserle grato. Se la sua
veste strascinasse , pronto Sii tosto a tòrla dalP immonda terra;
Per cosi tenui cure avrai in mercede, Ch^ ella poi soffrirà,
che le sue gambe Tu possa riguardar. Sia tuo pensiero, Che
quei , che sono assisì al vostro tergo, ^ ginocchi al di lei dosso,
Non le rechin molestia. I lievi ufBcj L^alme fiscili adescano : fu a molti
Util Fa ver con destra man composto Il coscino, agitar con piccol
foglio Il volubile vento, e saper porre Sotto tenero piè concavo
scanno. Farà la strada al nuovo amore il Circo, (14)
Solevano i Romani portar per ih Circo le Sta¬ tue degli Dei e degli
Uomini sommi , quando ivi da¬ vano lo spettacolo della corsa de^ Cavalli
0 d^ altri giochi'. V* era fra aueste Statue ancor quella di Ver»
nere , cui vuole il Poeta che si faccia un gran plauso* Si veda la
seconda Elegia del Libro III, degli amori scritti dgl modesimo
Autore^ E la sparsa nel foro infausta arena* Ivi
pugnò spesso il Fanciul di Venere, £ chi andò per mirar altri
piagato, Ferito pur rimase. Ah quante volte Mentre un la
lingua a ragionar discioglie^ HoWà. la mano , tiene il libro, e
cerca II; vincitore del proposto premio. Il .volatile strai
senti nel seno, Gemè piagato , e accrebbe pregio al gioco!
fu bello il mirar quando con pompa Solenne Cesare introdissse il
primo (i 5 ) Non avvezze a pugnar in finta guerra E le persiche
navi e le cecropie! Da questo e da quel mar vennero allora
Giovani vaghi, amabili donzelle, E la Città racchiuse immenso
mondo. Fra tanta turba di leggiadri oggetti Chi non tigvò da
far paghi i suoi voti? Oh quanti e quanti a forestiero laccio
Porsero il piè! Ma Cesar s’apparecchia (i6) (15) Cesare Augusto
fece presso il Tevere rappre^ sentore una battaglia navale detta
Ncumachia. Intro^ dusse in questa a combattere le flotte che Marc*
An-^ ionio aveva raccolte contro di lui nell* Oriente ^e le navi
ateniesi denominate Cecropie da Gecrope primo Re d* Atene y che seguirono
il partito di M. Antonio^ Furono queste armate navali vinte tutte da Azio
, e servirono nella Neumachia d* un brillante spettacelo a futta
Roma. (16) Augusto destinò una spedi^àon per V Oriente contro
Frante, e vi mandò il suo Nipote Cajo nato da Agrippa e da Giulia. Marco
Crasso e Publio suo figlio avidi delle ricchezze de* Parti intrapresero
con¬ tro i medesimi una guerra, in cui furono poi essi miseramente
trucidati con undici Legioni . Per far a Cesare un encomio, dice ora il
Poeta , che deve Cajo riportar vittoria di que* popoli , e riacquistar
la ^ne romane da loro tolte Crassi* ^ Digitized by
Google i5 Già il restò a sog^ogar del Mondo
inter#^ E già Taltiino Oriente è nostro ancora. La pena avrai
dovuta , o Parto audace, £ voi godete, ombre deaerassi
estinti, E con voi godan le romane insegne Di barbarica
destra a ragion schive. Ecco il vindice vostro , ognun
racclama Invitto Duce nelle schiere prime; Giovin sostiene
perigliose guerre Quasi invecchiato fra le stragi e Parmi. Deh non
vogliate, o timidi, il valore Dagli anni loro argomentar de’Numi;
E la virtù ne’Cesari preepee. Degli anni Suoi più assai
rapido sorge Celeste ingegno, e mal tollera Ponte D’una pigra
dimora. Era bambino (17) Ercole allor che ì due serpenti oppresse.
Ed èra in fasce pur degno di Giove. O Bacco^otu che ancor fanciullo
sei, (18) Essendosi Giove innamorato perdutamente d^Alc^ mena
, si presentò a lei vestito delle sembianze d*An^ fitrione suo maritoy
quando questi trovavasi alla guer¬ ra di Tehe.Da Giove e da Alcména
nacque Ercole, che fu allevato in Tirinta Città in Marea vicina ad
Ar¬ go , e però fu detto Tirinzto . Intenta per ciò la ge¬ losa
Giunone a vendicarsi delP infedeltà di Giove, suscitò contro d* Ercole
due serpenti ; ma egli li uc¬ cise valorosamente, benché fosse di tenera
età, (18) Bacco armato, d^ una lung^ asta , e seguito da Ufi
esercito d* Uomini e di Donne , corse intrepido nel* VOriente,e soggiogò
quVpaesi che allor tutti,si com¬ prendevano sotto il nome d* India .
Essendo quelV asta così acuta, che imitava la conica figurai del Pino,
fu detta dagli antichi Poeti il Tirso , giacché Thirza ià lingua
ebraica nuW altro significa, se non se un ramo di Pino^ •Intrecciavano le
Baccanti sul tirso V uve e i pampini cotk P edera p perché Bacco insegnò
affli Digitized by Google i4 ,
Qoanto fosti mai grande allor che i tuoi Tirsi dovè temer l’India
domata!' E tu prode Garzon sotto gli auspiej (ly) Del Padre ,
Tarmi tratterai vincendo. Sotto un nome sì chiaro aver tu dei I
primi erudì menti, e come il Prence (ao) uomini la maniera di
coltivar la vite . Alcuni Eruditi poi fChe ricercan la moralità nelle
favole ^ pretendono che dipìngasi sempre giovine questo divino
coltivator della vigna ^perche gli uomini si rendon col vino in lor
vecchiezza amorosi e lascivi , come lo furono in gioventù ,. Mons„ de
Lavaur con molti altri , i quali hanno^ attentamente 'considerato le
imprese di Bacco e l* etimologia stessa del Tirso, porta
verisimilmente opinione y che sia questa favola tratta in origine
da que^libri della sacra Scrittura, che parlano di Mosè. e di
JVoè, (19) Si rivolge il Poeta a Cajo,che fu adottatò
figlio da Cesare Augusto. Romolo
dalle tre Tribù, nelle quali aveva di^ stribaito il popolo romano y
raccolse per ciascheduna cento uomini, che fer nascita , per ricchezze, e
per altri pregi ^^^no i più riguardevoli. Furono questi chiamati
Cavalieri y perchè trascélse quésoli , che fes¬ ser meritevoli d* un
Cavallo , su cui dovean combat¬ tere in difesa di lui ; e si
distribuirono in tre Ceti* turie, che conservando il nome delle Tribù,
dov*erano sfate raccolte, si chiamavano é/e^Rammensi da Romo¬ lo ,
dei Tasienzi da Tazio Re dé Sabini, e dei Lace¬ ri Lucomone JRe d'Etruria
, che fu , come dicono., il fondatore della Città di Lueca . Da
Tarquinio Prisco, e da Servio Tullio vennero in seguito accre--
sciati di numero y senza mutar però il nome di Cen* iurte ; esercitarono
poi varie luminose incombenze ; e JU'denominato il loro ordine Senatus
Seminarium, perchè in esso scieglievansi i Senatori • i 5 . Lu*
Jglio facevano i Cavalieri ogni anno splendidamente in lor
rassegna, mentre dal Tempio dell’Onore, che era situato fuori della città
, andavano al campìdo* coronati d* ulivo , cinti d^ una purpurea
veste det- Or de’Giorani sei, sarai col tempo
L’oroamento miglior do'rccchj Padri. Vendica ofFesi i tuoi fratelli, e i
dritti (ai) Del Genitor sostieni : della Patria £ Padre 6 Dlfensor
Parcne ti cìnse; Ed or che l’inimico i regni invola, Cruccioso alla vendetta egli t’invita.
Scellerati di lor saran gli strali. Pietà e Giustizia i tuoi
vessilli, e Parrni Della causa miglior sostenitrici. ' ta
trabea, t assisi sopra i loro cavalli . 0 §ni cinque anni poi appena
giunti al Campidoglio , scendevano da Cavallo , e presolo per mano lo
guidavano avanti al Censore ivi assiso sopra una sedia curale ; ed
egli comandava di ritenere il Cavallo , se bene aveva il Cavaliero
adempiuto a* suoi doveri ^e di venderlo , se aveva malamente eseguito le
sue incombenze. Leg^ geva il Censore in tale occasione il catalogo de^
Ca¬ valieri yC si chiamava il Principe de* Giovani o della Gioventù
quello che era da lui nominato il primo ; e ciò non perchè fossero
attualmente tutti gióvani , ma perchè lo fàrono nella prima istituzione^
e perchè Veta giovanile si estendeva pressò i Romani fino a qua¬
rantacinque anni. Principe de’Senatori o del Senato ne*primi tempi
del¬ la Repubblica si chiamava quello che il primo tra*Sena- tori
viventi era stdto Censorey poi quel che dal Censore fosse stato nominato
ili primo nel leggere il catalogo d^ Senatori y e nell\ anno dalla
fondazione di Roma quel , che dal Censore era riputato
degnissimo. (al) Pompeo y domato il Re Tigrane y costrinse
gli Armeni a ricevere da* Romani in segno di servitù i Rettori. Si
liberarono essi da un tal giogo y ma Cajo li obbligò nuovamente a
soffrirlo , e vendicò in tal guisa i dritti d*Augusto y che dal Senato e
dal Po^ polo romano fu per mezzo di Valerio onorato del lu¬ minoso
titolo di Padre della pAt<‘ia, ^ (^a) I Parti tentavano di farsi
padroni delV Ar- mersia* Digitized by Google
i6 Ora il mio Duce alle latine aggiunga L*eoe
ricchezze. E voi j Cesare e Marte, Entrambe Padri soccorrete il
Figlio, Che in difesa di Roma espon sua vita; Come già
Marte^or tu, Cesar, sei nunie* (a 3 ) Ecco raugurio mio; tu
vìncerai; Sciorrò co’ carmi allora il voto ; degno* Tu
allor fatto sarai d’alto poema. Porrai le squadre in ordinanza, e
all’ armi Co’ versi miei 1 ’ esorterai : tenaci Di me nel tuo
pensiero i detti imprimi. 11 petto forte de’ Romani, il tergo (24)
Io canterò de’ Parti , e l’inimico Telo, che vibran dal cavallo in
fuga. Mentre tu fuggi, o Parto , e cosa al vinto, Oude sia
vincitor, tu lasci ? Il tuo .Marte recò finora infausto augurio.
Dunque quel dì verrà, Cesare, in cui Tu di natura la piò amabìl
opra Di lucìd’ oro adorno andrai tirato Da quattro^ candidissimi
cavalli ? Or mal sicuri nella fuga i Regi Partici andranno
innanzi , il collo carco Dì pesante catena • Insiem confusi Giovani
lieti e tenere Donzelle, D* un’insòlita gioja il cor ripieno,
Mireran lo spettacolo gradito. " Se una di quelle a te
richiegga i nomi Di que’ Re, di que’ monti, di que’ fiumi,
(a3) Fu Cesare Augusto ascritto in aita fra i Dei , $d ebbe perciò onori
diHni. ’ (a4) Avevano i Parti in ' costume di guerreggiar
fuggendo , ed anzi si rendevano formidàbili , mentre ^ibravan le lor
saette^ da wjt cavalle rivoltp in fuga. Digitized by Google
^7 Di que* paesi 9 a tatto ciò' rispóndi;
£ non richiesto ancora il; tutto narra, E le cose puf anco a
te mal note. Cinto di canna il crin l’Eufrate è questo, (aS)
11 Tigri è quel colla cerulea chioma. Ecco gli Armeni^, e Perside
che tragge (a6) Da Perseo il nome suo ; nell’ achemenie Valli
questa Città si giacque . Il nome Dirai di questi e di que’Re, se il
sai, O almen 1 ’ adatta . L’imbandite mense Facile danno ed i
conviti accesso, Ove da far contenti i tuoi desiri V’ è cosa
anc’ oltre i vini : ivi sovente Calcò di Bacco l’orgogliose corna
Con le tenere mani il bel Cupido, Di cui se intrise sien 1 ’ ali
nel vino Più non puote fuggir : grave s^ asside; Tu umide
penne , è ver, veloce Scote. Ma non vola per questo, anzi
novelli Desta incendj nelP alme, che dal vino Sono disposte e rese
atte al calore. Ogni atra cura e molce e fuga il vino; Allora
il riso ha loco ; allor l’abietta Mendica gente pure il capo
innalza; Fuggon le cure, il duci ; le crespe fronti Vengono liete ;
e la si rara in questi Tempi semplicitade i più secreti Pensier
dell’alma svela, che il Dio Bacco (a 5 ) UEufrate ed il Tigri,
avendo , secondo Vo^ pinione d*alcuni, la lor sorgente nei Monti
armenii si prendono qui dal poeta per li principali fiumi del» V
Armenia, (a6) Persìde è una famosa città , che vuoisi fab.-»
bracata da Perseo figlio di Danae nelle valli persiar ne, dette
achemtiiie dal Re Achemene* Digitized by Google
id Ogni mistero svela e l’arte infrange • (27) De’
Giovanetti il cor ivi ben spesso Rapiron le Fanciulle ; Amor nel
vino Fu foco a foco unito • Ma non troppo A lucerna ti fida
ingannatrice; Mal nella notte , e fra i bicchier ricolmi
Della beltade si può far giudizio. Allo splendor del giorno, a
cielo aperto Paride rimirò le Dive allora Che alla Madre d* Amor
disse : tu vinci L’ una e 1 ’ altra in beltà , Venere bella.
S’ asconde nella notte ogni difetto; Ad ogni vizio si perdona
, e allora Ogni donna sembrare alPuom può bella; Consulta il di
guai gemme e quali lane, Tinte di tìria porpora, sien atte A fsLjp
bella la faccia e il corpo ^ Come Io delle Donne numerare il ceto
Di non ardua conquista ? E assai maggiore Dell’ arene del mar . Come di
veli (28) Di Baja. i lidi narrerò coperti. E per calido
zolfo acque fumanti? Riportando talun ferito il petto Da
queir.onde, non son , ( come racconta La fama ) dice , salutari
ognora. Ecco di Cinzia suburbana il tempio Ì ayl Alludesi al pros^erhio latino in
vino veritas. Baja in Campania , o com'oggi dicesi in ter-^ ra di
Lavoro i era un amenissimo Castello^ che con- teneva entro di se degli
ottimi bagni caldi, e alcuni laghi in cui rrnvigavan gli antichi con
diverse barche variamente dipinte, sulle quali facevano ancora de^
gli allegri conviti. Questa Dea, che si chiama Lucina in
Cielo, Eeate neW inferno, e Diana in terra , ha ancor fra
Silvestre» ed ecco ì conquistati Regni. Perchè
vergifte ella è » perchè ella in odio Ave d’Amor gli 8tijali,.al popol
diede» £ mai sempre darà mille ferUè. ^ Fin qui Talia
sopra ineguali rote( 3 o) Come tu debba scer T amato oggetto»
E dove tender t’insegnò le reti. Della tua Bella onde
adescare il cére Preparo or io delF arte opra speciale. Uomini» voi
chiunque » e donde siate, Porgete al mio parlar docili menti»
E le promesse mie ptopizj udite. Tosto nell’ alma tua scenda
la speme Di conquistarle» e vincitor sarai; gli altri nomi
quello di Cinzia » perchè essa ed Apoi* lo nacquer nelVIsola di Deio »
ov^ è il Monte Cinto. I popoli del Chersoneso » o com* ora chiamansi »
della Crimea » le immolavano gli ospiti ivi spinti dalle tempeste,
he femmine romane » dopo Vavere ottérsuto ciò che htamavun co" voti,
andavano a* d*Agosto con le. faci ardenti in mano, e la corona eul
capo\ al Tempio suhurbano di questa Dea situato in Arì^ eia. Quivi
frequentemente i Sacerdoti succedevano gli uni agli altri » mentre , non
godevano di questa di* gnità solamente gV ingenui, ma se la
contrastavano anche i servi e i fuggitivi in una guerra particola*
re » in cui chi riportava la vittoria , otteneva a un tempo stesso il
Sacerdozio » che apprezzavano come un Kegno. Una tal Dea peraltro y
quantunque sten* desse dal cielo per godere del suo Pastorèllo
Endi-- mione » fu sommamente gelosa della propria pudici* zia,
giacché trasformò in Cervo Atteone \ perchè osò di guardarla quando era
nuda in un bagno. (3o) Talia è quella Musa » che presiede
principale mente a* Canti piacevoli e amorosi. Dice Ovidio ^ che
dia insegnò sopra inegnali rote ec. alludendo al diè stico latino » il di
cui Esametro ha » com* è noto ^ sA piedi, e cinque il Pentametro^
Ma intanto tender dei T insidie : prima Gli augelli taceran di
primavera, Le cicale in estate , e il can d^Arcadia Incontro
a lepre prenderà la fuga, Che dolcemente Femmina tentata A
Giovine resista ; e quella ancora Tu vincerai, che ti parrà
ritrosa. Come il piacer furtivo è grato alF Uomo, £ grato
alla Donzella . Asconde questa Le brame sue, T nomo le cela invano;
Ma se tu possa* vincerla una volta, Preverrà con le sue le tue
preghiere. Ne’ molli prati al suo Torello accanto La giovenca
muggisce ; e la Cavalla Col suo nitrir fa lusinghiero invito Al
cornipede maschio . In noi pkt forti^ Ma non però cosi furiosi,
sono Gli stimoli d’ amor i lodevol fine Ha la fiamma delP Uomo. A
che di Biblì ( 3 i) Ricorderò, che d’ un vietato amore Arse pel suo
Fratello , e pon un laccio Vendicò da se stessa il suo misfatto?
Non, come Figlia dee,Mirra amò il Padre,( 3 a^ (3i) BiUi
nata da Mileto e dalla Ninfa. Gianczf , amò perdutamente Canno suo
fratello. Siccome non Ve riuscì di renderlo à sitò riguardo amoroso ^ si
die in preda a un pianto così dirotto ( se si presti je e al libro
IX. delle Metamorfosi ) che fu convertita VI un fonte yo( se si crede al
libro presente ) si prò-- curò ella etessa con un laccio la morte.
(3a) Avendo Mirra concepito un immenso amore per Cinìra suo padre ,
gli fu posta in letto da me nutrice in luogo della consorte. Accortosi
Cinira del fallo , tentò di uccìderla } ma essa fuggì bay ove fu
cangiata in albero , e diede alla luce il bellissimo Adone , che fU V
‘unico frutto d un st fu nesto incestuoso accoppiamento.
Digitized by Google ai E oppressa ora si cela in
chiasa scorza: Delle lagrime poi, che dal suo tronco Odoroso essa
elice ^ ungiam le membra. Che s^ban quteste stille il primo nome,
Del frondos’Ida nelVombròse valli. (33). Era forse la gloria e la
delizia Deir armento un Torel candido , solo Negro segnale avea fra
corno e corno: Una sol f^u la maccbìa, e latteo il resto.
Questo bramaron sostener sul tergo Le giovenche ginosie e di Canea.
Oodea di farsi adultera Pasifae (34) Del Toro., e'nel ano ooj
geloso sdegno Nutria contro le amabili giovenche: Io cose
note canto; e ciò non punte Creta negar, quantunque siai*iqendace.
Creta, cui son cpnto Città soggette. Con r inesperta man ; Pasifae
ali Totro Dicesi recideste or verdi frondey S 1 Or r erbe
tenerissime de’ prati.2 Erra compagna dèli’st>nentOì,;e invano-
Del maiitoy pensier T arresta j vinto. Era Minos da-un hove ^ A
rche* tu vesti, . Donna , preziose spoglie ? Il tuo Diletto Mà è un
mont 0 ^ Creta ; nè deéù qui còn^ fondere cpl Monta, Ida^ pqiaao , ope
seguii la famgsa lite fra Venere y Pallade e Óit^none. (34)
Sdegnata Venere contro il Sole y perchè Vavea fatta sorprèndete da^*Numi
det letto con Marte ffe* à che Pasifae figlia del .medesimo , e moglie di
Mi-» nos Re di Creta, ^ innamorasse ardentemente d* un Toro.
Essendosi questa racchiusa in una Giovenca di legno coitmtta da Dedìdà y
si congiunse col Toro diletto, e diede al Sole, in nipote il celebre
Minotaio- To , che fu ucciso da Teseo nel famoso làbcrkito»
Di tai ricchezze non conósce il pregio. Mentre vai di montano
armento io traccia, A che giova lo specchio , a che le chiome.
Lassa, adornar si spesso ? Ah I presta fede Pare allo specchio 4 che
bovina forma Ti nega ; invan veder sulla tua fronte Desideri le
cornac Se ti piace ' Minos, a che un adultero ricerchi P E se brami
ingannarlo , a ché noi fai Con un Uomo? Per boschi e per foreste
Oià la Regina , il talamo lasciato, ^ Vanne quasi fiaccante , a cui
furore Spiri P aonio Dio . Oh quante volte La giovènca «rivai con
volto iniquo Mirò, e fra se, perchè tu piaci, disse, Al mio Signor ? Ve^com^* in facciala
lai* Scherza sull’erbe tenere , ed esulta,, E tài fóIlié/-non
dubito non credai ^ Per lei decenti : mentre in suo pensiero:
Volge tai còse , ordina che sia tolta* ^ • Dal gregge immenso , è
immeritevol venga Al curvo giogo strascinata, o vuole Di
snperstizion sacrai * fra-l’are • • Vittima cada;!e nella fi^ta
dtwtr^ , • Gode tener .le.:.viscero fumanti — - -
Dell’uccisa rivai. AHI quante voke ? Gon le uccise rivaV placando i
NUìiii, ^ Disse, tenendo'visceri\-'piacete ' Al mio Dilettov
e quante volte ancora Chiese in Europa èsserconversa e in Io, (35)
(35) Europa figlia di Agenorg Re di Fenicia , ^ éorella di Cadmo ,
era dotata di^ sorprendente^ bellez¬ za. Aree Giòvo per Ui. di un amore
così violento, aS Che questa è una Giovenca, e quella
ìMotso' Premè d’ un Bovo . Fè le strane voglie Paghe Pasifae ascosa
in lignea vacca, Onde il parto alla luce uscì biforme.
Se sapeva piacere ad un sol uomo^ (36) E foggia di Tieste il
turpe amore D’ Atreo la Sposa, non avrebbe Febo Il cammino sospeso
in mezzo al corso, E rivoltato il carro, i suoi destrieri
Mossi incontroairAurora. Anco la Figlia,( 37 ) Che i purpurei capelli
involò a Niso, Coprì del corpo suo le parti estreme Con la
sembianza de’ rabbiosi cani. thè trasformatosi in Toro, la portò
sul suo dorso in quella parte di Mondo , che dal nome della medesu
ma si chiama Europa. Io y o Iside fu , come Si è detto al numerò
ii. epnoertita dallo stesso Giove in una Giovenca. (36) Erope
moglie d* Atreo giacque con Tieste fra^ tello del medesimo, e nacquer da
essi due figlj, che avendo Atreo dati a mangiare al lor padre
medesimo in un convito, il Sole per celare un tanto misfattò tornò
indietro , e corse incontro aWAurora. ( 87 ) Scilla, figlia di Niso
Re di Megara s^ inva^ ghì di Minos Re di Creta , che le assediava la pa^*
trìa, e a lui recò il purpureo capello del padre, dal qual dipendevano i
fati di quella Città. Essa fu jj^i disprezzata harharamente dalV ingrato
Minos , e fu , secondo le metamorfosi, cangiata in uccello. Vi fu
però un^altra Scilla figlia di Eorci , la quale , avendo bevuto un^acqua per
lei avvelenata da Circe , venne subito trasformata in un mostro, la di
ciS parte inferire era simile a quella di un Cane. Con-^ eepì la
medesima tanto orror di sé stessa , che si get>» tò in un golfo del
mar di Sicilia , che ha preso da ^ella il suo nome» Ovidio ha qui confuso
fseste due*^ Digitized by Google a4
Il Figli uolo d^Atieo, che in terra e in mare (SU) Di Marte e di
Nettuno evitò V ira. Cadde vìttima poi della Consorte.
Chi di Creusa sull’inìqua hamma (Sq) Non sparse il pianto, e sulla
Strage orrenda Che fe* de’proprj figli un* empia Madre ? Frivo
degli occhi pur pianse Fenicio, (4o) E voi, oarallì spaventati, il vostro
( 4 i) (38) Agamennone è veramente figlio di Filistene , ma
da Ornerò^ e da tutti gli antichi poeti gli vien dato per padre Aireo suo
aco come un personaggio più celebre» Fu dichiarato Agamennone per le sue
mira^ bili imprese il Re deTle di Grecia, e per tradimento di
Clìtennestra sua moglie ucciso da Egisto , dal quale era ella amata
impudicamente, ( 39 ) Giasone j abbandonata Medea, sposò
Creusa figlia di Creonte Re di Corinto, Medea per vendicarsi di
tafe infedeltà , f^ strage di due teneri fanciulli nati da lei 4 da
Giasone, e ridusse con fuoco ariifi- doso in cenere ì* infelice Creusa e
tutta la famiglia e la Reggia di Cleonte, (40) Furono tratti
gli occhi a Fenicio figliuol d^A^ mintore, perchè una concubina del padre
Vaccusò falsamente d'acerle tolto Vonore, Ricuperò egli la vi¬ sta
per i farmaci a lui apprestati da Chirone , il qual gli die poi in
custodia il giovine Achille, con cui andò aWassedio d,i Troja,
(41) Ippolito figlio di Teseo disprezzo Vamorosa corrispondenza che
gli esibì Fedra sua matrigna, Sde¬ gnata ella fieramene di ciò , disse al
padre , che le aveva il medesima insidiato V onestà ^ e Teseo lo
ab¬ bandonò al furor di Nettuno, Essendo per ciò com¬ parso un
orribil mostro marino^ mentre Ippolito se ne andava sul suo, carro lungo
la spiaggia del mare , i cavalli per lo spavento preser la fuga,
marciarono il legno in pezzi ^ e trucidarono miseramente il lor
Cgxìdottii^o, > Condottier tracidaste.E perchè» o Pinco,
(42) Gli occhi tu togli agPinnpcenti figlj ? Ah che la atessa
^eaa. il tuo delitto Un dì vendicherà. Tali infortunj ^ Da uno
sfrenato aq^or trasse sorgente Delle lubriche donpe . Ornai t’
affretta, £ non temer di ritrovar contrasto Nelle Donzelle ;
appena, una fra molte * Ne incontreraiepe. a te neghi vittoria. E r
indulgènti e, le ritrose pure lì Goì^qu esser pregata; pna ripulsa
I Non ti spaventi ^ è questa ingannatrice. iMa perchè ingannatrice Y
ognor pip grata INuova per esse voluttà riesce. |E l’alma
loro adescan facilmente |l novelli amatori ..'Il vici^ campp Ci
sembra più .ijber^^so ,^0 il gregge altrui ^-,*• /• -
Vedi che a parte sia della Padroni I )
Ov, Arte (Tarn. b (4a) Fineo figlimi Agenore Re Arcadia yO
co¬ me ad altri piaqe, di Tracia , o di Paflagonia y spo¬ sò
Cleopafi^a figlia di Bqrea, e‘. n*ehbe due figli. O sia che questa
morissero che fosse da lui ripudia¬ ta y prese il medesimo in moglie
Arpài ice , e cornane dò , che fossero ioltìr gli occhi a* due figlj
della sua prima eoniorte, perché temè che aiiesjser avuto un il¬
lecito commercio con Ija novella sua sposa. Fu da Borea vendicata V
innocenza do* nipoti con Vacciecof- mento di Fineo , e Giunone e Nettuno
gli mandaro¬ no sulle mense le Arpie y che a lui macchiavano tur¬
pemente quelle ‘ vivandé y che non mangiavano essa stesse* •
Digitized by Google 26 De’ nascosti
consiglj, e de’ piaceri Suoi più segreti. Con promesse e prieghi
Corrompi la sua fi; tutto otterrai, Quand’ ella voglia, e non ti
sia contraria, Dalla facil. tua Bella • Il tèmpo scelga. Come i
Medici sogliono , propìzio. Onde il tuo amor nel dodi cor le
infonda. Ella il tuo amor le infonderà nel core, Quando per lieti
eventi andrà giuliva Come lussureggiare in pìngue campo ' Suole la
biada. Quando r alma è scarca Dalle pallide cure , e lieta esulta.
Si spande allora , e dà facile accesso ÀH’arti lusinghevoli
d’amore. Mentre fra i neri affanni involta visse " Troja
, con V armi si difese ; e lieta (43) Il cavai di soldati e insìdie
pieno Àccolèe entro le mòra. Ancor si tenti, £ non rimanga
inyendicata , quando Si dorrà , chè riceve ingiuria e scorno Dall*
impudica Amante del Marito. La punga a sdegno la fedele
Ancella, Quando col pettin mattutin compone Gl* indocili capelli,
ed alle vele. L’ ajuto aggiùnga anco de’ remi, e dica, Sospir
seco tràehdo, in bassa vocè: Tu noli potrai, cred’io » come si
merta. Rendergli la pariglia. Allor le parli Di te con detti
insinuanti , e.giuri Che tu brugi per lei d’immenso amore. Mentre
il tempo è propizio , ella s’ affretti ( 43 ) Alludesi al cavallo
di Ugno ^cht il perfido Sinone introdusse pien di soldati in Troja ,
quando tra assediata da* Greci» Virgilio Endde IÀh»lÌ»v»
Digitized by Google Che non cadan le vele, e cessi il
vento. Come sì scioglie il gel, V ira , indugiando^ Si dilegua
così. Forse mi chiedi. Se la servente innamorar ti giovi ?
Tai cose ammesse, il rischio é manifesto^ Una rende V amor più
diligente, L’ altra più tarda e meno attenta : questa Alla
Padrona sua ti serba in dono, Quella a se stessa • esito
dipende Dalla fortuna, che quantunque arrichì Agli audaci ^ a te do
fedel consiglio. Che d’ un’ impresa tal lasci il pensiero.
Non per scoscese perigliose strade Andrò, nè, duce me, verrà
ingannato Alcun Giovine amante * Ma se poi, Mentre riceve e
assiduamente porta L’innamorate cifrerà te non solo Per la sua
fedeltà piaccia, com’ anco Per la beltà del corpo ; allor procura
Della Padrona in pria il possesso, e ch’indi Questa la segua: l’amoroso
gaudio Non dall’ Ancella incominciar tu dei* Se all’arte mia
si crede, e i detti miei Non portano pel mar rapaci i venti, Questo
consìglio mìo nell’alma imprimi: Non mai tentar 9 se non compisci
l’opra» Se a parte ella verrà del tuo delitto. Non la temere
accusatrìce • Invano Invischiato l’angel tenta la fuga. Nè riesce
già uscir dalle allentate Reti al cinghiale • Il pesce all’ amo
colto Si scota invano ; tu la premi e assedia. Nè la lasciar
, se vincitor non sei. Se a una colpa comune ella soggiace,
Digitized by Google a 8 Non temer
tradimenti ; a te saranno Note della Padrona opre e parole.
Se cauto celerai 1’ accusatrice. Sempre, contezza avrai della
tua Amica. Folle è colui che in suo pensier si crede òhe sol debban
del cielo osservar gli astri Della terra il cultore ed i nocchieri.
Non a’ campi fallaci ognor sì debbe Cerere abbandonar, nè alle
tranquille*^ Cerulee onde del mar la curva prora. Ah 1 che
non sempre assicurar ti puoi Il cor di vincer delle Belle; spesso
Ciò s’otterrà, se il tempo sìa propìzio. Se deir Amica il natalizio
giorno (44) (44) Era presso gli Antichi in gran venerazione
il giorno natalizio : e gli Amanti celebravano ‘ con feste e con
doni quello^ in cui eran nate le Donne che ama^ vano . Si dee preferir
certamente questa lieta costui manza a quella che hanno adottato i Messicani
e i Cinesi, i quali riguardano un tal giorno come infausto e
doloroso . Alcuni di essi invece di ricevere con ac¬ clamazioni di gioja
la nascita d^ un figlio , gli rispon¬ dono ai suoi primi singulti , mio
figlio tu sei venuto al mondo per soffrire \ soffri ^ e t’acquieta . Si
fab- hrican altri di buon^ ora la tomba, e vanno ogni giorno a
renderle omaggio come al termine consola¬ tor é d^.lor giorni . Non poco
influisce, a dir vero, un tal uso a fomentare il barbaro costume d^
uccidere i proprp figli in un popola ^ il guala non gli Ottimi suoi
libri classici illustrati dall* immortai Confueio e con le savissime
leggi, su cui ha stabilito il suo pacifico Impero, cerca di rendersi
virtuoso ed illuminato. Èra presso i Romani nel suo pieno vigore P
uso delle visite e de* doni nel principio dell* anno, il qua- le
incominciava anticamente col mese di Marzo , le di cui Colende eran
consacrate al Dio Marte . Cele- hravand in Roma nel primo giorno d*un tal
mese alcune feste dette matronali in memoria della pace
Digitized by Google SLg Ricorra , o le Calende
che seguito Abbiaa quelle di Marte, a Vener piace, O sia che
il Circo sì rimiri adorno, (45) Non come in altre età, di statue
lievi. Ma per le spoglie ivi de i Re deposte, L’ opra
differirai : sovrasta allora Con le piovose Plejadi P inverno;
Allor nella marina onda s’immerge Il Capro tenerello ; allora
giova Deporre ogni pensier . Chi al mar s’afSda Del lacero naviglio
appena puote 1 miseri campar naufraghi avanzi. Tu se in quel
dì incominci , in cui si vide che le Sabine avevano appunto in tal
di stabilita fra i loro SpoH , ed i loro Padri , i quali volevano
con V armi vendicare il ratto delle medesime . Le persone maritate
avevano solamente diritto a queste feste / ed OraT^io nell* Ode ottava
del Libro III. si scusa, perchè vi prende parte anch? egli , essendo
celibe. Siccome il mese d* Aprile è sacro a Venere , e suc^
cede a quello di Marzo dedicato a Marte , dice il Poeta che Venere gode
che abhian le sv^e Calende seguito quelle di Marte per alludere
alVamorosa cor^ rispondenza che ella aveva coi Dio della guerra .
Le Ihnne e le Matrone romane facevan nelle Calende d*Aprile gran
festa a questa lor Pea tutelare ; e gH Amanti contribuivano alle medesime
con le donazioni. (45) Non vuole il Poeta, che si studino i
Giovani per adescar le Donne nel lor giorno natalizio , nel
principio dell* anno , e in occasione de^trionfi celebrati nel Circo ,
perchè essendo le medesime allora occupate in adornarsi , incontrerebbono
qiiP gravi pericoli , che sono qui espressi con l* allegoria dell*
Inverno , e con quella delle Plejadi e del Capro , le quali stelle
sorgon sull* orizzonte nel mese d* Ottobre , che è un tempo pieno
di pioggia e di tempeste , e perciò non propizia a*
Naviganti.. Scorrer sanguigno umor la flébìl Allia (4($) Per le
piaghe latine, o in quello in cui Torna la festa settima, che è
sacra Al Palestin siriaco, e in cui s’ astiene Ognun dalla fatica,
avrai mai sempre Culto superstizioso al di natale Delia tua Bella ;
pur funesto giorno Sia quello , in cui tu offrir dono le debba; Ma
a te lo rapirà , se tu gliel nieghi, Che a Femina mancar non puote 1’
arte Per carpir le ricchezze a Giovin caldo. Del Mercante il Garzon
verrà discinto Alla vogliosa ed avida Padrona, E porrà le sue
metti in vaga mostra, Mentre tu giungi, e al fianco suo t’assidi.
Essa ti pregherà, che tu le osservi Per additarne il prezzo ^ e
liberale Ti sarà di preghiere e ancor di baci, Perchè le compri , e
giurerà contenta D’ esserne per molt’ anni , e che non puoi
Comprarle cosa che le sia più accetta. Se poi ti scusi che non hai
denaro, Ti chiederà il tuo nome , e turpe fia Per scusa addur
, che tu firmar noi sai. Rinasce poi, quando le fa bisogno,
(46) A ih. Agosto ebbero i Romani una sconfitta da* Galli sul fiume
Allia non lontano da Roma , onde come infausto e di pessimo nome fu
condannato un tal giorno . Crede il Poeta , che debbano i Giovani
onorare il dì natalizio delle lor Belle , e vuole che intraprendano V
amorose loro conquiste 0 in que* ma-- linconici tempi qui figurati sotto
il giorno alliense, CUI aman le Donne d* esser rallegrate, o in
que^giorni festivi simili a* sabbati giudaici , ne* quali non è alle
medesime permesso 4 * occuparsi in alcun lavoro. Che dell* offerte
natalizie il giorno Rìeda y e di pianto sa bagnare il volto Per la
supposta perdita di pietra. Che le ornava 1’ orecchio . D* altre
cose L’ uso ti chiedrà , che date poi Renderle nega ; tu le perdi ,
e invano Speri per ciò che grata ti si mostri. No , quando
avessi dieci lìngue e dieci Bocche , io già non potrei dell’
impudiche Donne n^^rare le sacrìleghe arti, li guado tenti un ben
vergato foglio; E della mente tua la prima volta Sia nunzio ;
le carezze, e le parole, Che imitino il linguaggio d’ un
Aliante Rechi , e fervide aggiungi anco preghiere. Donò da’prieghi
mosso a PriamoAchille (4?) Di Ettor l’esangue spoglia; e Iddio
sdegnato A voci supplichevoli si piega. . Prometti pur , che
nuocer già non ponno Mai le prorjaesse ; ognun può farai ricco Con
semplici parole. La speraD 2 $a Data una volta , lungo tempo dura:
C' inganna , è ver , ma Diva utile è a noi. Se liberal con lei fosti
di doni, Avrà ragion d* abbandonarti ; quello, Che già
le desti, è suo , nò può timore Di perdita nutrir . Ognor tu devi
(47) Achille dc^ aper ttraseinato tre volte intorno alle mura di
Troja il corpo d* Ettore da lui ucciso alV assedio di quella Città y lo
rese finalmente y 0 a dir meglio , lo vendè\ a- ^Priamo Padre del,
medesimOy che prostrato a* suoi pièdi > lo pregava di ciò
caldamente^ Exanimumaue amo oorpns vendebat Achillea. 1
Virgil, Digitized by Google 82 Finger
di dar quel che non desti; spesso Fu deluso così di steril campo II
credulo Padron • Così, perdendo A perder segue il giocator, nè
lascia Per questo il gioco ; e il lusinghiero dado Nelle cupide
mani agita ognora. Questa è Tiinpresa, e qui il Valore è
posto; Ascolta ; senza doni il suo cor tenta La prima-volta, ancor
che ì doni apprezzi; Se lor liberal ti sia, 8«^rallo Ognora.
Vada dunque il tuo foglio , ma vergato Con detti lusinghieri ;
della Bella La mente esplori ,*e primo il caihmin tenti. Cidippe ingannò
un pomo, in bui rincue(48) Note leggendo, fu di queste preda.
O Giovani romani , io vel consiglio. Deh coltivate le bell’
arti ; solo Non utili Saran per la difesa ' De^ paurosi Rei ;
ma dalla forza Del facondo parlar, vinta la mano A voi daran col
Giudice severo. Con lo scelto Senato , e ilPopol folto Ancor
le culte amabili Donzelle. (48) Da Zea una delle Isole Clclàdì
andò Acanzio in Deio per assistere a* sacrifici di- Diana , che là
si celebravano splendidamente. Ivi ei concepì uìà^ immenso amore
per Cidippe, ma non ardiva di chiederla in is- posa . Stette molto tempo
dubbioso nello scegliere lin mezzo per appagare la sua passione ^ ma in
lui ces^ sarono i dubbj quando intese che vigeva in Deio una legge
, per cui restava concluso tutto ciò che si diceva nel tempio di Diana ;
è però gettò a* jùedi della sita Bella un pomo y in cui erano scritti i
versi seguenti* Juro tibi sane per mystica sacra Dianae He Ubi
venturam comitem sponsamque futuram: Ascosa V arte resti, e da
principio Non sii eloquente. Da’vergati, foglj Vadan lungi parole
aspre e ricerche. Chi mai, se non. di senno affatto privo»
In tuono volgerà declamatorio . < ; Alla tenera Amica il
suo discorso? Oh quante volte fu giusta cagione Di grave
sdegno un foglio ! 1 detti tuoi Meritin fede , e adopra usati
accenti» Ma sempre, lusinghieri » onde l,e sembri^
D’udirti ragionare . Se ricusa, •. Di ricevere il foglio , e
sena’ averlo , . Letto a te lo rimandi » |a speranza Però non
t’abbandoni » e ,il mio consiglio , Serba in memoria , II. collo al giogo
piega Il Giovenco difficile col tempo» E a soffrir
s’ammaestra il lento freno Col tempo anco il Cavallo. Un ferjreo
anello Dal cootinao nso si consuma » e il vomere* Dal continuo
rivolgere la terra Che del sasso è più duro? e che più molle ' Avvi
dell’ onda ? eppure il duco sasso Dall’ onda molle vieu scavato .
Ancora» Se sii costante» vincerai col tempo Penelope med^sma
: » A vero» ,, Caddero al suolo le trojatie.^muri^» Ma pur
caddero alfin 1 ìtiglj tuoi , Leggerà anch’ oasa » e non darà
risposta» Cui tu non debbi violentarla : solo Fa che ognor
legga lusinghieri accenti» £ di risposta alba sarà cortese A
ciò che l^sse ; a gradi e con misura Succedefansi questi ufficj ; Forse
/ Verrà da. prima A tc foglio dolente», à a
Digitized by “Google 34 Con cui ti
pregherà, che r amoroso Linguaggio cessi ; nia desia il contrario
Entro il suo core, e vuol che tu prosegua. Continua danque;e alfin resi
contenti Saranno ì voti tuoi . Quando supina Vien trasportata sulle
molli piume. Fingendo indifferenza, ti presenta Della Padrona alla
lettiga ; e canto, E in cifre ambigue quanto puoi favella.
Onde qualchfe importuno udir non possa Il vostro ragionar 7 Sé’ volge il
piede Negli spaziosi portici , tu quivi Trattienti fin eh* ella^ vi
fa dimora. Or la precedi ed or la segui a tergo: Or
lento movi il passo , ed or t* affretta. Nè d^ inoltrarti iU ntezzb alle
colonne Abbi rossor, nè di sederle al fianco. Non ne’ Teatri
senza te si trovi, E segnai póVti al teigo , onde la vegga. Giacch*
ivi il puoi, contemplala , e le dici Quanto brami co’segni è con lo
sguardo. Alla saltante applaudisci l e sii Favoirevole a quei che
rappresenta Personaggio amoroso . S* ella sorge, Sorgi ; e ti
assidi pur, s’ ella s’assida; £ a suo ^piacere il tèmpo tuo
consuma. Ma non volere innanelìare il crine Coiì’càldo ferro,
e con lUordacè pomice ' Stropicciarti le gambe ; il che tu lascia
A’molli Sacerdoti di Cibale. ( 49 ) ( 49 ) Oj9e , o Vesta , che
ancor dicevi Rea yC la Dea Buona, è Madre degli Dei, e si chiama Cibale ;
per^ che nel monte Gibele dU Frigia U furono la prima
Digitized by Google 33 Beltà negletta agli
uomini conviene: Vinse Teseo; Afianna » e la rapio Disa.doroo
le<t;onipie , il cria scompQsto;( So) Arse pe}*:FiglÌQ:Fe.drtt., ed
era incolto; Cura e deli^^ia. della Dea ;d’. Amore . Fu Adon
,:che fra le selve i di traeva. S’ann^grin pur le membra al marzio
Campo, Ma si^o monde, e monda sia la ve8te.(Si) Aspra non sia la
lingua, e netti sieno.i Dalla lug^e i denti; il mobil».piede . >
Non nuoti ih larga pollo ;^*ed ìne6perta i>olta kelel^ati i
sacrificj » T suoi Sacerdòti" éràtio ew.- nuchi , e ogni giorno ,ger
comparir moftdi , si raschia^ van membra, t ( 5 o) Ari^nay
figlia del Re Minos , s* innamorò per¬ dutamente di Teseo , che fu da*
Greci mandato con al- tri giovani in Creta per esser divorato dal
Ii/Iinotauro~, Etsa gV insegnò la maniera d*'uscir dal làbérinto
quàn^ do avesse ucciso quel mostroe in compagnia di dra sua sorella
s*.iifcamminò con. VAmante^ che dpmato il Minofauro y tornava in Grecia
vittorioso . Teseo chi nel viaggio orasi gik invaghito di Fedra ^ lasciò
bar-' Caramente in Nasso Arianna , .e andò con la sorella Ì2i Atene
sua patria . Ivi questa dioonne , come si è detto, amante d*Ippplito nato
da Tesele da Ippoli¬ ta Regina duello Amaz%oni. Venere amò
ardehtemente Adone ^figlio di Cinirq, e di Mirra , quantunque vivesse
continuamente né^ bos¬ chi intento a caccksre le fiere. Pianse ella
amaramert’^ te perchè questo giovinetto fu ucciso da un cinghiale^
e nony avrebbe mai reso a Proserpina , se Giove non comandava', che per
otto mesi avesse Venere il posses¬ so d* Adone , e per gli altri quattro
sei godesse Pro¬ serpina . '( 5 i) Nel Campo martió d
facevano in Roma al¬ cuni giochi, pe*quali i giocatori si snudavano
intera¬ mente , « si dngevan le membra con degli unguenti, che
rendeano a* medesimi nera la pelle. Digitized by Google
•36 Forbice non ti renda il crin deforme t Ma da
maestra iuan^ ti sia recisa E la chioma e la barba i $enza macchie
Sian r unghie, nè soverchinoi le dita; Nelle concave nari non si
scorga ^ ^ Alcun pelo; nè esali nn tris^to fiato* - ' La
bocca; e il naso non rimanga olfeilO „ Da che il fetido becco ognora
sape^ ' A lasciva Fanciulla il resto lascia, £ alla
bardassa . Ma già Bacco òhiama Il vate suo : soccorre ei pur gli
amanti; E, la fiamma che learde ei favorisce. „ Furente errava
la creten.^ Ppnna (Sa) Pcjr di Nasso ignota arena, .
Che flagellano ognor T onde dei mare» Ella coperta con
discinta veste Come nel sonno , nudo il pjede e sciolte Le crocee
chiome, al sordo mar si volge;. E bagnando di lagrime le gote,
Teseo chiamava in alto suòli : gridava, E in un piangea la
mìsera, ma in lei Era tutto decente ; nè men bella Fu di lagrime
aspersa « di dolore. Mentre di nuovo con le man fa ingiuria
Al delicato petto, a che fuggisti t É cosa fia.di me, perfido? dice^
Di me che fia, ripete ; e intanto il lido De* cìtnbali e de’timpani
p^cossi' Da un* attonita mano il suono assorda. ( 5 2)
Quando Arianna si vide aèhandonata nell* sola di Dfasso^si diede in preda
all* ultima dispera^ sùone . Bacco ivi accorso con le Baeeànti e Cón
Sileno , sfio pedagogo, la prpse in sposa y e collocò la. di hi
chioma in Cieìp prenQ ad 4 rtur ^t \ v.t Digitized by Google
Ca<l’ ella al suolo 4a timor sorpresa; Le mbucaa
le iparole ; e piik pon scorro Per le;geliAe} oppresse membra il
sangue. S’ appreesan ile ^eoauti^ U<cfia disciulto^ Ed opQO;i liéyl
3iltiri soiio Previa turbo del DiOi*;£coo sul dorso D* uo<
pasciuto asinel V ebrio Sileno Carico d’ anoi.y^^che :si reggo
appena, E profiumo aspirare>i )brevi crini. Meiìftr
eglit seguei'le! Saeeanti, e queste Lo cfaiadianp /oggende ; l’inesperto
. Cavaliere il qjUadrtipedo, suo si^za. Deir aaiào orecchiuto
al capo scorre, E a terra cade : i Satiri griderò;
Sorgi V deh sorgi y o Padre . Intanto giunge 11 Dio ^ che d’ uva al
carro adorno accoppia Le tigri, a ouircoh le dorate briglie 11
freno regge, • Partì : Teseo , e insieme D’ Arianna, fa voce ed il
dolore. Tentò tre volte di fuggir , ma invanoy Chè il timor
la trattenne, e inorridita Tremò qUal steril spiga al vento,e com#
Leggiera canna in umida palude; Allora il Dio le disse : * ogni
timore, Cretease 'Donna , dal tuo cer disgombra; In me tu* vedi un
più fedele amante; Di Baceo anzi sarai la dolce sposa.
Tu spazierai nel ciel ; la tua corona Lucida stella in ciel sarà di
scorta Air incerto Nocchiero in suo cammino. Di^se , e dal carro
scese, onde non debba Seatir paura delle tigri, e il piede Sulla
docil arena impresse Torme. Eapilla poscia, e se la strinse al
seno> Chè tentato avria id van forgi! contralto^
Mentre fonile a un Dio tutto si rende. De’suoi segnacr imen cantd
una parte, L’altra ripetè in alto snon gli evviva. Cosi al letto
nuziale il 0io 4 la Sposa ' Furon guidati^ e s’annoSdaro insieme.
Quando tu sederai con donna a mensa, E di Bacco a te offerti i
doiii siedo, > Tu a Bacco,èa‘*NunJi che^han fa cena in
euri Porgerai voti, onde (dal Vrn non venga Offeso il capo ’ tuo ;
Quivi* tu puoi ‘ ‘ Con ambigue parole a lèi far iloti’ "
; I segreti del cor, ma per6^in modo ' Che ben s’ accorga esser a
lei dirette. Potrai tu ancor con gocmole di vino Teneri accenti
esporre, onde conosca, Ch’ ella assolnto ha nel tuo core
impero. Co’ tuoi s’incontrin jgli oocbi suoi ,<ed il fòco Che
t’arde il sené , a lei foccian palese; Parla talora col silenzio il
volto. Procura il primo di rapir la tazza. In cni bevv’
ella , e dove i labbri impresse. Bevi tn pur : qualunque il cibo
sia Bichieder dei, che tocco avrà col dito; * E mentre il
chiedi, a lei strìngi la mano. Volgi i tuoi voti pure, onde tu piaccia
Della Bella, al Marito . Assai ti puoto * Util recar, se a te sia
fatto amìcoi Se dai la legge al bere, a lui la mano (53)
i ( 53 ) Solevano i Rfìmarù appena posti a mensa eleg^,
gere il maestro della cena y che da Orazio {lib. i.od^ 9. ) li chiama il
Taliarco\ Prescriveva il medesimo U leggi del convito e la manieM di^
becere y'e ordi^ Ce^i, e riponi dal tuo capo tolta La corona
sul suo. Sia a te inferiore, Egual sia pur, si serva in tutto il
primo; E seconda parlando il suo linguaggio. Col Telo
d’amistà tessere inganno È vìa sicura e frequentata , pure Non è
senza delitto. 11 Talìarco Ancor che troppo generoso appresti I
moltiplici vini e le vivande; £ benché creda di dover più
assai Veder di quel che fu ordinato, certa Avrai nel ber da noi
legge e misura. Onde la mente e il piè si serbin atti A’ loro
ufficj : d’ evitar procura Gli alterni detti e gV ingiuriosi
accenti, £ vìe più ancor se sien dal vin prodotti; E troppo
faeil non indur la mano napa alle Polte Commensali che ognuno ,
bevuto il suo bicchiere di pino, proponesse qualche amena que^
stione . Auguravansi spesso tanti anni quanti bicchieri di vino bevevano,
e spesso ne bevean tanti quante e- ran le lettere che formapano il nome
della Beliamo deW Uomo insigne , a cui facevano un tale onore . Se molti
erano gli anrd augurati , o se molte erari le leU tere componenti il nome
della persona in onore di cui heveano ; mescepano allora il vino in una
tazza assai grande , e compensavan così i molti bicchieri che
apreb’^ ber doputo puotare . Era poi in uso al termine della mensa
il vibrare in aria con le due prime dita i semi d* una mela fresca : si
credepano fortunati in amore quando toccapan con quelli il soffitto della
camera ov*era apparecchiata la tavola^ e si riputavano infe* ìici
quegli amanti , che non li facean sorgere a queU V altezza, De^moÙi altri
giochi ^ che i Romani usa^ vano in queste circostanze, non ne è a noi
perve^ nuta che un* oscura notizia. Digitized by
Google 4o A perigliosa rissa. Al suol trafitto
(54) Euritone cadéo, perchè soverchio Bebbe i vini apprestati. A*
dolci scherzi Atta è la mensa e il vìu: 8*hai bella voce^ Non
ricusa cantar ; salta s’ hai molli E pieghevoli braccia ; e
finalmeute S’hai doti onde piacer, piaci. La vera Ebrietà nuoce ^
può giovar la finta. Balbetti in tronco suon l’astuta lingua^ Onde
di ciò che tu ragioni, o fai Oltra ’l dovere , il vino sol
s'incolpu Augura alla Padrona ed al Marito Una notte felice ; ma
per questo Fa tacito nel core opposto voto^ Tolta la mensa,
allor che i Convitati Saranno per partir, tra lor ti mischia ;
( La turba e il loco ti daran T accesso ) A lei che fogge t’
avvicina, e il fianco Le premi dolcemente , e il piè col piede •.
Abbia ora il conversar libero campo, E tu lungi , o pudor rustico,
vanne. Che la fortuna e Venere propizj Sono agli audaci. De’
precetti nostri Or r eloquenza tua non abbisogna; Principia pur che
ben sarai facondo. Imitare il linguaggio dell’ amante Debbi , e
mostrar d’ aver ferito il core; E onde ti presti fede ogni arte
adopra.. Ardua impresa non è 1’esser creduto. {Sii^ ElurUone
è quel Centauro^ che reso caldo dab vino y tentò nelle nozze dì Piritoo
di rapire Ippoda»^ mia : Teseo lo percosse perciò così fortemente , che
fw costretto y.come dice Ovidio nelle Metamorfosi, cu vo^ nàtar V
anima e il vino Digitized by Google 4i
Mentre Donna non v’ha, che sè non stìmi^ Sia, quanto imn^agìhar ài
può, deforme. Atta a piacer ; e aémprè inver non epiace. Quante
vòlte in^amor chi sol fingendo Incominciò , d’ un vera amòr fu
preda! Siate indulgenti pur, vezzose Donne, «Con questi
menzogner, se voi bramate Che in sincerò si cambi un falso amore.
Con accorte lusinghe ora si tenti Di guadagnar le Belle, come
Tacque Sa penetrar la sottoposta riva. Deh non t’incresca ora
lodar la faccia, Ora i capelli, i lunghi è ì rotondetti Diti, ed il
breve piè. Le più ritrose E le più caste godono alle lodi Della
loro bellezza ; e son pur grate ^T innocenti Vergini i anzi il
primo È la beltà d* ogni lor cura oggetto. Percliè tuttora di
rossor la faccia Tingon Palla c Giunca volgendo iti mente Le frigie
selve ed il fatai giudìzio f (551 L’augel sacro a Gìunon le penne ostenta
(56; Se tu le lodi ; e le nasconde allora Che tacito le miri» Anco
il destriero. Quando contrasta il rapido cammino. (55)
Péllade e Giunone ^vergognandosi d^essere stc^ te da Paride giudicate
.met^ belle di Venere , tentare Tono di ripagare una tate infamia col ^
procurare n questa Dea vincitrice del Pomo tutti que*danni , eh%
sono resi ormai cèlebri' da' Virgilio e da Omero z .... Manet i^ha
Bueat# repo^tuiu' Judicium Faridis spretaeqtte ipjuria
fbrmae. . i^rgiL Eneid. (56) I Paooni ^(hrisi ^li
at^elH di Giunone, pospr che solcpano'essLHinàfe ibìqarroidi fonta
Dea*, Digitized by Google 4» Gode
vedersi il crine adorno , e il collo Accarezzato. Franco pur
prometti, E tutti chiama in testimonio i Numi, Che alle
promesse pedon facilmente Le tenere Donzelle. Su dal Paltò D*un
spergiuro amator Giove si ride, £ comanda che sien per l’aria
spersi I giuramenti dagli eolii venti. Solea per l’onda
stigia a Giuno il falso Giove giurar ; utile è un tale esempio.
Giova de^ Numi resistenza e giova Che noi pur la crediamo ; incenso e
vino Lor su gli antichi focolari offriamo: No, non è ver che
una secura quiete! A letargo simil gli occupi; i Numi Veggon
r opere nostre. Innocua vita Si tragga adunque ; ad altri il suo si
renda; Sii religioso in consesrYar la fede, Stia la frode
lontana, ed abbi ognora Vacua la dostra* dalle stragi. Solo È
permesso ingannar, se siete saggi, Le donne impunemente. Abbi
rossore D’ogni altra frode pur , ma non di questa. Le ingannatrici
inganninsi, che sono La maggior parte di profana stirpe;
Cadan ne* lacci , cbt^ da lor far tesi, l^àrrasi che restasse un di
l’Egitto ^ DelFacqua a* campi salntevol privo Per ben nov*anni ;
allor che al Re Busiri Trasio si fece innante , e mostrò come Possa
Pira placar di Giove il sangue D^un ospite; la vittima tù il primo
Sarai di Giove, a lui disse Busiri, Ed ospite darai Pacqua all’
Egitto. Falarìde cosi nell’ infocato Toro arder fè le membra di
Perillo, ( 87 ) E T infelice autore il primo empiéo L’opera
sua. Fu 1’uno e l’altro giusto^ Nè vi puote esser mai legge più
equa Di quella y che a morir l’autor condanna Del tormento
inventato. La tradita Donna si dolga che col proprio esempio
Spergiurando s’ingannan lé spergiuro Meritamente. Utili a te
saranno Le lagrime; con queste anco il diamante Ti ha dato
ammollir. Fa , se lo puoi^ Che di pianto bagnate ella rimiri
Le guancie tue; se il pianto a te non scende, Che non si versa sempre a
grado nostro^ Tu con la mano inumidisci il cìglio. Chi mai
alle dolci parolette i baci Saggio non mischierà ? S’ ella ricusa
Darli, tu li rapisci,In prima forse Combatterà ; di scellerato il
nome Avrai da lei; ma pur ella desia Pugnando che la vinca. Sìa tua
cura, Che da' rapiti baci i tenerelli Labbri non sian offesi,
o non si dolga Che furon duri. Quei che i baci tolse. Se il
resto non procura, è degno invero Di perder ciò che a lui fu dato.
Quanto (87) Perillo fabbricò un Toro di bronzo , e lo dor nò
a Falaride crudelissimo Tiranno de'Grigeati in Si cilia , perchè
collocandolo pieno di rei sopra il fuo* co ) potesse intendere d^ lamenti
simili a' muggiti de'booì. Falaride accettò il dono y e volle che
subito w entrasse Perillo per incominciar da lui il proposto
esperimento» Mancò a far paghi dopo i baci i voti! Ciò non
pador, rusticità s’appella. Benché si chiami forza, è questa
grata Alle donzelle ) che amano sovente Esser forzate a dar quello
che giova. 1 piaceri d’amor, se sian rapiti, Gode la
Donna, e la franchezza ha il premio. Ma quella che poteva esser
forzata. Ed intatta rimase, ancor che in volto Mostri
allegrezza, ha mesto in seno il core. Soffrir violenza Febe e la sorella,
(58) Ma fu grato ad entrambe il rapitore. La donzella
di Sciro ìnsiem congiunta ( 59 ) Con l’emonio Guerrier, favola è
invero Nota , ma degna pur d’esser narrata. Dopo la lite
della valle Idea Per la lodata sua bellezza il premio Già la Diva
avea dato. A Priamo giunta Dall’ opposta regio Deaera la nuova,
E già viveva nell’ iliache mura Come un’argiva sposa. I
Greci”tutti ( 58 ) Castore e Pollice rapirono le due sorelle
Fe- be e ilavra, che Leucippo padre delle medesime aoea date in
spose a Ida e Linceo, (59) Venere per premio del Pomo da lei
ottenuto, promise a Paride Èlena moglie di Menelao ^ e Pa^ rìde la
rapì , e la condusse in Troja sua Patria. Sia- come i TVojani ricusarono
di render Piena Greci ^ che la richiescr più volte, questi intrapresero
contro quelli un formidabU assedio. Tetide adendo inteso , che il
suo figlio Achille sarebbe morto se andava al* la guerra di Troja, per
assicurargli la vita lo man¬ dò in abiti femminili a Licomede Re di
Sciro. Ivi s* innamorò perdutamente di Deidamia Princi* possa
reale, ed ebbe dalla medesima in figlio il ce* Icóre Pirro.
Digitized by Google 45 Deir offeso marito
avean giurato Di vendicar V oltraggio, e fero allora D^'un sol uomo
il dolor causa comune. Se noi forzava^ le materne preci.
Eterna infamia coprirebbe Achille, Perchè con lunga veste ascose
Tuomo. , Che fai, nipote d^Eaco ? Non sono Atte a filar le
mani tue la lana. Con arte ben diversa ora tu dei Volger la
mente alla palladia gloria. A che questi cestelli ? Il braccio
tuo Deve portar lo scudo; e in quella destra. Per cui un giorno
cadrà Ettore, io veggo Or la conocchia ? Del filato stame I fusi
carchi getta , e Pasta impugna. Un letto sol la Vergine reale
E Achille accolse ; ed ivi ella conobbe Che di femmina avea solo la
gonna. Con la forza fa vìnta ; almen sì crede; Soggiacere
alla forza a lei fu dolce. Quando soverchio s’affrettava Achille,
Che altr’armi avea che la deposta rocca. Spesso gli disse : per pietà t’
arresta. Qual valore or dov’è ? Perchè trattieni Con lusinghiera
supplichevol voce Li’autore,o Deidamia,di tua sconfitta? Di pudico
rossor copre la gota. Se dee la donna far la prima offerta,
lilla Tè grato il soffrirs*altri incomincia. Ah I nella sua beltà troppo
si fida Quel giovine, che aspetta che primiera Ella lo preghi. Deve
sempre 1* uomo Essere il primo ad accostarsi a lei; Ju uom le
sue preci esponga, e le sue r Digitized by Google
46 Riceverà cortesemente. Fréga Che ti voglia
accordare il suo possesso; Ella ha piacer d’ esser di ciò
pregata. Fa lor palese il tuo desio, che Giove Supplichevol
si fece ognora innanzi AlF antiche Eroine, e non fanciulla Offrì
preghiere , benché grande , a Giove. Ma se t’ accorgi che alle tue
preghiere Si fa vie più superba, allora l'opra Abbandona, ed il piè
rivolgi altrove. Molte amano chi fugge ^ ed odian quello Che troppo
le frequenta; impara dunque A non tediarle. Nè chi prega sempre Dee
del delitto palesar la speme, Ma sotto il manto d’ amistà
velato insinui Amor. Con questo mezzo vidi Deluse rimaner
ritrose e fiere Donzelle, e divenir T amico amante. Non dee
il nocchier, che le marine spume Solca soggetto alla solare sferza,
Candido avere il volto , e pur disdice Al cultore de* campi, chfe
rivolge Col vomer curvo , e con pesanti rastri Le dure zolle , e
per te turpe fia Candide aver le membra , che il tuo crine Cerchi
adornare del palladio ulivo. Sia pallido ogni amante ; è questo il
suo Proprio color ; tinto di questo il volto Sarai creduto infermo.
Fra le selve Pallido errò per Lirice Orione (6o), (6o) Giops,
Mercurio , e Nettuno furono henisd* mo accolti in casa d* Iréo uomo assai
povero* Aven¬ do questi domandato medesimi un figlio , che non
dovesse ad alcuna donna la nascita, i tre Ospiti di- Digitized by
Google E per ritrosa Najado fu Dafni (6i)
Pallido L^almà discopra il volto Estenuato ; nè a schifo; avrai di
pórre Sulla nitida ^chioma un pìcòiol manto ( 6 a). Le cure ^ il
duolo ^ le vegliate notti. Che origin traggon dà nn Violento
amore, I Giovanetti estenuai! ; non tf incresca Comparire infelice
, se tu brami Di far paghi-ì tuoi voti,'onde ognun dica Che ti
rimirà : è (Questi unWeto amante. Mi dorrò fbrsè , 0 pur' ti farò
dk>ttò A usar rarti pt^rmessé e le vietate? Ah che
amicizia è fè^^on^nòmf vani i Lodar quella , che adori, al tuo
^compagno, E perigliosa imprésa , ché se crede Alle tue Iodi , gli
verrà vaghezza D'entrar nél posto tuo. L'atto rea prole (63) Non
cercò profanai* d-Achillé 11 letto, ■ “ n !"*- 7—ri —
-—— vini hagnàti^no della ptopHa ofina la pelle del Toro da
lui ucciso per Viàrio loro in cidoy é assicurarono che da mtella
nascerebbe un fanciullo: JVé nacque infatti Orione ^ che fu un ottime
Cacciatore. Non si sa chi sia Lirico da lui : amata Vedansi le note
faU te a questo libro dal Ckier Néiruio.^ (6i) Dafni figlmel
di Merèurio rtacque in Sicilia, ed k VAutore de^virsi buìieeliei. Amando
egli una' Ninfa , da cui era ^matà egualmente, ottenne dal Cielo,
che divenisse cieco chi di loro oiolasse il primo la fede
giùtata,Immemore Dafni del voto fatto, j* mnémo rò d^ uha ritrosa Nomade
, e divenne cieco. (6a) Q uando i Romard soffrivano qualche
incorno^ do di sai ute , si coprivano il capo con un piccol maa- to
da loro iifè/to Piu li alani. ( 63 ) Patroclo nipote d^Attore €
figlio di Mentàpo fu amicissimo Achille. Non cercò Fedr^ di sedar T
amico (64) . Di Teseo Piritoo ;aè in altra guisai [ Pilade la
consorto af«(ò à' Oreste , ( 6 S) 3 Che come Fcho Palla ^ od il tuo
O Tindaro ,gemeUo amò ia suora^ ( 66 ) Ma non sperato rionofvatì
spesson J (o r ) Sìmili esempi, se non spe^ri ancora ; Veder
spuntar dal tramarisco i pomi, E in mezzo al huine ritroTare ,il
mele. . > Quello che è turpe :giova > e ognun ricerca Il
piacer proprio > che divien più grato. Se altrui costa dolor .
Do^e, 8 !:intese Scelleraggin piA grande ? Pel nemico Non debhi
.amante: paventar .soltanto, Ma fuggir dei, se vuoi viver, sicuro,;
. Quei che credi fedeli, e siimi amici. < Il Fratello, il
Cognato ,, ed il diletto ; Compagno temi ; questa tufba tutta; , ;
Vera ti recherà cagion d^ angoscia. Già toccavo la meta ; ma
diversi. Sono cosi delle Fanciulle^ \i i ^ ^ ’u Che
varj mezzi ancora usar si 4enno, (64) Piritoo e Teseo concepirono V
uno per Poltro una stima si f^rànde, ohe giurarono di non
àhhan^\ donarsi giammai , o itifMi si prestarono vicendevole mente soccorso
in tutte U occtìrrettoo^ Pirotop ^ querie tunque frequentasse taaasa di
Teseo, limita sèmpre la sua beneoolenaa per Fedra a* sentimenti d*
amìci"\ aia e di stima. : • .. > > ; 0 i . . (65)
Pilade figliuolo di. Strofa ^ ehbé per Oreste un*amicizia con
sincera^ ^le.nonjo abbandonò nel- le più pericolose circostanze a rischio
di perder anche la vita. ’ (66) Castore e Polluce figli di
Tindaro amaron la lor sorella Elena con quell* amore, con cui
debbono i fratelli amare le sorelle. Digitized by
Google 49 Per adescarle. Non la stessa
terra Ogni cosa produce ; atta alle viti £ questa ; quella vuol gli
olivi ; e in altra Lussureggian le biade. I nostri affetti Varian
come nel mondo le figure. Piegar si sa chi ha senno ad ogni
umore; E come Proteo , si farà nell’ onde ( 67 ) Sottile ; ed or
sarà leone, ed ora Àlbero 9 ed or cinghiale irsuto. I pesci Altri
si piglieran col dardo, ed altri Con r amo ^ e alcuni ancor saranno
tratti Àir ampie reti con la corda tesa. Nè giova ad ogni età
lo stesso modo; La vecchia cerva scorgerà da lungi Le insidie
. Se s’accorge l’ignorante Che tu sii dotto, e ardito una modesta,
Si porranno in difesa, onde avvien spesso Che quella che di darsi a
un uom d’ onore Ebbe temenza , fra gli amplessi vili Giaccia d’ un
servo . Parte avanza ancora. Parte ebbe fin dell’ opra intrapresa ;
Fermo qui tenga l’ancora il naviglio. Arte ^am. c
(67) Proteo figliuol di Nettuno era un Dio mari-^ no , che si solwa
cangiare in ^alsivoglia forma y e di qui ha origine il proverbio : Proteo
mutabilior. I3ite e ridite lodi al delio Nome: La
desiata preda è alfin caduta In queste reti. A’versi miei ramante
Lieto conceda rigogliosa palma; Al Vale ascreo ed al meonio Omero
(i) Son Dreferito. Tal di Priamo il figlio (a) Con la rapita^ a
Menelao consorte Trionfante spiegò le bianche vele Dair armifera
Amìcla, e tal pur era (i) Il Vate ascreò è Esiodo ^ e ph si è veduto
al» V annotazione 5 del Lib, /. perchè gli venga dato uts tal nome.
Critei de , ad onta della custodia che ne ave¬ va Vargivo Creonte^ senza
divenir moglie d*alcuno^ divenne madre d^un figlio, che chiamò
Meletigene dal jwmt Me]e«^ in vicinanza del quale parton. Si sa ,
che essendo Melesigene accieeato , fu sopranno¬ minato Omero, perchè i
Cumani chiamavan con tal nome tutti i ciechi ; ma non si sa se questo
inimita» ìfil Poeta dicasi meonio perchè Meone fosse suo pa» dre ,
o perchè da Meone Re de^Lidj fu poscia adot» tato in suo figlio.
(a) Paride figlio di Priamo rapì Elena moglie di Menelao nella
Città d*Amicla, donde la condusse trionfante in T^oja sua patria,^
Digitized by Google 5a . Pelope allox
che te vinta traeva (J) Sul carro peregrino, o Ippodamia:
Perchè, o giovin t’afFretti ? in mezzo alPonde Naviga il tuo
naviglio, e lungi è,il poxto Più dt quello ché bramo* A te
non’basta Che tratta t’abbia la fanciulla innanzi Io tuo poeta:
presa fu con l’arte; Con l’arte ancora conservar si debbe.
Non vi bisogna già niìnor virtude Perchè non fu^gan^ritroVatè : è
quella Opra del caso , e questa sol delParte. Siimi propizio , o
Amore , e Citerea; E tu , Er^tp pur V qhe* il ncfme pqrti ' :
D’Àmor , m’assisti» pra a cantar m’accipgo (3) Enomao Re Elìde e^
di Pisa senti coloy, ohe sarebbe eglt-uodid nel ygiorno^ da avesse
presoi in isposa la sua figlia Ippodan^a^ Per allontanare dalla medesima
à molti giovani , che ambivano d'acquistarsi una 5 I belici fttnóiulia in
con^ sorte , gV invitò tutti un giorno a far ^secè il gioco d'una
corsa , col patto che. sarebbe^ irpmancabilmente trucidato chi fosse
rimasto vinto da lui , e che do-^ vesse > chi aveva la fortuna di
vincerlo^ sposare Ip-> podamia. Pelope fu vincitore con Vajnto di
bfirtilo , a cui promise , che. nella prima notte de^ suoi spon¬
sali gli avrebbe in ricompensa accordato }L dolce pos¬ sesso 4dla sposa
novella. Immernorè egli però della data parola, e del segnalato servigio
a lui reso ^ con^ dusse sul carro vincitore in trionfo la bellissima
Ip- podamia , e quando Mirtilo gli richiese Vadempirnento delle sue
lusinghiere promesse , lo gettò barbaramente in .mare. . . .
(4) Da EpMT« , che in greco idioma significa Amo-, re , ha preso il suo
nome la Musa Erato. Fu essa, madre di Tamita ^ che cantò il primo di
tutti i versi^ amorosi , ed a lei si attribuisce da alcuni greci
ùom-^ mentatòri V invenzion della Éiusica c del BaUf^
Digitized by Google 53 Cose stupende : con qual
arte Amore Tener si possa io vi dirò, bench’ abbia In Vasto mondo
ei di vagar diletto. Egli è leggiero , © doppio p^rta al tergo
* OrdÌB‘'*di'jpènbo , Onde' riniporgli legge È difiScfr impresa.
Àvea'aMa fuga DelP ospito Mibos ckiusa Ogni via, (5) Ma
ntì'àmdace sentier trovò con Tali. Poiché Dedalo chiuse il
Minotauro, Giustissimo Minos, disse, abbia £ne Ora'il’mio esilio ,
ed il paterno suolo 11 ceder mio riceva. Io non potei. Perseguitato
ogUór da iniqui fati, Vivore in patria, almen morir vi possa.
Se a me ricusi un tal favor , che sono Carico d*anni ^ lo concedi
al figlio, E se al figlio .noL vuoi ^ lo dona al padre.
Queste e molt^ altre ancor cose dicea, • Ma a lui Minos hón
permettea il ritorno. Di sua eVentura cèrto», a se medesmo Allor
Dedalo disse, hai tu materia Onde mostrar Pingegno; e terra e mare
È in poter di Minos : e mare e terra Or ci vieta la foga ; a me
rimane Il cammino del ciel ; questo si tenti* — l^tdato ,
come già si è accennato , fabbricò irs Creta il celebre Labirinto, in cui
fu racchiuso il Sfinoiaiiro. A^endògli' Minos vietato d* uscir da
quel^ ' io' f non trovò altro mezzo per ritornare alla patria
y se non se di fabbricar dell* ali congiungendo insieme varie penne
d* aòcelii , ed accingersi in tal guisa a ' 'Volar per il cielo in
compagnia d'Icaro suo figlio. Questi per altro innalzò troppo il suo
volo, e preci^ pkò miseramente in quel mare , che prese da lui ii
nome Icario. Digitized by Google 54
Sommo Giove *, perdona ^ questa impresa: DelP Empireo stellato non
aspiro Già le sedi a toccar ; sol questa strada Onde fuggir dal mio
Signor mi resta* Se Io stìgio sentiero a me si mostri,
10 r onde stigie varcherò • Debh’ ora I dritti rinnovar di mia
natura. I mali aguzzan 1* intelletto. E quando Si avrebbe
dato fà che un uom potesse Premer le vie del cielo.? In ordìn vario
Dispon le penne , che per V aria sono 11 remo degli augelli ; e
unisce insieme Con del ritorto Un 1’ opera lieve. Con cera al
foco sciolta insieme accoppia Le parti estreme ; e già della nuov’
arte Era venuta la fatica a fine; Ma intanto che trattava e
penne e cera. Rideva il figlio , ignaro che quell* armi Sarian la
sua difesa al tergo unite. Con tal naviglio, a lai diceva il
Padre, Si può alla Patria far ritorno ; in questa Guisa
fuggir Minos, che ogni altra chiude Fuor che T aerea via « Tq che lo
pupi, Con questa ch’io inventai arte novella^ Fendi gli aerei spazj
; ma la vista Della Vergin tegea, e del compagno (6) (6)
Calisto i Licaone Ra d* Arcadia ^ è soprannominata Tegea, da una
Città di tal nome soggetta alV impero del padre della medesima. DaU
V illecito commercio , che ebbe essa con Giope , diede alla luce un
figlio chiamato Arcade , e fu da Giu¬ none per ciò tra^ormata in Orsa ad
oggetto di ven* dicarst deW infedele suo sposo ^ il quale la collocò
in oielo fra le stelle col nome , che ancor oggi conserta, d’Orsa
Maggiore. Di Boote Orion cinto di spada --— Tu dei fuggir •
Con V apprestate penne Mi segui ; io ti precedo, e sia tua cara
Batter^ V isteasa via ; da rae guidato Incolume sarai, li’aeree strade
Se calcherem troppo vicini al Sole, Al suo caler si scioglierà la
oera; Se al mar propinqui batterem le pennei Da’ vapori del
mar saran bagnate. Spiega il tuo voi fra ^1 Sole e il mare; i
venti Pur anco temi, o figlio ; e all’ aure in preda Dà le tue vele
allor che sian propizie. Mentre in tal modo V istruisce ^ ài figlio
Il lavoro dispone, e mostra come Muover lo debba : in guisa tal la
madre La pennuta ammaestra inferma prole. L’àJe poi di sua man per
se costrutte Accomoda al suo tergo, e nel novello Cammin timido
libra, in aria il - corpo.. Allor che al volo si accingeva, al
figlfo Diò molti baci, e le paterne gnauce Furon di calde lagrime
bagnate. Sorgea sul piano un colle assai minore Del monte, e
quivi V uno e l’altro corpo Si diede in preda a perigliosa fuga.
Mentre le penne sne Dedalo move. Quelle osserva del figlio, e ognor
sostiene In aria il corso • Icaro si diletta Del novello sentiero,
e ornai deposto Orione figlio Ireo ( annot, 6o del Lib, I. )
Untò di dare un disonesto assalto alla casta Diana ; ma essa lo
fece uccìdere da uno scorpione , e poi mossa a pietà lo trasmutò presso a
Boote in una costellazione fatta a guisa di spada^ Digitized
by Google 56 I Ogni timor ^ con arte audace
vola Più ibrtemente. Un che insidiava a’ pesci Con la tremula
canna, alzato il guardo, Li vide in ariane abbandonò P
impresa. Già da sinistra avean passato Samo, E Nasso e
Paro e Delio al clario Dio Sommamente gradita ^ ed alla destra Si
lasciar dietro Labioto, e Calìnna Per selve ombrosa, e Stampaglia di
guadi Feraci in pesci cinta, allor che il figlio Temerario con
troppo incauto ardire Spiegò senza ìL suo duce in alto il volo*
S’allentano i legami ; al Sol vicina Liquefassi la cera , e i
.tenui venti Male sostengon le commosse braccia. Dal sommo
cielo spaventato il guardo Rivolse al mare, e dal timor già sorta
Si offro al suo sguardo tenebrosa notte. Si liquefò la cera, e i
nudi braco! Dibatte ; trema ; e ìnvan ricerca il modo Di
sostenersi *« Cadde , e o padre , o padre Gridò cadendo, via son tratto ,
e T onda Cerulea chiuse al suo parlare il varco. Ma Pinfeiice
Padre.(ah non più padre!) Icaro , grida , Icaro , dove sei?
Sotto qual asse voli ? Icaro grida, £ nuotanti sul mar mira
le penne* Copre P ossa la terra , è prende il mare Il nome
suo • Minos già non poteo D’ un uoni frenarle penne ,ed io
m’accingo Un Nume alato a trattener? S* inganna Cfii fa ricorso
all’ arti emonie, e appresta Dalla tenera fronte del cavallo
Digitized by Google '^7 - Lo svelto a
forzalppomane. Non Verbe ( 7 ) Pon di Medéa far viv*?re l’amore;
Non 1 Tharsfejj^ncàntesmi . Se potesse Una tal'arte ptolàligàrto ,
avria ' Medea Giasbn', Cfrcfe teénto Ulisse . ( 8 ^ Nè
i pallidi apprestati* éill%*dónzelle F'iTtri* Valséro { aU’alrne Son
nòcivi, ( 9 ) Ed inspirai) farot .'Ogni delitto Vada put
lungi ; se attti essere amato, Amabile ti- ttióstraf I a: ciò^ nTort
giova * Solo’ le^ menibtk àlve'r’by^^ e là-faècia. ^ Sii pur
Nireó tfaro^ ^11’ aiitibd^ Omero ; ( io) ' ^. t L ; >( 7 )
Q^^àevano gli an tichi , e fra questi ancora Pii- nio ea Aristotile
, che si potesse còncìliar l*amore per mezzo éAl^lppòinsLne, cioè di
qtàel pézzetté rotondo di carrie .nera ^ che han\ sulla , fronte iì
cavalli nati di fres^qp, Jfa Mars^ figlio^^efia/venefica Circe^^
t^aj- ser l a lo ro orig ine i M ar si. Abitarono questi popoli m
lidlia non fontani ,àa Uòma ^e Jfùrorio~reputati , èc- celleràPneWarte
dellc^ ' niagìq: “ * ' (8) ,iÌÌe«/èa \e Circe fdronp dii^ ihsiAni
Ma^he ^ je insieme due a^passioriaté 'mài. cohisposte dmànii\
poicHè 'fiorì pótérono có'loro magici incanti trattenere Ùiasoné\d Utisse
i che amavano tèneramente, ‘ ’ (^) t Filtri preparati dalle Maghe ,
eran composti di fichi salvatici ^ éP uòva e di penne di civetta,
di * sangue e di. pòlfnone di ranocchie , e d*os5Ì di cani e 'di
serpenti'Sventrati. Lèggasi ài Libro quinto V Ode 'd*Orazio cprìlró
Canidia. * ^ (io) Nireo], nafo dd Aglajd e dal Re Cecrope,
andò alt*assedio di Trojq ; e vien da Omero nel Li-* hro secondo
dell*Iliade lodato per la sua sorprenden^ te bellezza. Ercole amò
sommamente Ila figliuol di ‘Teodamahte , c lo condusse con se, quando
navigò alla volta di Coléo. MetltP era iri viaggio lo mandò un
giórno ad attinger Vacq.ua dal fiume Ascanio nel’» la Misià ma essendo
ivi disgraziatarkente caduto^ han finto i poeti , che fosse rapito dalle
Nufadi Dea de*fiumu 1 Digitized by Google
58 O il tenerello un giorno Ila rapito Dalle callide
Najadì : se brami Conservarti Y amor della toA donna, E non
vederti abbandonato , aggiogni Deir alma i preg) alla beltà del
corpo. È la beltade un ben caduco e frale, Che con gli
anni decresce, e a un fisso tempo Fugge mai seiupre • Le violette^ e i
gigij Non fioriscono ognor;Ia spina , ^ cui Colta la rosa sìa ,
rigida viena*,^ ^ ' Vago garzon , i tuoi capelli un giorno Verranno
bianchi, e il corpo tuo le rughe Ti solcheranno . Formati ed
aggiungi Alla beltade un animo che ^uri: Sol ei riman fino
agli estremi roghi* Ni sia rultima ina cura con Farti Ingenuo
Padornarlo ^ e di due lingua Renderlo dotto . Non fu bello
Dlisso,(ii) (il) Colisse t figlia , come credono alcuni,
delVO* etano e dì TeHde, accolse cortesemente il naufrago Ulisse
nell* ìsola Ogigia , ov* essa regnala. Dimorò questi per sette anni con
la Ninfa suddetta , da cui ebbe varj figli , e poi fu costretto a
dividersi da lei per comando de*Numi , quantunque non lasciasse elìa
alcun mezzo intentato per ritenerlo sempre appresso di se. Reso Re dei
Traci detto odrisio perchè cornane dava alla Traqia nazione degli Odrini,
e sitonio^ perchè anticamente la Tracia ^si chiamava Sithon , fu
ucciso da Ulisse e da Diomede, mentre andava con un esercito in soccorso
di Troja. D* ordine de*suoi Troiani si portò Dolone ad osservar gli
andamenti dell*armata de* Greci ; ma incontratosi con Diomede td
Ulisse , che pure osservavano la condotta del cam^ po Trojano , svelò
a*meiesimi , dopo d*aver preso Vim^ punita y tutte le più segrete determinazioni
de* suoi concittadini. Volendo egli poi per premio i cavalli emonj
d*Achille , fu ba^aramente trucidato da Ulio^ se e Diomede uccisori di
Reso. Digitized by Google 59 Ma
facondo ; c per lui ferito H petto Portar* r equoree Dive. Oh quante
volte Di sua partenza si lagnò Calisso^ E dicea che non atte
erano a* remi L’onde del mar! Oh quante volte udire Bramò di Troja
i casi , ed ei sovente Narrò lo stesso con diversi modi I Stavan
sul lido insiem , quando la bella Calisso ehiese la dolente istoria
Del Duce odrisio; ed ei con tenue verga ( Mentre a caso la verga in man
teqea ) Finge Popra richiesta in sull’arena. Questa» le^disse, è
Troja (e fe’sul lido I muri) . È questo il Simoe,e queste fingi
Che« sieno le mie tende . Il campo osserva (E intanto lo disegna) che col
sangue Sì sparse di Dolon, quando gli emonj Cavalli scaltro d’
involar procura. Fur del sìtenio Reso ivi le tende; In
questa uotte da i deitrier rapiti ^ Fui strascinato . Dipingea più
cose, Ma improvvisa del mar onda furiosa Via trasse Troja , e
col suo Duce ancora . Le trinciere di Reso. Allor la Diva,
Vedi quai nomi s’inghiottiron Ponde^ £ vuoi che al tuo cammiò
sieno propizie? Ardirai dunque di fissar tua speme In fallace
fij^ura? e più del corpo Altro tu non avrai solido e degno?
L’accorta compiacenza a noi concilia Gl’ animi, ma l’asprezza e le
severe Parole contro noi muovon lo sdegno. Si ha in edio lo
sparvier , perchè tra V armi Traggo sua jriU, e i lupi che assalire
\ Digitized by Google 6o ^
Hanno in costume il timoroso gregge. Mite è la rondinella , e
innocua vive Dall’insidie dell’uomo ; e l’alte torri Abita là
colomba a lei gradite. Vadali lungi le liti e i detti amari;
Con soavi parole amor si nutre. Stia la discordia tra marito
e moglie; Si faggan questi, e credano a vicenda Di difender
lor dritti • Ciò conviene Alle tnògli/che ognor funesta dote Recan
di lìti . Il dolce suono ascolti Degli • accenti bramati ognor V
amica; Legge non havvi per gli amanti ; in loro^ Ìj amore è legge •
Parolette grate Reca , e dolce lusinga à lei 1’ orecchio. Onde alla
vista tua lieta si faccia. Non io d^ Amor maestro a’ ricohì
parlo. Che chi pnote donar > dell’ arte mia Non abbisogna • Chi
quando a lui piace, Prendi j può dir, non manca mai d’ingegno.
Cedere a Ini dobbiam, che più gradito Sarà dell’opra nostra. Il vate io
sono J>e’ poveri, dhe ognor povero amai. Dar doni non
poteva, e diei parole. Cauto ognor sìa povero amante , e
tenga La lìngua a freno, e soffra quel che un ricco Non soifrirebbe
. l^el ponsier mìo torna, Che irato aia di delia mia Bella feci Al
crine oltraggio . Un tale sdegno ah quanti Giorni mi fe’ passar pallidi e
tristi I Noi credo, e noi compresi , che la vesta Io le stracciassi
allor, ma lo diss’ ella, £ comprarne altra a me fu d’ uopo. O
voij Che avete ingegno, del Maestro vostro Digitized by
Google 6i Fuggite il fallo, e né temete i
danni. J8ia la guerra co’ Parti , e ognor la pace Con l’Amica
diletta'. Usa gli scherzi, E tutto quel che favorisce Amore.
Se a te che l’ami, docil non si mostra Qual vorresti e cortese, il
suo rigore So^ri costante , e diverrà benigna. La forza
usando, il curvo ramo frangi, Che con dolcezza addirizzar potevi.
Varcasi 1’ acqua cón pazienza, e malo Vìnconsi i fiumi, se pigliar tu
tenti Contrarie Tonde rapitrici k nuoto.' I numidi leon , le
fiere tigri Pan le lusinghe mansuete e miti; Ed al rustico
aratro la cervice / A poco a poco sottopone iJ toro.
Dell'arcade Atalanta e chi più fiera.(ia) Mostrossi mài? Eppur quella
crudele Soggiacque anch’essa al mèrito d* un uomo, Narra la fama ,
Melamon piangesse, (i3) Sotto un arbor giacente all’ombra, spesso
Suoi tristi casi e la crudel Fanciulla. Spesso* portò le ingannatrici
reti Sul vinto collo, e con spietato ferro (la) L’arcade
Atalanta, figlia di Jasio o d’Aban^ te , fu un.’eccellente cacciatrice ,e
si fe* compagna di Diana per consertare illibato il candore della
sun verginità, Finta essa p<ù dalla fedele e lunga servitù
prestatale da Meleagro o da Melanione , si abbando^ nò finalmente in
braccio ni medesimo , ed ebbe in fi^ glio il celebre Partenopeo,
' (i3) Sono tra loro cod diverse le memorie .a- noi lasciate dagli antichi
scrittori riguardo a Melanione 0 aid Atalanta , che è impossibile il dar
de’ medesimi «Hit distìnta notizia* Digitized by
Google 6 a Uccise spesso i barbari
cinghiali. L’arco teso d’Ileo soffri piagato, Ma
conoscea più ancor 1’ arco d’ Amore. Non vo’che armato le menalie
selve Tu salga, e che le reti al collo porti; Hò già
t’impongo il petto alle vibrate Saette espor • Dolci più assai
saranno, Se udir mi vuoi, dell’ arte mia le leggi. A
lei che è ripugnante , ognora cedi; E vincitore partirai
cedendo. Eseguisci fedel ciò eh’ ella impone: Biasma
Quello che biasima, ed approva Quel che le piace , e il suo parlar
seconda. Di rider ti ricordo al riso suo. Di piangere al suo
pianto , e i moti ancora A suo piacer del vento tuo componi.
Se giocale nella man P eburneo dado ( 14 ) Agita , tu ancor
l’agita, e lo getta (14) Oltre il gioco de* dadi era presso i
Romani in uso quello dclVAlìosso detto da loro Talut, che con^
sistema in piccoli quadrati d*osso j ne* quattro lati de* quali erano
notati separatamente i numeri uno, tre, quattro, sette. Doleva pagar
senza lucr^o una mone^ ta chi avesse gettato l* uno, che chiamatasi Ganis
o Òanicula. Guadagnata sei monete e ciò che ateta perduto nel gettare
il Cane chi scoprita la parte op* posta all* uno ^ cioè il sette che
ateta il nome di * Yenns o Gons,* ne guadagnata tre chi gettata il
Seniofper cui intendetasi il tre, e quattro chi ates^ se rappresentato U
Ghio, che esprimeva il numero quattro. Si rileva da**latini Scrittori che
fu VAliosso giocato anche ditersamente ; ma basta per la chiara
intelligenza di questi versi U sapere che erano i Cani dannosi ^ mentre
esprimevano l* ano ^per cui si dote^ va senza lucro pagare una moneta. Il
Gioco , ohe rasfvmbra a guerra , è , come facilmente ri QQtnprew*
dp ^ qugllo degli Scacchi, Digitized by Google
In modo cV«lIa vinca. L’Àliosso Se trae, farai in maniera cbe la
pena Non soffra d’ ^sser vinta, e tuoi saranno Sempre i dannosi
cani ; e s’ ella' pone Opera a gioco « che rassembri a guerra,
Fa cbo perisca dal nemico vinto Il tno soldato. Sulle verghe
steso Tieni r ombrello , e, nella densa folla Per dove idee passare
, il varco l’apri; Vicino al letto non t’incresca porre Lo scanno,
e fai piede dilioato togli E riponi la scarpa .iDei sovente.
Benché ti prenda orror , della Padrona L’algente,mano riscaldare al
seno. Non creder turpe, henchè a te rassembri. Con destra
ingenna sostener lo specchio, Se a lei ciò piacerà. Chi ’l fiero sdegna
(i5) Otaneb.della matrigna in domar mostri. Che ora è nel Ciel ,
ohe primo egli sostenne. Si crede , tra Ife joniche Fanciulle Che
tenesse il cestello, e che filasse Rnstiche lane . Si l’Eroe
tirinzio Servi all’impero d'una Bella ; or dnnqne Dubiti di
soffrir ciò eh’ei sofferse? Se ti comanda esser presente al
Foro -Previeni 1’ ora del comando , e sempre ^eoU ' mnst
valorosamente ( Annoi. 17. del Lib. I. ) tutu s mostriyche contro di lui
suscitò la tua rnatngna Giunone, e sostenne sulle sue spai-
ad Atlante affa- incarico. Innamoratosi egli poi dH)n- '‘iff
reale della Lidia, vestì abiti femi- mh, e m qualità d’ancella
iella medesima filò vil¬ mente l»inne con quella man valorosa, con cui
per le rmrabilt sue gesta s’ era colmato di gloria. ^
Digitized by Google Ne partirai più tardi • Se ^t*
impoiàfe Di gire in altro loco’, ogni altra cura Lascia da parte ,
corri ^ uè la turba '' LMutrapreso cammìti trattenga , e còma ‘
Servo, sé vuol, tu Taccompagna a Casa^- Tolte le mense , e^già sorta^ la
liOtte; > * Se fosse in villa,*e tf dicesse: vr<eni> ^
^ Col piè premi la via , se manca il eocebiò, Che Amor odia
gl’inerti . Il btiitasoosò Tempo nè la Canicola assetàtai ^ ' n /
Nè per scaduta nòve il sentìev biénco - ^ p’ ostacolò ti aien ^ Simile a
gòfei/ra * ^ E r amore , da cui vadano lungi ' ‘ ^ '• I
codardi . Nò , sotéo tali itìsegné* II timid’ uòmo guerreggiar
tiòu' debbe* La notte, il verno, disastrose strade, ' ’ Dolor
cocenti, e ogni altr’aspra fatica Racchiudono que’mòlli
ttccampaihetttli* Di pioggik dalle untole tìiscioitu'^ * ‘ ‘
* Ben spesso intrisa avrai la -veste,-è‘Spesso Gelato
giacerai sul nudo suolo." ^ Dicesi che dì Cinto il'Nume' nu
giorno (i 6) Pascesse le ierée vacche d’ Admeto, £
s’ascondesse in umil capanna.' A chi non converrà ciò che coriTenné
‘ Apollo, che dicesi i/-Nuine- 4 ì'Cinto fper^hè ( Ànrvot. 1^9. del
Lib, /. ) nacqueove giace 4 in tal monte y sentì il pin, intenso, dolere
^ quanda Giove fulminò Esculapio di , lui figlio , perchè faceva
rivivere i morti con V ajuto della -Medicina. Per veti^ dicenrA pertanto
in qualche maniera d* una tale ingiur- ria , egli uccise i. Ciclopi y che
fabbricavano le saette a quel Nume supremo , il quale lo spogliò per ques
to della divinità, e lo costrinse a pascolar le vacithe 4 * Admeto
Re de* Ferei in te staglia^ A Febo ? O ta, che in lungo amor
^impegni, Il fasto lascia • Se un cammiii seeuro £ facil ti si
nega, e se alla porta Ritrovi impedimento, allor t’insinua Dal
precipizio d’ùn aperto tetto, O da ascoso sentier d’ alta
finestra. Lieta ne fia, quando del tuo periglio Intenda la
cagion ; di certo amore Sarà per la tua Bella un grato pegno.
Spesso potevi dalla tua Diletta Star lontanerò Leandro, ma varcavi ( 17
) L’ onda del roar, perchè le fosse noto L’ amante core • Guadagnar
l’ancelle Non abbi a vile, e in special modo quella. Che sarà
favorita , e ancora i servi. Non temer d’ avvilirti : ognun
saluta Col proprio nome, e alle lor destre umili, Ambizioso ,
d'unir cerca la tua; Ma al servo che ti prega ( è lieve
spesa) Porgi piccoli doni, ed in quel giorno Pure air ancella, in
cui restò ingannata ( 18 ) (17) Leandro amò Con tal forza Ero
Sacerdotessa di venere , che spesse volte varcò VEllesponto per
visi^ tarla. Essa accendeva Una fiaccola sopra una torre, affinchè
potesse il suo Amante camminar piu sicura^ mente , e quando intese , che
era il medesimo misera^ mente annegato , si diede in preda aW ultima
dispe-* razione , e slanciossi intrepida nel mare, {ìÒ) Ai q
di Luglio celebravasi in Roma splendi--^ damente una festa, a cui
concorrevano le Servé‘ ve^ stile a Matrone romane , in memoria delV util
servii gio che avevano esse in tal giorno prestato alla Pu^ tria.
Ecco ciò che ne dice il Macrohio, Post Urbe in captam , cum aedatus esset
gallicus motus, res vero publica esset ad tenue reducta, Finìtimi
opportuni- Digitized by Google 66
Da veste maritai gallica truppa, E che pagò d’ un folle
ardire il fio. Ti fida a me ; fa tua la plebe, e sempre Sia
fra (juesta V ascierò , e quel che giace Sulla porta del Talamo . Io non
voglio Che ricchi doni appresti alla Padrona; Piccioli sian, ma
convenienti e accorti. Mentre è ferace il campo , e mentre i rami
Piegan pel peso di mature frutta. Porti fanciullo in un cestel gli
agresti Doni , e dir ben potrai che da una villa Suburbana ti
vengano, quantunque tatem invadendi romani nominis aucupati
praeferant sibi Postlmmium Livium, Fideoatiam Dictatorem , qui,
mandatis ad Senatum misis, postalayit , nt si yelleut reliquias suae
ciyitatis manere , matres fa* Hiilias sibi et yirgines dederentur .
Cumque Patres esseat in ancipiti deliberatione suspensi, ancilla
no¬ mine Phìlotib teu/ Tutela , poilicita est se cum cae- teris
ancillis sub nomine Dominarum ad hostes ita- ram : habituqae matrnm
familiat et yirginum sumpto, hostibas cum prosequeatium lacrjmis ad iidem
do¬ lorii iogestae sunt. Quae cum a Livio in castris di- stributae
faissent, viros plurimo vino proyocarunt , diem fbstum apud se esse
simulantes. Quibus sopo- ratis , ex arbore caprifico, quae castris erat
proxima, signum Romania dederunt, qni oum repentina incur¬ sione
snperassent ; memor beneficii Senatus, omnet ancillas manu jùssit emitti,
dotemque eis ex publico fecit, et ornatum quo tunc erant usae, gestare
cou- cesfit, diemque ìpsum Nonas Gaprotinas nuncupa- yit ab illa
Caprifico , ex qua signum yictoriae coe- perunt, sacrificiumque statuit
annua solemnitate ce<- lebrandum, cui lac, quod ex Caprifico manat,
propter memoriam facti praecedentis adhibetur. Questa è la fedele
esposizione del fatto, d cui non pare che si uniformi il Poeta»
Digitized by Google Tu gli abbi compri nella laera
via. ( 19 ) Rechi pur Tu ve » e le aastagne care Un giorno ad
Amafilli, e che ora a vile Parehè dono legger avrebbe anch* esso,
Co’t^rdi pure e con ghirlanda mostra Che memor vivi della tna
padrona. Si compra turpemente con tai mezzi D’orbo vecchio
l’affetto, e la speranza Di godere i suoi beni. Ahìperan qnelli Che
Così vii disegno a donar move. E che ! t’insegnerò teneri
versi Io diluviar Fa me lo credi, i carmi Non ton molto graditi ; e
benché Iodi Ottengano talor, maggior lusinga Han gli splendidi doni
: Un ricco piace Ancor che nato in barbara contrada. Questa è
per vero dir l’età dell’oro^ Giacché con Voto compransi gli onori,
Criacchè con V oro piegatisi le Belle. Se tu medesmo con le Mute,
Omero, Venga privo di doni, ab ! tu seaeciato Sarai di casa. Di
fanciulle dotte ^ Havvi turba rarissima , ed un’altra.
Che sé reputa tal benché ignorante, L’une e l’altre
s’encomino co’versi^ Che ottengan dal lettor lodo pel suono
Facile e lusinghiero \ a queste e a quelle Tenue e da aVersi a vii
sembrerà dono In loro onore vigilato carme. ^ Usa in maniera
ché V amica ognora (19) VendéQasim Ronia ogni torta di frutti e
d*al^ tri generi nella Via sacra, che acquistotti un tal nó¬ me ,
perchè furono ivi conclusi con gran^ sagrifizf i patti fra Romolo e
Tazior 68 A far ti preghi quel che util ti
sembra, E che far già volevi. Se promessa Abbi ad alcun de’
Cuoi' la li ber Cade, (ao) Fa pur elisegli la chiegga alla padrona.
Se ta rimetti al servo il suo delitto,^ Se le catene sue dure
disciogU, ; Te ne sia debitrice. ^ A lei la •gloria>
A tediatile venga. Sul:tuo eore Mostra ohe elFabbia un prepotènte
impèro^ Ma illesi serba ognora i dritti tuoi. Tu che nutrì
desio della tua cara ' ^ ^ Consfetvarti V amor , fà oh’ ella
pensi Che tu getonito sei di sua Heltade.* Se le sue menàbra
in vtiria veste avvolga, Le sii largo (U lodi, e se le doe ' .
Cinge, dirai che accrescono i suoi Veazi. Se poi s* adorna con aurata
veste, * Dille che più splendente èli’è dell’ oro. Se
prende la pelUcela , e tu T approva; * Se la tomita lieve , allora,
esclama ' Che, desta incendj, e con ièmmes^a voce Pregala che
schivar proeuii il. freddo. Sia il orine in duo diviso, oppur da
oaldo Ferro ritorta, tu dirai : mi piace. Di lèi, se.danai,
ammirerai le,braccia, Di lei, ^ canta, 1* armoniosa voce,. •
' E a lei dimostra con dolèntii note^ Perchè fpresto diè
fine, il tuo scontento. Loda gli abbmcciamenti ,:e in suon piètoso
E querulo ie mostra con KJUéiI foraa .. (ao) Presso i Homani eruno
cortamente i servi in una condizione sì miserache (^iputavansi fortuna^-
a , quando i padroni per un effetto di^somma cUmon^n accordavano loro la
liberty, ^ -, Digitized by Google 6p
D’insolita jilaowrfe: il. cor t’inonda. Gon questi- un4incoc
che-|}iù. violenta Foss’ ella di Medusa ^ e indite: e giusta (ai)
Dìvetrài.co», l’ ansante,* Sia .tua cura - Di non sembrane -iagantiatore
; e il volto Kon distrugga i tnoi> detti. Ascosa Térte Giova j e
svelata la vergogna apporta, E Ii^ tfe. 00» ragiOp j toglie per.
sempre. Spesso Sotba l’ÌAu)tjnA0tì,( iiti quella bella Parte
dall’sanitOf,-^ cui vosaeggia Priva Del purpureo, lioór ; rieolnta »
quando Il freddo,«cura la?f»reiuej ed era il «aldo La soioglie,).
Pìncostante. aere d cagione Di languore, alle-metubra,* Elhi^pur viva
Sana, masO'.inat giaceja-in, letto in ferma. Soffrendo. ..drd
tmaligqogciol V Infinstoi La tua pìetade:;ecP AQt^ctW> palese
Sia alloca .alla fanqiullaj^ fi getta il aenae Di ciO .cbe mieter, debbi,
a larga falce.' Nè del liingaauo mal poja',ti, prenda^ , E
faccia» le tue man cid che permette. Te rimiri piangente, ed i .tuoi baci
: Non r.inore«qa;S<^l-Ìr,;'flon arse labbia , Beva il tàO
;piantp,. 4 Ì» .ciel voti farai. Ma ognor,.palesi,,e di narmr: ti
.piaccia Be» spesso,fausti' sogni..:Àn| sua'magione Guida
la-ivacohiarella , che con ?ìolfo iaa) (ai) ]ffedasa figlia di
Forci^'ed ufl'a delle tre Gor- goni, incontrò-lo tdogn» di Minerva ,
perché à prestò all’ impudiche iooglie, di Nettuno • nel Tempio della
medesima* Questa Dea le trasformò^ pertanto i capelli in serpenti, e fece
si che fosse convertito in -sasso chiunque ardiva di riguardarla.
(ìa) ponducivàn gli antichi le vecchiarelle nello àuse d^gV
frifermi , affinché con le lor preghiere di^ Digitized by
Google Purifichi la stanza e insieme il letto,
E con tremola man T ova le rechi. Di tua premura avrà cosi 1*
amica Kon dubbj segni, e con tai mezzi molti Far dalle Belle
istituiti eredi. Ma deir inferma per soverchia cura Deh non
volerti procacciar lo/sdegno; Àbbian tuoi dolci uffioj il lor confinej
Non le vietare il cibo ; il tuo rivale, • E non la destra tua*
pòrga la tazaa Colma de* succhi amari. Or che n^ll* alto ^ Del mar
solca la nave, usar non dei Lo stesso vento, con cui già dal lido
Le vele hai sciolto. Mentre Amor va errando Novello ancor, con Taso forza
acquisti; Stabil verrà, se lo saprai ' nutrire. Ebbe vitel le
tue carezze il toro, Che or è de'tuoi timori oggetto, e
Talbore, Sotto cui posi , un di fu tenue ^etga. Nasce povero
d'acque il fittnré , e forza Acquista nel suo corso, e dà Ogni
parte Gli vien tributo di novello umore. S’accostumi con te, che
nulla puote Più di tal cosuetudiue giovarti. Mentre
l’adeschi, a te grave* non sia Di soffrire ogni tedio • Abbia te
sempre Dinanzi al guardò ; ognor tuoi détti ascólti; La notte e il
di le pinga il volto tuo* Ma quando poi sicura avrai fiducia
Di poter esser ricercato, allora Scacciassero Sa quelle, gli
spettri. Epicuro deve soffrire i rimproveri degli Stoici, e VOratore
Eschino quei di Demostene , perchè avevano le lor madri Ulk
simile impiego che riputavasi vile* Digitized by
Google 7 ^ Vanne pur lungi, che la cura sua
Sarai benché lontan . Prendi riposo; Ciò che s’afBda al campo riposato
Bende ei ben generoso e l’arsa terra Bey e l’acqua del ciel. Finché
pxesente (a 3 ) Fa a Filli Demofonte, il di lei seno Senti mediocre
amor , ma in vasto incendio Arse allor che le vele ci diede^’
venti. Mentre vivea lontan l’astuto UÌìsse (a 4 ) Penelope soffriva
cura mordaeCr Tu ti dolesti pur, Laodamla, (aS) Lontan
Protesilao. Brieve tardanza £ mai sempre sicara. Allevia il tempo
11 dolor dell’assenza ^ e dal pensiero > e dà loco a nuovo amor
1’ assente* Mentre tu , Menelao, stavi lontano (26), (a 3 )
Fillidt, figlia di lÀcurgo He di 'Tracia , rice* Vè cortesemente nella
Reggia e nel letto il naufrago Demofoonte figlw di Teseo. Quandi egli
partì per % Città d* Atene ., colera chiamato dalla cupidigia di
regnare , le diede parola di ritornarsene a lei dentro un mese . Aspettò
Fillide lungo tempo il suo caro sposo, e poi afflitta e disperata per la
tardanza di lui , si tolse da se stessa crudelmente la vita.
È noto il verace affetto che aoea Penelope pet Ulisse suo spesole
però si può facilmente compren¬ dere quanto fosse vivo il suo dolore per
la lunga di¬ mora che fece fi medesimo alV assedio di Troja.
^uS^ Laodamia amo sì ardentemente Protesilao detto in latino
Phyllacides daFilaco.4uo avo, che fu sem¬ pre occupata dal più vivo
dolore mentre era esso al- V assedio di Troja , e fece far del medesimo
dopo la sua morte , una statua di cera , che ogni notte pone- vasi
nel letto quando vi andava a dormire. Menelao trovavasi in Vreta ,
ove .l* aveano ri¬ chiamato i suoi affari , quando Paride di lui
confi- mcpte gli rapì la bellissima E.lena pia consorte.
Digitized by Google 7 ^ Sulle piume giacer sole non
volle Siena, e nella notte al caldo seno l)eir ospite fu striata. E
chi mai puote Di ciò nutriremo Menelao, stupore? Solo
partivi, e nel medesmo tetto Era la moglie e T ospite. In custodia
T,ii folle le colombe al. falco fidi, Ed al montano lupo il pieno
ovile? Siena non ha colpa, e non commise L’adultero delitto ;
ei fece quello Che tu faresti, e che farebbe ognuno. Ad
esserti iiifedel la donna sfórzi^.j Se il tempo e il loco a lei
concedi. Quale Oonsiglio ella usò mai se non il tuo?
Che dovea far ? Il suo marito è lungi, Ed un amabil ospite
presente, E giacer sola teme in vacuo letto. Ciò a
Menelao era noto. Io dal delitto Siena assolvo ; usar volle di
quella Libertà, che il marito a lei concesse Cortese c umano. Non
così feroce Flavo cinghiai si mostra in mezzo all’ira Contro i
rabidi cani, allorché il dente Fulmineo rota , nè così lionessa Che
a’cari figli suoi porga le mamme, Nè da piè ignaro vipera calcata
; Coni’ àrde e mostra 1 ’ agitata mente Donna che la rivai
trovi nel letto Del suo consorte : e corre , e dà di piglio Al
ferrò e al foco, e ogni decor deposto, Rassembrà una Baccante. La
spietata (27) Medea nel sangue vendicò de’figlj ^- fay)
Vedaii V annotaz. 89 del Lib, /. Digitized by Google
73 Del marito il misfatto ^ ed i violati Dritti di
sposa. Àltr^empia genitrice, (28) Mirala in rondinella trasformata.
Or di sangue macchiato il petto porta. Tali delitti sciolgono V
amore Meglio composto e più costante ; e cauto Gli dee r uomo
fuggir, gli dee temere. Nè ad una sola donna io ti condanno;
Portin migliore augurio i sommi Dei ! Così rigida legge appena
puote Seguir sposa novella. Abbiano pure Loco gli scherzi, ma celar
ti piaccia Sotto furto modesto il fallo tuo. Da cui già non
voler cercar la gloria. Altra non mai conosca i doni tuoi; Nè
prefigger tu dei 1 * ora medesma Agli amori furtivi, e in un sol
loco Condur le belle, onde non le sorprenda La donna tua ne’ noti
nascohdiglj ; E quante volte scrìvi , i fogli osserva; Che
molte leggeran più assai di quello Che tu loro scrivesti. Amante
offesa Move bene a ragion Tarmi, e sovente Come a lei desti, a te
di duol dà causa. Mentre il figlio d'Atréo fu d’ una sola (29) Ov.
Arte d^am. d (a 3 ) Progne figlia di Pandìone, e moglie di Teseo
^ fu dagli Dei cangiata in Rondine, perchè vendicane dosi deW
ingiuria recata da Teseo a Filomena di lei sorella , uccise Iti suo
figlio ^e lo apprestò al Padre barbaramente per cibo, (39)
Agamennone rapì Criseide figlia di Crise cerdote d*Apollo , il quale in
abiti sacerdotali si portò inutilmente dal medesimo per ricuperarla j
tolse Bri* seide ai Achille ; e condusse poi in Grecia Cassandra
Digitized by Google 74 Contentò e pago,
quella visse casta. Ma per i vìej del marito poi Divenne
infame. Inteso avèa che Crise, Le fasce in capo e il lauro in man
portando, Ottener non potè 1* amata figlia. Inteso avea il
tuo ratto, il tuo rossore, O Briseide, e per quai turpi
dimore Fosse la guerra prolungata. Queste Cose la fama a lei
narrava. Vide Con gli occhi prhprj poi la figlia stessa Di Priamo :
vincitor fosti ad un tempo E preda, o Agamennon , della tua preda.
Nel cor , nel letto ricevè ella poscia Il figlio di Tieste, e
vendicossi Così de’falli del marito infido. Gli amori tuoi
tener cerca nascosti. Ma se fian noti e manifesti, sempre
Però li nega , nè ti mostra allora Nè più sommesso o più giocondo :
reo Ti fa ria ciò scoprir. Novelle prove Le dà deir amor tuo.
Queste il sostegno Son della pace. La tua prima amante Fa che di
ciò non abbia unqua contezza. Havvi chi la nociva erba consiglia
Santoreggia di prender; ma ciò stimò Atro veleno. Mischian altri il
pepe Nel seme dell’ortica , e nell’ annoso Vino tritano il callido
pilatro. , figlia di Priamo , la qual fu a luì concassa nella
di* Vision della preda. Clitennestra sua moglie, e figlia di
Tindaro non potè reggere a tanta infedeltà , e /?«- rò accolse nel letto
Egisto figlio^ di Tieste , da cui ' { Annotaz. 88 del I*) uccidere il
suo marito. Digitized by Google
7S La Dea che sul ombroso Érice monte ( 3 o) Ave il suo
tempio, no , soffrir non puote Che siau forzati i suoi piacer. Si
prenda Pure il candido Bulbo che a noi manda La Città di Megara, e
la salace Erba che cresce ne’giardini. L’ova, L’imetto mel,
del pin le acute noci Si prendan pur. Perchè alla medie’ arte,
Erato , or tu ti volgi f II cocchio nostro Debbe più da vicin toccar la
meta. Tu che celavi per consiglio mio Poc* anzi i tuoi
delitti , or altra strada Batti, e per mio consiglio i furti
scopri. Nè di volubil già merto la taccia: Non col medesmo
vento i passeggieri Porta la curva nave ; ora si corre Col
tracioBorea, ed or con Euro, e spesso( 31 ) Dal Zeffiro si fan goiihe le
vele, Talor da Noto. Osserva come in cocchio L’auriga ora le
brìglie allenta , ed ora Frena con l’arte i rapidi cavalli.
Compiacenza servii le rende ingrate, E amor senza rivale
illanguidisce. Se la fortuna sia propizia, Talme Divengono
lascive , e faci! cosa ( 3 o) Venere aveva un magnifico Tempio in
Sicilia sul monte Erice , donde fu detta firicina. , Sotto il
nome di Bulbo iniendonsi tutte^ le radici rotonde come agl) e cipolle ,
che i Romani facevan venire dalla Città di Megara fabbricata da
Alcatoo figlio di Pelope. {jòi) Il vento Borea f spirando a
Settentrione , vien qià dette treicio perchè la Tracia è più
settentrional della Grecia y e dell* Italia, Euro spira da Levante
[ Zeffiro da ponente, e Noto da Mezzogiorno, Non è serbare in
mezzo allieti eventi IL cor tranquillo. Come lieve foco, Che
perduto abbia a gradi il suo vigore, Ascpndesi , e nell’ ultime
faville La cenere biancheggiale se v’unisci Zolfo , Testinta fiamma
manifesta, E a splender torna il consueto lume; Così
ove pigra e torpida si giaccia L’alma, destar cop forti e
lusinghieri Stimoli è d’uopo in essa allor Tamore. Fa che di
te paventi : ognor riscalda L’intiepidito core, e impallidisca Al,
solo udir che tu infedel le sia. Oh quattro volte e quante io non
so dire Felice quei, di cui si lagna offesa La sua fanciulla, e che
giugnendo annunzio D’un tal delitto alle sue triste orecchie Cade,
e il color le manca e la favellai Ah foss’io quello, a cui furente
straccia Il crine ! ah foss’ io quello a cui con l’unghie Sgraffia
le gote, che or piangente mira Or con bieco ciglio, e senza cui
Vorria , ma non può vivere ! Se chièdi Il tempo , onde di te la lasci
offesa Lagnarsi, io ti dirò : sia questo breve. Perchè lo sdegno
suo forza maggiore Con dimora soverchia non acquisti. Con le
tue braccia il bianco collo cingi^ E piangente nel tuo seno l’accogli;
Asciuga co* tuoi baci il . pianto suo, E i piaceri di Venere
concedi A lei che piange. Già la pace è fatta; Con questo mezzo sol
cessa lo sdegne. Se feroce divenga, e a te rassembri
Digitized by Google 77 Veramente nemica » allor
le chiedi Un dolce amplesso , e la vedrai placata. Ivi
déposte Varmi è la concordia^ £d in qael loco » a me lo credi ,
nacque La tenera amistade. Le colombe. Che già fecero guerra
, i rostri insieme Dolcemente congiungono ; di quelle 11 mormorio
son voci, e son carezze. Fu il mondo in prima una confusa
mole; Non ordine regnò, non vi fu legge ; £ stelle e terra e
mar solo una faccia Mostravan ; sulla terra il ciel fu posto E fu
dal mar la terra circondata, £ diviso cessò l’inane caos.
Presero ad abitar le fiere allora Entro le selve ; a star gli
augelli la aria; £ s’ascosero i pesci entro dell* onde. L’uomo errò
allor ne^aoUtarj campi. Ma rozao 9 inerte corpo, e senza
genio* T'u il bosco la sua casa ; il cibo l* erba; Lie frondi
il letto ; e già per lungo tempo Visser fra loro sconosciuti.
Dicesi, Che le feroci loro alme piegasse La dolce voluttà. Lo
steiso loco Abitarono insiem Tuoibo e la donna; Non da
maestro furon fatti dotti Di ciò che dovean far ; Venere loia La
dolce opra compì senz’arte alcuna. Trova da amar Paugel dolce
compagna, E in mezzo all’acqae pur con chi s’accoppj Non
manca al pesce. Il maschio ainato segue La cerva, ed il serpente a’dolci
inviti. Della femmina cede. Insiem congiunta La cagna al can
s’annoda. Il suo montone Digitized by Google
78 Soffre lieta Tagnella; la giovenca Gialiva è col
torello, e la stizzosa Capra 1* immondo becco non disdegna. Parenti
le cavalle i maschj segnono Per lungo spazio , e varcan fino i
fiumi Che li tengon divisi. A che più tardi ? T’affretta dunque , e
alla sdegnata porgi Il bramato sollievo ; questo calma L’ atroce
suo dolore, e questo vince I succhi d* Esculapio • Il fallo tuo Dei
con ciò cancellar , tornarle in grazia. Mentr’ io cantava queste cose,
Apollo apparve » e mosse dell’ aurata lira Col pollice le corde •
In man tenea L’ alloro, di cui cinta avea la chioma; ^Queir
ammirando vate allor mi disse: O de’ lascivi amor maestro ,
guida 1 tuoi scolari alfine al tempio mio; (3a) Ivi sta
incisa la famosa legge, Che conoscer se stesso a ognuno
impone. Amar solo potrà prudentemente Quegli che se medesmo appien
conosce, E alle sne forze sa adattar Tìmprese. Procuri che la
Bella ognor Io guardi Quel cui Natura diè leggiadra faccia.
Si mostri spesso con le spalle ìgnude Chi candide ha le membra ; parli
pure Quei che lo fa soavemente, e canti, E beva quel che a
bevere e a cantare Con arte apprese, ma non mai interrompa
(3a) Alludtd al Tempia consacrato in Delfo ad Apollo ove era
scritta a caratteri à* oro qaest^ aurea legge: nosco te ipiam.
Digitized by Google . ^9 L’altrui discorw
P eloquente, e in mezzo Al ragionar non reciti importuno I
suoi carmi il Poeta . In questa guisa Febo i^egnomnii, e. voi di Febo
adesso Seguit^e i precetti. Ah no ! non ponno Mancar di fe gli
oracoli d’ Apollo. Or son chiamato a più'vicini oggetti.
Chi sagace amerà ; chi la nostr’ arte In uso saprà porre f avrà
vittoria. Non sempre i campì rendon con usura Le biade
seminate, e a dubbia n^ve , Non sempre fausto è il vento. Ah! sono
brevi I piaceri d’ amor , lunghe le pene. Onde Amante a
soffrire il cor disponga: Quante in Ato son lepri , e quante in
Ibla Pascolan api, quante olive accoglie II verd' arbor di
Palla, • quante il lido Del mat conchiglie ; tanti son gli affanni
Che soffrenti in amor , tanti gli strali Jlal felo intrisi che ci passan
V alma. A te diran che usci fuora di casa Quando con gli
occhi tuoi forse la vedi. Ma creder dei che uscì, che vedi il faUo.
Mella notte promessa a te la porta Forse chiusa sarà ; soffri, e le
membra Riposa e adagia sull’immonda terra. Mendace ancella forse in
tuon superbo Dirà; perchè le nostre porte assedjf Cortese e
supplichevole stropiccia Il limitar della crudel Fanciulla, ^
E al capo tolte ivi le rose appendi. Quando vorrà, t'appressa, e
quando il vieta Tu vanne lungi. Uomo non dee sincero Di sua
presenza far soffrir la noja. Digitized by Google
8o Non sempre con ragion ti potrà Jirer A me fuggir
costui non è permesso* Non creder turpe di soffrir ingiurie,
Nè d* esser dalla tua Bella battuto, Nè sul tenero piè
d’imprimer baci. Ma a che mi fermo nelle tenui cosef Or
subietto maggior m’agita l’alma. Io canterò prodigj ; il volgo
attonito Ascolti i detti miei, mi sia propizio. A difficile
impresa ora m’accingo. Che nel difficil sol glòria si merca.
Dall’arte una si chiede ardua fatica. Soffri il rivai
pazientemente ; teco Starà vittoria , e n’otterrai trionfo.
Non già un mortai, male pelasghe querce(33) Ti dieron tai precetti
. Ah i iio, non puote Dir r artè mia di ciò cosa maggiore.
Farà un cenno amoroso al tuo rivale, E tu lo soffri ;
sctiverà , e t’ astieni Dal toccar le sue carte ; e venga e tomi
Senza le tue doglianze ove le piace* Con legittima moglie usi il
marito Quest’indulgenza pure, alior che notte Le tenebre distende,
e il sonno regna. Non io, Io debbo confessar, non sono In
quest’arte perfetto. E che far deggiof Io de’ precetti miei minor mi
trovo. Io soffrirò che, me presente, un segno Si faccia alla
mia Bella, e il freno all’ira Io potrò por ? Ah mi ricordo ancora
^3) Fabbricarono i Pelasgi un Tempio dedicalo a Giovò , in
vicinanza del quale era situato un bosco di querce , da cui davano le
colomba risposta umana* Digitized by Google
Bi Che il suo marito nn di le diede un bacio, Ed io del bacio
a lei feci querela; Abbonda il nostro amor di crudeltade.
Non una volta sol mi fu nocivo Un vizio tal ; piti dotto invero è
quello Per cui, lieto il marito, in casa ingresso Hanno altri
amanti. Ma saria più grato L’esser di questo ignari. Ah lascia
dunque D’amore i furti ascosi , onde non fugga Dal vinto labro,
confessando i fallì, Lungi il pudor. Deh risparmiate, o
amanti. Di sorprender colpevoli le amate. Schetzino pur , ma
almeno a se medesme Perauadan che il fer’ solo in parole. Sorprese,
in esse pel rivai maggiore Si fa r affetto ; e dove egual la sorte
Fa di due, 1* uno e Paltro son costanti La causa in sostener del danno
loro. Favola iu tutto il elei nota si narra: Venere e Marte dagP
inganni presi Pur di Vulcan. Ferito il petto avea Marte per Vener
da un apaore insano, E divenuto di guerriero amante. Nè
rustica o difficile mostroàsi (Non v’è di questa Diva altra jpiù
molle) Venere al suppliéhevole Gradivo (34). Oh quante voltè
la lasciva risé ^ da (34) Marte si Marna Gradivo da
apa/vav, ehe si^ grufiea in greco linguaggio vtbraziorfe d'AVta.
Aven^ do Giooo preeijntaio Vulcano in Lenno 'per 1 la defar-^ mità
del suo corpo, si tuppè questo misero Diojin tal caduta una gamba ^ e
così divenendo zoppo ^ di^ canne ancorst mSgiortncnU deforme.
Digitized by Google Sa ^ Di Valcano pei
piedi e per le mani Nere e incallite pel lavoro e il foco.
Contraffaceva pur di Marte in faccia Sempre piena dì grazie il suo marito^
Ma solean ben celare i primi amplessi, E coprian col pudore
il fallo loro; Ma il Sol che tutto vede ( e chi ingannare 11
Sol può maif ) fece a Vulcan palesi L’ opre della Consorte • Ah quai ne
porgi Funesti e perigliosi, o Sole, esetuplit Perchè del tuo tacere
a lei non chiedi Un dono , eh* avrebb* ella il tuo silenzio Potuto
compensare in mille modi. Vulcan sopra e d’intorno adatta al
letto Un* invisìbil rete , e finge a Lenno Di far viaggio : a’ noti
abbracciamenti Tornan gli amanti, e nudi entrambe sono Ne^ lacci
avvinti. Quegli i sonimi Dei Convoca, e fanno L prìgiohier di loro
Vago spettacol. Potè appena il pianto Venere allora trattener sul
ciglio; Non alla loro nudità potere Oppor la mano, e
non coprir la faccia* Uno de’ numi allor ridendo disse :
O fortissimo Marte, in me que’ lacci Deh trasferisci pur^ se ti son
gravi. Nettuno , appena per le tue preghiere Ebbero i prigionier le
membra sciolte. Chela Dea in Pafo, e Marte andonne in tracia.
£cco,o Vulcano, il tuo profitto: in prima Celavano il Ipr fallo ; or
senza freno Lo commetton, fuggito ogni pudore. Sovente, o stolto ,
confessar dovrai Che tu dj^rasd da pazzo, e già ( la fama
Digitized by Google 83 Karra.) dell’ira tua ti
aei pentito* Quest’ io vietai. La 6glìa dionea (35) Or
vieta a voi di tender quelP insidie Ch’ ella stessa soffrì. Nè voi
cercate Por ne’ lacci il rivai, nò legger quello Che vergato ha^la
bella in cifre arcane. Faccian questo (se lor piace) i mariti Che
legittimi rese e T onda e il foco. (36) Io'di nuovo, raffermo: in queste
carte Nulla vietato dalle leggi chiudo» Nè a pudica Matrona i
nostri scherzi Recano ingiuria. Chi a’profani i riti Osò di Cerere
svelare, e i sacri ( 87 ) Misteri nati nella tracia Sanio f
Non nel' silenzio per coprir gli arcani Gran; virtude abbisogna è colpa
grave Però dir'qnfello che (tacer si dehbe^ t Ben a. ragion da
Tantalo «loquace (38) Venere , sepondo alcuni , eifbe in madre Dio^
ne 9 e però si chiama la Figlia dionea. (36) Solevano i Romani
nelle nozze solenni offerii re alla Sposa V acqua ed il foco \
'perchè pensavano che si genesUts^ il tutto dall* umore -e dal icàhre ^
ed anzi lavatiri^ Inacqua f stessa i piei^ Sposa ed alla Sposo^ ' ,
I (87) I Sagrifiz) di Cerere t)ea delle biade, ehe furono ,
secondò Dtodoro , ' inventati Heltà' Samotrd» eia , si celelfravanà dagli
aw^ìd con tal \ segretezza g che acqmdurono il nome di mister
(38) Tqntalo , figlio della Ninfa Piote , palesò agli uomini le'
supreme, determinazioni, che si manìfesta^^ reno scambievolmente gli Dei
in un Convito, cui fu ammesso e^i*pare.da^Giolve.,peTiitaleiempH-^
tà joacpiatO riell^ infermo , iOfl^ à cofitidftaeqMate ,cfudar^ io da una
barbara fape, e^ chè è ,eireondatò dàìVacqua e da diversi ' phmi,
ékà fuggono àgnor shp'suòl Idìlli i^qmndo *viol*pré*a'^
arsene* Digitized by Google 64 .
Fuggono i pomi; o all*assetato labfo L'acqua mai sempre. Citerea
comanda In special modo di tener celate Le sacre cerimonie. Io
v’ammonisco Che alcun garrulo'a quelle non s’accosti* Se sepolti
non restano fra’cesti I mister] di Venere, se i bronzi Per furiose
percosse non risuonano, Usi abbiam noi pih moderati, e in
mòdo* Che si voglion però tenére ascosi. / Quando le vesti Venere
depone, La nudità con la sinistra copre. Nella pubblica
via spesso 1 * ugnella. Si unisce al suo compagno, e la
fanciulla^ Da tal oggetto altrove il guardo volgew Atto è il talamo
chiuso a’furti nostri E a non mirar ciò che la veste > ascóndo*
i Non le tenebre noi, ma nube opacUi ì; Cerchiamo, e i luoghi ove
1’ aperta luce - Minor risplenda. Fin d’allor ché il tetto Non
difendea dal Sol, non dalla pioggia, £ dava il cibo e in un la quercia
albergò. Gli uomini non gustar’ palesemente. I piaceri di'
Venfet ma negli antri ^ ' • f i ne^bosqhi; cosi dell’onestade
* i preudea cura quella ro^sza gente** \ Ora gli atti si
celebraa notturni, , £ nulla più si compra a caro prezzo Che
di poter’ parlar: or le donzellò Ovniique cercherai solo onde dica , ' ,
/ Qiinsla ancora fo. nostra, ed onde .posniA ^ Mòsttktla ò'
dito , e &r ohe sia deb vol^ , ' Dc^^b li pòssèsso^tuòVfev;òIa
^ r.«r. poco «iwiihe ^ini «dolSP* aU>Ì , Òose che
nègherebbono accadute* £ di favori vantatisi non veri ;
E se invàn di toccar, cercare il corpo. Cercano àlmen d’offenderne
P onore, Che le accusi la fama ancor che caste. Chiudi, o
custode rigido , le porte ; Guarda la tua fanciulla, e cento
spranghe A’durissimi stipiti ora opponi. Cosa havvi di sicuro
in faccia a questi Adulteri di nome, che creduti Esser desian ciò
che tentare invano ? Parchi in parlar noi siam de’veri ainori^ E
fedelmente ognor tenghìam celati Col velo deP mistero 1 furti
nostri. Deh non voler rimproverar giammai Di nati^ra i
difetti alle donzelle. Che fù dissinìularli utile à molti. ^
Perseo che al piè portò le gemìn’ ali (3g) , Tlon del color d*
Andromedà lagnossi. Comparve a tutti Andromaca maggiore D’ uim
giusta statura , ed Ettor solo (3g) iXèrcurió adatfò *U idi Ud ambedue
i piedi di J^érseo^ iluo amiiéo y e fi^ió di Danae e di Giope, de
qu§$iix AndrovaeduslegaiOKyad uno scoglio per ra'deillcNeTcìdi,^e,\c]^pe,
che dovea^esser dioorata da Ceto mastro marin^, ,perchè Cassìope, madre
della medesima ebèè la vanagloria di dire ^ che la sua fi-* glia
vinceva > ir^ bellezza le stesse Nereidi, Mosso Perseo a pietà, della'
sventurata donzella , uccise il mostro col jmrgli. davanti agli cicchi la
testa di Me^ dusa f è dopo d^aveHa in tal guisa saLveta da un tanto
pericolo y V ottenne in isposa , he mai le riìf fàpciÒ[ suo fosco colori,
essendo ella nata in Etiopia, " Andromaca è figlia di Elione .
Re di Tebe e mo* glià di Ettore j il qual chiamava medìo^e la sua
statura quantunque fosse veramente sproporziqnatq. Digitized by
Google 86 Mediocre la dicea. Quel che or ti
lembra Darò a soffrir, deh soffri; e verrà uà giorno Che lieve
impresa ti sarà il soffrire^ Mentre ogni pena raddolcisce il tempo.
Nuoyo arboscel che in verde scorza cresce^ Cade, se vento placido lo
scote ; Ma indorato dal tempo arbor diviene. Resiste a* fieri
Noti ^ e alfin s’ adorna , Degl* innestati fratti. Un giorno spio
Paò la bruttezza cancellar del corpo,^ , £ sempre il tempo fa
sembrar minore Ogni difetto. L* inesperte nari Mal da principio pon
soffrir 1* odore Della pelle del toro, ma dalTuso Dome non più
risentono mólestia. ^ I vizj ricoprir con dolci nomi Fa di
mestier : bruna chiamar si debbo Quella che piùehe pece ha negro il
sangue» Se ha gli occhi loschi, a Vener l!as 8 omiglia^^ E se
bianchi, a Minerva. Sia 9 Ì scarna ( 40 ) , Che appena in piedi sostener
si possa. Gracile la dirai. Nana rassembri, E tu svelta la
chiama, e piena quellf .,. Che è turgida oltremodo g, e asconder
tenta. Col bene non lontano il vizio ognora. Gli anni mai non
cercar , nè sotto quale \ Consol sia nata : al rigido Censore .
Tai cure lascierai. Maggior riguardo . Usa per quelle che
passate il fiore Hanno di giovinezze » e i più bei giorni,
(4.0) Non si sa paacepire corno Ooidio chiami loschi gli occhi di
Venere , quando essa fu lodata da Pari^ de. Dubitano alcuni pertanto y
che nelF originale la^, ' ripe si 4tiba leggere leu invece di
peU» Digitized by Google E cui incomincia a
incanutir la chioma* .Utile è questa o più matura etade, 0
giovani ; e aarà ferace in biade Questo campo » ed arar però si
debbe. Mentre gli anni il permettono e le forze, Soffrire la
fatica. Ah già la curva Vecchiezza con piè tacito s’accosta!
O il mar co’ remi solchisi, o la terra Col vomere, o s^impugnin
Tarmi fiere, O si usi il fianco, T opra , e la forza Con le
fanciulle^è questa una milizia, E con ciò pur s’ accumulan
ricchezze. S’ artoge a ciò che la prudenza in loro Maggior
sempre delT opere risiede, E l’esperienza sol può far
maestro. San compensare dell’ etade i danni Con la mondezza,
e in opra e studio ed arto Pongon per ricoprir la tarda etade.
Come più brami accarezzarti sanno In mille guise ; in più diversi
modi Pittor non puote colorir le tele. Non irritata voluttà
per loro Si gode , e danno e gustano il piacere; 10 se
non è scambievole Tho in odio, E però fuggo de’garzon P
amore. Odio il furor di quella che il concede. Perchè a darlo
è forzata, e pensa solo All’ ntil proprio. A me non è gradito
11 piacer che mi dan sol per dovere; Da questo io violentier
le donne assolvo. Godo ascoltar le voci che il diletto Mi palesin
di loro, e di frenarmi Mi preghino ora, ed or perchè mi affretti.
Godo di rimirai languidi gU dicchi . Digitized by Google
8 $ Della mìa bella , che mi dica : è assai.
Questi favor natura non concede Air inesperta gìoventCì ; si godono
Quando il settimo lustro ornai si compie. Chi soffre sete, il nuovo mosto
beva; Di vecchio vin ricolmo a me s’ appresti Vaso che sotto
i Consoli vetusti Sia fabbricato. Al sol resiste vecchio Il
platano, ed offesi i nudi piedi Sono da’nuovi prati; e chi potria
Ad Elena preporre Ermione? Altea (Era forse miglior della sua madre ?
Se tu t’ accosti a una noi^, giovin bella, £ sii costante,
avrai degna mercede. Già riceve i dae.amanti il conscio
lètto; Fuof delle chiuse porte ora rimanti, O Musa ; senaa te
sapran ben essi Trovar di che occuparsi, chè lor porge Amore i
mezzi. Il valoroso Ettorre (4a) Di cui fu il brando a Troja util
cotanto, Giacque pur con Andromaca, ed Achille Con la lirnessia
giovine rapita, Allorché dal nemico affaticato Prese ristoro
sulle molli piume. Da quelle man di frigio sangue tinte
Ricevevi , o‘Brhcide , le carezze, E perciò forse à te più assai
gradito Fu alla vittfice destra unir tue meuibra. (4 A
Ermione è figlia della famosa Elena moglie di Menelao, (4a)
Achille # aseedìafa la Città di Lirnesso , uc¬ cise barbaramente Minete
marito della bella Briseide^ che si prese egli stesso in isposa, e che
dal noma 4 M(k iiMk Pàtria soprannominata iÀtuwia* Di Venéfe
i piaceri » a me lo credi , Non SI deniio affrettar; ma a lunghi
torsi Berli. La donnà , se vedrai diletto Che abbia d’èsser toccata
, a te non freni Pudore allora inopportuno. Gli occhi Suoi
scintillar d*'un tremulo splendore Mirerai , come dalle liquìd’ onde
^ Riflette il Sole i suoi splendidi raggia. ^ Udrai nn lamento e uh
dolce mormorio^ Gemiti grati , ed amòtose note. Quando thtte
le Vele avrai spiegate, Tu abbandonar non dei la tua diletta.
Nè preceder ti debbe ella nel corso. Correte insieme alla
prescritta meta. Che il piacer vostro diverrà perfetto.
Se giacerete a un tempo stesso vinti. Queste leggi seguir dovete
quando A voi concessi siano 02 ] tranquilli, Nè ad iin
furtivo oprar timor v* astringa. Quando Tindugio è mal sicuro,
allora Tutti forzar si denno i remi, e il fianco Premere del cavai
d’acuto sprone. L’opra è condotta al fin. Giovani grati, A me
la palma concedete , e il crine Odoroso cìngetemi di mirto.
Non presso i Greci Podalirio tanto Fu per la medie’ arte in pregio
, Achille Per il valore, e Nestor per pi'udenza; Non fu Calcante
così esperto e grande Nel conoscer le viscere, nè Ajaco Nel maneggio
dell’armi , e Automedonte Nel condur cocchj ; compio sono espCito E
grande nell’amor. Me celebrate, Uomini tutti ; a me si dian le
lodi; Nel mondo intero il nome mio ti canti. L* armi io
vi porsi come già Vulcano Le diede a Achille. Or con tal doni voi
Vincete pur, com’egli vinse un giorno; Ma chi col brando mio potò le
fiere Amazzoni atterrar, sopra le vinte Spoglie scriva: Nason ci fa
Maestro. Le tenere fanciulle a m^ le preci Ecco che porgono, onde
lor cortese Sia de’ precetti miei. Ah t sì, sarete Cura primiera
de* futuri carmi. DELL’ARTE AMATORIA DI P.
OVIDIO nasone SULMONESE porsi contro lo guerriere donne
A’ Greci 1’ armi ; or dare a te le deggìo^ Pentesilea, e alle
Amazzoni seguaci.(i) Ite alla guerra uguali, e vincan quelle
Cui son propizi Venere e il Fanciullo, Che in tutto il mondo ha di volar
diletto. Giusto non era il combatter nude Contro gli armati ; e
vincerle per voi. Uomini , turpe mi sembrava. Alcuno Dirà fra molti
: perchè aggiunger cerchi 11 veleno alle serpi ? e perchè in
preda Lasci alle lupe rabide 1’ ovile? Di poche il fallo non
vogliate in tutte Diffonder ; pe’ suoi merti ogni Donzella
Considerar si dee . Se Menelao Ha di dolersi d’ Elena cagione^ (a)
(i) Pentesilea Regina delle Amazzoni andò contro i Greci in
soccorso d^ Trojani ,e fu dopo varie glo^ riose azioni uccisa da Achille.
Sotto il nome di Greci P intendono però- dal Poeta quegli uomini , che
^ cingono a conquistare le donne qui figurate sotto il nome di
Amazzoni. (n) Vedasi V Annotaz, 5 q del Lib. I. e l*Annotaz,
ueuSdelldb.If. Ved. Vannot. 38 del Lib. /. eVannot. ao del Lib.
II. Digitized by Google 9 ^ £ se di
Clitennestra i rei costami SoQ gravi ad Agamennon ; se d’Ecleo (3)
Il figlio scese co* cavalli vivi. Dalla spietata Enfile^
tradito, Vivo egli stesso a Stige^havvi pur anco Penelope che
pia serbossi e fida (4) Al suo marito, benché senza lei Due
lustri errasse , e per due lustri ancora Passasse i giorni suoi sempre
alla guerra. Protesilao rimira e la consorte, (5) Che , come
narran , pria degli anni suoi Vide Testremo fatele scese a Dite
Ombra indivisa del marito . Mira La Sposa pegasea dall*empia sorte
(6) (S) Anfiarao figlio di EcUo ed eccellente indovino ^
ascose in un luogo segreto per non esser costretto a portarsi alla guerra
di Tebe, in cui sapeva di do-* ver certamente morire* Eri file sua moglie
allettata da un aureo monile promessole, da Polinice, insegnò a questo
ov'egli sfava, celato* 4 n 4 à pertanto Anfiarao forzatamente alla
guerra^ ma appena giunse in Te¬ be , gli si spalancò sotto i piedi la
terra , e rimase in quella sepolto. (4) Penelope è V esempio
deWamor con fugale* Si conservò essa sempre fedele al suo sposo Ulisse ,
ben* che vivesse egli lontano da lei per lunghissimo spa* zio di
tempo , e benché fosse ella continuamente as¬ sediata da mille fervidi
amanti. (5) Protesilao andò aneW egli all*assedio di Troja, e
fu il primo tra* Greci , che vi perdesse la vitapoi* che Ettore lo ferì
mortalmente , nientre scendeva dal* la sua nave. Desolata Laodàmia sua
moglie da una tale sventura , ottenne con le sue lagrime da* Numi
di poter veder V ombra del suo amato consorte , e neWabbracciarla
morì* (6) Soffriva Admeto una malattia coà grave , che
secondo la risposta dell* oracolo ^ era necessario per salvargli la vita^
che un uomo o una donmft^ morisse Digitized by Google
9 ^ Admeto liberare , onde famoso Rese il suo nome .
Evadne a Capaneo ( 7 ) Disse : m* accogli ; il cener nostro insieme
Si confonda ; e slanciossi in mezzo al rogo; È la Virtude d’abito e di
nome ( 8 ) Femina, nè stupore è, se propizia Si mostra e
favorisce al sesso suo. La nostr’arte però queste non chiede
Alme sublimi 9 e con minori vele Naviga il legno mio • Per me
soltanto S’imparano a trattar amor lascivi. Io insegnerò in
qual modo amar si debba La donna, che non face ed arco scote Sempre
crudeli ; agli uomini quest’armi Nuoccìon più parcamente 9 io ben lo
vedo: Gli uomini più spesso ingannano di quello^ Che ingannin noi
le tenere fanciulle; E poche troverai , se cerchi , xee Di
perfido delitto. Il traditore (9) Giason Medea lasciò già madre 9 e
in braccio Gittossi ad altra sposa. Oh quante volte Per te 9 Teseo 9
Arianna abbandonata (io) per lui4 Alceste sua moglie^ che dicesi
sposa pagasea dalla città di Pagasa in Tessaglia , volle essa
stessa liberar gen^osamente il caro suo spoeo, ed incontrò con
intrepidezza la morte. Quando Eoadne intese che era stato ucciso a/« la
guerra di Tebe il caro suo sposo Capaneo ^ conce» pi nell*animo un dolor
sì fiero ^ che corse valorosor mente a morire sul rogo dell* estinto
consorte. (8) Adoravano i Romani la Dea Virtù vestita in
abiti femminili. ^9) Annotaz. 89 del Lih. /• (io)
Arianna fu da Teseo abbandamata {Annoi. So. del lÀb» I. ) nell*isola di
Nasso j e però avrà te» muto gli Augelli marini provenienti da quella
pcffte di mare, in cui viaggiava il suo perfido amante^
Digitized by Google 94 la solitaria t
sconosciuta riva Temè gli auge! marini ! E perchè Filli (ii) Calcò
per nove volte il sentier stesso. Cerca, e perchè, la chioma lor
deposta, Piansero Filli le dolenti selve. L’Ospite, che
concetto ha di pietoso. Porse la cauta e il ferro alla tua morte, ( 12
) Misera Elisa. E che I narrar vi deggio Delle vostre sventure io
la sorgente? Voi non sapeste amar ; mancò in voi l’arte,
Mentre con l’arte solo amor si eterna. Sariano ignare ancor, ma
Cìterea Vuol che per versi miei sien fatte dotte. Mentr’ella stessa
innanzi al mio cospetto Si fermò, e disse: di qual fallo mai Si
fecer ree le misere fanciulle. Che inermi si abbandonano agli
armati? Tu con gemini libri bai resi questi Nell’arte esperti ; or
co’ precetti tuoi Tu devi ancora ammaestrar le donne. SteSicoro ohe
in pria cantò i delitti (i3) Impaziente FUlide per la lontananza del
suo Demofoonte eorse per nooe volte al lido , dà cui do^ vetfa egli
passare nel ritorno ; e alfine disperata cd afflitta per la tardanza di
lui ( Annoi, a 3 del Lib, li.) si tolse da se stessa crudelmente la vita.
Le fabbricarono i suoi parenti un sepolcro , in vicinanza di cui
nacquer degli alberi , che in un certo tempo , secondo quello che han
scritto i poeti , deposte le lor foglie , piangevano la morte della
medesima. (la) Enea , che vien soprannominato il Pio, di^
sprezzando Vamore , che è il nome proprio di Didone, fu causa
cVella si precipitasse sulle fiamme ohe ardevano la eittà e la reggia di
Cartagine. (i 3 ) Stesicoro siciliano è un poeta lirico ^ che
doto-' Sto ne* suoi versi Elena detta tersnoea dal castello ìa
Digitized by Google D* Elena, poi con più felice
lira Disse le lodi sue. Se V indol bene Io tua conobbi, no ^ non
sei capace offender Tamorose e culle donne. Per fin che vivi
a te tal grazia chieggo. Disse, e di mirto (poiché avea le chiome
Di mirto ornate quando a me comparve ) A me una foglia diede e poche
bacche. Ricevuti i suoi doni, io mi sentii Invaso dal suo nume, e
Paer più puro Splendermi intorno , e facile l’impresa Comparirmi al
pensier. Mentre l’ingegno E desto , a me i precetti richiedete,
Che a voi, donne, ascoltarli ora è permesso Dal pudor, dalle leggi
e da ogni dritto. Siate memori ognor della ventura Vecchiezza, e
per voi il tempo ozioso mai Non passerà. Scherzate ora che lice,
Nè si consumi invano il fior degli anni, Che come 1 onde fuggono
veloci. Tornar non puote alla sorgente il fiume. Tornar non
puote la passata etade. Cadete dunque, che trascorre il tempo
Con frettoloso piè, nè lieto mai Come il primiero siede. Or bianco
miri Questo stelo , su cui già in prima vidi Io rosseggiar le
viole, e questa spina Grata al c^pe mi porse un di corona. Stagion
verrà che tu , che "fchivi adesso L’amante , fredda e abbandonata in
letto cui, nacque y perche^ da essa ebbe erigine la rovina di
Troja. Ma i fratelli della medesima , Castore e Polluce Vacciecarono
crudelmente ; ed ei per ricuperare la sta , fu costretto a comporre un
poema in sua lode» Digitized by Google
Giàf&ttsi vecchia giacerai. Notturna Rifsa non fia che la tua
porta atterri, Nè sul mattino troverai di rose II limitar
della tua casa asperso. Misero me ! come corrotti presto
VeggoDsi i corpi dalle rughe , e, come ^ Langue ih nitido volto il color
primo! Quei che sul capo tuo bianchi capelli Si miran* or,che fin
da’di più acerbi Giuri che furon tali ; ah che ben tosto Si
spargeran per tutto il capo. Méntre (i 4) La sua spoglia sottile il serpe
lascia. Ringiovanisce ; e rinnovando i cervi Le corna, non
rassembrano^ mai vecchi. Fuggon senza speranza i nostri beni;
Cogliete il fior, che se non colto vegna, Cadrà miseramente. A questo
aggi ungi Che fan più breve giovinezza i parti; Invecchia il campo
per continua messe. Non di vergogna a te , Cinzia , fu causa (i5)
Il latmio Endimion , nè già doveo Per il rapito Cefalo arrossire
(i6) I Serpenti si spogliane ogni anno della luto scorza* I
Cervi cangiano ogni anno le qorna ; ma ne * rimangono privi se sian
castrati mentre le hanno de~ poste , e più non le varifino, se soffrano
una tale ope* razione phma di deporle. Impiegano i medesimi cin^
que o sei anni nel crescere, e però tioono’ solamente circa trentacinque
o quarànta anni , ttd ortta di tutte * le fuoole, che gli antichi hanno
scritte sulla lunga ìor vita. Buffon nella sua Storia naturale.
(15) Cinzia ( Annoi, del Lih, I. ) scendeva dal cielo per godersi
Endimione, che qui dicesi latmio per^ chè s^ascondeva ifi Latmo spelonca
del monte, di Caria. (16) S* innamorò la rosea Aurora di Cefalo
figlio di Mercurio, e però lo rapì « Prgcri sua moglie* ,
Digitized by Google , i/ fc La rosea Diva. Adori si
lasci a parte, Tuttor di pianto a Vetieré^ cagione, Com’ebb’olla
Antonia, cotii* ébbe Enea ? (r 7 ) Seguite" tiiir P esémpid delle
Dive, O bellezze tóót^aK , é a^ desiosi ' UomìAì
noilitìegate il favor vostro.: Siano essi ingannatori ; e che
perdete? Mille vi godan pur<;‘tutto rimane Nello stato pritòiér.
Gon Fuso il ferro* Si consuma e la‘ pietra ; in Vói non pudte
Cosa alcuna peirir , ricever danno. Chi ^vieterà cW dal vicino
lùme*^ Il lume non si prenda ? e chi nel vasto Seno del mar V
onde serbar procura? Tu mi dirai che non convien che a un
uomo Si dia la donna in preda ; ma che perdi Altro che l’acqua che
ricever puoi? Non vogliono i mìei carmi o la mia vocb» Al
libero dell* uom commercio esporvi^ Ma vietanvi temer le cose
inani; Non posson soffrir danno i doni vostri. Me un’aura
lieve , mentre siamo in porto» Spìnga, che ,al soffio dì più forte
vento Sono per cominciar maggior viaggio. Dalla cnltura io do
princìpio. Il vino Ceneroso dan sol le calte vigne, £ sol
né’campiVcoltìvatì miri Lussureggiar le biade. £ la bellezza Dono
del cielo , e come ah vien superba OQ.Arteà'am. e (17) La
Dea Venere éhhe à(jL Arichise il figlio Enea , e da Marte la figlia
Anmónia, Bastano . tàli esemp) per provare che ella permise a molti di
possederla . Digitized by Google pJbeU^z<i
ogui danpa 1 1Ja «ran parte Di voi prirs rù^.A quf»to 4ouo. . Con U
coltura la beiti ai 4CqWti Cile si perdo nfgfct^ ^ apci^r cjio
eguale A gueili fosse dpU'idalia Diy*. (i8) , Se Io prische
fasullo, il corpo Joì;a Non coti custodirò ^ se gli autieri Uomini
incolti vissero , se cinse ; Pesante gonna.AndroiMCjayìo non
yeggo>(f 9 ) Bagjon 4i,,ayiglia^I es^SA d’un rezzo , Guerrier
fu^^mpgli^. Fprsé a Ajace incontro Adorna andap dpvea la sua consorte,
(ao) Se a Ini la^ pflle .poi di sette bovi Servia di veste ? Ne^
primieri tempi Rozza regnò semplìcitade, e immense Ricchezze Roma
del soggetto mondo Ora possiede. Osserva quale adesso (ai) ^ \
Sia,il OampidogUo, e gual no’giorni andati^ E dovrai dir c]lie ,fa d'un
altro Giove. Ventre dicesi idalia dal monte Idale in Cif^ro a lei
consagrato, (19) Andromaca fa moglie A*Ettore Capitano deU
VArmata Uroijana, Annótàz, 89 del Lih, li. (ao) AJaae figli^di
Telamone è oelebràto daOm'e^' ro nella sua Iliade come uno piu valorosi
Prine^ che andarono all*assedio di Trofa. Sposò egU an*an^ cella
nominata Teemessa; e però dice Or ozio Movit Ajacem Telamone natura
’ Fórina captiTflB Dominuin Teemessa. La Curia fu
anticamente , secóndo F’arrone, distribuita in due parti, in una delle
quali custodi^ vano i Sacerdoti le cose diwine , ’e neWaltra
tratta^ vano i Senatori le cose umane. TaaUr fu un Re de* Sabini
così accorto 9 che seppe ottener da Rpmelaiina parte del Regno dopo
d*aver perduto un'atroce bai» taglia. ’ Digitized by
Google La Curia, che di tanto ora' rasaembra Concìlio
degna, fu di Tazio a’tempi Di rozza paglia intesta. Qoe'palagi- Ch#
ora risplendon sacri a Febo e a’Ooci; Che furon maì^ se non pascolo un
giorno Agli aratori buoi f Piacciano ad altri Le cose antiche ; io
meco stesso godo D* essere in questa età nato conrorme A’ miei
costumi, non perchè si tragga Dalle vìscere cieche della terra 11
dutil oro, o perchè venga a noi Scelta conchiglia da diverso lido;
Nè perchè i monti facciansi minori Per i marmi scavati ^ o perchè altere
* Sorgano moli ove giaceva il mare; Ma perchè regna or la
cultura , e a’nostri Tempi rusticitade agli avi antichi Cara non
giunse. non fate carchi 1 vostri orecchi di preziose pietre,
Che in mar lo scolorilo Indìan raccoglie; Nè comparite già gravi
per Toro Tessuto sulle vesti, onde ben spesso Le ricchezze cercate
e le rapite. Dalla mondezza noi sìam vinti. Il crine Si
disponga con legge; un pettin dotto R dona e toglie a suo piacer
bellezza. Non r ornamento stesso a tutte giova; Quello scelga
ciascuna , in cui più splende^ E si consigli col fedel suo
specchio. Chiede una lunga faccia che sul capo (za) {2.2)
Augusto fabbricò nel suo palazzo un Tempio consacrato ad Apollo Palatino.
1 Duci ^ a* quali ^ dim cesi sacro il palazzo medesimo, sono Augusto e
Tim bario, mentre quegli vi nacque , e questi vi abitò»
Digitized by Google loe Siati ben divisi non
velati i crini; Così avea Laodàmia le chiome adorne* Voglion
le piene e ritondette guance^ Che della &onte sul confin vi
lasci Piccol nodo onde veggansi, gli orecchi, D’an*altra il
orin flagelli ambe* le spalle,^ Quale al canoro Apollo allor che in
mano Piglia la lira. Come Pagi! Diana Altra gli .abbia legati,
alLor che al bosco Peiseguita le fiere pau^ròse. Convien che
questa abbia i capelli gonfj; £ strettamente quella il crine
implichi* Altra s’adorni in guisa tal la ehioma,^ Che alla
cilleuia cetera assomigli (aS); Questa V increspi in modo ohe
rassembri Onda marina. Numerar non puoi Quante sulla ramosa elea
sian ghiande. Quante in Ibla sian api, e quante fiere S’ascondano
nell’alpi, io pur non posso A te narrare le diverse fogge Di dar la
legge al crin , mentre ogni giorno Ne sorgono novelle. A molte
giova Che sia negletto : crederai che il capo Quelle jerì
s^ornasser , che con nuova Cura testé si pettinar’la chioma.
Studia con l’arte d’imitar Natura. Era Jole così, quando la
vide ( 24 ) ^ (a 3 ) Mercurio inventò la Lira fatta a gedsa di
te» staggine , e questa dicesi cillenia ^ perchè egli nacque nel
monte Cillene in Arcadia, Se Ooìdio tornasse a vigere in questo secolo ,
dorrebbe certamente veder con Rubilo che le nostre Dame seguono con la
massima esattezza i suoi proietti nell* adornarsi i capelli.
* (a 4 ) Amò Èrcole ardentemente Jole figlia di Eu» riio, il qual
rìcue/ò di dargliela in isposa, quoMtun» Ercole ; presa la cittade » e
disse : lo ramo; e tal Pabbandonata ; donna Quando sai carro
sosteneala Bacco» E i Satiri gridare : evviva » evviva.
Quanto in favor della bellezza vostra Fu Natura indulgente» o donne
I Voi In mille modi ricoprir potete Z vostri danni. Invan noi ci
asix^ndiamò; Cadono per 1* etade i capei nostri Come le foglie
allor ebe Borea soffia. Con le germanicb’ erbe asconder pnote
(aS) La donna la canizie » e può con Parte Miglior del vero altro
cercar colore. Vanne la donna con la chioma folta f
'glUVaotsu solennemente proméssa, frritmto gli pertanto da una tal
negativa, debellò la Città d^Occatia » 09 e questi regnava » e gli rapì
la sua di¬ letta denteila. :(a&) si sa veramente auali si
fossero quell^er- he germaniche ^ del di egù amore eUrattivo
compone- vano gli antichi un medicamento » col quale i capel¬ li
bianchi si riducevan neri o biondi. Si Sono però, trovate a’ nostri tempi
molte ricette, ohe compensano largamente una tal mancanza. Cosi se i
capelli sìan bianchi, si posson ridut neri col far uso d*una po¬
mata, a cui siasi aggiunto una piccola porzione di nero d*aoorio ben
macinato » oooero di sughero bru- glato unito all* azzurro di Berlino.
Resta pm assai difficile di ridurli biondi » se non si vogUono
adope¬ rar polveri d^amido leggiermente torrefatte. La mi¬ glior
ricetta che si può per quest* effetto accennare » é la seguente : si
faccia una forte liscioìa di cenere di sarmenti ; vi si unisca una piccola
quantità di ra¬ dice di brionia e di celidonia; si faccia il tutto
bol¬ lire; ed in fine vi Raggiunga altra più piccola pdtr- zione di
zafferano dell* Indie , di fiorì di stecaae e di ginestra. Si coli per
tela, e si laoino con una tal acqua piu volte i capélli.
fOft Per i compri capelli , e col denaro In mancanza
de* saoi porta gK altrou Nò il coidprar ciò palesemente teca
Ve^ogna i noi vediam che son venduti D* Ercole in faccia e del virgineo
coro. (a6) Che dirò della veste f Oro ed argento 10 non
ricerco ^ o che rosseggi tinta La lana in tiria porpora. Se mille A
prezzo più leggier vi son colori, ,, É qual è dì follia segno piò
espresso Che di portar sul corpo i propr} censìf Ecco il color
delFaria allor che searca Si rimira di nubi, e il tepid*au8tro Non
apporta la pioggia : eccone un altro Simile a te che sostenesti nn
giorno Come si narra, e Frisse ed Elle quando (27) Fuggir* le frodi
d* Inoe. Imita questo 11 cernleA mare ^ da ciò traggo
Il proprio nome, e di tal veste 10 credo Si coprisser le Ninfe.
Altro è simile (28) Si rUeva di qui, che in faccia mi Tempia
fMrtcata in onore d'Èrcole e delie Muse , avevano i Romani una bottega 9
in cui vendei ansi i capelli. ' (a^) Frisso ed Elle figli dì
Adamante Re di Tebe fuggir dalle frodi d* Inoe loro matrigna,
salirò* no' sopra il montone ornato del Vello d^oro^ che Mercurio
diè in dono a Nefale madre d^ medesimi. Frisso fu da quello felicemente
portato in Coleo , ma Elle'precipitò in quel mare , che prese da lei il
nome d^ Ellesponto. Con ^esta favola vuol però dire il Poe* ta 9
che era presso i Romani in uso ( e lo è pure cd di nostri ) il colore che
si assomiglia a quello dell* oro^ - (aQ) Essendo il giovinetto Croco
impaziente di poe* cedere Snùlaoe sua dUetta amante 9 fu trasformato
in un fiore che dicesi volgarmente ZefBivano , o che da lui Ica
preso il nome di Croco. £t Grocam ia parros yersam cum Smilace
flore». Ovid, Metam. Digitized by Google
TOS AI Croco, e qàaiido accoppia i Ittraihbsi
Destrier, con cròcea reste pur' si rela La rugiadosa Dea. Di'Pafo a’mirti
' Questo assomiglia , e quello alle purpuree Amariste , alle rose
biancheggianti (29) Uno‘^ ed tin altro aÈa'straniera grue. Le
ghiande tuè ti sod pure, o Ainarilli, Nè ri tnancanr le mandorle, e il
suo nome Diede alle lane per la eera. Quanti Fiori produce la
norella terra ~ Allor che fugge iUpìgro rCrnò, e stilla Gemme
la rite ^ tanti beo la lana Color dirersi, e quello scei tu dei>
Che col tuo rolto Si confà. Ogni reste Non conriene a ciascuna. I
neri ammanti- Fan risplender le bianche. Assai più. bella
firiseide, allor che fu rapita, apparre, Perchè le membra accolse in
negra reste*. Odora alle brune donne il color bianco: E tu
piaceri, o di Oefeo, ( 5 o) In bianca resta allor che di
Serifo Passeggiar! le rie* Io diei consiglio Che del capro il fetor
sotto V ascelle Non passi, e che non sian per duri peli Aspre le
gambe,. Ma non io già deggio Delle caucasee rupi le £snciulle Far
dotte, o quelle che di Caico misio {ìi} (29 ÀmaUsta è una gemma ,
il di. oui colore è- quasi simile a quel della porpora. (So)
La figlia di Cefeo à Andromaca: avrà essa probabilmente passeggiai per le
vie di Serifo > perchè è questa una piccola Isola del mare egeo ,
nella quàU fu edueato Perseo suo liberatore. ( 3 r) Gli
abitatori del monte Caucaso furore antica-- menteiCome lo sono tuttora,
ferocissitni. FI Caico-è unfiu^ me della Frigia e della Lidia ^ che
proviene dalla JS/Lsia. Bevano all*onde. Che non siano i denti
V*ammonirò per hidblenza foschi, E che si lavin sul mattin 1 ^
guanoe Con man dell’onda aspersa. Voi sapete Pjocacciarvi il candor
con distemprata Cera; e con Parte divien rossa quella. Cui non
colora il sangue suo la. faccia: Voi con Parte il confin nudo del ciglio
Fate ripieno, e voi con tenue pelle Ricoprite talor |e vere gote.
Stropicciar gli occhi poi non è vergogna Con la cenere tepida „ o
col crocb Che nasce presso te , lucido . Cinno. (3a) Tengo un
libretto picciolo, ma grande ^ Opra per il pensiero , in cui i rimedj -
' Qià v’insegnai per la bellezza vòstra» ( 3 d) Con
felice successo adoperarono le Dame Ro^ mane la cera distemprata per far
fianca la peUe ; e con faUe^ ti Adopera ancora in questi tempi
dalle nostre Dame . Ecco il modo di prepararla : ad una parte di
cera bianca di Venezia si uniscono otto parti d* acqua , a cui si
aggiunge una piccola porzione d*alcali vegetale y e si di^cioglie il
tutto finché non si abbia una sostanza consimile al latte* he Dame ro^
mane solevano ancora adornare co* colori , e riempire co*peli ben
disposti quello spazio ài pelle nuda che é fra il ciglio e il
sopracciglio, s ! • Il le •apercìlium magaa faligine tinctum
« Obliqua producit acu. Giovenale. Dalla Cilicia che è
irrigata dal fasme Ciano fa» cevano esse venire il zaffarono ed altre
céneri atte a purgar gli occhi dagli umori soverchp; e a renderli
per cònseguenza maggiormente^vivaci. Ha scritto Opì- dio un piccolo libro
de medicamiue faciei quale inségna alle Donne tutti i rimedj, che
possono contri» buire a far bella la lor faccia e le loro
membra. Quindi riparo alla figura offesa Cercate, che non è per gli
usi Vostri Inefficace Farte mia. L’apiaìite Non miri apertamente i
vasi esposti. Che Tarte ascosa giova alla beltade. A
chi non spiaceria mirar sul volto Stendere quella feccia , e
lentamente' Cader pel peso suo nel caldo seno? Quàl dall*
immonda lana dell* agnella ( 33 ) €2 ( 33 )
Fahhricavasi in Atene con In lana sudicia e molle un medicamento che i
Greci chiamavano Etipo. Le Donne facevano uso di questo per mollificare
le ulceri di qualche delicata lor parte. Vedasi Diosco* ride y
Plinio il Mattioli nel suo erbario ; che ne parlano a lungo , ed
insegnano la maniera di fabbri^ cario, ' Non d può accennare
qui il modo , con cui prepa^ radano gli antichi i midolli della Cerva
yper averne un composto atto a far bianchi i denti, era i molti
medicamenti che hanno per quesV effetto inventati i nostri Chinùci , ci
piace di riportar qui la polvere , V oppiata i e le spunghe ; di^ cui dà
Mons, Beaumé la ricetta nella sua Farmacia, Ad un*oncia di
pomice, di terra sigillata^ e di corallo rosso s*aggiunga mexz*oncia di
sangue di Dra^ go, un* oncia e mezza di cremar di tartaro^ se ne
fac^ da una polvere sottilissima , e vi si unisca una pie- cola
porzione di garofani e di cannella. Per compor quindi V oppiata
> si prenda un* oncia della polvere suddetta, due once di lacca rossa
da Pittori, quattro di mele di Narhonne, due di siroppo di more ; a
queste ù uniscano due gócce d* dio essen-- ziale di garofani, e si avràr
un* oppiata , che S4^à op¬ portuna , come la polvere , a ripulire ,
imbianchire , e preservare i denti da molti incomodi. Una
stessa virtà hanno le spunghe preparate , e intrise in una tintura fatta
con lìfibre quattro a^ua, in cui abbina hoUUo quattVonce di legno del
Bras^* Daraiìne ing^rato odòrè- il 'sugo estratta^ Benché da Atene
a noi si mandi t Inverò^ Lodar non so cl^ alla presenza altrui
Della cerva i midolli insìem mischiati Piglinsi, e che palesemente i
denti Si faccian netti* Utili alla beltade Sono. tai cose , ma
deformi troppa Agli occhi nostri* Molte cose fatte Piacciono, e
turpi son mentre si fanno» Le statue di Mirone opre famose, ( 34 )
Furono inerte peso e dura massa, Per farsi anello , Toro in pria si
frange, E quelle vestì, onde vi fate adorne,, Furon. sordide
lane* Era aspro marmo,. Mentre erano a scolpirla intenti, quella
Statua nobile in cui Venere nuda Trae fuor dall* onde gli umidi capelli.
(35)* Fa che pensar possìam che dormi allora Che tu Vadornì, Io
lusingl>ieTa forma Sarai mirata se alla tua cultura le,
tre dramme di cocciniglia soppesta , e quattri) di alume di rocca .
Quando queste spunghe si sono, im¬ bevute d* una sufficiente quantità d*
una tal tintura, si fanno asciugare, si pongono per alcune ore
nello- spirito di vino, a cui siasi aggiunte una porzione di- olio
di cannella y di garofani,.e di spigo ec.; quindi si spremono, e sì
conservano per valersene al bisogno, ih vaso di Oetre ben ehiuso.
(34J Mirone discepolo d^ Ageladé seppe formare in bronzo còsi
perfettamente le statue , che Petronio dite aver egli compreso nel bronzo
V anima degli uomini e delle bestie, ^ ( 35 ) Alludesi alla
famosa statua di PrassiteU , che rappresenta Venere nuda neW atto
d^ uscir dal mora. Fu questa collocata in Roma nel Tempio di Bruto
Callaico insieme col Colosso di Marte pvesso - il Circ¬ eo
ffaminio» Diligente darai T ultima mano. Del talamo le porte
ben raccbiudi. Perchè vuoi far^ palese un’opra rozaaf Molte
COEC' ignorar gli uomini danno. Di. cui gli ofiendón molte, se non
copri Ciò , che & d’uopor di tener , celato. Vedi quelle
che pendono^ da un culto> Teatro aurate statue, a osserva bene
Qual lieve foglia il legno lor ricopra.. Ma come quelle al popolo*
non lice Veder ae non sien poste in vaga mostra^ Così se non elea
gli uomini lontani, Non si procuri d’acquistar bellezza.
Non vieteiò cbe al pettine abbandoni Palesemente 1 tuoi capelli,
quando Scender potran per tutto il tergo aspersi. Di non esser
procura allor molesta, • Ne aciorre spesso le mal calte chiome.
Sicura sìat quella che il crin t’adorna; Odio colei che le ferisce il
volto Con l’un ghie liCi con rapito ago le punge 1 ( braccia Allor
d’ancella là detesta. Le tocca il capo, e sull’odiate trecce*
Col piaotn suo scende mischiato il sangue* Quella che il
capo.ha.quaai calvo ,ipoDga^ Sulla porta il oustode , o della Dea
Gibele al ten^pio ad adornar si vada. ( 56 ) ^ ( 36 )’ CibéU aveva
in Roma un Tempio, in cui non potevano aver gli uomM V accesso :
4 Sacra Bona maribas non adeunda Des. Tibullo,
Insinua pmttauio Ovidio con questa frase Me Donne di non pettinarsi
alla pretenza^ degli uomini^ se non so» Mli i ìorq capelli fui annunziato
airimprovviso un giorno A una -donzalla; e torbida i non suoi
Velò capelli. Uo tal ro 88 or > ricopra La faccia alle nettiicbe, e
questa^ infamia Fra le particele Nuore abbia soggiorno. Turpe è
Tarmento senza corna, e turpe Senza gramigna è il campo,
Tarboscello Senza le foglie, e senza i crini il ^apb» Non-vennero
ad udire i miei precetti Semele, Leda ^ o la sidonia donna (37) Che
via portò pel tnar fallace Toro, O la tua sposalo Menelao, cW
chiedi Bene a ragione, e che a ragion si tiene 11 Rapitor
Trojano^Ecco una turba*' Di belle donne e dì deformi a un
tempo ( Ahi sèmpre il ben dal male è snperato ! ) Che chiède i miei
precetti, ma non tanto Cercan questi le belle , e men dell^rfe
Procurano rajoto. Han quelle in dota Beltade senza Parte assai
possente. Quando tranquillo è il mar, sicuro bessa^ Il
nocchier dal lavoro, e mentre è gonfio Si asside, e in opra pone ogni
socConk). Rara è beltà che senza macchie Sia; ^ Le cela , e i
vizj del tuo jcorpo ascondi {37) Semeie figlia di Cadmo He di TeÒe
e.madre^ di Bacco , Leda figlia di Tindaro, e sorella di Ca- stare
e Pollice, Buropa figlia di Agenore He di Fe¬ nicia ove giace la città di
Sidone , da cui élla vieti detta Sidonia, furono dotate d*una tal
bellezza , che innamorarono vivamente lo stesso Giove, il quale
non^ ebbe à vile di prender per esse le più strane sem^ hianze.
Queste con Elena mogUè 'di Menelaosi pro» ^ pongono qui dal Poeta , come
eiélnpi troppe rari dì: perfetta bellezza. Quanta più puoi'« Se di
statura breve Tu sei, t’assidi, onde seder non sembri Allor che in
piedi stai. Se oltre misura Però lo fo^si^ allor ti porca , e
ascondi Con le vesti su’piedi un tal difetto. Quelle che sono
gracili e minute Debbon di grossi drappi ornarsi, i quali Sciolti
cader si lascin dalle spallo. Tocchi il suo corpo con purpurea
verga ( 38 ^ Chi è pallida ; e chi è nera abbia ricorso Al fario,
pesce. Un piò lungo e deforme Sottu candida alunda pgnor si celi,
($9) Nè secche gambe .sciolgansi da* lacci. (38) È certo ,
gU onticfd aoéoano de* medica^ menti , co* quali ti coloravan la faccia
^, benché non d sappia di qual natura^ quelli si fossero . Il belletto
> che si usa pretentemente è composto di rosso e di biancone sarà
forse pià efficace di quel che adopra* vano le Daàte romane. Si è per
qualche, tempo im-^ piegata Cernita il magistero di Bismuto^ detto
altrimenti bianco di spanna com« quello, che avendo un leggiero color d*
incarnato, era pià analogo aHa pelle ; ma sì l* una che l* altro anneriscono
e guasta¬ no la carnagione, mentre tutte le calci metallici^ ri¬
prèndono una parte del loro flogisto , e, si ripristinano* Si è pertanto
sostituita alla cerussa ed al bismuto la pomata di spermàceti^e l* olio
di mandorle dolci, unendovi una porziànè di falco'biancò finissimo.
Col talco bianco ùmilmente barico ,della parte coloranto de* fiori
di Cqrt^mfi j a, ,cui si aggiungono poche goc¬ ce di olio di Beri, per
renderlo pastoso è molle, si compone il roiso y che ancor chiamasi-rosso
di porto- gallo o roSso'vegetale. ‘ Il /arto pesce é il
Coccodrillo y degl* interiori e della sterco del quote sh servivano i
Homani e(f i Greci per fare un composto atto a render bianca e
splendida, lo pellé. (39) X’Alauda b una pelle
moUissiuia, Tenue eoscm conviene ad alte spalici E se il petto sìk
turgida, il circondi Fascia, e lo stringa. Se le dità pin^ui^
E scabre T ùnghie avrai, allor di rado Accompagna congesti i detti
tuoi. Chi grave dalla bocca esala oddte ' • Digiuna mai non
parli ^ e dalla bocca Deir uom stia lungi. Negri, e troppo grandi
Se i denti siéno, o in non belFordin natii Massimo il «iso allora apporta
danno. Chi ^1 crederiaMiC donne apprendon pure Le. maniere
del ti80 ,'e in qùesta parte Nuovo per lor procacciano òtnatoeùto.
Non troppo-larga apri la bocca , e brievi Sian le pozzette in ambedne le.
gote, E le radiche ognor copra de’denti L’estremità de’labbri
, e non bisogna. Affaticar con smoderato riso . Il fianco,
mentre deve ancor nel riso. - Dar proprio, delle donne urf dolce
sùono'. V’ è pur chi in mille guise il volto- Con male acconce
risa*, ed altra credi Piangere allor che tutta allegra ride$ Quella
tramanda un, rauco suono ; e stride Cosi inamabilmente, che ^assembra ;
Asìnella che ragli, allor che intorue s 5 Alla macina gira.^E'do Ve
l’arte ^ Non giugno ? Coù decòro itnpajfan ) A
lacrimare, e come, e qhandò sembra, ^ Loro opportune. E che dirò di
quelle. Che niegano agli accenti intera forma, E fan
con studio balbettar la linguaf ^ Credon che sia lìa grazia ancor nel
viziò^. E pronunciano mal varie paròle^ • Digitized by
Google rrii E con arte studiata altre ne
lasciano. A tutto ciò, che ben giovar vi puote^ Ponete cura,
e con femineo passo Imparate a portare il corpo vostro^ Havvi
nel portamento anco il decoro. Con cui si fan fuggir , con cui si
allettano^ Gii uomini ignoti. Muove questa il fianco Con arte , ed
ondeggiar lascia le gopne Air aure in preda, e stesi i piedi porta
Con maniera superba. Altra cammina Qual deir umbro marito la consorte
(4o). Rubiconda, e con piede in dentro volto rapassi move smisurati
•y in q^uesto Serbisi, e in altro pur giusta misura» Rustici ha
questa i moti, e troppo quella^ E molli e ricercatk LMraa* parte
Della spalla, e r estrema ancor del braccio Di nuda, onde chi posto è al
manco lato Veder la possa. -Hi special modo a voi Gioverà che qual
neve avete bianca Ina pelle. Quando questa io mira, sem-pr^ Sulla
spalla scoperta i bacci imprimo. Col dolce suon della canora
voce Fermàr le navi più spedite al corso Le Sirene* del mare iniqui
mostri. (41) {40) Condanna Ovidio a ragione come rozze le
mo¬ gli degli Ultori popoli forti e a un tempo stesso /«- voci f
che abitarono in Italia sul monte Appennino, (41) I>c Sìrerse sono tre
barbari mostri che dimora¬ rono nel mar di Sicilia, Col suon lusinghiero
deWar¬ moniosa lor voce'allettavano queste in tal maniera i
naviganti , che si lasciavano essi predar facilmente. Ulisse per evitare
un tanto pericolo , chiuse con la cera ^^^cchie suoi compagni^ e si legò
strettamente'^ M albero della na^e ^da cui si disciolse dopo
jia Udite qneste, se medesmo sciolse DalParbor della nave, e
con la cera Chiuse Ulisse accompagni ambe le orecchie. È
lusinghiero il canto . Le fanciulle Apprèndano a cantar ; la voce a
molte Senza bellezza conciliò gli affetti. Cantino quel che
udirò ne’ marmorei Teatri f ed or versi costrutti in metro (42) Niliaco;
e culta femina tenere Sappia per mio giudizio or nella destra 11
plettro , ed or con l’altra man la cetra. Il tracio Orfeo con la sua lira
mosse ( 43 ) Le fiere, i sassi, le paludi stigie, Ed il
triforme Cane . O della madre Giusto vendicatore al canto tuo
Cortesi i sassi fabbricar’ le nlura. Benché sia muto, il pesce ( è
nota al mondo Favola) al suon del arionia lira( 44 ) sentito
il dolce cànto di quelle . Le donne imparino dunque a cantare ,se
ooglionsi conciliare, come dice Otfidio , P qmore degli uomini,
( 4 ^) E!ran famigliari a* Romani le canzonette ame^ rose , e
spesso lascile , ahe si cantavano in Egitto , ove scorre il celebre fiume
Nilo, (43) Orfeo nato in Tracia da Apollo e da Calilo • pe
col suono armonioso della sua Lira fece sì che gli corressero dietro per
ascoltarlo , gli alberi , i sassi , i fiumi , e le beloe feroci : Quand*
egli intese la morte d* Euridice sua moglie , scese con la lira all*
Infernot e con quella intenerì talmente gli Dei infernali, che a
lui la restituirono , purché non ardisse di riguar-- darla prima d* uscir
dall* Inferno, Non p9té l* amo^ toso consorte obbedire a tal legge , e
però ella dovè involarsi a* suoi sguardi subito ch^ ei la mirò
( 44 ) Anfione figlio di Giove e d*Antiope indusse le pietre col
suon della Lira a fabbricar le mura della città 4i Tebe. Picesi
vendicator della madre, perchè. Si fe* pietoso . Anco a toccare
impara Con Tana e l’altra man le dolci corde Del Salterio ; son
atte a* cari scherzi* Di Callimaco a te smn noti i carmi.
Quelli del eoo Poeta , e quei del tejo (45) Vinoso Vecchio. A te
Saffo sia nota (Son più degli altri i carmi suoi lascivi) E
quel per cui viene ingannato il padre (46) Del servo Oeta con la callid’
arte. Del tenero Properzio i versi leggi, O quei di
Gallo, o quei del buon Tibullo, O i velli insigni per le bionde fila
(47) insieme fratello Leto la vendicò dall* ingiurie , che
recatale Ideo di lei marito y col trucidarlo nel letto y ove lo sorprese
con Dirce sua concubina y a cui pure tolse la vita. Atwne
nacque in Metinna , e fu im eccellente Po&^ ta lirico , e nel tempo
medesimo un ricco mercante. Ufosid alcuni suoi comùttadini dal desiderio
di godere delle sue ricchezze fissarono di gettarlo in mare, men*^
tre egli se ne tornala alla patria. Accortosi di ciò Arione cantò
intrepidamente una canzonetta , ed un-' Delfino , allettato da una sì
dólce melodià , Vaccai^ se sulle sue spalle y e lo portò in Tanaro
promontorio della Laconia, (45) Accenna ora Òoidio i Poeti
che piacevano ai suoi tempi , e per lo stile e per le materie galanti
, come a* dì nostri piacciono Ariosto , Passo , Guaritù , è
Metastasio ec. Fiteta fiorì a* tempi d*Alessandro Magno per li
suoi' versi elio^afici , e dicesi eoo Poeta y perche Coo /if ia sua
patria. Anacreonte nacque in TeJo , e scrisse mol^ te canzoni veramente
leggiadre in onore del buon vi¬ no , delle donne y e del giovinetto
Batillo. (46) Terenùo compose una commedia, in cui il padrone
, ed il fratello sono ingannati da Geta asti^^ to lor servitore.
.'(47) ^^^^one Àttacino cantò ne* suoi versi la spe^ dizione in
Coleo degU Argonauti. Il vello d* oro , che jbyGoo'gle
ii 4 Che far fanesti, ó Prisso ^ alla tua aaara
Cantati da Varrone, q il pio Trojano Di coi non y’ha nel Lazio opra più
chiara. Ma forse un dì con 'questi andrà conginnto H nome nostro,
nè i miei scritti in Leta Saran dispersi/Dirà aldino : leggi ,
I culti versi del maestro nostro^ Con cui poteo far dotti
uomini c donne.^ Fra’suoi tre libri che hanno infronte scritto
II titolo d* amor 9 scegli que^ verai ( 4 j 3 )t Che legger tu
potrai con docil bocca Più mollemente ; oppur con ferma voco ,
Canta P Eroìdi , ignota opera agli altri Ch’egli compieo. Ahi cosi
piaccia aFebo^ Pel corno a Bacco insigne/ ed allò Muse, Numi che son
propizj a noi Poeti. Chi dubitar potrà ch^ìo la fanciulla Non
voglia al ballo istrutta, onde poi toltq Il vino dalla mensa » ella le
braccia Volga in composte ed ordinato moto? Amansi i danzator che
della scena Sonò spettacol, perchè san con arte : V Saltare y
e con decoro. Io mi vergogno Di doverla ammonir di tenui cose, _
questi ivi andarono a conquistare , fu funesto ai Elle sorella di
Frisso y perchè ella , come si è accennato y cadde miseramente in mare ,
mentre il Montone ador^ no d* un tal vello la portava insiem col fratello
ih Coleo,, Tl pio Trojsno h, come è noto y Enea, sulle aùoni del
quale ha scritto Virgilio quell* aureo Poe» ma che porta il nome d*
£aeidb. {èfi) Ovidio fra l*altre sue opere annovera ancora
ire libri d* Elegie intitolati gli Amori, ed un libro - intitolato V
^roidi , perchè comprende ventuno lettere amorose y che fa scrioère
scambievolmente dagli Eroi all’Eroine^ e dalfEroioe agli £roi.
P’istruirla a gettare or l’aliosso, £ a conoscer de’ dadi anco il
valore. Or tre numeri getti, ed ora accorta (49) Pensi qual
parte segua acconciamente E qual richieda. Canta in finta guerra
(5o) Muova i soldati, che da duo assalito Nemici uno perisce. Il Re
sorpreso Senza la sua compagna ^ si difenda Da se medesmo , e
f’emulo ritorni Per lo stesso seotier.' La tasca è aperta^ E
ornai son sparse le pulite palle; (5 i) Quella che prendi sol muover tn
dei. Ravvi un: gioco diviso in tante parti (Sai Quanti numera mesi
il luhric^anno. Breve tabella prende da ogni parte (S3)- Tre
tenni pietre, e il vincere consiste Nel disjpor queste in una
dritta Mille giochi vi SOI» che turpe fia A una donzella d* ignorar
; col gioco Si può l’amore conciliar. Leggiera Fatica è appreodero
a giocar ; maggiore Opra é il compmrre allora i suoi costumi.
C49) Non sappum Diramente per qual ragione si~ éovesse procurare
tempi, in cui vivcóa Ovidio di gettar tre numeri nel gioco d^ Dadi.
^ 5 “^ •S£r»/erÌjco»o questi versi al gioco degli Scacchi.
(Si) questo un gioco, di cui non possiam dare tucuna notula.
Sembraci f che sia questo il gioco, che r pure * *** dell»
Dama. ( 53 ) Alludeu (d gioco del Filetto, che . or gioeano'
nule campagne i ragazzi. Così b decaduto un gioco - 0^ formava la delizia
delle Dame romane, e coi» aecaderanno ancor quelli che si hanno in pregio
a‘ dk nostri, ® ' Digitized by Google Mentre
s’applica al gioco, incanti siamo, E i reconditi sensi alloc dell’
alma Facoiam palesi. Ci deforma il volto ^ j Il cieco sdegno,
e sono ognot col gioco Il desio del guadagno , le .pontese, »
11 sollecito duol, le stolte tìsse.^ j Rinfaccìansi i delitti
; di clamori * V aere risuona, e in sno favor s’invocano Gl’
irati Dei. Non v’ è fede nel gioco Il qual co’ voti non divìen
secondo; Vidi le gote ognor molli di pianto: Da voi che
amate di piacere all’uomo, Giove tenga lontan questo delitto.
Diè la pigra natura allo fanciulle Silaili giochi ; ad altri
pii sublimi S* applica l’ uom : per lui sono il paleo» ( 64 )
I dardi, 1 ’ armi , le veloci palle; E il cavallo costretto a
gire i^^no. Voi non acosf^il’-campo.o'ra gelata ( 55 ) Vergin
, nè voi sulle sue placid’ onde j Porta il toscano fiume* Ah ! voi
potete Gire all’ ombre pompeje, anzi vi giova ( 56 ) 1 Quando i
destrier del Sole ardono il capo (5 4 ) H Paleo i urto strumento
fatta a guisa Jt trottola, eoi quale giocaoano i fanciulli romani
fa- tendalo con una sferza girare intorno. ( 55 ) Nel Campo
Marzio si esercitavano » romani in tutti que’giuochi cU potevano «P***^"'^*
• renderli valorosi guerrien. Era ivi ta Vergine dalla
fanciulla che ne scopri la sorgente, ed in quella si lavavano i
giratori le di polvere e di sudore. Il Tevere e qui detto
fannie tascsno, perchè dall’Appennino la Toscana nel
f<u-t il siSo corso alla wta di tioma. ( 56 ) Annoi, q. del fàh.
I, ^ Digitized by Google Alla vergin celeste. I
sacri a Febo (5^) i’alagi visitate ; egli sommerse In alto mar le
paretonie navi. I monumenti ancor» che fur costrutti» Dovete
frequentar, da Ottavia e Livia ( 58 ) Una suora del Ehjce, altra
consòrte, E quelli pur del valoroso Agrippa, Che ha
cinto il capo di navale onore. Della menfitica Iside agli altari (69)
Siate frequenti , ov^ ardesi P incenso, E ne’luoghi cospicui
a’tie teatri. Di caldo sangue le macchiate arene Ite a
mirare, e la prescritta meta. Rapido intorno a coi si volge il
cocchia. Quel che si cela ò ignoto , e ciò che è ignoto Nessun
desio risveglia ; è lungi il frutto Se manca il testimone a un bel sembiante.
Benché nel canto superi Tamira (60) ( 5 ?) Dicé con Ovidio ancora
Virgilio, che Apollo nella guerra Azziaca prestò il suo soccorso ad
Augu^ sto y il quale aveoagli innalzato un ternpio nel pro^ prio
palazzo . Apollo in conseguenr^a , ^Hcondo questi poeti , sommerse le navi
egiziane deste paretonie da Paretonio città marittima d*Egitto , che
Pompeo avem va armate contro d*Augusto. ( 58 ) Ved^i l*annot,
8 e g del Libro /. Augusto decorò A grippa suo generò della Corona navale
dopo d^aver debellato Pompeo ^ ed innalzò al medesimo un portico y
che fu chiamato il Portico d’A^rippa. (59) Annoi, li del Lib, /.
Dice Sirabone che gia¬ cevano tre superbi Teatri in vicinanza del
Campa Marzio. (60) Fu Tamira un poeta tragico che ardì con
la sua lira di provocare le stesse Muse ^ credendosi a quelle
superiore nella dolcezza del cantoma\dalle medesime fu vinto , ed in pena
della' sua arrogwiza gli furono tolti gli occhi. Digitized
by Google ii8 Ed Àmebeo , sarà priva d’
onor« L’ ignota cetra» Se di Coo il Pittore Vener ritratta
non avesse^ immersa Sare^bbe ancor nelle mailne spume. £ che
ricercan maggiormente i sac^i Poeti che la fama ? E questo il fine
Cui tendon tutte le fatiche nostre. Fur de’Numi e de'Re delizia un
giorno. 1 Poeti , ed immensi ottener premj I cori antichi*
Venerando allora, £ d’ una santa maestà ripieno Fu questo
nome, ed ebbero sovente Larghe ricchezze. Ennio che il suo natale
Trasse ne’monti calabresi , degno Si fé’ d’esser unito al gran Scipione.
(6i) Or giaccion senza onor Federe, e il nome Ha d’inerte colui,
che i sacri studj Cari alle Muse a coltivar s’accinge» Giova
cercar la fama, e chi d'Omero Contezza avrebbe , se in obblió
sepolta Ateneo^ Plutarco ed altri parlano con somma lo^ de
d*Amebeo ateniese , perchè sonava eccellentemen- te la cetra, Apelle
nativo di Coo dipinse Venere nel- ratto di uscire dalVonde marine \ ed
Augusto coliocè una tal pittura nel Tempio dì Cesare suo Padre,
(6i) ÉrUiio è tra i Latini un poeta che si può da- gV Italiani
paragonare a Dante. Ennius ingenio maximus , arte xudis.
Owd. Trist, Ub. IL EL I, Fu egli, nativo di Rudia in Calabria
, e visse som¬ mamente caro a Scipione Affricano il vecchio , ed a
molti altri insigni Cavalieri romani. Morì in età di anni settanta , e
dicevi che fu collocata la sua sta¬ tua di marmo nel sepolcro degli
Scipioni. Cicerone ^ro Archia Peata , così parla di ciò : Garas fuit
Af- iiricano superiori ngster Ennius ; itaque in tepulcro ScipioQum
putatur is esse constitutus e marmore. L'Iliade o^ra imxnortal
foase rimasa? ^ Chi Danae conosoiata avr^a , se ascosa (6a) Posse
étata mai sempre^ e «e già vecchia' Si fo8a''ella lacchiusa eptro la
torre? Utile è a voi , bèllé e vezzose donne, Di porre oltre
le soglie il vago piede< La lupa a molte agnello insidie
tende Per predarne una, e sopra molti augelli Vola 1 Augel dj
Giove. Il volto mostri Sposa_ leggiadra ^1 P®poI<>> o fra
molti Un solo appéna rimai^rà sua preda. In ogni loco ove si
tro^ , attenda Sempre a piacere; ed abi>ia special cura Di sua
bellezza. Puote in ogni incontro Sempre molto la sorte. Getta
l’amo, Chè in quel gor^o, ovemen lo pensi, il pé^co t alor SI
trova . Erran sovente indarno Per boschi montuosi i cani , e il
cervo Cade fra’ lacci, mentre uinn l’insegne. D Andromeda
l^ata a un duro scoglio ( 65 ) Il niT*** *Pf far, che a un uom
piacesse Il pianto sue ? ài cerca spesso un uomo Ne funerali
del marito ; i crini Sciolti portar conviene, e sian la gote
Di lagrime bagnate . Ma fuggite Gl, uomini che d’aver le
^mbra adorne hi fanno un pregio ; della lor beltade
Vanno superbi, e portano le chiome Con ricercata simmetria,
disposte. Ciò che dicono a vói, dissèro a m{llé; D’ uno
in un altro àmot Tàgando vanno , Senza restarsi in dmha "parte
mai. Che d’un tal uomo effemi,nato., a cui Forse molti non
mancano amatori. Dee fer la donna ? 11 crederete appena.
Ma credetelo'pur , Troja' àncor ferma ( 64 ) Starebbé,se di Priamo
avesse ih uso\ ‘ Posto gl* insegnamenti . H'a^yi di quelli Che
sotto il mantó di fallate amore ^ ■V* assalgono , e tiòèrcan coh‘
tai mezzi Vergognosi guadagni . Ntìn la chioma Per il liquido nardo
nitidissima ^ V'inganni, o breve fascia con cui stringa Le pieghe
della veste ; nè v’ illuda Toga che sia di tenue,fil tèssuta;^
O anel con cui s’adorni uno o più. dita. Chi fra questi è più
colto, è forse un ladro, E d’ amore arde per la ricca veste.
Gridano spesso le spogliate Donne; Il mio a me rendi, e il suon per
tutto il foro Rimbomba, e s’ode ; a me deh rendi il mio. Tu da tuoi
templi d’oro adorni miri Con le femmine d’ Appia indifferente, ( 65
) Venere, queste lìti , Ancor vi sono Pessimi nomi'pei^'non dubbia,
fama-. ( 64 ) Priamo iruinuava «’ tuoi Trojatti di rtrtdtr
^( 65 ) àoeva nella via appia tomo al quale abitarono molte
donne sacrifici che queste rendevano a quella lor lare
, consistevano in prestar liberante tl lor corpo alle voglie
sfrtnatt desìi uomm Iwrnnio E molte che rimasero ingjinnatp Da
molti amanti, or d’ un egual delitto Si trovan .ree. Dalle quetele
altrui; Imparate a; temer le^ vostre ; chiusa, Sia mai sempre
la porta ad uom fi^lace. Donne ateniesi, uon prestate fade (j66)‘ A
Teseo ancor, che giuri • In testimonio» Come invocolli nn giorno, i Numi
invoca. Tu del delitto, oJDemofonte , erede. Di Teseo più non
meriti credenza, (67) Perchè ingannasti Fillide . Se molto A te
pròmetteran, loro prometti j * Con eguali parale . So di doni,
Ti siano liberali, lor concedi I promessi piacer, ma se gli
nìeghi II dono ricevuto, ancor potrai. La fiamma
estinguer deUa vìgil Vesta, (68) Rapir da’templi dTside gli arredi,
E air uom porger T. aconito mischiato Con la trita cicuta«tll mio
desire , Mi spinge ora a ;fcenarmi, e: tu ritieni. Musa , le
brìglie : nè le mosse rote * Ti dian.terror» Tentino in prima il
guado Ov..Arte d-am. (66) Teseo abbandoni Arianna in
Nassa, (67) Demofe^nte non serbò a Fillide la premesti^ di
ritornarsene a lei dentro due mesi, (68) Con questi versi vuol
significare il poeta che è capace di commettere ogni sceUeratezza quella
don~ na , che nega il favor suo a quegli uomini da* quali ha
ricevuto de^ doni, Riputavasi in fatti da* Romani un enorme delitto il
rapire il fuoco custodito dalle Vestali, o i .sacri arredi del tempio d*
Iside; e da ogni nazione si è creduto sempre colpevole colui che
porge alVuQmo /^aconito con la cicuta , cioè il vet^no. Xrli scritti
fogli, e T inviate cifre Riceva accorta ancella . Apprendi e vedi
Dalle stesse parole che tu leggi, Se finga, o par se son sinceri i
prieghi. Dopo breve dimora ognor rispondi^ Mentre , se è
bre;i^e, è stimolo agli amanti. Deh non prometti al giovin che ti
prega D’ esser docile mai, ma in duri accenti Non.gli negar ciò che
dimanda . Tema E speri a un tempo^ e ognor che tu il licenzi Sia
minore il timor, maggior la speme. Scrivi culto parole e consuete,
Che un famigliare stil più eh’ altro piace. Ah quante volte arse
per dólci note II cor di dubbio amante , e fu nociva Una barbara
lingua a bella Donna! Benché voi siate nell* ònor perdute.
Tutte le cure vostre or son dirette A ingannate i Mariti . Idonea
mano D’esperto giovin, di fidata ancella Rechi le dolci lettere , e
tai pegni Non sian fidati ad un novello amante. Vidi ben spesso
impallidir le donno Per tal timore , e vìvere i lor giorni
Miseramente in sehìavitudin dura. Perfido è quei ohe tali doni
serba. Che qual fulmine etnèo sono in sua mano. Si può tener,
se al vero io non m’appongo, Lungi la frode con la frode ognora;
Contro gli armati impugnar 1 ’ armi, logge Nissuna vieta . A imprimer
sulla carta S’accostumi la man diverse cifre. Ah ! peran
quelli contro cui vi deggio Avvertir di tal cose. In foglio mondo
Digitized by Google 123 La risposta si
scriva , onde non sembri Da due mani vergato . Al suo diletto
Scriva la donna, .come un uòmo amante Scrive air amata » ed usi V uom V
opposto. Ma da lieve materia innalzar V alma Ora a me piace a più
sublimi cose, E le vele spiegar gonfie dal vento. Opra
è del volto i rabidi trasporti Saper frenar : candida pace all*
nonio Convien come alle belve ira crudele. Si fan per Tira
tumide le guancie; Vengpn nere le vene, e inocchio splende Più
truòemente del gorgòueo ‘fòco. (69) Vanne lungi da 'metromba importuna^
Disse’Pallade ^ allór che il volto suo (*^0) Mirò )iel fiume . Se voi iii
mezzo all’ ira Riguardate lo specchio ^ alcuna appena ^
liistinguére pbtm W figura. ' Nè dannosa a Voi supérbr^^ facòià
j TurgidJ il voltò ; có^ be^nigiii sguardi Deèsi a^es9ar 1 ’ amóre
‘J Odiahio ( e voi Già 1 fó^cre((efé che. ìie siete esperte) ‘
I fasti inambderatl^e spesso chiude Deir odio 1 sómi taciturna
faccia. / Guard^ ^uel che ii mira , e ùi olle mente Sorrmi
'a^ueì cjhe rid^ e se à te un cenno §ia . Gorgoni étart
t^e mostri \^enimente orribili per ìaHesta ^circonddia di serpi , e per
Vocchio spaven^ tegole che ateoanò in: mezzo alla fronte . Chi
fissava occhi in faccia*'alle medesime , rimaneva di sasso, (70)
Pallàde / sécorido^alcuni y gettò via la tromba, perdhè ^s’accorse chè ih
sonarla si faceva troppo gòHf^ la faccia. ‘ ' Con tai preludj il
favcitilletlo Amor» Pose i rozzi da parte, e diè di piglio A!
dardi acuti della sua faretra. Vadan lungi da noi le donne
meste; Ajace ami Tecmessa t noi sol puote Tener ne’lacci suoi
lemina allegra. (71) Non fa giammai che a voi porgessi preci, O
Andromaca o Teome^sa , onde a me foste O r una o Valtra amiche. Appéna
posso Creder che in letto maritar giaceste, Quando, a crederlo
astretto io son da^iiglL Fprse ad Ajace la dolente sposa ‘ Avrà
detto : mia luce, e gli altri accenti, Cari agli uomin|^ tanto f £ chi
mai Vieta, Applicar gravi esempli a tenni cose, E di guerrier
non paventare il npmef Cento soldati a questo^ il Duce esperto
(72]^ Diè a regger cop la vite ,|è a quello cento Cavalieri, e
lasciò'T altro in custodia ^ Delle l^andiere A; qual vedete impresa
Atti noi siamo ; e^nel suo posto'o^gntipo ^ Venga locato. Un ricco a voi
dia doni^ ' Vi sia propizi o, il Giudice , e ; il facondo ‘ Difenda
i dritti vostri .'|loi poeti , Donp possiam far solo di
carmi. 3a più degli altri amare il coro nostro; (71}
Andròniaca dopo ìa rnòrté ^&toré amato sud sposo , r dopo V incendio
di-Trofa-fpssssò for i rn i s uns nm ti alle nozze di Pirro ^ e però
vìsse con ^uosto/s^ssai malinconicà. Teemessa , moglie di Ajace, er^
una schiava y e però, secondo Ovidio y. doveva aver sempre Vanirne
occupato da una grave, tristezza* (711) Da/ Comandante solevansi
affidile^cento sol- dati al Centurione il quale aveva per sua insegna U
9 ramo di vite. Uua grata beltà cott ampie lodi Sappiamo
celebirare , e va fainoso Dì Nemesi per noi, di Cinzia il nome.
(78) E dove nasce, e dove muore il Sole Conobbero Licori., e
chieggon molti Chi sia Corinna nostra. Aggiungi a questo Che son T
insidie ignote a" sacri Vati, Che giova V arte nostra a^ lor
costumi. Kpa ambiziosa voglia, e non desio D’aver ci punge . Noi
sprezziamo il fòro E son graditi a noi V ombra ed il letto. Facili
amiamo ognor con certa fede, £ in vasto incendio, il nostro core
abbrucia. Con placid’arte docile T ingegno Facciamo , e ben s*
adattano co* nostri Studj i postumi. A* Vati aonj, o donne. Siate indulgènti,
che gl^inspira un Nume,. E lor son fauste le pierie uive. (74)
Ci agita un Dio.; abbiam col Cièl commercio;. Ci vien lo spirto
dall* eteree sedi. * Chiedere il pre^o è scelléra^in grande Ad
ottimo Poeta . Oh me infelice. Che scelle raggio tal piti non si
teme Dalle jauciulle • ALmen dissimulate, Nè vi fate veder
tosto rapaci. No , non cadrà nella prevista rete Un novèllo
amatore . Il Cav^aliero (y3) Nemesi fu amata a celebrata da
Tibullo, Cia* zìa da Properzio , tdcori da Gallo , a Ovidio ha^da^
to ne^ suoi versi alla propria amante il nome, di Corinna.
(74) Le Muse si chiamavano le Dive pierie , 0 per^ chi abitarono
nel monte Pierio in Tessaglia , o per-- che vinsero e trasformarono in
gazze le figlie di Pierio.Non reggerà T indomito cavallo Al par di quello
che già al freno è avvezzo* Nè lo stesso sentier batter tu dei Per
adescar la verde gìoventude, E le menti già stabili per gli
anni* QuelP inesperto, che la prima volta Sotto si pone all*
amorose insegne. Che preda nuova nel tuo letto giacque. Te
sol conobbe, e a te sia unito ognora; Si cìnga d’ alte siepi una tal
messe. Schiva d’aver rìvjaì;ta vincerai, S* ei r amor suo con
altra non divide; 1 regni e amor non vogliono compagni. Quel
che invecchiò nell’ amoroso agone. Con prudenza amerà, saprà
soffrire Ciò che invan soffrirla guerrier novello. Non frangerà le
porte, e non furente Fiamma v’ applicherà. Non dell’ amata Farà con
1’ unghie ingiuria al delicato Volto ; e non straccerà della
Fanciulla Le vesti, e non le proprie ; e per dolore Non svellerassi
i crini • Questi eccessi Convengon solo a’ Giovanetti acerbi Caldi
per poca età, per troppo amore. Tranquillo ei soffrirà la cruda
piaga; Qual face inumidita a foco lento Abbrucìerassì, o
quale in giogo alpestre Fresco ramo reciso : è quest* amore Più
certo , è quel più breve e più fecondo. Con sollecita man cogliete i
pomi Che fuggon. Tutto ormai s* insegni; schiuse Son le porte al
nemico ; e siate fide Mentre ingannate altrui. Facil Donzella Puote
mal conservare un lungo amore. Sla la ripulsa rara » e venga
sempre Da lieti scherzi accompagnata • Giaccia Alla porta nrosteso
, alto gridi: Porta crudele ; e molte cose umile Faccia 9 e
molt^ altre minaccioso. Il dolce Noi mal soffriam ; ci sana il succo
amaro; Pere spesso la nave » e fausto ha il vento. Ecco perchè non
amansi le mogli; Seco stanno i mariti a grado loro.
Chiudi la porta 9 e in aspro suon TuBciero Gli dica f entrar non
puoi ; escluso, in seno Di lui per te si desterà l’amore. Deh
riponete i rintuzzati brandi; Con gli acuti si pugni, ch^ io con
l’armi Mie già non temo d’ essere assalito. Mentre ne^ lacci un
amator novello Cade, gli fa sperar xhe del tuo letto Solo godrà ;
poscia il rivai conosca E i divisi piacer ; senza quest’ arte Amor
illanguidisce • Il generoso Destrier,se venga dal suo career
schiuso. Corre velocemente , se il preceda Altri nel corso, o se lo
segua . Estinto Ancor che sembri l’amoroso foco Con nuova ingiuria
si riaccende, ed io, Lo deggio confessar, soltanto offeso Nutro r
amor . Non troppo manifesta Sia la causa del duolo ; e ansioso creda
' L’ amante che maggior fia ancor l’offesa Di quello che gli è noto
; ed or l’inciti L’aspra custodia di fallace servo, n geloso rigore
or del marito; E men grato il piacer senza contrasto*
Digitized by Google I2S Èeiichè tu sii di Taide
più. }asciya,(75) Fingi timpri ; e ancor che per la porta Meglio il
possa introdar , fa eh’egli venga Dalla finestra, e nel tuo volto i
segni Mostra di Donna da timor sorpresa» Venga l’ancella
frettolosa, e dica: Ah siam perduti 111 trepido Garzone
Allora ascondi; col timor si debbe Mischiar piacer sicuro, onde
1’apprezzi» Come il marito accorto e il vigli servo Si possano
ingannare i’avea taciuto* Tema una Sposa il suo Consorte^ e
viva Certa che altri la guarda ; è ciò decente; Vuol ciò il padoi:,
la legge, e F equitade. Chi soffrirà che custodita sii Tu , che or
la verga del Prétor redense? (76) Odiose vuoi ingann^kT, miei sacri
carmi» T’ osservio puro occhi miglior di quei (77) Ch’ebbe il guardiano
d’io , sii risoluta, £ tesserai l’inganno • E puote invero
Chi t’ ha in custodia a te vietar che scriva Se non si vieta a te di gire
al bagno? E se potrà, de’tuoi segreti a parte, (75)
Terenzio ha dato il nome di Taide ad una donna lasciva, che forma la
parte principale della sua Commedia intitolata /^Eunuco. (76)
Parla qui il poeta delle donne schiave y che divenivano libere quando il
Pretore aveva toccato al» le medesime il capo con una vèrga detta
yindiqta , e che occupavano nelle case delle Matrone Romane unposto
corrispondente a quello delle nostre Cameriere. C77) (Giunone
diede, cento occhi ad A^go custode d'io, perchè potesse soddisfare
esattamente al suo incarico, ma il Dio Mercurio Pàìsdpì col suono
del* la lira , e gli recise la testa. Digitized by
Google 129 Recar V ancella i foglj
ricoperti Nel caldo seno da una larga fascia^ O nasconderli
avvinti infra le gambe, O sotto i piedi f Se a tè ciò il
custode Vieti , P ancella porgerà le spalle Di carta invece, e
porterà su queste li^amorose tue cifre impresse. Un foglio Con
fresco latte scrìtto inganna 1’ occhio^ Con la polve l’aspergi del
carbone, * £ legger lo potrai • Del paro inganna Lettera pura
in cui sia stato scritto Con la punta del lino inumidito, E
le note ‘segrete incise porta . (jB) Intento Acrisie a custodir la
Figlia, (*^ 9 ) In opra pose ogni più esatta cura: Eppur col
suo delitto il fece eli’ avo. E che farà il Custode, se
cotanti Sono in Roma Teatri, e se a suo grado (^8) Non
mancano a^dì nostri degli inchiostri sìrw^ patiei y che superano ne^loro
effetti la virtù degli antichi. Con un^ oncia di Ut or girlo y e cinque
d^ace» to stillato si fa un composto , che chiamasi aceto di
Satarno. Con questo si scrioe sulla carta bianca , e quando è asciutta
non si scorgono in alcun modo i caratteri. Si sparge quindi sopra la
carta una picco^ la porzione d* un liquore fatto con un* oncia d* or
pig¬ mento e due once di calce viva sciolta nell* acqua ; éd allora
compariscono i caratteri d*un coloraperfet’- tamente nero. Il
calore e la luce coloriscono altresì i caratteri scritti con alcune
soluzioni metalliche allungate con Vacqua , cioè con quella dell* oro ,
dell* argento , e principalmenie del bismuto. La tintura di galla è
pure ì^n inchiostro simpatico , purché si faccia passar sopra di essa una
qualunque marziale dissoluzione, ( 79 } Annota (a del lÀb.
presente. Digitized by Google i3o
Può rimirar le corse de* destrieri f Quando nel tempio d’Isi
assister puote (8c) Al concerto de* sistri, e p^pte in altri Lochi
ella gire » ove l’ingresso poi È vietato a’ compagni ? Se da’
templi Della Dea Buona può fuggir gli sguardi (8i) D’ogni uom fuor
di quel eh’ ella desia f lyientre il Custode fuor del bagno serba
Gli abbigliamenti della sua Padrona, Se può mrtivo nel; sicuro
bagno Celar 1* Aàotante ? Se ove 1’ uopo il chiegga Per finto morbo
giacerà 1’amica, , O se per vero , a lei cederà il letto? .
Quando la chiave adultera col suo Medesmo nome cosa far c’insegna^
Nè sol la porta dà il bramato ingresso? S’inganna pur con
molto vin la cura Di vigile Custode , ancor che colte Vengan l’uve
nell’aspro ispano giogo. (8a) Vi sono ancora i farmaci che al sonno
Aggravan le pupille quasi vinte Dalla notte letea • Nè mal
trattiene La non ignara ancella l’importuno Con le tarde delìzie,
end’ ella possa Star col suo vago quanto più le piace. Che far
tante parole, e cosi lievi .Gli uomini non potevano interpénire nel
Tenu» pio d'Iside , quando le donne celebravano le sue fo» ste col
serbarsi , almeno apparentemente, easte per molti giorni,
(81) Era agli uomini vietato V ingresso nel Tem» pio della Dea
Buona o sia di Cibele. (8fl) Denota il Poeta il vin poco generoso,
che i Romani facevano venire dalia Laleiania in gna provincia di
Spagna* Porger precetti , se con picciol dono Si corrompe il
Custode ? A me lo credi. Gli Uomini e i Dei guadagnansi co’doni, £
i doni placan pur lo stesso Giove. Che farà il saggio , se de’ doni
ancora Gode lo stolto ? Ricevuti i doni, Si farà muto anco il
marito istesso. Per tutto Panno guadagnar si debbo Una volta
il Custode , e quelle mani Che un di vi diede, vi darà sovente.
Feci querela , e l’ho ferma in pensiero Che temer si dovessero i
compagni; Nè diretta soltanto all’ uomo è questa. Se
credula sarai, carpirann’altre 1 tuoi piaceri, e avrai cacciato il
lepre Per esse. Quella, che t’appresta il letto, E che
officiósa a te concede il loco. Giacque più. volte , a me lo credi,
meco. Nè troppo bella sia l’ancella tua; Sovente meco
fe’della padrona Ella le veci. Ah ! dove ora mi lascio Io stolto
trasportar ? Perchè contrasto Col petto inerme contro il mio
nemico, Ed io da me medesmo mi tradiscof Come pigliar si
debba al cacciatore L’auge! non mostra y ed a’ nocivi cani Come
inseguirla non la cerva insegna. L’ utll vostro mi piace : io
fedelmente Vi spiegherò i precetti , ed alle donne Di Lenno io porgerò
contro il mio fato Lè Donne di Lenno in una notte, uccimo i
loro mariti , e però Ovidio sotto il nome di tende quelle che con gli
uomini sono troppo severe» Digitized by Google
iSà Da me stesso il coltello. Ahi fate in modo ( Ardua non è
V impresa ) che crediamo D’ esser amati , mentre ogutìno crede
Farcii ciò che desia. La donna miri Con infocato sguardo il fido
amante, Tragga dal sen sospir profondo, e chiegga Perchè sì tardi
venne. Aggiunga il pianto, E finga gelosia della rivale, £
gli percota con le mani il volto. Tosto vivrà sicuro, e nel suo
petto Facile nutrirà per te pietade, E dirà fra se stesso :
ah si consuma Questa per me d*amore i e specialmente Se lo specchio
consulta, e colto sia, ^ D’innamorar ei penserà le Dee.
Ma a te chiunque sii, grave disturbo Non arrechin le ingiurie, e
sbigottita Non ti mostrar, della rivale il nome Allor che ascolti,
e facile credenza Non presta aMetti altrui. Ah quanto nuoccia Il
creder facilmente, a te lo dica Quello che adesso narrerò di Proori. ( 84
) Scorre vicino del fiorito Imetto ^ A’ be’ purpurei colli un
sacro fonte. Di cui le sponde ognor fan grate e molli Verdi
cespnglj . Ivi non alta selva (84) Procri figlia d* Eretteo Re
Atene per sos- petto di gelosia si portò segretamente nelle selve e
né* boschi ad osservar Cefalo figlio di Mercurio , sua Sposo , ed ottimo
cacciatore . Mentre egli prendeva ri- .poso in un ombroso colletto , essa
celandosi dietro alle siepi , mosse disgraziatamente le foghe degli
alberi» Credè Cefalo che s* ascondesse fra quelle una fiera y e
però vi scagliò una saetta che gli uccise la lua dì* letta
consorte. Un l^co forma; gli arboscelli l'erba Ricoprono, e un soave
odore esalano II rosmarin, l’alloro, il negro mirto. Non il tenne
citiso, il colto pino, E il fragil tamarisco ivi già manca^
E non folto di foglie il busso. Scosse Da dolci aeffiretti « e da
salubre Aura treman le foglie mnltiformi, £ le cime dell^
erbe. Ama la quiete Cefalo. Abbandonati i servi e i cani. Ivi
stanco il Garaon spesso s’adagia; Solea cantar : mobil auretta ,
vieni Onde t’accolga nel mio seno, e allevj Il cocente càlor. Le
intese voci Da un malaccorto far recate intere Alle timide orecchie
della moglie. Tosto che Procri il nome adì dell’aura, Qnal
fosse uua rivale, a terra cadde; Ammutolissi pel dolor ; nel volto
Impallidid^ come le tarde foglie. Se colte sieno dalle viti
l’uve. Sogliono impallidir dal verno offese, O i maturi
cotogni, i di cui rami Piegansi, o le corniole ancor non atte A*
cibi nostri. Tosto che; rinvenne. Straccia dal petto suo le tenui
vesti. Con V unghie impiaga le innocenti guance. Jndugie non
conosce, e qual Baccante Mossa dal J'irso , furibonda vola Per le
pubbliche vie, sparsa i capelli. Ma già vicina, in una valle
lascia I suoi seguaci ; intrepida e furtiva Nel bosco con piè
tacito s’innoltra. QuaPera il tuo consiglio, allor che stolta.
Digitized by Google i34 O Procri,
t’ascondeyi ; e quale ardore NelPattonito séno allor ti corset Già
tu pensavi di sorprender l’aura Qualunque fosse, e di mirar
co’proprj Occhj P infedeltà del tuo Consorte. Quivi d’esser
venuta ora Rincresce; Or la rivale di mirar ti piace,
Ed or ti penti ^ opposti affetti in seno Destan tumulto. A creder
la costringe ( Che quel che tenie ognor crede l’amante )
L’accusatore, il loco , il nome. Quando SulP erbe vide impresse Torme
umane, Balzolle il cor nel pauroso petto. Già T ombre brevi
aVea il meriggio strette, E in spazio egual giaceva l’Occaso e l’Orto,
Allor che di Mercurio il figlio Cefalo Dalle selve ritorna, e T innainmate
Guance delTacque di quel fonte asperge. O Procri, tu t’ascondi ansiosa ;
ei giace Sull’ erbe consuete, e vieni disse, ZefHro fucile, o
molle curetta vieni. Quando conobbe il dolce error del nome, AlT
infelice il cor tornò nel seno, E il primiero color sul volto
suo. S’alza, movendo il corpo e move ancora Le frondi
circostanti ; e fra le braccia Va per gittarsi del marito • Mosso
Credendo quel rumor da qualche belva, Imprudente la man slancia
sull’arco. Ed ave i dardi già nella sua destra. Infelice che
fai? non è una fiera, rw Deponi ì dardi.... Oimè la tua consorte
Dalle saette tue giace trafitta. Oh me infelice i eéclamà ; in
petto amico Vibri il tuo dardOi o sposo. Ah che fa sempre Da
te questo trafitto! Io pria del tempo La morte trovo « noa offesa
almeno Da un rivale .^h farà ciò la terra, Ov* io riposi, a
nae cara e leggiera. Fra quest’aure ^ che odiai sol per un
nome. Già spazierà il mipspirto.. oh Dio!•• vacillo... Mi chiuda i
lumi quella destra amata. Le membra moribonde egli sostiene
Nel mèsto seno, e la crudel ferita Con le lagrime asperge^ Ella già
spira, E la bocca del misero marito Lo spirto accoglie che
dal petto incauto Deir infelice, Porcri alfine eeala. Ma sul
sentier si torni. lo debbo adesso Agir palesemente , onde il
naviglio Indebolito tocchi i porti suoi. Ch* io ti scorga a
conviti aspetti forse, E ch^ io ti guidi in questo pure attendi
? Non t’affrettar; vien tardi, e già sia posta La lacerna i e
decente i passi volgi. Grato è a Vener Findugio, e molto
giova. Benché bratta tu sii, sembrerai bella, Che coprirà la
notte i tuoi difetti. .Prendi co’ diti il cibo ; havvi pur
Parte Nel modo di cibarsi ; con l’immonda Mano cerca n on ungerti
la faccia; Nò mangiar prima in casa, ma t’astieni Dal farlo
allor che avrai mangiato meno Di quel che il ventre tuo capè, e tu
brami. Paride, se veduto avesse Elena Cibarsi avidamente, avria per
lei Nutrito sdegno , e detto fra se stesso: Ah fui ben stolto
nel rapir costei! Digitized by Google i36
Meno disdice a donna il ber , che Bacco £ di Venere il figlio uniti
vanno. Sì beva pur fin che il permetta il capo, E Talma e ì
piè siaxi atti a* loro nfficj , Nè raddoppiati sembrinti gli
oggetti. Donna che giaccia per soverchio vino, £ turpe, e di
soffrir merta ogni assalto. Sparecchiata la mensa, è gran periglio
Cadervi per il sonno; in mezzo a quésto Molte si soglìon far cose
impudiche. Io di stender più innanzi i^niiei precetti Sento
rossor. La figlia dionea Mi disse : utile è a noi quelPòpra ìstessa
Che in se desta vergogna. A voi si sveli. Donne, ogni fatto. I varj
atteggiamenti Noti vi sien , che a tutte non conviene La medesma
figura. Tu che sei Pel volto insigne, giacerai supina» Quella
che ha bello il tergo, il tergo mostri. Recava Melanion sulle sue
spalle Le gambe d’Atalanta ; se sian belle. Si dee imitare
allora un tale esempio. Porti il cavai pìccola donna ; avéa Statura
immensa la tebana sposa; (85) Suirettoreo cavai però non giacque.
Quella che può mostrare un lungo fianco^ Prema con le ginocchia il letto,
e alquante Ritorca la cervice. Chi le membra Ha giovanili, e senza
macchie il seno^ Mentre Puomo sta in piedi , ella corcata Giaccia
obliqua sul letto. Nè già turpe Credete scioglier qual Baccante il
crine. (OS) XeSpoifk tsUoa ^ 4fl4rQmcé mQglk E
ondeggiando i capei, piegate il collo. Tu pure, a cui la pronuba
Lucana : Macchiò il ventre di
rughe , imita il Parte Quando combatte sul cavai fugace, ,
Ben mille son di Venere le foggie,. Ma la piò facil, di minor
fatica È quella, in cui semisupina giace Sul destro fianco, I
Tripodi febei,, O il cornigero Ammon cosa piò vera ( 87 ) Non
conteran di quel che or la mia Musa- Se Parte , che ci costa un lungo
studio, Merita fè, credete^, ancor che i carmi Nostri eccedano
forse ogni credens^à» Venere abbrugi le ' midolle e V ossa Delle
donne, e sia caro ad ambedue Lo scambievol piacer. Un mormorio Dolce,
e parole lunsin^hiere e grate Non manchino, nè tacita si stia In mezzo
ascari scherzi unqua la donna., Tu , cui d’amor negò Natura il
gaudio, Finger lo devi con mendace suono; Lucina è un nome
di Giunone , la quale pre^ siede a^ matrìmon) ed apparti, I Greci
dopo d^ a^er ointo i Persiani nella battaglia di Platea, levarono una
decima suUe spo^ glie per fare un Tripode d^ oro eonsagrato ad
Apollo, Ateneo lo chiama il Tripode della verità , perchè si
ritrovavano verissimi gli oracoli di questo Dio, Ammone è un
soprannome di Giove, Quinto Curzio fa menzione del magnifico Tempio che gli fu
edi¬ ficato nella Libia , La sua statua avea la figura d*a- liete ,
e però si chiama cornigero Ammone. Dava essa de* certi oracoli a chi la
consultava , ed era a guisa d* un automa, che crollava la testa per
additare a*Sa^ cerdoti la strada, che dovean fare quando la porta^
vano in processione. Ben infelice e miseranda donna È quella, che a
sa stessa ìnntil tragga^ Inutile pèr Tuomo i giorni suoi.
Mentre e#ò fingerai, che non ti scofira Cerca, é "col moto ,
fin con gli occhi stessi Procura d’ingannar. Faccian palese Un
frequente respiro e dolci accenti Quello , che giova. Termini
novelli Sa la donna inventare in quegristanti» Quella, che chiede
dopo il gaudio i doni, Non sia molesta almen con le preghiere. Nè
il pieno giorno introdurrai nel talamo, Chè giova a voi tener del corpo
vostro Molte cose celate. Ha fine il gioco; È tempo ornai di
scendere da’Oigni, Che sul collo guidaro il nostro cocchio;
E come fero i giovanetti un giorno. Così la turba delle donne
scrìva Sulle spoglie ; Nason ci fu maestro. Gianni Carchia.
Keywords: ars amandi, erotica, il bello, la comunicazione dei primitivi. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carchia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cardano: l’implicatura
conversazionale del valore civico di Melanippo -- Caritone -- the tasteful
Milanese maschi – prospero -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia).
Filosofo italiano. Grice: “I’m sure Cardano does not mean chance by aleae! It’s
a Roman notion, not an Arabic one!” Grice: “Cardano is a fascinating
philosopher, but then so is I [sic]!” Grice: “My faavourite philosophical topic
by Cardano is what he calls, well, his Italian translators call – recall that
Italian philosophy is written in the ‘learned’! – ‘gioco d’azzardo’, ludo alaea
– which is what conversation is – what is conversation is not a game of
azzardo? But Cardano also refutes all that Malcolm says about ‘dreaming,’ never
mind Freud – Italians are obsessed with a male sleeping: Rinaldo, Tasso,
Botticelli (“sleeping Mars”), not to mention the search for the Etruscan
equivalent to ‘oneiron,’ the god – one of my most precious souvenirs is a
little medal of Cardano: not so much for his very Roman nose (charming as it
is) but for the backside, which represents Oneiron, indeed, aong the ladies!” Poliedrica
figura del Rinascimento. Riconosciuto come il fondatore della probabilità,
coefficiente binomiale e teorema binomial. A lui si deve anche la parziale
invenzione dell’ implicatura e della serratura, della sospensione cardanicache
permette il moto libero, ad esempio, delle bussole nautiche ed è alla base del
funzionamento del giroscopioe della riscoperta del giunto cardanico. Animos
scio esse immortales, modum nescio. So che l'anima è immortale, ma non ho capito
come funzioni la cosa. Figlio del nobile Fazio, un giurista esperto nella
matematica tanto da essere consultato da da Vinci su alcuni problemi di
geometria. Fazio conobbe a Milano la vedova, madre di tre figli, Chiara
Micheri (o de Micheriis) di cui s'innamora iniziando con questa, che vive con
la famiglia del defunto marito, una relazione clandestina che porta al
concepimento di un quarto figlio. Per non essere coinvolto nello scandalo prega
un suo amico di Pavia, il patrizio Isidoro Resta, affinché assumesse Chiara
come governante nella sua casa. Prima che lei partorisse, i suoi tre figli
morirono quasi contemporaneamente di peste e lei tenta allora di abortire,
senza riuscirci, del nascituro che ebbe il nome di Gerolamo e che lasciò scritto
nella sua autobiografia. Dopo che mia madre tenta senza risultato dei preparati
per abortire, vengo alla luce a Pavia. Come morto, infatti, sono nato, anzi
sono stato strappato al suo grembo, con i capelli neri e ricciuti. Il bambino contrasse
la peste dalla sua balia, che ne morì, e fu allevato da altre nutrici. E
trasferito a Milano dal padre che anda ad abitare con lui solo quando ha solo sette
anni, età in cui prese ad accompagnare il padre nei suoi viaggi d'affari.
Essendo delicato di salute, si ammala gravemente. Solo dopo una lunga
convalescenza poté riprendere a viaggiare con il padre dedicandosi nel
frattempo agli studi di filosofia, nei quali ha modo di eccedere per le sue
doti quando puo iscriversi a Pavia e Mantova per studiare filosofia, contrariamente
ai desideri del padre che avrebbe preferito avviarlo agli studi giuridici.
Lasciata Milano in preda alla peste e sconvolta dalla guerra francese, si
trasfere a Padova e si laurea a Venezia. E oggetto dell'astio che molti tutori
hanno nei confronti di quello tutee geniale ma dal carattere scontroso e talora
offensive. Sono poco rispettoso e non ho peli sulla lingua, soprattutto mi
lascio trascinare dall'ira, al punto che poi mi dispiace e me ne vergogno. Riconosco
che tra i miei vizi ce n'è uno molto grande e tutto particolare: quello di non
riuscire a trattenermianzi ne gododal dire a chi mi ascolta ciò che gli risulta
sgradevole udire. Persevero in questo difetto coscientemente e volontariamente,
pur sapendo quanti nemici da solo mi abbia procurator. Nel frattempo a Milano e
morto il padre che ha regolarizzato la sua convivenza sposando la madre del
filosofo. Non potendo tornare a Milano per l'epidemia e la guerra, prese
dimora a Piove di Sacco. Esercita la sua professione a Gallarate. Ottenne
la cattedra per l'insegnamento della filosofia presso le scuole Piattine di
Milano, dove aveva insegnato anche il padre. La sua fama di esperto dottore si
accrebbe per aver risanato alcuni membri della famiglia Borromeo. Dovette
rifiutare alcuni incarichi di prestigio perché non retribuiti fino a quando e ammesso
nel Collegio dei medici di Milano. Accetta di ricoprire la cattedra di
filosofia a Pavia, rifiutando le offerte che gli venivano reiterate dal papa Paolo
III. Cura, con esiti positivi, l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, malato
d'asma. Intuì probabilmente la natura allergica della malattia proibendo a
Hamilton di usare cuscini e materassi di piume. Per aumentare la sua fama volle
fare l'oroscopo all'arcivescovo e al re, e lesse nelle stelle un futuro radioso
per entrambi. Hamilton fu impiccato quasi subito dai riformatori. Il re muore
di tubercolosi. Rifiuta le prestigiose e ben retribuite offerte del re di
Francia e della regina di Scozia. Colpito da un doloroso avvenimento
riguardante il figlio Giovanni Battista, medico anche lui, che, nonostante gli
avvertimenti del padre, aveva voluto sposare una donna povera e di cattivi
costume. Per necessità economiche il figlio coabita dai parenti della moglie
avviando una convivenza caratterizzata dalla nascita successiva di tre figli e
da continui litigi dovuti anche alle infedeltà della moglie che egli decise di
uccidere, con la complicità di una serva, facendole mangiare una focaccia
avvelenata con l'arsenico. Arrestato subito per uxoricidio, il figlio confessa
il delitto e dopo un veloce processo, nonostante la difesa con tutti i mezzi
messa in atto dal padre, fu condannato alla decapitazione. Gerolamo, convinto
che la durezza della condanna fosse dovuta all'invidia dei suoi colleghi, per
sfuggire alle malevole voci che lo accusavano di intrattenere rapporti illeciti
con i suoi tutee, si trasfere a Bologna. Venne ulteriormente amareggiato dalla
condotta scapestrata del figlio Aldo che lo diffama per tutta la città e che
arriva a derubarlo così che il padre dovette denunciarlo alle autorità che
espulsero il figlio dal territorio bolognese. A questa disgrazia si aggiunse
inaspettata la notizia che si stava preparando contro di lui un'accusa di
eresia tanto che il cardinale Giovanni Morone gli consigliò di lasciare il
pubblico insegnamento della filosofia. Questa misura prudenziale non valse però
a salvare Gerolamo che fu arrestato per eresia assieme al suo tutee Rodolfo
Silvestri che non volle abbandonare il tutore. Non si conoscono le accuse
che gli erano rivolte dall'Inquisizione. Tuttavia si era distinto per una certa
imprudenza nei confronti della Chiesa, governata dal severo Papa Pio V, per
aver compilato un oroscopo di Gesù, la cui vita così sarebbe stata decisa dalle
stelle, scritto l'encomio di Nerone, persecutore dei cristiani, e soprattutto
per i suoi confidenziali rapporti con i circoli protestanti frequentati dal suo
tuteei, dal genero e dall'editore e tipografo dei suoi libri. Nonostante le
testimonianze a suo favore di quasi tutti i suoi tutee, Cardano fu messo in
carcere e poi agli arresti domiciliari sino a quando la Sacra Congregazione
tramite l'inquisitore di Bologna gli impose la professione dell'abiura prima in
forma grave (de vehementi) coram populo e successivamente in forma meno
infamante (coram congregationem). Si sottopose docilmente alla abiura
promettendo in una lettera a papa Pio V di non insegnare più pubblicamente
filosofia (la cattedra all'università gli era stata intanto tolta) e di non
pubblicare altre opere. Lasciata Bologna Cardano si trasfere, sotto la
diretta protezione di Pio V, a Roma dove fu ben accolto ma gli fu negata una
pensione che gli fu invece assegnata da Gregorio XIII che era stato suo tutee a
Bologna..E ammesso al Collegio romano. Si dedica alla composizione della sua
autobiografia De vita propria. Il punto focale della sua filosofia è il
concetto rinascimentale di “uomo universale" che dà alla sua ricerca della
verità un contenuto enciclopedico. Scrive più di duecento opere che solo in
parte furono pubblicate nel XVI secolo e che, altrettanto parzialmente, confluirono
nei dieci volumi della monumentale “Opera omnia” dove si trattano temi di
metafisica, omosessualita, mascolinita, il machio, il maschile, la medicina,
scienze naturali, matematica, astronomia, scienze occulte, tecnologia. Egli,
che si occupa anche della interpretazione dei sogni, della chiromanzia, della
numerologia, del paranormale rende difficile distinguere nella sua filosofia il
contenuti moderno del sapere dalle tradizioni metafisiche e magiche del
passato. Vuole arrivare a una sistemazione unitaria della molteplicità dei
saperi così che la nostra incerta conoscenza eviterebbe la confusione se
potesse discendere dall'uno ai molti. Ma questo obiettivo, di origine neo-platonica,
sfugge però all'uomo il quale allora è preferibile che occupi il suo intelletto
in quei campi dove riesce, quasi come un dio creatore o ‘genitore’ – o
ingegnero, a fare le cose. Questo avviene nell’aritmetica che si incarna
nell'esperienza in un rapporto astratto-concreto la cui definizione ancora non
è in grado di elaborare Dopo aver analizzato nel “De subtilitate” i
molteplici principi delle cose naturali e artificiali, si rivolge allo studio di
tutto l'universo e delle sue parti (De rerum varietate), che concepisce come
legate da sim-patia (attrazione) e anti-patia (repulsione) fra gli astri e
l'uomo) e connessioni che consentono al filosofo, che conosce il linguaggio
della natura e gli effetti degli influssi astrali sulla vita sessuale umana, di
compiere quei "miracoli naturali" che sono le magie, di elaborare
previsioni astrologiche e di stendere gli oroscopi delle religioni come quello
dedicato a Cristo. Il contributo in matematica Noto soprattutto per
i suoi contributi all'aritmetica, pubblica le soluzioni dell'equazione
cubica e dell'equazione quartica nella sua “Ars magna”. Parte della soluzione
dell'equazione cubica gli era stata comunicata da Tartaglia. Successivamente
questi sostenne che Cardano aveva giurato di non renderla pubblica e di rispettarla
come di sua origine. Si avvia così una disputa che dura un decennio. Cardano sostenne
di averne pubblicato il testo solo quando era venuto a sapere che il Tartaglia
avrebbe appreso la soluzione dalla voce dal bolognese Scipione del Ferro. La
soluzione di Tartaglia, pur essendo successiva a quella di Scipione Dal Ferro
(comunque mai pubblicata), risulta essere indipendente da questa. La soluzione della
equazione cubica è detta comunque di Cardano-Tartaglia. L'equazione quartica
venne invece risolta da Lodovico Ferrari, un tutee di Cardano. Nella prefazione
dell'“Ars Magna” vengono accreditati sia Tartaglia che Ferrari. Nei suoi sviluppi
delle soluzioni occasionalmente si serve del concetto di numero complesso, ma
senza riconoscerne l'importanza come invece saprà fare Bombelli. Nell'ambito
della scienza medica, l'esempio di Vesalio, che negli stessi anni aveva
contestato l'anatomia galenica, spinse Cardano a definire Galeno un cattivo
interprete di Ippocrate. Le sue critiche a Galeno erano comunque presentate
come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più
antica e, si presumeva, più autentica. Fu il primo a descrivere la febbre
tifoide. Venne invitato in Scozia a curare l'Arcivescovo di Sant'Andrea che
soffe di asma probabilmente d'origine allergica. Seguendo i precetti di
Maimonide riusce a guarirlo utilizzando delle cure modernissime per l'epoca:
eliminare piume e polvere e mantenere una dieta controllata. Al ritorno dalla
Scozia si ferma a Londra, dove incontrò il re d'Inghilterra per il quale
redasse un oroscopo secondo il quale prospetta Edoardo VI una lunga vita
seppure turbata da alcune malattie. La sua fama di si diffuse in Inghilterra
tanto da interessare Shakespeare che nella "Tempesta" rappresenta un
personaggio molto simile a Cardano ed inoltre una prova della sua
perdurante popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione del suo ‘De
Consolatione’ è proprio il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo
celeberrimo monologo ‘Essere o non essere’. De subtilitate e il libro che
Amleto tiene in mano all'inizio del secondo atto, quando Polonio gli domanda
cosa stia leggendo e lui risponde: "parole, parole, parole". Progetta
inoltre svariati meccanismi tra i quali: la serratura a combinazione; la
sospensione cardanica, consistente in tre anelli concentrici collegati da
snodi, in grado di ospitare una bussola o un giroscopio, garantendo la libertà
di movimento dello strumento; il giunto cardanico, dispositivo che consente di
trasmettere un moto rotatorio da un asse a un altro di diverso orientamento e
viene tuttora usato in milioni di veicoli. Ma pare fosse già conosciuto, anche
se porta il suo nome perché appare nella sua opera De Rerum Varietate in una illustrazione navale. L'invenzione di
questo tipo di giunto in realtà risale almeno al III secolo a.C., ad opera di
scienziati greci come Filone di Bisanzio, che nella sua opera Belopoiika lo
descrive chiaramente. Egli dette svariati contributi anche all'idrodinamica. Sostene
l'impossibilità del moto perpetuo, con l'eccezione dei corpi celesti. Pubblica
anche due opere enciclopediche di scienze naturali che contengono un'ampia
varietà di invenzioni, fatti ed enunciati afferenti all'occultismo e alla
superstizione: il De Subtilitate e successivamente il De Varietate. Introdusse
la griglia cardanica, un procedimento crittografico.A Cardano è attribuito
anche il gioco rompicapo descritto nel De subtilitate, ma probabilmente
risalente a un periodo più antico, chiamato Gli anelli di Cardano. Altre opere:
Della sua vita avventurosa e molto travagliata, rimane testimonianza nella sua
autobiografia. Ebbe spesso problemi di denaro e per cavarsela si dedicò ai giochi
d'azzardo per i quali ha una vera passione di cui si pente. Così ho dilapidato
contemporaneamente la mia reputazione, il mio tempo e il mio denaro. (zeugma –
segnato da ‘dilapidare’ – denaro, dilapidare il suo tempo, dilapidare la sua
reputazione. Pubblica un saggio sulle probabilità nel gioco, “De ludo aleae”
che contiene la prima trattazione sistematica della probabilità, insieme a una
sezione dedicata a metodi per barare efficacemente. Oltre alla produzione
dialettica, di carattere più strettamente filosofico sono invece il De
subtilitate e il De rerum varietate, ampie raccolte delle sue osservazioni
empiriche e delle sue speculazioni occultistiche. Della sua produzione
filosofica sterminata possono considerarsi come le opere più importanti:
De malo recentiorum medicorum usu libellus, Venezia (medicina). Practica
arithmetice et mensurandi singularis, Milano. Artis magnae sive de regulis
algebraicis liber unus (conosciuta anche come Ars magna), Nuremberg. De
immortalitate. Opus novum de proportionibus. Contradicentium medicorum. De
subtilitate rerum, Norimberga, editore Johann Petreius (fenomeni naturali). De
libris propriis, De restitutione temporum et motuum coelestium; De duodecim
geniturarum -- commento astrologico a dodici nascite illustri. De rerum
varietate, Basilea, editore Heinrich Petri. Fenomeni naturali. De signo. De
causis, signis, ac locis Morborum. Bologna. Opus novum de proportionibus
numerorum, motuum, ponderum, sonorum, aliarumque rerum mensurandarum. Item de
aliza regula, Basilea (matematica). De vita propria. Proxeneta (politica).
Metoscopia libris tredecim, et octingentis faciei humanae eiconibus
complexa, Liber de ludo aleae, postumo (probabilità). Le sue opere vennero
raccolte e pubblicate a Lione in 10
volumi. L’Encomio di Nerone. A lui è dedicato il cratere lunare Cardano e
un asteroide. È intitolato a lui l'Istituto "G. Cardano" della sua città natale,
nel cui cortile interno è posta una scultura che rappresenta il giunto
cardanico, nonché infine l'omonimo collegio universitario pavese. La
blockchain "Cardano" (ADA) prende il suo nome, in quanto basata su un
approccio scientifico e matematico. Della mia vita. Somniorum synesiorum omnis
generis insomnia explicantes (Basilea). tti del Convegno, Castello Visconti di
San Vito, Somma Lombardo, Varese ed. Cardano); Università Bocconi. Equazione di
terzo grado" Il Rinascimento. Omeopatia
e allergie, Tecniche Nuove); Cardano, Edizioni Cardano, Il Prospero della
"Tempesta” somiglia tanto a Cardano
in Corriere. La tecnologia scientifica, in La rivoluzione dimenticata: il
pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli Editore); Il libro
della mia vita, Cerebro editore); Della mia vita, Alfonso Ingegno, Serra e Riva
editori, Milano). La formula segreta. Il duello matematico che infiammò
l'Italia del Rinascimento. ileae, per Ludouicum Lucium); “De propria vita”
(Milano, Sonzogno). Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci
Antonii Ravaud. Aforismi (Milano, Xenia). Palingenesi. Dizionario biografico
degli italiani. Il filosofo quantistico. L’avventure di Cardano, filosofo e
giocatore d'azzardo (Bollati Boringhieri, Torino Edizione); “La mia vita” (Milano,
Luni). Che sfortuna essere un genio. Indice delle Opera omnia Volume
1 Frontespizio Lettera dedicatoria Praefatio Vita
Cardani per Gabrielem Naudaeum Testimonia Elenchus
generalis Index librorum tomi primi Previlege du roy 1De
vita propria. De libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum
Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum
medicum. Neronis encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De
orthographia De ludo aleae De uno Hyperchen. Dialectica Contradictiones
logicae Norma vitae consarcinata, sacra vocata Proxeneta De
praeceptis ad filios De optimo vitae genere De sapientia De
summo bono De consolatione Dialogus Hieronymi Cardani et Facii
Cardani ipsius patris Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione Dialogus
Tetim seu de humanis consiliis Dialogus Guglielmus seu de morte De minimis
et propinquis Hymnus seu canticum ad Deum De utilitate ex adversis
capienda De natura Theonoston seu de tranquilitate Theonoston
seu de vita producenda Theonoston seu de animi
immortalitate Theonoston seu de contemplatione Theonoston seu
hyperboraeorum historia De immortalitate animorum De secretis De
gemmis et coloribus De aqua De vitali aqua seu de aethere De
aceti natura Problemata Se la qualità può trapassare di subbietto in
subbietto Discorso del vacuo De fulgure De rerum varietate De
subtilitate In calumniatorem librorum de subtilitate (Archivio) Indice
rerum De numerorum proprietatibus Practica arithmeticae Libellus qui
dicitur, Computus minor Ars magna Ars magna arithmeticae De
aliza regula Sermo de plus et minus Geometriae
encomium Exaereton mathematicorum De proportionibus Operatione
della linea Della natura de principii et regole musicali De
restitutione temporum et motuum coelestium De providentia ex anni
constitutione Aphorismorum astronomicorum segmenta septem In Cl.
Ptolemaei de astrorum iudiciis De septem erraticarum stellarum
qualitatibus atque viribus (Archivio) 5.6De iudiciis geniturarum De
exemplis centum geniturarum Geniturarum exempla De
interrogationibus De revolutionibus De supplemento almanach Somniorum
synesiorum Astrologiae encomium Medicinae encomium De sanitate
tuenda Contradicentium medicorum De usu ciborum De causis,
signis ac locis morborum De urinis Ars curandi parva De methodo
medendi (Archivio) 7.6De cina radice De sarza
parilia Disputationes per epistolas liber unus (Archivio) De venenis In
librum Hippocratis de alimento commentaria In librum Hippocratis de aere,
aquis et locis commentaria (Archivio) In septem aphorismorum Hippocratis
commentaria In Hippocratis coi prognostica commentaria In librum
Hippocratis de septimestri partu commentaria 2Examen XXII. aegrorum
Hippocratis Consilia De dentibus De rationali curandi
ratione De facultatibus medicamentorum De morbo regio De morbis
articularibus (Archivio) Floridorum libri sive commentarii in
Principem Hasen (Avicenna) Vita Ludovici Ferrarii Vita Andreae
Alciati De arcanis aeternitatis (Archivio) 10.2Politices seu
Moralium liber unus Elementa Graeca inventione De naturalibus
viribus De musica Artis arithmeticae tractatus de
integris (Archivio) 10.8Expositio Anatomiae Mundini In libros Hippocratis
de victu in acutis commentariaIn libros epidemiorum Hippocratis
commentaria De epilepsia De apoplexia De humanis civilibus
successionibus (Paralipomena) De humana perfectione
(Paralipomena) Peri thaumason seu de admirandis (Paralipomena) De
dubiis naturalibus (Paralipomena) De rebus factis raris et artificiis humana compositione naturalium De mirabilibus
morbis et symptomatibus (Paralipomena) De astrorum et temporum ratione et
divisionibus (Paralipomena) De mathematicis quaesitis
(Paralipomena) Historiae lapidum, metallicorum et metallorum
(Paralipomena) Historiae animalium Historiae plantarum De anima De dubiis
ex historiis (Paralipomena) De clarorum virorum vita et libris
(Paralipomena) De hominum antiquorum illustrium iudicio. De usu hominum et
dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente (Paralipomena. De vita propria. De libris propriis. De
Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut
Cerberi canis. Actio in Thessalicum medicum. Neronis encomium. Podagrae
encomium. Mnemosynon. De orthographia. De ludo aleae. De uno. Hyperchen.
Dialectica. Contradictiones logicae. Norma vitae consarcinata, sacra vocata.
Proxeneta. De praeceptis ad filios. De optimo vitae genere. De sapientia. De
summo bono. De consolatione. Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani ipsius
patris. Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi ratione. Dialogus Tetim seu
de humanis consiliis. Dialogus Guglielmus seu de morte. De minimis et
propinquis. Hymnus seu canticum ad Deum. De utilitate ex adversis capienda. De
natura. Theonoston seu de tranquilitate. Theonoston seu de vita producenda.
Theonoston seu de animi immortalitate. Theonoston seu de contemplatione.
Theonoston seu hyperboraeorum historia. De immortalitate animorum. De secretis.
De gemmis et coloribus. De aqua. De vitali aqua seu de aethere. De aceti
natura. Problemata. Se la qualità può trapassare di subbietto in subbietto. Del
vacuo. De fulgure. De rerum varietate. De subtilitate. In calumniatorem
librorum de subtilitate. De numerorum proprietatibus. Practica arithmeticae.
Libellus qui dicitur, Computus minor. Ars magna. Ars magna arithmeticae. De
aliza regula. Sermo de plus et minus. Geometriae encomium. Exaereton
mathematicorum. De proportionibus. Operatione della linea. Della natura de
principii et regole musicali. De restitutione temporum et motuum coelestium. De
providentia ex anni constitutione. Aphorismorum astronomicorum segmenta septem.
In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis. De septem erraticarum stellarum
qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum. De exemplis centum
geniturarum. Geniturarum exempla. De interrogationibus. De revolutionibus. De
supplemento almanach. Somniorum synesiorum. Astrologiae encomium. Medicinae
encomium. De sanitate tuenda. Contradicentium medicorum. De usu ciborum. De
causis, signis ac locis morborum. De urinis. Ars curandi parva. De methodo
medendi. De cina radice. De sarza parilia. Disputationes per epistolas. De
venenis. In librum Hippocratis de alimento commentaria. In librum Hippocratis
de aere, aquis et locis commentaria. In septem aphorismorum Hippocratis
commentaria. In Hippocratis coi prognostica commentaria. In librum Hippocratis
de septimestri partu commentaria. Examen XXII. aegrorum Hippocratis. Consilia.
De dentibus. De rationali curandi ratione. De facultatibus medicamentorum. De
morbo regio. De morbis articularibus. Floridorum libri sive commentarii in Principem
Hasen (Avicenna). Vita Ludovici Ferrarii. Vita Andreae Alciati. De arcanis
aeternitatis. Politices seu Moralium. Elementa Graeca. De inventione. De
naturalibus viribus. De musica. Artis arithmeticae tractatus de integris.
Expositio Anatomiae Mundini. In libros Hippocratis de victu in acutis
commentaria. In libros epidemiorum Hippocratis commentaria. De epilepsia. De
apoplexia. Paralipomena. De humanis civilibus successionibus. De humana
perfectione. Peri thaumason seu de admirandis. De dubiis naturalibus. De rebus
factis raris et artificiis. De humana compositione naturalium. De mirabilibus
morbis et symptomatibus. De astrorum et temporum ratione et divisionibus. De
mathematicis quaesitis. Historiae lapidum, metallicorum et metallorum.
Historiae animalium. Historiae plantarum. De anima. De dubiis ex historiis. De
clarorum virorum vita et libris. De hominum antiquorum illustrium iudicio. De
usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente. Melanippus
and Chariton (6th century BC) Italy Greek athletes Lovers separator
" ... Hieronymus the peripatetic says that the loves of youths used to be
much encouraged, for this reason, that the vigor of the young and their close
agreement in comradeship have led to the overthrow of many a tyranny. For in
the presence of his favorite a lover would rather endure anything than earn the
name of coward; a thing which was proved in practice by the Sacred Band,
established at Thebes under Epaminondas; as well as by the death of the
Pisistratid, which was brought about by Harmodius and Aristogeiton. "And
at Agrigentum in Sicily the same was shown by the mutual love of Chariton and
Melanippus - of whom Melanippus was the younger beloved, as Heraclides of
Pontus tells in his Treatise on Love. For these two having been accused of
plotting against Phalaris, and being put to torture in order to force them to
betray their accomplices, not only did not tell, but even compelled Phalaris to
such pity of their tortures that he released them with many words of praise.
"Whereupon Apollo, pleased at his conduct, granted to Phalaris a respite
from death; and declared the same to the men who inquired of the Pythian
priestess how they might best attack him. He also gave an oracular saying
concerning Chariton - 'Blessed indeed was Chariton and Melanippus, Pioneers of
Godhead, and of mortals the one most beloved'." M/M: Chariton and
Melanippus, Blessed Pair: Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78 Like the
Athenian couple Harmodius and Aristogeiton, the couple Melanippus and Chariton
are also seen as symbols of political freedom. Felix & Chariton
& Melanippus erat, mortalium genti auctores coelestis
amoris. εὐδαίμων Χαρίτων καὶ Μελάνιππος ἔφυ, θείας ἁγητῆρες ἐφαμερίοις
φιλότατος. Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78; Translated in to Latin by
Iohannes Schweighaeuser Chariton & Melanippus were blessed; Pinnacle
of holy love on earth. ATHENAEUS MAP: Name:
Athenaeus Date: 2nd c. CE Works: Deipnosophists
REGION 4 Region 1: Peninsular Italy; Region 2: Western
Europe; Region 3: Western Coast of Africa; Region 4: Egypt and Eastern
Mediterranean; Region 5: Greece and the Balkans BIO:
Timeline: Athenaeus was a scholar who lived in Naucratis (modern
Egypt) during the reign of the Antonines. His fifteen volume work, the
Deipnosophists, are invaluable for the amount of quotations they preserve of
otherwise lost authors, including the poetry of Sappho. ROMAN
GREEK LITERATURE ARCHAIC: (through 6th c. BCE); GOLDEN AGE: (5th - 4th c.
BCE); HELLENISTIC: (4th c. BCE - 1st c. BCE); ROMAN: (1st c. BCE - 4th c. CE);
POST CONSTANTINOPLE: (4th c. CE - 8th c. CE); BYZANTINE: (post 8th c CE)
Kris Masters at 11:51 AM No comments: Share Saturday,
September 25, 2021 M/M: Melanippus and Chariton, Two Lovers of Freedom
Athenaeus, Deip. XIII.78 Like the Athenian couple Harmodius and Aristogeiton,
the couple Melanippus and Chariton are also seen as symbols of political
freedom. ...ut ait Heraclides Ponticus in libro De Amatoriis. Hi
[Melanippus & Chariton] igitur deprehensi insidias struxisse Phalaridi,
& tormentis subiecti quo coniuratos denunciare cogerentur, non modo non
denuntiarunt, sed etiam Phalarin ipsum ad misericordiam tormentorum
commoverunt, ut plurimum collaudatos dimitteret. ὥς φησιν Ἡρακλείδης
ὁ Ποντικὸς ἐν τῷ περὶ Ἐρωτικῶν, οὗτοι φανέντες ἐπιβουλεύοντες Φαλάριδι καὶ
βασανιζόμεναι ἀναγκαζόμενοί τε λέγειν τοὺς συνειδότας οὐ μόνον οὐ κατεῖπον, ἀλλὰ
καὶ τὸν Φάλαριν αὐτὸν εἰς ἔλεον τῶν βασάνων ἤγαγον, ὡς ἀπολῦσαι αὐτοὺς πολλὰ ἐπαινέσαντα.
--Athenaeus, Deipnosophistae XIII.78; Translated in to Latin by Iohannes
Schweighaeuser (1805) According to The Lovers by Heraclides of Pontus,
[Melanippus and Chariton] were caught plotting against Phalaris. Even when they
were tortured to provide the names of their accomplices, they refused.
Moreover, their plight moved Phalaris’ sympathy to such an extent that he praised
them and released them. ATHENAEUS MAP:
Name: Athenaeus Date: 2nd c. CE Works:
Deipnosophists REGION 4 Region 1: Peninsular
Italy; Region 2: Western Europe; Region 3: Western Coast of Africa; Region 4:
Egypt and Eastern Mediterranean; Region 5: Greece and the Balkans
BIO: Timeline: Athenaeus was a scholar who lived in Naucratis
(modern Egypt) during the reign of the Antonines. His fifteen volume work, the
Deipnosophists, are invaluable for the amount of quotations they preserve of
otherwise lost authors, including the poetry of Sappho. ROMAN GREEK
LITERATURE ARCHAIC: (through 6th c. BCE); GOLDEN AGE: (5th - 4th c. BCE);
HELLENISTIC: (4th c. BCE - 1st c. BCE); ROMAN: (1st c. BCE - 4th c. CE); POST
CONSTANTINOPLE: (4th c. CE - 8th c. CE); BYZANTINE: (post 8th c CE)
KrisArmodio, che viene riparato dal braccio sinistro del compagno più
adulto. Quel gesto inavvertito o solo genericamente descritto dalle letture
critiche, tese più che altro alla considerazione dei principali contenuti
politico-encomiastici del gruppo si fa segno leggibile invece di una categoria
interiore trasversale a tutte le epoche e alle geografie e tanto presente nello
spirito antico quanto nel nostro: l'omoaffettività. Un uomo della fine del VI
secolo a.C., chiamato Aristogitone, che aveva affrontato un rivale, oggi
potrebbe chiamarsi Marco, Francesco o Giovanni, e compiere un medesimo atto,
allungando poi un braccio come uno scudo su altri Armodio, dai nomi di Mario,
Alessandro e Franco, per la reciprocità, l'attaccamento, il calore e il mutuo
soccorso che il sentimento di essere in due sempre realizza. Quel gesto del
braccio, inventato da Nesiotes e Kritios, fissa dentro un modello di valore
civico per la retorica libertaria il segno di un amore. Armodio e
Aristogitone tirannicidi ateniesi Lingua Segui Modifica Armodio e Aristogitone
(in greco antico: Ἁρμόδιος, Harmódios e Ἀριστογείτων, Aristoghéitōn) furono gli
ateniesi tirannicidi che cercarono di porre termine al potere personale della
famiglia di Pisistrato. Statua di Armodio e Aristogitone, Napoli.
Copia romana di originale greco perduto Sono noti come "i
tirannicidi" per antonomasia, che assassinarono il tiranno di Atene
Ipparco, ma vennero a loro volta uccisi dal fratello di costui, Ippia.
AntefattoModifica Pisistrato riuscì nel 534 a.C., dopo vari tentativi (meno
riusciti) negli anni precedenti, approfittando delle tensioni che laceravano la
città di Atene, ad assumere su di essa un potere personale. Pisistrato fu un
tiranno,[1] prese il potere con la forza, ma, a giudizio unanime degli storici,
fra i quali Erodoto, Tucidide e Aristotele, non ne abusò per modificare le
istituzioni di cui la città disponeva e governò più da cittadino che da
tiranno. Quando morì nel 527 a.C.-528 a.C., i suoi figli Ippia e Ipparco
gli succedettero. Ippia, il figlio maggiore, tese a continuare nella politica
paterna, mentre Ipparcoebbe un ruolo minore nella tirannide, ma l'atteggiamento
del regime mutò profondamente in seguito alla fallita cospirazione. I
fatti si svolsero nel 514 a.C.-513 a.C., a quattordici anni dalla morte di
Pisistrato. Tucidide racconta che a far scattare la messa in atto della
congiura vi furono motivi personali di tipo sentimentale. Ipparco s'invaghisce
del giovane Armodio che, secondo quanto racconta lo storico Tucidide, "era
allora nel fiore della bellezza giovanile", dal che si deduce che doveva
avere 15 anni. Armodio era l'eromenos(giovane amante) di Aristogitone,
descritto da Tucidide come "un cittadino di mezza età" - probabilmente
aveva 35 anni - e appartenente ad una delle vecchie famiglie
aristocratiche. Le relazioni sessuali fra un uomo più anziano (l'erastès)
e un giovane non erano di costume sanzionate ad Atene ed altre città greche,
sebbene tali rapporti non fossero omosessuali nel moderno senso della parola,
ma pederastici. Certe relazioni erano governate da severe convenzioni, e le
azioni di Ipparco per cercare di rubare l'eromenos di Aristogitone erano un
deciso affronto alle regole (Tucidide dice aspramente che Aristogitone "era
il suo amante e lo possedeva"). Armodio rifiutò Ipparco e raccontò
ad Aristogitone cos'era successo. Ipparco, rifiutato, si vendicò ottenendo che
la giovane sorella di Armodio fosse esclusa dalla cerimonia di offerta alle
feste Panateneeaccusandola di non essere sufficientemente nobile. Questa offesa
fu così grande per la famiglia di Armodio che egli decise di assassinare, con
la complicità di Aristogitone, sia Ippia che Ipparco e rovesciare la
tirannia. L'uccisione di IpparcoModifica Il piano - che doveva essere
portato a termine con pugnali nascosti nelle corone di mirto cerimoniali -
coinvolgeva anche un certo numero di cospiratori, ma vedendo uno di questi
salutare amichevolmente Ippia il giorno fissato, i Tirannicidi pensarono di
essere stati traditi ed entrarono subito in azione, senza rispettare l'ordine
che si erano dati. Riuscirono così ad uccidere Ipparco, pugnalandolo a morte
mentre stava organizzando le processioni delle Panatenee ai piedi
dell'Acropoli, ma perirono per mano delle guardie del tiranno senza scatenare
ribellioni. Aristotele, nella Costituzione degli Ateniesi, tramanda una
tradizione che vede la morte di Aristogitone avere luogo solo dopo una tortura
volta alla speranza che questi indicasse il nome degli altri cospiratori.
Durante la sua agonia, personalmente sovrintesa da Ippia, questi finse
benevolenza affinché egli tradisse i suoi cospiratori, sostenendo che la sola
stretta di mano del tiranno sarebbe bastata per garantirgli la salvezza. Nel
ricevere la mano di Ippia si dice che Aristogitone l'abbia criticato per aver
stretto la mano dell'assassino di suo fratello, al che il tiranno cambiò
immediatamente idea e lo uccise sul posto. Allo stesso modo, una
tradizione dice che Aristogitone fosse innamorato di una etera dal nome di Leaena(leonessa)
che era ugualmente tenuta in tortura da Ippia - in un vano tentativo di
costringerla a divulgare i nomi degli altri cospiratori - finché questa morì.
Si diceva che era in suo onore che le statue ateniesi di Afrodite furono da
allora accompagnate da leonesse [secondo Pausania]. L'assassinio del
fratello portò Ippia a stabilire una dittatura ancora più severa che fu molto
impopolare e che venne rovesciata, con l'aiuto di un esercito proveniente da
Sparta, nel 510 a.C. Questi eventi furono seguiti dalle riforme di Clistene,
che stabilì in città la democrazia. La fama successivaModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Gruppo dei Tirannicidi. La
mitologia successiva venne così ad identificare le figure romantiche di Armodio
e Aristogitone come martiri della causa della libertà ateniese, e divennero
noti come i Liberatori (eleutherioi) e Tirannicidi (tyrannophonoi). Secondo
scrittori successivi, ai discendenti di Armodio e Aristogitone furono concessi
privilegi ereditari come la sitesis (il diritto di mangiare a spese pubbliche
al palazzo del governo cittadino), l'ateleia (esenzione da certi doveri
religiosi), e la proedria (posti in prima fila a teatro). Visto che non si sa
se Armodio abbia avuto discendenti (è inverosimile che li abbia avuti anche
Aristogitone), questa potrebbe essere un'invenzione seguente, ma illustra la
loro fama postuma. La storia di Armodio e Aristogitone, e come venne
trattata dai successivi scrittori greci, è dimostrativa dell'attitudine nei confronti
dell'omosessualità al tempo. Sia Tucidide che Erodoto dicono che i due erano
amanti senza commentare il fatto presumendo la familiarità dei loro lettori con
tale pratica sessuale istituzionalizzata senza trovarvi stranezze. Nel
346 a.C., per esempio, il politico Timarco fu perseguito (per ragioni
politiche) per il fatto che si era prostituito. L'oratore che lo difendeva,
Demostene, citò Armodio e Aristogitone, così come Achille e Patroclo, come
esempi degli effetti benefici delle relazioni omosessuali. NoteModifica ^
Con la celebre spiegazione di Cornelio Nepote, nel mondo greco veniva chiamato
tiranno chi era signore di una città precedentemente libera Voci
correlateModifica Omosessualità militare nella Grecia antica Omosessualità
nell'Antica Grecia Pederastia greca TirannideAristogitone e Armodio, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Armodio e
Aristogitone, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.La
storia di Armodio e Aristogitone. Da: Projet Androphile. Portale Antica
Grecia Portale Biografie Portale LGBT PAGINE CORRELATE Ipparco (tiranno)
tiranno di Atene, figlio di Pisistrato Ippia (tiranno) tiranno di Atene,
figlio di Pisistrato Leena di Atene etera ateniese --se Sive Oeconomia omnium Operum Hieronymi Cardam, forum.
Signum t prifixum, ea denotat, qui modo in Iuccm prodeunt. PHILOLOGICA, Logica, Moralia.Vita propria, Libet. Ephemerus, de Libris
proprii». SPe|[)K De Libris propriis,
eoruaaquevfu.exeditRovilliji IV. ltMriijs' De
Libris propriis et eorum usu, ex edit. Henricpetr. V
Aeca
De Socratis (ludio. Oratio ad Cardinalem Alciatum,
(ive Tricipitis Geryonis ,
aut Canis Cerberi. In Theffalum Medicum, Attio secunda.
Encomium Neronis. Encomium Podagri. Mneroofynon. De Orthographia.
De Ludo alel. DIALETTICA. Contradictiones logici. De
Vno. Hyperchen. Norma viti confarcinata.facra
vocata. Proxeneta, feude Prudentia ciuili. De
Priceptis ad filios. De Optimovitx genere, De Sapientia. De
Summo bono. De Consolatione. Dialogus Hieton. Cardani, et Facij Cardam patri».
Dialogus Antigorgias, feu De retta vivendi ratione. Diaiogus
Tetim, feu De humanis confiltii. Dialogus De morte, feo Guglielmus.
De Minimis & propinquis. Hymnus, feu Canticum ad Deum, Moralia quidam,
Physica. Vtilitate ex adversis capienda. De Natura,
Thconofton de Tranquillitate. Dialogus de Vita
producenda, feu Thconofton Thconofton. dc Animi
immortalitate. Thconofton feu de Contemplatione.
MTheonofton seu Hyperboreorum. De Immortalitate
animorum. De Secretis. De Gemmis, & coloribus.
De Aqua. Dc Vitali aqua, seu aethere. De Aceti natura.
Problematum fc&ionesfcptcm. Discorso del Vacua. Se la qualita
puo trapaliare di subbietto in subbietto. Dc fulgure. Physica. De
subtilitate. Aftio prima in Calumniatorem librorum dc Subtilitate. DcKcrum varietate. Arithmetica,
Geometrica, Mufua. t 1 A E Numerorum proprietatibus,
Pradtira Arithmetica. Computus minor. Artis magnx, sive de Regulis Algebraicis. Liber Artis
magnx, five quadraginta capitulorum, Si quadraginta
quxftionum. De Aliza regula. Sermo de plus fcminus.
Exxreton mathematicorum. Encomium Geometnx. Operatione della linea,
De Proportionibus numerorum, motuum, ponderum, f onorurm, Delia natura deprincipij,
e regolo Muficali. AJlronomica, AJlrologica, Onirocritica, DE Reftitutione temporum &
motuum cacleftium. De Prouidentia ex anni conftitutionei Aphorifmotum Aftronomicorum fegmenta feptem. Commemarij in Ptolcmxum, de
Aftrorum judiciis. De feptem Erraticarum
ftellarum viribus. De Interrogationibus. De ludiciis geniturarum. De Exemplis cdhtum geniturarum. Liber duodecim
gen^urarum. De Revolutionibus. De fupplemento Alraanach. Somniorum Synefiorum libri.
Medicinalium primus. Ncomiutn Medicini, De Sanitate tuenda. Contradicentium
Medicorum Ubii duo, olim' impreffi,
nunc audtiores. Contradicentium Medicorum Libri
o&opofteriores, nunc primum in lucem emergentes. Medicinalium
fecundus. LVfu ciborum. De Causis, Signis, ac locis morborum.
De Vrinis. Ars curandi parva. De Methodo medendi, fettiones tres priores.dempta quarta que
Confilia quidam continebat, fuo loco redituta.
De Radice Cina- De Cyna radice, seu de Decodis magnis. De Sarza parilia.
De Oxyinelicis usu in plcuritide. De Venenis
Commentarij in librum Hippoc. de Alimento. Medicinalium
tertius. Commentarij in librum Hippocr. De Aere, aquis,
et locis. Commcntarij in Aphorismos
Hippocratis. Conclufiones de Lapidibus Galeni
in explicatione Aphorifmoru. Apologia ad Andream Camutium.
Commcncarij in lib. Prognofticorum
Hippocrati. Medicinalium quartus & poliremus. Commentarij
in lib. Hippocr. De Septiroeftri partui Examen
agrorum
Hippocr. in Epidem. Lonliha varia partim
edita, partimhaidenusanecdota. Opufcula Medica
lenii ia, (eu de dentibus De Dentibus, liber cjuintus,
seu de morbis articularibus. Floridorum sive Comtnent.in
Principem Hazen.Vita Ludovici Ferranj, & Alciaci. Mtfcellanea,
ex Fragmentis, &
Paralipomenis: L fragmenta. EArcanis xternitatis, tractatus. Politica, seu Moralium,
Laber vnus. Elemehta lingua: Grscx. De Inventione.V.
t De Naturalibus viribus, traftatus. De Musica. De Integris,
traftatus Arithmeticus. Expositio Anatomix Mundini-Commentarij in libros Hippocr.de Viftu in acutis. Commentarij in duos libros priores Epidem.Hippocr. De Epilcplia, traftatus. De Apoplexia. PARALlFOMENON Itbri.
De humanis ciuilibus fucceffiombus. De humana perfectione. HI. tn«o',
feude Admirandis.De dubiis naturalibus, De rebus
faftis raris ,& artificits.M.S. De
humana compolitione naturalium. De mirabilibus
morbis Stfymptomatibus. Deaftrorum& temporum ratione et divisionibus.
De mathematicis quxlitis. Historix lapidum, metallicorum et metallorum.
Hiftorix animalium. Hiftorix plantarum. De anima. De dubiis ex hiftoris.
De clarorum virorum vita Selibris. De
hominum antiquorum illuftrium judicio. De vfu
hominum, & dignotione eorum, tum cura Sc errore. De sapiente. Hieronymus
Cardanus. Hieronimo Cardano. Gerolamo Cardano. Keywords: masculinity, machio –
maschile, Prospero, De signo, De signis, de Casis, signis, ac locis Morborum,
ten volumes of “Opera omnia” analytic index – he wrote about almost everything
– including logic, dialettica, metafisica, psicologia, anima, fisionomia,
same-sex, he criticised Galenus for not realizing the distinction that at 14, a
puer becomes an adolescent – his oeuvre is being examined in masculinity
studies – masculinity Italian, Bolognese masculinity. He claimed that Bolognese
males were ‘tasteful’ and underrated compared to Milaenese or Florentine males
– he lived all over the place – he had many tutees, whose names survive – he
was possibly paranoid – Silvestri was his best known tutee –analytic index of
“Opera Omnia” -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cardano: l’implicatura conversazionale del Pietro
della Lombardia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lumellogno). Filosofo italiano. lombardia -- Grice:
“If William was called Ockham, I should be called Harborne, and Petrus
Lombardia!” -- Pietro Lombardo
rappresentato in una miniatura a decorazione di una littera notabilior di un
manoscritto Pietro Lombardo o Pier Lombardo (Lumellogno di Novara, 1100Parigi,
1160 circa) teologo e vescovo italiano. Nacque a Novara o nei dintorni (a
Lumellogno esiste una lapide su di una casa che risorda il luogo della nascita),
all'inizio del XII secolo. Ricevette la sua prima formazione teologica a
Bologna, dove acquisì una perfetta conoscenza del Decretum Gratiani. Dopo il
1136 si recò a Reims e poi a Parigi, dove fino alla sua elevazione alla sede
vescovile di questa città (1159) insegnò teologia. Almeno una volta in questo
periodo, tra il 1145 e il 1153, si recò alla corte pontificia, dove venne a
conoscenza della traduzione del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, compiuta
da Burgundio Pisano per incarico di Eugenio III. Quasi certamente nel 1147 fu
uno dei teologi che nel sinodo parigino presero posizione contro Gilberto
Porretano. Dopo un breve episcopato (1159-1160) morì il 21 o 22 luglio
del 1160 (non del 1164). Il suo epitaffio si conservò nella chiesa di Saint
Marcel fino alla Rivoluzione francese. Dante lo nomina in Paradiso, X,
106-108. Oltre ai commenti all'opera di Paolo di Tarso e ai Salmi,
la sua opera maggiore rimane il Liber Sententiarum (Libro delle Sentenze),
scritta fra il 1150 ed il 1152 e per la quale ottenne l'appellativo di Magister
Sententiarum. Sebbene il testo rientri in un genere letterario tipico della
teologia medievale, ossia l'esposizione delle sentenze delle autorità di fede
(i padri della chiesa ed i riferimenti biblici) l'opera del Lombardo, per
l'ampiezza delle fonti e la sua originalità, diverrà il testo di riferimento
per la didattica nelle facoltà di teologia e l'elaborazione letteraria nello
stesso campo fino alla fine del XVI secolo. Egli infatti attinge ad una vasta
letteratura in merito, adottando anche testi che normalmente non erano
contemplati in queste composizioni, come Il De fide ortodoxa di Giovanni
Damasceno. Con la sua opera il Lombardo tenta di sistematizzare e armonizzare
la disparità e le divergenze che la pluralità delle auctoritates aveva
generato, dando luogo ad un certo scompiglio ermeneutico e dottrinale.
Riprendendo la classica distinzione agostiniana tra signa e res, Lombardo
afferma che il motivo delle divergenze non appartiene alla natura delle cose
trattate, bensì alla metodologia esegetica. Il testo si divide in quattro
parti: la prima tratta di Dio, della sua natura e dei suoi attributi; la
seconda delle creazione degli angeli, del mondo e dell'uomo sino al peccato
originale; la terza dell'incarnazione cristica e della promessa della Grazia;
la quarta dei sacramenti. Anche lo sviluppo del testo mantiene la distinzione
tra res (le prime tre parti) e signa (l'ultima) Lo stile del Lombardo snoda l'esposizione
delle sentenze coll'eleganza dialettica di tipo anselmiano mantenendosi
aderente al rispetto delle varie auctoritates anche riguardo o stile letterario
col quale egli opera una volontaria mimesi. Il testo venne criticato sin
dalla sua prima uscita per via del cosiddetto nichilismo cristologico. Lombardo
descrive infatti l'incarnazione nei termini di assumptus homo, ossia la persona
divina del Cristo avrebbe assunto una natura umana (accessoriamente). Ciò
contrastava con la determinazione di origine boeziana per la quale la natura
cristologica traeva la sua forma da un sinolo unico di divino ed
umano. Note Per approfondimenti
vedere: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, II, pag.30 e seg. Novara, Istituto Geografico
de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I contenuti di questo
volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia I, II, III, quarta edizione, Torino, Pomba,
1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione aggiornata ed
ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba 1998) Nicola Abbagnano, Storia della
filosofia, II, pag. 37 e seg. Novara,
Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso, Roma (I
contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia della
filosofia I, II, III, quarta edizione,
Torino, Pomba, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza edizione
aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Pomba 1998) Marcia L. Colish, Peter Lombard, Leiden,
Brill, 1994 (due volumi). Pietro Lombardo. Atti del XLIII Convegno storico
internazionale: Todi, 8-10 ottobre 2006, Spoleto, Fondazione Centro italiano di
studi sull'alto Medioevo, 2007.
Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di
"Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia)
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/ Pietro Lombardo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere
di Pietro Lombardo,. su Pietro Lombardo, su Les Archives de littérature du
Moyen Âge. Pietro Lombardo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Sofia Vanni Rovighi, Pietro
Lombardo, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970.
Petrus Lombardus, Opera Omnia dal Migne Patrologia Latina con indici
analitici.Chisholm, Peter Lombard, in Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge
University Press. Illustrare 'k iSlosofia di Pier Lomb'airdo finora casi
tra- scurata -dagli' storici della filosofia è im lavoro del tutto
nuovo spedialmente per lltalia. Il Protois (1)
affe!rim»a decisamente che Pier Lomb'airdo non fu un filosofo,
THaureau (2) ch'egli fu il principe degli indifferenti in materia
fìTosoflca, ma entrambe le asserzioni sono affrettate. Solo
in Germania il Lombardo venne studiato con mag- gior serietà e con
particolare attenzione!. Nel 1897 Giulio Kógel (3) pubblicò a Lipsia una
monognalia su Pier Lom- bardo : questa però parve confusa ed inesatta al
dr. loh. Nep. Espenberger (4) che nel 1901 intraprese un studio a-
curatissimo della Filosofia di Pier Lombardo e della po- sizione sua nel
secolo decimosecondo, nel terzo volume, parte quinta, dei Beitràge zur
Geschichte der Philosophie des Mittelalter8 diretti da G. BàumJcer e G.
Freih. Von Herttìng. Di tale pubblicazione mi servii in special
modo Ifotre auteur ne fui donc pas un phUosophe. De la
philosophie scolastique — Paris, Cesi lui qua notes reconnaissons corame le
chef des indiffèrents en ma- tière de philosophie. (3) Petrus
Lombardus in s. SteUung z. - Phil. d. Mittelal - Lei- pzig 1897.
(4) Die philosophie des Petrus Lombardus und ihre Stellung im
vwblften Jahrhundert. Aschendorffschen Milnster 190X, per questi miei
«appunti sulla filosofìa del Lombardo seb- bene mi «pervenisse al momento
di stenderli e troppo lardi per farne Fesaane minuto che essa si merita.
Poiché è ve- ramente questo il primo lavoro che si occupa con
severa e profonda indagine oritioa del pensie<ro filosofico del
Mae- stro delle Sentenze. L'autore dimostra una profonda co-
noscenza delle opere patristiche e delle scritture sacre colle quali
esercita opportuni raffronti. Egli non si è poi solo limitato all'esame
del Libro delle Sentenze, ma ha giustamente esteso le sue indagini alle
altre opere meno conosciute del Lombardo e pure ricche di impvortanti
di- gressioni filosofiche, quali il Commentano o Gloessa dei Salmi
detto anche Salterio, ed i Commentarli alle Epistole di S. Paolo. Solo non ha
tenuto conto dei Sermoni che sottio tra le cose più interessanti se non
più belle del Sentenz.iario, «pur nel severo giudizio di Hanreau e
Bour- gain (1), di cui il Protois ha tratto dai mss. degli utili
estratti mentre se ne trova l'intero testo con poche varianti nelle Opere
Omnia del vescovo Ildeberto-. Essi sono utili per completare la figura
intellettuale di Pier Lombardo. Del quale a questo punto ripeleremo
le parole: sed terrei immensitas laboris. In verità quantunque
grande sia la nostra buona volontà non ci dissimuliamo la vastità
del lavoro intrapreso : onde lo restringeremo entro i limiti a noi
concessi, raffigurandoci un poco a quello spigolatore che move fidente
sulle orme dei più abili mietitori pago di fare un piccolo fascio delle
spighe dimenticate. HAUREàU Not. et Extr. t. Ili p. 49. BouBGAiN —
La chaire firancaisc au XII siede Paris,
cfr. FjsBitT (La faculiè de Theol, L 81). I Padri della Chiesa
iniziarono la tìiosofia oristiana, ma in forma espositiva, avendo ripugnanza
a sottopome ^ troppo minute dimostrazioni le verità rivelale. Era
secon- do il pensiero di S. Gregorio una profanazione Fassogget-
tare il Verbo divino alle regole di Donato. Ma quando nel secolo XII,
prima chei si diffondessero per tutta Europa le traduzioni arabe di
Aristotile, si attese a studiare con a- more i libri delYOrganum tradotti
da Boezio, si accese quella tendenza già iniziata nei secoli aotecedeiiti
a fortificare il dogma' col sillogismo e l'autorità della ragione.
Da questo connubio della teologia colla dialettica ari- stotelica
nacque la scolastica la quale se ha i suoi precursoiri nei primi secoli
del cristianesimo non riconosce i suoi veri fondatori che nel secolo di
Abelardo e di Pier Lombardo. Essa nasceva per una necessità di rendere
più conformei la fede al sapere più progredito. E se da una parte non
ces- sava di fiorire la .scuola dei mistici con S. Bernardo e gli
Ai tempi di Abelardo e di Pier Lombardo non si possedeva altro
d'Aristotile che la logica, cioè ciò che si chiama l'Organum e
comprendeva: le Categorie coll'introduzione di Porfirio, l'Ermeneu- tica,
gli Analitici, i Topici, la Sofistica nella traduzione di Boezio, (Cousm
— Fragments philosophiques Paris) abati Ugo e Riccardo di S. Vittore, da
un'altra il mal compresso bisogno di libertà di pensiero apriva la via
ad interminabili dispute quali giungevano talvolta ad intacca- re
il dogma, come accadde per Abelardo. Pier Lombardo apparve come
moderatore tra le due opposte tendenze: la mistica e la speculativa, e
valendosi dello stesso metodo dialettico usato dagli avversarti eerli si
propose di dimo- strare come le apparenti contraddizioni che si
rileivano nelle Scritture sacre e patristiche rischi'arate dalla
ra- gione riconducono a rinvigorire maggiormente te verità della
fede. Egli però nel Prologo delle Sentenze si scaglia contro
coloro qui non rationi voluntatem suhiiciunt, che la ra- gion sommettono
al talento, tradurrebbe Dante, e vogliono fare credere per verità, i
sogni di lor mente inferma : « Qui non irationi voluntatem subiiciunt,
nec dodri- nae studium impendunt, sed his quae somniarunt sa-
pientiae verba coaptare nituntiu", non veri sed placiti etiam
sectantes... ». Pier Lombardo era dunque tenuto dallo stesso
compito che egli si era pronosto, cioè di dimostrare cHte nelle
scritture sacre non v'ha vera sconcordanza e che ogni ra- gionamento
umano si riduce in ultima analisi a dimo- strarne la veracità assoluta, a
non imporra egli stesso nuove e diverse dottrine le auala lo avrebbero
condotto fuori della sua seo-ena imparzialità. Se ciò si possa
chia- mare indifferentismo io non so, poiché il Maestro dèlie
Sentenze non sdegna di entrare e di approfondirsi nelle più minute
distinzioni e controversite fìlosiofìche, cosi care ai suoi tempi,
sforzandosi con nassione di ricavarne le verità da lui srià piresupposte.
Nella sua umiltà che diventò poi lefir-srendaria esrli pr*eferisce
lasciar la parola affli altri, a S. Gerolamo, a S. Ambrogio, e
specialmente a S. Ago- stino che è il stio autore preferito come quello
che suipera tutti srli altri padri per profondità di vedute e co-pia di
ar- gomenti nelle questioni fondamentali del dogma. Ma non è vero
che il Maestro rimanga empire nascosto e non ap- Questi ultimi conobbero
oltre Aristotile anche Platone a cui sembrano dare la preferenza e non
furono del tutto stranieri alle vedute dei neoplatonici. Vedi R. Bòbba La
dottrina dell* intelletto in Aristotile e nei 8140Ì pie illustri
commentatori pag. 235 sgg. paia di tratto in tratto a mostrarci la via da
seguire, per non perderci nel djedalo inestricabile delle
questioni. JJei «resto i più che hanno parlato di Pier
Lombardo si sono aoconlentati di scorrere i libri delle Sentenze:
non hanno letto i suoi lunghi e «lucidi Commentarii alle Epistole
di S. Paolo, e neppure quelli ai Salmi che egli riunì sotto il titolo
sintetico di Pscdterium, nom^ i sjuoì ispirati Sermoni che si trovano
manoscritti alla Biblioteca Nazionale di Parigi, e stampati tra quelli
del vescovo Ildeberlo. In tutte queste opere il Lombairao non è solo un
puro e disadorno espositore di dottrine. Certamente il Maestro va
conside- rato precipuamente mei suo libro delle Sentenze, il quale
lormò testo nelle scuole e fu letto e commentato più della Bibbia per
lunghi secoli, mentre le altre opere vennero più presto dimenticate. Ma
anche qui se egli non espose dot- trine nuove, ebbe però il merito grande
e riconosciuto da tutti gli storici della filosofia di distribuirle con
metodo razionale, cosi che esse ricevevano lume le une dalle altre.
Metodo già sperimentato con altro intento da Abelardo, ma dal Nostro
condotto a singolare perfezione (1). Egli slesso suH'autorità di
Sant'Agostino, espone Tor- dine col quale si deve disputare in materia teologica
e sper cialmente della Trinità che è il punto fondamentale della
dottrina dogmatica (Sent.): Gaeterum, ut in primo libro de Trinitate
Augustinus docet, primo secundum auctoritates Sanctarum Scriptura-
nim utrum fides ita ee habeat demonstrandum est. Deinde adversus gamilos
ratiocinatores elaliores magis quam capaciores, rationibus catholicis et
similitudinibus congniis ad defensdonem et assertioneim fidei utendum
est; ut eorum inquisitionibus satisf<icientes, mansuetos plenius
instrua- mus et illi si nequiverunt invenire quod quaerunt, de suis
menlibus polius quam de ipsa veritate vel de nostra as- sertione
conquerantur ». Il Deniflb in Carivi, Univer. Paris IntrodttcHo Methodus
Abaelardi in IHo etiam opere quod in schoh's Theologiae per aliquot
saecula adhibebatur usurpata est, dicimus Sententias Magistri P.
Lombardi. (2) Per queste come per le altre numerose citazioni delle
opere di Pier Lombardo ci serviamo dei volumi 191-192 della
Patrologia del Migne Petri Lombardi Opera Omnia^ Paris Fu in
apecia»! modo ai metodo da mi usato che si deve J'eaiorme diffusione del
libro delle Sentenze nelle scuole (1). Esso nel mentre veniva a
soddisfare la naturiate curiosità del conoscere ed a dare la spiegazione
di molte credenze poneva dei limiti alla libertà del raziocinio. Ma
veniva sempre lasciato un cantuccio alle discussioni inter- mmabili sulle
questioni minori, dalla risoluzione deUe quali in un senso o in un altro
poco aveva a soffrirne l'or- todossia. yui si esercitavano le intelligenze,
inquisitionibus satisfacientes, smaniose di sottilizzare e di
sillogizzare, con tanta maggior sicurezza, quanto minore era il pericolo
di intaccare la fede (2). Lo stesso Pier Lombardo nel suo Libro non
si trattiene dal diffondersi nell'esame di queh stioni che a noi sembrano
del tutto .futili e vane come queUe ad esempio che riguardano la natura
degli angeli (3. E non è raro anche il caso che le lasci insolute. Cosi
nel libro primo, laddove domanda perchè mentre amare è lo stesso
che essere, si dice che il Padre ed il Figliuolo non sono in essenza
costituiti deiramore col quale si amaaio scambievolmente, confessa
miodestamente che la questione gli sembra troppo difficile e che egli si
propone più di ri- portare le dottrine» dei Padri che di accrescerle:
(seait. 1. dist. XXXI1,9) « Diffìcile mihi fateor hanc quaesti
onem, praecipue cum ex praedictis oriatur quaei siniilem videntur
habere rationem'; quod meaei intelligentiae attendens infir- mitas
turbatur, cupiens magis ea dictis sanctorum referre (1) Il
De Vulf — Hist, de la phil. medievale {Louvain 1900) come il Dknefle
(loc. cit.) da un troppo reciso apprezzamento: (pag. 209) Ces sinthèses
thèologiquea, dont la premiere idee semble appartenir à Abelardo ètaient
appellées a un succès immense. Il faut en cher- cher le secret dans le
besoins de la classification et d' orgànisation qu^on eprouvait devant la
masse des materiaux rassemblès,b]en plus que dans T originante de ceux
qui ont appose leur signature a ce travail de mise en oeuvre.
(2) Cosicché il libro fatto per conciliare ogni controversia sembrò
sortire l'effetto contrario. Erasmits in Mattaei I, iP (cit. daFabricius,
Bib. m. aevi) e Siquidem apparet illum hoc egisse ut semel coUectis quae
ad rem pertinpbant, questiones omnes excluderet. Sed ea res in diversum
exiit. Videmus enim ex eo opere nunquam fìnìendarum quaestionum non
exanima sed maria prorupisse. (3) Flettrt — Hist eccl. Paris, 1119
Tom. XII Liv. LXX Gap. XXXV. ri quam uff
erre >k E limsce col coaicmiDa^e : « Eam tameu quaestionjeon leolorum
ddligentiae plenius dijudicandam at- que absolvendam ireiiinquimus ad hoc
minus sufficientes ». Perciò l'opera del Sentenziario ha un intento
assai modesto, né presume di sciogliere ogni dubbio e di di- rimere
ogni questione. Qui il Maestro risentei della scuola di Abelardo il quale
(nel trattato Sic et non riconosceva ai pastori il diritto di emendare le
opere dei dottori della Chaesa. (Migne 178 p. 1346 D.) « Hoc
et ipsi eccleisiastici dactores attendentes et nonnulla in suis operibus
corri- genda esse credentes posteris suis emendaindi vel non se-
quendi licentiam concesserunt ». E il nostro Lombardo così dice di
sé : (Sent. in prol.) « In hoc aulem tractatu, non solum pium
leolorem, sed etiam correctionem desidero, maxime ubi prolunda versatur
veritatis quaestio, quae utinam tot haberet inventores quot habet
contradictores ! » Il libro delle Sentenze doveva così riuscire
«più accetto giacché il giogo del dogma era imposto alla libera
rifles- sione del pensiero con assai più illuminata larghezza che
non fosse abitudine del passato. Tanto che parve a più d'uno dei suoi
contemporanei la sua dottrina pericolosa e Giovanni di Goimovaglia potè
chiamarlo uno dei quattro labirinti della teologia ponendolo allo stesso
livello di Gi- jDerto Porretano, Pietro di Podtiers, Abelardo.
Scopo di Pier Lombardo era di fare un trattato che risparmiasse al
lettore tempo e fatica, Fu per rispetto ai suoi tempi un volgarizzatore
della scienza teologica di- spersa ne^ libri canonici e negli scritti
malagevoli dei Padri e incompiutamente contenuta nei libri di Abelardo,
PuUeyn, Ugo di S. Vittore. Egli compilò una specie di Enciclopedia
teologica ove il lettore avesse a trovare senza sforzo tutto quanto gli
facesse al ciaso. Però avverte nel Prologo : « JNon igitur debet
hic labor cuiquam pigro vel multum docto videri superfluus, cum multis
impigris multisque indoctìs, inter quos etiam et mihi, sàt necessarius:
brevi volumine complicans Patrum sentias, appositis eonim te-
stimoniis ut non sit necesse quaerenti librorum numero- sitatem evolvere,
cui brevitas quod quaeiritur oBert sine labore». E cosi nel
distribuire la materia egli seguì un nuovo ordine sistematico e compiuto
non seguito né da Ugo di S. Vittore, né da Roberto PuUeyn, né da Abelardo {Am
quali pure trasse assai dalle sue doltrine) e pose a ciascun ca-
pitolo un titolo per facilitare le ricerche. (Sani, in prol.) Ut
autem quod quaeritur facilius oc- currat, titulos quibus singnlarum
capitula dislingumitur praemisimus. Relijiiooe e
scieoza. Giovanni Scoto Erigena afferma che la teologia e
la filosofia sono una sola e una medesima scienza (1). Ma
giustamente si poa&ono fare a questo punto delle riserve perché la
scuola e la chiesa si accodano nel dire che l'ordine della ifede non é
Tordine della jnagione e che sia pei filosofi come per i teologi vi sono
dei limita al proprio dominio. Con lutto ciò la ragione e la fede non
riusdroTio mai a vivere completamente separate. Ed a torto credano
alcuni che si cominciò propriamente dalla scolastica a coffiy ciliare
colla scienza la religione. Anche ai primi Padri della Chiesa piacque di
giovarsi di entrambe e Clemente Dragone, S. Agostino, sono nello stesso
tempo filosofi e teologi. L'opposizione alla filosofìa come indegna di
essere applicata ai veri divini, non fu più propria e peculiare
dell'età patristica che della scolastica, le quali non sono già in
opposizione, ma Funa é naturale svolgimento del- l'altra. Questo sforzo
di comporre il dissidio ira Taulo- rità e la speculazione filosofica si
continuò per tutta i se^ coli fino al nostro Rosmini che parlando dell
età dei Padri e dei Dottotti scriveva : « L'uomo allora
sentiva altamente che la teologia non era divisa da luii, e che, sebbene
ella travalicasse, per l'origine e la sostanza, i limiti della natura,
passava dal ragionevole al rivelato, quasi ascendendo da un palco
in* (1) De praedestinatione (Collection de Mangin 1. 1 p. 103^,
Coni- icitur inde veram esse philosophiam veram religionem,
conversim- que veram religionem esse veram philosophiam, cit. in Coasin
Cours de la phU, I p. 344. feriare ad un altro superiore dello
slesso palagio delia mente, con un solo disegno da Dio
fabbricatogli. La teologia cristiana in quell'età era senza
contrasto la conduttrice e la custode di tutte le altre scienze, la
si- gnora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato che sa- rebbe
venuto un altro tempo in cui alcuni pensassero do- versd la teologia
dividere interamente dalla filosofia? » Vediamo ora in quale rapporto si
tirovassero le verità teosofiche colle verità filosofiche nel pensiero di
Pier bombardo. 11 Maestro si attiene in massima alle parole
di S. A- gostino (sup. Joan 27). <( Credimus ut cognoscamus, non
cognoscimus ut credamus». E nella distinzione XXII del libro terzo, là
dove esaminia si Christus in morte fuit homo e risponde che benché Pietro
morì come uomo, tuttavia era in morte Dio ed uomo, non mortale e non
immortale, e tuttavia vero uomo, dice a coloro che vogliooio troppo
sotìsticare sulla ragione di ciò : « Illae enim et Jiujusmodi argutiae in
creaturis locum habent sed fidei sacramentum a philosophicis est liber.
linde Ambrosius (De. fide I. 13, 84): Aufer argiimenta, ubi fides
guaeritur. In ipsis gym- nasìis suis dam dialectica taceat, piscatoribus
creditur, non diaileoticis ». Ma questa fede da pescatori
però, il Lombardo ag- giuge più oltre, non è cosa a noi lutto affatto
estranea, peirchè essa non può essere di ciò che l'animo ignora. E
qui egli sente rinllusso del misticismo del suo- protettore. S.
Bernardo e dei Vittorini che primi lo accolsero a Parigi. (Sent.
Ili dist. XXIV, 3) « Cum fides sit ex auditu non modo exteriori sed etiam
interiori, non potest esse de eo quod animo ignoratur ».
Ancora è necessario fare con S. Agostino una distin- lone: alcune
cose non sono intese se prima non si cre- dono, ma è pure vero che alcune
cose non si possono cre- deiPe se prima non sono intese (come la fede in
Dio che (1) Opere edite ed inedite di A. Rosmini Introd.
alla Filosofia Casale Tip. Casuccio p« 48 sgg. Per maggiori notizie sul
tei- smo degli scolastici vedi : P. D'Ercole — Il teismo filosofico
cristiano Torino — Pbantl -
Geschicte d. Logik viene dalla predicazione) e queste pai per la fede si
m- tendono di più. Uoc. cil.) Ex his apparet... quaedam
intelligi ali- quando, etiam antequam credanlur... al nunc eliam
per tldem... ampiius intelligìintur... linde colligdtur... quae-
dam non credi nisi prius intelligantur et ipsa per fidem ampiius
inleJlegi. Quanto poi alle cose che mima sono credute che
comprese esse non sd ignorano ael lutto perchè anche si amano.
(Seni. Ili d. XIII, 3) « Nec ea quae prius creduntur... penitus
ignorantur tamen ex parte, quia non sciumtur. Greditur ergo quod
ignoratur non penitus sdcut etiam ama tur, quod ignoratur ».
Pensiero ripetuto in S. Tommaso ed in Dante. In conclusione
Pier Lombardo si libra Ira un misti- cismo ed un razionalismo temperato
non sfuggendo alla contraddizione, ma affronlaaidola. Il suo concetto è
quello che informa in gran parte la filosofìa cristiana. La fede
non distrugge la ragione ma al contrario le da ali più potenli per
sollevarsi. Ed è in questo senso che bisogna mtendere le parole di S.
Agostino: Intellectum ualde cana, e quelle di S. Anselmo: Fides quaerens
intellectum. Principia rerum inquirenda sunt prius ut earum notitia
plenior haberì possi t. (Prol. in Collectanea), Teoria
debili Uoivrrsali Delle arti e delle scienza del trivio e del quadrivio,
secondo la celebre classificazione data da Marciano Ca,- pella e
riprodoUa da Cassiodoro e da Isidoro di Sivi- glia (1), la dialettica
ovverosia la logica che da principio parve una scienza preparatoria
avente per ogge'tio più !e parole che le cose, acquistò nelle scuole
medioevali un tale sviluppo che fini col proporsà i più alti problemi
me- tafisici e diventare la prima delle scienze. Tra questi pro-
blemi, il più importante, anzi il fondamentale che sembra raggruppare
sotto di sé tutti gli altri, ed agitò potente- mente l'età di cui
parliamo, è il problema degir universali, quale la filosofia si è posto
innanzi in tutti i tempi. 11 Protois (2) scrive che la questione
degli universali ebbe a suo autore Roiscelino : ma ciò è per lo meno
detto male. Già Aristotele si era posto innanzi il problema nelle
Categorie ed in molti altri suoi libri; e nella prefazione della Isagoge
di Porfirio tradotta da Boezio, esso è pure (1) Haurbaux —
De la philosophie scoi. Paris e]iuiK:iato, ma non risolto, parendo esso al
commeintatore di Aristotele di troppo grave importanza. Ecco le
parole Ui Porlirio: M Cosi tralascierò di dire se i generi é
le specie sus- sistono o sono soltanto e puramente nei pensieii, se
come bUSbisleaiti sono corporei od incorpoi'ei, se sono fuori oppu-
re entro le cose seìusibili e con esse coeistenti : essendo trop- po
grave una tale impresa e rictiiedendo maggiori ri- cerctxe ».
Porlirio divise cosi il problema nelle sue tre questioni
fondamentali e iu in tal modo che esso fu segnalato ai primi
scolastici. I generi e le specie sussistono per sé o consistono
sem- plicemente in puri pensieri ? Come sussistenti sono essi
corporei od mcorporei ? Ed infine sono essi separati dagli oggetti sensibili
o sono contenuti negli oggetti stessi for- mando con essi qualche cosa di
coesistente? A ragione Porfirio reputava queste questioni di
som- ma difficoltà. Perchè comunque vi si risponda si è con- dotti
nell'alto mare della speculazione, ed ognuna di esse sembra pod
risolversi nelle suprema questione della quaile tutte dipendono : Che
cosa è Tessere ? JNuUa di più naturale che gli scolastici
inoltrandosi a disputare di un tale argomento con molto ardire ed
acu- tezza d mgegno, ma non con pari preparazione filosofica
sollevassero infinite e tempestose discussioni che molto spesso non
approdavano ad alcun risxiltato. Tre furono le scuole principaU che
si avviarono ad una diversa soluzione del problema: quella dei realisti,
dei nominalisti, dei concettualisti. 11 nome di realisti fu dato
nel secolo XII a coloro che affermavano che i geiìeri e le specie, gli
universali insom- ma sono una realtà sostanziale, una vera entità
distinta dalie altre; nominalisti furono detti coloro che negavano
la realtà di questi universali, e li ritenevano come sem- plici
concezioni astratte del soggetto ricondotte ad una idea comime per mezzo
della comparazione; ma poiché questa conclusione, dovendo ammettere che
tutto ciò che v'ha di comune non è ohe im suono, un nome vuoto di
si- gnificato, flatus vocis, portava alla negazione di ogni
scienza, sorsero i concettualisti i quali aggiungevano che un tale suono,
im tal nome rappresenta un pensiero, uq concetto il quale proviene dalla
somiglianza visibile delle cose diverse : il che non è sostanziale ma è
percepito dalla intelligenza umana come inerente alle nature
individual- mente deiterminate. Dopo ehe Giovanni Scoto aveva
portato agli estremi il inealismo, venne Roscelino che parve dirigere la
dottrina del nominalismo contro la stessa teologia dogmatica sol-
levando un grave scalpore nelle scuole. Poiché se nulla esiste che
«non sia individuale il dog- ma della divinità una in tre pers;one veniva
dalla ra^one 5icalzato nelle sue basi. Era bensì un errore l'uso stesso
di armi dialettiche prò e contro i misteri della fede, perchè
l'ordine della fede non è cruello della ragione, ma d'altra ip-arte era
un errore rimìediabile. Ed a difesa della realtà u- nivereale si levò S.
Anselmo prima abate di Bec in Nor- mandia poi arcivescovo di Cantorberv e
nella prima meta deJ secolo deoimosecondo Guglielmo di Chamoeaux, il
fiero avversario di Abelardo. E fu quella del primo propria- meoite
un realismo mistico, quello del secondo un realismo scientifico.
Abelardo poi fu il capo riconosciuto, a volte vincitore, a volle
vinto, del concettualismo, col anale si possono tro- vare molti riscontri
nella filosofìa moderna. Quale doveva essere l'opinione dei Dottori
della Chiesa in tanto contrasto di idee? Evidentemente nessuna
delle suesposte- se e quando lo notevano. I realisti con- fondevano le
cose con la generalità delle idee, i concet- tualisti negavano il reale
fondamento delle idee universali, 'i nominalisti le idee stesse: i
dottori non potevano ap- partenere a nessuna di queste dottrine
pericolose. Essi do- vevano essere tratti a trovare un criterio
conciliativo, né ciò era diffìcile, secondo l'avviso dellHaureau. E
quale era questo criterio? La specie non è solamente un con- cetto,
essa è altresì una cosa, non una cosa in sé, a parte degli oggetti
sensibili, ma nna cosa facente parte con essi, formante con essi qualche
cosa di coesistente. Tale a un dipresso la posizione dei dottori
tra le scuole che dividevano i logici disputanti dell'evo medio,
corrispondenti sotto altro nome alla scuola dell'idealismo critico ed
alla scuola deiridealismo trascendentale. Tra questi dottori
concilianti che l'Haureau non pro- priamente chiama indifferenti si trova
il nostro Maestro delle sentenze : il quale pero non si occupa
espressamente della questione, ma solo ne tratta per incidenza^
ragio- nando della Trinità nel 1. libro delle Sentenze. Per
lui l'universale non è come per Guglielmo di Champeaux un solo
essere dappertutto identico (1) e però difficile a com- prendere, ma al
contrario colla moltiplicazione numerica dell'individuo diventa anche in
essenza tante volle accre- sciuto. Se Tanimale è il genere, dice il
Maestro, e il ca- vallo è la specie si avranno tre cavalli ed anche tre
ammali. {sent. I d. XIX, 8) « ... cum sit animai genus et
equus species, appellantur tres equi iidemque animalia ».
Perciò quando la specie può dirsi triplice devono anche essere tre
gli individui. Tutto dunque si raccoglie nell'individuo. Ma
egli poi aggiunge : Abramo, Isacco, Giacobbe sono tre individui, ma nello
stesso tempo anche tre uomini p tre animali. Specie e genere non sono
quindi forme sog- gettive, ma un oggetto che è nelle cose poste al
difuori di noi (2). Ma non si dirà che l'essenza divina è una
specie e le persone individui, come è specie Tuomo e sono in-
dividui Àbramo, Isacco e Giacobbe. Poiché se Tessenza divina fosse una
specie come Tuomo, come non si direbbe che Abramo, Isacco e Giacobbe sono
un sol uomo cosi non si direbbe una essenza essere tre persone.
(sent. I. d. XIX, 9-: « Sicut enim dicuntur Abraham, Isaac, lacob,
tria individ'ua ita tres homdnes et tria ani- malia... 10: Nec speoies
est essentia divina et persona individua, sicut homo tepecies est,
individua autem A- braham, Isaac et lacob. Si enim essentia specìes est
ut homo sicut non dicitur unus homo esse Abraham, Isaac et lacob.
ita non dicitur una essentia esse tres personas ». Il Maestro
quindi, a mio parere, non nega alle idee universali un* fondamento reale
in quanto però vanno unite agli oggetti sensibili: ma distingue
nettamente le cose temporali dalle cose divine alle quali non convengono
i nomi di universale e di partìcdare e le distinzioni della
logica. (1) Abael hist. cai.: « Erat antem in ea sententia
de communi- tate nnlversaliam, nt eandem essenti ali ter rem totam simtil
singulis suis inesse astrueret individuis. cfr. Espenberg — Die phil. d
Pet. Lomb. EsPENBEROER — op. cit. p. 22 « Art nnd Gattung sind dem-
nach nicht subjektive Gebilde, sondern objektiv in der una mnge- benden
Auszenwelt begrìindet », Teoria della coi>osc^i>za.
i\el Gommenlario delle Epistole di S. Paolo Pier Lombardo -venendo
a parlare delle visioni le distingue 'n tre generi: corporali,
spirituali, intellettuali. E le ultime sono le. più perfette j)erchè
vedono non cogli occhi corpo- rali ó colla immaginazione, ma per sé
stesse. Qui il Mae- stro viene a toccare sebbene in modo indiretto della
co- noscenza che noi abbiamo coi sensi corporali, ei di quella che
acquistiamo colla memoria, la quale ci ripresenta im- magini vere quali
abbiamo già apprese coi sensi o finte quali rimmagin azione forma secondo
il suo potere. (Collectanea in epist. ad Cor. II, 12) « In bis tribus
géneribus (scil. visionis) illud primum manifestum est om- nibus quo
vid'etur coelum et omnia oculis conspicua. Nec illud alterum quo absentia
oorporalia cogitantur, insi- nuare difficile. Coelum enim et terram et
quae in eis vi- dere possumus, etiam in eis constituti cogitamus^. Et
ali- quaiido nihil videntes oculis corporis* animo tamen cor-
porales imagines intuemur vel veras sicut ipsa corpora vidimus et memoria
retinemus vel fictas sicut cogitatio formare potuerit. Aliter cogitamur
quae novimus, aliter quae non «novimus w. Altrove nel
Commentario dei Salmi paragona la me- moria al ventre che riceve i cibi :
(Comm. m ps. XXX, 13) « Sicut enim venter escasi recipit ita memoria
rerum tenet notitiam ». Nel libro III delle Scinlenze il
Lombardo pariando della fede dice che essa si riferisce soltanto alle
cose che non ci appaiono è sostanza di cose sperate come disse S.
Paolo e ripetè poi Dante (1), che conobbe il Maestro forse più dì
S. l'ommaso. E qui contrappone la fede alla conoscenza che si ha delle
cose evidenti, tra te qiiali pone anche l'anima deiruomo che sebbene non
veduta, è da lui intuita cogi- tando. Concetto raccolto poi e svilupipato
da Cartesio, il quale prenderà la coscienza umana come il punto di
par- (l) S. Paolo (Ep. ad Eb. XI\* « Est fides sperandanim
snbstan- tia rerum, argumentum non apparentinm . » — Dante (Par.):
Fede è siLStanzìa di cose sperate - ed argomento dene non parventi. ieaia
dì ogni indagiiie filosofica ed argomenterà che IV sistenza ci è data dal
pensiero: cogito ergo sum. Sent. Ili, d. XXIll, 7). c( Non sicul corpora
quae videmus oculis corporeis, et per ipsorum imagines quas memoria
tene- mus, etiam absentia cogitamus; nec sicut ea quae non vi-
demas et ex his quae videmus cogitalionem utromque formamus, et memoriae
commendamus, nec sicut homi- nem, cuius animam^ etsi non videmus, ex
nosbna coniici- mus et ex motibus corporis hominem sicut videndo
didi- cimur, intuemur etiam cogitando : non sic vìdetur fides in
corde in quo est, .ab eo cuius est, sed eam tenel oerliseima scientia
». CosH nel capitolo già citato delle CoUectanea, il Mae^
stro tocca della conoscenza che noi abbiamo del nostro intelletto
intellicfendo . E' insomma nella ragione stessa la spiegazione della
nostra ragione. (In epist. ad Cor. II, 12) «... hac visione quae
didtur intellectualis ea cemuntur, quae nec cemuntur corporea, nec
ullas gerunt formas similes corponim, velui ipsa mens et omuis
animae affectio bona. Quo enim alio modo nisi intellisrendo intellectus
consoicitur? Nullo. ». Pier Lombardo paragona rintellieenza ad una
luce interiore che illumina res<=ere intelligente: (im
epist. ad Eph. cap. 4) « Omnis qui inteiligit quadam luce interi ore
illusfrRtiir». Ripete in sostanza il concetto già espresso da S. Agostino:
(in ps. 41 n. 2 Mierne 36 p. 465) « omnis qui inteiligit luce
quadam non corporali, non carnali, non exteriore sed interiore
illustratur ». Chiarito il modo di conoscere, resta a parlare
dell'og- getto della conoscenza. Che cosa è il vero ?
Tutto che è è vero, secondo il concetto della filosofia patristica,
come, e questo Io si vedrà in appresso, tutto ciò che è è pure buono. Il
falso va inteso in un sen®o del tutto privativo, cioè non è sostanza di
qualche cosa, non è ciò che è, ma è ciò che non è. (In ps. V,
6) « Veritas enim est de eo quod est. Men- dacium vero non est subslantia
vel natura ìd est, non est de eo, quod est natuiraliter, sed de eo, quod
non est ». Ed in altro luogo dice il Maestro : la verità è ciò
che è come vien detto : (in ps. XIV, 7) « Veritas est cum res ita
est cum dicitur ». Quia ip9e diodi ei faeta suut S.
Paolo Sostanza e^ accM^ote. S. Agostino
concepiva la sostanza come il concetto di assenza o di naliu-a preso in
senso generale da subsistere^ peirchè ogni cosa sussiste a sé slessa :
omn«is enim res ad se ipsam subsistil. Ma in senso più particolare,
s'intende di ciò che è soggetto d'altre cose come del colore, delle
forane corporee, ecc. J\on attrimenti Pier Lombardo: (sent. II, d.
XXXVII, 4 in ps. LXVIII, 2), « Substanlia intelligitur illud ouod
sumus: homo, pecus, terra, sol; omnia ista substantiae snnt : eo ipso quo
sunt naturae, ipsae substantiae dicun- tur. Nana et quod nulla est
substantia, nihil omnino est. Substantia enim est cdiquid esse ».
Ma in quest'ultima significazione, il detto .^oncetto non
appropriasi a Dio perchè Dio è semplice. (Sent. I, VIII, 8) « Res
ei^o anutabiles. . . proprie di- cuntur substantiae, deus autem, si
subsistit, ut substantia proprie dici possit, inest in eo aliquid in
subiecto et non est simplex ». E' quindi a torto che parlando
di Dio si dice che è una sostanza, perchè non vi è nulla in lui che non
©ia Dio, e la parola sostanza non si dice propriamente che delle
creature. Parlando di Dio è meglio servirsi della parola essenza»
88 Riguardo all'accidente il maestro delle Sentenze
è dello stesso avviso di Boezio che lo definisce : (in Porph. ed.
Basii, p. 92) Accidens est quod adest et abest praeter subiecli
corruptionem. (Sent.) a non sicut ac- cidentia in subiéctis quaé possunt
abesse vel adesse ». S. Agostino e Boezio sono i due filosofi ai
quali iì nostro Lombardo attinge con eguale misura. Nel IV delle
Sentenze parla degli accidenti, cioè delle apparenze che gli sembrano
piuttosto esistere senza soggetto che essere nel soggetto, quali il
sapore ed il peso (accidenti) nel sa- cramento della Eucaristia, che sono
senza soggetto, poi- ché quivi non è altra sostanza che quella del sangue
e del corpo del Signore, che non soggiaciono a quelli accidenti.
Perciò son quegli accidenti per sé sussistenti. (Sent. IV d. XII,
1; in epist. ad Cor. I) « Si autem quaeritur de acciflentibus quae
remanent i. e. de speciebus et sapore et pondere, in quo subiecto
fundentur, potius mihi videtur fatendnm existere sine subiecto quam
esse in subiecto, quia ibi non est substantia nisi corporis et
sangumis dominici, quae non affìcitur illis accidentibus... remanent ergo
illa accidentia per se subsistentia ad my- slerium riti ». « Natura
multiplex nomen est. Nam et philosophi et e- thici et theologi usu
plurimo ponunt hoc nomen». Cosi Gilberto Porrelano (in Boet. ed. Basii,
p. 1223). Ma se molli sono i nuovi significati presso i filosofi del
secolo XII, vediamo in quale senso più propriamente l'adopera il
nostro Pier Lombardo. Per lui natura è ciò che é con- creata colla
sostanza. (Sent. II, d. XXXVII, 2) « Substantiae nomine atque
naturae dicunt signifìcari substantias ipsas et ea quae naturali ter
habent scilioet quae concreata sunt eis sicut ani- ma naturaliter habet
intellectum et imaginem et volnnta- tem et huiusmodi». Le €086 che
awemgano per causa seminale, si dice che aweaigono secondo natura, quelle
invece fuori natura av- vengano soltanto per volontà divina. Ne viene che
ogni creatura obbedisce a leggi naturali. (Sent. II, d.
XVIII, 7) « Et illa quae secund'um cau- sam seminalem fìunt, dicuntur
naturaliter fieri, quia ita cursus naturae hominibus innotuit. Alia vero
praeter natu- ram, quorum causae tantum suni in deo... omnis creaturae
cursus habet naturales leges » (1). yuale sarà dunque la legge
naturale ? Quella che eb- bero anche i pagani (2), che indica all'uomo
ciò che è bene e ciò che è male e che si riassume nel non fare agli
altri ciò che non si vuole sia fatto a noi. (in epist. ad Rom. cap.
2) « Etsi non habeat (s'cil. gentilis homo) scriptam legem, habet tamen
naturalem, qua intellexil et sibi conscius est, quid sit bonum
quidve malum; lex enim naturalis iniuriam nemini inferre, nihil
alienum praecipere, a fraude et penuria abstinere, alieno coniugio non
insidiari et caelera alia et ut breviter dicatur nolle aliis facere auod
tibi non vis fieri ». Quanto poi alla persona, il Lombardo, parte
dal con- cetto ^ià enunciato da Boezio che la persona è la sostanza
individuale d'una natura ragionevole: (ed. R. Peiper p. 193, 4) « Persona
est naturae rationalis individua substan- tia ». Ovunque noi troviamo una
sostanza individuale nella specie umana, ivi è una persona. Ma l'anima
che è so- stanza razionale, è dunque una persona? Pier Lombardo
risponde negativamente ricorrendo all'airtificio di parole ^à adoperato
da Boezio nel sfuo libro de duabus naturìs (ed. Peiper p. 193, 10). Cioè
Tanima è sostanza razionale, ma non tuttavia persona, perchè non è per se
sormns^ cioè è congiunta ad altra cosa. (1) Dio solo
può agire contro natura: (Sent. loc cit) super hunc naturalem cursum
Creator habet apud se posse de omnibus facere aliud, quam eorum naturalis
ratio habet; ut. scilicet, vir^a arida re- pente fioreat, et fructum
^^at. et in juventute sterilis femina, in senectute pariat, ut asina
loquatur et huiusinodi. ,2) V. Ciò. - De leg. XV. 45; Atque, si
natura confirmatura ius non erit, virtutes omnes toUentur Nam haec
nascuntur ex eo, quia natura propensi sumus ad diligendos homines,
quod fundamen- tum iuris e3t. (S©nt. Ili, disi. X, 2) « Nam et modo
anima est sub- stantia rationalis, non tamen persona, quia non est per
se sonans, imo alii rei comiuncta ». Tuttavia l'anima è
persona quando per se est: onde quando è sciolta dal corpo è persona come
è Fangelo. (Sent. Ili, dist. V, 5; disi. X, 1) « Anima, non
est persona, quando alii rei unita est personaliter. . . absoluta
enim a corpore persona est siculi angelus ». frateria e
forila* U^ià S. Agostino parla di una materia informe
dalla quale sarebbero derivate tulle lè cose che sono distinte e
formate. (de genes. contra Manich. I, 5, 9 Migne 39 p. 178) «
Primo ergo materia facta est confusa et informis unde omnia fìerenl quae
distincta atqua formata sunt, quod credo a graecis caos appellari). Così
pure Boezio (edit Basii p. 1138) parla di una materia informe e
siemplice come la ale e di una materia formata e non semplice come
i corpi. Anche per Pietro Lombardo le cose create furono formate da una
materia informe. ,(I'n ps. XXXII, 9) « Quoniam ipse dixit, idest
voluit et facta sunt (scil. coelum et terra) id est formata de in-
formi materia ». E cosi pure nel secondo libro delle Sen- tenze : (dist.
XII, 2, 3) « Alii vero hoc magis probaverunt et asseruerunt, ut prima
materia rudis atque informis... creata sii Postmodum vero. . . ex illa
materia rerum corpo- ralium genera sunt formata secundum species
propria®. Da S. Agostino il Lombardo deriva pure il suo con-
cetto della forma. (Sent. II, d. XVIII, 16) « Dicit Au^ustinus
causas primordiales omnium rerum in deo esse mducens simili-
ludinem artifìcis in cuius dispositione est qualis futura sii arca
». Il Maestro ripete a questo punto appoggiandosi intie- ramente a
S. Agostino quanto Abelardo e Gilberto P^r- retano dicono con compiuto
linguaggio scientifico quando chiamaiio le idee forme esemplari della
mente divina. Non così chiara come in questi elementi platonici è l'idea
della forma presso i sentenziarii ai tempi aristotelici. Causalità.
Qui il Maestro dà questa definizione della idea d; causa :
Tutto ciò che in sé permanendo genera od opera qualche cosa, è il
principio, ossia la causa di ciò che ge- nera od opera.
(Sent. I, d. XXIX, 2) « Si autem quicquid in se manet et gignit vel
operatur aliquid, principium est eius rei quam gignit vel edus quam
operatur... ». Dio però si dice eh© fa ed opera qualche cosa,
per- chè è la causa delle cose scientemente esistenti. (Sent.
II, d. I., 2) « Deus ergo aliquid agere vel fa- cere dicitur, quia causa
est rerum noviter existentium ». Con ciò vien presupposto che tutto ciò
che avviene, avviene per una causa necessaria e che nulla nasce che
non sia preceduto da una legittima cagione. Pier Lom- baixlo in seguito
si domanda se nulla possa sfuggire o questa legge di causalità e possa
awemare per caso. Ma egli risponde : se qualche cosa avviene nel mondo
per caso, non tutto il mondo è regolato dalla divina pìnovvi-
denza. Se non tutto il mondo è regolato dalla divina provvidenza, v'è
qualche natura o sostanza che non ap- partiene all'opera della
]>rowidenza. Ma tutto ciò che è, è buono per la partecipazione di quel
bene che noi chiamia- mo divina provvidenza. Nulla dunque può avvenire
per caso. Inutile è il notare che questo argomento si trova già in
S. Agostino, Ugo di S. Vittore, Abelairdo. (Sent.) « Si ergo casu
aliqua fiunt in mundo, non providentia universus mundus
administratur. Si non providentia universus mundus administratur,
ali- (1) Vedi EspuNBKBOBB — Op. dt. p, 58, 59. qua
natura vel substanlia est quod ad opus providentiae non pertinel. Omne
autem quod est... boni illius parteci- patione... bonum est, quod divinum
bonum provideoliam vocamus. JNihil ergo casu flit in mundo ».
$pazio ^ trnypo. Le nozioni di spazio e di
misura, ci vengono date da Pier Lombardo, laddove parla di Dio che è
immensurabile ed iniCBteso. (Sent. I, XXXVII, 9, 10) Neque
dime(nsionem habet (sdì. deus) sicut corpus cui secundimi locum
assigmatur principium, medium et finis et ante et retro, dextera et
smistra, sursum et deorsum quod sui interpositione facit distantiam et
circumstantiam... dicitur in Scriptura ali- quid locale sive circumscriplibile
et e converso, sci!, quia diimensionem (bapierus longiltudinis et
latitudinis distaai- liam lacit in loco ut corpus... Più
avanti definisce il luogo nello spazio ciò che è occupato in lunghezza,
altezza e larghezza da un corpo. (Sent. I, XXXVII, 4) « Locais in
spatio est quod lop- giludine et altitudine et latitudine corporis
oocupatur)). Come Dio neppure gli spiriti creati possono
essere circonscritti nello spazio. Essi però possono in certo modo
essere locali perchè quando si trovano in un luogo (non si trovano in un
altro : però non hanno dimensioni e per quanto siano numerosi, non
possono riempirlo. (Sent.) « Spiritus vero creatus quo-
dammodo est localis, quodammodo non e®t localis. Localis quidem dicitur,
quia definitione loci terminatur, quoniam cum alicubi praesens sit totus,
alibi non invenitur. Non autem ita localòs est ut dimensionem capiens
distantiam in loco faciat ». Il Lombardo infine conclude che
Dio non si muove né nello spazio, né nel tempo, che Tanima si muove
nel tempo, ed il corpo nelo spazio e nel tempo. Di qui le loro
diverse natuire. 93 (ibid.) « Ecce hic aperte
oistendilur, quodi nec locis aec temporibus mutatur vel movetur Deus,
spiritualis au- tem natura per tempus unovetur, corporalis vero
etiam per tempus et locmnn. Che cosa è il tempo ?
Ad una tale domanda cosi risponde S. Agostino nelle Confessioni (1)
: Se nessuno me lo chiede lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chieda
non lo so: con piena fede dico tuttavia di sapere che se nulla passasse,
non vi sa- rebbe un tempo passato e se nulla dovesse avvenire^ non
vi sarebbe un tempo futuro, e se nulla fosse non vi sareb- be un teimpo
presente. Pier Lombairdo definisce il tempo, la variazione
delle qualità che sono nella stessa cosa che si muta. (Seni.
I, XXXVII, 10) <( Mutari autem per tempus est variari secundum
qualitates quae sunt in ipsa re quae mutatur... Haec enim mutatio qua fìt
secundum tempus, vanatio est qualitalum . . . et ideo vocatur
tempus». L'eternità fa antilesi al tempo. Il Lombardo come A-
belardo ripete qui le parole di Boezio: Stabilisque ma- nens das cuncta
momri quando dice: (In ps(. LVI) «Et video, id est sciam, quoniam tu es
proprie qui stabiEs ma- nens das cuncta moveri ». Garattei'a
appunto dell'eternità è la stabilità, del tem- po la mutabilità (in
epist. ad Hebr. I) « In aeternitate enim stabilitas est, in tempoire
autem varietas ; m ae- ternitate omnia stamit, in tamporei alia aocedunt,
alia suc- fcedHint ». Cosrpolosia. Il
problema cosmologico si presenta al Maestro nel libro II delle Sentenze
alla prima distinzione. Egli dimostra sulla fede delle Sacre Scritture,
che non vi è che un prin- MiGNB 32 p. 816 ( Espenberger op. cit. p. 73)
: Quid est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti expli-
care velim nescio: fidenter tamen dico sci re me, quod si nihil prae-
teriret, non esset praeteritum tempus ; etsinihil adveniret, non esset
fUtunim tempus, ei si nihil esset, non esset praesens tempus.
, cipio solo di tulle le cose. Alcuni (ilosoli, come Platone ed
Anstolile, avevano pensalo che il mondo avesse molti principii, che la
materia che lo comipone fosse increata ed eterna, che Dio non ne fosse
punto il Greatore, ma sem.- plicamente l' oa^ganizzatore. Ma la dottrina
cattolica al contrario ci insegna che Dio solo, principio di tutte le
cose, ha tutto crealo dal nulla, le cose visibili e le invisibili,
il cielo e la terra. (Sent. H I, 1) (( Creationem rerum
insinuans Scrip- tura deum esse creatorem initiumque temporis atque
om- nium visibilium ved invisibilium creaturarum in primordio suo
ostendìft dicens : (g:en. I, 1) In principio creavit deus caelum et
terram. His enim verbis Moyses... in uno principio a deo creatore
mundum factum refert elidens errorem quorundam plura sine principio
fuisse opinantium. Plato namque tria inilia existimavit deum scilicet
exemplar et matenam et ipsam mcreatam sine principio et deum quasi
artificem non creatorem ». E altrove conferma che il mondo
non è coetemo a Dio e senza alcun principio, ma creato da Dio come
in- segna la scrittura. (in ps. CXLVIII, 5) « Quia ipse dixit
et faota sunt — hoc dicit contra illos qui dicunt mundum deo coateoiimn
». Dio creò ogni cosa dal nulla : creare è propriamente
ricavare qualche cosa dal nulla : onde a Dio solo compete il nome di
creatore. (Sent. II, I, 2) « Creator enim est, qui de nihilo
ali- quid facit. Et creare proprie est de nihilo aliquid facere....
hoc nomen (scilicet creator) soli deo proprie congruit... Ipse est ergo
creator et opifex et factor ». 11 Lombardo passa poi ad esamina-re
la creazione del mondo e specialmente .l'opera dei sei giorni
commentando il racconto della Genesi. Le spiegazioni ch'egli offre,
sono tolte ai padri antichi tra i quali S. Ambrogio, S. Agostino,
S. Gregorio, il venerabile Beda e S. Giovanni Grisostomo. Insieme con
vedute geniali e profonde, si trovano in quella parte dei suoi libri ove
si paria della creazione, alcune teorie che le scienze naturali hanno poi
definitivamente condannate. Basta ricordare la teoria dei quattro elementi
di cui si compone il cosmo, e quella che considera il fir- mamento come
una immensa volta solida alla quale sono attaccati gli astri, e Topinione
che i piccoli insetti nascano &6 dalla corruzione
dei carpi organici. Ma il Lombardo espone la scienza dal secolo
decimosecondo : d'altronde egli di tali cose sembra parlare in forma
dubitativa e come è suo costume non fa che esprimere le opinioni che ai
suoi tempi correvano. dell'uorpo o^il'unlv^rso*
Là dove parla della creazione, il Maestro pada anche del
fine per il quale l'uomo e l'angelo furono creati. La somma bontà divina
ha voluto far parte della sua felicità etema a due delle sue creature,
all'angelo ed all'uomo : perciò li creè ragionevoli affinchè conoscessero
il sommo bene, l'amassero, ed amandolo lo jK>ssedesseiro e
posse- dendolo fossero felici. L'angelo di natura incorporea e
l'uomo composto di anima e di corpo furono creati per lodare e per
servire Iddio; non già perchè questi abbia bi- sogno dei servigi umani,
ma affinchè l'uomo godesse nel servirlo, poiché in questo si giova chi
serve e non colui al quale si serve. (Seoit. II, I, 7) «
Factus ergo... homo projter deum dicitur esse, non quia creator deus et
summe beatus alte- rutrius indiguerit officio... sed ut servirei ei ac
fruirelur.'.. in hoc ergo proficit serviens... non ille cui servi
tur. Pensiero che vien perfezionato da S. Tommaso (Sum.
contra gentes II, 46) e dall'Afighieri (Farad. XXIX): Non per avere
a sé di bene acquisto Ch'esser non può, ma perchè suo splendore
Potesse risplendendo, dir: Subsisto. In seguito aggiunge che come
l'uomo è stato fatto per Dio, così il mondo per l'uomo, il quale si trova
in un mezzo tra ciò che a lui serve e ciò a cui egli stesso deve
servire. (Sent. II, I, 8) « Et sicut factus est homo propter
deum i. e. ut ei serviret, ita mundus factus est propter
é6 hominem, scil. ut ei servirei. Positus est ergo homo
'n medio ut et ei servirelur et ipse serviret; ut acciperet u-
trumque et reflueret totum ad bonum hominis et quod ac- cepit obsequium
et quod impeffidit... ». L uomo infine si distingue da tutti gli
altri animali per la sua aspirazione alle cose superne, ed è perciò
che egli ha il corpo eretto e quasi rivolto al cielo. (Seni. II,
XVI, 5) « Ecce osl^isum est, secundum quid sit homo similis dei... Sed in
corpore quaaidam pro- prieitatem habet quae haec indicat, quia §st erecta
statura secundum quam corpus ajiimae rationali congruit, quia a
caelum erectum est ». E' lo stesso concetto di Cicerone (De legibus
I, 9, 26): « Nam quum caeteras animantes abiecisset ad pa-
stum, solum hominem erexit ad caelique quasi cognationis domiciliique
pristini conspectum excitavit ». E non di Cicerone soltanto (1).
(1) Tra i gentili cf. Ovidio Metamorf. I, 84-86 Sallustio
Catil. Tra i filosofi cristiani Agostino (de gen. centra Manich. I,
XVII), Cassiodoro (de anima cap. IX) Beda (in hexaem I) Abelardo
(in hexaem). Tantum enim, ut tradit auctoritas, cognoscit ibi
quiHque quantum diligit. (Sent. II, IX, 4) Foteoze
d^ll'anirpa. 11 problema psicologico veniva proposto da Ugo
di S. Vittore in queisti termini: (de sacram. I ps. 5, e. 3)
yuaerunlur autem quiam plurima de origine animae, quando creata fuit et
tolde creala fuit et qualis creata fuit. (cfr. August. de quant. animae
I, 1). August. de quant. animae I, 1). Era questione tra i
filosofi secondo Giovanni di Sa- lisbury (Mei. IV, 9) se fosse una sola
potenza la quale ora sentisse, ora ricoondasse, ora immaginasse o se
pur rimanendo l'anima semplice, essa fosse dotata di molte potenze
(1). (1) MieNB 199 p. 922 A: < Recolo enim fuisse
philosophos, qui- bus placuit, sicut incorpoream simplicem et individuam
esse substan- tiam animae, ita et unam esse potentiam, quam multipliciter
prò rerum diversitate exercet. Eorum ergo opinio est, quod eadem
po- tentia, nunc sentiat, nunc memoretur, nunc immaginetur; nunc
di- scemat investigando nunc investigata assequendo intelligat. Sed
plures sunt e contrario sentientes animam quidem quantitatem simpli- cem,
sed qualitatibus compositam et sicut multis obnoxiam passio- nibus, sic
multis potentiis utentem ». V. Espenberger op. cit p. 88. Pier Luiinbardo
si attiene in ciò a S. Agostino e defi- nisce quei^le potenze come
naturali proprietà dell'anima, yueste sono una sola sostanza ed esistono
nell'animo so- stanzialmente; e noiii accidentalmente : poiché sebbene
rela- tive tra di loro ciascuna è sostanzialmente nella sostanza
oell animo. (Sent. 1, 111, 12) « Hic attendendum est ex quo
sensu accipiendum sit quod supra dixit, illa tria, scilicet memo-
riam, intelligentiam, voluntatem esse unum, imam mentem, unani essentiam,
quod utique non videtur esse venim juxta »pix>piietatem sermonis...
Illa vero tria, naturales proprietales seu vii-es sunt ipsius mentis...
(14) Sed jam videndum est quoniodo liaec tria dicantur una
substantia. Ideo quia sciJicet in ipsa anima vel mente
substantialiter existunt, non sicut accideiitia in subiectis, quae
possunt adesse vel abesse uiide Aug'ustinus in lib. IX de Trm. cap.
5 alt : Admonemur, si utcumque videre possumus, haec in animo existere
substantialiter, non tanquam in subiecto, ut color in corpore; quia etsi
relative dicuntur ad invincem, singula tamen substantialiter sunt in
substantia sua ». Spiegata cosi coli autorità altrui la natura
delle po- tenze dell anima, il Lombardo distingue nella ragione due
parti : la parte superiore che si volge alle ragioni eteme delle cose, la
inferiore che si piega a osservare le cose temporali! (11,
XXIV, 6) « Ratio vero vis animae est superior, quae, ut ita dicamus, duas
habet partes vel differentias, superio- rem et inferiorem. Secundum
superio«rem, supemis con- spiciendis vel consulendis intendit; secundum inferiorem,
ad temporalium dispositionem conspicit ». Da ciò deriva la
distinzione ch'egli fa della sapienza e della scienza. La definizione che
diedero gli antichi della sapienza, cioè : Sapientia est rerum divinarum
humana- rumque scientia, va divisa cosi che sapienza si dica pro-
priamente della conoscenza delle cose divine, scienza della conoscenza
delle cose umane. (S. Ili d, XXXV, 1) «... illa definitio dividenda
est, ut rerum divinarum oognitio sapientia proprie nuncupetur,
hùmanarum vero rerum cognitio proprie scientiae nomen obtineat ».
L'influsso mistico di S. Bernardo suo protettore e dei suoi primi
maestri di S. Vittore, si fa sentire in Pier Lom- bairdo là dove afferma
che la maggiore o minore quantità di sapere deriva dalla quantità di
amore: (Sent. II, IX, 4) « Sed qui magis diligit plus coginioscit
». Abelardo definisce Tanima come una certa essenza spirituale e
semplice: (introd. ad theol. Ili, 6) « Anima quippe spiritualis quaedam
et simplex essentia est ». Non diversamente la definisce il nostro
Lombardo là dove dice (sent. I, IH, 12) « Mens enim i. e., spiritus
rationalis es- sentia est spiritualis et incorporea ». Così
Abelardo come Pier Lombardo, si riconnettono a 5. Agostino che in
più luoghi dei libri tratta deU anima -n quanto spirituale ed
incorporea. L'anima si dice semplice perchè non si diffonde in
e- stensione, ma in qualunque corpo in tutto o in qualsivoglia
paorte di essa è intiera. Cosi quando avviene qualche cosa nella più
piccola parte del corpo, che sia avvertita dall'a- nima benché non
avvenga in tutto il corpo, tutta Tanima sente perchè non tutta si tien
nascosta. (Sent. I, VII, 5) « (Simplex dicitur anima) quia
mole non diffunditur per spatium loci sed in unoquoque corpore et
in toto tota est et in qualibet eius parte tota est. Et ideo cum fit
aliquid in quavis exigua particula corporis quod sentiat anima, quamvis
non fiat in toto corpore, illa tamen tota sentit quia totam non latet
». In ciò segue il Lombardo la dottrina professata da A-
gostino e da Plotino, il primo nel libro di trinitate (VI, 6, 8),
de quantitate animae (cap. 33, 70) de immut, animae (I, 16, 25) il
secondo in enn. (IV, 33 edit Volkmanm). Ma se Tanima è semplice,
dice il Lombardo nel luogo citato, in confronto del corpo, per sé stessa
non è semplice ma molteplice. Poiché altro è essere operoso, altro
Inerte, altro acuto, altro memore, altro è desiderio, altro è ti-
more, altro è letizia, altro è tristizia, e queste cose ed altre dello
stesso genere si possono trovare nella natura delVa- nima ed alcune senza
le altre ed alcune più ed altre meno, onde è manifesto che la natura
dell'anima non é semplice, ma molteplice « unde manifestum est
animae non sim- plicem sed multiplicem esse naturam ».
In conclusione la natura deiranima offre due lati: è semplice da un
lato se si paragona colla natura del corpo molteplice se si paragona
colle sue potenze Ma ranima è altresì immortale. L'uomo è fatto a
somiglianza di Dio e la somiglianza nella essenza perchè essa è immortale
ed indivisibile. (Seni. Il, XVI, 4) «Factus est homo... ad
similitu- dinem dei... similitudo in essentia quia et immortalis eit
in- divisibilis est. linde Augustinus, de quant, anim. I, 2-3: «
Anima facta est similiter deo, quia immortalem et indis- solubilem fecit
eam deus ». Ma la filosofia scolastica fedele al precetto:
distingue prequenier^ come limita e divide il concetto della
semplicità deiranima cosi na limita e divìde quello della
immoortalilà, distinguendo il coooeilto della morte intesa in senso
asso- luto di annientamento da quello della stessa intesa in senso
relativo di mutazione : ed in quest'ultimo senso Tanima non è del tutto
immortale. (Seni. I, Vili, 3 ) « In omni mutabili natura
nonnulla mors est ipsa mutatio quia fecit aliquid in ea non esse
quod erat, unde et anima humana quae ideo dicitur immortalis quia
secundum modum suum nunquam desinit vivere^ ha- bet tamen quandam mortem
suam ». Orijioe d^U'aoirpa. Riguardo
airorigine delFanima si agitavano ai tempi del Lombardo due diverse
opinioni, Tuna del traduzioni- smo (1) che pretendeva che Tanima venisse
generata come il corpo, l'altra del creazionismo che pretendeva al
con- trario che fosse creala da Dio direttamente. A quest
ultima si attiene naturalmente il Lombairdo con Abelardo, Roberto PuUus,
Ugo di S. Vittore. Dio creò ranima dal nulla dice il Maestro: (Sent. II,
XVII) «Flatus factus est a deo, non de deo, non dealiqua materia sed
de Odo di Cambra!: (de pen. orig. II) « Sunt autem multi qui volunt
animam ex traduce fieri sicut corpus et cum corporis semine vim etiam
animae procedere » Vedi Espen. o. e. p. 96, I 101
nihilo ». Quindi cornhatte; ropinione di coloro che affer- maaio
con Origene che le anime sono state tutte create al principio del mondo,
e quella di coloro che con i Lu^ci- feriani e Cirillo ed alcuna dei
Latini pensano che Tanima si comunichi ai figli per generazione e nello
stesso modo che il corpo. Mentre Tanima non è infusa nel corpo che
quando esso è tonnato ed adatto a riceverla. (Sent. II, XVII, 3)
Sed quicquìd de anima primi ho- minis aestimeoitur, de alias certissime
sentiendum est, quod in corpore creentur; creando emim infundit eas deus
et in- fundendo creat ». E più avanti : (Sent. II, XVII, 8) e( Unde
Augustiiniis in ecclesiast, dogm. animas hominum di<rit non esse ab
initio inter creaturas intellectuales natuT^as nec simili creatas sicut
Origenes fìngit necque in corporibtis per coitum seminum sìcuT Luciferani
et Cyrillns et quidam LatiinoiTum praesuanptoìres affìrmant, sed dicimus
corpus tantum per coniugii oopulam seminari, creationem vero animae
solum cneiatoirem nosse eiusque iudicio... formato iam corpore animam
creavi atque infimdi ». E nel libro IV spiega ancor meglio
quest'ultimo pen- siero ricorrendo all'esempio della casa e del suo
abitatore che vi entra soltaoito quando è ben costruita :
(Sent. IV, XXXI, 5) « Sed iam formato corpori anima datur, non ini
conceptu corporis nascitur cum semine de- rivata. Nam SI cum semina et
anima existit de anima, tunc et multae animae quotidie pereunt cum semen
fluxu non proficit Ti'ativitati. Primum oportet domum compaginari
et sic habitatorem induci». E qui è opportu/no ricordare che
questa teoria dell'a- nima si trova pure con poche varianti nel canto XXV
del Purgatorio laddove il Poeta discorre della nascita dell'uo- mo
e spiega come (Tanimal divenga fante. Relazione tra
Fanirpa ed il corpo. . Seguendo il concetto aristotelico dell'età
di mezzo, il Lombardo ritiene Tanima come forma del corpo.
(Sent. IV, XXXI, 5) « Formatum vero intelligitur cor- pus propria
anima animatum et informe quod nondum Habet animam. Un tal concetto va
intimamente collegato con un passo della Bibbia: (Exod. 21, 22, 33) « Si
quis percusserit mulierem praegnantem et aborlivum fecerit, sì adhuc
in- formalum fuerit, multabitur pecunia; quod si formatmn fuerit,
reddel animam prò anima », Il Lombardo deride le favole di coloro
che immagi- nano che le anime siano rinchiuse nel coq>o, come in
un carcere, per i peccati commessi in cielo. (Sent. I, XLI,
4) « Multi... in fabulas, vanitatis abie- runt dicenls, quod animae
sursum in caelo pecoant, et se- cundum peccata sua ad corponia prò
meritis diriguntur, et dignis sibi guasi carceribus includuntur. lerunt
hi tales post cogilationes suas et... versi sunt in profundum, di-
centes animas in caelo ante conversatas et ibi aliquid vel mali egisse et
prò meritis ad corpora terrena detrusas esse. Hoc autem respuit catholica
fides ». Ma invece Dio diede senso alla natura coirpoTea
perchè Tuomo capisse che se potè unire due cose cosi diverse, quali
l'anima è il corpo in una tale unità, non è impossi- bile ch'egli possa
partecipare per quanto umile alla sua gloria. (Sent. II, I,
10) « Lufeamque materiam fecit ad vitae sensum vegetare, ut sciret homo,
quia si potuit deus tam disparem naturam corporis et animae in
federationem u- nam et in amicitiam tantam coniungere, nequaquam ei
impossibile futurum rationalis creaturae humilitatem.... ad sua Rloriae
partecipationem sublimare ». Pier Lombardo non crede che il corpo
sia carcere dell'anima nel senso che sopra si è detto, perchè f)er
es- sere opera di Dio è un bene: ma è pure un carcere nel senso che
il corpo a corrompe e corrompendosi aggrava Fanima. (in ps.
CXLI, 10) «Vel potius corpus est career non utique secundum id, quod deus
fecit ipsum bonum est, sed secundum id, quod comimpitur et aggravat
animam i. e. oorruptio eius quae venit ex peccali, career est».
Altrove chiama il corpo quasi strumento e servo del- Tanima : (in
epist. ad Rom.) « Si corpus, quo inferiore tamquam famulo vel instrumento
utitur anima... ». E cosi pure si legge in un suo sermone : (2P De codem
die : — In passione Domini seu in annuntiatione : — vedi Protois op, cit.
pag. 144) « Domi- nus est spiritus noster, anima tamquam domina,
corpus tanquam servus. Hi tres ini domo una cooperantur et si
oonveniunt in bono, vdr bonus intelligilur ». Che cosa è infatti Tuoino se
non un'aniina fornita di corpo? si domanda Ugo di S. Vittore (1). Però a
que- sto riguardo il Lombardo usa di una certa moderazione; ed il
suo modo di pensare intomo alla persona deiruomo ci fa credere che egli
dà un posto importante anche alla vita (2). Il Maestro delle
Sentenze sul finire del suo libro principe, cioè alla distinzione XLIII
del libro IV, entra poi a discorreire della morte e della risurrezione
del corpo. E fu il padre Michele da Carbonara il primo a far notare
la conformità che vi è tra le dottrine svolte da Pier Lom- bardo e i
luoghi della Divina Commedia che parlano della risurrezione, quantuncfue
la ragione fondamentale di essa data dal Maestro diversifichi in sostanza
da quella data dal Poeta. Nella risurrezione ciascuna anima
separata riprenderà il coqx), ripigtierà sua carne e sua
figura (Inf. VI, 98) quale era nel fiore della età: e sarà
mage^iore allora la sua beatitudine e la sua cognizione : « amplior erit
eorum cognitio ». Ciò è diffìcile a spiegarsi, dice il Maestro. Ma
è certo che nell'anima è un vivo desiderio di ripigliare il corpo;
riunita al corpo Tanima ha perfectum naturae suae modum ed ha ampliorem
cognitionem. Altri che verranno poi, si spingeranno più
addentro nella questione come farà S. Tommaso. Ma, dice il Car-
bonara, il Maestro sta come colui che tira le linee più larghe d'un
quadro, in suU'indeterm inalo; e si legga at- (1) Sent. I,
XV Migm 176: « Quid enim est homo nisi anima habens corpus ? »
(2) Nel sermone 11 (in die Cineris ad poenitentes — .Ms. lat. 18170
in Protois p. 138): «vita praesens messi comparatur et aestati, quia nunc
inter ardores tentationum colligenda sunt futurorum merita praemiorum.
» (3) P. Michele da Carbonara — Dante e Pier Lombardo (Sent
lib. IV dist. 43-49) con prefazione e per cura di Rocco Murari 2 ^ ediz.
Città di Castello Collezione di Opuscoli Danteschi inediti o rari diretti
da M. A. Passerini. 104 tentamente questo
tratto « ^f mmor sU healitudo sanctorum post iudicium; sì leig'gta attentamente
e si vedrà che se vi è trailo che specchi il canto XIV del Paradiso,
questo tratto è desso. La slessa queslfone, gli stessi punti
determinali; ma Insieme rindeterminatezza, il vago, che neirinsieme
domina il Maestro, si risente nel Poeta : Come la carne gloriosa e
santa Pia rivestita, la nostra persona Più grata fia, per esser
tutta quanta : (cperfeobum natuirae suae modum habebit anima».Omne
qaod est, in quantum est, bonum est. Tutta TEtica scolastica
è necessariamente compene- trala della dogmatica teologica. Quella di
Pier Lombardo non diversa in sostanza da quella dei suoi maestri^ si
riat- taeca alle discussioni teologiche intorno alla morale che ai
suoi tempi si dibattevano. Ubero arbitrio.
La prima questione che ci conviene esaminare, è quella che riguarda
il libero esercizio della volontà. La libertà, pensa egli con Ugo
di S. Vittore (Sent. Ili, 9), di cui sente più volle l'influsso, chiede
di poier compiere non solo il male, ma anche il bene. (Sent.
II, XXV, 13) « Verum nobis magis placet ut ipsa libertas arbitrii sit et
illa, qua magi® liber est malum, et alia qua quis liber est ad bonum
faciendum. Ex causis enim variis sortitur diversa vocabula».
Il Lombardie si chiede in appresso quali fattori deter- minano la
libertà umana e ne distingue due, cioè la ra- gione e la volontà.
106 La prima disceme tra il bene ed il male, la
seconda si muove con desiderio spontaneo ad effettuarlo. Ecco la
definizione e la spiegazione del libero arbitrio secondo Pier
Lombardo. (Seni. II XXIV, 5) « Liberum verum arbitrium est
facultas rationis et voluntatis, qua bonum eligitur gratia assistente,
vel malum ea desistente. Et dicitur liberum, duantum ad voluntatem quae
ad utrumlibet flecti potest. Arbitrium vero, quantum ad rationem, cuius
est facultas et potentia illa, cuius etiam est discemere inter bonum
et malum et aliquando quidem discrelionem habens boni et mali, quod
malum est eligit, aliquando vero quod bonum est...,.» e più avanti:
(Sent. II, XXV, 1) « Liberum ergo dicitur arbitrium quantum ad
voluntatem, quia voluntaTie moveri et sponta- neo appetitu ferri potest
ad ea quae bona vel mala indicet vel indicare potest ». Il
Lombardo si affretta poi a spiegare un passo di S. Agostino, ove questi
afferma che l'uomo perde il libero arbitrio dopo il peccato, onde si
legge nei Vangeli: (2 Pel. 2) A quo erdm devictus est, huic servus est
(Vedi August. enchirid. 30, 9 Migrie 40). TIon ciò non si
vuol dire che l'uomo perde intiera- mente la libertà, ma solo quella che
ci trattiene dalla mi- seria e dal peccato (Seni. II, XXV, 8) <( Ecce
liberum arbitrium dicit (scil. Augustinus) hominem amisisse; non
quia post peccatum non habuerit liberum arbitrium, sed quia libertatem
arbitrii perdidit non quidem a necessitate, sed libertatem a miseria et
peccati. Est namque lib^rtas triplex, scilicet a necessitate, a peccato,
a miseria. A necessitate et ante peccatum et post aeque liberum est
arbitrium. Sicut enim lune cogi non poterai, ila nec modo. Ideoque
voluntas merito apud deum indicalur, quae semper a necessitate libera est
*i iiiunquam cogi potest. Ubi necessitas, ibi non est libertas; ubi
non est libertas, nec volunlas et ideo nec merilum. Haec libertas in
omnibus est tam in malis quam in bonis..». Il Sentenziario perciò
nel suo Commentario nei Salmi (rimprovera coloro che attribuiscono alle
stelle ed al fato, la colpa dei loro peccati facendone in certo modo
respon- sabile Iddio, che è Tautoire del creato : (in ps. XXXI, 6)
« Ila clamel aeger ad medicum, et dicat : Cum libero ar- bitrio creavi!
me Deus: ideoque si peccavi, ego peccavi non fatum, non fortuna, non
diabolus, me coegit : sed' ego persuadenti consensi ».
io: In conclusione, il maestro delle Sentenze^ come già
si è veduto, definisce il libero arbitrio un& facoltà della ragione'
e della vodontà colla quale si sceglie il bene col soccorso della grazia
od il male se la grazia ci manca. Ma questa definizione, aggiunge
l'autore, non conviene a Dio né ai santi che par essere incapaci di peccare,
hanno un libero arbitrio più perfetto. 11 libero arbitrio di Dio è
la sua volontà ònnisapiente ed onnipotente, che fa senza necessità e
liberamente tutto ciò che le piace. Quella degli angeh e dei santi non
può più portarsi verso il male, perchè essi sono coiiifermati neha
beatitudine e neilla grazia. L'uomo dopo il peccato ha pure conservato
il suo, ma perchè egli voglia il bene gli è necessaria la grazia
del Redentore. La teoria del libero arbitrio, che il Maestro
professa, intesa a conciliaire il dogma coi dettami della ragione,
non sfugge, come è ben naturale, a gravi difficoltà. Cosi egli è
costretto per quaiinto si sforzi di provare il contrario, a mettere
l'uomo in una posizione non del tutto giusta, rispetto alla sua libertà,
poiché se egli fa il male, ne è tutta sua colpa (ideoque si peccavi ego
peccavi — in ps. loc. cit.) quantunqua non possa andare ^nte dal
peccalo, mentre se fa il bene, il merito è tutto di Dio.
(Sent. II, XXVII, 7) « Non tamen sine libero arbitrio proveoiiunt
merita nostra, scilicet boni effectus eo-rumque progressus atque bona
opera quae Deus remunerat in no- Das et haec ipsa sunt Dei dona. Unde
Augustinus (12) ad Sixtum presbyterum: Cum coronat Deus merita
nostra nihil aliud coronai quasn munera sua ». Quamto poi
alla obbiezione che se Dio sa tutte le cose che debbono avvenire, noi non
possiamo fare in altro modo di quello che a lui è noto, dal che ne
verrebbe la nega- zione di ogni libertà umana, egli non oppone nulla in
que- sto punto dove espone la teorica del libero arbitrio. Ma noi
possiamo conoscere il suo parere in proposito, purché noi ci riportiamo a
quel punto del libro P, ove parla della prescienza di Dio, allora assai
dibattuta dalle sette sco- lastiche, come quella che sembrava condurre a
riconoscere il fatalismo. Il Maestro delle Sentenze per rispondere
a questo argomento, fa uso della distinzione così nota agli
scolastici del senso composto e del senso diviso, ovvero del senso
congiuntivo e del disgiuntivo; cioè che non si può dare che Dio abbia
preveduto una cosa e ch'essa non avvenga, ma è possibile che essa non
avvenga, e allora J06 Dio non Tavrebbe
preveduta. Sottigliezze a cui la scuola dogmatica è costretta a ricorrere
ogni qualvolta vien mes- sa ale strette. Ondie il Pomponnazzi nel suo
libro: De Fato, libero (mbitrio et providentia Dei (V lib. Bàie
1525) ove si sforza egli pure si conciliare il destino la provvi-
denza e la libertà deiruomo, finisce col non saper dare altre soluzioni
che quelle poste innanzi dalla scolastica, confessando però che esse sono
piuttosto delle illusioni che delle vere risposte: Videntur potius esse
illusiones islae quam respomiones (lib. III).
Felicità. Fine a cui tendiamo tutti é la felicità :
(sent. V, XLIX, 2) « Beatos autem esse velie, omnium hominum esl ».
Il Lombardo ricorda le parole di Cicerona: Beati certe omnes esse
volufnus, ed è lontano dal contraddirvi, ma anzi ne deduce che poiché
tutti desiderano la felicità, tutti ne hanno dentro di sé la conoscenza:
«... sequitiu' ut omnes beatam vitam sciant » (1). Vediamo
ora come procede il Lombardo neiranalisi della felicità. Sul principio
del primo libro egli comincia dal distinguere la differenza che v*è tra
usare di una cosa e fruirne. Usare d'una cosa è adoperarla a compiere
la nostra volontà, fruirne è usarne con gioia, è aderirvi per amore
e ciò non avviene in questa vita. (Sent. I, I, 3) « Uti est
assumere ali<juid! in f acultateni voluntatìs. Frui autem est, uti cum
gaudio, non adhuc spei sed jam rei... et ita in hac vita non videmur frui
sed tan- tum uti, ubi gaudeamus in spe, cum supra dictum sit, frui
esse amore dnhaerere alieni rei propter se : qualiter etiam hic multi
adhaerant Deo». (1) Dantb — Purgatorio XVII 127-9:
Ciascun confusamente un bene apprende Nel qual si queti T animo, e
desira: Perchè di giugner lui ciascun contende.
l09 E poiché questo sembra far iidsceire eontraddiàoni,
egli la rivolse così chiarendo il suo concetto. Tanto qui come nel futuro
si può in certo modo fruire della beati- tudine eterna, ma mentre in
cielo noi la godremo in modo perfetto perchè, come dice S. Agostino,
l'avremo vicina qui in terra, non la godiamo che per riflesso ed è ciò
che ci fa sopportare i travagli della vita. (Sent. I, I, 4) «
Haec ergo quae sibi contradicere vi- demtur, sic determinamus, dioente»,
nos et hic et in futuro frui : sed ibi proprie et perfecle et piene ubi
per speciem vi- debimus quo fruemur, hic autem, dum in spe
ambulamus fruimur quidem sed non adfeo piene... Idem (scil. Augu-
stinus) in Uh. de Doc. christ. ail (lib. I, cap. 30) : Angeli ilio
fruentas jam beati sunt quo et nos frui desideramus; et quaai'timi in hac
vita iam fruimur, vel per speculum, vel din aenigmate, tanto nostram
peregrinationem et lolera- bilius sustioemus et ardentius fruire cupimus
». In questa teorioa il Lombardo si liem stretto a S. Agostino ed
esprime 41 medesimo comcetto che più tardi sarà svolto da S. Tom-
maso col fine mediato ed iumiediato. guanto alla questione, se si
possa gioire della virtù per sé stessa o solo come mezzo di acquistare la
vera fe- licità, egli si prova come è suo metodo di conciliare la
prima opinio*ne, che sembra confortata da un passo di S. Ambrogio, con la
seconda professata da S. Agostino, affermando che la virtù può essere
amata per sé slessa, ma che non dobbiamo fermarci lì, ma bisogna tendere
ad un fine più elevato e riferire la virtù a Dio come fine ul-
timo. Amoralità d^Ue aztooi urpaoe* Quali
sono le azio^ni umane che si debbono chiamare buone secondo il Lombardo e
quali cattive ? Egli risponde suirautorità di S. Ambrogio e di S.
Agostino, che ciò che fa buona o cattiva una azione è Tintenzione. Ed in
ciò non discorda da Abelardo che afferma appunto nelFEtica (cap.
XI) : « Unde ab eodem homine cum in diversis temporibus
Ilo idem fiat, prò divemsitate tametn inlentionis eius
operatio modo bona modo mala dicitm* ». Infatti il Maestro nel
libro secondo d^e Sentenze (dist. XI, 1) dice quasi allo slesso
modo : « Nam simpliciter ac vere sunt boni illi actus, qui bonam causam
et intentionem id est qui voluntatem bonam comitantur et ad bonum finem
tendunt: mali vero sim- pliciter dici debent qui perversam habent causam
et inten- tionem ». E cita a questo proposito le parole di S. Ago-
stino : (enarr. in ps. XXXI, 4) « Bonum eriim opus intentio facitìK
In conseguenza è un'azióne buona confortare i po- veri se si fa per
compassione e misericordia : ma la stessa azione diventa cattiva se la si
fa per ambizione. Vi sono tuttavia delle azioni le quali sono cattive per
sé stesse e che la intenzione non può rettificare: tali sono la
men- zogna e la bestemmia. Ksse poi sono cattive in quanto
sono privazioni dell'es- sere, perchè ogni cosa, in quanto è, è buona :
Omne quod est in quantum est bonum. L.a le^^e
fT)orale« Stabilito cosi guali sono le azioni buone o
cattive, & seconda dell'intenzione, restava a determinare quale è
il caratieire morale che deve contraddistinguere le nostre a- zioni
e qual norma si deve necessariamente seguire per muovere al bene : dione
insomma dove deve dirigersi- la buo- na intenzione. In coerenza colle
dottrine da lui professate, •il Maestro pone la regola delle azioni umane
nella legge divina : perciò il peccato consiste in una infrazione
alla legge divina (1). (Sent. II, XXXV, 1) « Peocatum est
omne dictum vel factum vel concupitum quae fit contra legem Dei, . . Quid
est ipeccatum nisi legis divanae praevaricatio? ». (1)
n Lombardo ammette altresì una legge naturale, lex natu^ raliSj la quale
ebbero anche i Gentili, ma questa non basta a con- durre a
salvamento. Ili Nofli è qui il luogo di indicare
il difetto originale d una tale dottrina che nel porre fuori di noi la
legge del nostro operare, si condanna alla, contraddizione. Mi basterà
ri- coirdare che essa si presenta assai più sviluppata in S. Tom-
maso, il quale pone innanzi iJ concetto aristotelico della ragione umana,
la quale è la natura dell'uomo in quanto è uomo: ondfe poiché ogni cosa è
buona quando è con- forme alla sua propria natura, ogni cosa sarà buona
ri- spetto airuomo quando sarà conforme alla ragione. Ma questa
stessa ragione e natura umana ripete il suo potere regolativo dalla
natura divina : « quod autem ratio umana sit regula voluntatis humanae,
ex qua eius bonitas mensu- retur, habet ex lege aeterrm quae est divina
». (Sum theol. II. 2.). In conclusione la filosofia
patristica e scolastica, si accorda nel porre il principio normativo
dell'operare u- mano fuori aeiruomo stesso, cioè nella sapienza
divina identica essenzialmente col suo volere. Bei}e ^
n)ale. Abbiaino veduto come Pier Lombardo affermi che
tutto ciò che è, in quanto è, è bene : « Omne quod est, in quantum est,
est bonum » (Sent. II, XXXVI, 37). E poi- ché l3io é d'autor© di tutto
ciò che esiste Dio é rautore di ogni bene. (Seoit. I, XLVI,
12) (Deus) omnium quae sunt auctor est, quae in quantum siuiif bona
sunt. Ma non viieme di conseguenza che Dio sia l'autore an-
che del male, giacché il Lombardo come tutti gli Sco- lastici, concepisce
il male come gualche cosa di propria- mente negativo, cioè come la
privazione o la corruzione del bene. (Sent. II, XXXIV, 4) «
Malum enim est comiptio yel privatio boni... Quid enim aliud quod malum
dicitur nisi privatio boni?». Anche S. Agostino nel libro De
civitate Dei (XII, 7 Migne 41 p. 355) parla di causa deficiente e non
efficiente del cattivo operare « Nemo igilul* quaeral ellkientem
cau- sani malae volunfalis: non enim efficiens est, sed defl-
ciens, quia nec illa effectio est sed defeclio ». E di qui trae
buon argomento il Maestro a confutare l'obbiezione di eoJoro che
insinuano che Dio essendo au- tore di tutto ciò che esiste, deve essere
altresì autore del peccato. (Sent. I, XLVI, 12) « Quocirca
mali auctor non ^t (scil. deus) et ideo ipse summum bonum est, a quo
^n nullo delicere bonum est, et malum est deflcere. Non est ergo
causa deficiendi id' est tendendi ad jion esse, qui, ut ita dicam,
essendi causa est, quia omnTum quae suoit, auctor est, quae in quantum
sunt, bona sunt... Ecce aperte habes quod deficere a deo... malum est
». L.oiT7bardo nel cielo del 5oIe. Entrato €on
Beatrice nella sfera del sole Dante, ap- preoide diairanima di S. Tommaso
chi essa sia e chi siano i fulgor vivi e vincenti Sella sua
ghirlanda. Se si di tutti gli altri esser vuoi certo, Di
retro al mio parlar ten vien col viso * Girando su per lo beato
serto, QuelValtro fiammeggiare esce dal riso Di Graziano, che
Vano e l'altro foro Alutò si che piace in Paradiso. L'altro
ch'appresso adorna il nostro coro Quel Pietro fu che con la
poverella Offerse a Santa Chiesa suo tesoro {Par, X, 100,
108;. Qui Francesco Buti commenta : con la poverella offerse
fece la sua offerta della sua fa- cilità, come la po-verella della quale
dice rEvangelio di Santo loanni, che offerse poco, perchè «poco aveva,
ma con buon cuore e peirò Iddio accettò più la sua offerta che
quella del ricco, che, benché offerisse molto, non offerse con si buono
animo. Commento di Francesco Buti sopra la Divina Commedia per cura di C.
Giannini Pisa I più dei oammentatapi ricordano le prime parole del
prologo del Liber Sententiarum : « Cupientas aJiquid de penuria a-c
temiitate nostra cum paupercula in gazophilacium Domini miUere
ardua scandere et opus supra vires nostras praesumpsimus». Le
parole di Pier Lombardo chiaramente fidludono al noto episodio della
poverella, riportato da San Luca (XXI, 1, 4) e da S. Marco (XII, 41, 44)
e nooi da San Giovanni come erroneamente riferisce il Buli.
Dice San Luca: « Respiciens autem vidit eos, qui mittebant
munera sua in gazophilacium diviles. Vidit autem et quamdam vi-
duam pauperculam mittenlem aera minuta duo. Et dixit: Vero dico vobis,
quia vidua haec pauper, plus quam omnes misit. Nam omnes hi ex abundantia
siti miserunt in munera Dei : haec autem et ex eo, quod deest illi,
omoiem victum suum quem habuit misit ». Così ad un dispreeso
racconta San Marco con leggere vananti : solo è da notarsi che egli
chiama la donna uidua una pauper e vidua hxiec pauper e non mai col
diminu- tivo tanto affettuoso di paupercula che per essera stJ^lo
scelto da Pier Lombardo fa pensare ch'egli si sia riferito in special
modo al passo di San Luca della Volgata. Ma ciò poco importa : importa
invece assai il notare come l'umiltà della vidua paupercula avesse
toccato «pro- fondamente il cuore di Pier Lombardo il quale nel
vergare quelle parole doveva forse ricordarsi con teneirezzìa di
un'altra vedova poverella di un lontano paese di Lombar- dia : e come
Dante che nei veirsi che dedicava ai persooiaggi della sua^ Commedia
soleva «per lo più introduirre Tele- mento soggettivo dei ricordi ed
affetti personali non senza ragione ricordò quel punto e quello solo
dell'opera di Pier Lombardo. L'influenza che il ma^fister
Petrus esercitò sul pen- siero del Divino Poeta non è stata ancora tutta
quanta spiegata e compresa nella sua giusta entità. 11 tkeologus .
Dantes nullius dogmatis expers dà a S<a«n Tommaso il posto d'onore che
gli conviene, ma a San Tommaso com- mentatore di Pier Lombardo. Se Dante
e San Tommaso non si possono ancor dire contemporaiiiei sono vissuti
a poca distanza di tempo e sono entrambi commentatori e perfezionatori
dell'opera ancora rozza si ma feconda di Pier Lombardo : l'uno raggiunge
finalmente colla sua ma- 115 unifica somima quel
connubium fidei ac rationis che il Magister aveva solo tentato, Taltro
ina canta il trionfo glo-rioso. Che Dante avesse letto il
Rbro delle Sentenze con mollo amore ci è provato non solo dai versi
succitati, ma da numeirosi passi del Paradiso ove come diremo tosto
rimitaziione risulta evidente : ed io sarei anche propenso a credere che
rAlighieri non si fosse Termato alla lettura di quel libro solo ed a
tutti noto di Pier Lombardo. Qui sono tratto ad accennare
fuggevolmente alla famosa questione del viaggio di Dante a Parigi :
questione ove troppo, eletti ingegni si cimentarono perchè io
presu- ma di recare qualche nuovo raggio di luce.
Dante zill'Uoiversiià di Parigi. Giovanni di Serra
valle comme«ntatore del secolo XV racconta : « Anagogico
dilexit Theojogiam sacram, in qua diu studuit tam in Oxoniis in regno
Angliae quam Parisius in regno Franciae : et fuit Bachalarius in
Universitate Pa- risiensi in qua legit Senlentias prò forma magisterii :
legit Biblia : respondit omnibus doctoribus, ut moris est, et fecit
omines actus qui fieri debent per doctorandum in Sacra Theologia ».
Egli continua poi a dire che Dante non potè ottenere la laurea
perchè gli mancò il denaro per la licenza (deerat pecunia). Onde tornò in
Firenze per acquistarlo, optimus artista, perfectus Theologus e quivi
fatto «priore si diede ai pubblici uffici e più non si curò della
Università diPa- rigi (1). ,^ Il (racconto di Giovainni di
Serravalle fu accolto dairO- zanam e dairArriviabene con maggior serietà
che mm me- (1) G. TiBABOSOBi — storia della leti. Hai.
Modena 1789 Tom. V. p. 490 - Fratria F. de Serravalle Translatio et
comentum totius libri Dantis Aldighieri cum textu italico Fratria Da
Colle, nunc primum edito — Prati 1891 - (Jiachetti in fol. ritasse.
Secondo un tale» racconto Dante sarebbe andato a Parigi nella sua
giovinezza contro raffestazione del Vil- lani, del Boccaccio, di
Benvenuto da Imola che fanno il viaggio degli ultimi anni. Ed il chiaro
professor Cipolla osserva che è appena credibile che Dante fossei in
cpiel tempo cosi spirovviiyto di credito da non potere ottenere la
somma che gli era necessaria : onde giudica il racconto di poca
probabilità. Ma TinverosimigHanza di lutto il rac- conto appare manifesta
quando un poco si pensi al modo come era organizzata la facoltà teologica
di Parigi ai tempi di Dante. Il buon vescovo di Fermo volendo
mostrarsi molto ap- profondito nella conoscenza dei gjradi accademici
com- mette degli errori grossolani : et fuit Bacchalarius in Uni-
versitate Parisiensi in qua legit Senlentias prò forma Ma- gisterii:
legit Biblia ». Ma si è veduto nella parte storica del lavoro
che Tanno in cui il baccelliere éiventsiV aSententiarius cioè
commentava in pubblico il libro delle Sentenze non pre- cedeva, ma
seguiva la spiegazione della Sacra scrittura: dopo quell'anno il
baccelliere si chiamava baccalaureus forrnatus che risponderebbe mutatis
mutandis al nostro laureando. Perciò Giovanni di Serravalle per essere
esatto come vuol parerlo, avrebbe dovuto invertire l'ordine delle
parole. Ma non vogliaino essere molto esigenti su ciò: c'è ben
altro. Gli omnes aclus qui fieri dehent per doctorandum in
sacra Theologia (1) erano e forse Giovanni di Serra- valle lo ignorava, i
sermoni (sermones) e le conferenze (controversia^) che si dovevano tenere
nei .tre o quattro anni che precedevano la licenza ed infine le tre
dispute pubbliche di cui la più solenne veniva chiamata Sorbonica:
ma la licenzia (licentia) che veniva dopo tali prove accor- data e che il
Serravallei chiama con termini vaghi inceptio, conventus^ non esigeva
alcuna pecunia di sorta. (1) Il SerravaUe e tutti i
Commentatori si riferivano aU' accenno Dantesco; si come il
baccelUer s'arma e non paria, fin che il maestro la question
propone, per approvaria e non per terminarla. Par. XXIV 46 -
i8, Infatti già il concilio Lateranense del 1179 aveva proclamato
due punti fondamentali : la necessità e la gra- tuità della licenza ed un
tale decreto trovò po'sto nelle De- finire di Gregorio' IX. Solo per
eccezione fu eoncess^o sul finire del Xll a Pietro Comestore, cancellario
di Nótre Dameij per i suoi pregi personali, da Alessandro III, di
pre- levare uoiia piccola rimunerazione per la concessione della
licenza. Ed ancora il Regolamento di Roberto di Courcon del
1215 insisteva sulla concessione gratuita ed ìncondiziomita della licenza
: ed una tale disposizione veniva conifermata nelle reigole aggiunte dal
papa Gregorio II di cui cono- sciamo il benefico intervento nei dissensi
tra rUniversità ed di Re di Francia. Nella famosa bolla Parens
scientia- rum (1231) viene prescritto formalmente « che il cancel-
liere non potrà esigere da coloro ai quali conferirà la li- cenza né
giunamento, né obbedienza, né denaro, né cau- zione, né promessa ».
Ora è noto a tutti che lo statuto di Roberto di Courcon confermato
e completato dalla bolla di Gregorio IX, la quale fu pure rinnovata senza
modificazione da Urbano IV nel 1261, continuò ad essere per tutto il
secolo XIII 'a legge fondamentale deirUniversità e pertanto della
facoltà teologica di Parigi. Per il che sembra a me che il
fondo storico del rac- conto di Giovanni di Serravalle venga a mancare
sempre più di consistenza. Carlo Cipolla nel suo dotto ìavaro
Sigieri nella Divi- na Commedia, dopo avere ossei-vato che il Sigieri
ricor- dato tra i beati del canto X deve ritenersi come Sigieri di
Brabante, e non va identificato col Sigieri de Conrtrai {Le Clero)
visisuto in epoca diversa, e neppure con quello di cui si iparla nel
sonetto del Fiore (Castets) avverso a San Tommaso, crede probabile, che
Dante fn a Parigi negli ultimi anni di sua vita ed airincirca negli anni
1316-1318 e non vi ascoltò le lezioni di Sigieri di Brabante perché
questi era morto avanti il 1300 (1). L'abate Feret tornando su
questa questione nel volu- me II deiropera cit. (cap. Les Sorbonnistes)
crede errat-ì così, l'opinione del Le Clerc che del Castets, combatte
^e (1) Giornale storico den« Lett. It. Voi. Vili — Torino
LoescUer 1886 p. 54 - 139, 118 asserzioni
di Gaston Paris, ed airiimesso che il Sigieri di Dante è il Sigieri di
Brabante che quitla cette vie en repu- tation d'une orthodoxie parfaite,
non si discosta mollo dalle oonclusdoni del professor Cipolla che mostra
di mion conoscere (1). Questo sembrerebbe coaidurci assai
fuori del nostro ar- gomento se una buòna osservazione del prof. Cipolla
a questo proposito della partecipazione dell'Alighieri alle lezioni
dd Sigieri non mi facesse tosto ritornarvi. Egli afferma che « per
ciò che riguarda Sigieri, altro è ammettere nel luogo Dantesco vm ricordo
personale, ed altro è credere che questo ricordo personale sia tale
dav- vero da comprenderà poS la partecipazione dell'Alighieri alla
scuola di quel filosofo. Alle scuole di Parigi i libri del Sigieri eratno
rimasti auasi come lesti agli scolari, tanta Sama le sue lezioni vi
avevano lasciato ». Cosi per ciò che riguarda Pier Lombardo, io
ag- giungerò che oer spiegare la profonda conoscenza che Dante ebbe
del Libro delle sentenze, non è necessario di credere col Serravalle che
Damle abbia commentato le sen- tenze nella scuola di Teologia perchè lo
studio che in quei tempi se ne faceva in Parigi, la fama che vi godeva e
che già aveva provocato i lamenti di Ruggero Bacone, certo potevano
non poco contribuire a farglielo conoscer© più in là del frontìsipizio e
del prologo. Per fama egli conobbe a Parigi Sigieri, per fama
vi conobbe Pier Lombardo ed entrambi egli ricordò con par- ticolar
cura nei suoi versi ove palpita un affetto personale.
Influen2nL di Pier Lorpb^rdo nell'Operai di Dante* Ma
se poca o nessuna influenza ebbe la filosofìa di Sigieri neiropera di
Dante, molta invece ne ebbe in quella di Pier Lombardo. Un
esempio: Speme dissHo, è un attender certo Della gloria
futura, il qual produce Grazia divina e precedente merlo.
{Par, VI 67, 69) (1) P. Fkrkt La f acuite de Tkeol, de Paris
- Ricarcl 1898 Tom, II. Parte II. 119
Pietro di Dante, TOttimo, la Chiosa Cassanese, ricor- dano la
definizione di Pier Lombardo: «est spes certa exjeiotatio futurae
beatitudinis veniens ex Dei gralia et mentis praecedentibus ». (Lib.
Seni. IH. dist. 26). Iacopo della Lama, rÀnonimo rioooimno assai
meno opportunamente a San Toit^màso: spes est motus appe- Wiiae
virtutis consequens apprehensione boni fulnri ad- nui possibilis adiptsci
». Ho citato, per ppoporre un esempio, uno dei tanti luoghi
ove il Lombardo viene dal poeta preferito all'Aqui- nale, o meglio dire
ove cosi San Tommaso come Dante attingono -alla medesima fonte: Pier
Lombardo. Qui si ha una traduzione letterale delle parole del Maestro che
appaiono anche in San Tommaso sotto una veste più fi- losofica. Ma non è
questo il solo punto ove un tale raf- fronto è possibile. Fu
uno dei più assidui, il Senatore Carlo Neg'-;ni, a far notare la ^ainde
importanza che ebbe il libro del Maestro nel pensiero di Dante.
JNella prefa/jine al volume. .V. della Bibbia volaare ri884),
accennando a Pier Lombardo della cui opera si giova Tespositore dei salmi
di quella Bibbia, promise di occuparsene : « In un altro mio scritto dove
avrò Taiuto di un teologo profondo, e mio buon amico, farò il
confronto tra le «proposizioni teologiche della Divina Commedia e
quelle dei libri delle Sentenze: ed il lettore vedrà che le prime non
sono altro che Tespressione poetica delle secon- de, fedelissima e latta
con invidiabile precisione ». Di- sgraziatamente il Negroni occupato in
altri lavori, non potè adempiere .alla sua promessa, ma dando esempio
dì larghezza d'animo, consigliò ed aiutò Tamico suo C. Car- bone,
(P. Michele da Carbonara), poi prefetto Apostolico deirÉritrea,
nell'opera a cui egH non poteva attendere, e ne promosse la
pubblicazione. Nel 1890 Frate Michele da Carbonara pubblicò infatti
Slcuni Studi Danteschi (1) e (1) Tortona Tip. A. Rossi 1890 —
Stttdi Danteschi Voi I. Dante e S. Francesco ~ Voi II. Dante e San
Bonaventura. Nella Biblioteca Negroni si trovano nel carteggio
privato le lettere che il Carbone indirizzava a Carlo Negroni piene
d'erudizione e di affetto per l'illustre amico. Trov.ansi pure tra i
copiosi ms. due fa- scicoli; n. 26: Pier L. nel Paradiso; n. 27: Appunti
Danteschi. Essi contengono citazioni, note erudite che il Negroni veniva
man mano scrivendo. La malattia e la morte tolsero il modesto studioso e
gene- roso filantropo aUa tranquilla ed utile sua operositét
letterarii^. 120 nel volume I. dedicato al
Neuroni, prese in esame» il I\' Libro delle Sentenze collo studio: Dante
e Pier Lombardo. Questo appunto- che è il migliore ed il più originale,
entrò poco dopo inella collezione di opuscoli inediti e rari
diretta da G. L. Passerini (N. 44-45) per cura di Rocco Murari. In
esso il Carbone che si limita «all'esame delle distinzioni 43-49 del IV.
delle Sentenze, conclude che il seme che è nel libro delle Sentenze di
Pier Lombardo mostra i suoi fiori ed i suoi frutti ini Dante.
Nella tornata del 19 Aprile 1891 airAccademia Ponta- niana, il
socio residente Alberto Agresti le^e una memo- ria dal titolo: Eva in
Dante ed in Pier Lombardo (1) ed anch'egli ricordò a proposito di questi
studi, Tamico Ne- groni e lo studio di frate Michele da Carbonara.
Ponendo a raffronto i passi danteschi ove vien citala Eva (tacendo
di tre che non danno alcun ^udizio della sua colpa : (Purg. e. Vili v. 99
- C. XXIV, v. 116 - C. XXX V. 52) uno comune con Adamo (Purg. 6. XXVIII,
v. 142); gli altri (Purg. e. XII, v. 70; Par. e. XIII, v. 37; Purg.
e. XXIX, V. 23; Purg. ò. XXXII, v. '2), ove si dà un giu- dizio
sfavorevole di Eva ed il passo del De-Viilgari Eloquio ove Dante chiama
Eva praesumptuosissimam), cerca da quali letture Dante ricavò il severo
giudizio. Combatte To- •pinione di V. Imbriani, (Studi danteschi.
Firenze, Sansoni p. 42) che coIFesempio del Boccaccio vuol dimostrare
'i& scarsa erudizione teologica di Dante. Nella testimonianza
di San Tommaso {Summa, P. II, 29-153) Isidoro {Sentent, l^ib. II. e.
XVII), Sant'Anselmo {De pec-orig. e. 9), Ugo da S. Vittore, San
Bonaventura non trova la ragione delli eccessiva severità deirAlighieri,
bemsì in Pier Lombardo (Lib. II. dist. 22) che così si esprime:
« Adamo non istimò vero ciò che il diavolo aveva sug- gerito; stimò
di peccare in maniera da esserne perdonato. Forse come vide che la donna,
gustato il frutto, non era peranco morta, prevaricò e volle ainch^'egli
fare esperimen- to del legno proibito. Più però Ta donna, perchè
volle usurpare l'eguaglianza della divinità e levata in superbia
nimia vraesumptione^ credette così doversi avverare. Adamo non
volle contristare la donna, ma certo non vinto da carnale concupiscenza,
non sentila peranco in (1) Napoli, Tip. della R. Università
1891, lui, ma per una certa amichevole heoievotenza per la quale il
più delle volte avviene che si offende Dio per non of- fender l'amico. In
un certo modo Adamo fu anch'egli de- ceptus ! Nella donn<a /fu majoris
tumoris praesumptio : ella peccò in sé, nel prossimo , in Dio : l'uomo
solo ui sé ed in Dio ». E l'Agresti finisce insomma col
concludere che « stu- diare la D. Commedia al lume dei libri delle
Sentenze è tutto un lavoro nuovo che manca alla letteratura dante-
ca ». A me non resta che augurarmi che un tale 1' si compia e che una
feconda curiosità subentri alla sterile dilRdenza nelFaprire il libro di
P. L. che Dante non certo per cura della rima chiamava il suo tesoro.
AGGIUNTA NECESSARIA: I ìinyiìì dell'erudizione. Ristrettezza
di tempo mi ha impedito di dare, com'era mio desiderio, maggior
svolgimento a questi insufficienti cenni sull'influenza esercitata dal
maestro delle Sentenze sull'opera di Dante e non sulla Divina Commedia
soltan- to. Dell'utilità di una maggiore e più profonda conoscenza
di tali rapporti, è prov:a quanto si è venuto in questi anni scrivendo
dagli studiosii di Dante coll'intento in verità non sempre raggiunto di
recar "maggiore luce airinterpreta- zione' del poema dantesco.
Ancora in un recente fascicolo del Bollettino della Società
Dantesca Italiana (Settembre 1912) E. G. Par«odi m una dotta recensione
consacrata ad un apprezzato studio del prof. Surra su La conoscenza del
futuro e del pre- sente nei dannati danteschi (Novara, Tip. Guaglio,
1911), si vale del confronto colla dottrina del Maestro delle Sen-
tenze per meglio chiarire i dubbi che le parole di Farinata non sciolgono
sul modo di conosceniza dei dannati. Contro la tesi del Surra, che
fortificandosi del concetto delFìrra- zionale nell'arte, ampiaonente
illustrato da G. Fracoaroli, vuol chiudere il passo ^ai diritti
3eireru3ìzioaie, il Pa^rodi dimostra, citando la 50* Distinzione del IV
delle Sentenze : Ve animabus damnatorum si qua habent notitican
eorum quae hic fiunt, come Tesposizione di Farinata cresce d'im-
portanza venendo a combaciare colla dotlrin<a professata dal Maestro.
Ed è certo che se la contraddizione non può essere evitata dal pensiero
umano, specie cpiando s'aderge sulle ali della poesia, tanto in Dante
come in Pier Lom- bardo, scola5?tóci entrambi, v'è Tidentioa
«preoccupazioaiei di sfug^rle colla cura più scrupolosa. Non
si può riconoscere tuttavia all'erudizione il dirit- to di andar troppo
oltre, specie nelle sue conclusioni, perchè Terudizioflie è alla poesia
come la ragione è alla fede, che il sapere medioevale riconosceva potene
illumi- nare senza spiegarla interamente. Se anche col
raffronto più minuto dei passi danteschi ooiropera del Lombardo (non
limitato alle Semtenze) noi potremo trovare nuove e curiose rispondenze
che ci dimo- streranno le fonti di sapere e d'inspirazione del Poeta
divino, dovremo limitarci a riconoscere nulla più che la materia
preziosa, ma informe trasportata e nobilitata dal- Fopera (in che è il
fatto nuovo) dello statuario. E\ per limitarmi ad un solo esempio,
notevole il modo onde mei Sermoni vengono disposti gli argomenti
morali che il Lombardo distilla da un qualunque versetto biblico:
sono quasi sempre tre i sensi che se ne ricadano ed il nu- mero 3 entra
con una particolare predilezione ìiell armo- nica e spesso sin troppo
misurata distribuzione delle parti nei suoi discorsi (1). Queste ed altre
minuzie di logica ar- Tres igitur tortae pani8 tres sunt
modi dìvinam paginam in- telligendi Triplex igitar pani8 eat intellectus:
tropologicus, scilicet moralis vel historicus; mysticus, idest
allegoricus et anagogeticum Moralis mores componit, exhauriens malos et
confovens bonos; al- legorìcufl mentis acuit oculos ut mysterioram abdita
penetrare valeant; anagogeticus mentes super se effundit ut in voce
exulta- tionis et confessionis, constituto die, e condensis usque ad
domum Dei rapiatur; nam sicut allegoria alitar intellectus, ita anagoge
su- perior sermo vel sursum tendens interpretatur. Moralis, idest
tropo- logicus, est dulcior, historicus facilior, mysticus auctior.
Historicus insipientibus, moralis proficientibus, mxsticus perfìcientibus
congruit.- Sermone: Convertimini fili revertentes . . fine inedita
riportata da Haureau op. cit* chitettura oasi caire a Pier Loonbardo, come
si avverte nello slesso Prologo delle Sentenze', do ve vaino esercitare
il loro influsso nel poeta della Vita Nuova e del Paradiso.
Ma non dal solo Pier Lombardo, bensì da tutta 'a scienza teologica,
Dante raccolse mei grande specchio ustorio della sua mente, la luce che
brilla nel suo divino Poema. Né possiamo comprendere come uno
studiotso deìlla coltura del prof. Amaduocd, possa restringere nel-
rarido opuscolo XXXII di San Pier Damiano, quasi l'unica tonte del poema
dantesco, lo schema dottrinale a cui Damte avrebbe informato, con
perfetta fusione della lettera col- l'allegoria^ la Commedia, e
annunciare seriamente che di- stinguendo i 100 canti nelle 42 marcie e
fermate {num- sioni} deirallegorico viaggio degli Ebrei contemplato
dalla modesta fantasia di San Pier Damiano, verrà sostituito
nell'esame del poema ai fondamenti ipotetici, il fondamento scientifico,
gli enigmi di sei secoli, troveranno fàcile spie- gazione e sarà aperta
la via ad una nuova valutazione artistica (1). Ma tale via
non Tha aperta Dante stesso coU'opera sua? (1) Z/'
opuscolo XXXII di S, Pier Damiano fonte diretta della Divina Commedia? in
Grùymaìe Dantesco dir, da G. L. Passerini voi. XXI - Firenze, Dischi. cfr.
E. G. Parodi La fonte diretta della divina Commedia — in Marzocco,
Firenze. A questa trattazione epero far seguire prosslntamefite un
canltolo, su PIER LOMBARDO E LA SCUOLA MEDIEVALE Ohe per l'economia
dei presente iavoro non potè essere inoluoo. Le origini oscure. La nascita
a Lumellogno. L'ambiente nativo. Dipendenza di Lmnel- il^gno dal Capitolo
Novarese — Stato delle scuole novaresi. Pier Lombardo fu allo studio
Bolog^nese? Gap. il — Nell'ombra del cammino . . pag. 25 Alla
scuola di Leutaldo novarese a Reims. « ParisiUiSi » — La « universitas
scholarium. San Vittore. Santa Genoveffa. Nella luce della fam^i. La scuoia di
Nòtre Dame. L'episcopato. La morte. La tomba di S. Marcello. Le onoranze.
L'opera e la fortuna di Pier Lombardo. Le Sentenze. I Sentenziarii. I
detrattori. Il « tesoro ». Opere edite ed inedite. I Seamoni. LA DOTTRINA
FILOSOFICA. Posizione di Pier Lombardo nella filosofia. Metodo. Religione
e sciens&a. Problema metafisico e conoscitivo pag. 8Ì
Teoria degli universali. Teoria ctella oonoscenza. Problema ontologico e
cosmologico. Sostanza ed accidente. Natura e persona. Materia e forma. Causalità.
Spazio e tempo. CosmoJKJgia — Posizione dell'uomo neirunàverso.
Cap. Problema psicologico. Potenzie dell' aiiim.. Natura dell'ajiima. Origine dell'anima.
Relazione tra l'anima e il corpo. Problema morale. Libero arbitrio. Felicità.
Moralità delle azioni umane — La legge morale — Bene e mailie.
Gap. vi. — Lm dottrina scolastica in Pier Lombardo e Dante Pier Lo!ml>ardo
nel cielo del Sole. Dante adl'Università di Parigi. Influenza di Pier
Loonbardo sull'opera di Dante. Aggiunta necesaaria. I limiti
dell'erudizione. Ritratto di Pier Lombardo dall'incisione del Thevet
« Les vrais portraàts ecc. » Paris. Portico della Canonica di Novara da
un'incisione delle « Monografìe Novanesi » MigUo Vene de la VUle de Paris
du coté de Vlsle N. Dame
(antica incisione). A. N ótre Dame de Paris, (antdca
incisione). Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera
esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del
linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica
bisogna aspettare il Corso di lin guistica generale di Saussure, scritto
quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha
in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica,
come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in
esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra
cui il princi pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra
verso segni (Simone 1969: 95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione
agostinia na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco
gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so prattutto medica e
mantica, consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali,
come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri
ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei
signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le
fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato
(''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra
questi abbiamo anche le parole", De Magistro, 4.9). In secondo
luogo, gli stoici avevano individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione
tra il significante (semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che
comun que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua
nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"),
l'elemento in cui significante e signifi cato si fondono, e considera questa
fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente
assoda to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che
non può essere segno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai
proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le
singole paro le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano
elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere
formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla
significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che
ha un carattere psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e
comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus
1957: 72). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter minologie&
È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che
si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie
interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una
triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con
cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo
luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito
dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il
dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio ne
linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito
dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luogo, infine, distingue la res,
che viene definita come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con
l'intelletto, op pure che sfugge alla percezione (De dialect.). È così
possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini:
dicibile vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche
dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della
signifi cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sione
terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente
di una parola: (i) può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessa
come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero
della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii)
oppure può avvenire che la parola, intesa co me combinazione del significante
e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come
avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di
dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin (
198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e
quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione
stoica di léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por
tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui stici
antichi. Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa to
che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici
alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come
"la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci, l
, l , 22, 4), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e
l'enunciato, dall'al tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis
venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo sizione alle
lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione
all'enunciato che porta un sen so completo). Lo spostamento di fuoco dalla
centralità stoica dell'e nunciato alla centralità alessandrina della singola
parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti
solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino
definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica:
"La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può
essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito
come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi bile,
presenta anche qualche cosa alla percezione intellet tuale (animus)"
(ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im plicazione Ponendo
l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione
platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico,
prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag gio; per
Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è
direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa. Ma mentre nel
Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto
iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino
tale rapporto - configura subito come una rela zione di significazione: il
nomt "significa" una cosa (nozione equivalente a quella di
"essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la
sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio ni
teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie
linguistiche precedenti a quella di Agosti no il rapporto tra le espressioni
linguistiche e i loro conte nuti era stato concepito come una relazione di
equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri
guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag gio, in
sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin guaggio veniva
concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per quanto mediato
dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin via
era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo
termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico,
i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere
illustra ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c dove E indica "espressione", C
"contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente
a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello
della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso
mai la dic tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u
nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile
(significato), unità che diviene segno di qualcos'al tro (livello ii).
Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La prima conseguenza
dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco, è che la lingua comincia
a tro varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in fatti
costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a
una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come
quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca
e roma na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili tà di
percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre
la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede
un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al
fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che
qualun que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e
l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di
segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il
modello del segno lingui stico finirà per essere senz'altro il modello
semiotico per ec cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure,
che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per dere il
carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri stallizzato nella forma
degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo
contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La
seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il
problema della fondazione della dia lettica e della scienza (Baratin).
Fintanto ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito
nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile
della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere
di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione semiotica, del resto, convergeva nel
considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla
conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è
allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag
gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co se che
significa. Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni
linguistici nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra
Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del
linguaggio: (i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo
rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente
informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la
presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima
parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente
quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono
le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose,
senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda
parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente
la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in
sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: (i) il primo
caso è quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che
si rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno in
questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza
(De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono scitivo tra
segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co noscere preliminarmente
l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la
conoscenza della co sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa.
La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es sa si collega
anche la presa di posizione, di marca ugual mente platonica, che la conoscenza
delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché
"qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella
per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili
(sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla
conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi
li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione
"teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive lazione che viene
fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia tanto deli'informazione
quanto della verità (De Mag.). Ma anche con questa soluzione
"teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno
spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in
parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi mento, le parole ci
ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci spingono a cercare (De
Mag.) . In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da
un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel
De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo
interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In
effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola
o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura
prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle
lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di
essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo
interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una
conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è
determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.
Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo
è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni
del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.
Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere
comunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello
schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza
potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore
pensato proferito sa pere. È comunque innegabile che se la semiologia
agostiniana presenta un aspet to "teologico", connesso al problema
del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet
to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se
stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni,
alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana
secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni
naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni
conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra slato
secondo la natura del designato: segno/cosa con aggiunte più tarde), ma che
ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e
analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di
se gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in
realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni
sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché
(soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione
combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile
ricostruire tale classifica zione ordinandola secondo uno schema arboriforme
(Bernardelli), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco); cfr. p. 236.
La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a
essere quella porfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i
rami collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune
categorie elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a
metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie
quando definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è
tra cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella
più ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME
------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus,
Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze (significabilis, non significanti nome in
senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.)
altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno
udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili (
virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES" La prima relazione
interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente
venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale
distinzione co me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche
i segni sono delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res che
fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione
di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105):
"In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono
impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il
bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo,
cosciente del la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non
quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro
amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua
testa, né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio. L'articolazione
che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali:
usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ.). Le cose di cui si usa sono
tran sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro;
le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per
se stesse. Nel De Magistro Agostino propone anche un nome per le cose che non
sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso segni: significabilia.
Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun
te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e
cose, Ago stino propone questa definizione di segno nel De doctrina
Christiana: "Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che
produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem)
qualcos'altro". Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di
ricostrui re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la
dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei
testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un
passo del De doctrina Christiana in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale
carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.
I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla
vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De
doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci
sono quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali,
come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi
dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con
l'udito, in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in
effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione
dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare"
(Dedoctr. Christ., II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista Agostino
elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban
diere e le insegne militari, le lettere. Infine vengono presi in
considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi,
come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono
esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che
rivelano, inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti ,
Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i
segni linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in
questa classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno
quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo
crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli
animali tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e
come del resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J.
Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367;
Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na AGOSTINO ben precisa
intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto il
carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data
quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que
sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov, porre
l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale
di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio,
creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in
corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un
significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici Uno dei punti
fondamentali della semiologia agostiniana è costituito dalla ricerca dei modi
in cui si può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta
soprat tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione
semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di
Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno,
per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per
esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato;
per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione
del significato si rende possibile sol tanto nel momento in cui viene
abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino,
quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago stiniana si apre
così, come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale"
della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che
Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex
tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come
composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il
significato. L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri
me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che
non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo
stesso concetto. Si passa, poi, a lni hi/1 , il cui significato viene
individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non
vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad
Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica:
lexl sa rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa
soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del
primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è
che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa
conclusione, pe rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua
decodifica contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a
qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude
nel verso virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa
che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni
negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è
un blocco (una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili
inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di
versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice).” La struttura
implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y,
allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto
al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è
proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che la
semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . 1 In altre opere, al
posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De
Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in
due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico
della pa rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di
"parola", co me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal
parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura
della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è
messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica. Quel
che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due
unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è
prodotto nell'animo per mezzo della parola [di cibile]". La dictio,
inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa
d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito,
in termini propo sizionali, come un antecedente che rimandava a un
conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr.
Lotman-Uspenskij (1975). Refs.: Luigi Speranza, “Philosophical psychology in
the commentaries of Pietro Lombardo and Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Lombardia Grice: “It is
strange that he was called Piero da Lombardia; it would be like ‘a lad from
shropshire.’ ‘Lombardia,’ unlike Ockham, ain’t a townbut a full regionIt’s
different with ‘veneto,’ which is toponymic and metonymic for Venice. But if Milano
was the main ever settlement in Lombardia this would be “Peter, the one from
Milan.” Lombardo Pietro Lombardo Lumellogno Cardano – Grice: “It’s only natural
that he was Pietro Cardano – after the city in Lombardy, Cardano – Plus, the
implicature that he went by “Peter of Lombardy” having been born in Piemonte,
means that the locals never saw him as one of their own!” -- Pietro Cardano – la stirpe Cardano 1600 --.
Familia patrizia di Novara. Pietro
Cardano. Keywords: Cardano, implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cardano” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Cardia: l’implicatura conversazionale del culto del laico – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Cardia
is what I would call the Italian Hart – with a tweak – Italy and religion is
Cardia’s forte – recall that the bishop of Rome has the roots in the ‘pontifex’
of old Rome, so he knows what he’s talking about!” – Grice: “Like me, Cardia
has philosophised, as what the Italians call a professore di filosofia del
diritto, on the ethical versus legal implicatures of the very idea of a ‘right’
(diritto). We don’t have that economy of vocabulary in Engish – calling Hart
the professor of right would be unnacepptable at Oxford!”. Si laurea a Roma.
Clifton has chapel services and a focus on Christianity. This is the Chapel:
here, my son, Your father thought the thoughts of youth, And heard the words
that one by one The touch of Life has turn'd to truth. Here in a day that is
not far, You too may speak with noble ghosts Of manhood and the vows of war You
made before the Lord of Hosts. The magnificent Chapel sits at the heart of
Clifton both spiritually and physically and has played an important part of life.
Topped by a striking copper-clad lantern and built from soft red and
honey-coloured stone, the Chapel provides Christian calm, and forms a powerful
link between past and present. It is a place where the community come to mark
milestones and celebrate successes, and for quiet contemplation or spiritual
guidance. Brass plates placed on the back of the staff stalls mark the
names of all those who have carved out a reputation. High on the walls are
memorials of pupils of another age who died by accident or disease serving the
Empire. One bears the moving epitaph ‘A good life hath but few days but a good
name endureth forever.’ The Chapel was built to a design by C. Hansom. It is a narrow
aisleless building. It is the gift of the widow of W. J. Guthrie. Hansom is given
permission to quarry sufficient stone from the grounds of Clifton for the
purposes of the Chapel building". The Chapel building is licensed by the
Bishop of Gloucester and Bristol. Stato, Chiese e
pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre
2007 ISSN 1971- 8543 Nicola Colaianni (ordinario di Diritto ecclesiastico nella
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari) Quale laicità *
Con questo libro Carlo Cardia si affaccia sul versante polemistico della
letteratura giuridica con la maestria affinata attraverso una copiosa
produzione saggistica e con la non comune versatilità che negli ultimi anni lo
ha portato ad occuparsi dei problemi di tutela non solo delle confessioni
religiose ma anche dei diritti umani. I bersagli della polemica sono indicati
nel sottotitolo: etica, multiculturalismo, islam, non in sé naturalmente ma in
quanto declinati in maniera rispettivamente relativistica, separatistica,
fondamentalistica. Capaci cioè di esaltare le identità oltre ogni limite e di
attentare, quindi, a quello “stato laico sociale” che, dopo secoli di storia
travagliata e i totalitarismi del secolo breve, a cavallo del nuovo millennio
ha trionfato un po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente. Questo carattere
ben si coglie secondo l’autore nella “rivincita dei concordati”. Un fenomeno
effettivamente impressionante, tanto più perché si inserisce in un trend
favorevole alle relazioni con le confessioni, da cui non prendono le distanze
neanche l’Unione europea, in base ad una dichiarazione allegata al trattato di
Amsterdam, e la Francia della Loi de séparation, secondo le proposte della
commissione governativa Machelon1. Da esso Cardia deduce che lo stato è ormai
amico delle religioni, che contribuisce attivamente a sottrarre all’irrilevanza
degli affari privati e a reimmettere nel circuito pubblico, relegando
l’ostilità del laicismo ottocentesco nel museo della memoria. *
Recensione a C. CARDIA, Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo,
islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 202, destinata alla
pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino, n. 3 del 2007. 1 Cfr. F.
MARGIOTTA BROGLIO, su Reset Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista
telematica Dal quale non varranno a riesumarla le “guerricciole”, rinfocolate
dal “micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere un po’ dell’epopea del
passato” e non si accorge che ormai lo stato italiano gli accordi li fa anche
con confessioni non cattoliche e, peraltro, non è l’unico ad integrare le
scuole private e confessionali nel sistema scolastico, ad assicurare
l’insegnamento religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a finanziare
lautamente la chiesa cattolica ma anche le altre confessioni. L’agile sintesi
storico-politica, condotta nella prima metà del libro, consente a Cardia di
avallare questa laicità realistica, che ad altri2 è sembrata più propriamente
“praticistica”. A quella stregua l’autore tratta con sufficienza i rinnovati
contrasti tra stato e chiesa (che pure sono al centro delle preoccupazioni di
altri libri coevi3 ) tanto quanto con drammaticità le sfide suindicate. A
cominciare dal multiculturalismo, che in effetti nella versione spinta si
presenta sotto la forma di un comunitarismo senza coesione. Il “fascino
discreto” che in molti differenzialisti suscitano gli statuti personali, di
medioevale o ottomana memoria, è giustamente visto come una relativizzazione
della laicità: a vantaggio, in particolare, dell’islam. Ovviamente Cardia è
severo con la “partita giocata su due tavoli”: non si può invocare la laicità
contro i “simboli e la memoria del cristianesimo” e a favore di quelli
dell’islam, per cui “verrebbero estromessi i crocifissi, ma sarebbero ammessi
il velo e la preghiera degli islamici”. Ma i termini del paragone sono omogenei
solo apparentemente: il crocifisso fa problema per la laicità non se portato
addosso al corpo, se fa parte del libero abbigliamento dei cittadini (come il
velo o altri segni religiosi), ma in quanto esposto autoritativamente, cioè
imposto, negli spazi pubblici, scolastici, giudiziari. In effetti, è tutta la
seconda parte del libro a risentire di questa drammatizzazione impressa ai vari
scenari. Islam versus cristianesimo. Di là un sistema chiuso ad ogni
interpretazione evolutiva, un’identità fissa e immutabile, di qua una religione
tollerante, aperta all’interpretazione storico-critica dei testi sacri e alla
laicità, la quale in essa sarebbe addirittura “germinata”. La schematizzazione
diventa 2 Per esempio a P. BELLINI nel libro coevo Il diritto
d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità. 3 Come quelli di
ZAGREBELSKY, Lo stato e la chiesa, o di E. BIANCHI, La differenza cristiana, o
di G.E. RUSCONI, Non abusare di Dio. Stato, Chiese e pluralismo
confessionale Rivista telematica inevitabile. In realtà, l’involuzione della
seconda metà del XX secolo, a parte i fanatismi e i terrorismi, non è riuscita
a spegnere le numerose voci laiche dell’islam moderno4 né, a livello
istituzionale, ad annullare, pur frenandola, l’applicazione negli stati
islamici di una legge non religiosa, il kanun, “nel senso laico di ‘legge di
stato’ (…) in contrapposizione alla sharī ‘a” 5. D’altro canto, bisogna
riconoscere che abbiamo tutti sovracaricato il detto evangelico “Quae sunt
Caesaris Caesari, quae sunt Dei Deo” di un significato improprio e
anacronistico, in termini appunto di laicità, che nessun biblista ha mai potuto
avallare (vorrei ricordare qui almeno Giuseppe Barbaglio, che ci ha lasciato
pochi mesi fa: nel suo La laicità del credente non cita mai il versetto di
Matteo). Storicamente poi, anche a voler retrodatare – seguendo Ernst-Wolfgang
Böckenförde6 - alla lotta delle investiture l’inizio del processo di secolarizzazione,
non v’è dubbio che per secoli la chiesa ha sostenuto la supremazia del potere
spirituale ratione peccati o salutis anche nella sfera mondana. E al giorno
d’oggi la più netta distinzione degli ordini formulata dal Concilio non sta
impedendo il tentativo di informare la legislazione italiana al magistero
ecclesiastico: è la chiesa dei no alla procreazione medica assistita (divieto
dell’eterologa, della diagnosi preimpianto dell’embrione), al testamento
biologico, visto come anticamera di pratiche eutanasiche, al riconoscimento
pubblico di unioni civili in qualsiasi forma (pacs, dico, cus, ecc.),
emblematicamente (a luglio alla Camera) al richiamo del principio di laicità
come fondamento di una legge sulla libertà di religione (che pur non tocca la
chiesa cattolica). Neanche Cardia indulge su questi punti. Il suo no è
altrettanto netto. In nome della laicità e contro il relativismo etico. Ma
poiché su quei punti, con varie sfumature, il pensiero laico (di non credenti e
agnostici ma anche di credenti) è per il sì, è evidente che ci si trova davanti
ad una diversa concezione della laicità. Tanto rispettabile nei suoi
riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò antichi o “ancestrali”,
quanto incapace di far capire - per dirla con Jürgen Habermas7 - “quale
ruolo e significato i fondamenti giuridici secolarizzati della costituzione
possono avere per una società 4 Cfr. l’antologia di P. BRANCA e
quelle più recenti di V. COLOMBO. 5 Così ne Il linguaggio politico
dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel libro. 6 Cfr.
BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. HABERMAS, Il futuro della natura
umana. Stato, Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica
(www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971- 8543 4 postsecolare”, come la
nostra. In una democrazia necessariamente relativistica (se, al contrario,
fosse assolutistica non sarebbe democrazia, insegna Kelsen) la laicità alimenta
norme non di supremazia ma di compatibilità, espressive di una vocazione non
paternalistica, ma responsabilizzante, nei rapporti tra stato e cittadini:
visti non come meri educandi, da guidare nelle scelte etiche in base a valori
esterni, ma come persone responsabili delle loro scelte nella propria autonomia
e capaci di mediarle alla ricerca di quella “giusta”8. Una laicità pluralistica
e perciò non espressiva di una sola cultura ma interculturale (come dovrebbe
porsi ormai tutto il diritto secondo Otfried Höffe9 ). Le cui sfide, e il libro
di Cardia stimola ad intraprendere questo percorso di riflessione, non vengono
da una parte sola. 8 In questo senso rilegge il da mi factum, dabo
tibi ius RODOTÀ, La vita e le regole. 9 Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e
diritto penale. LA LAICITA’ IN ITALIA (Carlo Cardia) (Convegno Giuristi
cattolici, 9 dicembre 2006) Sommario. Premessa. 1. La laicità in Italia tra
conflitto e moderazione. 2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento
culturale. 3. Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro
europeo. 4. La crisi della laicità. Laicità ed etica. 5. Cultura laica e
questione islamica. 6. Laicità e multiculturalismo. Ambiguità e prospettive.
Premessa. E’ mia intenzione soffermarmi sulle problematiche attuali della
laicità in Italia, anche perché sono diverse e complesse. Però, penso sia
necessario dare spazio a qualche riflessione storica che ci aiuti a comprendere
meglio le questioni che abbiamo di fronte nel tempo presente. Si tratta, più
che di una analisi organica, di spunti ricostruttivi utili a cogliere alcune
costanti della nostra tradizione. Ho avvertito questa esigenza perché
l’esperienza italiana ha un tratto caratteristico che non si rinviene altrove,
avendo dato vita nello spazio di poco più di un secolo a tre tipologie diverse
di relazioni ecclesiastiche: una laico-separatista, una di tipo concordatario
neo-confessionista, e quella costituzionale che poi si è evoluta nel quadro di
una Europa che ha finito per seguire il nostro modello. Infine, l’Italia sta
vivendo una vera crisi della laicità, in rapporto alla questione etica, e al
multiculturalismo, ed è entrata in quella globalizzazione dei rapporti tra
religione e società che riguarda l’Occidente nel suo complesso. Quindi,
l’esperienza italiana non è comprensibile all’interno di un solo orizzonte
storico-culturale, mentre l’analisi deve mantenere un respiro più ampio e saper
individuare delle linee trasversali di riflessione, dei fili conduttori che
chiariscano il percorso storico complessivo che si è compiuto. 1. La laicità in
Italia tra conflitto e moderazione Il primo filo conduttore che voglio
privilegiare è il rapporto che si è determinato tra conflitto e moderazione,
tra correnti estreme del pensiero laico, e di quello cattolico, e soluzioni
storico- 2 normative che sono state adottate. La storiografia più accreditata
ci ha abituati a interpretare questo rapporto a tutto favore della
conflittualità e a discapito della moderazione. Ancora oggi il conflitto tra
Stato e Chiesa è considerato un tratto eminente della storia italiana, il punto
focale che illumina tutto il resto. Il processo di unificazione nazionale viene
letto alla luce del contrasto tra laici e cattolici, della fine del potere
temporale, della prevalenza della modernizzazione sul conservatorismo
cattolico. Anche l’epoca autoritaria che dà vita ai Patti Lateranensi è vista
in chiave di rivincita cattolica e di sconfitta laica, come un rovesciamento di
fronte rispetto all’epoca liberale. Questa interpretazione resta valida perché
permette di capire tante pagine della nostra storia nazionale, ma può essere
integrata con un’altra chiave di lettura che aiuti a vedere anche i
chiaro-scuri, i toni più morbidi, della storia italiana. Questa chiave di
lettura è quella della moderazione e dell’equilibrio che, pur nelle vicende
aspre che conosciamo, ha segnato la storia italiana. L’Italia è stata moderata
ed equilibrata nel separatismo, in parte nel sistema concordatario del 1929, in
modo speciale nella elaborazione della Costituzione. Quando parlo di
moderazione non intendo esaltare il carattere per così dire compromissorio
generalmente riconosciuto alla genti italiche. Mi riferisco ad un dato
realmente presente nelle nostre leggi, in ampi settori della cultura laica e di
quella cattolica, che ci aiuta a meglio comprendere la storia e l’evoluzione
della laicità in Italia. La moderazione del periodo separatista si manifesta in
tanti modi, ma nell’insieme consente all’Italia di operare un sottile, solido
compromesso con l’anima cattolica del paese su punti essenziali, ed evita
l’affermazione di tendenze francesizzanti che pure esistono in esponenti della
classe dirigente liberale. In Italia non si afferma mai l’idea della reformatio
ecclesiae come obiettivo proprio dello Stato. L’aspirazione ad una evoluzione
della Chiesa è parte integrante del pensiero laico e dei riformatori cattolici
dell’Ottocento, ma da noi non si trovano tracce significative di quel disegno
(tipicamente transalpino) che mira alla costituzione civile del clero, a
stravolgere le strutture ecclesiastiche, a creare una chiesa nazionale quieta e
obbediente al potere civile. La struttura della Chiesa, gli enti ecclesiastici
mantenuti, l’educazione e la disciplina del clero, non subiscono ingerenze o
stravolgimenti diretti a modificarne la natura. Nel dibattito sulle Facoltà di
teologia è il ministro Correnti che respinge le tentazioni giurisdizionaliste e
afferma che lo Stato non ha “né interesse, né volontà, né facoltà di creare
teologi”, che l’evoluzione della religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa
troverà in sé stessa, e solo in se stessa può trovare, la volontà e la forza di
ravvicinarsi” alla modernità. L’unico intervento chirurgico è quello che
sopprime le corporazioni e le congregazioni religiose. Ma anche in questo
intervento, che storicamente si giustifica con la necessità di ridistribuire la
grande proprietà ecclesiastica, non mancano i segni di moderazione, se vogliamo
della dissimulazione. Come quando le comunità religiose si ricostituiscono
progressivamente al riparo delle c.d. frodi pie, che consentono l’utilizzazioni
di proprietà immobiliari messe a disposizione da veri prestanome. Comunque, a
nessuno in Italia è mai venuto in mente di adottare leggi draconiane come
quelle transalpine, la prima che vieta alle congregazioni religiose non
riconosciute l’insegnamento, la seconda che prevede multa e carcere per chi apra
una scuola nella quale insegni anche un solo religioso. Ho sfioato il problema
della scuola, perché su questo terreno si opera il più grande compromesso
italiano, sul quale storici e giuristi si soffermano poco. Alla laicizzazione
della scuola italiana, con la Legge Casati , non segue la cancellazione della
presenza cattolica nel corpo scolastico pubblico. Se l’insegnamento religioso
viene escluso nelle scuole superiori, rimane però in quelle elementari. La
Legge Coppino non dice nulla al riguardo, e questo silenzio, con l’aiuto
del Consiglio di Stato, consente di mantenere l’insegnamento religioso che, ci
dice Francesco Scaduto, viene attivato da quasi tutti i Consigli comunali e
seguito dalla totalità delle famiglie italiane. Neanche si può dire che la questione
passi sotto silenzio, perché un Regolamento conferma l’insegnamento religioso,
e la Camera respinge nello stesso anno una mozione di Bissolati che chiede di
vietare ogni presenza religiosa nelle scuole. Molto chiaramente Minghetti
compara gli inconvenienti di una scuola che preveda l’insegnamento religioso a
quelli di una scuola che lo esclude, e afferma che “i primi saranno sempre
minori di quelli di una scuola che dovrebbe essere popolare, ma che senza Dio
ripugna alla coscienza popolare e addiviene atta a soddisfare soltanto una
piccola minoranza”. Si può dire che è poco, invece è moltissimo, perché la
scuola elementare è l’unica vera scuola di massa dell’epoca. Per questa ragione
l’Italia separatista ha operato le grandi riforme della modernità ma ha saputo
mantenere un raccordo di fondo tra il sentire comune della popolazione e una
legislazione non aggressiva e non punitiva. E’ l’Italia laica e separatista che
affida ai maestri e alle maestrine della letteratura dell’Ottocento l’onere di
trasmettere elementari ma importanti valori religiosi e morali nelle nuove
generazioni. L’elogio della moderazione non deve fare aggio sull’altro fattore
endemico dell’esperienza italiana, su quella arretratezza che, in modo diverso,
caratterizza alcuni settori della cultura laica, e della cultura cattolica, e
che provoca per lungo tempo un isolamento rispetto ad altre più avanzate
esperienze europee e alla cultura anglosassone, cioè rispetto al resto del
mondo. Mi riferisco alle correnti laiciste che animano la cultura politica,
danno vita al pensiero più autenticamente anticlericale, rendono la laicità
ostile alla religione. Ma anche all’arroccarsi di quell’intransigenza che frena
la capacità di iniziativa dei cattolici, li estranea a lungo dalla vita
politica del Paese. Nel conflitto, e nel corto circuito, tra intransigenza
cattolica e correnti laiciste sta la radice di una chiusura provinciale che in
Italia condiziona a lungo le relazioni ecclesiastiche. Il radicarsi di queste
tendenze immette nella cultura italiana semi che tornano a fiorire di tanto in
tanto. Il laicismo estremo produce cultura, mentalità, costume, e fa sì che
anche da noi come in Francia e in Spagna, laicità voglia dire tante cose
negative: estraniazione della religione dalla società e dalla dimensione
pubblica, ostilità alla scuola privata nonostante il liberalismo sia altrove il
difensore del pluralismo scolastico, riduzione della Chiesa ad un ambito
puramente cultuale. In Italia, come oltr’Alpe, il termine laico è contrapposto
a cattolico, e questa antitesi, sconosciuta nei paesi anglosassoni, diviene da
noi categoria del pensiero e del linguaggio. Quando faccio riferimento alle
tendenze laiciste mi riferisco sia all’anticlericalismo di matrice ottocentesca
che alle correnti culturali di grande dignità che da Spaventa a Bissolati
rivivono poi in Gaetano Salvemini e in Ernesto Rossi, e che di più aspirano ad
una Chiesa riformata, apparentemente tutta spirituale ma muta sul piano civile
e sociale. Queste correnti si ravvivano quando l’accordo tra Chiesa e fascismo
di fatto umilia la laicità, provocando una frattura seria tra la cultura laica
ed un cattolicesimo al quale viene restituito un ruolo di primo piano, ma con
il sacrificio di altre idealità e di altri ruoli. Anche l’intransigenza cattolica
riaffiora più volte nella storia italiana, impedisce a tratti di cogliere le
trasformazioni della società, di discernere gli aspetti positivi dalle spinte
disgreganti, porta all’arroccamento su posizioni che potrebbero essere evitate.
La critica più autentica a questo corto circuito non è diretta alle singole
posizioni radicali che produce, quanto al fatto che da lì è derivato un certo
isolamento rispetto alla cultura anglosassone, rispetto ad altre esperienze
europee, come quelle dell’Olanda, del Belgio e della Germania, dove già
nell’Ottocento maturano equilibri più stabili tra religione e società. Una
conferma di questo provincialismo sta nell’incomunicabilità tra esperienza
italiana ed esperienza statunitense, alla quale pure molti laici si richiamano,
senza mai averla capita e forse conosciuta. Lo stesso Salvemini, che pure
conosceva la società americana, di quell’esperienza evoca sempre e soltanto la
parola separatismo, non i suoi contenuti, né la sua anima pregna di rispetto e
di amicizia verso la religione. Possiamo verificare questa lontananza della
cultura laica rispetto alle correnti del pensiero anglosassone su un
particolare problema, quello della scuola privata, nel quale il liberalismo
italiano si è discostato dai canoni del liberalismo classico per seguire un
indirizzo statalistico destinato a dominare a lungo. C’un dibattito di metà
Ottocento (oggi dimenticato ma molto importante all’epoca) nel quale Domenico
Berti critica quei liberali che per paura di monopolio combattono la libertà di
insegnamento, e afferma che questa trae il suo diritto dall’individuo medesimo,
dalla sua libertà, ed è da annoverarsi tra “gli altri diritti naturali”. E’
Bertando Spaventa che si oppone a Berti ed esplicita la vera ragione della
contrarietà alla scuola privata. La ragione sta nel fatto che “i paladini” del
libero insegnamento finiscono per portare acqua al mulino della “libertà del
papa”, perché in Italia dare via libera alle scuole private vuol dire favorire
la scuola cattolica. Quindi, con grande trasparenza si riconosce che il vero
liberalismo postula la libertà della scuola, ma in Italia questo liberalismo
non è praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici. Insomma, al
liberalismo si ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da parte. 3. Dai
Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In Italia, però,
si ritrova un altro elemento equilibratore che consente di attenuare le
asperità e finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate in sede di
Costituente. Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese conosce, e
che tocca all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche su questo
problema vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto alla
storiografia prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il punto
di maggiore attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo
dell’intransigenza cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia,
pur nei termini del conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un
elemento equilibratore nel periodo separatista, con la stipulazione dei Patti
Lateranensi, soprattutto all’atto della elaborazione della Costituzione
democratica. Quando parlo di elemento equilibratore intendo dire che la
presenza della Santa Sede ha fatto uscire il meglio di sé dalla classe
dirigente liberale nell’Ottocento, ha attenuato gli effetti che i Patti
Lateranensi hanno avuto sulla società italiana, ha favorito notevolmente il
lavoro che ha portato alla formulazione del disegno costituzionale complessivo
dei rapporti tra Stato e Chiesa. Già nell’Ottocento, la classe dirigente
liberale conferma la propria lungimiranza con quella Legge delle Guarentigie
che, pur temporaneamente, risolve la più grande questione storica europea, e,
dovendo misurarsi con un evento che interessa i cattolici di tutto il mondo, si
rivela capace di ad attenuare, smussare, equilibrare le asperità del
separatismo. Anche quando il Concordato ferisce duramente la laicità e la
cultura laica italiana, la soluzione definitiva del questione romana stempera
il valore politico del patto con il fascismo. Non a caso il giudizio delle
forze politiche antifasciste sui Patti Lateranensi si presenta come scisso in
due: severo e aspro, anche da parte cattolica, nei confronti dell’accordo
politico tra Chiesa e fascismo e del Concordato, ma positivo e accogliente nei
confronti del Trattato del Laterano. Sin dall’inizio Benedetto Croce approva la
soluzione della questione romana, riservando le sue critiche al Concordato. Ma
anche Gaetano Salvemini, durissimo con il Concordato, riconosce che la
questione romana è ben risolta, anzi afferma che ciò che è stato fatto
avrebbero dovuto farlo i liberali. Infine, i programmi elaborati dai leader
dell’antifascismo durante la guerra in vista della ricostruzione del Paese,
concordano nel non voler rimettere in discussione i risultati del Trattato del
Laterano. Credo si possa dire che, senza una questione romana risolta, forse
non avremmo avuto quel tipo di rapporti con la Chiesa che l’Italia ha elaborato
e che ha saputo anticipare un modello oggi utilizzato in un numero
considerevole di Paesi europei. Nell’incontro tra le correnti del cattolicesimo
democratico e la maggioranza della cultura laica, l’Italia trova il modo di
abbandonare un certo provincialismo e riesce a parlare un linguaggio europeo,
supera quel corto circuito che l’aveva appesantita a lungo. Le scelte del
costituente non sono riconducibili al solo articolo, quanto alla maturazione di
una laicità che è destinata a fare scuola, a prefigurare un modello di Stato
laico sociale che diverrà prevalente nell’Europa che si unisce e conosce la
fine dei totalitarismi. Si tratta di una laicità complessa dove converge il
meglio della tradizione separatista (in materia di libertà religiosa), e dove
il laicismo è superato dal riconoscimento pieno della presenza e del ruolo
sociale della religione. Si abbatte il muro della incomunicabilità tra
religione e società, si conferma e si estende il metodo della contrattazione e
dell’incontro, tra Stato e Chiese; si supera l’ultimo tabù dell’Ottocento, per
il quale nessun culto dovrebbe essere finanziato dallo Stato perché lo
impedirebbero le differenti opinioni religiose dei cittadini. Sul finire del
Novecento questo Stato laico sociale trionfa un po’ dovunque. Non si contano più
i concordati tra Santa Sede e Stati in Europa, che sono oltre 20, come non si
contano più intese, accordi, convenzioni tra Stato e confessioni religiose,
protestanti, ebraica, islamica, e altro ancora. Ma è nel merito delle relazioni
ecclesiastiche che il modello italiano fa scuola in Europa. Dall’Atlantico alla
Russia, ovunque troviamo una laicità fondata su principi comuni: libertà
religiosa, tutelata nel quadro dei diritti umani, riconoscimento delle Chiese
come entità impegnate in molteplici attività, sostegno pubblico alle
confessioni. Insomma, un mixer tra la tradizione nordamericana di amicizia
verso la religione, e la tradizione europea di contrattazione e reciproca
integrazione. Tanto solido è questo nuovo orizzonte di laicità sociale che
ormai in Europa si discute di riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa soltanto
in Inghilterra e nei Paesi protestanti del nord, dove ancora esistono Chiese
ufficiali sottomesse e apparentate alle dinastie regnanti. La laicità torna
di attualità e vive una crisi di cui non siamo ancora pienamente consapevoli,
su terreni nuovi e in editi, come quelli dell’etica e del multiculturalismo. Si
tratta di fenomeni molto diversi, perché nel primo caso siamo di fronte ad un
uso indebito, quasi una strumentalizzazione, del concetto di laicità, nel
secondo assistiamo ad un pericoloso arretramento dei valori più intimi dello
Stato laico. Non entro nel merito del rapporto tra etica e diritto. Non è
oggetto della mia relazione, non è possibile neanche sfiorarlo nella sua
complessità. La mia attenzione è più ristretta, riguarda il rapporto che
esisterebbe tra laicità ed etica nel momento in cui un ordinamento è chiamato a
pronunciarsi su questioni decisive per la collettività, come la famiglia,
l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e via di seguito. Alcune elaborazione
teoriche danno per scontato che il pluralismo etico non è che un altro aspetto
del pluralismo religioso, e “come oggi ammettiamo e rispettiamo le varie
confessioni religiose, così dobbiamo riconoscere le varie moralità che affiancano
o sostituiscono la fede religiosa”. D’altra parte, si aggiunge, come nella
religione non si dà verità oggettiva, ma solo opinioni, così in campo etico lo
Stato deve accettare tutte le convinzioni e le scelte che si contendono il
campo. Questa similitudine tra religione ed etica è accattivante, ma nasconde
un’insidia dialettica. In primo luogo perché la neutralità dello Stato riguarda
le convinzioni religiose, la sfera più intima della spiritualità e della
coscienza, non i comportamenti delle persone, tanto meno quelli che coinvolgono
gli altri. In questa materia la legge non pretende mai di definire qual è la
verità, ma sceglie sulla base di valori che hanno una loro validità nel tempo,
nella struttura sociale nella quale si incarnano, e che possono dar vita a
equilibri diversi tra etica e diritto. In secondo luogo, si trascura il fatto
che una neutralità dello Stato estesa a tutte le scelte etiche porterebbe alla
paralisi del legislatore e allo svuotamento della funzione della legge.
L’ordinamento non si interesserebbe più della procreazione, dei doveri verso i
figli, non potrebbe più disciplinare il matrimonio, dovrebbe consentire tutto
in materia di bioetica. Uno Stato eticamente neutrale dovrebbe disporre il
“rompete le righe” e preoccuparsi solo di regolare il traffico delle attività
sociali. C’è, poi, un corollario di questa impostazione che viene utilizzato
frequentemente. Si tratta di quel ritornello che in Italia viene ripetuto
spesso, secondo il quale in queste materie lo Stato deve permettere, non
proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno, ma se proibisce impedisce a
qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza l’eutanasia non obbliga
nessuno a praticarla, ma consente a chi vuole di scegliere un’altra opzione. Se
permette la fecondazione eterologa, non la impone, ma se la nega erode spazi
all’autonomia individuale. Io credo che ci troviamo di fronte ad un uso
improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se applicata coerentemente,
questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si sentirebbero di
sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana, perché una
legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare cellule e
individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i propri convincimenti.
Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per determinare alcune
caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore della pelle o degli
occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a queste operazioni,
mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale. Questa impostazione
dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere positivamente al recente
quesito del Kings College, se sia lecito produrre ibridi di umanità e
animalità. Infatti, consentendo questa pratica non si impone a nessun
ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si violerebbe la libertà di
quanti non hanno remore nel procedere su questa strada. Molti sostenitori del
relativismo si dichiarano contrari alla clonazione, alla chimera e ad altre
scelte estreme, ma spesso non sanno dire il perché. E non sanno dirlo perché
dovrebbero riconoscere che clonazione e chimera possono essere escluse soltanto
se si fa leva su valori antropologici primari, meritevoli di trovare spazio nel
mondo del diritto. Si dovrebbe allora riconoscere che la laicità dello Stato
non c’entra nulla quando la discussione riguarda questi valori. E che nel gioco
democratico della discussione, del convincimento, si determineranno gli
equilibri essenziali, modificabili nel tempo, sui confini del diritto, sul
rapporto tra autonomia e solidarietà. In questa discussione vi è spazio per
tutti, per le convinzioni religiose e per quelle filosofiche, per l’apporto
delle scienze e la mediazione della politica. Ma se il confronto viene by-passato
ricorrendo alla laicità per sbarrare la strada a determinate scelte, vuol dire
allora che c’è insicurezza in alcune posizioni relativistiche, le quali non
riescono ad elaborare valori convincenti, e utilizzano impropriamente la
laicità per dare alle proprie tesi una forza che probabilmente non hanno. 5.
Cultura laica e questione islamica L’analisi si fa più complessa se affrontiamo
il tema del multiculturalismo, perché questo fenomeno costituisce una grande
opportunità ma anche un grande rischio. Una opportunità per la laicità, che può
far risaltare il suo volto accogliente e il suo carattere universale di fronte
al mischiarsi delle popolazioni, delle pagine della storia, e della geografia.
Ma anche un rischio se con il multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle
nostre società antiche intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un
lontano passato. Le prime risposte a questo evento sono deludenti, alcune
preoccupanti, ma tutte riflettono un disorientamento generale. Vi sono a volte
reazioni di tipo islamofobico che fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure
e diffidenze, che vogliono negare all’islam ciò che la laicità deve garantire a
tutti. Mi sembra, però, che siano prevalenti le reazioni opposte, perché la
cultura laica sta rispondendo con uno spaesamento che tradisce incertezza e
insicurezza. Il multiculturalismo sta facendo emergere una insicurezza dei
valori della laicità, della loro validità e tendenziale universalità. Anche
quell’orgoglio che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e
storia, sembra vacillare di fronte a chi appare più estraneo ai principi di
libertà ed eguaglianza. Potrei citare una pluralità di fatti, ed eventi, che
sembrano slegati tra di loro ma sono uniti da un robusto filo conduttore. Ne
indico alcuni per far riflettere sul loro significato complessivo. Pochi si
accorgono che si sta creando un divario crescente tra l’atteggiamento nei
confronti delle Chiese tradizionali e quello che si manifesta di fronte a
clamorose lesioni della laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime
riflettono un’antica suscettibilità, quasi la memoria del conflitto, le altre
sono fatte di stupore e di silenzi. Se una Chiesa lucra ancora oggi qualche
favore giuridico, si reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato sarebbe
in pericolo. Ma se vengono lanciate fatwe di morte contro letterati,
giornalisti o registi, per offese all’Islam, si tratta di episodi che non
riguardano lo Stato laico, non costituiscono istigazione all’omicidio. Se una
fatwa viene eseguita, l’omicidio è di competenza della cronaca nera. 8 Se
in un paese europeo si discute su temi etici, le prese di posizione delle
Chiese cristiane sono viste come espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se,
in Europa o ai suoi confini, avvengono omicidi di donne che rifiutano regole
tribali, di derivazione islamica o meno, oppure se il diritto di cambiare
religione conduce ancora alla morte o all’emarginazione sociale, si considerano
questi eventi come frutto di arretratezza, anziché un salto indietro nella
storia della laicità. Nessun grido, nessun manifesto, nessun convegno è
dedicato loro. Uno strabismo particolare colpisce la cultura laica quando è in
gioco la questione femminile. Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati
strumenti per rendere effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e
pratiche aliene che discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano
ribellione o ripulsa. Un tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole
oscurantiste e censorie, alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione
dei costumi, e di frenare la licenziosità con cui veniva usata la figura
femminile. Oggi tace, quasi si nasconde, quando le donne vengono chiuse nel
burqa, o si chiedono classi separate nelle scuole, spiagge differenziate,
reparti ospedalieri distinti, o gli uomini rifiutano di essere subordinati sul
lavoro a dirigenti donne, e via di seguito. In diversi paesi occidentali,
dall’Inghilterra al Canada, dalla Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa
si moltiplicano le proposte di introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza
che suscitino scandalo per la ferita che porterebbero ai diritti umani
fondamentali. Soltanto il 24 ottobre corso, con grande ritardo, il Parlamento
europeo, ha approvato una risoluzione (peraltro molto positiva) sulla condizione
delle donne, sulla illegalità della poligamia, sulla lesione dei diritti
fondamentali. Le reazioni islamiche al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona
sono ormai note, e non mi ci devo soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto
che, in tema di laicità, ha sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più
rigorosi laicisti hanno mantenuto nel difendere la libertà di parola e di
espressione contro minacce, violenze, ricatti. Eppure, per decenni questi
gruppi hanno ripetuto sino alla nausea il pensiero di Voltaire per il quale,
anche se non si condividono le idee di un altro, si è però pronti a spendere la
propria vita perché l’altro possa esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non
si è spesa neanche una parola per difendere il diritto del Papa, come di
chiunque altro, ad esprimere le proprie valutazione sul rapporto tra fede e
violenza. A questi silenzi si aggiunge un fenomeno culturale meno appariscente
e più sotterraneo. Il cattolicesimo, e il cristianesimo, sono stati per due
secoli letteralmente vivisezionati per criticare e sradicare tutto ciò che
sapesse di temporalismo, di anti-modernità, per spezzare la loro alleanza con
il potere politico. Sull’intreccio tra altre religioni e sistemi politici
dittatoriali, oggi prevale l’afasia nella cultura liberale, in quella marxista
o anti-istituzionale. Sembra quasi che la critica illuministica e storicistica
che, pur con asprezze a faziosità, ha saputo fustigare, in certa misura ha
contribuito a rinnovare, le Chiese delle nostre società, scelga il silenzio di
fronte a ben più pesanti congiunzioni tra religione, violenza, dispotismi più o
meno teocratici. Tutto ciò apre degli interrogativi sul futuro della laicità in
Italia e in Europa; e li apre non su un punto o su un altro, ma sulla spinta
propulsiva che la laicità ha esercitato nel realizzare lo Stato moderno. Da
questi, e altri episodi, sta scaturendo una sorta di assuefazione rassegnata di
fronte alla mutazione genetica della laicità come la conosciamo in Occidente,
che può portare ad un esito paradossale: ad una laicità occhiuta e diffidente
verso le religioni tradizionali e ad un multiculturalismo disarmato e senza
valori verso altre religioni e tradizioni. Sarebbe la fine della neutralità
dello Stato. Laicità e multiculturalismo in Italia. Ambiguità e
prospettive Per meglio capire i rischi di questa frattura tra laicità e
multiculturalismo torniamo per un attimo all’esperienza italiana. L’Italia,
ancora una volta, si è dimostrata più di altri Paesi equilibrata e accogliente,
non condizionata da pregiudizi etnici o religiosi. L’Italia non ha fatto la
guerra al velo, e a nessun simbolo religioso, forse perché di simboli
confessionali ne conosce tanti da tanto tempo, dalle cattedrali alle chiese,
dai conventi ai battisteri, alle fogge vestiarie di religiosi e religiose
d’ogni genere. Quindi non avvertiamo disagio per un modesto velo che peraltro
può appellarsi alla libertà di abbigliamento. L’Italia ha predisposto una vasta
rete di accoglienza e sostegno sociale per l’immigrazione; sta cercando in tanti
modi di soddisfare le esigenze di culto dei soggetti dell’immigrazione; prevede
nei contratti di lavoro spazi per pratiche religiose, diversità alimentari,
tradizioni come quello del ramadan. Ma questo che può essere considerato
legittimamente un nostro vanto, si sta trasformando lentamente in qualcosa
d’altro. Si sta trasformando nell’oscuramento di principi e valori essenziali,
e nella accettazione di una cultura della separatezza che può colpire la
laicità. Parlo della tendenza a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche,
e più in genere, tutta una simbologia e una tradizione di memorie del
cristianesimo, riprendendo concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la
notizia che nelle scuole, negli alberghi, in luoghi pubblici e privati
diminuiscono i presepi e gli alberi di natale per non urtare suscettibilità di
persone aderenti ad altri culti. Si realizza così quella che da tempo definisco
una partita giocata su due tavoli: quello della laicità che limita o cancella
simboli e presenze cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima
altri simboli o presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi
sintomi di un cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti
fondamentali dei cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la
presenza del burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono
in qualche parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi
pubblici, si consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti
dalle nostre leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di
significato univoco, e ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della
perdita di senso della laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della
laicità si offrisse il volto più maturo e accogliente, quello che sa
distinguere tra quanto di autenticamente religioso emerge da una tradizione, e
quanto appartiene ad arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e
tutelare il patrimonio spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa
criticare e respingere ciò che collide con il sistema universale dei diritti
umani, con la libertà religiosa, con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa,
cioè, promuovere il meglio della nostra e delle altrui tradizioni, ma si
impegna a far arretrare il resto. Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e
potremmo dedicarvi un altro convegno. Trovare l’uomo capace, e
l’investirlo de’ simboli della capacità (culto, o com’altro sì chiami) così
ch’egli possa avere agio a governare secondo la propria facoltà, è l’officio di
ogni procedura sociale. A questo punto il Carlyle riscrive
‘worship’ WORTH-ship, per accentuarne l’etimologia da ‘worth,’ valore,
compincendosi che la ragione etimologica venga quasi ad attestare la nocessità
del fatto che gli sta tanto a cuore. Per mantenere questa relazione
logica Loubatières muta ‘worship’ nell’*équivalent adequat* di *élection* da
prima, e poi di *élite*. ‘Carlyle,’ soggiunge Loubatières, de son
pergant et rapide regard, dénude la racine des mots et des choses.’ Carlyle
non è punto tenero degli studi etimologici. Le parole gli si
dischiudono ad un tratto come si fendono le roccie allo sguardo diabolico del
suo jötun Hymir. Ci fa ripensare a quello che dice Daudet:
‘Il y a dans cortains mots que nous employons ordinairement un ressort
cachè qui tout à coup les ouvre jusqu’au fond, nous les explique dans leur
intimité exceptionelle.’ ‘Puis le mot se replie, reprend sa forme banale
et roule insignifiant, usé par l’habitude et le machinal.’Carlo Cardia.
Keywords: il laico, filosofia vs. teologia, italia anti-papista, il filosofo
italiano deve essere neutro in questione di religione. Verdi – il papa – stati
papali – repubblica italiana – liberta di culto – giurisprudenza – religione
dell’antica roma – il pontifice nella religione romana antica – credenza
religiosa – credenza naturale – credenza super-naturale – il sovra-naturale –
il naturale – l’idea di religione nella antica Roma – il mito romano – la
mitologia romana antica – il sacro – il pagano – la filosofia della roma antica
pagana – la critica dei antichi romani al cristianesimo, il culto del laico,
worship of the hero, il culto dell’eroe -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cardia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Cardone: l’implicatura conversazionale -- La
nudita eroica di Napoleone -- Clark Kent; ovvero, sul sovrumano – trasumanar –
l’eroe di Vico – hero-worship -- Annunzio e il fascismo -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Palmi). Filosofo
italiano. Grice: “Cardone plays with a coinage, sobraumnao, in Dionigio e
Luciano – it triggers implicata: what’s wrong with ‘human’? One is reminded of
Pico (‘dignita dell’uomo’) and D’Annunzio – it is a problem of linguistic
botanising for Italian phiosophers, ‘altreuomo’ being rendered as a translation
of Emersen’s ‘plus man’ – and cf. Carlyle – D’Annunzio, who should have known
better, prefers ‘suPer,’ when we know that in the ‘volgare,’ the ‘p’ becomes
‘v’, so Cardone has it just right!” Si laurea a Roma. Membro de Partito
Socialista Unitario. Fonda "Ebe" e la rivista "Rivista".
Fonda “Ricerche filosofiche”. Fonda la Società Filosofica Calabrese. Aattività
deontologica per la realizzazione di un'etica sociale della Cultura, in difesa
e promozione della civiltà, onde onorarlo per le sue incessanti iniziative
anche in favore della fratellanza umana. Altre opere: Saggi di storia,
filosofia e diritto; Il relativismo gnoseologico” (Palmi, A.Genovesi &
figli ed); Reazione collettiva (Torino, Paravia & C); I filosofi calabresi
nella storia della filosofia, con appendice sui sociologi e gli psicologi,
Palmi, A.Genovesi & Figli ed., “La filosofia dello Stato” (Città di Castello,
Casa Editrice Il Solco); Filosofia della vita, Città di Castello, Casa Editrice
Il Solco); Umanismo (Messina); Cristianesimo, liberalismo e comunismo, Palmi,
G. Palermo ed); Il Divenire e l'Uomo, Palmi, Ricerche filosofiche, “Civiltà,
Palmi, G. Palermo ed); Vita di Gesù secondo il Vangelo incompiuto, Modena-Roma,
Guanda Editore); La filosofia di Gesù, Milano, Bocca ed); L'uomo nel cosmo.
Storia e prospettive, Palmi, Ricerche filosofiche ed); Bio critica, a cura
della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Bologna,
Mareggiani ed); Seguito alla Bio critica, a cura della sezione bibliografica
della Società Filosofica Calabrese, Cosenza, MIT); La vita come esperienza inutile,
Cosenza, Pellegrini); L'ozio la contemplazione il gioco la tecnica l'anarchismo,
Roma, Ricerche). Ricerche filosofiche, Torino, Edizioni di Filosofia). Il
Divenire” (Padova, Rebellato Editore). Si vis pacem para pacem, Montepulciano,
Editori Del Grifo, Ludi. Bologna, Soc.
Tip. Mareggiani ed); I confini dell'anima, Palmi, Ed. Del Fondaco di Cultura); La
banca della carità” (Milano, M. Gastaldi ed., 1962 Terapia del tramonto (Milano,
M. Gastaldi); Il figlio del dittatore” (Milano, M. Gastaldi); Canti del
Sant'Elia, Poggibonsi, Lalli); L'assenza e la mancanza: meditazioni quasi
poetiche, Cosenza, MIT). Dialogo sulla solitudine. divenir e vita. Filosofo-poeta.
Un inattuale nella sua attualita. i Napoleone non mi sembra per nulla così
grande come il Cromwell. Le sue enormi vittorie, che s’ estesero A
_1 «Napoleone fu l'idolo della comune degli " 3 i gli
nomini, perchè a le qualità e le facoltà degli Cn OI k Ni Chi co: i
0 fesso moderno; auche quand'è all'apice della fortuna; “gli aleggia
dentro lo stesso spirito che troviamo nei giornali del tempo. da
7 si limitò alla piccola Inghilte che gli alti trampoli ti
la statura dell'uomo per essi lui sincerità parl d'una specie molto
inferiore: NOn quel suo silenzioso. Per 1 L'universo; NOn il «
cammino co lo chiamava; ‘pensiero, il valore, che S1 co
latenti, © 8° accendono poi quasi amm® Napoleone viveva in un’ epoca
che non avera più | este: ; fede in Dio; che considerav®
non-entità jl significato ; a ‘d’ogni silenzio, d'ogni qualità
latente: non PIù sulla |. È Bibbia puritan& aveva egli &
fondarsi, ì scettiche Enciclopedie. Eppure, ® tanto ei giunse- ed
meritorio L essere arrivato così lontano. Tl suo carattere : compatto,
pronto ed articolato, in ogni Senso, è in sè - stesso piccolo; forse, a
paragone i quello del nostro i grande Cromwell, caotico ed inarticolato.
Non è « muto profeta che si sforza di parlare.; > ha piuttosto in
sè un portentoso miscuglio di ciarlataneria ! Il concetto dell’
Hume, d'una fanatica ipocrisia, Con quanto è in esso di vero, potrà
applicarsi molto meglio Napoleone che non s’ applicasse al Cromwell, ®
Maometto od ai loro simili, per 1 quali realmente, preso & tutto
rigore, conte- neva a mala pena alcuna stilla di verità. Sin da
prim- cipio, appare in quest’ uomo un elemento di riprovevole
ambizione, che alla fine lo vince, @ trascina lui e l’opera sua in
ruma. a SE vi be divenne motto prover= era necessario di Ei a Se
ARen alto il coraggio de’ DARE bisognava tenere aggio de’ suol
uomini e così plesso, non ci son ; via. Fio Non è un santo, mon è
un cappuccino, per Usare la nemmeno un eroe, nell'alto signi
\ x guificato d al capo VI: Napoleone o l' uomo di pagata pa
tutta 1 Europa, mentre il e: o di & da espressione sua; È
; » (Emerson, op. cita È dedi $ A. prrura
SEST è i eglio, ® lungo e stato ID o resse Ind
so, se non at i oleone ste55° ; atti, ba alcun proposito che
sì ; :orno; ch'è destinato e KI x . ‘no vantaggio può mal
ve- anl a dolo one? Le menzogne SI sco- ul a ruinos@
La prossima agi ‘ near È e prestar fe al bugiardo; quand
an +1 della più alta impor prono, © se nessuno VOST Da
uand' anche s1a che dica il vero» È ;l vecchio grido: <
Al tei venga creduto. A cr È Una bugia è nulla; al nulla, nom
Potere lupo ‘> a farete, e © avrete vare qualch - alla
fine, null er giunta rimess Y x È Dare verain Napoleone una
certa sincerità ; anche è) nella insincerità, bisogna
distinguere quanto è super: ficiale da quanto è fondamentale. A traverso
& que ste sue macchinazioni esteriori, & queste
ciarlatanerie, ch''erano molte e riprovevolissime, vediamo pure
nel- Jla realtà, istintivo e impossi- l'uomo un certo
senso de ) bile a sradicare; vediamo ch' el Sl fondò sul fatto....
SI n lui l'istinto di na- tanto ch’ ebbe alcun fondamento.
I tura è superiore alla cultura. Il Bourrienne ' racconta che i
suoi savants, in quel viaggio d’ Egitto, s' affanna= vano una sera a
dimostrare che non ci può essere Dio. Erano riusciti a provarlo, a loro
grande soddisfazione, con ogni maniera di logica. Napoleone, guardando
su, alle stelle, risponde : «La dimostrazione è molto inge- gnosa,
messieurs ; ma chi ha fatto tutto ciò? » La dot- trina atea gli
passa sopra come un’ ondata ed egli rimane al cospetto del grande
fatto: « Chi f ti ci09 > Similm Ì | fece utto ente nella
pratica: come 0 possa essere grande e trionfare i gni.u9Maro
onfare in questo mondo, egli 1 Mémoires de Mi de Rourri. i
Villemarest, Paris, chez Tadrocat. 1620-1861, lui-meme, rédigéa par Mi de
Fauyol Fauvolot do Bonrrionna (1769-1894), amico d'infanzia e
segretario timo di Napoleone, — colui MA i, colui cho
formulò, d'accordo co diem nl DE Oi orrori contenuti ola COLI REA
to I ‘ourrienne et nen erreura volontaires dI RT fontraverso ® tuttii
viluppi, il nocciolo pra vede, ® de direttamente.! tione; ed
a quello ten 9 2 bj pei driscalco del suo palazzo delle Tuileries
gli e tappezzerie, dimostrandogli ‘con me fossero
magnifiche, e DEF giunta @ He, mercato; Napoleone, Per tutta risposta,
hiese Sa Ni forbici, mozzò una napPInA dl oro dele o finestra, se
la messe in tasca, e tirò via. Qualche Hai : dopo, la cavò fuori al
momento buono, gran È SE rore del suo fornitore: non era Oro, ma.
orpello! ; no- tevole come anche a Sant' Elena, sempre; sino &
# ultimi giorni, egli insista sul pratico, sul reale: < A che
parlare e lamentare? & che, sopra tutto, leticare? Non ‘gi viene con
ciò ad alcun risultato; @ nulla si riesce, a far nulla. E se nulla potete
fare; tacete! > Parla ‘spesso così a’ suoi poveri seguaci malcontenti
; è come una forza silenziosa tramezzo alle loro morbose querele. A
E per conseguenza, non possiamo dire che fosse in n lui pure una
fede genuina, Der quant’ era possibile? Ve- i deva in questa nuova enorme
democrazia, che s’ affer- n mava nella rivoluzione francese, un fatto che
non sì può - sopprimere, un fatto che il mondo intero, con tutte le
sue vecchie forze e le instituzioni, non può metter da parte: di ciò egli
aveva il vero intuito, e quell’ intuito trascinava seco la sua coscienza
ed il suo entusiasmo : era la sua fede. Forse che non ne interpetrò bene
l’oscura portata ? La carriòre ouverte auv talents — gli strumenti &
chi sa maneggiarli: quest’ è effettivamente la verità, tutta la verità
anzi, e comprende tutto il si- : bo dell riluzione fece 0 i a ix Ò
n ‘ » al ieri i dda DE nidi pae CE cedono innanzi a quest'uomo Dire
ecm vr i rat dp degli soci dl diplomati e vugle cha ogni ir
facoltà di RIGA RARI HRolnio: egoista, prudente, psn se : ale parvenza
altrùi, uè da e sntisinne. 1a Siocniae da alcuna @ re, da nessuna fretta.
» (Emerson, loco cit, sì VI meg SaIoaaai Si ù Napoleone nel suo primo periodo
sie to “vero democratico ; nondimeno, Per sua natura, QI ati ita
mili sapeva che Ja democrazia, in quanto mai fosse verità, non
poteva essere: RIO ed odiava cordialmente P'anarchia. T1 20 giugno
5 seduto col Bourrienne in un caflè, mentre la folla Diso,
schiamazzando, Napoleone esprime il più DIOCr, a 3 i- sprezzo per le
antorità che non reprimono que! dio dine. Il 10 agosto sì meraviglia che
nessuno prenda 1 o di que’ poveri Svizzeri : vincerebbero Se uves:
dante. Tanta fede nella democrazia, eP7 316
comand sero un coman I I pure tant! odio dell’ anarchia
sostengono apoleone IM illanti campagne grande Opera. Nelle
br IO] d'Italia, via via sino alla pace di Léoben,' 81 direbbe che
il suo ideale sia questo: fatta trionfare la rivolu- zione francese;
affermarla contro questi simulacri aus striaci che 0Sano dirla, un
simulacro! — Nondimeno, egli sente pure; ed ha diritto di sentire, quanto
neces? siria sia una forte autorità; e come senz) essa l’opera
della rivoluzione non possa prosperare nè durare. Fre- nare quella granda
rivoluzione devastatrice, che divorava sè stessa ; domarla così, che,
raggiunto il suo intrinseco scopo, essa possa divenire organica, capace
di vivere tra gli altri organismi, tra le altre cose formate, e non
sol- tanto quale opera di devastazione, di distruzione : non mirava
egliin parte a questo come alla vera mèta della sua vita? non s'ingegnò,
anzi, effettivamente, di far IA A traverso Wagram ed Austerlitz, a
traverso Re. SOT aan Hg per osare ed operare, € s'inalzò ica
IRE re. Tutti gli uomini videro sione Cad Ro ioni soldati solevano
dire ai dala avvocati di Parigi, tutti ‘Bisogna che mettiamo là il
Pan Diga ‘andarono, e lo messe ni nostro Petit Caporal!> E S ro
là; essi, e tutta la Trancia in tutta la sua DAI massa
E poi il consolato; 1° impero; la vittoria su tutta pEurop® {.. È
abbastanza naturale che il povero luogo- ” n 9 tenente del
reggimento La Fère, potesse apparire ai pro- i ‘n erande fra quanti
nomini fossero da 56 sto punto; quel fatale elem nto di
ciarla- 0. Rinnegando la sua vel chia fede nei fatti, cOn jò
a credere nelle parvenze, brigò per imparentarsì con le dinastie
austriache, col papati, con le vecchie false feudalità, che pure un
tempo gli apparivano chiaramente false; pensò & fondare una e
così via — come se la enorme mirasse che @ dinastia
Sua rivoluzione francese non era dunque € dannato ® zogna;>
è terribile, m® il vero dal falso quando v ventosa ammenda,
questa, che 1 uomo paghi per avere ceduto alla infedeltà del
cuore. La falsa ambizione ego stica era divenuta ora il suo dio: un®
volta scesi sino all’inganno di sè stessi, tutti gli altri inganni
seguono naturalmente, € si cade sempre più e più basso. In quale
gretta e rappezzata miseria, in quale mascherata tea- trale di manti di
carta e d'orpello, aveva ravvolta que- st'uomO la propria grande realtà,
immaginando cor ciò di farla più reale! E quel vacuo Concordato col papa;
che pretende ristabilire il cattolicismo mentr' egli stesso 1 riconosce
ch è il metodo di estirparlo, la vaccine religioni e quelle cerimonie
d’incoronazione, quelle con- È sacrazioni nella chiesa di Notre-Dame per
mezzo della Ai. vecchia chimera italiana — « cui nulla mancava, >
come disse l’Augereau,' ca completarne la pompa, Se non'quel mezzo
milione d’uomini, morti per far finire tutto ciò!...> + | RIA Ae di
Cromwell fu con la spada e con la — ja, e dobbiamo dirla genuinamente
vera. La spada \aneria prese Da or Francesco Auger
at Drama EETUIGIO), ANA onu, duca di Castiglione, maresciallo e
pari di | ‘che fu governatore a Berlino nel 1818, è difese Tione nel
1814 18 fruttidoro (LT9T); © ne ESTA. i ETTURA
SES ; lui senz alcuna chi- blemi del purttatni Aveva usato
en- ; I a et pretendev® ora difenderle! bagliò credette
troppo vide nell'uomo di -]* i ta
facilità... della fame © di questa 12 Siglo ta (Lor che edificasse
sulle nubi, e: SAR ina, e di arve dal mondo? i ni Sì
‘gua casa IN confusa rund; | i DO art in ciascuno di noi, esiste quest
SE. e potrebbe svilupparsi ove la tenti ciarlataneria,
; fosse forte abbastanza. € on Ma il suo sviluppo; invero;
| come ingrediente riconoscibil e ie DE: Sa a di Napoleone, &
stessa piccina. Che fu dunque 1 opere SI i lpore? Uno sprazzo come di
po malgrado di tanto sca p 3 Re vere da fucile largamente
sparsa; Una fiamma t) di eriche secche. Per un'ora, | universo
intero sembra avvolto dal fumo e dalle fiamme; ma per un' ora sol-
tanto. Poi svanisce, ed ecco riapparire Vl umiverso CON le sue vecchie
montagne ed i vecchi fiumi, con le stelle nell'alto e giù sotto il
benefico suolo. Il duca di Weimar diceva sempre agli amici di
farsi animo, chè questo Napoleonismo era ingiusto, era men- zogna,
e non poteva durare. La teoria è vera. Più questo Napoleone calpestava il
mondo, tenendolo tirannicamente + oppresso, più fiera sarebbe un
giorno la reazione del mondo contro di lui. L' ingiustizia si ripaga da sè,
e con uno spaventevole interesse composto. Non so davvero
a in dina pro alt OG Dio si ha risersata jar lui Ladino Boo
oi SA TmaSoni ne PESI Lira si, Sraianol: cho vuol gio del HIFEMENE
la la mila cl 1 ila son fumi tie tnio parere non durabile perchè
LARA RE LIE ICINLI cod’ artiglieria 0 veder affogare il suo reg-
jelior pal 7 ; cite rimento migliore, anzichè fucilare quel povero
libraio {edesco palm!? Fu un'aperta ingiustizia, una, tirannia,
un assassinio, che nessun uomo, la dipinga pure con uno strato di
colore alto un dito, potrà mai far apparire altrimenti. Questa ed altre
simili ingiustizie s' impres? sero profonde nei cuori; un fuoco represso
balenava dagli occhi degli uomini quando vi ripensavano.... aspet-
tando il giorno! Ed il giorno venne: € la Germania gli si sollevò d’
intorno. — L'opera di Napoleone sl ridurrà a lungo andare &
quanto egli compì giustamente, 2 quanto la natura sancirà con le sue
leggi, a quanto di realtà era in lui; ® tanto, e nulla più. Il resto fu
tutto fumo e sciupio. La carrière ouverte Aux talents: questo
grande messaggio di verità, che ha ancora da articolarsi e da
adempiersi dappertutto, ei lo lasciò in uno stato affatto inarticolato.
Egli fu un grande schema, un abbozzo, non mai completato: ed invero,
forse che il grand’ uomo è mai altro? Ma egli, ahimè, rimase in uno stato
tr0ppo rudimentale |... È quasi tragico il riflettere alle
sue opinioni sul mondo, quali le esprime là, a Sant'Elena. Sembra
pro- vare la più sincera meraviglia che tutto sia andato & quel
modo: ch’ egli sia stato gettato là, sulla rupe, e "che il mondo
ruoti ancora sul suo asse. La Francia. è ‘grande, anzi è sola
grande; ed in fondo Napoleone è la Francia. La stessa Inghilterra, egli
dice, non è per na- ura che un'appendice della Francia; < è per la
Francia n'altra isola d’Oleron. >» Così era per natura, per
l ‘Non può comprendere, non sa concepire che la realtà «ela
confederazione del Reno veniva formandosi, la polizia scoperse al Sci
librai furono arrestati ) ono per avervi avuto parte e Napol
Sa commissiono militare. Quattro degli Roca LARE oro
provincie: due, Schiderer e Palm, condannati a mi % 4 to
Napoloone fece grazia, una il libraio Palm di Norimberga vi atura di
Napoleone. Guardate, infatti : ECCOMI QUI da i 1 Nel 1806,
mentre l’ esercito francese occupava ancora la Germania, cuni
documenti, che rivelavano i piani d'un comitato segreto d'insurre-
e LEmTURÀ de mma; che la Francia TR da ci c jeposto
al suo P o, Ji non S1a la Francia. 3 ‘n a credere ciù
andezza, © dI DI ipbia i nesta “iano, COSÌ compatta, così
ana, ì g'è involuta; s'è quasi sua N° 0 ante un
temp: e a di fanfaronnadi da tmosfer: torbida n'ai osto
& lasciarsi calpe: LS contastare come pla si tà alla Francia ed
a sè; 0A it A mire! Napoleone 7 1 costene Ma, ahimè, OF
he giov Le, ui ; e natura, anch’ ess% si dia Essendosi UNA volta
staccato 1) st e) scamp nel vuoto; è Vv ebbe per o di rado
tocco ad un uomo sorte tanto desolata: e dovette morire; povero
Napoleone !.. mento troppo presto sciupato, sino &
"& ecco il nostro ultimo eroe! A si er * * Sa
Tiltimo in un doppio significato, poichè debbono con ‘]ui
terminare queste nostre peregrinazioni a traverso ‘tempi e luoghi così
diversi, cercando, studiando gli eroi. UR ME ne rinoresce: era un piacere
per me in quest’ occu: | pazione, sebbene misto a molta pena. È un grande
s0g= 5 molto grave, molto vasto, questo che io, appunto darmi
tropp'aria di gravità, ho chiamato cult@ Esso penetra profondo nelle
secrete vie del- ‘e ne’ più vitali interessi di questo mondo; tei
ge bro ben degno di svolgimento. In sei Invece che sei giorni, avremmo
potuto far meglio. lo: chi sa se nemmeno vi sono riu- per
penetrarvi un poco, dovetti Dn DIRE Tronno spesso, con bru- uttate
là isolate, senza commento, ho ‘cortese benevolenza, non voglio ora
parlare. per saviezza e leggiadria, ha ascoltato pazient pozze
parole. Sentitamente, cordialmente, vi rendo zie, ed a tutti dico:
Dio sia con voil Precisely a century and a year after this of
Puritanism had got itself hushed-up into decent composure, and its
results made smooth, in 1688, there broke-out a far deeper explosion,
much more difficult to hush-up, known to all mortals, and like to
be long known, by the name of French Revolution. It is properly the
third and final act of Protestantism ; the explosive confused return of
mankind to Reality and Fact, now that they were perishing of Semblance
and Sham. We call our English Puri- tanism the second act : “Well then,
the Bible is true ; let ils go by the Bible 1 ” “ In Church,” said Luther
; “ In Church and State,” said Cromwell, “let us go by what
actually God’s Truth.” Men have to return to reality ; they cannot live
on semblance. The French Revolution, or third act, we may well call
the final one ; for lower than that savage Sansculottism men cannot go.
They stand there on the nakedest haggard Fact, undeniable in all seasons
and circumstances ; and may and must begin again confidently to build-up
from that. The French explosion, like the English one, got its King, —
who had no Notary parchment to show for himself. We have still to
glance for a moment at Napoleon, our second modern King.
Napoleon does by no means seem to me so great a man as Cromwell. His
enormous victories which reached over all Europe, while Cromwell abode
mainly in our little England, are but as the high stilts on which the man
is seen standing ; the stature of the man is not altered thereby. I find
in him no such sincerity as in Cromwell ; only a far inferior sort.
No silent walking, through long years, with the Awful Unnamable of
this Universe; ‘walking with God," as he called it; and faith and
strength in that alone : latent thought and valour, content to lie
latent, then burst out as in blaze of Heaven’s /lightning 1 Napoleon
lived in an age when God was no longer believed ; the meaning of all
Silence, Latency, was thought to 'be Nonentity : he had to begin not out
of the Puritan Bible, but out of poor Sceptical EncyclopMies, This was
the length the man carried it. Meritorious to get so far. His
compact, prompt, everyway articulate character is in itself perhaps
small, compared with our great chaotic /^articulate Cromwell’s. In-
stead of 'dumb Prophet struggling to speak,' we have a por- tentous
mixture of the Quack withal I Hume’s notion of the Fanatic-Hypocrite, with
such truth as it has, will apply much better to Napoleon than it did to
Cromwell, to Mahomet or the like, — where indeed taken strictly it has
hardly any truth at all. An element of blamable ambition shows itself,
from the first, in this man ; gets the victory over him at last, and
in- volves him and his work in ruin. * False as a bulletin’
became a proverb in Napoleon’s time. He makes what excuse he could for it
: that it was necessary to mislead the enemy, to keep-up his own men’s
courage, and so forth. On the whole, there are no excuses. A man in
no case has liberty to tell lies. It had been, in the long-run,
better for Napoleon too if he had not told any. In fact, if a man
have any purpose reaching beyond the hour and day, meant to be found
extant next day, what good can it ever be to promul- gate lies ? The lies
are found-out ; ruinous penalty is exacted for them. No man will believe
the liar next time even when he speaks truth, when it is of the last
importance that he be believed. The old cry of wolf 1 — K Lie is nMhing ;
you can- not of nothing make something ; you make nothing at last,
and lose your labour into the bargain. Yet Napoleon had a
sincerity; we are to distinguish be- tween what is superficial and what
is fundamental in insin- cerity. Across these outer manceuverings and
quackeries of his, which were many and most bian>able, let us discern
withal that the man had a certain instinctive ineradicable feeling
for reality ; and did base himself upon fact, so long as he had any
basis. He has an instinct of Nature better than his culture was. His
savans, Bourrienne tells us, in that voyage to Egypt were one evening
busily occupied arguing that there could be no God. They had proved it,
to their satisfaction, by all man- ner of logic. Napoleon looking up into
the stars, answers, “Very ingenious. Messieurs ; but who made all that?”
The Atheistic logic runs-off from him like water ; the great Fact
stares him in the face : “ Who made all that ?” So too in Practice : he,
as every man that can be great, or have victory in this world, sees,
through all entanglements, the practical heart of the matter ; drives
straight towards that. “N^en the steward of his Tuileries Palace was
exhibiting the new uphol- stery, with praises, and demonstration how
glorious it was, and how cheap withal, Napoleon, making little answer,
asked for a pair of scissors, dipt one of the gold tassels from a
window- curtain, put it in his pocket, and walked on. Some days
after- wards, he produced it at the right moment, to the horror of
his upholstery functionary ; it was not gold but tinsel I In Saint
Helena, it is notable how he still, to his last days, insists on the
practical, the real. Why talk and complain ; above all, why quarrel with
one another ? There is no result in it ; it comes to nothing that one can
do. Say nothing, if one can do no- thing I” He speaks often so, to his
poor discontented follow- ers ; he is like a piece of silent strength in
the middle of their morbid querulousness there. And
accordingly was there not what we can call a faith in him, genuine so far
as it went ? That this new enormous De- mocracy asserting itself here in
the French Revolution is an insuppressible Fact, which the whole world,
with its old forces and institutions, cannot put down ; this was a true
insight of his, and took his conscience and enthusiasm along with it, —
a faith. And did he not interpret the dim purport of it well ?
* La carriers ouverte aux ialens^ The implements to him who “ran
handle them ;* this actually is the truth, and even the whole truth ; it
includes whatever the French Revolution, or any Re- volution, could mean.
Napoleon, in his first period, was a true Democrat. And yet by the nature
of him, fostered too by his military trade, he knew that Democracy, if it
were a true thing at all, could not be an anarchy : the man had a
heart-hatred for anarchy. On that Twentieth of June (1792),
Bourrienne and he sat in a coffee-house, as the mob rolled by :
Napoleon expresses the deepest contempt for persons in authority
that they do not restrain this rabble. On the Tenth of August he
wonders why there is no man to command these poor Swiss ; they would
conquer if there were. Such a faith in Democracy, yet hatred of anarchy,
it is that carries Napoleon through all his great work. Through his
brilliant Italian Campaigns, onwards to the Peace of Leoben, one would
say, his inspir- ation is ; ‘ Triumph to the French Revolution ;
assertion of * it against these Austrian Simulacra that pretend to
call it ‘ a Simulacrum 1’ Withal, however, he feels, and has a
right to feel, how necessary a strong Authority is ; how the Revolution
cannot prosper or last without such. To bridleMn that great devouring,
self-devouring French Revolution ; to tameit, so that its intrinsic
purpose can be made good, that it may be- come organic, and be able to
live among other organisms and formed things, not as a wasting
destruction alone : is not this still what he partly aimed at, as the
true purport of his life ; nay what he actually managed to do ? Through
Wagrams, Austerlitzes ; triumph after triumph, — he triumphed so far.
There was an eye to see in this man, a soul to dare and do. He rose
naturally to be the King. All men saw that he was such. The common
soldiers used to say on the march : “ These babbling Avocats, up at Paris
; all talk and no work ! What wonder it runs all wrong ? We shall have to
go and put our Petit Caporal there I” They went, and put him there ;
they and France at large. Chief-consulship, Emperorship, victory
over Europe ; — till the poor Lieutenant of La Fire, not unna- turally,
might seem to himself the greatest of all men that had been in the world
for some ages. But at this point, I think, the fatal
charlatan-element got the upper hand. He apostatised from his old faith
in Facts, took to believing in Semblances ; strove to connect himself
with Austrian Dynasties, Popedoms, with the old false Feud- alities which
he once saw clearly to be false ; — considered that he would found “ his
Dynasty” and so forth ; that the enormous French Revolution meant only
that ! The man was ‘given-up ^ to strong delusion, that he should believe
a lie a fearful but j most sure thing. did not knowJrue from false
no\y.wheiLj he looked at them, — the fearfulest penalty a man pays for
yielding . to untruth of heart. Self and false ambition had now become
^ his god : j^^deception once yielded to, all other deceptions
follow naturally more and more. What a paltry patchwork of theatrical
paper-mantles, tinsel and mummery, had this man wrapt his own great
reality in, thinking to make it more real thereby ! His hollow
^-Concordat, pretending to be a re- establishment of Catholicism, felt by
himself to be the method of extirpating it, ^fa vaccine de la religion
his ceremonial Coronations, consecrations by the old Italian Chimera in
Notre- Dame, — “wanting nothing to complete the pomp of it,” as
Augereau said, “nothing but the half-million of men who had died to put an
end to all that” ! Cromwell’s Inauguration was by the Sword and Bible ;
what we must call a genuinely one. Sword and Bible were borne before him,
without any chi- mera : were not these the’’ r^a/ emblems of Puritanism ;
its true decoration and insignia ? It had used them both in a very
real manner, and pretended to stand by them now 1 But this poor Napoleon
mistook : he believed too much in the Dup^~ ability of men ; saw no fact
deeper in man than Hunger and this 1 He was mistaken. Like a man that
should build upon cloud ; his house and he fall down in confused wreck,
and de- part out of the world. Alas, in all of us this
charlatan-element exists ; and might be developed, were the temptation
strong enough. ‘ Lead us not into temptation’ I But it is fatal, I say,
that it be developed. The thing into which it enters as a cognisable
ingredient is doomed to be altogether transitory; and, however huge it
may look, is in itself small. Napoleon’s working, accordingly, what
was it with all the noise it made ? A flash as of gunpowder wide-spread ;
a blazing-up as of dry heath. For an hour the whole Universe seems wrapt
in smoke and flame ; but only ^for an hour. It goes out : the Universe
with its old mountains and streams, its stars above and kind soil
beneath, is still there. The Duke of Weimar told his friends
always, To be of courage ; this Napoleonism was unjust^ a falsehood, and
could not last. It is true dqctrine. The heavier this Napoleon
tram- pled on the world, holding it tyrannously down, the fiercer
would the world’s recoil against him be, one day. Injustice pays
jt- self with frightful compound-interest. I am not sure but he had
better have lost his best park of artillery, or had his best regiment
drowned in the sea, than shot that poor German Bookseller, Palm I It was
a palpable tyrannous murderous injustice, which no man, let him paint an
inch thick, could make-out to be other. It burnt deep into the hearts of
men, it and the like of it ; suppressed fire flashed in the eyes of
men, as they thought of it, — ^waiting their day 1 Which day came :
Germany rose round him. — ^What Napoleon did will in the long-run amount
to what he did justly j what Nature with her laws will sanction. To what
of reality was in him; to that and nothing more. The rest was all smoke
and waste. La carri^re ouverte aux talens : that great true Message,
which has yet to articulate and fulfil itself everywhere, he left in
a most inarticulate state. He was a great Sbatiche, a rude- draught
never completed ; as indeed what great man is other ? Left in too rude a
state, alas 1 His notions of the world, as he expresses them there
at St. Helena, are almost tragical to consider. He seems to feel
the most unaffected surprise that it has all gone so ; that he is
flung-out on the rock here, and the World is still moving on its axis.
France is great, and all-great ; and at bottom, he is France. England
itself, he says, is by Nature only an ap- pendage of France ; “another
Isle of Oleron to France.” So it was by Nature, by Napoleon-Nature ; and
yet look how in fact — Here am I I He cannot understand it :
inconceivable that the reality has not corresponded to his program of it
; that France was not all-great, that he was not France. ‘Strong
delusion,’ that he should believe the thing to be which is not I The
compact, clear- seeing, decisive Italian nature of him, strong, genuine,
which he once had, has enveloped itself, half- dissolved itself, in a
turbid atmosphere of French fanfaronade. The world was not disposed to be
trodden-down underfoot ; to be bound into masses, and built together, as
he liked, for a pedestal to France and him : the world had quite other
pur- poses in view! Napoleon's astonishment is extreme. But alas,
what help now ? He had gone that way of his ; and Nature also had gone
her way. Having once parted with Reality, he tumbles helpless in Vacuity;
no rescue for him. He had to sink there, mournfully as man seldom did ;
and break his great heart, and die, — this poor Napoleon ; a great
implement too soon wasted, till it was useless : our last Great Man
I Our last, in a double sense. For here finally these wide
roamings of ours through so many times and places, in search and study of
Heroes, are to terminate. I am sorry for it: there was pleasure for me in
this business, if also much pain. It is a great subject, and a most grave
and wide one, this which, not to be too grave about it, I have named
He?'o-worship. It enters deeply, as I think, into the secret of Mankind’s
ways and vitalest interests in this world, and is well worth explaining
at present. With six months, instead of six days, we might have done
better. I promised to break-ground on it ; I know not whether I have even
managed to do that. I have had to tear it up in the rudest manner in
order to get into it at all. Often enough, with these abrupt utterances
thrown-out iso- lated, unexplained, has your tolerance been put to the
trial. Tolerance, patient candour, all-hoping favour and kindness,
which I will not speak of at present. The accomplished and distinguished,
the beautiful, the wise, something of what is best in England, have
listened patiently to my rude words. With many feelings, I heartily thank
you all ; and say, Good be with you all ! Domenico Cardone. Domenico
Antonio Cardone. Keywords: Clark Kent; ovvero, sul sovrumano, “Ricerche
filosofiche”; futilitarianism, inutilitarianism, Grice, “The philosophy of life,”
Grice, “Philosophy of life”, essere e divenire – il sovraumano, Nietzsche,
Bergson, D’Annunzio, sobra-uomo, super-uomo. Jesus as a philosopher! Tommaso
Carlyle, Il culto degl’eroi – culto, worth-ship, valore, Napoleone, natura
italiana -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardone” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Carifi: l’implicatura
conversazionale dell’ablativi relativi – Roman implicata -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Pistoia). Filosofo italiano. Grice: “I
would call Carifi a poet rather than a philosopher! He did indeed philosophise
‘in difesa della filosofia,’ but that
should read of ‘his’ ‘filosofia,’ which he sees as an elaboration on
death! My favourite are his ‘lezioni’ di filosofia and his ‘ablativo assoluto,’
something English lacks, but ‘deo volente’ doesn’t!” -- Studia sotto Bigongiari, tra i maggiori
esponenti dell'ermetismo fiorentino, profondamente influenzato dalle voci liriche
di Rilke e Trakl, su cui si è esercitato anche come traduttore, oltre a essere
poeta, svolge l'attività di critico letterario e filosofico. Autore de “Il
segreto”. Al fianco degli studi filosofici, vi sono quelli di psicoanalisi a
Milano. Mentre nelle liriche si risente la dizione rilkiana e emerge il debito
verso Heidegger, nei componimenti successivi questi motivi vengono amalgamati a
nuove istanze della sensibilità. In particolare dopo la dura prova della
malattia, l'incidente, come lui chiama l'ictus da cui è stato colpito, i suoi
versi abbracciano una nuova forma di rarefazione dissolvente in cui l'essere,
attraversato dal dolore, cerca una via estrema di comunicazione per
ricongiungersi al mondo. Luoghi e figure dell'anima. Due sono i temi che
incardinano la sua poetica: la madre e il legame con la città natale, Pistoia,
che di quel rapporto affettivo è l'emanazione, entrambi raccolti
filosoficamente nel rimando all'infanzia, epoca originaria dei sensi, periodo
d'elezione per l'anima ma anche ingrato, di cui si fatica a cogliere l'essenza
se non a patto di una discesa spossante. Ora è l'attimo che attende, è
l'istante che prepara i tempi a un altro istante dove si deve attendere
l'infanzia, quella bastarda che era là, tragico volto dei bambini. La madre,
dolorosa musa, abbandonata dal marito quando il bambino aveva appena tre anni,
ha lungamente accompagnato e sorretto la voce del figlio. La sua scomparsa è
una perdita incolmabile nella vita e nel suo immaginario. La città rappresenta
un caldo grembo, dove tutto rimanda a quel legame dissolto ma anche alle tante
amicizie e perfino a quegli spiriti gentili di artisti e letterati che
continuano ad aggirarsi, figure di sogno, nelle strette strade del centro. Bigongiari
era di Pistoia. Era figlio del capostazione e abitava in Via del Vento, accanto
a Manzini. Nei miei viaggi onirici li vedo tutti e due, Bigongiari e Manzini,
camminare tra Via del Vento e Via Verdi, in silenzio perché parlano una lingua
muta, una lingua del deserto che solo i poeti e i mistici capiscono. Nei suoi
versi rivive di continuo la devozione spirituale per il luogo, la cui essenza
poetica sta nell'intreccio di memorie che lo abitano, un passato con cui si
misura in uno stato di incerta beatitudine tra sogno e veglia. Nasco
filosofo con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si
è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia
arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia
parla del cielo, delle foreste degli uomini, fa un salto verso la verità.
Abbandona il linguaggio su cui, bene o male, la filosofia regge e sceglie
un linguaggio pre-sentativo'', il linguaggio della presenza. La sua
ricerca è la risposta alle varie vicende dell’uomo. L’uomo colma e coglie sé
stesso attraverso il percorso del lume, l’apertura alla conoscenza. L’uomo mite
che miete la luce, capace di cuore della verità, che non rinuncia al pensiero
della responsabilità e della parola, è l’uomo Carifi. Non bisogna accostarsi a
lui con il timore di leggere un incomprensibile tomo di filosofia analitica
alla teoria dell’implicatura di Grice, sia pur condividendo con lui che non
esistono concetti semplici, né concetti già pronti, perché la filosofia analitica
di Grice è, Grice morto, in divenire, è in movimento. Un sottile ma preciso
filo conduttore che caratterizza la raccolta delle sue lunghe e silenziose
riflessioni è la pratica dell’intensità, destini che si rivelano fino in fondo.
Esercita il bello della profondità portandola, a tutti, sul piano conoscitivo
della conversazione. Le sue opere sono cammini culturali e spirituali dove
l’uomo ed il valore sono all’unisono un giro concentrico di piaceri. La
conversazione è un abisso che, in un’intima solidarietà, unisce il moto
interiore all’estetica dell’espressione, e la conversazione diviene il veicolo
principale dove il silenzio meditativo e contemplativo si colora di una
dimensione inter-oggettiva. La conoscenza dell'altro.L'uomo del pensiero:
Roberto Edizione Polistampa, Firenze. Poesia e filosofia convivono e si
alternano nella sua vasta produzione, tra i maggiori autori contemporanei. E
conosciuto per i testi filosofici e per l’intensa attività poetica,
influenzata, a partire dagli anni Ottanta, dall’amicizia con Bigongiari; ma
anche per le traduzioni in italiano di Hesse, Rousseau, Racine, Bataille, Trakl
e Weil. La poesia è una stretta di mano su «Naturart», rivista di cultura, Giorgio
Tesi Editrice» Scopre il dolore con la perdita della madre che diventa la
sua ossessione poetica, descritta come un pozzo in cui scendere. Le sue due
antologie poetiche (Infanzia; Nel ferro dei balocchi), pur seguendo percorsi
diversi, si ergono entrambe su due abissi: l'infanzia personale, ma al contempo
quella di intere generazioni europee, segnate da un legame indissolubile.
Archivio Festival Letteratura, Palazzo Ducale, Mantova. È una poesia in cui la
forte componente autobiografica trasfigura il vissuto, in quanto ciò che si
racconta assume valore paradigmatico: situazioni ed episodi emblematici in cui
l’uomo incontra l’assoluto. Incontro su «VIinforma», rivista culturale della
Banca di credito coooperativo di S. Pietro in Vincio» «La raccolta Madre,
proprio perché torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare
al complessivo percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un
momento di passaggio e di mutamento, determinato prima dall’avvicinamento al
buddismo, poi dalla malattia. Giuseppe Grattacaso, Supplica alla madre su
«Succedeoggi» Cultura nell’informazione quotidiana» Opere Raccolte
poetiche Simulacri (Forum/Quinta Generazione, Forlì); Infanzia (Società di
Poesia, Milano, rist. Raffaelli, Rimini ); L'obbedienza (Crocetti, Milano);
Occidente (Crocetti, Milano); Amore e destino (Crocetti, Milano); Poesie (I
Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); Casa nell'ombra (Almanacco
Mondadori, Milano); Il Figlio (Jaca Book, Milano); Amore d'autunno (Guanda,
Parma-Milano); Europa (Jaca Book, Milano); Il gelo e la luce (Le Lettere,
Firenze); La pietà e la memoria (Edizioni ETS, Pisa); D'improvviso e altre
poesie scelte (Via del Vento edizioni); Nel ferro dei balocchi (Crocetti,
Milano 2008); Tibet (Le Lettere, Firenze ); Madre (Le Lettere, Firenze); Il
Segreto (Le Lettere, Firenze ); Racconti Victor e la bestia (Via del Vento
edizioni, Pistoia); Lettera sugli angeli e altri racconti (Via del Vento
edizioni, Pistoia); Destini (Libreria dell'Orso editrice, Pistoia); Saggi Il
gesto di Callicle (Società di Poesia, Milano); Il segreto e il dono (EGEA,
Milano); Le parole del pensiero (Le Lettere, Firenze); Il male e la luce (I Quaderni
del Battello Ebbro, Porretta Terme); L'essere e l'abbandono (Il Ramo d'Oro,
Firenze); Nomi del Novecento (Le Lettere, Firenze); Nome di donna (Raffaelli,
Rimini ). Note Rainer Maria Rilke,
L'angelo e altre poesie, Via del Vento edizioni, 2008; Georg Trakl, La notte e
altre poesie, traduzione di Massimo Baldi e Roberto Carifi, Postfazione di
Roberto Carifi, Via del Vento edizioni. Tiene la rubrica mensile "Per
competenza" sulla rivista «Poesia». Per ulteriori notizie si veda la
sezione dedicata ai cenni biografici del poeta nel volume Roberto Carifi,
D'improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento edizioni, Da Roberto Carifi,
Tibet, Le Lettere,. Da Pistoia in
parole. Passeggiate con gli scrittori in città e dintorni, Alba Andreini,
introduzione di Roberto Carifi, Edizioni ETS,.
M. Baudino, Nel mitico mondo di Carifi, «Gazzetta del Popolo»; C.
Viviani, Il mito e il nuovo inquilino, «Il Giorno», F. Ermini, Il mito per
relazionarsi al reale, «Il quotidiano dei lavoratori», G. Giudici, Il gesto di
Callicle, «L'Espresso»; A. Porta, Il gesto di Callicle, «Alfabeta», M.
Spinella, La microfisica del significante poetico, «Rinascita», nQui sento odor
di buoni versi, «Il Messaggero»; Infanzia, «Il piccolo Hans», Al fuoco di un
altro amore, Jaca Book, L'anima e la forma nel verso. «Avvenire»; P.F.Iacuzzi,
Il paradosso della poesia italiana. «Paradigma»; Utopisti e menestrelli,
«L'indice», R. Nostalgia del tragico, «Corriere del Ticino»; I Quaderni del Battello
Ebbro. Basso continuo del rumore bellico per litanie epiche sull'occidente, «Il
Manifesto». Il filo del tramonto e del rimpianto, «Il Giornale», La poesia, il
luogo del ritorno a casa, «La Nazione», La lingua continua a battere dove la
carità duole, «Il Mattino», Il buio mondo che ci avvolge, «Il Sole 24
ore», Il lato oscuro delle cose, «La Repubblica»; Sul vuoto appesi alla parola, «La Nazione», Amore
senza tempo, «Il Sole 24 ore»,; E per musa ispiratrice la nostalgia,
«Avvenire», Classici pensosi versi,
«Gazzetta di Parma», Amore per una donna e per il nulla, «Il Giorno», Gli amori
di Carifi, «La Nazione»; B. Manetti, Carifi il poeta errante, «La Repubblica»;
D. Attanasio, Amore e morte trascendenti segreti, «Il Manifesto», R. Copioli,
Carifi: il desiderio è mitico, «Avvenire», 14 maggio 1994; E. Grasso, L'amore
quando il lume si spegne, «L'Unità»; A. Donati, Intervista a Roberto Carifi,
«Il Giorno», Doni al confine del tempo, «Il Sole 24 ore»; L'angelo poetico
della solitudine, «Il Giorno», R. Figli innamorati del proprio destino,
«Avvenire»; Il male come provocazione estetica – estetica del male -- Chiaroscuro
con lampada e scialle, «Il Sole 24 ore»; Chi son? Sono un poeta, «Il Giornale»;
Il dolore nelle sillabe, «La Gazzetta di Parma»; Un angelo in esilio, «Avvenimenti»;
U. Piersanti, Il figlio, «Tutto Libri»; Bigongiari, Carifi: parole e voce di
Figlio, «La Nazione»; Quel contratto da verificare, «Il Sole 24 ore», Angeli
sospesi tra essere e abbandono, «Avvenire», Un neoromantico invoca il cuore, i
sogni, l'addio, «Tutto Libri», Amore
d'autunno, «L'Espresso», Morte di madre. Quando la poesia "riversa la
vita", «Il Giornale», L’elegia di uno stile semplice, «Avvenire»; Quei
legami vitali tra figlio e madre, «La Nazione»; Tra infelicità e silenzio, «Il
Sole 24 ore»; Un dolcissimo amore d'autunno, «Il Giornale», L'estetica
dell'amore, «Il Tirreno», Dalla parte del cuore, «Gazzetta di Parma»; E. Coco, Rivista
de Literatura. Un dialogo a distanza sull'alterità del figlio, introduzione a
R. Carifi e U. Buscioni, Figure dell'abbandono, maschiettoemusolino, Siena; Il
pathos del sublime: la poesia di Carifi, «Atelier», D. Fiesoli, Europa, «Il
Tirreno», B. Garavelli, Addio alla madre, «Avvenire», G. Colotti, Europa, «Il
Manifesto»; La religiosa tragicità di
Carifi, «Poesia»; F. A. Scorrano, La conoscenza dell'altro. L'uomo del pensiero.
Edizione Polistampa, Firenze, S. Ramat, Roberto Carifi nel nome della madre, «Il
Giornale», Per la sezione bibliografica
questa voce trae informazioni dalla
inglese. Piero Bigongiari
Gianna Manzini Pistoia Via del Vento edizioni //poesia.blog.rainews//09/blog
Poesia Rai News L'UOMO DEL PENSIERO. Saggio sulla poesia di Carifi Tre poesie
su «Sagarana», su sagarana.net. Una recensione di Infanzia, su
margininversi.blogspot. Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore articolo
di Andrea Galgano su «Clandestino». Grice: “One impotant thing to consider is
the passive voice of the future perfect – TEMPVS PLVSQVAMPERFECTVS PRAETERITVM
– there was a specific form, ‘dedidi’ i. e. an inflected form, only in the
passive voice. However, no record was found of the passive voice, except by use
of what I call an ‘auxiliary’ verb – ‘have’ – cf. my notes on ‘do’ – ‘do’ and
‘have’ as auxiliary. However, the Romans found a way: the ablativo assoluto –
the house given, she proceeded to furnish it. Money having been given to the
merchant, the buyer left – Admirably, as Aelfric noted, in Latin, the
pluperfect, strictly tempus praeterium plusquamperfectum, is formed without an
auxiliary verb . MODUS INDICATIVUS/SUBJUNCTIVUS. Pecuniam mercatori DEDERAT.
Pecunimam mercatori DEDISSET – Ha had given money to the merchart. He should
have given money to the merchant. The Roman even had a choice of the ablative
absolute hrase, consisting of the noun and the perfect participle in the
ablative case. Pecuniis mercatori datis cessit emptor , Money having been given
to the merchant, the buyer left. pecuniis mercatori non datis non cessit
emptor. Money not having been given to the merchant, the merchant killed one of
the buyer’s slaves. The difference is merely implicatural. In the verbal form
(dederat, dedisset) is is explicated that it was the buyer who paid. In the
absolute-ablative case, it is merely implicated. For all the utterer cares, it
could have been the buyer’s slave. Cicero refers to an use of the RELATIVE
ablative which is even ‘more slippery’ and thus optimal for cross examination.
Money Carifi. Keywords: ablativi
relative, filosofia e poesia – l’implicatura del poeta – l’implicatura di Blake
– l’implicatura di Guglielmo Blake – rhyme or reason – the invention of rhyme –
l’invenzione della rima – empedocle: ragione senza rima -- Heidegger,
conversation, language, silence, being, inter-subjectivity. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Carifi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carle – le radici del
diritto romano – la legge romana – la natura romana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza -- (Chiusa di Pesio). Filosofo italiano. Grice: “I like
Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract on ‘exceptio’ is
eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can found it on
Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he speaks of a
‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls ‘social
philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome of
joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del positivismo. La dottrina giuridica del fallimento nel
diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia Università); Prospetto
d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale, Torino, F.lli
Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio
comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le origini del
diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto
pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La filosofia del diritto
nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia
del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli italiani. Positivismo: ius – fatto – non valore – l’implicatura
di Romolo e Remo. Naturalism – giusnaturalismo – forza – autorita – ius – “LE
ORIGNI DEL DIRITTO ROMANO” -- RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A
BASE DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA. Fuit haec sapientia quondam
Publica privatis secernere, sacra profanis. HOR., poet Ars. LABOR NOR TORINO
FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE
Via del Corso. Via Cerretapi. DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA Università, 12
Piazza Plebiscito, 2 S. Maria al Ros.°, 23 (N. Carosio ) (N. Carosio )TORINO
BONA. La nobile Università di Bologna, commemorando in questi giorni l'ottavo
centenario dalla sua fondazione, ci rammenta anche l'epoca, in cui essa
iniziando gli studi sul diritto romano si rese benemerita di tutto il mondo
civile. Agli omaggi, che in questa occasione solenne convengono costi d'ogni
paese, mi sia consentito di aggiungere quello di un'opera ispirata al desiderio
di mantenere viva nella gioventù studiosa italiana la tradizione civile e
politica di Roma. Di Lei Rettore Magnifico bord Torino, Devot.mo ed obblimo. Ritornato
di proposito allo studio del diritto romano, in seguito all'incarico affidatomi
di insegnarne la storia nella R.Università di Torino, parvemi di rileggere uno
di quei libri, la cui meditazione può riempiere tutta una vita, perché ad ogni
lettura e ad ogni età offrono campo ad osservazioni, che prima sono sfuggite.
Quegli studii di giurisprudenza comparata, che in questi ultimi anni si vennero
facendo sulle istituzioni primitive di quel periodo gentilizio, nel quale
debbono essere cercate le fondamenta, sovra cui furono poscia edificate le
città, mi parvero irradiare di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e
aprire nuove vie per spiegare il processo, con cui ebbe ad essere iniziata la
formazione del medesimo. È strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le
grandi elaborazioni del genere umano, è certamente quella, che ebbe ad essere
maggiormente studiata nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi
risultati, continui pur sempre ad essere un grande mistero il processo, con cui
i romani giunsero ad elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui essi
e non altri riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa singolarità
deve essere riposta in ciò, che per risolvere il problema delle origini del
diritto romano non può bastare lo studio staccato dei frammenti, nė
l'esegesi applicata ai testi, ma conviene ricomporre le epoche, raccogliere i
rottami che ci pervennero di esse, colmarne le la cune, riportarsi col pensiero
alle condizioni economiche e sociali del primitivo popolo romano, sforzarsi di
rivivere in quel tempo e di pensare in certo modo alla romana, tener conto
delle particolari attitudini dell'ingegno romano, far procedere di pari passo
la formazione della città e lo svolgimento delle sue istituzioni pubbliche e
private. Conviene insomma ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti
colla vita sociale di Roma, e cercare cosi di decifrare la pagina più splendida
della vita del diritto nella storia dell'umanità. Certo era naturale cosa, che
uno studioso della vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal
sapesse resistere alle attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non
di venir meno,madi perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato
con tutte le forze. Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e
storico, che governa la formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi
esordii, non coll'intento di sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con
quello più modesto di valermi dei materiali che furono raccolti con tanta
diligenza, sopratutto in Germania. Mi accinsi poi all'arduo compito con un
entusiasmo, che forse più non conviene alla mia età, ma che ebbe il vantaggio
di rendermi aggradevole la lunga fatica, e che vorrei trasfondere nella
gioventù studiosa, unitamente alla convinzione profonda, che le grandi elaborazioni
dell'ingegno umano, mentre cambiarono in maestri dell'umanità coloro, che
giunsero a crearle, hanno anche il pregio di confortare ed elevare il pensiero
di coloro, che si travagliano per comprendere il processo natu rale, che ne
governd la formazione. Debbo tuttavia una confessione al lettore benevolo: ed è
che il presente saggio, cominciato forse coll’idea, non preconcetta, ma
latente, che il diritto pubblico e privato di Roma fosse il frutto di una
evoluzione determinata dalle condizioni esteriori, in cui si trova il popolo
romano, riusci invece a conclusioni alquanto diverse. I romani, cosi nel
formare la propria città, come nell’elaborare le proprie istituzioni pubbliche
e private, seguirono un processo, che chiamo di selezione. Anziché essere
dominati dai fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e di sottometterli
alla logica inesorabile del proprio diritto. Come le mura della loro città sono
costruite coi massi più solidi delle costruzioni gentilizie, cosi i concetti,
che stanno a base del loro diritto pubblico e privato, sono trascelti nel seno
stesso della organizzazione gentilizia. Ma trapiantati nella città ed isolati
cosi dall'ambiente, in cui si erano formati, si cambiarono in altrettante
concezioni logiche, che si vennero poi svolgendo ed accomodando alle esigenze della
vita civile e politica. Anche questo e un processo naturale. Ma non è più il
processo, che governa la formazione degli strati geologici, che si
sovrappongono gli uni agli altri e serbano l'impronta dei bassi fondi sovra cui
si vengono precipitando, bensi il processo, che governa la formazione dei
cristalli, per cui gli elementi affini, depurati da ogni scoria, si vengono,
per dir cosi, ricercando ed attraendo e si dispongono costantemente secondo
quelle forme tipiche, che ne governano la formazione. Di quiconseguita, che il diritto
romano non èu na produzione determinata esclusivamente dall'ambiente e dalle
condizioni esteriori. Ma è già l'opera in parte consapevole dello spirito vivo
ed operoso di un popolo, il quale, valendosi di attitudini naturali, che in
questa parte si possono chiamare veramente meravigliose, riusci a secernere e
ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani, a modellarla in
concetti tipici, a svolgere i medesimi in tutte le conseguenze, di cui po
tevano essere capaci, e a trasmettere cosi alle nazioni moderne un
capolavoro di arte giuridica. Questo è il risultato ultimo, a cui sono
pervenuto. Per la prova del medesimo invito gli imparziali amici del vero
a leggere il saggio, nel quale, malgrado la varietà immensa dei particolari,
cerca di riprodurre quella coerenza organica, che è la caratteristica dello
svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Le
tradizioni e le leggende da cui appare circondata la fondazione di Roma presentano
a primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte, Roma ha
infanzia. E fondata di pianta da un avventuriero di origine latina e di stirpe
regia, condottiero di una banda armata, il quale, dopo aver circondata la città
di mura, avrebbe aperto un asilo agl’esuli e ai rifugiati dalle dalle comunanze
vicine. E il fondatore stesso che da a Roma le sue istituzioni pubbliche e
private. Il suo successore le da l'organizzazione del culto, finchè da ultimo
Roma già ingrandita, mediante l'incorporazione di popoli e di genti diverse,
avrebbe ricevuto una nuova organizzazione civile, politica e militare per opera
di Servio Tullio, che si sarebbe così meritato il nome di secondo fondatore
della città. Per tal modo, la forza dapprima, poi la religione -- e da
ultimo la sapienza civile hanno posto, le fondamenta della città, e le sue
istituzioni civili e politiche appariscono come una creazione personale dei re,
fra i quali la tradizione avrebbe perfino distribuito il compito. Il suo
fondatore è latino, mentre invece è sabino l'organizzatore del culto, e da
ultimo è probabilmente di origine etrusca quegli, che ne ha riformato
compiutamente l'organizzazione civile e politica e ha stabilito quelle
istituzioni, che riceveranno poi il proprio svolgimento durante l'epoca
repubblicana. Da un altro lato, invece, la stessa tradizione circonda la
fondazione di Roma di cerimonie religiose, di carattere tradizionale, che supponneno
una religione già compiutamente formata, e fa apparire Roma nella storia con un
nucleo di istituzioni pubbliche e private, che dove poi svolgersi con un rigore
pressochè geometrico, ma che intanto suppongono una lunga elaborazione
anteriore. Di fronte a questa apparente contraddizione, il maggior problema,
che si presenta al filosofo e quello di sostituire alla storia leggendaria
delle origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le
origini delle istituzioni primitive con cui essa appare nella storia. In questa
ricostruzione, la filosofia dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a noi
pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leggende. Ma dovette
poi riaccostarsi alle medesime, e finisce per giungere a questo risultato, che
le istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono esser ritenute
come l'opera esclusivamente personale dei re. Debbono essere riguardate come il
frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in un periodo anteriore
di organizzazione sociale, che sarebbe il periodo dell'organizzazione
gentilizia o patriarcale. Roma secondo i risultati della filosofia, avvalorati
anche dagli studii comparativi fatti sui popoli primitivi sopratutto di origine
ariana, continua quell'opera di formazione della convivenza civile e politica,
iniziata gia dalle altre popolazioni italiche, le cui memorie risalgono ad
epoca anteriore a quella che è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è
presso le genti latine ed italiche, che debbono essere cercate le origini delle
primitive istituzioni di Roma. Secondo il computo più universalmente adottato,
Roma è stata fondata nell'anno – ANNO I – ed e comparsa fra popolazioni
diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite dall'organizzazione
gentilizia, e stano avviandosi ad una vera e propria organizzazione civile e
politica. Senza entrare nella questione dei rapporti, che possono correre fra [Per
un riassunto esatto delle tradizioni intorno alla storia primitiva di Roma
accompagnato da una critica finissima per separare il nucleo primitivo della
tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da vedersi BONGHI, “Storia
di Roma”. Per lo studio delle istituzioni poli tiche importa sopratutto la
parte che si occupa appunto della costituzione politica di Roma, secondo
CICERONE, Livio, Dionisio] le stirpi italiche e le stirpi elleniche e in quella
della loro provenienza dall'Oriente (1), questo è certo che fra le stirpi
italiche già erano pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di potenza le
stirpi umbro-sabellica, latina ed etrusca. Scavi dimostrano che il sito
occupato da Roma dove già essere popolato da un'epoca assai remota e del tutto
pre-istorica. E scoperta sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza
dimostra che una città etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena)
esiste anche prima del periodo reale leggendario, e costituisce una prova molto
importante contro quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine
esclusivamente latina e sabina, tende ad escludere o quanto meno ad attenuare
l'influenza dell'elemento etrusco. Tale provenienza delle stirpi italiche dalle
razze ariane e la conseguente loro, parentela colle elleniche, colle germaniche,
celtiche e slave, è oggidì universalmente ammessa, salvo che si mantiene ancora
sempre una grande oscurità circa l'origine della razza etrusca. Tra gli autori
recenti ha recato un contributo alla dimostrazione di tale provenienza Leist, “Graeco-italische
Rechtsgeschichte” (Jena), sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di
certi concetti primitivi comuni agl’arii dell'India e alle genti italiche ed elleniche.
È da vedersi la parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui
discorre dei concetti di rita, themis e ratio. Quest'origine comune è pure
ammessa dal BERNHÖFT, “Staat und Recht der Römischen Königszeit” (Stuttgart). Per
quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le istituzioni elaboratesi
nell'oriente dagl’arii primitivi ebbero a ricevere presso gli’arii dell'India,
della Persia, e poscia nell'occidente presso i greci, gli’italici ed i germani,
mi rimetto a quanto ho scritto in “La vita del diritto nei suoi rapporti colla
vita sociale” (Torino), i cui primi due libri sono appunto dedicati a tale
svolgimento. Sono a vedersi in proposito le notizie sugli scavi, che si
pubblicano dall'Accademia dei Lincei. Come riassunto degli studii topografici
fatti intorno a Roma fino a questi ultimi tempi mi sono valso dell'opera di
MIDDLETON, “Ancient Rome” (Edinburgh). Middleton parla di questi scavi e dei
resti dell'antichissima Rom. Fra gli autori che tendono a scemare l'influenza
del l'elemento etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il MOMMSEN, il LANGE, e il
Pelham nella sua storia di Roma antica pubblicata nell’Encyclopedia Britannica,
ninth edition, Edinburgh, -- voce: Rome. Combatte questa opinione il Taddei nel
suo l”Roma e i suoi Municipii” (Firenze). Senza pretendere di risolvere la
questione, è lecito osservare che mal si può sostenere la niuna influenza su
Roma primitiva di un popolo come l'etrusco che ha già delle città in siti
vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu fondata, e che diede a Roma i
tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più profondamente non solo
l'aspetto esteriore della città, ma anche la costituzione politica della
medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il suolo italico, per quanto ora
si ritengano tutte uscite dalla stirpe aria, hanno però dimenticata la
provenienza comune ed apparivano distinte fra di loro di origine, di costumi e
non hanno fra di loro comunanza di matrimonii. Solo sono ravvicinate da feste
religiose e da certi luoghi di mercato, ove taceno i conflitti e si praticao
gli scambi ed i commerci. Quanto alla loro organizzazione sociale, esse,
secondo l'opinione di Mommsen, del Leist, del Lange, si trovano nel periodo di
transizione dall'organizzazione gentilizia di carattere patriarcale
all'organizzazione politica della città e del municipio. Però anche a questo
riguardo si presentano in stadii e gradazioni diverse. La stirpi umbro-sabellica
apparisce con un carattere pro fondamente religioso. Sono dedite ancora più
alla pastorizia che al l'agricoltura. Preferiscono per formarvi le proprie sedi
i luoghi montani e conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che
è proprio degli abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e
proprie città, ma in villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze
rurali, e serbano le traccie di una potente organizzazione gentilizia, di cui
puo trovarsi un notevole esempio nella gens “Claudia”. Queste stirpi anche più
tardi dimostrarono poca attitudine alla formazione di un vero e proprio stato,
come lo provano le sorti dei bellicosi sanniti, che sono appunto derivati dal
ceppo umbro-sabellico. Trovansi invece già in condizione più progredita, per quel
che riguarda l'organizzazione sociale, la stirpe latina. Il Lazio infatti
appare diviso in altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite
da una aggregazione di famiglie e di genti, le quali discendono da un antenato
comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio. Tali
aggregazioni di genti, che chiamansi tribù, abitano nei vici e nei pagi. Ma,
riconoscendo la loro origine comune, anzichè avere una esistenza del tutto
separata ed indipendente, sono già a far parte di un'aggregazione più vasta,
che costi [In ciò sono d'accordo Mommsen, Histoire Romaine. Trad. De Guerle.
Paris, ed anche il Lange, Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et
Didier. Paris. Lange attribuisce alle genti sabine un carattere più
conservatore che non alle Latine [-tuisce poi il “populus” e la “civitas”.
Questa aggregazione più vasta non solo ha comune la lingua, il costume e la
religione, ma eziandio la legge, l'amministrazione della giustizia e la difesa
contro gl’attacchi e l’aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un
centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio,
il quale centro comune era l'”urbs”, così chiamata dall'*orbita* sacra che la
circonda, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza, a cui riparare nei
momenti di pericolo, il tempio del divino patrono – “dius,” “dius-piter” --
dell'intiera comunanza, il luogo ove si amministra giustizia, il sito per il
mercato e per le pubbliche riunioni. Questi stabilimenti pertanto, più che vere
e proprie città quali noile intendiamo, sono piuttosto inizii di città future,
in quanto che esse contenevano sopratutto quegl’edifizii, che hanno pubblica
destinazione. L'urbs era in certo modo il centro della vita pubblica per le
diverse comunanze di villaggio, come lo dimostrano anche le varie porte
esistenti nel muro di cinta, le quali porgevano modo di accedervi agl’abitanti
dei diversi villaggi. Si aggiunge che le varie città latine, le quali, secondo
la tradizione, sarebbero state in numero di XXX, erano anche confederate fra di
loro e mettevano capo ad una capitale: Alba Longa. Cid dimostra come le
popolazioni latine già fossero abbastanza progredite nella loro organizzazione
sociale, poichè, pur continuando ancora a vivere nelle comunanze di villaggio, sono
pero già pervenute a concepire e in parte ad attuare quella vita pubblica
comune, che dove poi svolgersi nella città e nel municipio. Vengono infine la stirpe
etrusca, la cui civiltà è ancora oggidi celata nel mistero, perchè le traccie
di essa furono in certo modo cancellate ed assorbite da Roma. Non può tuttavia
esser dubbio, che esse già erano in condizione di maggior progresso eco nomico
e civile delle altre popolazioni italiche, in quanto che posse devano vere e popolose
città, conoscevano le arti e la moneta, e per essere dedite al commercio si
trovano in comunicazione maggiore cogli altri popoli e sopratutto coi Greci. Anche
presso di queste era largamente svolto l'elemento religioso, come lo dimostra
la sapienza loro attribuita nell'arte augurale e nella consultazione degli
auspizii, come pure la tradizione, che presso di essi esistessero libri, (1)
MOMMSEN, FUSTEL DE COULANGES, La cité antique (Paris) - che determinano i riti
con cui le città dovevano essere fondate, e davano le regole secondo cui la
loro popolazione dove essere ripartita in tribù ed in curie. Del resto anche
l'antica costituzione della città etrusca, secondo Mommsen, si accosta nei suoi
tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il passaggio
dall’organizzazione patriarcale all'organizzazione muicipale già erasi spinto
più oltre, in quanto che la stirpe etrusca, per essere sopratutto dedite alla
navigazione ed al commercio, erano state naturalmente condotte a svolgere di
preferenza le comunanze urbane, che non le comunanze di carattere
esclusivamente rurale. I capi etruschi avevano il nome di Lucumoni. La
popolazione delle loro citt dividevasi in nobili ed in plebei, come pure
in tribù ed in curie, e se al disopra delle singole città apparivano eziandio
delle confederazioni, i vincoli pero che stringevano insieme le varie città,
che entravano a costituirle, non sono cosi intimi e stretti come quelli che
esisteno fra le città della confederazione latina. Esse infine pure presentano
le traccie dell'organizzazione gentilizia, ma queste sono già alquanto più
alterate per il maggior svolgimento a cui è pervenuta la comunanza civile e
politica. È a questo punto dello svolgimento dell'organizzazione sociale e
della convivenza civile, che Roma compare nella storia. Per quanto possano
esservi dei dubbi sull'influenza, che su di essa abbiano esercitato più tardi
l'elemento latino e l'elemento etrusco, questo è certo che il primo nucleo di
essa ebbe ad essere costituito da un gruppo di uomini armati di origine latina.
Sono i Ramnenses -- guidati da Romolo -- e usciti come colonia o per secessio
da Alba Longa, che hanno fondato quella Roma palatina, che, per la forma
quadrangolare delle sue mura, di cui sussistono ancora gli avanzi, suole essere
indicata col nome di “Roma quadrata”. Festo, v° Rituales: “Rituales nominantur etruscorum
libri, in quibus prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes
sacrentur; qua sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae,
centuriae distribuantur, exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius
modi ad bellum ac pacem pertinentia ». MOMMSEN. LANGE cerca di distinguere il
popolo dei “Rasennae”, che sarebbero secondo lui i veri Etruschi, che egli
ritiene di origine aria ma di provenienza settentrionale, dagli abitanti del “vicus
tuscus”, che apparterrebbero invece ai Tursci, da lui ritenuti di origine umbra.
È questa la Roma, il cui pomoerium è stato descritto da TACITO. Nulla vi ha di
ripugnante nella tradizione, che questa mano di guerrieri, stabilitasi colla
forza in un sito chiuso e fortificato, siasi dapprima trovata in lotta aperta
colle altre comunanze, che erano stabilite in prossimità del Palatino. Essa
però ben presto esercita una attrazione potente sulle popolazioni vicine, e si
trasforma in un centro per la vita pubblica di una confederazione di varie
comunanze di villaggio, che sono disperse in quell'antico septimontium, che ci
è descritto dal giureconsulto M. Antistio Labeone, il quale avrebbe compreso il
Palatino, il Fagutale, la Subura, il Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio.
Cosi pure dovette presto entrare nella federazione anche una comunanza di
origine sabina, che era stabilita sul Quirinale. Di qui la conseguenza, che le
tradizioni antiche ed anche gli studi recenti, fatti sulla topografia di Roma,
condurrebbero a conchiudere che Roma primitiva avrebbe attraversato nel
periodo, che suole essere assegnato al regno del suo fondatore, due stadii ben
distinti nella propria formazione. Nel suo primo comparire infatti Roma non è
ancora che lo stabilimento romuleo, il quale, malgrado la denominazione che già
assume di vera e propria città, consiste nella sede fortificata di una tribù di
origine latina, che è quella dei Ramnenses, ancorchè intorno ad essa già si
trovi in via di formazione una plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto,
secondo la tradizione, mediante l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle
comunanze vicine. Più tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di
origine latina entra dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con
comunanze già prima stabilite sui colli vicini. Allora Roma diviene centro e
capo di tale federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota
la questione relativa al pomoerium, che alcuni vorrebbero collocare entro le
mura fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là
delle mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium. La questione fu
di recente trattata con grande corredo di erudizione da CARLOWA (“Romische
Rechtsgeschichte” Leipzig). Carlowa sembra propendere per l'opinione, che il
pomoerium serve di confine fra il territorio dell' “urbs” e l' “ager” circostante.
Cf. MIDDLETON Il testo di LABEONE è riportato da HUSCHKE, “Iurisprudentiae
anti-Iustinianeae quae supersunt”, Lipsiae. Un accenno a questo concetto
trovasi in Lange, “Histoire intérieure de Rome”. Tuttavia non pare che il
medesimo consideri lo stabilimento romuleo come una semplice tribù.] cetto
latino, ossia nella sede della vita pubblica di queste varie comunanze. Questi
due stadii nella formazione di Roma primitiva, di cui non si tiene sempre
sufficiente conto, sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal
giureconsulto Pomponio, secondo il quale Romolo non procede alla divisione
della città in curie subito dopo la fondazione di essa. Ma vi sarebbe invece
addivenuto soltanto “aucta ad aliquem modum civitate” -- cioè quando altre
comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di
partecipare ad una vita pubblica comune. Gli elementi primitivi, che secondo la
tradizione sonno entrati a far parte della comunanza romana in questo suo primo
periodo di ingrandimento, sono dalla stessa tradizione ridotti a TRE tribù,
cioè alla tribù dei TRIBU I -- Ramnenses, che era quella dei fondatori, a
quella TRIBU II -- dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale, i
quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum, come lo
dimostra il fatto che i capi delle due tribù avrebbero regnato insieme e poscia
i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine TRIBU
III -- dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum.
L'origine di questo ultimo elemento è incerta, ma dovette probabilmente essere
etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza
di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine
etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le
genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie
città in prossimità del sito, ove Roma e edificata, Cosi intesa la formazione
di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la incorporazione
delle tre tribù nella comunanza romana avrebbe dovuto operarsi fin dal periodo
assegnato dalla tradizione al regno di Romolo -- il che però non toglie, ed [POMPONIUS,
L. 2 Dig. Credo doversi accogliere questa opinione nell' intricatissima
questione, perchè non si comprenderebbe la divisione tripartita della città,
che viene attribuita a Romolo, quando il concorso delle tre tribù non si fosse
effettuato durante il suo regno. Vero è, che nella storia primitiva di Roma
havvi un momento storico, in cui per l'aggiunzione di nuovi elementi si
raddoppia il numero dei membri dei collegi sacerdotali e quello delle centurie
dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa sempre sulla [ 9 anzi spiega anche
meglio come Roma, risultando di elementi diversi fin dalla propria origine, ha
poi accolte nella comunanza nuove genti di origine latina, come di origine
sabina e di origine etrusca, ed abbia in certo modo esercitata una specie di
attrazione sopra queste varie stirpi italiche, come lo dimostrano le tradizioni
relative alla cooptazione delle genti albane, quelle relative a Celes Vi benna
e alla venuta di Tarquinio a Roma colla sua gente, ed all'in corporazione,
avvenuta negli inizii del periodo repubblicano, della gente Claudia di origine
sabina. Intanto però il fatto, che Roma avrebbe preso le mosse da uno
stabilimento romuleo di origine latina, fondato in guisa analoga a quella con
cui si fondavano anche più tardi le colonie e con una analoga ripartizione dal
territorio occupato, spiega il carattere che Roma ha poi sempre a ritenere di
città eminentemente latina, in quanto che gli elementi, che si vennero
aggiungendo al nucleo primitivo, dovettero entrare nei quadri propri dello
stabilimento latino. Ciò accadde per mezzo di successive federazioni, una delle
quali, quella coi Luceres, sarebbe stata un foedus non aequum, in quanto che il
nuovo elemento sarebbe entrato nella comunanza in una condizione inferiore (1
). Conviene quindi conchiudere, che Roma primitiva, oltre all'essere di origine
latina, fu anche foggiata sul modello delle città latine, e che quindi, al pari
dell'urbs delle popolazioni del Lazio, diventa fin dapprincipio una città
federale, che può essere considerata come il centro della vita pubblica di
varie comunanze di villaggio. È però naturale, che questa trasformazione, per
cui Roma cessa di essere esclusivamente la sede fortificata di una tribù per
diventare centro e capo di una confederazione, abbia fatto sentire la necessità
di fortificare anche il Capitolino, e di munire di un vallum od agger
l'Aventino, costruzioni queste, che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute
dallo stesso Romolo, ma di cui non rimasero più gli avanzi, che sono base di
tre, il che indica che già anteriormente dovevano esservi tre tribù, che con
correvano alla formazione di Roma. Cfr. Bloch, “Les origines du Sénat Romain” (Paris)
e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ, “Manuel des institutions romaines”
(Paris). Il principio “prior in tempore, potior in iure” è dai Romani applicato
non solo in tema di diritto privato, ma anche in tema di diritto pubblico.
Questo concetto è ancora espressansente enunciato nella legge 74, § 1, Cod.
Theod. 12, 1. “Anteriore tempore adscitos ipsa aequum est antiquitate defendi”
[- invece notevoli quanto alla primitiva Roma quadrata. Vero è che questa
narrazione di Dionisio e posta in dubbio dalla critica contemporanea. Ma Dionisio
è certo che in se stessa non ha nulla di improbabile, in quanto che era ben
naturale, essendosi estesa la comunanza colla federazione di altre popolazioni
vicine, che anche il caput ed il centro di Roma fosse trasportato in un sito, a
cui fosse più facile l'accesso dalle varie comunanze, e che non fosse la dimora
pressochè esclusiva di una delle tribù confederate, come era della città
palatina. Si comprende pertanto come, sotto lo stesso Romolo o sotto i sei re
che lo seguirono, la fortezza della città e il tempio del divino patrone comune
– “dius”, “dius-piter” -- siansi fondati sul Capitolino e come a poco a poco gl’edifizii
pubblici di Roma antica siansi venuti concentrando fra il Palatino ed il
Capitolino, in quel sito appunto in cui ancora oggidi si ammirano le grandi
reliquie degli edifizii pubblici di Roma antica -- edifizii che al tempo d’Ottaviano
già sono considerati come una specie di museo, e come tali erano divenuti
oggetto di venerazione e di culto, ed erano custoditi qual memoria di una vita
politica, che ormai ha cessato di esistere. A questo periodo però, che può
dirsi di semplice confederazione, ne succedette un altro, in cui comincia ad
effettuarsi una vera e propria incorporazione delle varie comunanze di
villaggio in una città, la quale, fortificata e chiusa in se stessa, apparisse
paurosa e potente alle popolazioni vicine. Due cose si richiedevano per una
simile trasformazione. Convenne anzitutto che alla distinzione delle tre tribù
primitive, che ricorda ancor sempre la loro origine diversa, si facessero
sottentrare altre distinzioni, le quali sostituissero al vincolo genealogico il
vincolo territoriale, e che gl’elementi diversi, che sono entrati a far parte
della stessa comunanza politica e militare, fossero anche stretti insieme,
mediante la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la
vigorosa espressione di Floro, comincia a mescolarsi insieme il sangue di
elementi originariamente diversi, i quali finirono col tempo per costituire un
unico corpo ed un organismo coerente in tutte le sue parti. Dion. Cfr.
MIDDLETON, Ancient Rome. -- FLORUS, III, 18. “Quippe cum populus romanus etruscos,
latinos, sabinosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem ducat, corpus fecit
ex membris et ex omnibus unus est. Questi sono i divisamenti, che,
incominciando da Tarquinio Prisco, già cominciano a delinearsi nella mente dei
re. È noto infatti che Tarquinio Prisco già avrebbe tentato, secondo la
tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre primitive e di rompere così il
modello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta formando. Il suo tentativo però
trova opposizione nell'augure sabino Atto Navio, che qui evidentemente si fa
interprete dello spirito conservatore del patriziato romano, e quindi l'opera
di Tarquinio Prisco dovette limitarsi a fare entrare gl’elementi sopraggiunti
nei quadri delle tribù primitive. Gli è perciò, che gli viene attribuito di
aver raddoppiato il numero delle vestali, di aver duplicato il numero delle
centurie degl’equites, aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses,
Luceres primi le tre dei Ramnenses SECUNDI, Titienses SECUNDI, Luceres SECUNDI,
e di avere infine anche raddoppiato o quanto meno portato a CCC il numero dei
senatori con aggiungere ai “patres MAIORUM gentium” quelli “patres MINORUM
gentium” Così pure è ormai dimostrato che i re anteriori a Servio Tullio già
iniziano dei lavori di cinta e di fortificazione, che poi furono com presi
nella cinta Serviana, e che la grande opera di questa nuova cerchia di Roma già
e incominciata sotto Tarquinio Prisco. L'una e l'altra opera fu poi continuata
da Servio Tullio, che forte dell'appoggio della plebe e di parte anche del
popolo, sembra aver fatto a meno anche dell'approvazione dei padri. Egli
infatti, senza distruggere la primitiva organizzazione di Roma, fondata ancora
sulla discendenza, riusci a creare, accanto alla medesima, una nuova
organizzazione militare, politica e tributaria, per cui la popolazione romana
ricevette una nuova ripartizione in V CLASSI ed in centurie, e il suo
territorio venne ad essere diviso in tribù locali. Così pure riusci a compiere
quell'opera gigantesca della cinta, che fu dal nome di lui chiamata Serviana, i
cui avanzi formano ancora oggi la meraviglia degli investigatori dell'antichità
e dimostrano da soli la grandiosità e l'unità del concepimento, malgrado che
parecchi re avessero partecipato alla costruzione di quelle mura e di
quell'agger, che poi furono chiamati Serviani; costruzione, che sarebbe
pressochè incomprensibile se non fosse stata compiuta col concorso di quelle “plebs”,
ormai già fatta numerosa, che con Servio [Cic. de Rep., LANGE -- Tullio sarebbe
entrata a far parte del Populus Romanus Quiritium. È da questo momento che Roma
appare chiusa e fortificata nelle proprie mura, già splendida di edifizii,
ricca eziandio di una popolazione urbana, che può ancora essere accresciuta
senza che occorra di estenderne il pomoerium. È da quest'epoca parimenti, che
Roma, forte del rigore del proprio diritto e della propria disciplina domestica
e militare, si mette in lotta aperta con tutte le tribù o genti, che non siano
disposte ad accettarne la superiorità o l'alleanza. Noi ci troviamo così di
fronte alla Roma storica, conquistatrice e legislatrice prima dell'Italia e
poscia dell'universo, degna di essere studiata nelle sue lotte intestine e
nella sua unità compatta di fronte alle altre genti.Tuttavia, anche dopo Servio
Tullio, Roma non giunge mai a chiudere nelle proprie mura tutta la sua
popolazione, ma soltanto le quattro tribù urbane, mentre è ben maggiore il
numero delle tribù rustiche. e lo spazio dalle medesime occupato. Per tal modo
essa continua ancor sempre ad essere il centro della vita pubblica, a cui
mettono capo le popolazioni sparse nelle comunanze di villaggio o pagi, che la
circondano, ed è la sua persistenza in questo processo già seguito in Roma
primitiva e non mai abbandonato anche più tardi, che spiega come Roma abbia
potuto cambiarsi in una città, i cui cittadini erano sparsi dapprima in tutto
il Lazio, poi per tutta l'Italia, e da ultimo per tutto il territorio
dell'impero. Se insisto alquanto lungamente sopra questo concetto, gli è per
dimostrare come non possa accettarsi l'opinione che sull'autorità di Mommsen e
di altri fu pressochè universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto
incomprensibile la storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata
fin da principio l'unione, la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti
e dei territorii dalle medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito
nella formazione delle città latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen, ed
è in contraddizione con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii
inizii e modellata sull'urbs dei popoli latini, e come tale non e che la
capitale di una federazione e il centro della sua vita pubblica, mentre lascia
che le genti e le famiglie con [V. in proposito BARATTIERI, “Sulle
fortificazioni di Roma all'epoca dei re”, Nuova Antologia] -- tinuassero la
propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio, alle quali
continud a lasciare i proprii territorii gentilizii. La sua formazione pertanto
non è dovuta ad un processo di aggregazione, ma ad un processo di *selezione*,
cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo. Qui basta il notare che
questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva conduce a conseguenze
molto diverse da quelle, ch e furono pressochè universalmente adottate.
Partendo infatti dall'idea di una semplice aggregazione si giunge a trasportare
le gentes fra le ripartizioni delle città, come ha fatto Niebhur; a sostenere
con Mommsen che la primitiva proprietà di Roma e una proprietà collettiva come
quella delle gentes, ciò che è smentito assolutamente dal diritto primitivo di
Roma, a dare collo stesso autore un carattere assolutamente patriarcale alla
primitiva costituzione di Roma, e ad una quantità di altre illazioni, che
rendono del tutto inesplicabile e contradditoria la storia primitiva di quel
popolo, che ha usato una maggior logica nello svolgimento delle proprie
istituzioni. Con questo sistema si dove necessariamente giungere a considerare
la storia primitiva di Roma come una serie di leggende, che sarebbero state
inventate da un popolo, che in tutto il resto si è dimostrato invece ben poco
fantastico, nell'intento di combinare l'umiltà delle proprie origini colla
grandiosità dello svolgimento, che ebbe a ricevere dappoi. Pare strano che
nella mia pochezza venga a combattere opinioni, le quali appariscono suffragate
da un così gran cumulo di erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si
trattasse di questo o di quel documento storico, ma dal momento che trattasi di
ricostruire in base alle induzioni più probabili il processo, che Roma segue
nella propria formazione, mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le
opinioni inesatte dei grandi filosofi, che pongono gli altri sopra una falsa
via. È incredibile la quantità di induzioni errate, che produsse nella storia
di Roma la confusione fatta da Niebuur dell'organizzazione gentilizia
coll'organizzazione politica allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio
le gentes, e sostenne così che queste fossero una divisione politica della
città. Tutta la critica storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero
scorgere nella città un'aggregazione di gentes, il che rese del tutto
inesplicabile la storia primitiva di Roma. Mi basterà citare fra gli altri;
MOMMSEN che dice che le genti erano incorporate tali e quali nello stato con
tutti i loro territorii e con tutte le famiglie, che contenevano e che il
gruppo della famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato. LANGE,
con uno sforzo mirabile, ma sfortunato, di sottigliezza, vuol trovare ad ogni
costo i caratteri della famiglia nello Stato romano. Parmi invece un processo
assai più logico e che può condurre a risultati assai più verosimili quello,
che ha già ad esser iniziato da Bonghi, di prendere Roma, quale essa si
presenta nelle tradizioni esaminate col sussidio della critica. Dal momento che
Roma si è veramente staccata da una popolazione latina, è naturale che essa sia
stata dapprima foggiata sul modello delle città latine, e che abbia continuata
tenacemente l'opera già da queste incominciata di organiz zare, accanto alla
vita patriarcale e gentilizia, quella vita pubblica, che dispiegasi appunto
nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le
tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione
gentilizia, ed è con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo
aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa
quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse
continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale. Solo richiama a
se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che
prima si compievano nel seno dell'organizzazione gentilizia, ed è in tale
intento che essa intraprende l'elaborazione del proprio diritto. Una volta poi
che quest'opera è iniziata, Roma, con quella tenacità di proposito, che è
sopratutto propria del popolo romano, non si arresta nell'opera sua sinchè non
sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio seno una vita pubblica e
municipale, ma a cambiare il mondo allora conosciuto in un complesso di città,
di colonie, di provincie organizzate tutte a somiglianza di se medesima, e gli
abitanti dell'impero in cittadini di un'unica città. La qual opera e compiuta
da Roma seguendo sempre quel medesimo processo, a cui erasi attenuta nella sua
primitiva formazione. È per questo
motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni di Roma
senza tener dietro alla sua formazione esteriore, quale può ricavarsi dagli
studii topogra e il Sumner Main [E, “L'ancien droit,” trad. Courcelle
Seneuil,dove, dopo aver detto che la gens era una aggregazione di famiglie, e
la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per dire che la città non è essa
stessa che “un'aggregazione di tribù e la repubblica una collezione di persone
legate per discendenza comune all'autore di una famiglia primitive” -- il che
certamente non può ammettersi. Del resto la gravissima questione sarà trattata
più a lungo quando si discorre della
costituzione primitiva di Roma. [fici recentemente fatti intorno all'antica
Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa formazione
progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di Roma, viene
anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua religione, del suo
senato, dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito, dei suoi collegi
sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione delle sue
istituzioni, poichè ciascun popolo imprime sopratutto il proprio carattere in
quella parte dell'opera sua, in cui giunse senz'alcun dubbio a maggiore
grandezza. A ciò si aggiunge la considerazione già stata fatta da un autore
assai benemerito della ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è
Rubino, secondo il quale le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi
tempi di Roma, debbono distinguersi in due specie. Vi hanno quelle relative
alla costituzione primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici, che
sono collegati con essa, e queste fino a prova contraria debbono essere
ritenute per vere. Perchè trattasi [Vi ha questo di particolare nella storia di
Roma, che lo svolgimento di essa, sotto qualsiasi aspetto sia considerato,
presentasi organico e coerente in tutte le sue parti. Ne deriva che tanto le
investigazioni pazienti e minute quanto le ricostruzioni ardite, che si vennero
succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intelligenza di Roma
primitiva. Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica, della
sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia, dei suoi
monumenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni giuridiche.
Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa, che vi sono
autori che, seguendo soltanto il formarsi della sua religione e dei suoi
collegi sacerdotali, cercano di inferirne gli stadii della sua formazione
progressiva, come tenta di fare Bouché-LECLERCQ (“Les Pontifes de l'ancienne
Rome”, Paris, e “Manuel des institutions romaines”, Paris). Altri, che
tentarono di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento di un
istituto particolare, come sarebbe quello del senato, come WILLEMS, “Le sénat
de la république romaine” (Paris), come pure Blocu (“Les origines du sénat
romain,” Paris), od anche quello dell'ordine dei cavalieri, come tenta di fare
Belot (“Histoire des chevaliers romains,” Paris). Non può però esservi dubbio
che penetrarono più profondamente nella vita primitiva di Roma quelli
sopratutto, che, come Vico e Niebuur, ne ricercano la storia nelle lotte degl’ordini,
che entrano a costituirla e nello svolgimento delle istituzioni giuridiche e
politiche. Il diritto è la grande occupazione di Roma, e quindi è quello che
conserva meglio le vestigia di un'epoca pre-romana. Il diritto forma la
filosofia costante non solo dei sacerdoti, dei patrizi, e dei giureconsulti, ma
ancora dei poeti, per modo che fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come
egli dice, “disiecti membra poetae” potè giungere a ricostruire in parte
l'edifizio giuridico di Roma, anche nei particolari minuti della sua procedura.
Henriot, “Maurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome” Paris] d'un
argomento che ha un carattere pressochè sacro per il popolo romano, e in cui
concentra tutta la propria vita, per guisa che esso continua sempre a svolgere
con pertinacia e con co stanza quei concetti e quelle istituzioni, che furono
posti durante lo stesso periodo regio. Hanvi invece le tradizioni, che si
riferiscono a racconti di guerre e ad incidenti, che le avrebbero accompagnate,
a vicende di uomini illustri, a quei particolari insomma che danno vita ed
attrattiva alla storia romana, e queste rimasero per lungo tempo affidate alla
leggenda popolare e poterono cosi essere alterate sia dalla vanità nazionale
che dalla vanità delle grandi famiglie di Roma. Bene è vero, come osserva
Bonghi, che anche nella prima parte possono essersi introdotte dell’alterazioni,
che sono causate dal partito diverso, a cui appartengono gli scrittori, ma
siccome trattasi di istituzioni, che hanno un processo storico non mai
interrotto, cosi egli è ben più facile di ristabilire la verità, che non quando
trattasi di semplici incidenti della storia di Roma, che, non collegandosi così
strettamente col resto, potevano dare argomento ad altrettante leggende, che si
arricchivano di nuovi particolari, a misura che si veniva ripetendone la
narrazione. Dopo aver cosi seguita la formazione progressiva della comunanza
romana vediamo ora gli elementi, che si trovano in lotta nell'in terno della
medesima. È da vedersi al riguardo Bonghi, “La fede degli storici superstiti di
Roma antica”, che anche ora non è pubblicato, malgrado il desiderio che
l'illustre autore e gl’italiani tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che
egli solo è in condizione di compiere. Rivista storica italiana. IUna delle
circostanze più accertate della condizione di Roma primitiva si è, che nella
popolazione della medesima comincia fin dai primordii a manifestarsi un
dualismo potente, quello cioè fra il patrizii – descendenti dei ‘patres
patriae’ -- e la plebe. La tradizione cerca di spiegare questo dualismo
dicendo, che Romolo apre un asilo, ove si potessero rifugiare coloro che per
qualunque ragione avessero dovuto abbandonare la propria città. Ciò farebbe
credere che la distinzione fra i “patres” della “patria” (e suoi descendenti) e
la plebe e in certo modo nata con Roma, quando non e certo, che cotale
distinzione già esiste in altre città, e non vi fossero formole antiche, che
accennassero al doppio elemento coi vocaboli di populus et plebes. Sembra anzi
che le stesse tribù primitive, che entrarono nella costituzione della più
antica comunanza romana, già avessero con sè una propria plebe,
indipendentemente da quella che si sarebbe rifugiata nell'asilo aperto da
Romolo, in quanto che, secondo il racconto di Dionisio, uno dei primi
provvedimenti di Romolo e quello di affidare al plebeio la coltura dei campi,
l'allevamento del bestiame e l'esercizio delle arti manuali, e di collocarle
sotto la clientela del padre, il che sarebbe anche confermato da Cicerone come
pure da un luogo di Festo, secondo cui il senatore e chiamato “pater”, in
quanto che e incaricato di fare distribuzione di terre ad un ordine inferiore
di persone (tenuioribus). La distinzione fra il populus e la plebes trovasi
ancora in un documento importantissimo, cioè nella lex latina tabulae Bantinae,
ove è ripetuta più volte la frase “quisque eorunt sciet hanc legem populum
plebemve iousisse” -- formola che ha certo
grande importanza quando si consideri che era tradizione romana quella di
conservare le formole arcaiche nel tenore della propria legge. Quella formola
dimostra che populus e plebes dovevano dapprima essere distinti e che, quando i
due elementi si fusero insieme nella comunanza, per qualche tempo ancora i due
vocaboli serbarono rispettivamente la primitiva loro significazione. V. la lex
latina tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, Friburgi. Quanto al testo di
Dionisio, esso è riportato nella traduzione latina nel Bruns, Fontes. Quanto a
quello di Festo, vº Patres, è bene di CARLE, “Le origini del diritto di Roma”. Questo
è certo che il pater e il plebeio, anche quando giungono a considerarsi come
parti della medesima comunanza e a far parte dello stesso popolo, il che è
accaduto molto tempo dopo l'epoca della fondazione, continuano sempre a
costituire due ordini e pressochè due caste compiutamente distinte, fra le
quali non esiste ne identità di istituzioni, nè comunanza di tradizioni, nè il
diritto di connubio. Mentre il pater si presenta colla tradizione di un
passato, le cui origini si perdono nel l'oscurità dei tempi e deve forse essere
cercate nello stesso Oriente, e con una organizzazione potente, le cui traccie
si mantengono ancora durante il periodo storico. Il plebeio, invece presentasi
dapprima come una massa mobile, composta di elementi eterogenei e di origine
probabilmente diversa. Il plebeio ha pochissima importanza negl’inizio di Roma,
ma viene sempre più crescendo in numero e in potenza, anche perchè, a
differenza del pater, può continuamente accogliere nel proprio seno nuovi
elementi. Durante il periodo regio, il plebeio non sembra ancora essere in
condizione di affrontare la lotta col “pater”, ma cominciando dalla repubblica
i conflitti si fanno pressoché quotidiani, cosi in materia di diritto e dalle
discussioni, che seguono fra I due ordini, si può raccogliere che le differenze
essenziali, che servivano a distinguerli, erano essenzialmente le seguenti. Il
pater anzitutto e e si ritene il fondatore della urbs e il solo membro della
civitas. Il plebeio e un elemento, che trovasi in condizione inferiore e che
per la maggior parte e sopravvenuto più tardi, nè puo quindi, secondo le idee
del “pater”, pretendere ad un pareggiamento completo. Il “pater” ha un'organizzazione
potente, che era quella per gentes, la cui forza venne ancora ad accrescersi
mediante l'istituto della qui riportarlo. “A patres senatores ideo appellati
sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus, ac si liberis propriis.” V.
Bruns. Questi passi unita mente a quello di CICERONE, De rep. “Romulus habuit
plebem in clientelas principum descriptam” -- rispondono abbastanza
all'opinione di coloro, che come LANGE (“Histoire intérieure de Rome”) e Padelletti
(“Storia del diritto romano”) ostengono, che l'origine della plebe sia
posteriore alla fondazione della città, ed abbia solo avuto origine
«coll'ammissione di persone libere nella cittadinanza e nel territorio dello stato,
avvenuta per atto pubblico e accompagnata dalla concessione in proprietà di
terreni da coltivare. Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., clientele. Il “pater”
quindi puo indicare la serie dei proprii antenati e dimostrare che i medesimi sono
sempre stati ingenui e che niuno di essi erasi trovato in condizione servile. Il
plebeio, invece, se si deve credere alle ragioni poste innanzi molto più tardi
dagl’oratori patrizii, allorchè trattavasi di Roma di respingere la legge
Canuleia diretta a togliere il divieto dei connubii fra i due ordini, non
conosce ancora la famiglia organizzata in base al potere del padre ed al culto
degli antenati, per cui una unione plebea non e dal “pater” considerata come “iusta
nuptia”, nè santificate dalla partecipazione al medesimo culto. E un semplice “matrimonium”,
in cui il vincolo di parentela e determinato piuttosto dalla cognazione *maternal*,
che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza, che ancora dopo la legge di
Le XII Tavole il pater non puo comprendere una comunanza di connubio – iusta
nuptia – fra un pater (say, Charles III) e una plebea (say, Diana), come lo
dimostrano le parole di Livio relative al plebiscito Canuleio. “Rogationem
promulgavit, qua contaminari sanguinem suum patres confundique iura gentium
rebantur.” Da ultimo, una differenza importantissima consiste anche in questo,
che solo il pater possede un “auspicium”, cosicchè tutti gl’atti, che lo
riguardavano, assumevano un carattere solenne e religioso. Il plebeo, pur
avendo una religione e feste [(1) Gellio, Noc. Att., 10, 20 chiama la plebe
quella parte della popolazione romana, nella quale “gentes patriciae non
insunt.” È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra pater e plebeo gl’oratori
di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli ad avere le gentes
con parole, che riassumono i titoli di superiorità del pater. “Semper ista
audita sunt eadem: penes vos solos au spicia esse, vos solos gentes habere, vos
solos iustum imperium et auspicium domi militiaeque ecc.” Pare tuttavia che non
possa affatto escludersi l'esistenza di gentes plebeiae, le quali però
costituivano una eccezione. La causa di questo fatto può essere duplice. O
queste gentes potevano derivare dalle popolazioni delle città latine, che già
avevano un'organizzazione simile a quella delle genti patrizie, sebbene non
fossero più state ammesse nel patriziato, – o la formazione di queste gentes
accade più tardi, quando una parte della plebe, entrata a far parte della
nobiltà, cerca essa pure di imitare l'organizzazione gentilizia, il che comincia
ad es sere possibile dopo la legge Licinia Sestia, colle quali il plebeo e
ammesso al console. Così Cicerone ci attesta, che la famiglia dei Marcelli
erasi staccata dall'antica gente patrizia dei Claudii (De Orat.). Così pure Cicerone
ci parla di una “gens” Minucia, che sarebbe stata *plebea* (In Verr., I, 45 ).
Fra i filosofi sull'argomento sono da vedersi il Voigt, “XII Tafeln”, Leipzig,
e il KARLOWA, Röm., R. G., -- Liv., – “popolari, non possedeva gli auspicia, nè
aveva un proprio culto gentilizio -- “sacrum gentilicium” --. Queste differenze
sono tali, che sebbene le circostanze conducessero col tempo i due ordini a far
parte della stessa comunanza, e pero naturale, che essi non potessero entrarvi
alle stesse condizioni. Dalle differenze sovra enumerate questo intanto si può
inferire, che in Roma primitiva la superiorità, che si attribuiva il pater sul
plebeo, trova sopratutto la propria causa in ciò, che esso era già era più
progredito nell'organizzazione sociale, ed era prima uscito dallo stato di
confusione, di privata violenza e di promiscuità primitive, che esso riteneva
in parte essere ancora proprie della plebe. Il pater sa indicare i proprii
antenati, ha conservato gelosamente le proprie tradizioni, ed e già pervenuto
al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di più e la “gens”, che
aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come pure erano le
tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e dopo aver
assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città, in cui
provvedevano ai comuni interessi ed obbedeno ad una legge, espressione della
volontà comune. Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città del
loro esercito, e spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè le
moltitudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e
fortificata un'aggregazione di genti patrizie. Ma chi tenga conto della umana
natura, che in questa parte non sembra ancora essersi modificata, non può certo
meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la massima – “prior
in tempore, potior in iure” -- , e si siano cosi prevalse del vantaggio, che
loro somministra una più antica esperienza delle cose civili ed umane, per
conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza civile. Piuttosto
è da ammirarsi la tenacità e perseveranza del plebeo, il quale, composta [Quinto
all'origine ed al carattere del patriziato primitivo di Roma, contiene delle
buone ed acute osservazioni l'articolo di FREEMAN nell'Encyclopedia Britannica, vº
Nobility, ove il pater romano è posto a paragone cogli Eupatridi di Grecia,
colla nobiltà feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, “Histoire
des Romains,” Paris, chi parla del “pater” come di un'istituzione propria della
società primitiva e nota le analogie e le differenze fra il pater di Roma e i
bramano dell'India. Cfr. Muirhead] dapprima di elementi eterogenei e priva di
qualsiasi organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare
l'organizzazione propria dei pater, creare genti plebee accanto alle genti
patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e
che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto, di quello cioè della
proprietà quiritaria, riusci a valersi del medesimo come di strumento e di
mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e politica, e perfino
l'ammissione a quegli auspicia, a quei sacerdotia, e a quella scienza del
diritto, che solo molto tardi vennero ad essere comunicati al plebeo. Questo
intanto può aversi per certo, che la formazione del pater e del plebeo costituisce
in certo modo la questione fondamentale della storia politica e giuridica di
Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i servi ed i clienti, ma
questi due elementi non hanno certo l'importanza della plebe, che dove poi
avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che un servo entra a far
parte della famiglia ed il cliente ri-entra anch'essi nell'organizzazione
gentilizia. Di più tanto il servo come il cliente, al lorchè riescono a
svincolarsi dal “pater”, entrano a far parte della plebe, che è quella
veramente, che sostiene e vince la lotta per il pareggiamento giuridico e
politico col “pater”. Quindi è che nè il servo, né il cliente come tali
riescono ad avere una piena personalità giuridica e civile. Il cliente scomparisce
a poco a poco o si trasforma in semplice salutator. Il servo si mantenne bensì,
ma non giungono mai, durante il predominio di Roma, ad essere riconosciuti come
capaci di diritto. La questione limitasi pertanto al pater ed al plebeo ed è
quindi l'origine di questi due elementi, che è il maggior problema, che offra
la storia primitiva di Roma. Cio non ostante, sinchè non siansi esaminate
l'organizzazione dei patres e la composizione della plebe, non pud certo
affrontarsi il problema della origine delle due classi. Basterà unicamente, per
l'intelligenza di ciò che verrà dopo, di osservare che le differenze, che
esisteno fra di esse negli inizii. Queste lotte per il pareggiamento sono
largamente esposte da LANGE, “Histoire intérieure de Rome”. I risultati poi
della lotta sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, “Le elezioni e il
broglio nella repubblica romana” (Milano) e sopratutto in “Le assemblee
elettorali”] di Roma, la superiorità pressochè incontestata del “pater” e
l'ossequio pressochè servile del plebeo nei primi tempi della città dimostrano
abbastanza, che la loro distinzione non potè certamente essere opera della
legge, nè delle circostanze storiche speciali, in cui Roma ha a trovarsi. Dovette
essere il frutto di una lunga evoluzione storica, la cui preparazione deve
essere cercata in un periodo anteriore di organizzazione sociale. Non può
esservi dubbio, che l'origine di una distinzione, così altamente radicata nel
costume e nelle abitudini delle due classi, deve essere cercata in quei
cataclismi, che dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel sovrapporsi delle stirpi
italiche, di origine aria, sovra altre stirpi, che già abitavano il suolo,
sovra cui esse si arrestarono nelle proprie migrazioni. Essa è una distinzione,
che deve certamente rannodarsi ad una divisione ben più antica, e le cui
traccie si mantengono sempre nella storia dell'umanità, che è quella fra la
classe dei conquistatori, dei vincitori, dei primi pervenuti a stabilirsi in un
determinato suolo, e quella dei soggiogati, dei vinti, e dei sopraggiunti più
tardi a porre la propria sede in un suolo, che altri hanno prima occupato e
sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e fortificati. Egli è certo, che
nel sopraggiungere delle stirpi italiche migranti dall'Oriente dovette
certamente avverarsi un periodo di privata violenza non dissimile da quello,
che accadde più tardi allorchè le popolazioni germaniche invasero il principato.
Anche allora dovettero esservii vincitori ed i vinti, e frammezzo a quella
promiscuità di genti e a quella prevalenza della forza, che ci ricordano ancora
gli filosofi latini quando ci parlano di “connubia more foerarum” e di “viri
duro ex robore nati”, dovette sentirsi urgentissimo il bisogno di una
protezione giuridica e di una forte organizzazione sociale. Dovettero [Sono
sopratutto i filosofi latini, come interpreti delle primitive tradizioni e
leggende, che alludono frequentemente a questo stato primitivo, in cui si trovano
le genti italiche, ora descrivendo una età dell'oro, che assegnano al regno di
Saturno, che sembra corrispondere al Savitar degli Arii, ed ora accennando
eziandio a un periodo, in cui avrebbe imperato la forza e la violenza. È
veramente preziosa in proposito e riflette mirabilmente la coscienza primitiva
delle genti italiche la raccolta, che l'Henriot ha a fare dei testi dei filosofi
latini, che possono avere qualche attinenza col diritto, nella sua opera col
titolo: “Mæurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome d'après les poètes
latins” (Paris) sull’età dell'oro e sull'imperio della forza. È poi notabile
come tutti i filosofi accennino al concetto di un “diritto” della “natura”,
preesistente alla formazione del civile consorzio, e tutti esprimano con grande
efficacia l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine
della legge] allora succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon
minori di quelli, che si attribuiscono al nostro suolo, e furono questi
cataclismi, che condussero necessariamente alla formazione di un aristocrazia –
il pater del patriarcato -- territoriale, militare e patriarcale ad un tempo,
che era il solo ed unico mezzo per uscire da uno stato di promiscuità e di
violenza. Fu questa patriarcato – ottimati -- che comprende il padre nella
famiglia, il patre nella gente e il pater nella tribù, ed abbraccia cosi tutte
quelle genti, le quali, memori forse di istituzioni che eransi altrove
elaborate, trapiantarono frammezzo al disordine ed alla lotta la potente
organizzazione gentilizia, che una volta formata si chiuse in certo modo in se
stessa e riguardo come di origine inferiore tutti coloro che non appartenevano
alla medesima. Fu questa aristocrazia del ‘pater’ potentemente organizzata per
gentes, che costituì la classe privilegiata e che merita dapprima anche di
essere considerata come tale. Ma accanto alla medesima dovette naturalmente
formarsi una classe subordinata, i cui gradi corrispondono precisamente ai
varii stadii dell'organizzazione gentilizia, in quanto che comprende il servo
nella famiglia, il cliente nella gente, ed il plebeo, che cominciano a
comparire colla tribù. Per tal modo nelle popolazioni, che si vengono così
organizzando, si disegnano per spontanea e naturale formazione, due strati, che
si corrispondono fra di loro, e mentre in una lunga e lenta evoluzione, di cui
non sopravisse alcun ricordo, salvo nella lingua e negli oggetti trovati nelle
tombe, il ‘pater’ della famiglia si cambiano in ‘pater’ nella gente e quindi in
‘pater’ nella tribù, anche i servi mano messi dal ‘pater’ mutansi in clienti
del ‘pater’ ed il cliente rimasnne senza ‘pater’] formano il primo nucleo della
plebe. Il pater – qua Padri, patrone e patrizio – e, in sedimenti successive, la
classe alta dei vincitori, dei proprietari delle terre, dei primi organizzatori
di una vita sociale. Il servo, il cliente ed il plebeo rappresentano i varii
stadii, per cui passa la classe inferiore dei vinti, e di quelli che, per avere
una prot zione, si accalcano intorno allo stabilimento di una casata patrizia.
Il primo puo indicare suoi proprii antenati ed escludere qualsiasi origine
servile. Il plebeo, se giunsero col tempo ed essere indipendenti dal patriziato,
appartennero probabilmente alla classe del servo e del cliente, e non ha
dapprima quelle giuste nozze, che accertano la discendenza per la linea
maschile. È in questo modo che il patriziato venne formandosi l'alto concetto
della propria superiorità e che giunse fino a dire, se non a credere, che
discende dal divino (il che del resto non era intieramente falso dal momento [
- che ha elevato a divinio il proprio antenato). Mentre la plebe, memore forse
della servitù antica, trovasi dapprima in una abbiezione pressochè servile, da
cui non venne a liberarsi che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo
potente di famiglie latine, che appartenevano alle città conquistate da Roma.
Intanto pero fra le due classi vi ha questa differenza. La prima tende a
tircoscriversi, anche per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una
organizzazione così gerarchica, come era l'organizzazione gentilizia, la quale
non poteva accogliere degli individui ma soltanto delle altre gente. La plebe,
appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece ad incorporarsi
nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa puo accogliere i
vinti che non siano ridotti in ischiavitù, gl’emigranti che non siano ricevuti
come cliente. Non solo può aggregare nel proprio seno delle famiglie, ma anche
individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui erano uniti, abbisognino
di protezione e di tutela. Intanto pero fra l'uno e l'altro ordine, la grande
differenza è questa, che nelle origini, solo il pater ha una vera posizione di
diritto. Il plebeo non ha dapprima che una posizione di fatto. Il pater e il
popolo da esso costituito è un ordine. La plebe non è che una moltitudine, una
folla non ancora organizzata. Il pater ha tradizioni militari, religiose,
giuridiche. Il plebeo non ha dapprima che quelle costumanze e quegli usi, che
possono formarsi in una folla di provenienza diversa e di formazione del tutto
recente. Il pater ha una religione gentilizia, formatasi nel suo seno mediante
il culto degli antenati. Il plebeo non ha che un complesso di credenze
popolari, che ancora abbisognano di ricevere una forma religiosa. Ben si
comprende quindi, che la distanza e grande e che dove essere assai malagevole
di raccogliere i due elementi nella stessa comunanza, elaborando un diritto,
che potesse essere comune ad entrambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due
ordini, importa di ricercare più particolarmente l'organizzazione già formata
del pater, e quella ancora in via di formazione, che dovrà poi comprendere il
plebeo – Livio: “En unquam fando audistis patricios primo esse factos, non de
caelo demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos.”
Non può esservi dubbio, che a costituire il patriziato primitivo di Roma
concorsero elementi diversi, usciti per la maggior parte da quelle tre stirpi
di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for mare la comunanza romana.
Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste sonovi quelle che figurano
come più antiche, genti di origine sabina, ed altre, in numero forse minore, di
origine etrusca. L'origine diversa poi facilmente persuade, che le loro
istituzioni tradizionali dovevano anche essere dissimili, e che quindi quella
completa analogia di istituzioni, che in esse apparisce più tardi, do vette
essere l'effetto di una lenta assimilazione, che vennesi operando gradatamente
mediante la loro partecipazione ad una stessa comunanza civile e politica. Tuttavia,
malgrado le differenze che potevano esservi nelle sue tradizioni, il pater
romano, comunque fosse originariamente composto, presenta fin dalle origini
della città le traccie di un'organizzazione potente di carattere patriarcale,
che è l'organizzazione gentilizia. Non è qui il caso di cercare, se questa
organizzazione per genti sia stata una necessità storica per uscire da quello
stato di conflitto e di privata violenza, che dovette avverarsi all'epoca delle
migrazioni, e se sia stata invece una istituzione, che le stirpi migranti già
avevano elaborata altrove e che loro servi per sovrap porsi alle popolazioni
indigene, il che sembra essere più probabile. L'enumerazione delle primitive
genti patrizie col riassunto delle opinioni di. verse intorno alla loro origine
e alle molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di esse, può
trovarsi in Bonghi, “Storia di Roma”, Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ.
Ivi l'autore cerca perfino di determinare la parte, che nel diritto si attribuisce
alle varie stirpi] questo in ogni caso deve aversi per certo, che è in virtù di
questa organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto potessero
essere diverse di numero e di potenza, appariscono pero foggiate sul medesimo
modello. Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi in via di
dissoluzione; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto alterato
nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile e
politico, dal quale è assai difficile sceverarlo. Ciò non ostante dalle vestigia,
che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito eminentemente
conservatore del popolo romano, si può dedurre che l'organizzazione gentilizia
dovette nel patriziato romano presentarsi in gradazioni diverse, tutte
strettamente connesse fra di loro. Esse sono: la famiglia fondata
sull'agnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla clientela, e da ultimo
la tribú, in cui già compare nei proprii inizii la distinzione fra il
patriziato e la plebe. Sarebbe certo cosa di grande interesse il ricercare qui
se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia ha prese le mosse dalla
famiglia, o dalla gente, o dalla tribù. Ma ciò ci recherebbe a quel l'epoca e a
quel sito, in cui le stirpi arie ponevano le prime basi dell'organizzazione
patriarcale, cominciando probabilmente dal più piccolo e più naturale dei
gruppi, che era la famiglia. Qui pero non e inopportuno il mettere innanzi,
almeno a titolo di congettura, che dei varii gradi dell'organizzazione gentilizia
quello, che probabilmente servi per la migrazione delle varie stirpi
dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il gruppo della “gens”. Ciò è dimo [Questa
stessa gradazione è accolta dal SUMNER MAINE, Ancien droit, ma non è invece
quella seguita da Leist, Graeco- Italische R. G., il quale parmi non distingua
sempre abbastanza due cose affatto diverse fra loro, che sono l'organizzazione
gentilizia e l'organizzazione politica, considerando come altrettante divisioni
del populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le gentes. Senza voler
quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per le lunghe, non posso
però tralasciare di notare, che la così detta famiglia patriarcale non deve
ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè essa è già una famiglia,
le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa del suo entrare a far
parte della organizzazione gentilizia. È nota in proposito la discussione,
anche oggi non definita, fra il Sumner MAINE, “Early law and custom” (London) da
una parte, e MORGAN e Mac-Lennan dall'altra, come pure la cri tica fatta, alla
teoria patriarcale del SUMNER Maine, dallo SPENCER, Principes de sociologie,
strato dal fatto, che è dalla gente che il patrizio romano deriva quel nome,
che esso ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmettere poi ai proprii
discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche
nuova incorporazione nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si
effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti. Mentre la famiglia è il
gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una
vera e propria comunanza di villaggio, in cui si preparano gli elementi
costitutivi della città, la gente invece è il gruppo intermedio, che da
giustamente il suo nome e la propria impronta all'organizzazione gentilizia,
perchè di sua natura è un gruppo più elastico e pieghevole di tutti gl’altri, e
che può meglio accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione.
La “gens” infatti è più forte e numerosa della famiglia, perchè continua a
stringere insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono
anche unite tra di loro da un medesimo culto, e intanto è più compatta della
tribus, la quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di origine
diversa o hanno già dimenticata l'origine comune, può già fornire argomento a
dissidii fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla. La gente poi
è per sua natura tale, che ora può cambiarsi in una carovana in migrazione, ora
attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche raccogliersi a
guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa mai sorgere
questione di preminenza, perchè è la consuetudine, che designa chi debba
esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che tutti i
suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella gente, che si
vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le genti che,
aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, danno origine alla tribù,
la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad essere così
di avviamento alla convivenza civile e politica. I tre gruppi tuttavia sono
sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si vengono sovrapponendo
l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul medesimo modello,
che è quello del gruppo patriarcale, e si vengono reciprocamente influenzando
per guisa, che tutti appariscono come strati diversi di un'unica organizzazione.
Di qui la [Cfr. Willems, “Le droit public romain,” Paris] conseguenza, che
tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza civile
e politica, compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di
convivenza civile, colla differenza tuttavia, che nella famiglia prevale ancor
sempre il vincolo del SANGUE, e nella tribù già si fa strada il vincolo civile
e politico, mentre la gente è quella, che ha il carattere più schiettamente
patriarcale. Cio premesso quanto ai caratteri generali della organizzazione
gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali fattezze, desumendole dalle
traccie che ancora ne rimangono nella storia primitiva di Roma, nella quale vi
ha questo di particolare che, anche quando un'istituzione si dissolve, si sanno
mantenere le forme esteriori della medesima. In cio sarà bene incominciare
dalla famiglia, come quella che ha ad esser meglio conservata e intanto
costituisce il gruppo più ristretto dell'organizzazione gentilizia. Per quanto
sia vero che la famiglia, quale presentasi più tardi nel diritto quiritario,
sia una istituzione comune così al patriziato che alla plebe, sonvi tuttavia
forti argomenti per credere che la sua primitiva organizzazione fosse di
origine patrizia. Fra gli altr’argomenti l'importantissimo è questo, che una
moltitudine come la plebe, che era di provenienza diversa e di formazione
ancora del tutto recente, non poteva possedere fin dai suoi inizii una
organizzazione famigliare, che presuppone una lunga serie di antenati e perciò
una lunga elaborazione anteriore. Ciò del resto è anche dimostrato da che nelle
origini il vocabolo di “patres” indica sopratutto i capi delle *famiglie*
patrizie, e perfino gli stessi senatori, che certo usci [Quanto ai caratteri
comuni al gruppo patriarcale degl’arii, alla “gens” romana ed al gévos dei
greci ed alla letteratura copiosissima sull'argomento, mi rimetto alla mia
opera: “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino), ed
all'opuscolo, “Genesi e svolgimento delle varie forme di convivenza civile e
politica” (Torino). Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle
istituzioni primitive presso le genti di origine aria, oltre le opere già
citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm. Königszeit,
Stuttgart, e Leist] vano dal patriziato, al modo stesso che il vocabolo di “patricii”
indica “figlio del pater.” Lo stesso provano eziandio le nozze confarreate,
certamente proprie del patriziato, che nella leggi attribuita a Romolo ed a
Numa sembrano essere il solo modo con cui si puo contrarre le giuste nozze. Si
aggiunge infine il carattere agnatizio della famiglia primitiva di Roma, il
quale non è e non può essere un carattere originario, ma è una conseguenza
della stessa organizzazione gentilizia, di cui la famiglia entra a far parte.
Dal momento infatti, che in questo periodo non esiste ancora una vera comunanza
civile e politica, diveniva inevitabile che l'organizzazione gentilizia ne
assumesse le funzioni e le veci, e che perciò anche la famiglia, in quanto ne
fa parte, venisse a ricevere un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del
PADRE, che non sul vincolo del SANGE. È questa la causa per cui la famiglia
primitiva Romana sembra, almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del SANGUE,
per guadagnare in forza ed in potenza, unificandosi sotto la potestà del
proprio capo. Una volta poi che il fondamento della unione domestica si
riponeva nella potestà del PADRE, er una conseguenza logicamente inevitabile,
che come il PADRE prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia,
cosi l'agnazione, ossia la DISCENDENZA dal padre, per la linea MASCHILE, dove prevalere
nella composizione diessa. È in questo senso, che la famiglia primitiva Romana
viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il
primo anello e come il nucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia.
Essa infatti ha una costituzione eminentemente monarchica, perchè tanto le
persone, che la costituiscono, quanto le cose, che ne formano il PATRI-MONIO,
dipendono esclusivamente dalla potestà del padre. La famiglia patrizia poi è un
vero e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi. Finchè
infatti vive il PADRE, nel cui potere essa trovasi unificata, la famiglia è un
vero corpo vivente, che può andar soggetto a continui mutamenti, in quanto che
vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono entrarvi. Quando poi
il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla sua potestà possono
ancora continuare a tenere [Dion., 2, 25 e 2, 63, testo è riportato da Bruns,
Fontes “Leges Regiae”] indiviso il patrimonio comune, assecondando un antico
costume romano, che si esprimeva colle parole conservateci da Gellio “ercto non
cito” -- le quali significano in sostanza che non si dovesse procedere alla
divisione immediata del patrimonio. In tal caso si mantiene fra gli agnati un
di soggetti alla patria potestà una specie di società universale di tutti i
beni, per cui sembra in certo modo che si perpetui ancora l'esistenza della
famiglia, e si ha così quella famiglia in largo senso, di cui ci parlano ancora
i giureconsulti, che la chiamano “familia omnium agnatorum.” Questa indivi
sione dove certamente essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la causa
per cui, oltre la famiglia nel vero senso della parola, che comprende tutti
quelli che sono soggetti alla “patria potestà”, venne delineandosi una famiglia
più vasta, che è quella degli agnati, la quale sebbene abbia cessato di essere
unificata dalla potestà del padre, continua tuttavia ancora ad essere unita
insieme e a costituire un tutto – “consortium” -- stante l'indivisione del
patrimonio. Ciò però non toglie che il concetto della famiglia agnatizia siasi
poscia cambiato e che si siano compresi col nome di agnati tutti coloro, che [Mi
fo lecito di mettere innanzi questa interpretazione delle parole arcaiche “ercto
non cito” e ciò in base a quello che ci attesta Servio, il quale interpretando
questa espressione, dice appunto, che essa significa “patrimonio vel hereditate
non divisa” -- Serv., in Aen., VIII, 642 (Bruns, Fontes). Queste parole furono
poi applicate per indicare in genere la « societas omnium bonorum » in virtù
della quale, secondo l'attestazione di Gellio. “Comnes simul in cohortem
recepti erant, quod quisque familiae, pecuniae habebat in medium dabat, et
coibatur societas in separabilis, tamquam illud fuit antiquum consortium, quod
iure atque verbo romano appellatur cercto non cito.” Che poi queste parole
siano in certo modo un'antica clausola testamentaria, con cui il padre proibiva
la divisione immediata appare da ciò, che “ercto” deriva certamente da “ercisco”
e “cito” è un avverbio che deriva da cieo e significa « prontamente ». Vedi
BRÉAL e Bailly, Dictionnaire étymologique latin, Paris, pº Ercisco e Cieo. Che poi veramente presso
gli antichi romani fosse consuetudine di mantenere, per quanto fosse possibile,
l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo citato da KARLOWA, Röm. R.
G., ricavato dalle PETRI, Excep. legum romanarum, lib. I, cap. 19, De vendenda
hereditate. Consuetudo antiquorum esse solebat, ut frater de rebus suis
immobilibus non venderet nisi fratri, propinquus propinquo, nec consors nisi
consorti, si emere vellent. È questo forse il motivo, per cui presso i romani
un heredium potera conservarsi integro nella stessa famiglia per parecchie
generazioni, e un vicus poteva essere costituito per intiero di famiglie
appartenenti alla stessa gens, senza mescolanza di elementi estranei. Cid sarà
meglio dimostrato ove trattasi appunto prietà nel periodo gentilizio >.
della pro -- - - 31 erano stati sotto la patria potestà della stessa persona,
come quelli che avevano formato parte di una medesima casa ed erano usciti
dalla medesima gente. Tuttavia, per ben comprendere il carattere della famiglia
patrizia primitiva, vuolsi sempre aver presente, che essa non è già un
organismo isolato, ma è parte di un organismo maggiore di cui costituisce il
nucleo più ristretto. Diqui la conseguenza che quel potere del padre, che
giuridicamente considerato sembra essere senza confini, trovasi nella realtà
limitato sia dal tribunale domestico, che circonda il capo di famiglia, sia dal
consiglio dei padri, che trovasi nella gente e nella tribù, per guisa che i
temperamenti, che non vi sarebbero nella natura del potere paterno, si
incontrano invece nel costume e nell'organizzazione gerarchica, di cui la
famiglia entra a far parte. È per questo motivo, che tutti gli atti, che
toccano in qualche modo l'organizzazione gentilizia, quali sarebbero
l'adrogatio, che serve a perpetuarla quando manca una prole diretta, il
testamento, che modifica le regole con suetudinarie relative alla successione,
ed anche il matrimonio per confarreatio di uno dei membri della famiglia,
devono essere fatti coll' intervento, colla testimonianza e perfino
coll'approvazione dei capi di famiglia, che entrano a formare la gente e la
tribù; il che ancora appare dalle formalità, che accompagnarono questi atti nei
primitempi di Roma. Intanto è incontrastabile, che anche la successione
legittima e la tutela assumono un carattere del tutto gentilizio, in quanto che
l'una e l'altra, sebbene non stabiliscano delle differenze per causa del sesso
o per causa di primogenitura, mirano però fino all' evidenza a conservare il
patrimonio e l'amministrazione di essa nella [Leg. 195, $ 2 e 196, Dig., De
verb. signif. (50, 16 ): Communi iure, scrive Ulpiano, familiam dicimus omnium
agnatorum, nam, etsi patre familias mortuo, sin guli singulas familias habent,
tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae
appellabantur, quia ex eadem domo et gente proditi sunt. Qui viene ad essere
evidente, che la giurisprudenza classica, che non poteva più favorire quella
indivisione che era tanto accetta agli antichi romani, conserva però sempre il
concetto della famiglia degli agnati, non più desumendolo dalla indivisione del
patrimonio famigliare, ma dalla circostanza che gli agnati erano un tempo
dimorati nella stessa casa ed erano stati sotto la patria potestà del medesimo
capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo di SEMERARO, “Enciclopedia
giuridica italiana”, vº “agnazione”, vol. I, parte 2*, pag. 720. 32] linea
agnatizia. Il che può scorgersi ancora nella legislazione decemvirale, la
quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte riusci a far prevalere
pressochè intieramente il sistema di successione e di tutela, che dovevano
essere in vigore presso il patriziato durante il periodo gentilizio. Quanto al
testamento, esso era certamente conosciuto in questo periodo, ma collo spirito
che prevale nell'organizzazione gentilizia si può affermare con certezza, che
esso, dovendo essere fatto coll'approvazione del consiglio degli anziani e
nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè servire qual mezzo per sottrarre
l'eredità alla gente, dovette invece servire per ritardare od impedire la
soverchia divisione dei patrimoni. Intanto è pure da notarsi il carattere
speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel periodo gentilizio, in quanto
essa comprende eziandio nella propria cerchia un numero più o meno grande di
servi, che in antico sono anche detti “famuli”, dal vocabolo “famel”, che in
lingua osca significa appunto “servo”; dal quale, secondo Festo, sarebbe anche
derivato l'antico vocabolo “famuletium”, che avrebbe significato servitium. È
infatti per mezzo dei servi, a cui era [Si può ricavare l'importantissima
conseguenza, che a suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto
romano primitivo, che il concetto di comproprietà, in virtù del quale i figli
durante la vita del padre sono comproprietarii dell'heredium, e dopo la morte
di esso in certa guisa eredi di se stessi (“heredes sui”), come pure quello, in
virtù di cui è dal novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle
femmine, degli impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine
rimonta ed è anzi un effetto della stessa organizzazione gentilizia, di cui la
famiglia entra a far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non dove
certo essere applicazione del principio: a uti paterfamilias super familia
tutelave suae rei legassit, ita ius esto », ma doveva mirare sopratutto all'”ercto
non cito”. Il testamento esiste, ma nell'intento di serbare il patrimonio
indiviso e di trasmetterlo tale di generazione in generazione. L'importante
concetto di questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente espresso in
uno degli ultimi lavori di Dubois, alla cui memoria mando qui un riverente
saluto, nel suo ultimo diligentissimo lavoro col titolo: “La saisine
héréditaire en droit ro main” (Paris) pubblicato nella “Nouvelle revue
historique de droit français et étranger”, ove, combattendo iMaynz ed altri autori,
dimostra che gli eredi suoi erano immediatamente investiti dell'eredità, senza
che occorresse accettazione della medesima e ciò appunto in base a questa
comproprietà famigliare. Al concetto del DuBois è solo da aggiungersi, che cið
era un effetto dell'organizzazione gentilizia prima esistente, idea, che egli
già aveva in germe, come lo dimostrano le parole con cui egli conchiude il suo
lavoro, ma che non ebbe più campo di svolgere. (2) V. Festo, vº Famuli (Bruns,
Fontes, pag. 338 ). 33 affidato il servizio rustico od urbano (familia rustica,
familia urbana) che la famiglia primitiva veniva ad essere organizzata per modo
da bastare a qualsiasi bisogno ed emergenza. Cio diede un carattere speciale
alla vita economica dell'antichità e coopera a dare alla famiglia antica il
carattere di un tutto organico e coerente in tutte le sue parti. La servitù
ebbe per effetto, come ben nota Padelletti, di fare in guisa che i prodotti non
venissero a cambiare di possessore in tutto il corso del loro processo
produttivo, perchè il servo e impiegato non soltanto nella produzione, ma
benanche nella trasformazione e nel trasporto dei prodotti. Per tal modo ogni
famiglia tende a supplire a tutti i suoi bisogni, e intanto ogni capo di
famiglia poteva apparire come possessore difondi, essere ricco di greggi ed
armenti, che costituivano in certo modo il primo capitale, e intanto attendere
eziandio al commercio dei proprii prodotti Puo tuttavia affermarsi con
certezza, che durante il periodo gentilizio le genti patrizie fossero sopratutto
ricche di greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso frequentissimo di vocaboli
anche di carattere giuridico de rivanti dall'industria pastorale (quae ex
pecoribus pendent), il che, secondo Festo e Varrone, deriva appunto da cid, che
presso imaggiori le ricchezze ed i patrimoni si componevano sopratutto di
greggi e di armenti (2 ). e (1) PADELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 15.
Sull'importanza della servitù nella famiglia primitiva è da vedersi PERNICE, M.
Antistius Labeo, Halle, ove parla dei rapporti degli schiavi colla casa di cui
fanno parte, sopratutto MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, Leipzig. Fra
questi vocaboli basti citare quello, che ebbe poi tanta parte nel vocabolario
giuridico, di “agree”, che, secondo BRÉAL, nel suo significato primitivo suo
nava « spingere, stimolare », e si applica sopratutto al gregge; quello di grex
talvolta applicato al popolo; quello di ovilia adoperato per significare i
recinti (septa ) ove il popolo era distribuito per dare il voto nei comizii; i
vocaboli di abgregare, adgregare, congregare citati appunto da Festo come
vocaboli di origine pastorale (Bruns, Fontes, pag. 331); quelli di pecunia, di
peculium, di peculatus, di ager compascuus, e molti altri i quali spiegano come
VARRONE (Bruns, Fontes, p. 388 ) finisca per esclamare. Romanorum populum a
pastoribus esse ortum, quis non dicit? Mulcta etiam nunc, ex vetere instituto,
bubus et ovibus dicitur, et aes anti quissimum, quod est flatum, pecore est
notatum. Si vedrà invece a suo tempo che mentre la ricchezza del patriziato
primitivo consisteva di preferenza in greggi, in mandre ed armenti, che
pascolavano nei compascua della tribù, e poscia nell'ager pubblicus della città,
la plebe invece fin dagli inizii diede sopratutto opera all'agri coltura,
concentrandosi nella coltura del proprio heredium o mancipium. Questo G. CARLE,
Le origini del diritto di Roma. Del resto quello, che qui importa, e sopratutto
di mettere in evidenza il carattere gentilizio della famiglia; poichè essa, fra
le istituzioni anteriori alla comunanza, è certamente quella che conserva più
lungamente il suo carattere primitivo. Quindi anche nel periodo storico si
troveranno nel patriziato romano quelle stesse formalità solenni e quelle
cerimonie religiose, che dovevano accompagnare gli atti relativi alla famiglia
durante il periodo gentilizio. La sola differenza consiste in questo, che
all'approvazione dei padri del gruppo gentilizio nella comunanza civile e
politica sottentrerå - o la testimonianza dei dieci Quiriti che rappresentano
le curie in cui divi devasi la tribù e l'intervento dei Pontefici, siccome
accade nelle confarreatio, - o l'approvazione delle curie, coll'intervento pure
dei Pontefici, siccome accade nella adrogatio e nel testamento, che per il
patriziato verranno a compiersi davanti all'assemblea delle curie, cioè in
calatis comitiis (curiatis). Credo ad ogni modo, che anche questa breve
esposizione dei caratteri della famiglia del patriziato romano dimostri
abbastanza che essa non deve essere riguardata come una istituzione del tutto
primitiva, come alcuni vorrebbero considerarla, in quanto che la medesima già
erasi scostata in parte dalle sue primitive e naturali fattezze, a causa della
influenza, che ebbe ad esercitare su di essa l'organizzazione gentilizia, di
cui e entrata a far parte. Essa in sommanon è più la famiglia, quale dovette
uscire dagli istinti e dalle tendenze naturali del genere umano; ma è già una
famiglia che in parte ha soffocato i naturali affetti onde fortificarsi per la
lotta per l'esistenza e per entrare in un'organizzazione, che funge da associa
zione domestica, religiosa,militare e politica ad un tempo. Ed è anche questa
la ragione, che la renderebbe a noi pressochè incomprensibile, se non fosse
riportata nell'ambiente in cui ebbe a formarsi. svolgimento storico pertanto
conferinerebbe il risultato, a cui giunsero SPENCER ed altri sociologi, secondo
il quale sarebbe stato sopratutto il periodo della vita pastorale, che avrebbe
determinato la formazione e l'afforzamento di quell'organizzazione gentilizia,
che trovasi così profondamente radicata presso il primitivo patriziato romano (V.
SPENCER, Principes de sociologie, Paris). Tale è ad esempio l'opinione del
Sumner Maine, che in questa parte fu com battuto dallo SPENCER. La gens e la
sua importanza per il patriziato di Roma. 28. Se la famiglia, quale comparisce
più tardi nel diritto Quiri tario, riproduce pur sempre i caratteri dell'antica
famiglia patrizia, altrettanto invece non può dirsi della gens, la quale perciò
è assai più difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Sebbene in
fatti la gens mantengasi ancora lungamente durante la comunanza civile e
politica, viene tuttavia fin dalle origini della convivenza civile e politica,
ad essere sottoposta ad un processo di dissoluzione, in quanto che una parte
delle sue funzioni di un tempo, quelle cioè che avevano un carattere politico o
militare o legisla tivo, finiscono per essere a poco a poco assorbite dalla
città. A cid si aggiunge, che in questa parte la grande autorità di Niebhur,
sulla fede di un testo di Dionisio, a cui diede una interpretazione che non può
essere ammessa, pose gli investigatori della storia primitiva di Roma in un
indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre dere per lungo tempo, che la
gens non fosse che una ripartizione politica della città. Per tal modo
l'organizzazione politica della [NIEBHUR, Histoire romaine, trad. Golbery,
Paris, ove parla: des maisons patriciennes et des curies e specialmente a pag.
19. Ivi l'illustre storico, avendo trovato che Dionisio divideva in dekádec le
curie, pensò che queste decurie non potessero essere che le gentes e trasportò
così l'organizzazione gentilizia nella città, concetto, che d'allora in poi ha
dominato le ricerche contempo ranee intorno a Roma primitiva, per guisa che
occorre pressochè universalmente di trovare che la città di Roma si divideva in
tribù, queste in curie e queste ul time in gentes. Così, ad esempio, anche gli
autori più recenti, pur avendo modifi cato il concetto della gens con ritenerlo
un ampliamento naturale della famiglia, continuano pur sempre in questa
distinzione. Citerò fra gli altri KARLOWA, Röm. R. G., il quale continua ad
essere intitolato: “Das Volk und seine Gliederungen (tribus, curiae, gentes)”,
quasi che il popolo romano sia stato mairipartito in gentes; ed iLeist, Graeco-
Italische R.G. che segue pure la stessa distinzione. Così pure il WILLEMS (“Le
droit public romain,” Paris)che continua ancor esso a dire, che le curie si suddividono
in gentes. Questa distin zione non fu mai accennata dagli antichi scrittori, i
quali soltanto ebbero a dire con Gellio, che i comiziä сuriati si raccoglievano
ex generibus hominum, il che significa solamente, che nella composizione delle
curie si teneva conto della discen denza, mentre invece nei comizii centuriati
si badava al censo e nei tributi alle lo calità. Il populus insomma è ricavato
dalle gentes,ma non fu mai diviso in gentes.] città venne ad essere confusa con
quella patriarcale della gente e i due elementi gentilizio e politico si
confusero per modo che per qualche tempo fu impossibile riuscire a sceverarli,
ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in dottissimi scrittori, le
conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le indagini furono rimesse in
una via, che poteva condurre a qualche risultato, allorchè gli studii, che si
vennero facendo sul gruppo patriarcale nell'Oriente, dimostrarono che
anteriormente alla città era lungamente durato un altro pe riodo di
organizzazione sociale, che riceveva appunto il suo carat tere fondamentale
dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente, era poi stata trasportata
nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi Italiche (1).
Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente, ove per
circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile nelle
sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire nel suo
carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in parte trasfor
mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di ricostruzione
poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto alle dekádes di
Dionisio, il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece una divisione delle
centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure una divisione del
senato -- MUELLER, Philologus. Si può infatti comprendere che i senatori, che
erano cento prima e trecento dappoi, si dividessero in decurie, e che così pure
si facesse delle tre centurie primitive degli equites, ma non si può veramente
capire come le curie, divisione dei Quiriti, che erano uomini di arme,
potessero suddividersi in gentes, le quali, essendo un ampliamento della fa
miglia, comprendevano maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di
seguito. (1) Il merito di aver richiamato l'attenzione sul gruppo patriarcale
presso le stirpi Arie, è da attribuirsi sopratutto al Sumner MAINE, L'ancien
droit, chap. V. La société primitive et l'ancien droit, pag. 107 a 163.
Tuttavia mi pare giustizia il far notare, che il primo che abbia, se non
provata, almeno intuita questa organizzazione patriarcale delle genti primitive
fu sopratutto il nostro Vico, il quale per compro varla ebbe a citare quegli
stessi versi di Omero, in cui parlasi delle istituzioni pri mitive dei Ciclopi
(V. 22, Scienza nuova, ediz. Ferrari, Milano, ove parla dell'economia poetica e
dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia del mondo), dai quali
prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag. 118 ); versi del resto, che già
erano stati citati da Platone nel dia logo delle Leggi, quando voleva appunto
dimostrare che il patriarcato era stata l'organizzazione sociale primitiva non
solo presso i Greci, ma anche presso i Barbari. Plato, Leges, III, Ed. Didot,
Paris, 1848. Del resto che l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti
gli Arii e quindi anche ai Greci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma
più argomento di discussione. (Per maggiori particolari vedi Carle, La vita del
diritto, lib. I e II, e sopratutto a pag. 90 e seg.) i 37 esse più di tutte le
altre stirpi hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi
e determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono
le proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico. Di qui la
conseguenza, che, a parer mio, i veri caratteri dell'organizzazione per gentes
possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive
genti del Lazio, che non nella stessa India, ove l'elemento religioso
preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita
primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la
gente, anzichè essere una divisione artificiale della città, deve invece es sere
considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione
gentilizia. Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in
quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria
potestà, maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da
cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il
culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti
Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle
genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come
proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite
comune, sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da qualsiasi
rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo patriarcale, la
“gens” è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta può avere le
proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è talora
indicata la stessa gens. E talvolta invece può avere già dato origine a tante
pro [Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per significare la “gens”
nel seguente passo di Festo. “Familia antea in liberis hominibus dicebatur,
quorum dux et princeps generis vocabatur pater et materfamilias; unde familia
nobilium Pompiliorum, Valeriorum, Corneliorum (Bruxs, Fontes). Si possono
vederne molti altri esempi nel Voigt (“Die XII Tafeln”, Leipzig). In ciò si ha
una nuova prova che la familia e la gens fanno parte della stessa organizzazione,
per guisa che i due vocaboli si scambiano fra di loro. Mentre è difficile
trovare negli antichi scrittori il vocabolo di familia per indicare il populus,
loro pare invece di essere più esatti, paragonandolo ad un grez e dividendolo
al pari di questo in altrettanti capita. Del resto sono abbastanza noti i
significati molteplici, che ha il vocabolo familia nel diritto primitivo di
Roma, ove significa ora un complesso di persone o 38 paggini diverse da
prendere quasi le proporzioni di una grande e numerosa tribù, come la
tradizione ci narra essere accaduto della gens Claudia, da cui sarebbe
originata la tribù dei Claudienses, e della gens Fabia, le cui proporzioni
pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze affrontare, secondo la
tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa militare, che in tristi
circostanze appariva ardua alla intiera città. Non è dubbio tuttavia, che le
popolazioni italiche e sopratutto quelle del Lazio dovettero avere un criterio
per scindere la gens propriamente detta dalla familia in stretto senso e se
fosse lecita una congettura avvalorata da una quantità notevole di indizii, la
stregua dovette essere la seguente. Non vi ha dubbio che i caratteri distintivi
della famiglia primitiva erano due, cioè la patria potestà del suo capo e
l'esistenza di un patrimonio, probabilmente chiamato here dium, che apparteneva
esclusivamente alla famiglia nella persona del proprio capo. Di qui la
conseguenza, che tutti i discendenti nella linea maschile (comprese anche le
femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio e quelle entrate in esso
per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo costituivano la famiglia
in stretto senso; ma questa poi continuava ancora a mantenersi e a considerarsi
tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa trimonio indiviso di essa
perpetuava in certo modo l'unità fami gliare. Che se invece i fratelli,
dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano a dividersi il
patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni l'unità primitiva,
in allora venivano ad esservi altrettante famiglie, di cui ciascuna aveva un
proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima gens, perchè
continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il proprio
antenato. La “gens” comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa della
famiglia, e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che come
tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum, finchè il loro
patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità,
allorchè questa divisione era seguita. È di qui che provenne la difficoltà,
ancora non superata, per distin di cose, ora un complesso di persone, ora
soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il
complesso dei servi (familia rustica ed urbana).] guere gli agnati dai
gentiles, perchè colla divisione del patrimonio gli uni si potevano convertire
negli altri e fu solo posteriormente allorchè diventò più rara questa
indivisione, che si chiamarono agnati tutti coloro, che un tempo si erano
trovati sotto la patria potestà della stessa persona, ai quali si aggiunsero
poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il comune capo non fosse premorto.
Non è quindi il caso di dover supporre col Muirhead, che l'ordine degli agnati,
cosi nella successione che nella tutela legittima, sia stata una creazione
artificiale della legislazione decemvirale per provvedere alla successione e
alla tutela dei plebei, che mancavano di genti. Gl’artificii nelle epoche
primitive sono meno frequenti che non si creda, e non si possono supporre che
quando ve ne siano prove dirette, quale è quella, ad esempio, che abbiamo
quanto alla fin zione di postliminio ed altre analoghe. Per contro il gruppo
degli agnati può benissimo essere attribuito ad una formazione spontanea
durante il periodo gentilizio, poichè era cosa naturale, come notd più tardi il
giureconsulto, che l'essere stati un tempo sotto la patria potestà della stessa
persona e l'aver partecipato al godimento dello stesso patrimonio dovesse
distinguere il gruppo degli agnati da quello più remoto dei semplici gentiles,
che solo avevano comune la discen denza da uno stesso antenato, ma che non
avevano mai dimorato nella stessa casa, nè avevano mai formato parte della
stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente strano ed incomprensibile, che la
le gislazione decemvirale avesse dovuto essa creare il concetto degli agnati,
mentre è appunto quest'agnazione, che sta a base delle or ganizzazioni
domestica e gentilizia, le quali certo già esistevano pre cedentemente. C [Che
l'ordine degl’agnati sia stata una creazione della legislazione decemvi. rale,
è uno dei concetti veramente nuovi enunciati dall'illustre autore dell' “Historical
Introduction”. Egli quindi insiste più volte sul medesimo e dopo averlo
accennato a pag. 43 nel testo e nelle note 2 e 3 vi ritorna sopra a pag. 121 e
172 e note relative. Il solo suo argomento però consiste nei due testi di
Ulpiano da lui citati, ove il giureconsulto mentre dice che: lege duodecim
tabularum testamentariae hereditates confirmantur », usa invece, quanto alla
successione legittima, l'espressione che « legitimae hereditatis ius ex lege
duodecim tabularum descendit », espressione che pure adopera altrove quanto
alla tutela legittima. È però evidente, che qui il giureconsulto non parla solo
della successione degli agnati, ma di tutta la succes sione legittima, e quindi
anche degli heredes sui, e dei gentiles, per guisa che, se stesse il
ragionamento del MUIRHEAD, converrebbe dire, che secondo il giureconsulto tutto
il sistema della successione legittima discende dalle XII tavole. E questo ve [La
gente intanto, dopo essere partita dal gruppo degli agnati, che avevano diviso
il patrimonio paterno, poteva poi prendere uno svol gimento grandissimo, in
quanto che essa poteva abbracciare tutte le diramazioni per la linea maschile,
che si staccavano da ciascuno di questi agnati e non cessava mai di costituire
una sola aggregazione gentilizia, finchè tutte le famiglie continuassero ad
avere lo stesso nome e a professare il culto del medesimo antenato. Potevano
perd darsi dei casi, in cui la gente cosi pervenuta ad un numero stragrande di
persone venisse a ripartirsi essa stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche
allora il nome primitivo della gens è sempre conservato, ma ciascuna delle
diramazioni prende un proprio agnomen o cognomen, che ne costituisce in certo
modo la caratteri stica, ed è seguendo la serie dei cognomina, che si possono
seguire le propaggini tutte della stessa pianta. Cosi accadde, ad esempio,
della “gens” Claudia, la quale già numerosissima conserva ancora una sola
denominazione, ma che più tardi venne assumendo una quantità di cognomina
diversi, che indicano in certo modo il punto, in cui sopra un unico ceppo
cominciarono ad apparire diramazioni diverse. Lo stesso è a dirsi della “gens”
Cornelia e di molte altre, il che serve, anche a spiegare come nel tempo in cui
anche quella parte della plebe, che già era pervenuta alla nobiltà cerca di
imitare l'organizzazione gentilizia, si veggano delle gentes plebeiae staccarsi
da un fusto patrizio. Ciò infatti deve probabilmente indicare un antico vincolo
di clientela, che stringe l'antenato, da cui parti la formazione della gente
plebea, a gente patrizia. Bastano queste considerazioni per spiegare l'energia
vitale, che ramente fu quello, che volle dire il giureconsulto; poichè furono
appunto le XII tavole, che, nell'intento di appoggiare l'organizzazione
gentilizia, trasportarono di peso la successione legittima esistente nelle
tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può vedersi uno dei motivi, per
cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un sistema di successione, che era
disadatto alla città e conduceva all'esclusione di per sone care, credevasi
quasi dimorire disonorato, se moriva senza testamento. Fu quindi tutta la
successione legittima e non soltanto l'ordine degli agnati, che fu creazione
dei decemviri, i quali la tolsero dipeso dell'organizzazione gentilizia; in cui
già eranvi le distinzioni di heredes sui, di agnati e di gentiles, come appare
dal fatto, che tutta l'organizzazione gentilizia è fondata sull'agnazione, il
che è pure ammesso dal MUIRHEAD. Ciò del resto sarà meglio comprovato quando si
tornerà sul gravissimo argomento, discorrendo della successione legittima in
base alle XII tavole. Quanto all'agnazione e ai caratteri di essa è pure da
vedersi il Voigt (“Die XII Tafeln”) - poteva avere un gruppo, che, ad una
compattezza pressochè uguale a quella della famiglia, accoppiava talvolta il
numero e la forza della tribù, sopratutto allorchè essa era capitanata da
uomini di energia tenace e di propositi costanti, come furono per parecchie
genera zioni quelli, che guidavano la gens Claudia o la gens Valeria, e come in
essa potessero anche perpetuarsi tradizioni diverse, ostili o favorevoli alla
plebe dapprima e poi al partito popolare. È questo carattere della gens, che
spiega la perennità di un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie,
malgrado una quantità di influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne
l'azione. Così pure deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive, di
fronte alla potenza assorbente della città, finirono per scompa rire fin dal
periodo regio con Servio Tullio, le genti invece per. durarono per parecchi
secoli, sostennero in poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui
numero veniva facendosi sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a
dare un contri buto larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per
secoli erano stati loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini
per consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie,
che si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo
gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante
l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà, come lo dimostra
il fatto, che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di quello di
ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che ormai
trovavasi in decadenza. Intanto i due caratteri fondamentali della gens, quali
si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle antiche genti
italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella descrizione dei
particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti, cioè, primo, alla
discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome, nel culto, e nel
sepolcro comune; secondo, ed alla ingenuità perenne dei membri, che entrano a
costituirla, per modo che essa deve essersi ser bata immune da qualsiasi
mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi caratteri è
quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità
dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il pontefice Q. Muzio SCEVOLA
volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da Cicerone, è
quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte alla plebe.
Esse avevano attraversato un lungo periodo di lotta e di privata violenza
vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas era indizio, che
esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue non erasi mai
mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la conseguenza
eziandio, che il vocabolo patricii in sostanza non significava che gli ingenui,
il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del loro sangue
con quello servile. Questi due caratteri sono dimostrati anzitutto dalle varie
diffinizioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da Festo, da Isidoro e da
altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei gentili da un antenato
comune, e da quella anche di Cicerone, il quale, parlando di un nome comune – “qui
inter se codem nomine sunt” -- non esclude certamente, ma conferma il carattere
della comune discendenza e in tanto vi aggiunge quello della ingenuità non
interrotta dei gentiles. Questa del resto è pur confermata da ciò, che la plebe
stessa nelle sue discussioni coi patrizii se non ammetteva la loro discendenza
dal divino riconosce però, che il vocabolo “Patrizio” nelle sue origini
significa “ingenuo”. Di qui intanto si comprende come dapprima il patrizio e
poscia tutti i cittadini romani avessero *tre* appellazioni. La prima – “prae-nomen”
-- indicava l'individuo. L’altra e il vero nome – “nomen” -- designa la gente, a cui egli appartene in
quanto la gente e in certo modo il gruppo che contene le diverse famiglie. La
terza infine – “cognomen” – designa la famiglia, in quanto questa era una
particolare diramazione, della gente. A queste appellazioni si potevano poi
anche aggiungere (1) Festus, vo Gentilis: « Gentilis dicitur ex eodem genere
natus, et is qui simili nomine appellatur ». Bruns, Fontes; VARRO, De lingua Latina.
“Ut in hominibus quaedam sunt agnationes ac gentilitates, sic in verbis; ut
enim ab Aemilio homines horti Aemilii ac gentiles, sic ab Aemilio nomine
declinatae gen tilitates nominales.” Bruns, Fontes, Isidoro. “Gens est
multitudo ab uno principio orta, appellata propter generationes familiarum, id
est a gi gnendo uti natio a nascendo.” Bruns; CICERO, Top. “Gentiles sunt qui
inter se eodem nomine sunt.” “Qui ab ingenuis oriundi sunt.” “Quorum maiorum
nemo servitutem servivit.” “Qui capite non sunt deminuti.” V. anche Livio. Per
ciò che si riferisce ai nomi romani è da vedersi il MICHEL, “Du droit de cité
romaine” (Paris), e sopratutto la trattazione veramente magistrale del
MarQUARDT, “Das Privatleben der Römer,” che nota come vi fossero gruppi, che
non avevano cognomen, come gli Antonië, i Duilii, i Flaminii ecc. Quanto agl’esempi
citati nel testo a pag.40, è pare a vedersi Bonghi, “Storia di Roma”, “Appendice
sulle primitive genti patrizie”, nella parte, che si riferisce alla gens
Claudia e Cornelia] uno o più soprannomi – “agnomina” -- che servivano a
contraddistinguere l'individuo stesso o per essere egli stato adottato da altra
famiglia, o per impresa da lui compiuta, o per indicare le suddistinzioni
operatesi nella stessa famiglia. Può darsi che in antico potesse esservi anche
qualche indicazione della località abitata dalla gente, a cui apparteneva
l'individuo, come lo dimostrano i soprannomi di “Regillensis”, “Collatinus,” e
simili. Di questo si ha un indizio nel fatto, che allora quando il territorio
di Roma e veramente distribuito in tribù locali, anche la indicazione della
tribù comparve a completare le denominazioni del cittadino romano, e precedette
anzi il soprannome suo particolare. Del resto, questi caratteri particolari
della “gens” sono anche comprovati dalla radice “gen,” comune alla “gens”
latina e al “genos” dei greci, che significa “generare” e produrre; come pure
da ciò, che i nomi gentilizii sono nomi di persona piuttostochè di luoghi, e
che i diritti gentilizii, come il ius hereditatis, il ius curae, il ius
sepulchri sono di carattere eminentemente privato. Così è pure dei sacra
gentilicia, i quali da Festo sono annoverati fra i sacra privata, che sono a
spese delle singole genti, e contrapposti ai sacra pubblica, che si compiono
invece a pubbliche spese. Solo sembra far eccezione il ius decretorum. Ma
oltrecchè questo diritto sembra nel periodo storico esercitarsi di preferenza
in cose d'ordine privato, il medesimo puo facilmente essere spiegato quando si
consideri, che la genteha compiuto un tempo funzioni politiche, che non puo
scomparire di un tratto anche colla formazione di Roma. Tali sono le
appellazioni di Publius Cornelius Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius Scipio
Asiaticus, di Publius Cornelius Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT. VARRO,
De ling. lat. “In hoc ipso analogia non est, quod alii no mina habent ab
oppidis, alii aut non habent, aut non, ut debent, habent.” BRUNS. FESTUS, p
Publica: “Publica sacra, quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro
montibus, pagis, curiis, sacellis, et privata, quae pro singulis hominibus,
familiis, gentibus fiun.” Bruns. I casi ricordati dalla storia, in cui le
gentes si sarebbero valse del ius decretorum, sarebbero i seguenti. La gens
Fabia vieta ai suoi membri il celibato e la esposizione degl’infanti (Dionisio).
La gens Manlia proscrive il prenome di Marcus (Livio). Affine, la gens Claudia proscrive
il prenome di Lucius (Svet., Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi
ricordi. Più tardi però e il Senato, che prende simili provvedimenti, vietando
il prenome di Marcus agl’Antonië (Plut., Cic., 19), e quello [È invece assai
più difficile l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna della
gens da quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico. Non si può
anzitutto accertare, se la gens ha sempre e costantemente un proprio capo – “princeps
gentis” --, o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio dei padri o
indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di qualche impresa
da compiere, come quando, ad esempio, Atto Clauso abbandona Regillo per recarsi
a Roma. Questo però è certo, che la gente dove avere un consiglio di anziani o
di padri, che raccoglieva in sè la somma dei poteri, e conserva e trasmetteva
le tradizioni della gente. Era nel suo seno, che si sceglievano gli arbitri e
gli amichevoli compositori delle controversie, che potevano sorgere fra i varii
capi di famiglia, che appartenevano alla medesima gente. Era questo consiglio
parimenti, che sull’ “ager gentilicius” fa degli assegni di terre ai clienti,
ed attribuie gl’ “Heredia” alle nuove famiglie che si formavano nel seno
della gente. E il medesimo ancora, che poteva richiedere il servizio militare
non solo dei suoi membri – “gentiles” -- ma anche dei dipendenti da essa – “gentilicii”.
Cosi pure era questo consiglio, che sovra intende alla condotta dei singoli
capi di famiglia, prevenne e reprime l’abuso dell'autorità domestica, ed impede
eziandio che i capi di famiglia, contro il buon costume della gente,
disperdessero quei beni – “bona paterna avitaque” -- di cui in certo modo erano
custodi nel l'interesse proprio e della famiglia e che, potendo, dovevano
trasmettere ai proprii eredi. E la gente infine che, in mancanza di prossimi
agnati, e chiamata a succedere al capo di famiglia morto senza eredi suoi, e
che dove perciò anche provvedere alla tutela perpetua delle femmine e a quella
dei figli, che fossero rimasti or di Cnaeus ai Calpurnii Pisones (Tacito). Parteno
eziandio dalla gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da
vedersi in proposito l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, “Le droit funéraire à
Rome” (Paris), dove dice che la gens conserva il suo sepolcro gentilizio,
finchè si mantenne la sua organizzazione e l'unione stretta fra i suoi membri,
cioè fin sotto il principato. E allora che incominciano i sepolcri di famiglia
od ereditarii. Secondo quest'autore, mentre i liberti partecipavano ai sacra
gentilicia, e quindi probabilmente anche al sepulchrum gentilicium, essi invece
erano esclusi del sepolcro della famiglia, al quale hanno diritto soltanto gl’agnati.
In proposito del princeps gentis o magister gentis è da vedersi Voigt, “Die XII
Tafeln,” ove parla dei poteri al medesimo spettanti.] fani prima di essere
pervenuti alla pubertà, come pure doveva essere essa, che facevasi vindice
delle offese, che fossero recate ad alcuno dei membri che entravano a
costituirla. Da ultimo, fra i membri della gente esiste l'obbligo della
reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti,
riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie, e vendicati se
fossero stati uccisi od ingiuriati. Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo del
nome, quello del culto, e quello del sepolcro, e facile il comprendere come un
gruppo così intimamente connesso, unito nel passato e nell'avvenire, in vita e
dopo la morte, nelle cose divine ed umane non potesse essere facilmente
distrutto dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella città. Esso
continua, durante il periodo storico, ad avere una quantità di istituzioni
tutte sue proprie, come lo dimostrano i vocaboli di “gentilis” e di “gentilicius”,
l'esistenza anche nel periodo storico di un “ager gentilicius”, quelli dei “sacra
gentilicia”, del “sepulchrum gentilicium”, per modo che, anche prima del
formarsi di Roma, dove svolgersi tutto un “ius gentilicium”, che governa
appunto i rapporti fra le varie persone, che entravano a costituire il gruppo
gentilizio. Esso quindi non deve confondersi col “ius gentilitatis”, che indica
il complesso dei diritti spettanti ai gentiles, al modo stesso che il “ius
civitatis” indica i diritti spettanti al civis. Così pure non può esservi
dubbio, che il vocabolo di “iura gentium”, che poscia ebbe a prendere un così
largo svolgimento, dove nascere già in questo periodo per indicare appunto i
rapporti, che intercedevano fra le varie genti e i capi delle medesime. Quanto
ai poteri della gens, tanto sui gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi
Voigt, “Die XII Tafeln”. La bibliografia copiosissima intorno alla gens può
vedersi nel BOUCHÉ-LECLERCQ, “Institutions romaines”, come pure nel WILLEMS, “Le
droit public romain”. Fra gli autori che tentarono la “ri-costruzione” del “ius
gentilicium”, sono a vedersi sopratutto KARLOWA, Römische R. G., MUIRHEAD,
Histor. Introd. Parmi tuttavia importante il distinguere il “ius gentilicium”,
che comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella
dei dipendenti da essi o gentilici, il “ius gentilitatis” che significa il
complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente (gentiles), e i “iura
gentium”, che governano i rapporti fra le varie gentes. Fra gl’istituti di
questo “ius gentilicium”, quello che più merita di essere preso in
considerazione è certo quello della clientela, essendo essa una delle cause del
numero e dell'importanza, a cui giunsero i gruppi gentilizii. I clienti,
durante il periodo storico, costituiscono una classe inferiore di persone, che
appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere ereditario,
in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda. Le due
persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario, sono indicate coi
vocaboli di patrono e di cliente, il quale ultimo vocabolo, secondo l'opinione
ora generalmente adottata, deriva da “cluere”, che significa audire nel senso
di essere obbediente. Come tali, i clienti entrano a far parte della gente, a
cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la quantità di gentiles.
Ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi nel gruppo gentilizio una
classe di uomini, di condizione inferiore, che in una posizione già alquanto
migliorata corrisponde all'ordine dei servi e dei famuli in seno
dell'organizzazione domestica. Il servo e il famulo non partecipano al ius
gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium. È Dionisio quegli,
che ci ha conservato l'enumerzione più particolareggiata delle obbligazioni e
dei diritti, che intercedono fra il patrono ed il cliente, attribuendo
l'istituto della clien [Willems, “Le droit public romain” -- Non potrei però
convenire in ciò, che Willems considera i clienti come una classe speciale di
cittadini di diritto inferiore, perchè la clientela in ogni tempo e sempre
considerata come un rapporto di diritto privato e non mai come un rapporto di
diritto pubblico, che basta ad attribuire da solo la qualità di cittadino. I
clienti poterono poi avere tale qualità quando hanno degli assegni in terre dal
proprio patrono, mediante cui poterono figurare nel censo, ma non si capisce
come potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto di
suffragio persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le proprie
ragioni in giudizio, ma abbisognano perciò del patrono. Questa è ancora sempre
una conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e
l'organizzazione politica. BRÉAL, Dict. étym. lat., vo Clueo. Cfr. MUIRHEAD,
Encyclopedia Britannica, vº Patron and client] -- tela allo stesso Romolo. Ma
egli è evidente, che anche la sua descrizione già altera alquanto le fattezze
della clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare nella convivenza civile
e politica un'istituzione, che ee ata e si era svolta nell'organizzazione
gentilizia. Secondo Dionisio, il cliente ha delle obbligazioni, nelle quali si
può scorgere un carattere, che noi chiameremmo semi-feudale. Il cliente infatti
deve al patrono riverenza e rispetto; deve accompagnarlo alla guerra;
soccorrerlo pecuniariamente in certe occasioni, come nel caso di matrimonio
delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se siano prigionieri,
come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di giustizia, ed anche
quelle dei sacra gentilicia. Ciò tutto fa credere, che i clienti ottenessero
dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla cui coltura potevano
ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le terre loro assegnate
facevano parte dell' “ager gentilicius”, proprietà collettiva della gente; il
che non rende esatta, ma spiega l'etimologia as segnata al vocabolo di
clientes, che si dicevano così chiamati “quasi colentes”, perché avrebbero
coltivate le terre dei padri. Infine, Dionisio parla perfino dell'obbligazione
del cliente di non poter votare contro il patrono, la quale dimostrerebbe come
la clientela, adatta al gruppo gentilizio, venne ad essere un'istituzione
ripugnante al carattere di una comunanza civile e politica. Alla sua volta poi
il patrono dove al cliente protezione e difesa, e quindi e tenuto a provvederlo
diciò, che fosse necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia,
il che facevasi mediante concessione di terre, che il cliente coltiva per suo
conto. Esso dove di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone,
rappresentarlo in giudizio, apprendergli il diritto – “clienti promere iura” --
, ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo [È Servius,
In Aeneidem, 6, 609, che vuol derivare il vocabolo di “clients” da “quasi
colentes”. “Si enim clientes quasi colentes sunt, patroni quasi patres,
tantundem est clientem quantum filium fallere.” (Bruns). Parmi tuttavia che,
tenendo conto del contesto della frase di Servio, qui il vocabolo quasi
colentes non accenni tanto al coltivare le terre, quanto piuttosto
all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono, per guisa che
anche l'etimologia di Servio confermerebbe quella oggidì adottata. Questo passo
di Dionisio, in cui egli riporta le obligazioni rispettive del patrono e del
cliente, attribuendo in certo modo l'origine della clientela a Romolo, è
riportato dal Bruns, Fontes] modo in considerazione di membro della gente,
ancorchè in condizione inferiore, in quanto che nella gerarchia gentilizia il
cliente venne bensì dopo gl’agnati, ma era prima dei cognati e degli affini, i
quali appartenevano ad un altro gruppo. Questi obblighi poi scambievoli, in
mancanza di sanzione giuridica, sono collocati sotto la protezione del “fas”
come lo dimostra la legislazione posteriore di Le XII Tavole, la quale,
sanzionando un obbligazione certo preesistente, ebbe a stabilire – “si patronus
clienti fraudem fecerit, sacer esto” -- ed al pari di tutti gli altri rapporti
gentilizii hanno un carattere ereditario. Infine, siccome patrono e cliente
appartengono entrambi allo stesso gruppo gentilizio, ancorchè in posizione
diversa, cosi Dionisio va fino a dire, che essi non possono proseguirsi
reciprocamente in giudizio, condizione anche questa, che, consentanea al
carattere dell'organizzazione gentilizia, ripugna invece a quello della
convivenza civile e politica, ove ognuno deve avere il mezzo di poter far
valere le proprie ragioni davanti ad un'autorità, che accorda a tutti la
propria protezione. Basta questa esposizione per dimostrare, come la clientela e
un istituto nato e svolto nell'organizzazione gentilizia prima esistente, che
continua ancora per qualche tempo a produrre i proprii effetti a Roma, ove
tuttavia si trova compiutamente disadatto, perchè ripugna a quell'uguaglianza
di posizione giuridica, che deve esservi fra coloro, che partecipano alla
medesima cittadinanza. Essa quindi era destinata necessariamente a scomparire o
quanto meno a trasformarsi, in quanto che nella città le persone, che trovansi
in condizione inferiore, possono essere aggruppate nella plebe e fare a meno
della protezione del patrono, essendovi un'altra autorità che li tutela. Di qui
la conseguenza, che la clientela potè ancora mantenersi finchè i due ordini in
lotta fra di loro si [MASURIUS SABINUS – “In officiis apud maiores ita
observatum est.” “Primum tutelae, deinde hospiti, deinde clienti, tum cognato,
postea adfini.” HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup. -- Aulo Gellio invece
accenna ad un'altra opinione, che dà la preferenza al cliente sull'ospite.
Noct. Att., V, 13. Che poi il cliente entri in certo modo a far parte della
famiglia è affermato da Festus, vº Patronus. « Patronus a patre cur ab antiquis
dictus sit, manifestum; ut quia ut liberi, sic etiam clientes numerari inter
domesticos quodammodo possunt >; Bruns, pag. 351. Cfr. Karlowa, Römische R.
G., attenneno ancora strettamente alla propria organizzazione e rappresentano
in certo modo due elementi fra di loro contrapposti nella medesima Roma. Ma
dopo il pareggiamento invece dei due ordini, la clientela riusce solo più a
mantenersi di nome, anzichè di fatto. Senza più importare quegli obblighi di
carattere religioso ed ereditario, che ne conseguivano un tempo. I clientes si
scambiarono cosi in semplici aderenti, che accompagnavano il patrizio od anche
l' “homo novus” nella piazza e nel foro e ne costituivano in certo modo il
corteo, e diventarono anche semplici salutatores; il che tuttavia non tolse,
che il vocabolo “cliente” sopravvive alla istituzione da esso indicata, e
rimanesse ad indicare il rapporto di colui che si affida al patrocinio legale
di un'altra persona, ricordando così uno dei primitivi uffici, che il patrono ha
certamente avuto verso il proprio cliente. Tuttavia, anche dopo il
pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera clientela già scompare nei
rapporti fra i cittadini romani. Noi la vediamo sopravvivere nei rapporti dei
cittadini romani colle altre genti, in quanto che trovansi le traccie di un ius
applicationis, la cui origine rimonta alle tradizioni gentilizie, col quale un
individuo, un municipio, un re od un popolo straniero ricorrevano al patronato
di un cittadino romano per far valere o avanti al Senato o davanti ai
magistrati di Roma ragioni e diritti che essi non sarebbero stati in caso di
far riconoscere. Così pure nell'interno di Roma, la clientela, ancorchè
scomparsa come istituzione giuridica, continua pur sempre ad esercitare una
grandissima influenza sopratutto nel periodo dell’elezione -- nel quale tutte
le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle che ricordano uno
stato di cose ormai scomparso. Accenna al ius applicationis CICERONE, De orat.
ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il carattere di questa
istituzione. Sonvi però autori, che, come MISPOULET, vorrebbero scorgere
nelmedesimo la forma contrattuale della clientela. “Les institutions politiques
de Rome” (Paris). In ogni caso converrebbe pur sempre dire, che il ius
applicationis poteva essere la forma, che riveste il rapporto della clientela
nell'epoca romana, ma non si potrebbe affer mare altrettanto dell'epoca
gentilizia. Le formole epigrafiche, da Mispoulet citate in nota, si riferiscono
alla così detta pubblica clientela, che era già stata creata a somiglianza di
quella prima esistente. Del resto punto non ripugna, che anche la clientela
potesse assumere un carattere contrattuale e che la formola di essa puo anche
essere analoga a quella ricostrutta da Voigt. “Te mihi patronum capio. At ego
suscipio poichè noi troviamo qualcosa di analogo anche nella deditio”. G.
CARLE, “Le origini del diritto di Roma”. Quanto alla clientela, e sopratutto
disputata ed ha veramente grande importanza la questione intorno alla origine
di essa. Si è sostenuto in proposito che i clienti fossero i primi plebei stati
ripartiti da Romolo sotto il patronato dei patrizii; che essi fossero i primi
abitanti del Lazio ridotti a vassalli; che fossero gl’immigranti in Roma in
seguito all'asilo aperto da Romolo; che essi infine fossero antichi servi
manomessi, la quale opinione, posta innanzi da Mommsen, si appoggerebbe
sull'analogia, che corre fra gl’obblighi primitivi del cliente verso il patrono
e quelli che ancora si mantengono durante il periodo storico a carico dei *liberti*
verso il patrono. Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere
la clientela nella sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al
carattere dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta da Mommsen,
per cui i primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi
dopo un lungo e fedele servizio nel seno della famiglia, sarebbero diventati
clienti nel seno della gente, a cui appartene il proprio patrono. Ciò e non
solo naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che,
se cosi non e stato, i servi manomessi si sarebbero trovati abbandonati a se
stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi
protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e
politica. Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione naturale
e spontanea, che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa, e tende così
a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene quindi ad
essere naturale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii gruppi
gentilizii e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costumanza per cui
coloro, che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere accolti
come clienti o gentilicii nella gente. La clientela in tal modo venne a
costituire una condizione relativamente più elevata a cui poteva aspirare il servo,
e si comprende eziandio come la sua co-abitazione in una famiglia potesse da
una parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto e del sepolcro
gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella qualità di
servo e preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente, L'esposizione
più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione degli autori, che
ebbero a professarle, occorre nel.WILLEMS, “Le droit public Romain”, e nel
Borché-LECLERC, “Instit. Rom.” È in questo senso che il concetto del Mommsen
può essere accettato. Ma il medesimo vuol essere reso compiuto col ritenere che
qui dovette verificarsi un processo, che è comune a tutte le istituzioni, per
cui, una volta creata la configurazione giuridica della clientela per mezzo di
elementi usciti dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia, si poterono poi
fare entrare in essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati
da un gruppo abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la
protezione o difesa di esso. Come quindi e naturale, che il servo affrancato
dal capo di famiglia divenne cliente della gente a cui esso appartene, così
dovette pure essere naturale, che una volta creato il rapporto religioso,
giuridico ed ereditario della clientela e compresi nella medesima anche gli
immigranti, che si rifugiano presso la gente, vincolandosi mediante il ius
applicationis ad uno dei membri di essa, che ne diventava il patrono. Quelli,
che per un diritto di guerra universalmente riconosciuto fra le varie genti,
essendo posti nella condizione di dediticii, venivano ad esser privi di
religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza. Quelli, che erano
soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e si imponeva nel
sito da essi occupato. Quelli che, fermata la propria sede accanto ad uno
stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano concessioni di terra e
riconoscevano così il patronato delle medesime. Tutti quelli insomma, che in
un'epoca di lotta e di violenza cercano protezione e difesa presso la gente, e
che questa, per affinità di stirpe o per altro motivo, riteneva di poter
accogliere nella comunanza gentilizia, assegnando pero ai medesimi una
posizione subordinate. Cio intanto dimostra come la clientela e una istituzione
indispensabile in questo periodo di organizzazione sociale. Serve ad
incorporare nel gruppo gentilizio persone, che altrimenti si sarebbero trovate
nell'isolamento e percio prive di diritto, e quindi, mentre da una parte
accresce il numero e la forza delle genti, dall'altra procura al cliente una
protezione giuridica, di cui e stato altrimenti privato. In questo senso non è
certamente [Questa più larga estensione data all'origine della clientela, che,
senza escludere l'opinione di Mommsen, la comprende, sembra essere giustificata
dal seguente passo di Gellio: “Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum
sese dediderunt”] destituita di fondamento la potente intuizione del nostro
Vico. Vico ritenne che la clientela o come egli la chiama il “famulato” e un
mezzo indispensabile per giungere al governo civile, in quanto che essa e il
primo mezzo,mediante il quale individui e famiglie di origine diversa poterono,
coll'accettare una posizione dipendente e subordinata, essere aggregate ad un
gruppo, a cui non apparteneno per nascita, senza tuttavia essere assorbiti
intieramente nel gruppo stesso nella qualità di famuli e di servi. Non può quindi essere accolta l'opinione di
coloro, che vorrebbero collocare il cliente in una posizione intermedia fra il
servo ed il plebeo, poichè sebbene sia vero che l'uno poteva trasformarsi nel
l'altro, tuttavia la clientela e la plebe sono istituti, che compariscono in
stadii diversi dell'organizzazione sociale. Mentre la clientela appartiene
ancora totalmente all'organizzazione gentilizia, il comparire invece della
plebe segna già l'iniziarsi della vita civile e politica in seno della tribù,
donde la conseguenza che la città formandosi soffoca la clientela, mentre verrà
invece a somministrare il terreno, sovra cui la plebe potrà dispiegare la
propria attività ed energia. Al disopra della gens compare infine nella
organizzazione delle genti italiche un'aggregazione più vasta, che è quella
della TRIBU, come lo dimostra il fatto, che, secondo la tradizione, sarebbe dal
confederarsi delle tribù dei Ramnenses, dei Titienses e dei Luceres, che
sarebbe uscita Roma, allorchè essa cesso di essere il primitivo stabilimento
romuleo. La tribù tuttavia, delle istituzioni anteriori a Roma, è certo la più
difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Siccome infatti essa,
per le funzioni esercitate, e tra le varie aggregazioni quella, che più si
accosta Roma, così è anche quella, che per la prima e assorbita dalla medesima,
per modo che il nome stesso delle tre tribù primitive di Roma sarebbesi forse
perduto, se non l'avesse [Vico, Scienza nuova, Lib. II. – “Della famiglia dei
famoli innanzi delle città, senza la quale non potevano affatto nascere le
città” – Milano] conservato la curiosità investigatrice di qualche antiquario,
e non ne fossero rimaste le vestigia nelle VI centurie degli equites -- VI
suffragia -- composte dei Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secondi. Gli
è perciò che come e assai difficile il discernere la gente dall'aggregazione
più ristretta dalla famiglia, cosi non è meno difficile il constatare in qual
modo alle genti venga a sovrapporsi la tribù e come, riunendosi le prime, venga
ad apparire la seconda. Di questo pero possiamo essere certi, che le tribù
primitive di Roma risultavano composte da una aggregazione di genti, le quali
si venivano raggruppando intorno al capo di una gente prevalente fra tutte le
altre, da cui desumevano il loro nome complessivo, il quale percio e ricavato
dalla persona che guida la tribù, più che dal luogo, ove questa era stabilita.
Così, per arrestarsi alle due tribù primitive, la cui origine è meglio
accertata, si può essere certi, che la tribù dei “Ramnenses” rica il proprio
nome complessivo da “Romolo” *e* da “Remo”, che sono a capo di essa, secondo la
tradizione. Il che è pure di quella dei “Titienses”, il cui nome deriva da Tito
Tazio, capo della tribù sabina, stabilita sul Quirinale. Nel che è anche a
notarsi, che il nome della tribù viene ad essere composto in guisa diversa da
quello della gens, per guisa che mentre parlasi di una gens “Romilia”, “Titia”
è “Claudia”, le tribù invece vengono ad essere dei Ramnes o Ramnenses, dei
Tities o Titienses, e dei Claudienses. Di qui pud indursi, che la [Non mancano
negli autori delle trattazioni anche relativamente alla tribù; ma di regola
essa suol essere considerata come una ripartizione della città, nè cer casi di
ricostruire la tribù primitiva, che sola può porgere il mezzo di comprendere la
formazione della città. Tutti però concordano in riconoscere, che altre sono le
tribù primitive, fondate sul vincolo genealogico, ed altre quelle posteriori
introdotte da Servio Tallio, desunte invece dalle località, ove erano
stabilite. Cfr. CARLOWA, “Römische Rechtsgeschichte”. Non può certamente essere
accettata l'etimologia di VARRONE, De ling. lat. (Bruns), il quale vorrebbe in
certa guisa far derivare il nome delle tre tribù dalle tre parti dell'agro, che
sarebbe stato fra esse distribuito. “Ager romanus, primum divisus in partes *tres*,
a quo tribus appellatae Titiensium, Ramnium, Lucerum.” Infatti l'opinione di
Varrone in questa parte è contraddetta da Livio, da Servio, da Dionisio, che
fanno invece derivare il nome delle tre tribù non dalle località, ma dal nome
dei loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE confuse in certo modo le
tribù primitive con quelle di Servio Tullio, come lo dimostra il [tribù
comincia a delinearsi, allorchè viene ad avverarsi un'aggregazione di gentes,
le quali, non essendo più strette dal vincolo della comune discendenza, si
raggruppano intorno al capo della stirpe prevalente fra di esse e mentre
conservano in particolare i proprii nomi gentilizii, assumono in comune un
nome, che desumono dal proprio capo. Questa formazione novella viene poi ad
essere determinata ogni qualvolta un'impresa o spedizione qualsiasi può porgere
occasione a questo aggregarsi delle gentes. Di qui la conseguenza che la tribú
- o può assumere un carattere pressochè militare, come accadde della tribù dei
Ramnenses, che sarebbesi formata fra le genti albane in occasione di una
spedizione di carattere militare, o può invece avere il carattere di una
propria comunanza di villaggio, come era di quella dei Titienses già stabilita
sul Quirinale. Tanto nell'uno quanto nell'altro caso la tribu assume immedia
tamente un carattere religioso, ponendosi sotto la protezione del divino domune
patrono – “dius”, “dius-piter” -- perchè
fra le genti non si puo comprendere un'aggregazione qualsiasi senza un vincolo
religioso che la stringa insieme. Qui intanto l'unificazione del gruppo divenne
indispensabile, anche per l'intento che la tribù si propone di conseguire, e
quindi viene ad accentuarsi assai più che nella gente la figura di un capo, che
prende il nome di “praetor” o di dic. fatto, che egli dopo continua con dire. “Ab
hoc agro quatuor quoque partes urbis tribus dictae ab locis, Suburana,
Palatina, Esquilina, Collina, etc.” Del resto non pud neppure ammettersi, che
occorresse una divisione dell'agro fra le TRE TRIBU, dal momento che ciascuna
continua ad avere il proprio terrritorio, salvo che si tratta, non di una
ripartizione di territorio, ma di una divisione meramente amministrativa, come
dovette appunto essere. Secondo Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è
incontrastabile nella parte, che si riferisce alla religione di Roma per i suoi
studii sui pontefici e sull'arte della divinazione, il culto delle tribù de'
Ramnenses sarebbe stato quello di Marte e QUIRINO quello della tribù dei
Titienses sarebbe stato quello di QUIRINO e di Giano. Quello infine della tribù
de' Luceres sarebbe stato quello di Giove, sebbene queste varie divinità
sembrino talvolta confondersi fra di loro, il che accade quanto a Marte e a
Quirino, come pure di Giove e di Giano. Si può aggiungere, che del triplice divino
rimasero ancora le traccie nei tre flaminimaggiori, che sono quelli di Marte,
di QUIRINO e di Giove (Gaius I, 112). Di qui LECLERCQ ricava indizi dei diversi
stadii, che Roma ha a percorrere nella sua formazione progressiva. “Institutions
Romaines”] tator, se la tribù si trova avviata ad una spedizione; di iudex in
tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di una comunanza di villaggio già
ferma in un determinato sito; dimeddix, come accadeva presso gl’osci, ed infine
anche di rex, sebbene questo vocabolo, sembri comparire di preferenza quando
trattisi del capo di una città propriamente detta. Tuttavia questo capo suol
essere nella tribù ancora designato di preferenza dalla nascita, che non
dall'elezione; come lo dimostra il fatto, che i due duci della tribù dei
Ramnenses sono entrambi di stirpe regia e per essere *gemelli* debbono
conoscere mediante gli auspicii quale di essi sia chiamato a fondare la città,
o meglio il primo stabilimento romuleo sul Palatino. Quando invece da capo
della tribù dei Ramnenses, Romolo dove già trasformarsi in reggitore della “civitas”,
formatasi mediante la confederazione di varie tribù, in allora, secondo
Dionisio, e già necessaria l'approvazione dei padri e la creazione del Popolo. Però
accanto al capo si mantiene ancor sempre un consiglio, che può continuarsi a
chiamare dei patres, perchè è effettivamente composto dei capi delle singole
genti, e a cui probabilmente già viene data la denominazione di “senatus”.
Infine, nella tribù già può avverarsi la riunione – “comitium” – degl’uomini,
che colle armi – “iuniores” -- o col consiglio – “seniors” -- possono provvedere
alla comune difesa od al comune in teresse; donde la conseguenza, che già nella
stessa tribù può venirsi iniziando il concetto eminentemente concreto ed
organico del “populus”, salvo che gl’elementi per costituirlo si ricano ancora
direttamente dalle varie genti – “ex generibus hominum” -- cosicchè la sua
classificazione continua ancora sempre ad avere un carattere prettamente
gentilizio. Questa naturale formazione
della tribù dimostra, come la medesima corrisponda fra le genti italiche a ciò
che per l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di “vîc” o comunanza di
villaggio, e fra I greci col vocabolo di dñuos. Essa costituisce in certo modo [Dion.,
HAUSSOULIER, “La vie municipale en Attique”. Devo però far no tare che, secondo
l'autore, il demos dei Greci sarebbe già una vera associazione civile e
politica e corrisponderebbe alla “curia” e più soventi al “pagus”, sebbene a
mio avviso la curia ed il pagus siano due cose compiutamente diverse. La “curia”,
infatti, è una divisione politica di Roma. Il “pagus” e la località, in cui
dimora la tribus. Crederei quindi più esatto che il demos corrisponda a
quest'ultima.] il più largo sviluppo, a cui pervenne l'organizzazione
patriarcale, perchè mentre il suo elemento costitutivo e il modello, a cui si
in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio, da essa pero già si vengono
elaborando quegl’elementi, che, trasportati nella comunanza civile e politica,
finiranno per dare origine ad un rapporto del tutto nuovo, che è quello della “civitas”,
il quale più non dispiegasi nel “pagus” come la “tribù”, ma bensi nell' “urbs”.
Ben si potrebbe osservare contro questo tentativo di “ri-costruzione”
concettuale, che la tribù mal puo essere l'ultimo stadio dell'organizzazione
patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima ripartizione della città;
ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando si consideri, che era dalla
tribus, che si sono ricavati i primi elementi, in base a cui si costituie Roma,
come lo dimostrano anche i vocaboli di “tri-bunus”, “tri-butum”, “tri-bunal”, i
quali tutti richiamano la “tribù”, e quindi era conforme al processo
costantemente seguito nelle formazioni italiche, che l'edifizio novello di Roma
si ripartisse nell'interno sul modello degli elementi primitivi, che con
correvano a costituirlo. D'altronde è noto, che le tribù di Servio Tullio hanno
un carattere di preferenza locale e non già genealogico come le tribù primitive.
Intanto, senza volere per ora trattare a fondo dell'origine della plebe, non
sarà inopportuno indicare, che è certamente colla formazione delle tribù, il
cui nucleo è ancor sempre composto di genti patrizie, che può essersi iniziata
la formazione della plebs, essendo naturale che attorno ad uno stabilimento di
genti patrizie, che già riconoscono un capo, si venne formando una comunanza
plebea, che provede al proprio sostentamento, o coltivando terre concesse dalle
genti o dal capo di esse, o esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il
bisogno di questo nuovo elemento puo essere sentito dalle stesse genti, per
quanto esse coi loro servi e coi loro client sono organizzate in guisa da poter
bastare da sole a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle
Quanto al diverso svolgimento di questi varii elementi in Roma, vedi Carle, “La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale”] come pure: Genesi e
sviluppo delle varie forme di convivenza civile e politica, colle opere ivi
citate. La distinzione è fatta nettamente da Dionisio, il quale chiama la tribù
primitiva “qulai revikai” e quelle di Servio Tullo “qulai totikaí”. - 57
antiche formole, in cui parlasi di populus et plebes, dualismo il quale fa
credere che dovette esservi un tempo, in cui si chiamo populus l'assemblea
politica e militare ricavata dal seno delle genti, secondo il rito e l'ordine
prescritto dalle consuetudini e dalle tradizioni, mentre invece si chiama
plebes dapprima e poscia plebs (da “pleo”, riempire) quella moltitudine
ragunaticcia, che dopo essersi cominciata a formare con clienti rimasti senza
patrono e che come tali venivano ad essere esclusi dal gruppo gentilizio, potè
poi una volta formata accrescersi in guise varie e molteplici. Questo infatti
risulta dalla storia delle istituzioni sociali, che il compito più difficile
nella grande povertà delle idee primitive è la formazione di un nuovo gruppo. Ma
quando esso è formato e corrisponde alle esigenze dei tempi, viene ad essere un
potente richiamo per tutti gl’elementi, che per questo o quel motivo si vengono
staccando dall'organizzazione prima esistente, e che abbandonati a se cercano
un nucleo novello a cui possano aderire. Riassumendo questa lenta e faticosa
ricostruzione dell'organizzazione sociale delle genti Italiche anteriore a Roma,
credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come l'organizzazione stessa
siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale e spontanea formazione,
costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che si vennero sovrapponendo
l'uno all'altro, in modo pero che gli elementi, che formansi in ciascuno di
essi, subiscono delle trasformazioni allorchè passano in quelli che vengono
dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave questione della provenienza
delle genti Italiche, è molto probabile, che esse già recassero con sè
l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non avesse forse assunto
quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi. Furono i conflitti delle
genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo, le lotte fra vincitori e
vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti, che presto dimenticarono
la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi dei varii gradi
dell'organizzazione gentilizia e condussero alla formazione di una potente aristocrazia
territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che attrasse anche i vinti nei
quadri del proprio ordinamento, collocandoli però in una posizione subordinata
a quella dei vincitori. Ne consegui che la famiglia, per rendersi atta a
sostenere i conflitti cogli altri gruppi, si venne concentrando e raggruppando
sotto il potere del proprio capo, il quale sembra quasi perdere l'aureola di
padre per assumere quella di sacerdote, di giudice, di uomo di guerra e di
fondatore di una schiatta destinata a perpetuarsi. Intanto le persone, cheda
lui dipendono, si dividono in liberi o figli e in servi o famuli, due vocaboli
che si contrappongono fra di loro ed indicano due classi di uomini, che
rimarranno distinte per contrassegnare in certo modo la discendenza dei
vincitori e quella dei vinti. Di qui quel carattere eminentemente monarchico
della costituzione della famiglia gentilizia, che tenacemente conservato nella
famiglia quiritaria fini per attribuire alla medesima quella speciale impronta,
che i giureconsulti romani più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari
degl’altri popoli. La gente invece continua sempre a ritenere alquanto
dell'elasticità primitiva, nè giunge ad una concentrazione uguale a quella
della famiglia. Ma intanto, memore del culto del proprio antenato, custode
gelosa delle proprie tradizioni, riunita e resa compatta dai comuni pericoli,
accresciuta dai clienti, si cambia anch'essa in una specie di corporazione
potente, che continua ad essere il perno del l'organizzazione gentilizia, e
mentre da una parte tiene unite le famiglie, dall'altra, aggruppandosi con
altre genti, dà origine alla tribù. Intanto però anche in essa continua quel
dualismo, che già erasi rivelato nella famiglia, salvo che i rapporti fra
quelli, che un di furono i vincitori e quelli che furono i vinti, rimettono al
quanto della propria rigidezza, e vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles
ed i gentilicii, i cui rapporti. prendono un carattere pressochè giuridico nel
patronato e nella clientela. Così pure nella gente, accanto all'elemento
monarchico della famiglia, già viene a svolgersi un elemento, che potrebbe
chiamarsi aristocratico, il quale costituisce un consiglio degl’anziani, che
concentra in sè medesimo le principali funzioni, che appartengono alla gente.
Da ultimo, nella tribu havvi pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto
fra le medesime già distinguesi una gente, che predomina su tutte le altre e
viene così ad essere ritenuta come di stirpe regia. Di qui la conseguenza, che
in essa compare la figura di un capo, che è il principe della gente, che
predomina su tutte le altre, conservasi il consiglio degl’anziani, che già
mutasi in senato, perchè è già composto dei capi di genti diverse, ma intanto
aggiungesi l'elemento democratico o popolare, che componesi di tutti gl’uomini,
che, ricavati dalle varie genti, possono valere come uomini di armi o come
uomini di consiglio. Cio però non toglie, che continui sempre il dualismo, che
già esi steva negli altri gruppi in quanto che accanto al popolo formasi la
plebe, la quale trovasi dapprima al di fuori della comunanza gentilizia e ha
percio più un'esistenza di fatto, che non un'esistenza di diritto. Essa è
dapprima riguardata con disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri
consacrati dalla religione e dal diritto delle genti. Ma cio non toglie, che
passandosi dall'organizzazione gentilizia a Roma essa sia l'unico elemento, che
possa sostenere la lotta coll'antico ordine di cose. Per tal modo si ha nel
periodo gentilizio una vera formazione naturale delle varie condizioni di
persone e dei varii elementi, che entrarono più tardi a costituire la comunanza
civile e politica. Che anzi, mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si
vengono lentamente e gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi
di base a Roma. “Tantae molis erat romanam condere gentem.” Non è già che
questo processo di naturale formazione sia proprio soltanto delle genti italiche,
in quanto che le traccie di essa appariscono evidenti presso tutte le stirpi di
origine aria. Nessuna però giunse a racchiudere i varii stadii di questa
formazione in forme più determinate e precise delle stirpi italiche, e sono
esse parimenti che, gettando nel crogiuolo i materiali tutti elaborati e
conservati nel periodo gentilizio, seppero ricavarne le basi e il fondamento di
Roma. Ciò è stato provato largamente dal SUMNER MAINE, “L'ancien droit.” È poi
interessantissima a questo proposito la comparazione, che fa Revillout fra
l'organizzazione domestica dei romani e quella che vigeva presso gli Egiziani
nella sua opera col titolo, “Cours de droit égiptien” (Paris) della quale può
considerarsi come un compimento, per ciò che si riferisce alle forme di
celebrazione del matrimonio, il lavoro del suo allievo PATURET, “La condition
juridique de la femme dans l'ancien Egipte” (Paris). Fra i problemi, che
presenta la storia delle istituzioni primitive di Roma, uno fra i più difficili
per comune accordo degli autori è certo quello, che si riferisce all'origine di
quella forma di “proprietà”, che suol essere indicata col nome di proprietà
quiritaria, la quale in certo modo venne ad essere il modello, sovra cui si
foggia la proprietà presso la maggior parte dei popoli civili. A questo
proposito le tradizioni a noi pervenute sembrano presentare alcune
contraddizioni a prima giunta inesplicabili. Da una parte infatti, anche dopo
la formazione di Roma, si rinvengono ancora le traccie di una proprietà
collettiva, conosciuta sotto il nome di “ager gentilicius” e di “ager
compascuus”, mentre dall'altra la proprietà quiritaria si presenta fin dai
proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed esclusivo, che sembra perfino
escludere la possibilità dell'esistenza anteriore di una proprietà collettiva.
A cio si aggiunge, che mentre da una parte la storia primitiva di Roma ci
dipinge il patriziato fin dai più antichi tempi in condizioni tali da
concentrare nelle sue mani tutto il capitale – “pecunia” -- allora esistente, e come il proprietario
pressochè esclusivo di una gran parte del territorio, dall'altra la tradizione
parla di una ri-partizione fatta da Romolo del territorio di Roma e di un
assegno da esso fatto di soli due iugeri – “bina iugera” -- ai capi di famiglia, che lo segueno, il quale
assegno avrebbe co stituito il primo patrimonio – “heredium” -- del più antico
patriziato, che era quello della tribù dei Ramnenses. Ecco i principali passi
di filosofi che si riferiscono all'argomento. VARRONE:: “Bina iugera, quod a
Romulo primum divisa viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt”.
PLINIO: “Bina tunciugera populo romano satis erant, nullique maiorem modum
attribuit (Romulus).” Lo stesso Plinio: “M. Curii nota dictio est, perniciosum
intel legi civem, cui septem iugera non essent satis. Haec autem mensura plebi
post ex ictos reges adsignata esto.” (Brons, Fontes). Se ne ricaverebbe
pertanto - Non è quindi meraviglia se le congetture a questo proposito siansi
avviate in direzioni compiutamente diverse. Alcuni ritenneno che la proprietà
privata in Roma sia stata una creazione dello stato. Contro questa opinione si
è osservato che l'idea di una sovranità territoriale e affatto ignota ai romani,
per guisa che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe loro parsa un segno di
soggezione odioso tanto, che fino al principato, Roma e l'Italia ne furono
escluse. In senso contrario, si fa pero notare, che non può ammettersi che la
proprietà in Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione storica, che
sarebbesi avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma avrebbe esordito
con un concetto della proprietà, che presso gli altr’popoli non si rinviene che
quando essi sono pervenuti al termine della loro evoluzione. Ne deriva che, lasciando
in disparte le gradazioni diverse delle opinioni intermedie, le teorie estreme
si potrebbero ridurre essenzialmente alle seguenti. Vi ha l'opinione di
Niebhur, di Mommsen, seguita anche da molti altri, fra cui noto De Ruggero,
secondo cui la proprietà in Roma, come presso gl’altri popoli, sarebbe prima
esistita sotto forma collettiva e non sarebbesi cambiata in proprietà
esclusivamente privata ed individuale, che colla ammessione della plebe alla
cittadinanza e cogli assegni di terre fatti dallo stato ai che ai primi
fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non fu che di due iugeri, mentre
poi più non parlasi di altri assegni fatti anche al patriziato. Per contro gli
assegni posteriori, incominciando da Numa, appariscono fatti ai plebei ed anzi
ai più poveri della plebe. Solo fa eccezione Cicerone, il quale dice che Numa
divide fra i cittadini l'agro pubblico conquistato sotto Romolo – “agros
divisit viritim viribus” (De rep.). Ma in ciò è contraddetto da Dionisio, il
quale parla di una distribuzione da Numa fatta ai più poveri, Quanto
agl'assegni attribuiti ai re, che vennero dopo, sono tutti fatti alla plebe, ed
è dopo le leggi Licinie Sestie, che i medesimi furono portati a sette iugeri.
Ciò è attestato fra gl’altri da Columella, De re rustica. “Post reges exactos
Liciniana illa VII iugera, quae plebi tribunus viritim diviserat, maiores
quaestus antiquis retulere, quam nunc nobis praebent amplissima vetereta.” Ho
citato questi varii testi per provare, che il solo assegno fatto ai primi padri
o capi di famiglia fu quello di II iugeri attribuito a Romolo, mentre gli altri
sono fatti alla plebe; il che dimostra che i padri dovettero continuare ad
avere i loro agri gentilizii. PADELLETTI, Storia del diritto Romano, con
annotazioni di Cogliolo, Firenze, si sforza, e a parer mio, inutilmente, a
dimostrare che il piccolo “heredium” di II iugeri puo bastare ai bisogni della
famiglia, stante la coltura intensiva applicata al medesimo.] singoli cittadini;
e vi ha quella invece, sostenuta con ardore dal nostro Padelletti, secondo cui
sarebbe affatto esclusa questa origine collettiva dalla proprietà, in quanto
che l'istituto della medesima, quale si è svolto fin dai più antichi tempi di
Roma, per usare le sue stesse parole, avrebbe assunto un carattere
spiccatamente privato ed avrebbe segnato il grado più perfetto, a cui sia
pervenuto il regime della proprietà. È poi degno di nota che siccome oggidi la
ricerca intorno all'origine delle proprietà assunse le proporzioni di una
questione economica e sociale, in quanto che ad essa si rannodano teorie
diverse intorno all'ordinamento delle proprietà, così la ricerca delle sue
origini presso un popolo, le cui istituzioni esercitarono tanta influenza sopra
tutti gl’altri, ha assunto eziandio il carattere di un problema economico e
sociale. Sonvi infatti coloro che, come Laveleye ed altri autori più o meno
apertamente favorevoli ad un ordinamento collettivo della proprietà, vogliono
trovare, anche presso [L'autore, che primo approfondì i concetti dell' “ager
publicus” e dell’ “ager privatus”, è certamente Niedhur, “Histoire romaine.”
Niedhur però sembra partire dal preconcetto, che anteriormente a Roma non
esiste proprietà privata, e che questa e costituita mediante gli assegni stati
fatti alla plebe. La sua opinione e seguita da Puchta, “Corso delle Istituzioni”.
Trad. Turchiarulo, da MOMMSEN (“Histoire romaine”). Segue pare questa opinione
De-RUGGERO nei suoi dotti articoli sull’ “ager publicus”, “ager privatus”, e
sulle “lex agrariae”, inserti nell'”Enciclopedia giuridica italiana”, come pure
nel suo precedente lavoro, “La gens in Roma avanti la formazione del comune” (Napoli).
PADELLETTI. La questione dell'origine collettiva della proprietà comincia
dall'essere posta in campo dal Sumner Maine (“L'ancien droit, -- Histoire de la
propriété primitive”). Essa poi fu allargata da Laveleye nel “La propriété et
ses formes primitives”, dove si oc cupa della proprietà presso i romani. Di
recente poi la discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà primitiva
presso i germani, in occasione di una dissertazione letta da FUSTEL DE
COULANGES all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui
sostiene che anche i primitivi germani conosceno la proprietà famigliare e
privata. Alla discussione presero parte GEFFROY, Glasson, Aucoc e Ravaisson, e
ne usce una specie di studio comparativo fra la proprietà e la famiglia romana
e la proprietà e la famiglia dei primitivi germani. Compte rendu de l'Académie
des sciences morales et politiques. L'opinione del Fustel DE COULANGES, quanto
alla proprietà privata già conosciuta dai germani, e stata già sostenuta in
modo anche più esclusivo da Ross, “The early of Land-holding among the Germans”
(Boston)] i Romani, le traccie di una proprietà collettiva, mentre altri,
sostenitori invece della proprietà privata ed individuale, cercano di avere per
sè l'autorità di un grande popolo per giustificare la forma di proprietà che è
loro prediletta. Il vero si è che tanto l'una come l'altra teoria solleva dei
grandi dubbi. Da una parte infatti, quando si riconosca presso i romani solo
una proprietà originariamente collettiva, viene ad essere inesplicabile come un
popolo, che suole procedere così gradatamente nella trasformazione delle
proprie istituzioni giuridiche, abbia potuto senza altro operare una
rivoluzione così radicale nel concetto della proprietà. Dall'altra, se si
sostiene che la proprietà romana e senz'altro una proprietà assoluta ed
esclusiva, non è men vero che il popolo romano sembre rebbe appartarsi da tutta
l'evoluzione della proprietà, quale almeno sarebbe stata formolata da coloro,
che si occuparono delle forme primitive dalla medesima assunte. In questa
condizione di cose non puo negarsi la gravità e la importanza del problema, e
questo è certo che il medesimo non potrà mai essere risolto, finché non si
ricerchino le condizioni della proprietà presso le genti del Lazio, per
mettersi cosi in caso di apprezzare le trasformazioni, che esse ebbero a subire
nel passaggio dal periodo gentilizio alla comunanza civile e politica.
Tuttavia, prima di inoltrarsi nella ricerca, non e inopportuno di premunirsi
contro alcune idee, che, sopratutto in questi ultimi tempi, si vennero
introducendo intorno alla legge di evoluzione storica, che governa la proprietà.
Laveleye cerca di stabilire sopra una grande quantità di fatti una legge
storica, secondo cui la proprietà comincia dall'esistere sotto forma collettiva
e poi sarebbe venuta assumendo un carattere sempre più individuale, lasciando
così sottintendere, che l'unico rimedio di ovviare a questa individualizzazione
soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare l'istituzione ai propri
inizii. L'opera del LAVELEYE è quella già citata col titolo, “La propriété et
ses formes primitives” (Paris), e la legge storica ricordata nel testo è da lui
formolata nello stesso primo capitolo, il che giustifica alquanto la censura
fattagli dal PADELLETTI di essersi sforzato a dimostrare una tesi. Del resto le
idee del LAVELEYE trovano molti seguaci e possono anche essere accettate in
certi confini, con che non si voglia cambiare in una legge storica generale un
fenomeno, che ebbe solo a verificarsi in un periodo dell'umanità stessa, cioè
nel periodo gentilizio. Di più si potrebbe [Senza entrare ora nella discussione
di questa legge, devesi però notare, che ricerche di altri investigatori
imparziali, fra i quali Spencer, hanno
già dimostrato, che una legge di questa natura non puo essere ammessa, in
quanto che presso popoli del tutto primitivi già si trovano le traccie di una
proprietà privata ed individuale. Quindi è che l'unica legge storica, relativa
all'evoluzione della proprietà, che allo stato attuale degli studi possa
formolarsi, e che la proprietà, essendo una istituzione eminentemente sociale, ha
in tutti i tempi ad assumere tante forme, quanti sono gli stadii per corsi
dall'organizzazione sociale. Sopratutto poi la storia delle istituzioni
giuridiche presso i varii popoli dimostra, che le sorti della proprietà si
presentano strettamente connesse con quelle della famiglia, cosa del resto che
può essere facilmente compresa quando si consideri, che il primo bisogno della
famiglia e certamente quello di assicurare il proprio sostentamento. Siccome
pero la famiglia nel periodo, che suole essere chiamato patriarcale, entra essa
stessa a far parte di un organizzazione maggiore, che è l'organizzazione
gentilizia, cosi anche la proprietà finisce per assumere tante con figurazioni
diverse, quanti sono i gradi di questa organizzazione sociale. Ciò può
scorgersi anche presso quei popoli, i quali sono recati come esempio da quelli,
che sostengono che nelle origini e prevalso il regime collettivo della
proprietà, quali e le antiche comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il
cui ter sempre notare a LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia
provato che l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione primitiva, non si puo
neppure sostenere che la forma di proprietà, che trovasi durante
l'organizzazione gentilizia, sia la forma primitiva. Quanto alla letteratura
copiosa sull'argomento, può vedersi il dotto lavoro di VioLLET (“Précis de
l'histoire du droit français”, Paris). L'autore ritiene, che la proprietà
privata e la collettiva possano essere ugualmente antiche, ma che nella origine
ha prevalenza la proprietà collettiva, mentre la proprietà individuale sarebbe
stata ristretta a qualche cosa mobile di uso esclusivamente personale. Questa
proprietà collettiva si e poi venuta frazionando ed avrebbe assunto un
carattere sempre più individuale, in quanto che la proprietà famigliare e
privata ha prevalso su quella più estesa della tribù. L'autore però non spiega,
come ciò abbia potuto accadere, mentre il passaggio può invece essere seguìto
presso i romani. SPENCER, Principes de sociologie, Paris, ove egli parla “de la
fausseté de la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la
propriété individuelle était inconnue aux hommes primitifs.”] ritorio, secondo
consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una
viene ad essere assegnata alle singole fa miglie. L'altra è lasciata a prato ed
a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero
determinato di capi di bestiame; e l'altra infine è considerata come proprietà
della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare
certi diritti i singoli comunisti. Or bene se la legge dell'evoluzione storica
della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini, credo di
poter affermare in base ai fatti, che la storia della proprietà a Roma non solo
non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece, che conserva le
traccie più evidenti di tale evoluzione. Non è dubbio anzitutto, che presso i romani
le sorti della proprietà e quelle della famiglia procedettero strettamente
connesse fra di loro. Basterebbe a dimostrarlo il fatto, che il quirite entra
nella comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia
e di proprietario sopratutto del suolo, e che nel diritto primitivo di Roma i
poteri del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così
strettamente uniti fra di loro, che un solo vocabolo, quello appunto di familia,
comprende le une e le altre. A ciò si aggiunge che è un principio,
costantemente applicato dai romani, quello per cui non può esi stere nè alcuno
stadio di organizzazione sociale, nè alcuna corporazione anche di carattere
sacerdotale senza che le debba essere assegnato un patrimonio, il quale,
indicato col vocabolo generico di “ager”, [LAVELEYE, come pure il SUMNER Maine,
Village Communities. London, Early history of institutions. London, Early law
and custom. London. Questa è la significazione che il vocabolo “familia” riceve
nell'antico diritto, come lo dimostrano le espressioni familia habere, emere,
mancipio dare e simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la
proprietà, come può vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie
significazioni del vocabolo “familia”, coi testi che loro servono di appoggio,
possono vedersi in Roby, Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, Notae
ad Tit. « de usufructu », vº Familiae. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma]
può essere chiamato, secondo i casi, ager privatus, gentilicius, compascuus,
publicus, communis, peregrinus e simili. Ciò prova fino all'evidenza, che il romano
primitivo, allorchè si presenta nella storia, ha già il concetto profondamente
radicato, che non possa quasi esservi la famiglia senza una proprietà, che le
serva di sede e le fornisca i mezzi di sostentamento, e che questo concetto e
da esso applicato a tutte le altre corporazioni, le quali tutte furono
primitivamente modellate sulla famiglia. Non è quindi possibile il sostenere,
che la proprietà privata o meglio famigliare possa, presso i romani,
considerarsi come una creazione dello stato, ma conviene necessariamente
ammettere che e conosciuta già prima, se appena fondato lo stato, il primo atto
che esso compie, secondo la tradizione, è quello di assegnare una proprietà ai
singoli capi di famiglia. È questo il motivo per cui anche qui, per comprendere
l'istituto della proprietà quale comparisce in Roma, conviene cercarne
l'origine presso le genti, fra cui Roma si è formata. Vero è che sono
pochissime le vestigia veramente genuine, che ci riman gano dello stato di
cose, che esiste anteriormente a Roma. Ma tuttavia anche con pochi frammenti
non è impossibile la ricostruzione di questa condizione anteriore, quando si
tenga conto del processo costantemente seguito dai romani, anche nel periodo
storico, che è quello di trasportare nel periodo seguente i concetti e le
istituzioni, che hanno ad elaborarsi nel periodo anteriore. Intanto un primo sussidio può aversi in
questo carattere del l'organizzazione gentilizia, per cui essa, a misura che
giunge a produrre un nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al
precedente, viene ad essere naturalmente condotta a creare una sede esteriore,
in cui il gruppo stesso possa trovare il proprio svolgimento. Come più tardi la
sede esteriore della “civitas” è stata l' “urbs”, così le sedi esteriori dei
varii gruppi gentilizii sembrano, presso le antiche genti italiche, essere
state indicate coi vocaboli certo antichissimi di domus, di vicus e di pagus. De-RUGGERO,
Enciclopedia giuridica italiana, vº Ager publicus-privatus. Ciò può vedersi nel
Pictet, Origines Indo Européennes; Paris, come pure nel BRÉAL, Dict. étym. lat.
ai vocaboli indicati. Non vi è dubbio, che tutti questi vocaboli già esistevano
anteriormente alla [Domus è la sede del capo famiglia coi proprii figli e coi
proprii servi, sede, che può anche avere un cortile ed essere circondata da un
piccolo orto e forse anche da un piccolo ager, che uniti colla casa
costituiscono un tutto, che con un vocabolo non meno antico poteva es sere
chiamato heredium da “herus”, od anche mancipium, perchè di pendeva
direttamente dalla manus del capo di famiglia, intesa come la somma dei poteri
al medesimospettanti, o infine anche familia, perchè comprendeva tanto i liberi
quanto i servi. Non vi ha poi dubbio che è dalla domus, che si staccherà più
tardi il concetto di “dominium” e si capisce anche che di questo dominium, il
quale potrà poi acquistare una larghissima estensione, la parte più sacra, più
preziosa, quella, da cui il capo di famiglia si separa più a malincuore e che
egli vorrebbe perpetuare nella famiglia, continua sempre ad essere riposta in
quel nucleo primitivo, che costitue l'heredium, e che nel diritto quiritario
prese poi il nome di mancipium. La riunione poi delle abitazioni di diverse
famiglie, provviste di un cortile e cinte da uno spazio, a somiglianza diquelle
che Tacito ci descrive presso i germani, viene a costituire il vicus, il quale
di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le abitazioni delle
familiae, che dividono il medesimo culto e appartengono alla medesima gente. Il
vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e si comprendono cosi
le circostanze attestateci da Festo: che i vici si trovavano di preferenza
presso quei popoli, che non avevano ancora delle città, quali erano i Marsi ed
iPeligni; che essi erano stabiliti fra i campi – “in agris” -- ; e che se essi
già avevano un luogo di mercato, non avevano però sempre un luogo, dove si
amministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister vici, a somiglianza
del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel pagus. Cio dimostra,
che se il vicus puo svolgersi formazione della comunanza, e quindi dalla loro
esistenza si può argomentare che dovevano pur conoscersi le istituzioni, che
con essi erano indicate. Quanto alle domus familiaque è da vedersi il numero
stragrande dei passi raccolti da Voigt, “Die XII Tafeln” -- TACITUS, Germania. Festo,
vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ogni altro
vocabolo, la cui significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le
significazioni diverse, che il medesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina
il vicus, finchè trovasi ancora fra i campi – “in agris” -- , ed è a proposito
di questo primo vicus, che egli dice: “sed ex vicis partim habent rempubblicam,
et ius dicitur, partim nihil eorum et -- talvolta in guisa da prendere le
proporzioni ed avere le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede
di una comunanza puramente gentilizia. E poi naturale, che come le singole
famiglie in esso avevano il proprio heredium, cosi anche il vicus, sede della
gente, fosse circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano
anche fare gli assegni ai clienti. Viene ultimo il “pagus”, ove esiste un sito
per il mercato, ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi
giustizia, sito, che probabilmente può già essere chiamato forum, almodo stesso
che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi senza
alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae aguntur,
negotii gerendi causa. Poi trova il vicus nel seno degli oppida, e dice che
comprende « id genus aedificiorum, quae continentia sunt his oppidis, quae
itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque dissimilibus
discriminis causa sunt distributa ». Tuttavia, anche nella città, il “vicus”
indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei vicoli privati, che dànno
accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns, Fontes. L'interporsi di un
elemento estraneo nel seno del vicus e poi naturalmente impedito da quella
antica consuetudine romana, per cui il fratello vende al fratello, il vicino al
vicino, il consorte al consorte. Che poi esistesse veramente una proprietà
spettante al vicus e destinata ad uso comune degl’abitanti di esso lo
dimostrano certe iscrizioni, in cui il vicus quale *persona giuridica* fa
contratti di compra e di vendita, Corpus inscrip. latin.-- Del resto anche il
Digesto ammette il vicus a ricevere donazionie legati. L. 73, 1 Dig. -- È da
vedersi, quanto ai vocaboli con cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle
lingue Indo-Europee, il Pictet, Origines Indo-Européennes. Quanto al concetto
del vicus e delle “vicinitas” presso i germani vedi Ross, Land holding among
the Germans. Boston. Il vocabolo di “forum” è uno di quelli, che ci indica il
processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo, venivano
trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al concetto
ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che “forum” significa il
vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto
al defunto. V. Bruns, Fontes. Poi sappiamo da VARRONE, De lingua latina, che le
genti latine « quo conferrent suas controversias et quae vendere vellent quo
ferrent, forum appellarunt. Infine l'abbre viatore di VERRIO Flacco colla sua
consueta diligenza ci dice che “forum sex modis intellegitur; primo
negotiationis locus; alio, in quo iudicia fieri, cum populo agi, contiones
haberi solent; tertio cum is, qui provinciae praeest, forum agere dicitur, cum
civitates vocat et de controversiis earum cognoscit, ecc.” (Brons). Per tal
modo, il luogo di convegno per i parenti, che piangono un defunto, viene col
tempo a convertirsi nel sito, ove il magistrato romano risolve le controversie
fra le città ed i popoli.] serve ad indicare tutte le cariche della città. Nel “pagus”
per tanto havvi già un accenno alla vita civile, e quindi si può ritenere con
certezza, che esso è già la riunione di più vici e comprende il complesso delle
abitazioni occorrenti per un'intera tribù. Ciò del resto è dimostrato dal fatto,
che le tribù rustiche di Servio Tullio presero il nome di tanti pagi, che prima
esisteno nella stessa località. Così pure, nota Lange, e dimostrato che il
pagus Succusanus e sostituito dalla tribus Suburana, che è una delle quattro
tribù urbane dello stesso Servio, come pure vi sono iscri zioni, che parlano di
un pagus Aventiniensis e di un pagus laniculensis, nei quali nomi è anche degna
di nota la terminazione di essi, che è analoga a quella, con cui si indicano le
popolazioni, che compongono le tribù. È poi anche naturale, che questo pagus ha
pur esso un ager, certamente situato a maggiore distanza, perchè in prossimità
vi sono gli agri gentilicii, e che questo ager chiamisi “compascuus”, e che
comprenda talvolta eziandio, oltre il sito destinato per il pascolo, anche
delle siloae e dei saltus. Intanto da questa configurazione esteriore
dell'organizzazione gentilizia si può inferire che, almodo stesso che questa
venne forman dosi per una naturale sovrapposizione di varii gruppi, così anche
le varie forme di proprietà si vennero assidendo l'una sull'altra. L'ager [LANGE,
Histoire intérieure de Rome, NIEBHUR, Histoire Romaine. Del saltus è da vedersi
la diffinizione di Elio GALLO conservatasi da Festo, pº Saltus. I saltus
potevano essere oggetto di proprietà collettiva del pagus e della città, ed
anche di proprietà privata. È poi degno di nota, che il vocabolo “saltus”,
allorchè già si venivano formando i latifondi per modo che, secondo Plinio, sei
persone possedevano metà dell'Africa (Hist. nat., XVIII, 7), finì per
significare quegli immensi dominii, posseduti da privati e soventi anche dal
principe, sovra cui dimora una popolazione, di carattere pressochè colonico,
che dipende più dall'arbitrio del possessore o del suo procurator, che non
dalle leggi del principato. Riguardo ad uno di questi saltus, situato appunto
nell'Africa e chiamato Saltus BURANITANUS, si scoperse di recente una
importante iscrizione, che contiene una petizione della popolazione del saltus
al principe. Fondandosi su di essa ESMEIN, sostiene che in questi saltus comincia
a formarsi l'istituzione del colonato. — Mélanges d'histoire du droit et de
critique. Paris, V. pure FUSTEL DE COULANGES, Le colonat romain. Paris] si
viene, per dir così, atteggiando in tante guise, quanti sono i gruppi che si
vengono sovrapponendo. Presentasi anzitutto la casa (domus od anche tugurium,
se nel contado) colla sua corte, coll'orto e col campicello attiguo, che
appartiene alla famiglia nella persona del suo capo, e ne costituisce
l'heredium, la familia, il mancipium. Ma siccome ogni capo di famiglia, oltre
questa parte sostanziale del suo patrimonio, può anche avere un capitale
circolante, composto di greggi e di armenti e di altre cose mobili, così è
naturale, che accanto al concetto dell'heredium si formi quello del peculium,
accanto a quello della familia quello della pecunia e accanto a quello del
mancipium quello del nec mancipium; distinzione, che tornerà poi in acconcio
per spiegare a suo tempo la famosa divisione del diritto quiritario fra le
resmancipii e le res nec mancipii. Che veramente questa forma di proprietà già
preesiste alla comunanza romana viene ad essere provato da cio, che fin dal
primo formarsi di questa occorrono i concetti di herus, di heredium, di heres,
il qual ultimo vocabolo ha pur la stessa origine di “herus” e scrivesi talvolta
anche semplicemente “eres”, per guisa che anche questo vocabolo significa, se
non il proprietario, al meno il comproprietario, come lo prova la testimonianza
di Festo, secondo la quale « heres apud antiquos pro domino ponebatur ». Non vi
ha poi dubbio, che con questi vocaboli ha eziandio strettissima attinenza il
vocabolo di herctum o erctum, che significa ripartizione da erciscere, donde
proviene la denominazione certamente antica dell'actio familiae erciscundae.
Tuttavia, comegià si accenna, è un costume antichissimo quello indicatoci dall'«
ercto non cito » di Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a mio
avviso, quella di non venire ad una pronta divisione e che indica il più antico
dei con [Trovo confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium dal
dottissimo lavoro, di recente pubblicato da Voigt, così benemerito degli studii
sull'antica Roma, col titolo, “Die römischen Privataltertümer und römische
Kulturgeschichte”, estratto dall' Handbuch der klassischen
Altertumswissenschaft, pubblicato dal Beck in Nördlingen. Quivi Voigt ritiene
che l'heredium comprenda l'hortus, l'ager, la cohors o chors, il pomatum, più
tardi detto anche “pomerium”, e di più la casa, detta anche tugurium, che
comprende il granarium, il foenilium, il palearium ecc. Ivi poi si trova citata
tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche l’italiana, così spesso
trascurata. Anche Voigt sembra accostarsi alla significazione qui attribuita al
dualismo di familia pecuniaque, senza però accennare alla correlazione, che
sembra esistere eziandio fra heredium e peculium, mancipium e nec mancipium,
sorzii e delle società, che è quella fra i fratelli e gli agnati, che lascia
vano indivisa l'eredità ed il patrimonio. Intanto la conseguenza viene ad
essere questa, che i vocaboli di mancipium e di manceps, quelli di familia e di
pater familias rimontano tutti al periodo gentilizio, e segnano, insieme con
herus ed heredium, l'atteggiamento diverso sotto cui poteva essere considerata
la figura molteplice del capo di famiglia. Di questi vocaboli però quello che
significa meglio il potere giuridico del capo di famiglia era quello certamente
di man ceps e di mancipium, ed è questa forse la causa, per cui il vocabolo,
che prevarrà più tardi nel diritto quiritario e quello di “mancipium”, al quale
solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex iure Quiritium. Non vi è poi
dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si sovrapponesse l'ager
gentilicius, che era quello spazio, non compreso negli heredia, che trovavasi
nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi come proprietà
collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius, che potevansi
fare degli assegni ai clienti, i quali però non hanno una proprietà, ma
ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di semplice precario. Dell'esistenza
di questo ager gentilicius e del modo di ripartirlo noi troviamo ancora un
esempio durante il periodo storico, in occasione della venuta a Roma di Atto
Clauso, e della sua gente. Questi viene di Regillo per porre la propria dimora
nel territorio stesso di Roma, senza che vi siano elementi nè per affermare nè
per negare, che egli con ciò avesse rinunziato all'agro gentilizio, che dove
certamente essere posseduto colà da una gente che, come la Claudia all'epoca. Questa
induzione, a cui già ebbi occasione di accennare, parlando della familia omnium
agnatorum, trova una conferma nel diligente lavoro di POISNEL, “Les sociétés
universelles chez les Romains,” specialmente in quella parte ove si occupa del
primitivo consortium, accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra
fratelli ed agnati, stante l'indivisione del patrimonio. “Nouvelle revue
historique de droit français et étranger”. È anche degna di nota l'attinenza
fra i vocaboli di consortium e di consors con quello di “sors”, che dapprima
indicava la quota di eredità spettante a ciascuno. V. BRÉAL, Dict. étym. lat.,
vu Sors. Ciò è anche confermato dall'espressione di familia inercta nel
significato di indivisa, ricordata da Paolo Diacono [Cfr. in proposito i passi
citati da Voigt, Die XII Tafeln. Festo, v° Patres. Tale è pure l'opinione di Esmein,
“Les baux de cinq ans en droit romain” – “Mélanges d'histoire de droit”, Paris.]
della sua venuta a Roma, ha, secondo la tradizione, compresi ben MMMMM clienti.
Questo è certo, che dal momento che egli abbandona la sua sede originaria e
veniva accolto nel patriziato romano, mediante la cooptatio, gli fu dato un
tale spazio di terreno oltre l'Aniene, che egli potè assegnare II iugeri in
godimento a tutti i suoi clienti, oltre al che gli sarebbero ancora rimasti XXV
iu geri per sè e la sua gente. Questo assegno di territorio, mediante il quale e
la gente Claudia, che diede il nome a quella tribù rustica, non impede, secondo
Dionisio, che e eziandio assegnato ad Atto Clauso un sito nel circuito stesso
di Roma, ove puo abitare egli e la sua famiglia. È facile il vedere, che qui
occorrono i concetti tanto dell'heredium, quanto dell’ager gentilicius, e si ha
pur anche la prova, che nell'organizzazione gentilizia e alla stessa gens od al
consiglio di essa, che si appartene di fare il riparto fra le singole famiglie
ed anche gli assegni ai clienti. Di qui deriva la conseguenza, che, fra le
varie forme della proprietà nel periodo gentilizio, quella che predomina sopra
tutte le altre è la proprietà della gente, ossia l'ager gentilicius; perchè al modo
stesso che è nella gens, che si formano le famiglie, cosi è pure dall'ager
gentilicius, che si ricano gli heredia. Cosi pure è anche probabile che, in
mancanza di eredi suoi, i quali possono in certo modo essere considerati quali
comproprietarii dell'heredium, e in difetto eziandio di agnati prossimi, che
mantengano ancora indiviso l'asse paterno, questi heredia tornano all’ager gentilicius,
cioè alla sorgente stessa, da cui essi furono staccati. Da ultimo sonvi
eziandio molti indizii dell'esistenza di una proprietà, che considerasi come
spettante alla intiera tribù, e che prende il nome di ager compascuus, di
compascua, di pascua, presso le genti del Lazio piuttosto dedite alla
pastorizia, e di communia o communalia nell'Etruria. Puo darsianzi, che un ager
compascuus puo esservi già nello stesso vicus, come lo dimostrerebbe la
deffinizione di Festo – “compascuus ager relictus ad pascendum com muniter
vicinis.” Ma in ogni caso non vi ha dubbio, che questo compascuus ager certo
esiste nel pagus e già dava origine ad una [Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. L'esistenza
di questi compascua è dimostrata da diversi passi, sopratutto di agrimensori.
Basti il seguente di FRONTINO – “Est et pascuorum proprietas, pertinens ad
fundos, sed in commune, propter quod ea compascua communia appellantur, qui
busdam provinciis pro indiviso.” Bruns, Fontes] specie di pubblico reddito
(vectigal), consistente nel contributo, che doveno dare gl’abitanti, che ivi
pascolavano i proprii greggi ed armenti, contributo, che all'epoca romana viene
poi ad essere indicato col nome di scriptura. Una prova dell'esistenza di
questi pascua e di ciò, che essi costituirono forse le prime sorgenti di
reddito pubblico, può ricavarsi da un testo prezioso di Plinio, il quale, dopo
aver detto che pecunia a pecude appellatur, cosa del resto che è attestata da
tutti gli antiquarii, aggiunge questo particolare importantissimo – “etiam nunc
in tabulis censoriis PASCUA dicuntur omnia, ex quibus populus reditus habet,
quia diu hoc solum vectigal fuerat” -- il che vuol dire in sostanza, che i romani,
in questa parte conservatori come in tutto il resto, finirono per indicare col
vocabolo primitivo dei “Pascua”, che costituivano la proprietà collettiva della
tribù, tutta quella parte della proprietà collettiva del populus, ossia
dell’ager publicus, da cui il popolo stesso ricava qualche reddito. Del resto
l'esistenza di questo ager compascuus e anche accennata in quel tradizionale
riparto, che Romolo fa fra i Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina,
poiché delle tre parti una sarebbe stata assegnata al Re ed al culto; l'altra
alle singole famiglie e avrebbe costituito gli heredia; e la terza sarebbe
stata appunto l'ager compascuus, che e anche la prima forma di ager publicus,
in cui le genti patrizie, probabilmente dedite ancora in parte alla pastorizia,
potevano far pascolare i proprii greggi ed armenti. Credo che le cose premesse
dimostrino abbastanza che, anche anteriormente alla formazione di Roma, la
proprietà già esi stesse in tante gradazioni, quanti erano i gruppi, che
entravano nella stessa organizzazione gentilizia, per modo che vi era una
proprietà privata o meglio famigliare, una proprietà gentilizia, e una
proprietà spettante alla comunanza della tribù. Di queste varie forme di
proprietà, quella che predomina era la proprietà gentilizia, perchè da essa usceno
e ad essa ritornano gli heredia, come poi erano anche i capi di famiglia delle
varie genti, che hanno il godimento dei compascua; nel che può forse trovarsi
l'origine pro [NIEBHUR, “Histoire romaine”, Voigt, “Die römis. Privataltert.”, LANGE,
“Histoire intér. de Rome” --- Plinio -- Dion. NIEBHUR, Hist. rom. - babile di
quel fatto importantissimo nella storia di Roma, per cui le genti patrizie
riputarono per qualche tempo di avere da sole il diritto di occupare l'ager
publicus, il quale a Roma non è che una trasformazione ed un ampliamento per
mezzo della conquista del primitivo ager compascuus. Queste varie forme di
proprietà nel periodo gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si
vengono temperando e limitando scambievolmente per guisa, che il potere
giuridicamente illimitato del capo di famiglia sul proprio heredium nel costume
gentilizio viene ad essere trattenuto da una quantità di temperamenti, che ne
impediscono qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia. Quindi anche quel
potere, che più tardi e affidato al “praetor” di interdire nel iudicium de
moribus quel padre di famiglia che disperdesse i bona paterna avitaque, dove
certamente rimontare alle consuetudini gentilizie e che probabilmente
appartenne al consiglio degl’anziani della gens di frenare queste dispersioni e
prodigalità del capo di famiglia con un iudicium, che e de moribus e con una
formola, che certo dovette essere analoga a quella adoperata dal praetor. oLe
cose premesse intanto ci mettono anche in condizione di poter risolvere in
poche parole alcune questioni grandemente agitate fra gli interpreti del
diritto romano primitivo. La prima di esse sta in vedere se gl’antichi heredia,
ossia quei bina iugera, che Romolo distribusce ai capi di famiglia e di cui
Varrone dice che erano così chiamati in quanto che heredem sequerentur, doveno
o non ritenersi inalienabili, e se i figli doveno considerarsi come com
proprietarii del patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della
trasformazione, che subi l'heredium ossia la proprietà famigliare e [Questa
esclusione dei plebei dall'agro pubblico è attestato da un testo di Nonio
MARCELLO, riportato dagli Annali di qualche autore più antico – “Quicumque
propter plebitatem agro pubblico eiecti sunt.” Bruns, Fontes, -- il che è pur
confermato da un passo di Sallustio. “Regibus exactos servili imperio patres
plebem exercere, agro pellere.” Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., accenna per
nota, che anche in Grecia vi era un' eguale sollecitudine per i beni aviti.] privata
colla formazione di Roma – ANNO I -- , noi possiamo perd affermare con certezza
che questo concetto dell'heredium esiste già anteriormente ed erasi
naturalmente formato durante il periodo gentilizio. O che l'heredium doveva
potersi alienare dal capo di famiglia, perchè, se questa alienazione non e
stata possibile, non si comprenderebbe il concetto e l'esistenza di un
commercium, come pure non si comprende l'esistenza certo antichissima di un
iudicium de moribus, di- a retto appunto ad impedire l'imprudente e prodiga
dispersione di questo patrimonio, che nel suo concetto informatore era
destinato ad essere trasmesso dai genitori nei figli e da questi ai nipoti. O che
tuttavia questa alienazione, durante il periodo gentilizio, dovette essere
gover nata da solenni formalità e dovette forse anche compiersi colla
approvazione o quanto meno colla testimonianza dei notabili del villaggio. O che
infine nella primitiva organizzazione gentilizia i figli si riputano
comproprietarii sopratutto di quella parte del patrimonio paterno che costituie
l'heredium, il che e in certo modo indicato dal vocabolo “heres”, che in antico
avrebbe significato comproprietario, e che posteriormente continua a
significare la medesima cosa mediante l'espressione più completa di “heredes
sui”. Insomma nel concetto primitivo il padre è come custode e detentore del
patrimonio famigliare nell'interesse suo e della sua prole. È questo
probabilmente il motivo, per cui non dove nei primi tempi di Roma avere nulla
di ripugnante al modo dipensare e diagire del tempo quel concetto giuridico del
diritto quiritario primitivo, che ora a noi appare cosi ostico e pressochè
inesplicabile, per cui tutto ciò che appartiene od è acquistato dalla moglie,
dai figli, dai servi, finisce per essere considerato come di spettanza del padre
e tutto ciò, che essi stipulano od acquistano, deve in certo modo ritenersi
fatto per conto e nell'interesse del capo di famiglia. Questo concetto infatti,
mentre indica l'unificazione potente della famiglia romana sotto l'aspetto
giuridico, prova eziandio la comunione ed intimità di vita, che dove esistere
nel costume della medesima; comunione ed intimità di cui il diritto non si
occupa, perchè non dove occuparsene, ma che sono largamente attestate da tutti
gli scrittori, che richia -- Ciò è anche confermato dalla nota proposizione di
Gaio, II, 157: « Qui quidem heredes sui ideo appellantur, quia domestici
heredes sunt et vivo quoque parente quo dammodo domini existimantur ».] mano la
memoria della primitiva famiglia, governata dal “mos pa trius, ac disciplina”. Ad
ogni modo la conseguenza ultima della nostra ricerca è questa, che, se gli
heredia erano alienabili allorchè l'individuo era ancora legato nei vincoli
strettissimi dell'organizzazione gentilizia, per maggior ragione dovettero
esser tali, quando egli venne ad essere libero cittadino di una libera Roma.
Intanto se si ammette che nell'organizzazione della proprietà nel periodo
gentilizio la forma prevalente è quella della proprietà gentilizia, in quanto
che essa da una parte origina la proprietà privata e famigliare e dall'altra si
estende al godimento della proprietà collettiva della tribù, è facile il
dedurne la conseguenza, che il sistema di successione, allora introdotto dal
costume e che fini col tempo per cambiarsi in successione legittima, dovette
proporsi essenzialmente per iscopo di mantenere e perpetuare la proprietà nella
gente con impedire che la medesima potesse passare ad estranei. Si comprende
pertanto, che in base al costume gentilizio la proprietà va ai figli, che ne
sono comproprietarii, ed anche agli agnati prossimi, finchè essi mantengono
indiviso il patrimonio paterno, ma appena questi manchino, dovranno succedere i
gentiles e questi non individualmente, come alcuni credono, ma collettivamente
in quanto cioè formano la comunanza gentilizia. Il motivo è questo, che se la
legge di Roma puo favorire il riparto immediato fra gli eredi, il costume
invece di una comunanza gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto
non cito, come diceno i Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei
patrimonii; perchè essa mira, non a favorire lo svolgimento dell'individualità
del capo di famiglia, ma a rendere compatto per quanto è possibile il gruppo,
in cui gli individui vengono ad essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo
incontrastabile, che la successione, quale compare nei primitivi tempi di Roma
e quale esiste anteriormente, non ammette nè distinzioni di primogenitura, nè
distinzioni di sesso, quanto alle persone che erano chiamate a succedere. Ma si
può anche [Cic., Cato maior, 11, 37, parlando di Appio Claudio il cieco scrive:
« Quatuor robustos filios, quinque filias, tantam domum, tantas clientelas
Appius regebat et caecus et senex... Tenebat non modo auctoritatem, sed etiam
imperium in suos; metuebant servi, verebantur liberi, carum omnes habebant;
vigebat in illa domo mos patrius ac disciplina.]- essere certi, che il costume
dovette certamente dirigersi costantemente, se non a favorire il primogenito,
almeno ad impedire, che si venisse alla divisione del patrimonio, ed anche ad
evitare, che le femmine colla libera disposizione della parte di sostanza, che
loro apparteneva, potessero compromettere gli interessi della gente. Ciò
infatti viene ad essere comprovato dalla tutela perpetua, a cui le donne erano
soggette per parte degli agnati -- tutela che aveva sopratutto lo scopo di
sottrarre alle femmine la libera disposizione delle proprie cose, e che col
tempo divenne per modo odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti, trovano
modo di sottrarvisi mediante quell'espediente giuridico, di carattere
eminentemente romano, che è la “coemptio fiduciaria.” Quanto alle istituzioni
dell'adrogatio e del testamentum, non può esservi dubbio, che esse doveno
certamente esistere nel costume antico dei maggiori, anche anteriormente alla
formazione di Roma, in quanto che esse sono istituzioni, che compariscono
compiutamente formate, come appare da ciò che le XII tavole, nei frammenti a
noi pervenuti, non parlano dell'adrogatio e quanto al testamento non fanno che
confermare una istituzione preesistente. Di più e ben naturale, che il concetto
dell'una e dell'altro doveno presentarsi naturalmente a capi di famiglia, che
da una parte erano tutti in tesi al culto dell'antenato e dall'altra sono fissi
nel pensiero di perpetuarsi in una posterità, che continuasse il proprio culto
gentilizio. Istituzioni quindi, come l'adrogatio e come il testamento, sono
acconcie e indispensabili ad una organizzazione come la gentilizia, ma intanto
cosi l'una che l'altra non possono nella medesima servire come mezzo per
soddisfare ad un affetto o ad una predilezione capricciosa, ma dovevano avere
l'unico scopo di provvedere alla perpetuazione della famiglia e del suo culto. Questa
coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una persona
che non divenne marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomettere da
lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio. E
questa coemptio, che fa dire a CICERONE, pro Murena, che i tutori, anzichè
essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per liberarle da
ogni tutela. Cfr. MUIRHEAD. Puo sembrare poco logico, che io qui discorra,
trattando della proprietà, anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti
coll'organizzazione della famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto
anche l'ad rogatio mira a fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede,
che ne perpetui [Questo carattere è incontrastabile per ciò, che si riferisce
al l'antica adrogatio, la quale e una istituzione gentilizia ed aveva in certo
modo per intento di perpetuare una famiglia ed un culto, che sarebbero andati
perduti per difetto di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia
l'elemento che in questa sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di
stato e quindi, se si debba giudicare dalle formalità, che sono poscia seguite
dal patriziato nella comunanza romana (dove per compiere un'adrogatio volevasi,
comeper una legge, l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo
radunato in curie) conviene certamente inferirne, che solennità non minori
dovettero ri chiedersi nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto
di una famiglia sul ceppo sterile di un'altra si opera fra le famiglie della
stessa gente, puo forse bastare l'approvazione del consiglio della gente, ma se
seguiva invece fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa
tribù, dove certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. La cosa invece
potrebbe lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento,
ma se si considera, che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis
calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del
tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne,che lo
spirito informatore del testamento in questo periodo gentilizio dove essere del
tutto analogo a quello, che ispira l'adrogatio. Il testamento per sua natura è
tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la propria morte,
l'impero di una volontà arbitraria, così può anche es sere il mezzo per
impedire, che si avveri fra gli eredi quella ripartizione e quell'uguaglianza
di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è
certo, che la successione invalsa nel periodo gentilizio, secondo cui
succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la gente
collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il patrimonio
nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di vista
gentilizio. L'uno di essi consiste nel diritto, che i figli hanno di venire ad
una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali, divisione che
face i sacra, e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di più in questo
periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente connesse fra di
loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto le istituzioni
che le riguardano.] vasi per stirpi e non per capi, e l'altro era quello
dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che fa si, che ana femmina, passando
a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del patrimonio uguale a quella
di un maschio. Queste conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano
sembrare tali a capi di famiglia, che mirano sopratutto a conservare integro il
patrimonio e a perpetuarlo come tale nella famiglia. Si può quindi essere
certi, che i capi di famiglia, che si ispirano a questo concetto e che nel fare
testamento dovevano anche avere l'approvazione degl’anziani, che pure avevano
la stessa tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la
loro sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o
per impedire la pronta ripartizione del patrimonio, usando le antiche parole «
ercto non cito » – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in
uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine,
come quella, che dove essere riguardata come una sottrazione fatta al
patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea maschile. Mone della
famiglia e del suo culto. Si può quindi conchiudere, che per lo genti patrizie
il testamento non dovette certamente essere un mezzo per disporre liberamente e
a capriccio delle proprie cose, come fu poi il testamento nel di ritto
quiritario; ma dovette servire alle medesime per conseguire quello scopo, che
anche oggi si propongono bene spesso i capi delle famiglie, anche non patrizie
ma solo ricche ed agiate, allorchè, dettando il loro testamento, cercano
d'accentrare la loro fortuna in una od in poche persone, nell'intento di
assicurare ciò che con linguaggio antico e moderno suole essere chiamato il
decoro e la dignità della famiglia. Pervenuto a questo punto, parmi di aver
dimostrato in un modo, che avendo convinto me potrà forse anche persuadere gli
altri, che le genti patrizie, anche anteriormente alla formazione di Roma, già
conoscevano una proprietà privata, attribuita al capo di famiglia. Ciò pero non
toglie, che quest'ultimo fosse ben lontano dall'avere quella libera
disposizione delle proprie cose per atto tra vivi e per testamento, che trovasi
invece riconosciuta senza alcun confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo
spirito dell'organizzazione gentilizia si informava tutto all'intendimento di
serbare integro il patrimonio alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap
prima e in mancanza di essa alla gente. Come dunque potrà essersi operata
presso un popolo, di spirito così eminentemente conservatore, una
trasformazione cosi radicale nel carattere della proprietà da cambiare la
medesima di proprietà gentilizia in quiritaria, allorchè esso passò dal periodo
gentilizio alla convivenza civile e politica? Ecco il gravissimo problema, al
quale non credo che siasi data ancora una soddisfacente risposta, a causa del
l'idea universalmente accolta sull'autorità di Niebhur e di Mommsen, che lo stato
romano siasi formato mediante la fusione e l'incorporazione di varie genti e
tribù. Secondo questi autori infatti, lo stato costituendosi avrebbe in certo
modo incorporato in sè la proprietà gentilizia, cambiandola cosi in territorio
nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore
dei singoli capi di famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli
autori, che trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a
citare De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione
universalmente seguita. Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione
dello stato esiste soltanto la proprietà collettiva o gentilizia, la quale
appartene alla gens e non alle singole famiglie, viene alla conclusione
seguente. Fondatosi quindi il comune e lo stato con la unione di più genti,
esso sarebbe divenuto, come la gente stessa nel periodo della sua autonomia, proprietario
del territorio generale di tutte le genti romane, cioè, del territorio
nazionale. E come la gens lascia alle sue singole famiglie la coltivazione e
l'uso di alcuni terreni (fundi), rimanendo gli altri proprietà comune. Cosi
anche lo stato lascia ai privati una parte del territorio come proprietà
(adsignatio romulea) e ritiene per sè un'altra parte destinata a tutta la
cittadinanza (ager publicus). Di fronte ad una teoria così recisa, conforme del
resto alla opinione generalmente seguita, mi sia lecito osservare, che
anzitutto non è provato, che prima della formazione dello stato non vi fosse
che la proprietà gentilizia, e che la gente non lascia alle famiglie, che la
coltivazione e l'uso di alcuni terreni. I vocaboli certamente preesistenti di
herus, heres, heredium, che senza alcun dubbio si applicano al capo di
famiglia, provano invece che il concetto di una proprietà privata già preesiste
fra [DE- RUGGERO, V° Ager publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica
italiana. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute in “La
gens avanti la formazione del comune romano” (Napoli), e che stanno pure a base
del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae leges nella stessa
Enciclopedia giuridica italiana.] le genti del Lazio; poichè se così non fosse
stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed acconcia per indicare
gli assegni fatti ai capi di famiglia, e gli assegni si sarebbero fatti alle
genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia, o meglio a ciascun
individuo, che segue Romolo nella sua intrapresa. Viha di più, ed è che,
tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea del “mio” e del “tuo”
– il “nostro” -- presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata, non può
essere probabile che le gentes e le tribù, che potevano essere ed erano in
effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono
ancora ad esserlo dopo, si siano contentate dimettere tutto in comune, malgrado
la loro origine diversa, per starsi paghe “ai bina iugera”, assegnati da
Romolo. Si aggiunge, che se tutta la fortuna del patriziato primitivo Ramnense
si riducesse soltanto ai II iugeri, non si saprebbe veramente comprendere come
la medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi clienti. Del resto
non consta, che siavi veramente alcun autore antico, che accenni a questa
specie di societas omnium bonorum, per cui si sarebbero messi in comune tutti
gl’agri gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo, in base ad un costume tradizionale
fra le genti latine, che dove già esistere prima e che e applicato anche più
tardi in occasione dell'impianto di colonie, divide Roma in parte fra i proprii
seguaci, mentre un'altra parte ritenne per sè e per il culto, ed un'altra
riservò a titolo di pascolo comune. Intanto pero le varie genti, che
parteciparono alla fondazione di Roma, dovettero continuare a tenere i proprii
agri gentilicii, come lo dimostra il fatto, che anche all'epoca di Servio
Tullio le varie tribù rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti
patrizie, che dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime.
Vi ha di più, ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il
regno stesso di Romolo, a favore del popolo romano, coi quali questo avrebbe
ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo marzio, che
avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni
queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella
propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii
gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati. Inoltre se Romolo,
come dicesi, avesse imitato [I testamenti, a cui qui si accenna, sono quelli
ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4, 6, e che egli attribuisce
l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino il sistema gentilizio, i capi di
famiglia avrebbero dovuto soltanto avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro
assegnati, mentre la proprietà avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre
noi sappiamo, che non vi fu mai proprietà più assoluta, che la proprietà
quiritaria fin dai proprii inizii. Del resto convien dire, che l'opinione, di
cui si tratta, è per sè una conseguenza logica ed inesorabile del ritenere con
Mommsen, che Roma risulta dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e
tribù; poichè è naturale che con un tale sistema lo stato avrebbe dovuto
incorporare ogni cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi
di famiglia. Solo sarebbe a spiegarsi come lo stato, creando esso la proprietà
famigliare e privata, l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata, senza
confini e senza alcuna sua ingerenza, quale appare essere stata la proprietà
quiritaria. Tutte queste incoerenze invece scompariscono quando si ritenga che
il comune romano non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma
intese solo a costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non
distribui quindi ai privati altre terre. Quanto alla divisione dell'agro fra le
tre tribù, a cui accenna Varrone, la medesima non potè essere che una divisione
puramente amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del
territorio, che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della
stessa comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria, ed anche
la famiglia, con cui essa appare strettamente congiunta, non possono essere che
quella proprietà e quella famiglia, che già esistevano nell'anteriore
organizzazione gentilizia, salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione
stessa, apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato
dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo stato certi campi siti presso
Roma, e da lei ereditati dal proprio marito; e l'altro alla vestale Gaia
Taracia, che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il
Tevere, che presero poscia il nome di campo marzio, dove si radunarono più
tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii. Ma
essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini
romani non hanno mai creduto che lo stato fosse il proprietario di tutto il
territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager
publicus privatus, nell'Enc. giur. it. Devo però dichiarare che questa
divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandissima per l'autore,
così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano.] biente in cui si
erano formate. La causa poi, per cui gli assegni di terre furono fatti ai
singoli capi di famiglia, o meglio ai singoli seguaci di Romolo proviene da ciò
che essi entrarono nella comunanza non come membri delle genti ma nella loro
qualità di capi di famiglia, donde la conseguenza, che di fronte alla nuova
formazione della convivenza civile e politica, mediante una federazione fra le
varie tribù, più non si trovarono di fronte che la proprietà del capo di
famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente collettivo (ager publicus).
Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto gli agri gentilizii, i
quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a misura che si dissolve
l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire il populus primitivo
non entrano già i membri delle genti, come tali, ma soltanto i capi di famiglia
in quanto sono ad un tempo proprietarii di terre; il qual carattere del populus
viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla costituzione Serviana, in base a
cui ognuno partecipa ai diritti ed agli obblighi di cittadino (munera), in
proporzione del censo. Questo e non altro e il processo seguito nella
formazione di Roma, e per conseguenza anche nella formazione della famiglia e
della proprietà, quali comparvero nel diritto quiritario. Per ora intanto,
prendendo le mosse dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero
svolgendo fin qui, cercherò di riassumere logicamente e sotto forma di ipotesi
quello svolgimento del l'istituto della proprietà, che più tardi appare
comprovato nell'ordine dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed
avventurosi, appartenenti a genti diverse ma tutte di stirpe latina – “nomen
latinum” -- si raccolgano intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua
guida abbandonino la loro residenza gentilizia, per recarsi a fondare uno
stabilimento fortificato sul Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il
rito religioso seguito nella fondazione, cominciano dall'occupare il suolo
necessario per erigervi il loro stabilimento, e cercano anche di fortificarsi
in esso, per essere in caso di difendersi dalle popolazioni vicine, le quali,
per appartenere forse a stirpi diverse, non possono vedere di buon occhio
quest'ospite novello e pericoloso. Quanto al suolo conquistato ed occupato, è
naturale che si cominci dal ripartirlo, secondo le regole tradizionali seguite
dai maggiori. Del suolo quindi sono fatte tre parti. Una è assegnata al loro
capo, al culto, ai publici edifizi. L’altra è divisa fra i singoli capi di
famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali potranno essere
ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia
continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo
abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case, con un cortile ed un
orto. La terza, infine, è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di
famiglia, che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un
corrispettivo (scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico. Fin qui
però noi non abbiamo ancora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento
romuleo da essa fondato sul Palatino. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità
seguite con altre comunanze stanziate sui colli vicini, gl’uomini atti alle
armi e abili per consiglio di queste varie tribù, rappresentati dal proprio
capo, con vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi
di famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza
civile e politica. È naturale allora, che il centro e la [Cfr. De RUGGERO, V °
Ager pub. priv., -- ove considera appunto questo riparto attribuito a Romolo
come una istituzione fondamentale romana che, conservatasi nei tempi
posteriori, puo naturalmente essere attribuita, nella ricostruzione che si fa
posteriormente della storia e del diritto primitivo di Roma, anche al fondatore
e al legislatore di questo. Ciò lascia credere che l'autore vegga in questo
riparto, che pur è attestato da tanti autori e che d'altronde non ha nulla
d'improbabile, in quanto che lascia anche le sue traccie nella centuria in
agris e nel centuriatus ager, ricordati da Festo e da VARRONE. Non mipare che
siavi motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione
di Roma, come è accaduta. Che poi il centuriatus ager e la centuria in agris
non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto l'ager romanus
conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte di esso, che era
conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione datane da VARRONE e
da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo stesso DE RUGGERO,
vº Ager pub. priv. – “Antiqui agrum ex hoste captum victori populo per bina
iugera partiti sunt. Centenis hominibus ducentena iugera dederunt.” Cfr.
NIEBHUR, Histoire romaine] fortezza dell'urbs si trasportino in un sito, a cui
possano avere facile accesso gl’abitanti delle varie comunanze, quale e il
sito, che è fra il Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la
comune fortezza e servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È
pero a notarsi, che per eseguire un simile accordo, siccomei capidi famiglia
entrano come tali nella comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù,
così non e punto il caso, che si mettano in comune gli agri gentilizii e i
pascoli delle varie tribù. Quindi se le genti e le tribù sono prima ricche ed
agiate e possedevano larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii
servi e clienti, continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò
che viene ad essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa
comprende i pubblici edifizii, i templi consacrati al divino, che la protegge,
non che l'arx o fortezza, che serve per assicurare la comune difesa. Intanto,
di fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita
civile, politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di
terre e quindi le sole istituzioni, che abbiano un'importanza giuridica,
politica e militare negli inizii di Roma, sono la proprietà e la famiglia
unificate sotto il proprio capo. Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa
mano di uomini forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e
che, in virtù di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga
soggiogandone le popolazioni e conquistandone il territorio. Allora e naturale che
questa comune conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi
considerata come un ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager
privatus, che già prima apparteneva ai singoli capi di famiglia. Questo infatti
è il dualismo, che domina tutta la storia economica di Roma. Però, a misura che
si accrescono le conquiste, l'ager publicus pud anche crescere permodo da
sopravanzare ai pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli, che
cooperarono alla sua conquista, ne domandino la ripartizione almeno parziale.
Dapprima tali assegni sul l'agro pubblico – “adsignationes viritanae” -- sono
fatti ai più poveri, i quali sono per tal modo posti in condizione di avere
quella pro prietà, che è riputata necessaria per partecipare alla comunanza; ma
poscia, di fronte all'incremento sempre maggiore dell'ager publicus, si
comincia anche a disporne in guisa diversa. Continua sempre ad esservi una
parte dell'ager, che è distribuita fra i più poveri della città e fra quelli,
che partono per fondare una colonia, e si ha cosi l'ager adsignatus, che serve
per somministrare ai cittadini poveri quella proprietà, quel censo, quell'”ager
privatus censui censendo”, che è ritenuto necessario per far parte della vera
cittadinanza. Un'altra parte invece e venduta ai pubblici incanti (ager
quaestorius), o sarà data in affitto, mediante il pagamento di un
corrispettivo, detto scriptura (ager vectigalis). Il primo di questi continuerà
ad accrescere l'ager privatus, ma non più quello della classe povera, ma di
quella ricca ed agiata, che possiede già il capitale per acquistarlo; ed il
secondo, quello cioè dato in affitto, finirà col tempo per dare origine a
quelle lunghe locazioni, che quasi si assomigliano a vere compre-vendite, dalle
quali uscirà poi una nuova forma di contratto, che è l'enfiteusi. Infine
dell'ager publicus puo ancora rimanervene una parte, la quale, o per essere
sterile o scoscesa (propter asperitatem ac sterilitatem ), non trovi compratori
nè affittavoli, o che il consiglio dei padri non abbia ritenuto opportuno di
mettere in vendita. Questa parte continua naturalmente ad appartenere all'ager
publicus e ancorchè immensamente ampliata colle conquiste corrisponde in certa
guisa ai pascua o compascua, che esistevano nelle antiche tribù. Quindi si
comprende come i padri delle genti patrizie, memori ancora del diritto che hanno
di slargare nei pascua i proprii greggi ed armenti (compascere), affermino il
loro diritto di occupare questa terra in certo modo abbandonata e di spargere
in essa le tormedei clienti e dei servi ed anche dei liberi, che siano alla
loro mercede. Sorge per tal modo il concetto dell'ager occupatorius, il quale,
non essendo stato acquistato, non può certo essere oggetto di proprietà privata,
ma costituisce le cosi dette possessiones, le quali, dopo essere durate per
qualche tempo, acquistano un carattere pressochè giuridico e danno occasione di
[Tutto questo processo ci è attestato dagli agrimensori romani, dei quali
sappiamo, che avevano grande autorità anche nelle provincie. L'autore, che
primo mise in evidenza l'importanza dei loro scritti, e NIEBHUR, che loro dedica
un saggio che può vedersi nell' Histoire romaine. Ora poi sta preparando un lavoro
di lena sugli agrimensores Brugi. Quanto alle affermazioni, che sono contenute
nel testo, sono esse abbastanza giustificate da quegli estratti degli
agrimensores, che sono raccolti dal Bruns, Fontes. Qui infatti io non mi
proponeva di entrare in particolari discussioni, ma bensì di mettere in
evidenza il processo, che i romani hanno ad applicare costantemente nella
distribuzione di un agro, che veniva crescendo colle loro conquiste.] svolgersi
alla protezione pretoria, la quale fa cosi entrare nelius honorarium l'istituto
giuridico del possesso. Intanto tutta questa parte dell'ager publicus, che è
cosi lasciata alla occupazione, viene ad essere come una sottrazione alle
ripartizioni gratuite fra quelle classi inferiori, che non hanno mezzi e
capitali per tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non sarebbero dal senato
autorizzati a farla, e quindi tra il patriziato antico, a cui si aggiunge col
tempo la nuova nobiltà plebea, e la plebe minuta viene ad esservi una
opposizione di interessi. Da una parte si ha interesse a provocare nuovi
riparti per impedire le occupazioni e per limitare le occupazioni stesse, che
col tempo minacciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni
ripartizione, se riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una
usurpazione di possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo
conquistati di recente, appare come una sottrazione a quel diritto di
occupazione, che il patriziato attribuisce a sè stesso. Di qui le lotte intorno
alle leggi agrarie, le trasformazioni del concetto ispiratore delle medesime, e
infine la insufficienza di esse per risolvere la grande questione sociale
dell'epoca, allorchè l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si strinsero
insieme contro una plebe minuta, che già comincia a cambiarsi in una turba
forensis, e che incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi già si era as
suefatta a preferire alle conquiste legali gli spettacoli del circo e le
distribuzioni di frumento. Con cio non intendo però di ammettere l'opinione di
Niebhur, di SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere il concetto della
possessio coll'ager pubblicus. Io credo che la *possession*, come istituzione
di *fatto* più che di diritto, avesse origini ben più antiche, e che la
medesima sia stata anzi il modo, con cui i plebei occuparono le prime terre nei
dintorni della città patrizia, il che però non toglie che la prima tutela
giuridica del possesso abbia anche potuto cominciare colle possessiones
nell'agro pubblico: cosicchè accade del possesso, come di un grandissimo numero
di altre istituzioni, che prima cominciano ad esistere di fatto e solo più
tardi entrano a far parte del diritto civile di Roma. Che anzi, dacchè sono in
quest'ordine di idee, aggiungerà ancora che il concetto dell'ager occupaticius
già erasi formato anche prima delle occupazioni del patriziato sull'ager
publicus. Lo dimostra Festo, vº Occupaticius, ove scrive: < occupaticius
ager dicitur qui desertus a cultoribus frequentari propriis, ab aliis occupatur
». (Bruns, Fontes) -- la qual deffinizione dimostra che anche fuori dell'ager
publicus poteva formarsi l'ager occupaticius, il quale perciò differisce
dall'occupatorius. Intanto è sempre da questo ager publicus, che ricavansi
eziandio gli assegni, che si sogliono fare alle colonie, alle città benemerite
del popolo romano, e infine alle stesse provincie. Trattandosi di colonie,
questi esemplari di stabilimenti che Roma crea a somiglianza di sè stessa,
traendone la popolazione dal proprio seno, si applica quel medesimo sistema,
che si applica per la popolazione di Roma, il sistema cioè delle adsignationes
viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia, ed hannosi così quegli agri, che gli
agrimensori chiamano divisi et adsignati, i quali sono fuori di Roma una
imitazione di quegli assegni di piccoli heredia, che facevansi un tempo ai
cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città benemerita, a cui il
senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di soddisfazione ed un
corrispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi l'ager mensura
comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà collettiva ad una
città, non è determinato che nella sua generale misura. Infine se trattasi di
delimitare in modo almeno generico i confini del territorio di una popolazione
si ricorre alle indicazioni delle valli, dei fiumi, dei torrenti, delle grandi
strade, dell'acqua pendente, a quelle indicazioni insomma, che in un periodo
ancora molto remoto serviranno poi ad indicare il territorio, che dalla natura
stessa sembra essere segnato ai singoli stati e alle nazioni, e si avrà così
quell'ager, che gli agrimensores chiamano “arcifinius”. Infine anche nelle
porzioni di agro pubblico, che sono vendute all'incanto o date in affitto (ager
quaestorius, ager vectigalis), possono esservidelle parti, che, per essere
scoscese o sterili, non possono trovare da sole nè compratori, nè affittavoli,
e in allora questi siti si aggregano a quelli, che già furono venduti o a
quelli dati in af fitto « in modum compascuae », il che significa che essi, a
somiglianza dei primitivi compascua, si ritengono appartenere per la proprietà
o per il godimento ai più vicini fra quelli, che hanno comprato od affittato
gli altri. Di qui la creazione di una specie di proprietà o di possessione
privata, con pertinenze consistenti in pascoli accessorii, la cui proprietà e
il cui godimento possono dare occasione a questioni fra i giureconsulti per
vedere se, vendendosi od affittandosi il fondo principale senza parlare del
pascolo accessorio, anche questo debba ritenersi compreso nella vendita o
nell'affittamento, sul che [Frontinus, De agrorum qualitate et condicionibus,
BRUNS, Fontes] giureconsulti risponderanno affermativamente, quando non consti
dell'intenzione contraria dei contraenti. Pongasi infine, e anche quest'ultima
supposizione è stata una realtà, che la piccola tribù del Palatino, mutatasi
poi nella Roma dei sette colli, divenga conquistatrice dell'universo allora
conosciuto, e quindi anche legislatrice del suo suolo. Ma essa continua pur
sempre ad applicare, nel piccolo e nel grande, entro l'Italia e fuori di essa,
nella proprietà e nel possesso, nel territorio italico e nel suolo provinciale,
quei concetti, che ebbe ad applicare nelle proprie origini, e che noi abbiamo
dimostrato essersi già preparati in un periodo anteriore alla formazione stessa
di Roma. Certo questi sono svolgimenti logici, che precorrono la serie dei
fatti, ancorchè siano fondati sopra di essi; ma non sono inopportuni per
mettere ordine in una materia, che le minute indagini hanno tal volta resa
intricatissima, e danno anche un esempio sensibile del processo semplice, ma
sempre logico e coerente, che Roma ha ad applicare non solo nell'estendere il
concetto della sua proprietà a tutto il territorio da essa conquistato, ma
anche nell'estendere la sua cittadinanza e l'impero della sua legislazione al
mondo allora conosciuto. Sono i grandi popoli che con mezzi semplici e
pressochè tipici applicati in proporzioni e in condizioni diverse sanno
conseguire i grandi effetti. È questo un esempio di quella dialettica potente e
pressochè celata, che senza apparire negli scritti dei giureconsulti, i quali
sembrano talvolta smarrirsi nei casi singoli e nelle fattispecie, trovavasi
tuttavia nei loro intelletti, ed era certo nella mente del popolo da essi
rappresentato. Ci sono altre applicazioni di questo processo dialettico, che,
mentre non appare allo sguardo, stringe però con una coerenza meravigliosa le
parti più disparate della giurisprudenza romana. [Higinus, 117. « In his igitur
agris quaedam loca, propter asperitatem aut sterilitatem, non invenerunt
emptores; itaque in formis locorum talis adscriptio facta est in modum
compascuae; quae pertinerent ad proximos quosque possessores, qui ad ea
attingunt finibus suis ». Bruns, -- Frontinus poi, De controversiis agrorum,
soggiunge: « Nam et per haereditates aut emptiones eius generis (pascuorum)
controversiae fiunt, de quibus iure ordinario litigatur ». Bruns -- È da
vedersi a proposito di tali controversie lo scritto del Brugi, “Dei pascoli
acces sorii a più fondi alienate”. Bologna. In una organizzazione come quella
che ho cercato di ricostruire, così nelle persone che entravano a costituirla,
che nei territorii che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor di luogo il
ricercare delle norme direttive della vita pubblica e privata, che potessero
meritarsi il nome di leggi nella significazione, che noi sogliamo attribuire a
questo vocabolo. Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato il vocabolo
di “legge” e la significazione sua propria alla convivenza civile e politica.
Senza negare che un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge direttiva
delle cose umane dalla contemplazione dell'ordine, che governa l’universa
natura, questo è certo che il vocabolo di legge, nella sua significazione
originariamente romana, che poi fu adottata da tutti gli altri popoli,
significa ormai l'espressione di una volontà collettiva, che si imponga alle
singole volontà individuali. Esso quindi suppone la distinzione fra l'ente
collettivo ed i singoli, fra lo stato organo ed interprete della volontà comune
e I membri che entrano a costituirlo. È quindi inutile cercare della legge, nel
senso proprio della parola, in un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo
compie ad un tempo le funzioni domestiche e le funzioni politiche, e nel quale
pertanto non si può rinvenire la distinzione fra il tutto in sè e le parti, che
entrano a costituirlo e neppure quella fra la vita pubblica e la vita privata.
Siccome tuttavia qualsiasi stadio di organizzazione sociale suppone di
necessità delle norme, che lo governino, cosi noi possiamo indurre, che queste
norme non dovettero mancare nel periodo gentilizio. Anzi si può anche
aggiungere, che fra le varie forme di organizzazione sociale quella, che tende
più di qualsiasi altra a stringere in certe regole precise cosi i rapporti
domestici, che quelli della vita esteriore, è certo la comunanza gentilizia, la
quale, essendo esclusivamente fondata sulla eredità, finisce per trasmettere,
di generazione in generazione, non solo IL SANGUE e degli antenati, non solo il
patrimonio e il territorio da essi conquistato, ma anche il nucleo delle
tradizioni dei maggiori. Si aggiunge, che al modo stesso che le genti, fisse
nell'esempio dei proprii antenati, finiscono per mutarli in oggetto di culto,
cosi anche le loro tradizioni tendono, non per impostura di uomini ma per un
naturale processo di cose umane, ad assumere un carattere sacro e religioso,
per cui qualsiasi atto anche meno importante finisce per acquistare una
significazione religiosa. È questa tendenza, cheha condotto tutte le comunanze
gentilizie a diventare pressoché immobili e stazionarie, e che avrebbe prodotto
forse il medesimo effetto fra le genti italiche, come lo produsse fra le altre genti
che appartengono alla medesima stirpe, quando fra esse non si fosse formato un nuovo
focolare di vita, che fu quello che brucia nel tempio di Vesta, cambiatasi in
patrona della città. Che anzi non dubiterei di affermare, che quello stesso
spirito conservatore, che appare in Roma primitiva, sopratutto per parte del
patriziato, non è che una trasformazione di questa tendenza naturale delle
comunanze gentilizie a diventare immobili e stazionarie, quando sono pervenute
a quel maggiore sviluppo, che può comportare il principio informatore di esse.
Dal momento in fatti, che questa tendenza all'immobilità e a fare entrare ogni
elemento in quadri precisi, determinati dal costume e consacrati dalla
religione, male può accomodarsi ad una città piena di vita, i cui elementi
nuovi più non possono ad un certo punto entrare nei quadri antichi, è ben
naturale, che la tendenza stessa riducasi a trapiantare nel nuovo terreno
quanto più si possa dell'antico ordine di cose ed a lottare per la
conservazione di esso, come chi è pro fondamente convinto di lottare per uno
scopo religioso e santo. È questo culto del passato, che contraddistingue le
genti italiche [È abbastanza noto come in quella guisa che la famiglia aveva
per centro il focolare, che le serviva anche di altare, così la città ha pur
essa un pubblico focolare nel tempio di Vesta, la quale per tal modo di dea del
focolare domestico venne a cambiarsi in custode e patrona del focolare di Roma.
Questo invece è da essere notato, che le recenti scoperte intorno al “locus
Vestae” hanno dimostrato, come questo focolare si trovasse a piedi del Palatino
presso il foro e fuori della Roma quadrata; il che serve a provare sempre più,
che la vera città, di cui dove essere centro il tempio di Vesta, non era già lo
stabilimento romuleo primitivo, ma bensì la città dei Quiriti, che risultò
dalla confederazione delle varie comunanze. In una casa poi attigua altempio di
Vesta dimora, secondo la tradizione, il Re (domus regia Numae), il quale, come
custode della città, dove pur trovarsi nel centro di essa. Cfr. LANGE, Histoire
intérieure de Rome, -- dalle elleniche. Mentre queste colla loro intelligenza
acuta e profondamente critica, appena hanno analizzate le proprie tradizioni,
rivestite anch'esse di carattere religioso, le abbellirono e trasformano colla
propria fantasia e finirono per ridurle in frantumi, la credula e religiosa
Italia invece colla sua intelligenza più tarda, ma colla sua volontà più tenace
le conservo a lungo e potè cosi rica varne tutto il succo vitale, che
contenevasi in esse. Questo intanto è certo, che appena noi possiamo arrestare
lo sguardo, non sulle gesta primitive delle genti italiche, che solo più tardi
furono argomento di storia, ma sul linguaggio di esse e sulle traccie della
loro civiltà, che sopratutto ci serbd il culto per i tra passati, noi
riconosciamo immediatamente, che tutte le loro tradizioni, le cui origini sono
celate in un remotissimo e misterioso passato, hanno già assunto un carattere
sacro e religioso. Una religione, per nulla immaginosa ed estetica come la
ellenica, ma eminentemente pratica ed applicata con cura minuta a tutte le
emergenze della vita, ha già consacrato le basi della organizzazione gentilizia,
per modo che le genti italiche, sempre occupate dal divino, che sovraintendono
a ciascun atto della vita, cercano con tutti i mezzi di riconoscere i segni
della benevolenza o malevolenza divina. Per gli atti della vita quotidiana
questa volontà potrà essere indicata anche dai piccoli incidenti della vita; mentre
per i fatti di importanza maggiore per il gruppo, è la volontà del cielo, che
deve essere consul [Osserva giustamente il SUMNER Maine, L'ancien droit, che
mentre l'intelligenza greca colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace
di chiudersi nella stretta veste delle formole legali, Roma invece possede una
delle qualità più rare nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad
applicare e a svolgere il diritto come tale, anche in condizioni non favorevoli
alla giustizia astratta, non scompagnata tale attitudine dal desiderio di conformare
il diritto ad un ideale sempre più elevato. Del resto il primo, che con occhio
veramente acuto abbia scrutato le attitudini mentali diverse dei greci e dei romani,
è il nostro Vico, De uno et universo iuris principio et fine uno. D'allora in
poi il paragone non è più venuto meno. Lo fanno gli storici, come Mommsen,
LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli studiosi della giurisprudenza comparata,
come MAINE, op. cit., Freeman, Comparative politics, London, Hearn, Arian
Household, London, IHERING, L'esprit du droit Romain. Per maggiori particolari
in proposito mirimetto al libro: La vita del diritto nei suoi rapporti colla
vita sociale,. ove ho tentato di richiamare alle facoltà psicologiche
prevalenti presso i due popoli il diverso svolgimento, che i medesimi ebbero a
dare alla religione, al diritto, ed alle istituzioni sociali e politiche] tata.
Di qui quella osservazione antichissima del volo degl’uccelli, che è d'origine
latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli animali da sacrifizio,
che è di origine etrusca, e quel concetto per noi pressochè incomprensibile
degli auspicia, che appartengono al magistrato e che danno al suo potere una
consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo. Per attenersi tuttavia a quel
complesso di norme, che riflettono la vita, intesa questa distinzione in un
senso che possa applicarsi al periodo gentilizio, noi troviamo che anche in
questa parte le genti italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a
racchiudere le loro tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con
vocaboli di significazione determinata, la cui semplicità primitiva sembra
indicarne l'antichità remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli
di “mos”, di “fas” e di “jus”, i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi
con una significazione, che tiene del religioso e del sacro. Del “mos” infatti
noi abbiamo una definizione conservataci da Festo. “Mos est institutum patrium,
id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum.”
Qui è notabile anzitutto la significazione larghissima, attribuita al vocabolo,
per cui tutte le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo, come pure
l'esplicazione che viene dopo, la quale, restringendo in apparenza il contenuto
del vocabolo, indica in sostanza che la parte. BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la
divination dans l'antiquité, e lo stesso autore, Institutions romaines. Questo
ricorrere agli auspizii in ogni affare pubblico e privato è attestato da
Servio, In Aen. “Romani nihil nisi captatis faciebant auguriis et praecipue
nuptias” e da CICERONE, De divin. “Nihil fere quondam maioris rei nisi
auspicato ne privato quidem gerebatur, quod etiam nunc nuptiarum auspices
declarant.” Per quello poi, che si riferisce agl’auspicia, alle varie loro
specie, alla procedura solenne, da cui erano accompagnati, ed alla
importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione, che fu
anch'essa un effetto della formazione di Roma, non ho che a riferirmi alla
trattazione magistrale di Mommsen, “Le droit pubblic romain”. Trad. Girard,
Paris] prevalente nelle istituzioni dei padri era sopratutto quella, che si
rifere alla religione ed alle cerimonie di essa. Questo carattere religioso non
ha poi bisogno di essere provato quanto al vocabolo di “fas”. Poichè il fas
delle genti italiche è paragonato dagli stessi scrittori latini alla Oeuis dei
Greci, e col tempo fu questo vocabolo di fas, che, distinguendosi sempre più da
ogni altro elemento estraneo, fini per significare quelle norme di carattere
esclusivamente religioso, che si riferiscono agli auspicia, al l'arte augurale
ed alle cerimonie del culto. Infine i più recenti investigatori del significato
primitivo del “ius”, quali Leist, Bréal,
al quale aderisce anche Muirhead, e diavviso, che il medesimo nelle proprie
origini avesse eziandio una significazione religiosa. Cosi Bréal ritiene, che
il “ious” antico dei latini, cambiatosi poscia in “ius”, sia perfettamente
conforme al iaus, che occorre nel più antico vocabolo, la cui significazione è
alquanto vaga ed incerta, ma che egli ritiene essere quella di « volontà,
potenza, protezione divina ». Questa primitiva signifi [Festo, vo Mos. È poi
notabile come lo stesso Festo, confermando il carattere religioso, comune
al mos ed al fas, definisca il ritus dicendolo un “mos comprobatus in
administrandis sacrificiis ». Bruns, Fontes, -- Festo, v° Themin, scrive. “Themin
deam putabant esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque id esse
existimabant, quod et fas est.” Bruns, Fontes. Lo stesso concetto ha ad
esprimere Ausonio, Edyl.: “Prima deum Fas Quae Themis est Graiis.” Per altri
passi è da vedersi Voigt, Die XII Tafeln. È poi degno di nota, che nelle
formole antiche occorre sovente la frase “secundum ius fasque”, la quale indica
in certo modo il bisogno di dare al diritto anche l'appoggio del fas. BRÉAL
tratta la questione in “Sur l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en
latin” nella “Nouvelle revue historique de droit Français et étranger” -- la
cui conclusione è la seguente: “Le droit, qu'on a appelé la création la plus
originale du génie latin, et qui a l'air de sortir tout d'une pièce de la tête
des décemvirs a ses origines dans le passé le plus lointain. Il est inséparable
des premières idées religieuses de la race. Questo è pure il concetto di LEIST,
Graec. Ital. R. G., MUIRHEAD, Hist. Introd., segue l'opinione del Bréal. Parmi
però, che questa etimologia non debba fare abbandonare intieramente quella
dalla radice s < iu, che significa stringere, legare, unire, la quale
indicherebbe la funzione, che il diritto compie di vinculum societatis humanae.
Questo è certo, ad ogni modo, come nota Bréal, che le parole mos, fas e ius
debbono essere considerate come caposti pite, e quindi, più che derivare da
altre, sono esse che diedero dei derivati, quali. cazione del vocabolo spiega
poi come tanto i Latini attribuissero un carattere religioso e sacro alla “lex”,
sebbene questi due vocaboli siano di più recente formazione, e ritenessero la
legge come un dono del divino; come pure spiega quel sentimento, le cui traccie
occorrono ancora in Roma, per cui si ama meglio di lasciar cadere in
dessuetudine il diritto costituito, che non di abrogarlo espressamente. Intanto
questo carattere comune a questi diversi vocaboli e ai concetti inchiusi
neimedesimi, conduce ad inferire, che dovette forse esservi tempo, in cui
furono contenuti in qualche concetto più vasto e comprensivo, del quale
essidebbono perciò considerarsi come specificazioni ed aspetti diversi. Questo
concetto, secondo Müller ed anche secondo Leist, sarebbe stato dagli antichi arii
significato col vocabolo di rita, il quale esprime ora l'ordine che regge
l'universo, col suo alternarsi del giorno e della notte, ed ora l'ordine stesso
della natura, in quanto governa il generarsi, il crescere e il disparire degli
esseri viventi. A questo vocabolo di rita corrispon dono perfettamente i
concetti del “ritus”, del “ratum” e della “ratio” dei latini, ed anche quello,
che essi indicano coll'espressione di “rerum natura”, per guisa che anche il
concetto di “ius naturale” nel senso che ha ad essergli attribuito da Ulpiano
di un “ius quod natura omnia animalia docuit” puo rannodarsi a questi primitivi
concetti. Lo stesso Leist poi osserva, che al concetto fondamentale di rita o
di ratio la sapienza antichissima degl’arii associa altri con sarebbero quelli
di fari, iubere, iustitia, iudes, iurgium, iniuria e simili. Una trattazione
poi di questo elemento etico e religioso dell'antico diritto, sussidiata da una
larghissima erudizione, occorre in Voigt, Die XII Tafeln. Leist. Ciò
confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut. Justin.: “palam est autem
vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum natura prodidit:
civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et civitates condi, et magistratus
creari,et leges scribi caeperunt.” Questo è certo poi, che a questo diritto
naturale primitivo anteriore alle leggi accennano soventi i filosofi latini.
Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic. Conviene quindi indurne che il concetto di
un diritto della natura comincia in certo modo ad essere sentito
dall'universale coscienza, e solo più tardi diventò anch'esso argomento di una
elaborazione filosofica. In proposito la classica opera del Voigt, “Das ius
naturale, bonum et aequum et ius gentium der Römer”, Leipzig] -cetti, che sono
espressi coi vocaboli di orata, a cui corrisponde il fas e il ratum dei latini,
due vocaboli che sovente procedono uniti: di dhāma, che egli dice analogo alla
Oeuis greca e infine quello di svadhā, che corrisponderebbe all'čnog od neos
dei Greci e quindi anche al mos dei latini, mentre infine il concetto di dharma
già si accosterebbe, quanto alla sua significazione, al vocabolo latino di lex,
il quale sarebbe però sopravvenuto più tardi. Parmi tuttavia che la parentela
ed analogia fra questi varii concetti possa essere facilmente spiegata, quando
si consideri che fra i latini il vocabolo di ratum e quello più astratto di
ratio, si associano talvolta al fas, al ius ed anche al mos. Si può quindi
inferirne con fondamento, che il ratum, da cui derivò poi ratio, significava
l'ordine, che governa il corso delle cose divine ed umane, mentre il fas, il
mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti circondati da un'aureola
religiosa, significano i diversi aspetti, sotto cui si manifesta questa forza o
volontà operosa, che muove e regge l'universo. Il fas quindisarebbe la stessa
volontà divina, in quanto si estrinseca nei fenomeni della natura, ed è
interpretata da coloro che sanno conoscerne il significato riposto. È quindi
dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del culto, le quali sono appunto
intese a rendere propizia agli uomini la volontà divina, e che presso le genti
italiche assumono anche esse il carattere contrattuale del « do ut des ». Il
mos significa la stessa volontà divina, ma non più in [ Leist. Questo scindersi
dal concetto primitivo appare nelle parole di Virgilio “Fas et iura sinunt” che
Servio commenta con dire – “id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad
religionem fas, ad homines iura pertinent.” In Aen. (Bruns, Fontes). La parentela poi fra i
vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata da Leist con una quantità di passi da
lui citati nella Graec. It. R. G. Ciò appare da tutte le formole primitive, che
si indirizzavano agli dei di una città nemica, per ottenere che i medesimi
abbandonassero la città stessa. V. HUSCHKE, Iurisp. anteiust. quae supersunt,
Nota in proposito il Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, che il culto
romano e una procedura del tutto analoga a quella delle « legis actiones >
che i pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i Romani
il sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la preghiera, che
necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto è infallibile,
se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal costume – “rite”.
Ciò significa che è per tal modo immedesimata coi romani l'idea secondo la
quale il diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo, che essi in ogni
argomento scorgono una specie di contratto.] quanto si rivela con segni, la cui
interpretazione è lasciata al sacerdote. Ma bensì in quanto si palesa in quella
tacita hominum conventio, che dà appunto origine al costume ed alla
consuetudine. Infine il “ius” è sempre questa stessa volontà divina, ma in
quanto viene ad essere interpretata e statuita espressamente dagli uomini, che
appartengono alla comunanza, nell'intento di provvedere alle esigenze della
medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate propaggini diverse; ma
siccome esse continuano ancora sempre ad essere in comunicazione fra di loro,
così è molto difficile il precisare la significazione di ciascuna, sopratutto
nel periodo gentilizio, allorchè vindice di questi varii aspetti della volontà
divina era l'autorità patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. È
poi'degno di nota, che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si
presentano come patrimonio esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò,
che queste chiamano le usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con
quello di “usus.” Ed anche da ciò che la cognizione del fas e del ius fu per
lungo tempo un privilegio del patriziato ed una causa della sua superiorità sopra
la plebe. In ciò può con fondamento scorgersi una prova, che queste nozioni
doveno elaborarsi in altro suolo ed essere trapiantate da genti migranti
dall'Oriente sul suolo italico, ove hanno poiservito per l'educazione di
stirpi, che si trovavano in condizioni inferiori di civiltà. Sebbene qui non
possa essere il caso di cercare in quale ordine questi varii concetti siansi
venuti formando, non è tuttavia inopportuno di avvertire, che, nelle origini,
il primo a prodursi, almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere
il “mos”, il quale, dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno
delle comunanze patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si
trasmette di genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e
religioso. È poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una
distinzione, in virtù della quale una parte di esso riceve una sanzione
religiosa, e l'altra una sanzione giuridica, mentre una parte continua sempre
ad avere un carattere puramen temorale e costituisce ciò che le genti latine
chiamano “i boni mores”. Intanto egli è certo, che le genti italiche si
presentano con questi varii concetti, già compiutamente formati, e che fra essi
ha già acquistata una incontestabile prevalenza quello del fas. E il fas, che
primo ha a ricevere elaborazione e a concretarsi in certe massime, riti e
pratiche, che tendono a diventare immutabili e ferme, come la volontà divina,
di cui si ritengono essere l'espressione. È poi sotto la protezione del fas,
che si vennero elaborando i concetti del ius e e dei boni mores, al modo stesso
che più tardi sarà sul modello del ius pontificium, che verrà a formarsi il ius
civile. Quasi si direbbe che, mancando ancora un'autorità abbastanza salda per
porsi alle passioni dell'uomo in un periodo di lotta e di violenza, siasi
sentita la necessità di porre sotto la protezione divina anche quelle regole,
che appariscono indispensabili per il mantenimento della convivenza sociale.
Intanto queste considerazioni intorno ai concetti fondamentali, che
costituiscono il substratum della sapienza popolare delle genti italiche, ci
preparano la via a comprendere il processo storico, secondo cui venne
svolgendosi ciascuno di essi. Il vocabolo di fas esprime per le genti italiche,
più fantastici ed immaginosi, giunsero perfino a personificare nei concetti di
Themis, Nemesis, Adrasteia. Esso è l'espressione della volontà divina, in
quanto impone e regge l'ordine delle cose divine ed umane, e vendica in modo
irresistibile le violazioni, che l'uomo rechi al medesimo colle proprie azioni.
Nel fas pertanto non è solo compresa una parte, che si riferisce ai riti e alle
cerimonie del culto, ma una parte eziandio, che contiene delle norme che
riguardano l'umana condotta. Che anzi, siccome la riverenza per il divino non è
propria di questa o di quella gente, ma è comune alle varie genti, cosi è anche
sotto la protezione del fas, che si trovano tutti quei rapporti fra le varie
genti, senza di cui sarebbe stato impossibile, che esse potessero entrare in
comunicazione le une colle altre. È quindi il fas, che determina i modi in cui
debba es sere dichiarata una guerra, e copre della sua protezione coloro, che
sono inviati a trattare le alleanze e le paci. È esso parimenti che dà un
carattere sacro a quell'istituzione dell'ospitalitá (hospitium), che ha un così
largo sviluppo presso le genti primitive, e che poi ricompare, come hospitium
publicum, dopo la formazione [Per una più larga prova di questa analogia, vedi
CARLE, La vita del di ritto, cogli autori ivi citati] della città, come pure è
il fas che consacra le obligazioni, che intercedono fra il patrono ed il
cliente. È esso, che condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze
incestuose, il falso giuramento e il venir meno ai voti fatti al divino, e alle
promesse, che sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno
straniero. Esso in somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i
membri della famiglia, quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie
tribù; donde la conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti
fondamentali fra il patriziato e la plebe, questa per assicurarne l'adempimento
non trova altro mezzo, che di porre i medesimi sotto la protezione di quel fas,
che esercita tanto impero fra le genti patrizie, come lo dimostra il concetto
ispiratore delle cosi dette leges sacratae. Chi poimanchi a questo complesso di
norme, sopratutto allorchè lo faccia di proposito (dolo sciens), mentre offende
gli uomini reca pure offesa al divino, e quindi deve espiare il proprio fallo, mediante
certi sacrifizii, le cui traccie occorrono ad ogni istante nel ius pontificium
e negli scritti dei più antichi giureconsulti, che si erano formati sullo
studio di esso; i quali sacrificii prendevano il nome di piacula, e dovevansi
anche fare, allorchè altri cade in fallo per semplice imprudenza (imprudens).
Di qui si raccoglie, che già dall'epoca più remota, a cui rimontino le
tradizioni, trovasi la distinzione, almeno fra le genti patrizie, fra colui che
abbia compiuto un delitto di proposito (dolo malo, dolo sciens, prudens), e
quello invece, che l'abbia compiuto solo per imprudenza (imprudens), nel che si
avrebbe una prova, che queste genti già erano pervenute a tale da analizzare
l'atto umano e scrutare perfino l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il
diritto quiritario dove fare un passo in dietro, come quello che dove
applicarsi a classi, che non erano tutte giunte allo stesso grado di sviluppo. Che
se il fallo sia tale [Sul carattere delle leges sacratae è da vedersi Lange, De
sacrosanctae tribuniciae potestatis natura, eiusque origine. Lipsiae -- Sono
poi diversissime le guise, mediante cui le promesse, che non avevano ancora
sanzione giuridica, si mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò
serviva il giuramento, la cui larghissima applicazione, nel periodo storico,
appare dal diligente lavoro di Bertolini, Il giuramento nel diritto privato
romano. Roma. Cio è dimostrato dal fatto, che la distinzione fra l'omicidio
commesso di proposito e quello commesso per imprudenza già occorre nelle leges
regiae attribuite da non potersi espiare in questa guisa, in allora il reo
viene assoggettato ad una specie di espiazione sacrale, la cui forma tipica
consiste nella capitis sacratio. Questa dove essere pena gravissima durante il
periodo gentilizio, poichè il colpevole veniva con essa ad essere sot toposto
ad una specie di scomunica religiosa e domestica, che lo stacca dal gruppo
gentilizio, di cui faceva parte, e lo poneva in certo modo fuori della legge,
per guisa che sebbene il sacrifizio della sua vita non potesse essere accetto al
divino, esso puo pero essere ucciso impunemente da chicchesia. Di qui il
carattere di espiazione sacrale, che informa ancora tutto il diritto penale di
Roma, durante il periodo patrizio, come pure i vocaboli e i concetti di
expiatio, supplicium, di consecratio bonorum, di interdictio aqua et igni, i
quali confermano l'osservazione di Voigt, secondo la quale le genti patrizie
avrebbero ravvisato nei delitti più un'offesa al divino che non agl’uomini, a
differenza delle plebi, che risentivano di preferenza l'offesa e il danno
materiale. Non potrei quindi ammettere l'opinione di coloro, i quali,
supponendo le genti italiche in una condizione del tutto primitiva e come nella
loro infanzia, mentre sotto un certo aspetto sono già nella loro età matura,
vogliono ad ogni costo trovare nel diritto penale le traccie della vendetta. Se
cio intendasi nel senso che erano i singoli capi di famiglia, che dovevano
essere essi i vindici del proprio diritto e proseguire le offese, che loro fos
sero recate, in mancanza di un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può
essere facilmente ammesso. Che se invece si intenda che nella stessa comunanza
gentilizia dovessero spesseggiare una reazione violente e una vendetta, cio più
non può conciliarsi col rattere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già
regolato dalla a Numa. V. Bruns, Fontes. Tale distinzione poi incontrasi
frequentemente in ciò, che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei
veteres iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio
Scevola, i fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero espiarsi
colla piacularis hostia, quando fossero compiuti per imprudenza; mentre non
ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal
seguente passo tolto da VARRONE, De ling. lat. Praetor, qui diebus fastis tria
verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari hostia piatur; si prudens
dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse.” Altri esempi occorrono
in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup., Voigt, XII Tafeln] religione e dal
costume. Non potrebbe certo affermarsi che anche le genti italiche non abbiano
attraversato uno stadio, in cui dovette dominare la forza, la vendetta e la
violenza. Ma l'organizzazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa
erano già un mezzo per uscire da tale condizione di cosa. Quindi, se si deve
giudicare dal diritto primitivo di Roma patrizia, sarebbero così poche le
traccie, che rimangono in esso della vendetta, nel senso che suole attribuirsi
a questo vocabolo, da doverne inferire che nel periodo gentilizio la religione,
compenetratasi in ogni atto della vita, ne aveva già cacciata la vendetta ed
aveva esclusa perfino la composizione a danaro, almeno nella cerchia delle
genti patrizie. Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e
la figlia adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante), o contro il
ladro, egli lo fa più come giudice e come investito di un carattere sacerdotale,
che non come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e della vendetta.
La religione già incatena le passioni dell'uomo, ed è solo più fra la plebe,
che ancora si trovano le traccie della vendetta e della composizione a danaro,
le quali poi ricompariscono in qualche parte nella legislazione decemvirale,
come quella che era comune ad entrambe le classi. Fra gli autori, che cercano
di dare una larga parte alla vendetta nel diritto romano, havvi il MUIRHEAD,
Hist.introd. Egli argomenta da ciò, che colui il quale commetteva un omicidio
per imprudenza dove fare l'offerta di un ariete agli agnati dell'ucciso. Da ciò
che il vendicare la morte di un congiunto ucciso e un dovere per i superstiti
per acquetare i mani di lui. Dal diritto del padre e del marito di uccidere la
figlia o la moglie sorprese in adulterio unitamente all'adultero. Dal taglione,
le cui traccie ancora rimangono nella legislazione decemvirale, e perfino dal
diritto del creditore di chiudere nel carcere il debitore, chemancasse ai
proprii impegni. Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece la
preponderanza dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il
diritto decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe,
presso la quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata
vendetta, il taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du
droit Romain. Trad. Meulenaere. Paris, -- ove discorre della giustizia privata
e delle forme, con cui essa e esercitata. Finchè quindi si dice, che sono i
singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal
pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto,
di cui furono vittima, si afferma una verità indiscutibile. Ma ciò non deve più
confondersi coll'esercizio sregolato di una vendetta, che non prende norma che
dalla violenza della passione, dal momento che la religione e la consuetudine
già hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve attenersi per ottenere
soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che l'organizzazione
gentilizia ha appunto per iscopo di porre termine alla pri vata violenza fra
coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù.Accanto però a queste
regole dell'umana condotta, che già sono munite di sanzione religiosa, sonvene
delle altre che, appoggiate unicamente al costume, costituiscono, per cosi
esprimerci, una morale. Esse vengono indicate col vocabolo di “mos patrius”, di
“mores maiorum”, di “boni mores”, e costituiscono un complesso di norme
direttive della condotta, le cui traccio si trovano più tardi ancora nel
iudicium de moribus, at tribuito al Praetor, e sopratutto nel “regimen morum”,
affidato alla custodia dei censori. Anche questi “mores maiorum” si sono venuti
formando durante il periodo gentilizio, nella cerchia sopratutto delle familia
e delle gens, e sono quelli, a cui deve essere attribuito l'obsequium e la
reverentia verso gli ascendenti, la pudicitia delle mogli e il mantenimento
della fides, anche per quelle promesse, che non fossero munite di sanzione giuridica
e che fossero fatte anche ad uno straniero. Sono questi boni mores, che da una
parte conteneno in certi confini il potere delle varie autorità, le quali,
giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine; e che dal l'altra
colpivano colla sanzione efficace della disistima generale della comunanza
coloro, che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti di sanzione
giuridica. Così, ad esempio, furono i boni mores, che ancora molto più tardi
condussero l'opinione pubblica dei cittadini Romani a condannare al disprezzo
quei prigionieri d’Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione del
ritorno, credettero di liberarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di
ritornare immediatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la loro
[Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro, allorchè scrive – “Etiam
hosti est aequus, qui habet in consilio fidem.” Del resto sono diversissime le
guise, con cui i filosofi esprimono l'efficacia moralmente obbligatoria delle
promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani generis, del
foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione, il concetto
della casta fides, quello della santità inerente alle parole, in quanto che immutabile
sanctis Pondus inest verbis; concetto che trova poi la sua espressione
giuridica nell' “uti lingua nuncupassit, ita ius esto.” Così pure nell'Andria
di Terenzio trovasi elegantemente espresso il concetto, che l'obbligazione è un
vincolo che la volontà impone a se stessa colle parole – “coactus tua voluntate
es” -- concetto che trova pur esso forma nell'assioma giuridico, “Quae ab
initio sunt voluntatis ex post facto fiunt necessitates.” Per altri esempi può
vedersi HENRIOT, Meurs juridiques et judiciaires] promessa. Del resto è sempre
questo concetto del buon costume, che tornerà poi a penetrare, per opera della
classica giurisprudenza, nella compagine soverchiamente rigida del diritto
civile romano, come lo dimostrano le considerazioni di ordine morale, che
talvolta occorrono nei grandi giureconsulti, l'influenza che esercitò mai
sempre l'existimatio anche sulla capacità di diritto, e l'introduzione
dell'infamia, della ignominia, della levis nota, che danno in certo modo una
configurazione giuridica alle varie gradazioni della publica disistima, in cui
sia incorsa una determinata persona. Al qual proposito non e inopportuno di
osservare, che quella separazione fra l'elemento esclusivamente GIURIDICO ed il
meramente morale, che tarda così lungamente ad operarsi nella scienza,
presentasi invece con una meravigliosa nettezza nel diritto di Roma, il quale,
dopo essersi separato dal fas e dai boni mores, continua logicamente la propria
via, e assunse così quel carattere di rigidezza e di logica pressochè inumana
(“dura lex, sed lex”), che solo più tardi e temperato nella classica
giurisprudenza, la quale di nuovo richiama in esso quell'alito morale, da cui
almeno in apparenza erasi dapprima compiutamente disgiunto. Intanto, per ciò
che si riferisce ai boni mores, non è più la religione, che si incarica di
punirne le violazioni, ma sono i capi stessi dei diversi gruppi, che vegliano
sovra quel retaggio del buon costume, che loro ebbe ad essere trasmesso dagli
antenati. Sono quindi il padre nella famiglia, il consiglio degl’anziani nella
gente ed il magister pagi nella tribù, che sovraintendono almantenimento di
questa morale. Mentre è poi la disistima generale della comunanza, che condanna
al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano esercitato professioni
ignominiose, o abbiano mancato alla fede promessa, o abusato del potere loro
spettante, o abbiano infine commessa alcuna di quelle azioni, che, senza senza
essere colpite [Cfr. Muirhead, Hist. Introd. Basta leggere le commedie di
Plauto, e fra le altre specialmente il Trinummus, per scorgere la
significazione larghissima, che davasi al vocabolo di boni mores, e come fosse
altamente sentita l'importanza di essi di fronte alle leggi e l'impotenza di
queste, quando quelli cominciavano a venir meno. Ciò verrà ad essere largamente
provato nel ius Quiritium, dovuto ad un ' astrazione potente, mediante cui si
riuscì ad isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi affini.] dalla
sanzione religiosa o giuridica, incorrono però nella disapprovazione generale.
Se il modo in cui formasi questa generale opinione e l'influenza, che essa
esercita, male possono scorgersi ancora a Roma, in cui già scomparve ogni
traccia della vita patriarcale, possono invece essere anche oggidi facilmente
compresi quando si arresti lo sguardo ad una comunanza di villaggio, ove tutti
si conoscono e debbono necessariamente essere in rapporto fra di loro, ed ove
le colpe dei padri pesano più duramente sulla riputazione dei figli. Se ora si
vogliano cercare le origini del ius nel periodo gentilizio, apparisce fino
all'evidenza, che e soltanto, collocandosi in un posto intermedio, fra il fas
da una parte ed i boni mores dall'altra, che puo riuscire e farsi strada quel
ius, che dove poi ricevere cosi largo sviluppo durante il periodo della
comunanza civile e politica. Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di
agire, che, per essere costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per
acquistare un carattere pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi
in una determinata condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos
propriamente detto, ma a quella formazione giuridica, che viene poi ad essere
indicata col vocabolo efficacissimo di “consuetudo”, il quale in certo modo
contiene in sè la propria deffinizione. Colui che manca a queste regole non
offende solo il divino e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad
obbligazioni, che sono imposte dalla convivenza, cui appartiene e si sottrae
cosi alle esigenze della vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali
viene così formandosi una categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in
seconda linea l'offesa alla religione ed alla morale, mentre viene ad essere
evidente sopratutto l'offesa [Servius, In Aen. -- VARRO valt morem esse
communem consensum omnium simul habitantium, qui inveteratus *consuetudinem*
facit ». Del resto questo passaggio del costume, che ha carattere meramente
MORALE, in *consuetudine*, che ha carattere strittamente GIURIDICO, è indicato
anche da molti passi dei giureconsulti, che possono trovarsi raccolti
nell'Heumann, “Handlexicon zu den Quellen des römisches Rechts”. Jena, Va Mos e
Consuetudo] alla comunanza, a cui altri appartiene e il danno che vengono a
soffrirne gli altri membri della comunanza. Di qui la conseguenza, che comincia
già ad operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, come una specie di
selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono
sceverando alcuni, che assumono il carattere *giuridico* propriamente detto.
Naturalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre,
fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche,
religiose e civili ad un tempo. Ma intanto già comincia ad avvertirsi il
carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli
puramente morali e religiosi, per ottenere l'adempimento dei quali non può più
bastare una sanzione meramente religiosa, né la disistima generale, ma vuolsi
una specie di sanzione co-attiva da parte della intiera comunanza e
dell'autorità che la governa. Al modo stesso, che già fra le genti e le tribù
si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei
conciliabula, quei fora, che sono il primo nucleo, intorno a cui verrà poi a svolgersi
l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una convivenza, i cui precetti
hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già cominciano a
presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico. Che anzi,
per continuare nello stesso paragone, al modo stesso che Roma, limitata
dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi ad essere
il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e viene
infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private, e a
sottrarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di
carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche [Questo
concetto, per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo, ma reca un
danno alla intiera comunanza, che ora noi diremmo danno sociale, è un concetto
profondamente sentito dai romani, il quale ha ad essere variamente espresso dai
filosfi latini. Basti riportare dall'Henriot questi versi di Pubblio Siro:
Multis minatur, qui uni facit iniuria: Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus;
Omne ius supra omnem iniuriam positum est. O quello di Orazio: « nam tua res
agitur, paries quum proximus ardet ». Come pure le frequenti scene di Plauto e
di TERENZIO, in cui una persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio
e chiede aiuto con formole, che hanno una precisione giuridica: “Obsecro vos,
populares, ferte misero atque innocenti auxilium. Ovvero: Obsecro vestram fidem,
subvenite cives ».] questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii
abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul
fas, viene col tempo accrescendosi sempre più, e richiamando a se una quantità
di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non hanno che un carattere
religioso o MORALE. Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a
spese degl’elementi, da cui si è staccato. Quando poi sentesi forte abbastanza
per procedere per proprio conto, afferma senz'altro la propria indipendenza, e
assume, per opera dei romani, un processo tutto speciale nel proprio
svolgimento, che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per qualche
tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricava il suo
primitivo nutrimento. Quel carattere pertanto di rigidezza, che suole
condannarsi nel diritto dei Quiriti, è la miglior prova della sua potenza ed
energia; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto a tale da
potersi svolgere senza più tener conto della considerazione MORALE o religiose --
al modo stesso che Roma, teatro del suo svolgimento, ormai e pervenuta a tale
da cercare ancor essa di spogliarsi di ogni traccia della influenza gentilizia
e patriarcale. Questo è poi degno di nota, che anche quando il ius viene ad
affermare la propria esistenza separata continua pur sempre a svolgersi sotto
due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui esso ebbe a derivarsi.
Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo modo di imitare la
solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere rivestito della
forma di “lex.” Quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato, dà una forma
solenne ed espressa alla propria volontà – “iubet atque constituit” -- creando
cosi il “ius legibus introductum”. Intanto si mantiene sempre un altro aspetto
del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si manifesta nella formazione
lenta delle proprie consuetudini, che i romani considerano come il frutto di
una tacita civium conventio – “ius moribus constitutum”. Ad ognimodo però il
ius, prenda esso il carattere di una *regola*, che il popolo pone a sè stesso,
o di una norma, che formisi tacitamente nel costume, è pur sempre il frutto di
un accordo espresso e tacito dei cittadini, e deve essere considerato come
l'espressione di una volontà comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli
individui. Finchè esso è in via di formazione può essere argomento di
discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno solenni del popolo, che
chiamansi contiones; ma allorchè la legge viene ad essere posta e costituita
con quei riti solenni, che accompagnano i comizii, la vox populi viene ad
essere considerata come vox dei, e debbono ubbidirvi tutti coloro, che
cooperarono a formarla, non eccettuati quelli che erano di avviso contrario. Vi
ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se ne delinea ben presto un altro,
per cui distinguesi una parte del diritto, che si riferisce all'interesse
generale della comunanza, e chiamasi ius publicum; e una parte invece, che si
riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e delli individui, che
entrano a costituirla, e chiamasi ius privatum. Il primo si forma sulla piazza
e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie classi, lascia le sue
traccie nella storia politica di Roma, e si esplica mediante gli accordi e le
transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe. L’altro viene elaborandosi
pressochè tacitamente nella coscienza generale del popolo, e trova i suoi
interpreti nei pontefici e nei giureconsulti. Intanto però l'uno e l'altro sono
in certa guisa atteggiamenti diversi di un medesimo diritto, in quanto che il
di ritto pubblico è in certo modo il palladio, sotto la cui protezione può
nascere e svolgersi il diritto private. Insomma al modo stesso, che l'urbs e il
frutto di una lenta formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle
abitazioni pri vate gl’edifizii aventi pubblica destinazione, e che il formarsi
della civitas e del populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi di tutti
gli uomini (viri) che col braccio o col consiglio potevano provve dere alla
difesa ed all'interesse comune; cosi anche la formazione del diritto e
attribuita ad una specie di elaborazione, che venne operandosi nella coscienza
generale di un popolo, e all'attrito dei varii elementi, che entravano a
costituirlo, [È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto pubblico e
privato, Savigny, Sistema del diritto privato romano, trad. Scialoia. Sopratutto
importa il notare, che il diritto pubblico e il privato, nel concetto romano,
sono due atteggiamenti diversi del medesimo diritto – “duae positions” -- e non
deve essere dimenticato il detto, che Bacone certo ricava dallo spirito del
diritto romano, secondo cui “ius privatum sub tutela iuris publici latet”, De
augm. scient., de iust. univ. Quanto alle altre suddistinzioni, che presentansi
nel campo del diritto, è da consultarsi Voigt, Die XII Tafeln, come pure lo
stesso autore, Das ius naturale, gentium etc. Leipzig] mediante cui da tutti
gli elementi morali e religiosi, che già si erano formati durante il periodo
gentilizio, si vennero sceverando tutti quelli, che potevano ritenersi
indispensabili per il mantenimento della convivenza civile e politica. Roma insomma
che, piccola dapprima e limitata a pochi edifizii, si venne però sempre
ingrandendo a spese delle comunanze di villaggio, che erano entrate a
costituirla, deve essere considerata come il crogiuolo, in cui si gettarono
indistintamente tutti gl’elementi della vita patriarcale, per sceverarne ed
isolarne quella parte, che ha un carattere essenzialmente giuridico, politico e
militare. E questa una specie di chimica scomposizione, che un popolo
mirabilmente atto a sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in esso si
presenti di giuridico, e a concretarlo in forme tipiche e precise, venne in
certo modo compiendo a benefizio del genere umano. Espresse quindi una grande
verità il filosofo coll'esclamare: Fuit sapientia quondam Publica privatis
secernere sacra profanes. Poichè tale veramente e il compito delle città
primitive e quello sopratutto di Roma. Il nucleo di questi precetti, di
carattere esclusivamente giuri dico, e dapprima assai scarso, e si ridusse a
quel poco che Roma, ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad
un'organizzazione come la gentilizia, che ancora aveva tutta la sua vitalità ed
energia. Poscia però col crescere di Roma, coll'estendersi delle sue mura, col
fondersi insieme degli elemeuti, che entrano a costituirla, coll'in corporarsi
di nuovi elementi nel populus, quel ius, che prima ha solo una posizione
subordinata, si cambiò invece in tutore e custode della vita pubblica e privata,
ed e riconosciuto come sovrano nel seno della comunanza civile e politica. E
allora che, consapevole della propria forza e dell'ufficio, che gli e affidato,
si riaccosta di nuovo a quell'elemento religioso e sopratutto etico, da cui
aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel periodo della propria formazione non
riconosce più altra guida, che una logica esclusivamente giu ridica – “iuris
ratio”. Di qui intanto deriva la conseguenza, che Roma, pur ricevendo [Orazio,
Ars poetica] le proprie istituzioni dal passato, ci fa però assistere alla
formazione lenta e graduata di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze
della convivenza civile e politica, e differenziandosi sotto molteplici
aspetti. Questo diritto tuttavia può essere logicamente spiegato in tutto il
suo processo, ed anche nelle distinzioni che comparvero in esso, in quanto che
è stato veramente una costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che
venne svolgendosi “rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente.” Che questo
sia stato veramente il processo, con cui si esplica il diritto in Roma, risulta
poi con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non
occorre altra dimostrazione. Bensi importa, ed è assai più difficile
determinare, quali siano i rapporti, che primi hanno ad assumere un carattere
giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presenta questo
primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo nelle mura
domestiche e nel seno della famiglia la religione comune, la riverenza verso il
proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere pressochè senza
confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o consesso di parenti,
da cui egli è circondato, creano un'organizzazione di tale natura, che può
bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di ricorrere al diritto
propriamente detto. Che anzi, se il diritto cerca di penetrare nelle mura
domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe ciò come una
violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria autorità,
come lo dimostra ancora il padre di Orazio, uccisore della sorella, allorchè
osserva che, se il proprio figlio non ha a ragione uccisa la sorella – “iure
caesam” -- e toccato a lui di provvedere. Se quindi la moglie, i figli, gli
schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal costume e consacrati dalla
religione, e il padre stesso, che e vindice dei loro [Liv., Hist., I, 24. Di
qui si può' raccogliere, come non possa ammettersi l'opinione di coloro, i
quali vorrebbero senz'altro attribuire al re, come primo magistrato di Roma, la
giurisdizione per giudicare di qualsiasi misfatto. CLARK, Early roman law. Deve
invece ritenersi a questo riguardo col MuiruEAD, Histor. che la giurisdizione
criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi frammezzo alla
giurisdizione dei capi di famiglia, e a quella che apparteneva alle singole
genti, quanto ai delitti, che erano commessi da membri, che entravano a
costituirle.] falli, salvo che in certi casi di maggior gravità, come quando
trattisi della moglie adultera, non stata sorpresa in flagrante, egli dove circondarsi
del tribunale domestico e pronunziare la condanna, dopo averne sentito l'avviso.
Allorchè poi l'azione, che reca danno altrui, sia stata compiuta da un altro
capo di famiglia, o da persona soggetta al potere del medesimo, e fra i due
capi di famiglia, che la questione e risolta, e se quest'ultimo non intenda di
riparare il danno arrecato dal suo dipendente, non ha nulla di ripugnante al
modo di pensare dell'epoca, che egli consegni la persona, che ha recato il
danno, al capo di famiglia, che ha a soffrirlo, mediante l'antichissimo
istituto delle noxae deditio. Cosi pure [È noto a questo proposito come nel diritto,
distinguasi fra “noxia” e “noxa”, per cui mentre il vocabolo “noxia” significa
il danno, veniva anche dai filosofi adoperato per significare la colpa, mentre
il vocabolo “noxa” si adopera per significare il peccato, il delitto, ed anche
la pena di esso -- donde la espres sione di noxae deditio, la quale trova poi
una larga applicazione, tanto nei rapporti fra i capi di famiglia, quanto
eziandio nei rapporti fra le varie genti e tribù nel “ius pacis ac belli” nel
periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes). Intanto dalla estesa
comprensività del vocabolo di “noxa” o di “nocia”, nella sua significazione
primitiva, parmi di poter inferire con fondamento, che nelle origini uno stesso
vocabolo significa ad un tempo la colpa, che cagionava il danno, e il danno,
che deriva da essa, e che non dove esservi distinzione fra colpa e danno di
carattere civile e colpa e danno di carattere penale, come neppure dove
distinguersi fra colpa contrattuale ed extra-contrattuale od aquiliana. I
concetti e i vocaboli sono sinteticamente potenti nel diritto romano, ed è solo
col tempo, che in essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che
costituiscono poi altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto
fondamentale. Un altro carattere del diritto si è anche questo, che esso prende
di regola le mosse da un vocabolo di significazione materiale, e poi gli
attribuisce una significazione sempre più estesa e perfino traslata o figurate.
Abbiamo un esempio di ciò nel vocabolo “rupere”, che significa il rompere
materialmente un membro, od altra cosa; ma fu poscia recato ad una significazione
traslata, attestataci da Festo, per cui rupere significa damnum dare, al modo
stesso che rupitias e ruptiones finiscono per significare ogni maniera di
danno. È uno dei processi più consueti nel diritto di Roma, quello per cui una
volta formato un concetto od un vocabolo giuridico non si teme di estenderlo a
tutte le configurazioni affini. Come si estese il parricidium ad ogni uccisione
di un uomo libero. Così il membrum rupere o la rupitias, essendo stato il
danno, che prima ebbe ad essere configurato giuridicamente, passa poi ad
indicare qualsiasi danno. Rimando in proposito al dottissimo lavoro del collega
G. P. Cuironi, “La colpa nel diritto civile” (Torino). Di quest'opera credo di
poter dire, senza offendere la modestia dell'amico, che servirà a rimettere in
onore fra noi quel mirabile magistero, che ha fatto la] gli è tenendo conto
della posizione rispettiva, in cui in questo periodo si trovano due capi di
famiglia, che si può comprendere il nascere e lo svolgersi di certe procedure,
che più tardi appariscono strane e pressochè incomprensibili. Tale è, per dare
un esempio, quella del “furtum lance lincioque conceptum”, in cui abbiamo un
capo di famiglia, che ricercando una cosa statagli derubata può ottenere di
entrare nella casa del vicino, in cui teme sia stata nascosta; ma cio a
condizione di fare anzitutto una libazione propiziatoria ai lari della casa, in
cui egli si inoltra, il che è dimostrato dal piatto, che egli tiene fra mano
(lance), e intanto deve stringersi la persona con un cingolo (lincio), che gli
impedisca di nascondere qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa
perquisizione domiciliare dove per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al
cubiculum della moglie, con che però il capo di casa giurasse che nulla di
derubato vi era stato nascosto. Del resto in questa condi grandezza della
giurisprudenza romana, secondo cui, una volta che si è formata una
configurazione giuridica, la medesima non deve più essere perduta di vista
nelle in definite trasformazioni e distinzioni, che pud subire nelle
vicissitudini delle legislazioni e della giurisprudenza, ma deve sempre essere
richiamata alle proprie origini e seguita nella sua dialettica fondamentale.
L'autore tratta dei concetti di “rupere”, di “rupitias”, di culpa della lex
Aquilia.] Esmein in “La poursuite du vol et le serment purgatoire”, trova le
traccie di una procedura analoga a quella, che seguivasi per il “furtum lance
lincioque conceptum”, anche presso il popolo di Israele nel fatto di Rachele,
che avendo sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi nascosti sotto le
coperte del cammello, sovra cui essa si era seduta; come pure nel fatto narrato
da MACROBIO, Saturnalia, I, 1, cap. VI in fine, ove si narra di un Tremellio, a
cui sarebbesi imposto il soprannome di Scrofa, perchè avendo rubata una scrofa
uccisa, aveva poi fatto sedere sopra di essa la propria moglie, e aveva
giurato, in via di purgazione, che colà non eravi altra scrofa, fuori di
quella. Ciò dimostra come questa procedura siasi naturalmente formata presso
popoli diversi. Ma non posso convenire nell'apprezzamento dell'autore, per cui
nelle epoche primitive non si guarderebbe che all'adempimento delle forme
esteriori della procedura. Poichè nel fatto stesso citato da MACROBIO, noi
abbiamo l'opinione generale, che segna a dito colui, che ricorse a
quell'ignobile stratagemma, imponendogli il soprannome di Scrofa (Esmein,
Mélanges d'histoire de droit, Paris). L'autore poi, il quale avvertì che il
piatto, tenuto fra mani da colui, che ricerca la cosa derubata nel “furtum
lance lincioque conceptum”, ricorda in certo modo la libazione propiziatoria ai
lari e ai penati, che dovevasi fare prima di metter piede nella casa altrui, è
Leist, Graec. Ital. R. G. Sul “furtum lancie lincioque conceptum” è da vedersi il
saggio di Gulli, “Del furtum conceptum secondo la legge delle XII Tavole.
Bologna] zione di cose, mancando ancora un'autorità, che siasi fatta ella
stessa investigatrice e punitrice dei misfatti, si comprendeche sia il derubato
che prosegue il ladro, il marito offeso che tenga dietro all'adultero e
sorpreso l'uccida, e si richiederà ancora lungo tempo prima che, in Roma, l'autorità
pubblica si incarichi direttamente della punizione di questi e di altri
misfatti. Che se la riparazione non venga ad essere accordata all'offeso, e
anche naturale, che impegnisi una lotta fra le due famiglie, e che associandosi
alle medesime le genti, a cui esse appartengono, il DUELLO mutisi talvolta in
un conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù, di cui esse
entrano a far parte. Cosi è pure dei rapporti interni fra i diversi membri, che
entrano a costituire la gente, quali sono i rapporti fra il patrono ed il
cliente, ed anche i doveri della ospitalità, poichè essi cadono sotto la
protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite mediante la pubblica
disistima, e coll'intervento dell'autorità patriarcale e del consiglio degl’anziani,
custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori. Siccome però nella gente già
vengono ad esservi diversi capi di famiglia, che hanno una propria familia, un
proprio “heredium”, un proprio “peculium”. Cosi comprendesi come nel “vicus”
già puo sorgere delle controversie di carattere GIURIDICO fra i diversi padri.
Controversie che talvolta possono anche essere rese più accanite dal vincolo
stesso di parentela, che intercede fra le famiglie che appartengono alla
medesima gente. È tuttavia ancora sempre verosimile, che l'interporsi di
qualche anziano, che goda la fiducia comune dei contendenti, possa indurli ad
un amichevole componimento. Il che spiega come nei vici siavi sempre un luogo
per il mercato, in quanto che la distinzione del mio e del tuo già rende
possibile il commercium, manon vi si rinvenga sempre il luogo per amministrare
giustizia. Infatti, il carattere esclusivamente patriarcale dei rapporti, che
intercedono fra i membri di essa, rendono [Ciò accade sopratutto, quanto
all'adulterio, che comincia a formare oggetto di un “iudicium publicum” solo
colla legge Iulia, De adulteriis, che e una di quelle con cui Ottaviano cerca,
ancorchè con poco frutto, di far rivivere il buon costume. [In proposito
l'interessante articolo dell'Esmein, “Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia,
De adulteriis” – “Mélanges d'histoire de droit”. Quanto al vicus e al difetto,
che talora trovasi in esso di un magistrato per amministrarvi giustizia] ripugnante
l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e cliente, ma anche fra
i padri o capi di famiglia, che discendono dal medesimo antenato e hanno per
mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii anziani. Nella tribù
invece, già si trovano di fronte capi di famiglia, che appartengono a genti
diverse e che più non discendono dal medesimo antenato, nè partecipano allo
stesso culto gentilizio. Quindi già viene ad imporsi il bisogno di provvedere
in qualche modo all'amministrazione della giustizia, più non essendovi
un'autorità di carattere esclusivamente patriarcale, che possa imporsi ai capi
di famiglia, che sono di discendenza e d'origine diversa. Dovette quindi
probabilmente essere questa necessità di provve dere all'amministrazione della
giustizia, che suggere l'idea di una autorità chiamata a dirigere e ad
amministrare il pagus – “magister pagi” -- , la cui primitiva destinazione è
ancora indicata dai nomi di “iudex” e di “praetor”, ed anche da quello di “tribunal”
(derivato certamente da “tribus”), che significa dapprima il seggio, più
elevato sovra cui collocavasi quegli che e chiamato ad amministrare giustizia,
e indica così anche esteriormente la posizione cospicua, in cui egli trovavasi
di fronte agli altri membri della comunanza. Queste controversie intanto non puo
naturalmente sorgere che fra i varii capi di famiglia, i quali, memori delle
loro tradizioni, sono dapprima troppo altamente compresi del proprio diritto,
perchè sia necessario che intervenga una legge a dichiarare quello che loro
appartenga. Ma hanno piuttosto bisogno di essere contenuti nell'esercizio
violento delle proprie ragioni e di conoscere il processo, che deve seguire per
ottenere giustizia, senza dover ricorrere alla privata violenza. È questo il
motivo, per cui presso tutti i popoli la prima forma che giunse ad assumere il
diritto e quella dell' “actio”, che è il complesso degli atti e dei riti
solenni, che si debbono compiere per far valere il proprio diritto davanti al magistrate.
Atti e riti solenni, che presso genti come le latine, le quali imitano coi
gesti e coi riti. La posizione elevata del tribunal, sovra cui trovasi assiso
il magistrato, perchè – “sedendo quiescit animus, et sedendo ac quiescendo fit
animus prudens” -- trovasi soventi accennata dai filosofi latini, come indizio
della dignità, a cui era assunto colui, che e chiamato ad amministrare
giustizia. V. Henriot, “Mæurs juridiques et judi ciaires de l'ancienne Rome”).]
giudiziarii, ciò che un tempo dovette seguire nei fatti, finiranno per
contenere una storia simbolica dei varii stadii, per cui dovette passare
l'amministrazione della giustizia, prima di giungere ad essere accettata e
riconosciuta dallo spirito fiero ed indipendente dei primi capi di famiglia.
Che se si volesse spingere anche più oltre questa ri-costruzione logica e
concettuale del diritto romano, che ha a svolgersi nel seno della tribù,
potrebbe affermarsi con certezza, che le due prime figure di rei, contro cui la
giustizia umana associa i proprii sforzi colla giustizia divina e colla
esecrazione della generale opinione, dove essere quella del parricidas e del
perduellis. Ivi infatti è sopratutto l'uccisione del padre di famiglia, che per
il carattere patriarcale della comunanza viene ad essere considerato come padre
rimpetto a tutti i membri di essa, i quali talvolta continuano ancora a
chiamarsi col nome di fratelli, che è il grande misfatto contro la legge umana
e divina, il quale puo mettere in lotta le famiglie fra di loro, ed anche
rimanere impunito, quando l'autorità comune non si mette in movimento contro di
esso. Nè ripugna al carattere della comunanza patriarcale, che la punizione del
parricida acquistasse in certo modo un carattere tradizionale e fosse
accompagnata da certe pratiche, che possono anche avere un significato
simbolico, e che potrebbero anche essere state portate dall'Oriente. Tali sono
quelle, che più tardi ancora accompagnano la punizione del parricida; pratiche
tradizionali, che anche oggi in parte sopravvivono e non possono dirsi
compiutamente abbandonate anche presso le nazioni civili. Così pure dovette
essere un processo del tutto natu [Questa circostanza, che tutti i membri della
comunanza patriarcale si chiamano fratelli, è attestata dal Sumner MAINE, “The
early history of institutions”, e qualche cosa di analogo dovette accadere
ancora nella tribù italica, ove non vi ha dubbio, che i capi di famiglia sono
generalmente indicati col vocabolo di patres; poichè di questo stato di cose
rimasero ancora le traccie in Roma. È nota la punizione tradizionale contro il
parricida, ricordata ancora nel Digesto: “Poena parricidii more maiorum haec
instituta est, ut parricida, virgis sanguineis verberatus, deinde culleo
insuatur cum cane, gallo gallinaceo et vipera et simia; deinde in mare
profundum culleus iactatur ». Qui il giure-consulto lascia travedere, che la
pena del parricidio e conservata nel costume e trasmessa per via tradizionale –
“mos maiorum”. Essa pertanto dopo essersi mantenuta nel costume più che nella
legge, contro i parricidi in senso stretto, ha poi ad essere sanzionata dalla
lex POMPEIA, De parricidiis] rale, che condusse l'opinione generale di una
comunanza patriarcale a ravvisare un nemico in colui, che getta la
perturbazione nella comunanza stessa e si disponeva a tradirla coi nemici di
essa. Cosicchè non dubitarono di applicargli il nome stesso, che davano al
nemico, con cui erano in guerra, il qual nome era quello appunto di “perduellis”.
Cio intanto darebbe una spiegazione molto probabile e naturale del fatto, che fa
meravigliare gli stessi romani, per cui Romolo, prima e Numa, dopo chiamare col
nome di “parricidas” anche l'uccisore di un uomo libero, non che di quello per
cui le prime e sole autorità incaricate di perseguire e punire i mi sfatti in
Roma avrebbero assunto il nome di “quaestores parricidii” e di “duumviri
perduellionis”. Anche qui la legislazione di Roma comincia dal riconoscere come
pubblici reati quelli, che già hanno cominciato ad assumere questo carattere
nello stesso periodo gentilizio, e a questi sarebbe poi venuta aggiungendo man
mano quelli la cui repressione appare necessaria. Vi ha di più, ed è che nella
tribù già si incomincia la formazione di due ordini diversi di persone, che
sono i patrizi e i plebei, i quali ultimi più non entrano nei quadri
dell'organizzazione gentilizia, ma già cominciano ad es sere indipendenti dal
patriziato, sebbene ancora si trovino in condizione assai inferiore e non
abbiano potuto ancora dimenticare la loro antica origine servile. Di fronte a
questa condizione parmi non sia temeraria la congettura, che mi permetto di
avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno del pagus, non
dovette soltanto cominciarsi lo svolgimento dell'elemento giuridico, ma questo
diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali; in quanto che altro
dovette essere il diritto, che governava i rapporti fra i padri, che
appartenevano alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea della loro
parità ed uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto, che venne a
svolgersi nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi fra l'ordine
superiore dei padri e quello INFERIORE della plebe, il quale non potè a meno di
ritenere qualche traccia della superiorità che [La questione del “parricidium”
e della perduellio scorreno delle leges regiae.] si attribuivano i primi e
dell'inferiorità di condizione, in cui sanno di trovarsi i secondi. È solo col
dare la debita parte a queste due forme del diritto, le quali del resto trovano
la loro base nelle condizioni di fatto dei due ordini, che si possono spiegare
certe istituzioni del diritto romano, quali sarebbero quelle del “mancipium”,
del “nexum”, della “manus iniectio” e simili; le quali sono tutte forme
giuridiche, che non trovarono applicazione nei rapporti fra i padri e i loro
discendenti patrizii, ma soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i plebei. Se
si comprende infatti che un plebeo, il quale non ha altra garanzia da dare che
quella della propria persona, e costretto a dare a mancipio sè stesso o la
propria figliuolanza, o ad obbligarsi con quella severità, che era propria del
nexum, e che il patrizio insoddisfatto puo mettere la mano sopra di lui e
trascinarlo nel suo carcere, mediante la procedura della “manus iniectio”. Questi
modi di procedere non si possono invece comprendere fra due capi di famiglia
appartenenti alle genti patrizie. Nè serve il dire, che queste istituzioni
passarono poi effettivamente nel diritto quiritario; poichè anche questo e
l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, hanno sopratutto per iscopo di
governare e di reggere le plebi. Di più è un processo del tutto romano quello
per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto, non si dubita di
trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe a formarsi. E quindi
opportuno tentare la ricostruzione dell'una e dell'altra forma di questo
diritto per trovare in esso la spiegazione alcune singolarità del tutto
peculiari al diritto quiritario. Lo svolgimento di questa teorica tratta
appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. I giureconsulti
col dire che il “ius hominum causa constitutum est”, enunciarono una verità che
trova una piena conferma nei fatti, quando seguasi il processo, con cui il
diritto vennesi formando fra le genti del Lazio. Finchè trattasi di persone che
appartenno al medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità patriarcale,
stabiliti in seno delle varie aggregazioni, possono bastare a qualsiasi
emergenza. Così invece non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai
diversi gruppi, venivano a mettersi in rapporto fra di loro; poichè in allora,
mancando la comune discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, convenne di
necessità porre le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune diritto.
Di qui provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto, che possono
spargere molta luce sulla formazione del diritto quiritario, e dileguare una
quantità di sottigliezze, che furono immaginate per spiegare quel diritto,
senza cercarne la causa nelle condizioni sociali che ne determinano la
formazione. Il primo di tali caratteri sta in questo, che i rapporti giuridici,
sorgeno dapprima fra i capi di gruppo, anzi che fra i singoli individui, che sono
assorbiti ed unificati nel medesimo. Di qui le solennità, che dove
necessariamente accompagnarne gl’atti, come quelli che non riguardavano gli
interessi particolari di questo o di quell'individuo; ma si rifereno
all'interesse dell'intiero gruppo da lui rappresentato, e così hanno, per usare
il linguaggio moderno, un'importanza pressochè internazionale. Non fu pertanto
amore di formalismo, che guida un popolo così eminentemente pratico come il
romano nella formazione del proprio diritto; ma questo, nei suoi esordii apparve
ingombro di formalità e difinzioni, solo perchè, dopo essere stato preparato in
un periodo di organizzazione sociale, e trapiantato in un altro dallo spirito
conservatore del popolo romano. Anzichè archittettare formalità artificiose, i
romani si valgono invece di quelle, che si sono formate nella realtà dei fatti
in un periodo anteriore, e con piccole modificazioni, che sono rese necessarie
dalle nuove esigenze, fanno entrare in esse i rapporti, che si vengono
svolgendo più tardi nella comunanza civile e politica. Nel che seguono un
processo, che non abbandonno neppure più tardi; quello cioè di non creare
giammai una forma novella, finchè quella già prima [Il formalismo è certo uno
dei caratteri più salienti del diritto di Roma. Si comprende quindi, che I
filosofi se ne siano largamente occupati e fra gli altri il SUMNER Maine,
L'ancien droit, in cui si occupa delle finzioni legali, e sopratutto poi
JHERING, che ha a dedicarvi buona parte del “L'esprit du droit Romain”. La
conclusione, a cui sarebbero venuti questi filosofi, e, che questo formalismo
del diritto di Roma dove essere attribuito alla predilezione del popolo romano
per l'elemento esteriore; carattere, che Roma avrebbe comune con tutti i
popoli, e proveniente da ciò, che i medesimi riguardano più alla forma che alla
sostanza. Senza voler qui entrare in una discussione, che mitrarrebbe troppo in
lungo, mi limito unicamente ad osservare, che il formalismo non è un fenomeno,
che comparisca presso tutti i popoli. Esso compare soltanto, al lorchè
istituzioni formatesi in un'epoca si trasportano in un'altra, in cui più non si
comprenda la significazione delle medesime. Dei popoli non si può dire, che
essi siano amici della formalità; perchè essi cercano di esprimere ciò che
sentono col gesto, cogli atti e colle parole ad un tempo, e quindi hanno una
mimica, la quale, anzichè essere artificiosa ed architettata, tende ad essere
l'espressione effettiva e reale delle loro sensazioni ed emozioni. Quindi, il
formalismo, anzichè essere l'indizio di un popolo, è invece l'effetto dello
spirito conservatore, che trasporta una forma creata in un periodo ad un altro,
in cui esse hanno perduto qualsiasi significazione. Tutte le forme che si
conservano come tali sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa, che sono
trapiantate in un'altra, la quale più non le capisce, e quindi si limita ad
osservarle pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale,
nel di ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se divenne
formalista, e perchè il patriziato romano vuole conservare le vestigia del
passato e fare entrare nella forma preparata nel periodo gentilizio un nuovo rapporto
che e creato dalla convivenza civile e politica colla plebe. Non è quindi da
ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza
di esso; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che
alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente
congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare la forma
antica, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova, che si viene alla
conseguenza, per cui “a forma dat esse rei”. Ciò che accade nel diritto,
avverasi eziandio nel linguaggio, il quale nella sua formazione adatta la parola
al concetto; il che non impedisce pero, che più tardi, trasportandosi la stessa
parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate, la cui
origine può talvolta essere poi difficilmente compresa.] esistente possa ancora
bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli inizii di Roma
questo diritto e veramente disacconcio, dal momento che allora soltanto si usce
da una condizione di cose, in cui il padre rappresenta effettivamente quel
complesso di persone e di cose, che dipendeno da esso. Quindi e naturale che
per qualche tempo il diritto conserva quel medesimo carattere, che aveva
acquistato durante il periodo gentilizio. Solo comincia a diventare artificioso
e disadatto alle nuove condizioni sociali il diritto di Roma, quando al PADRE
si venne sostituendo il CITTADINO, e più ancora quando al cittadino si sostitui
L’UOMO LIBERO e L’UOMO NUOVO. Del resto non è poi difficile il ricostruirsi nel
pensiero un'organizzazione, in cui sia veramente il PADRE, che compia tutto
ciò, che si riferisce al gruppo da lui rappresentato, per guisa, che esso sia PADRE
(quanto ai figlio), PADRONE (quanto al servo), PATRONO (quanto al cliente), e
rappresenti il gruppo da lui governato, ogni qualvolta trattasi di entrare in
rapporto con altri gruppi. Di questo padre antico ci hanno conservato la
imponente figura non tanto gli scrittori di cose giuridiche, che lo
irrigidiscono di troppo perchè lo riguardano sotto l'aspetto esclusivamente
giuridico; ma i filosofi latini, allorchè ci dipingono, ad esempio, APPIO
Claudio, capo di una grande famiglia, custode geloso dell'antico costume, il
quale continua, ancorchè vecchio e CIECO, ad esercitare, venerato e temuto ad
un tempo, la propria autorità sui figli, sui servi, e sopra un numero
grandissimo di client. Del resto anche il diritto lascia di quando in quando
travedere quest'aureola patriarcale, che circonda il capo di famiglia, come lo
dimostrano le seguenti parole attribuite ad Ascanio. “Moris fuit, unumquemque
domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quod
appareret quid quisque de reditibus suis, quid de arte, de foenore lucrove sepo
suisset, et quo die, et quid idem sumptus damnive fecisset.” Tuttavia anche
questa descrizione tende già a dare all'autorità del padre un carattere
essenzialmente giuridico. Mentre invece, riportandoci al periodo gentilizio,
questa figura primitiva presentasi anche [Cic., Cato maior -- È poi sopratutto
nei filosofi latini, e specialmente nei comici, come Plauto, che si può
facilmente scorgere la differenza fra la patria podestà, quale era
giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel fatto. È da vedersi in
proposito Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome. Bruns,
Fontes juris romani antiqui. Edit. V, Friburgi] più imponente col suo carattere
patriarcale e religioso ad un tempo; e quindi si può comprendere come
l'acceptum, l'expensum, lo sponsum, lo stipulatum, l'actum, il iussum del capo
di famiglia si cambiano in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il
substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore. Un
secondo carattere poi sta in questo, che il diritto presentasi fra questi capi
di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse, come il solo mezzo per
stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti il suo impero non
fosse riconosciuto non ha altro espediente, che quello di ricorrere alla manuum
consertio, la quale, allargandosi dalla famiglia alle genti, e da queste alle
tribu, mantenne le medesime in uno stato di guerra permanente, i cui rancori si
verrebbero poi perpetuando di generazione in generazione. Accenno qui ad un
concetto, che sarà svolto più largamente altrove. Diregola si suol cercare nel
diritto quiritario il complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che
potevano essere richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso
vige. Esso invece non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi
stevano nel costume e nella consuetudine; ma comincia dal comprendere quelli,
che erano resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. E in
questo modo, che esso comincia dall'essere un ius quiritium, che si aggira su
pochissimi concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili
evenienze; poi trasformasi nel “ius proprium civium romanorum”; quindi
assorbisce anche nella propria cerchia le istituzioni del ius gentium; e da
ultimo giunge ad informarsi persino al ius naturale; concetti questi che, se
non avevano ancora una configurazione scientifica, viveno però già nella
coscienza generale del popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia.
Ciò mi conferma in una antica convinzione, che ho già avuto occasione di
esporre nell'opera: La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, la
quale consiste in ritenere, che anche nelle epoche primitive il diritto non
confondesi colla forza; ma compare invece qual mezzo per reprimere la forza e
la violenza. So che questa opinione ha ad essere combattuta da egregi che si
occuparono dell'argomento, e fra gli altri da Zocco-Rosa, Preistoria del
diritto. Milano, e da Puglia, L'evoluzione storica e scientifica del diritto e
della procedura penale, nota; ma i fatti mi inducono a persistere nella
medesima. Non è già che io nego, che siavi stato un periodo, in cui abbia
predominata la forza e la privata violenza: ma quando presentasi il diritto,
esso non solo non confondesi colla forza, ma si propone senz'altro di
reprimerla, obbligandola a seguire certi processi, che ne impediscono l’esagerazioni
e gl’eccessi. In questo senso aveva ragione il filosofo di scrivere – “Nam
genus humanum. Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua cecidit sub
leges arctaque iura.” Lucretius, De rerum natura. Cio è anche dimostrato dal
carattere del tutto particolare, che assumono le guerre in questo periodo, e
che si mantiene ancora per qualche tempo nella storia di Roma. Tali guerre
infatti il più spesso prendono le mosse da qualche controversia, di carattere
pressochè famigliare, che viene poi estendendosi mediante le aderenze e le
parentele, e riduconsi in sostanza a scambievoli scorrerie, che le varie tribù
e genti vengono facendo nei rispettivi loro territorii; scorrerie, che si
sospendono mediante le induciae nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere
riprese nell' anno seguente. Ciò fa quasi credere, che queste genti primitive sono
in uno stato perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso, perchè è
contraddetto dalle solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di
guerra, come la formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci. Un ultimo
carattere infine, sta in ciò, che la formazione del diritto non si ha dapprima
nei rapporti interni dei singoli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le
famiglie, fra le genti, fra le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i
primi vocaboli di significazione eminentemente giuridica contrappongono sempre
l'uomo all'uomo, ed indicano dei rapporti amichevoli od ostili, che vengono a
svolgersi fra i diversi capi di gruppo. Di qui la conseguenza in apparenza
strana, ma certamente fondata sui fatti, che la formazione di un diritto, che
governava i rapporti fra le varie genti, precede la formazione del diritto privato
propriamente detto: il che è dimostrato anche dalla considerazione, che nei
filosofi si discorre dei “iura gentium”, prima ancora che si discorra del ius
quiritium e del ius civium romanorum. Infatti, i iura gentiun, i foedera, le
sponsiones fra i capi delle varie genti sono già rapporti, che si sono svolti
anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il ius quiritium
dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla stessa Roma; il
che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed umane, che ci è
descritto dai filosofi latini. Intanto e sopratutto sui mercati, ove compareno
i varii capi di famiglia, ed ove, oltre gli scambi, si puo anche trattare le
alleanze e le paci, che comincia la formazione del diritto; il quale,
esplicandosi fra capi di famiglia, che appartenano a genti diverse, e che non
erano ancora soggetti al medesimo diritto, dove necessariamente essere dapprima
piuttosto un “ius gentium”, che non un diritto, che potesse chiamarsi ius
civile. Questo anzi non potè formarsi altri menti, che col trasportare fra i
cittadini della medesima città quelle forme, che si sono prima elaborate nei
rapporti contrattuali fra i capi delle varie genti e famiglie. Si può quindi
affermare, che anche quel diritto pdi Roma, che appare nella storia con
caratteri di maggior rozzezza e violenza, non trova sempre la propria origine
nella forza, come molti sostengono; ma che in parte ha invece un'origine
essenzialmente *contrattuale*, come la città, in cui esso era chiamato a
ricevere il suo svolgimento. Il diritto, anziché doversi confondere colla
forza, compare invece, allorchè si comincia ad uscire da uno stato di violenza,
e se la forza continua ancora nei rapporti fra le varie tribù, gli è perchè
esse non riuscirono ancora a sottoporsi, mediante accordo, all'impero di un
medesimo diritto. E solamente più tardi, allorchè la città comincia ad essere
abbastanza forte e potente, per imporsi ai singoli gruppi, che l'autorità
civile potè penetrare eziandio nelle mura do [Non mi dissimulo l'arditezza di
una idea, che conduce in sostanza a dire, che si forma dapprima il ius gentium,
che non lo stesso ius civile, e che il ius quiritium e un diritto, formatosi
dapprima fra le genti e i loro capi, e poscia trapiantato fra i quiriti: ma
questo processo è per tal modo confermato dai fatti e ne appariranno man mano
prove così evidenti, che mi sembra impossibile il poterlo negare. Del resto la
ragione di esso trovasi in questo, che mentre la famiglia poo fare a meno del
diritto nei suoi rapporti interni; questo invece e indispensabile nei rapporti
fra le varie famiglie e fra le varie genti. Che anzi, dacchè sono nel dominio
delle induzioni, aggiungerò ancora, che ai iura gentium dovette precedere il
senso di quei iura naturalia, quae natura omnia animalia docuit; per guisa che
il diritto nel suo svolgimento di fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze
spontanee dell'umana natura. Poi sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le
varie genti. Solo più tardi e comparso nell'interno di Roma. Esso insomma nei
fatti seguì un processo del tutto opposto a quello che segue la scienza del
diritto in Roma; la quale comincia invece dalle cautele del *ius civile*. Poi
venne ad abbracciare anche l'equità del *ius gentium*. Più tardi soltanto
giunse ad innalzarsi all'umanità del *ius naturale*. Vi ha però questa
differenza, che i iura naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli
istinti dell'umana natura, e i primitivi iura gentium consistono in un
complesso di pratiche fra le varie genti, imposte dalle necessità di fatto;
mentre il ius gentium accolto dal praetor e il ius naturale dei giureconsulti
sono già nozioni astratte, a cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il
ragionamento, e forse neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio
della filosofia, atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi
rimetto, quanto allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale,
a ciò che ho scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita
sociale, lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi
arrecate.] mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere
esclusivamente morale o religioso, imponendo un diritto, a cui tutti devono
inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. I
caratteri del diritto che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti,
appariscono eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine
abbiano avuta una portata veramente giuridica, quali sono quelli di “connubium”,
di “commercium” e di “actio”, e dalla significazione, che questi vocaboli hanno
anteriormente alla formazione stessa di Roma. Infatti non può esservi dubbio,
che questi tre concetti già avevano un contenuto preciso, allorchè comparve la
comunanza romana. Ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che
appartenga a questa od a quella persona, ma piuttosto dei rapporti, di
carattere pressochè *contrattuale*, che esistono fra le famiglie, le genti e le
tribù e i capi rispettivi delle medesime. L’ “action”, nel suo significato
giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che
essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi,
ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di
essere nel buon diritto. E solo più tardi, che questi vocaboli, i quali
significavano primitivamente dei rapporti, che intercedevano fra le varie genti
e i loro capi, trapiantati fra i cittadini vennero a costituire altrettanti
capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali, sotto cui ebbe poi a
svolgersi il diritto quiritario. È poi degno di nota, come questi vocaboli, che
primi acquistarono una significazione giuridica, abbiano questo di particolare,
che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando per tal modo come il diritto sia
veramente nato colla società umana, e sia chiamato ad essere il “vinculum
societatis humanae”. Nel “connubium” infatti abbiamo una persona, che esce da
una famiglia per entrare in un'altra. Nel “commercium” abbiamo una persona,
che, obligando se stessa od alienando la sua proprietà, addiviene a quelle
molteplici relazioni di affari e di negozii giuridici, di cui si intesse la
vita sociale sotto l'aspetto economico. Nell' “actio”, infine, abbiamo
parimente una persona che, ritenendosi lesa in questo o in quel diritto da
un'altra persona, lo afferma e lo fa valere di fronte alla medesima,
appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi colle esigenze della vita
sociale. Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte all'altro uomo, e si può
affermare con ragione che “hominum causa constitutum est.” Intanto ciascuno di
questi concetti è eminentemente sintetico e comprensivo per modo che ognuno può
servire come punto di partenza a tutto un complesso di diritti; il che apparirà
ancora, allorchè Gaio, riassumendo l'elaborazione scientifica di molti secoli,
finisce per con chiudere: “omne ius vel ad personas, vel ad res, vel ad
actiones pertinet.” Non ignoro come questa classificazione sia stata di recente
combattuta sopra tutto in Germania, e fra gli altri. dallo stesso SAVIGNY, il
grande iniziatore del movimento contemporaneo negli studii storici intorno al
diritto, il quale giunse fino a sostenere, che la distinzione di Gaio non ha nè
valore storico, nè valore intrinseco. Traité de droit Romain. Trad. Guexoux,
Paris. Parmi tuttavia, che chi consideri la correlazione perfetta, che vi ha
fra la classificazione teorica di Gaio, e i concetti da cui il diritto
quiritario prende le mosse, e tenga conto di quella dialettica potente, che
stringe insieme le varie parti della giurisprudenza romana, malgrado il tempo per
cui durò l'elaborazione di essa, possa difficilmente ammettere, che qui
trattisi, come il SAVIGNY dice dell'opinione individuale di un giureconsulto, e
che come tale sia priva di qualsiasi valore storico ed intrinseco. Essa invece
ha valore storico ed intrinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la
giurisprudenza romana, in quanto che e facile il dimostrare a suo tempo, che
nel diritto civile romano tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e
quindi alle persone non e che uno svolgimento del concetto primitivo del “connubium.”
Tutta quella relativa alle cose non fa che una deduzione dal concetto di “commercium.”
Infine, quella che si riferisce alle azioni, non fu che il frutto di
un'elaborazione lenta e non mai interrotta del concetto primitivo di “actio”.
Cfr. al riguardo Carle, “De exceptionibus in iure romano” (Torino). L'autore che
pose meglio in evidenza la correlazione fra “connubium”, “commercium” ed “actio”,
e LANGE, Histoire intérieure de Rome. Che anzi i giureconsulti proseguirono lo
svolgimento di queste forme essenziali del diritto, senza mai confondere lo
svolgimento dialettico dell'una con quello dell'altra; per modo che certe
singolarità del diritto romano solo si puo spiegare, in quanto che la dialettica
giuridica non consente di confondere due ordini diversi di idee. Di più se
fosse qui lecito di porre innanzi una considerazione, che puo parere TROPPO
filosofica, non dubito di affermare, che nel concetto romano la distinzione
seguita da Gaio esprime tre atteggiamenti diversi del diritto compreso in tutta
la sua larghezza, il quale appartiene alla persona, si spiega sulle cose, e
infine, violato, affermasi mediante l'azione. È da questa concezione sintetica
e potente del diritto in Roma, che procede la primitiva indistinzione fra il
diritto *personale*, il diritto reale, e l'azione, che serve a difenderli. Fra
questi concetti presentasi anzitutto quello di “connubium”, che nella sua
significazione primitiva indica la facoltà, che appartiene ad individui, i
quali appartengono a genti diverse, di imparentarsi fra di loro, mediante
quelle nozze, che dalle genti sono riconosciute come giuste e legittime. Esso
ha per effetto di mescolare le stirpi, e quindi si comprende, che nell'alto
concetto, che hanno le genti patrizie dei proprii antenati e del SANGUE, che
corre nelle loro vene, questo dove essere un rapporto, in cui tendevano
piuttosto a restringersi, che non ad estendersi. Solo le genti, che
appartenevano al medesimo “nomen” -- e questo il latino, il sabino o l'etrusco
– hanno fra di loro comunanza di connubii, il che è anche provato dalla
tradizione, secondo cui, se i Ramnenses vuoleno il connubium coi Titienses,
doveno ricorrere alla violenza ed alla forza; il che pero non tolse, che il MESCOLARSI
DEL SANGUE delle due tribù sia stata la causa del loro successivo affratellarsi
per formare una medesima Roma. Furono infatti le DONNE di origine SABINE che
secondo una tradizione, la quale è certo ben trovata -- si interposero fra i
mariti ed i fratelli e riuscirono così ad affratellarli, dando perfino il loro
nome alle curie, in cui essa è ripartita. Cosi pure si comprende, che anche fra
le genti, che appartenevano allo stesso “nomen” e facevano anche parte della STESSA
tribù, il connubium non potesse esistere fra i due elementi, di cui [È questa
la significazione primitiva, che si attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi
di “connubium” fra le varie genti, o fra il patriziato e la plebe. E solo nel
diritto quiritario, che il “ius connubië” passa a significare il diritto di
addivenire alle iustae nuptiae, e venne così a dare origine a tutti quei
rapporti giuridici, che si riferiscono alla famiglia. È da esso infatti, che
deriva la manus, che fonda la famiglia; la patria potestas, che spiegasi,
allorchè nascono dei figli; e infine la stessa successione legittima, la quale
si avvera, allorchè, morendo il capo di famiglia, si discioglie quel gruppo, e
si riparte quel patrimonio, che in lui trovavansi unificati. Questa tradizione
è riferita da Livio e da Dionisio: ma non sembra essere confermata dai fatti,
perchè alcuni dei nomi delle curie primitive, che giunsero fino a noi, sembrano
essere tolti più dai luoghi che dalle persone. V. LANGE, Hist. intér. de Rome. Ad
ogni modo questa è una tradizione, che è certo ben trovata, in quanto che
dimostra l'importanza, che dove avere un avvenimento che la rompe col passato,
e rende possibile il connubium fra persone che non appartenevano al medesimo
nomen, preso nel senso di stirpe e di schiatta. E questa prima MESCOLANZA DEL
SANGUE latino col sabino, che rese possibile la potente attrazione esercitata
da Roma su tutte le stirpi italiche, il che è riconosciuto da CICERONE, De Rep.]
l'uno in origine rappresenta la classe dei vincitori e l'altro quella dei
vinti. Non poteva quindi esservi connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè
fra i patroni ed i clienti, e neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie
gradazioni costituivano pressochè due caste diverse, il cui sangue non dove
confondersi, come lo dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere
anche più tardi per accomunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe. Intanto
pero questo connubium, frammezzo a genti, che costitui vano per così dire
altrettante piccole potenze, riducesi in realtà a staccare una donna da un
gruppo, di cui prima fa parte, per trasportarla in un altro; il che importa eziandio
un cambiamento nel culto gentilizio, perchè la donna abbandona il culto dei suo
padre per diventare partecipe di quello del marito. Di qui la necessità per le
giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella della “confarreation”, a
cui assisteno i capi di famiglia della gente e delle tribù, a cui appartene lo
sposo e la moglie, e che importa la comunione delle cose divine ed umane. Di
qui la conseguenza eziandio, che quanto era dalla moglie recato con sè dovesse
diventare [A chi chiedesse col linguaggio ora adottato, se le genti italiche
praticassero l'endogamia o l'exogamia (V. SPENCER, Principes de sociologie), si
dove rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame, perchè
ritenevano nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di
parentela, fra quelle persone cioè, fra cui esiste, secondo l'antico linguaggio,
il “ius osculi”, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano endogame nel
senso, che il Patrizio, per scegliere la propria compagna, non puo uscire dalle
genti che appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che questa consuetndine
tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali, misti fin dalla
origine, furono anche in seguito i più facili a mescolare il proprio sangue con
altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma. Torino. Parmi
allo stato attuale degli studii incontrastabile l'opinione, che considera la “confarreatio”
come esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori seguono tale opinione
EsMein (“La manus, la paternité et le divorce” – “Mélanges d'histoire de droit,
Paris); Glasson (“Le mariage civil et le divorce, Paris), e pare anche il
nostro Brininel suo bel lavoro sul “Matrimonio e divorzio nel diritto romano” (Bologna).
Del resto varii indizii di questa origine patrizia della “confarreatio” si
hanno nel carattere religioso della cerimonia, nei X testimonii che ricordano
le X curie delle tribù, e in ciò che le leggi regie da Dionisio attribuite a
Romolo ed a Numa, non ricordano che le nozze confarreate. V. Bruns, Fontes. Per
ciò che si riferisce alla famiglia romana è fondamentale l'opera dello
SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano. Padova] proprietà del marito, o di
colui, sotto la cui potestà trovavasi ancora il marito; e che la medesima, per
entrare nei quadri del gruppo, a cui venne ad aggregarsi, cadesse sotto la
manus del capo di famiglia, ed acquistasse la posizione migliore, che puo esservi
nella medesima, che era quella di figlia – “filiae loco”. Viene in seguito il “commercium”,
il quale in questo periodo non significa ancora quel complesso di diritti, che
scaturiscono dal dominio, ma ha il suo vero e proprio significato di rapporti
commerciali, che possono intervenire fra i capi di famiglia, appartenenti a
genti diverse. Qui il rapporto è assai più superficiale, ed è per sua natura
tale, che può essere di reciproco vantaggio per i contraenti. Il “commercium”
pertanto prende un più largo sviluppo; ed esiste non solo fra il patriziato e
la plebe, fra cui era reso indispensabile dalla coesistenza sul medesimo suolo,
ma anche fra coloro, che appartengono a stirpi diverse. Che anzi fra queste
sonvi anche le stirpi, che, per avere attitudine maggiore ai commerci, fannosi
in certo modo intermediarie dei medesimi fra le varie genti e tribù; il quale
ufficio fra le genti italiche sembra essersi compiuto sopratutto per opera dell'elemento
etrusco. Sono questi commerci, che vengono ravvicinando le varie genti, e
conducono gradatamente a cambiare certi siti neutrali in luoghi di riunione ad
epoche de terminate e fisse – “conciliabula”, “for a” --. È poi un grande
vantaggio [Anche qui la significazione primitiva del vocabolo “commercium”
appare da ciò, che Roma fin dagli inizii trovasi circondata da popolazioni, con
cui pratica il “commercium”. È solo per opera del diritto quiritario, che il
concetto di commercium, applicato fra i cittadinidi una medesima città, dà
origine al “ius commercii,” il quale poi, sviscerato negli elementi, che
entrano a costituirlo, viene a scindersi; nel “ius emendi ac vendendi”, che
operasi colla “mancipatio”; nel “nexum”, da cui deriva la teoria delle
obbligazioni; e infine nella “testamenti factio”, che comprende la facoltà di
fare e di ricevere per testamento, e quella perfino di essere testimonio nel
medesimo. Cfr. Lange, Histoire intérieure de Rome. Per tal modo, nello
svolgimento dialettico del diritto quiritario la successione legittima e la
testamentaria vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee in quanto che la
prima dipende dal connubium, e l'altra deriva dal commercium. Questa forse è la
vera ragione della massima. “Ius nostrum non patitur eumdem in paganis testato
et intestato decessisse, earumque rerum naturaliter inter se pugna est.” Pomp.,
I, Dig. È proprio infatti dei giureconsulti, che essi una volta, che hanno
separato due ordini di idee, non li confondano più insieme. Secondo il SUMNER
Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una comunanza
incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle proprie
fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine; vantaggio, che e una delle
cause, per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio delle
popolazioni latine, potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed
assimilazione potente] le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente; fra le
quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che serveno per trattare le
paci e per il mercato (Village Communities). Secondo Maine, si ha un indizio
dell’associazione del commercio e della neutralità negli attributi di MERC-V-RIO,
dio comune alle stirpi di origine aria, che da una parte sarebbe il dio dei
termini, il primo dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono
del commercio, dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto
da questa circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito
si fanno gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti,
deriva questa importantissima conseguenza, che come in quest'epoca non si
distingueva il diritto privato dal pubblico, così non distinguesi il diritto
commerciale, da quel diritto, che ora si chiama internazionale. L'uno e l'altro
erano compresi nel ius gentium, il che spiega come questo vocabolo talvolta
indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda
anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non puo però esservi
dubbio, che il ius gentium, allorchè viene a penetrare nel diritto romano, per
opera del “praetor”, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e
stranieri, ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto
bene dimostrato da Fusinato nel suo accurato lavoro “Dei Feziali e del diritto
feziale”, Accademia dei Lincei. Memorie della Classe di scienze mor. stor.
filol.; del quale credo di poter dire, senza offendere la modestia di un
collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche concetto direttivo in
una materia, che certo ne ha grande bisogno. È poi noto, che la grande autorità
sull'argomento è Voigt, Das ius naturale, bonum et equum, gentium, etc. Leipzig,
dei quali il 2° si occupa pressochè esclusivamente del ius gentium. Fra il modo
di vedere di questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza,
che essi ritenne il concetto ed anche la denominazione del ius gentium, come
opera riflessa dei giureconsulti; mentre per me il ius gentium esiste nel fatto
e nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche
nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le
espressioni di iura gentium, e di iura naturalia, mentre dopo i vocaboli
adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano
l'unificazione, che vi si è operata. MOMMSEN, Histoire Romaine, da tale
importanza alla posizione eminentemente commerciale di Roma, da ritenere la
popolazione primitiva di essa comededita al commercio e Roma come una città
commerciale. PADELLETTI ha combattuta tale opinione (Storia del diritto romano)
e parmi in verità che il fatto, per cui Roma divenne l'emporio delle genti del
Lazio, possa essere spiegato senza dire, che essa fosse una città sopratutto
commerciale; poichè anche per una città agricola e militare ad un tempo, come
era Roma nei propri inizii, puo essere grandemente utile di essere in tal sito,
da richiamare il commercio [E sui mercati, dove convenivano persone
appartenenti a comunanze diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più
semplici, fondate unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche
la compra e vendita, che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era
già divenuta una grande città. Solo deve avvertirsi, che questa compra e
vendita primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano
a comunanze diverse, fra cui non esiste forse comunione di diritto, non dove
naturalmente ritenersi perfetta, se non era accompagnata dalla tradizione della
cosa e dal pagamento del prezzo, come ha a stabilire anche più tardi la
legislazione decemvirale. E qui parimenti, che dove nascere e svolgersi quella
sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere riconosciuta dal
diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e più acconcio per
dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni. Sono eziandio queste fiere,
che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che anche questa posizione
eminentemente commerciale l'ha resa meno esclusiva nell'accogliere nuovi
elementi. Del resto anche i romani senteno l'eccellenza della posizione della
loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. Non può quindi, a parer mio, essere
giustificata l'opinione di coloro i quali ritengono, che solo più tardi si
fosse introdotta in Roma l’emptio venditio, e che la sponsio e la stipulatio,
che certo già esisteno nei rapporti fra le varie genti, sonno state invece
importate di Grecia, per ciò che si riferisce alle convenzioni private.
L'opinione erronea proviene dal credere, che il diritto quiritario comprende
dapprima tutto il diritto in uso presso i romani; mentre invece esso fu una
codificazione e un adattamento progressivo del diritto già esistente nelle
consuetudini. Esso quindi comincia dal comprendere solo quella parte di esso,
che era confermata da una “lex publica”, come lo dimostrano le antiche
espressioni di “agere per aes et libram”, di “facere testamentum, nexum,
mancipium secundum legem publicam”. Quindi, accanto al ius quiritium, visse
sempre in Roma un ius gentium, che, senza aver ricevate le forme quiritarie, e
però sempre adoperato e forse anche applicato nelle controversie dai
recuperatores, anche anteriormente all'istituzione del praetor peregrinus. Ciò
è provato dai filosofi latini e sopratutto da Plauto, che ne danno come usuali
e frequenti certe forme di negozii e di atti, che non risultano ancor sempre
penetrati nel diritto quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o
stipulatio, atto romano per eccellenza, dai romani applicato nei trattati
pubblici e nelle convenzioni private. Può darsi quindi, che le genti italiche
l'avessero comune colle elleniche, e che la espressione spondeo fosse anche
comune ai due popoli. Ma i romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo d’altri,
nè aspettarono ad adoperarlo solo piu tarde verso come sostengono fra gli altri
il MurueAD, Histor. Introd. e Leist, Graeco- Italische Rechts geschichte. Solo
può ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente nell'uso e davanti ai
recuperatores, la sponsio o stipulatio penetra anche nello stretto diritto
civile ed e adottata come forma propria del medesimo] dero più tardi occasione
al giureconsulto Manilio di concretare in poche parole delle formole acconcie
per concepire quelle vendite, che sono più frequenti per una popolazione
agreste; delle quali formole alcune pervennero a noi e potrebbero trovare
riscontro in formole, ancora oggi usate nelle stesse occasioni, salvo che
queste non hanno più la sobrietà e precisione antica. È qui infine, che dove
prepararsi la formazione di un ius gentium, che ha dapprima un carattere
commerciale, come il commercium da cui esso deriva, e che, accanto al diritto
proprio di ogni singola gente o tribù, era indispensabile per le transazioni
commerciali fra i capi di famiglia, appartenenti a genti ed a tribù diverse.
Sia pure, che solo più tardi questo modesto ius gentium, formatosi sulle fiere
e sui mercati, richiami l'attenzione del pretore, e gli dia animo per scostarsi
dalle formalità ormai divenute soverchie del ius proprium civium romanorum: cio
però non toglie, che le origini di quelle lente formazioni, che si verificano
nella coscienza generale di un popolo, si debbano talvolta anche cercare in
un'epoca di gran lunga anteriore, come accade delle piccole sorgenti, che solo
appariscono degne di osservazione e di ricerca, quando si scorge il corso
maestoso del fiume, che ebbe a derivarsi da esse. Da ultimo non può esservi
dubbio che, già nel periodo gentilizio, dovette essersi formato il concetto
dell' “actio”, ma questa non significa un mezzo accordato dalla legge o dal
pretore, per far valere in giudizio un proprio diritto, ma e, per dir cosi, il
diritto stesso, che mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di
atti, che erano indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento. Il poco che
pervenne a noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'HuSCHKE, Iurispr.
anteiust. quae supersunt, ed è una prova dell'attitudine dei veteres
iurisconsulti a sceverare da un fatto tutto ciò, che in esso eravi di
giuridico, modellandolo in una formola tipica, che puo poi servire per tutti i
casi dello stesso genere. Accostasi a questo concetto dell' “actio”, nella sua
significazione primitiva, l'ORTOLAN, Histoire de la legislation romaine, Paris,
parla dell'azione nel periodo decemvirale. “Action est une dénomination Générale.
C’est une forme de procéder, une procédure considérée] È a questo punto, che si
può trovare la ragione, per cui il diritto di tutti i popoli e quindi anche il
romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura, che non come
legge, che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo di
famiglia è esso il sovrano nella propria casa, egli NON HA BISOGNO CHE LA LEGGE
VENGA A RICORDARGLI QUALI SIANO I SUOI DIRITTI. Questo diritto egli porta con
sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza. Quindi, se il medesimo diritto
venne ad essere violato, egli non può aspettare che lo Stato, che quasi ancora
non esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ha ad
essergli arrecato. Come quindi è il capo di famiglia che vendica l'adulterio, o
che corre sui passi del ladro che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa,
mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno osa
ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che,
quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un
figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza
della intiera comunanza, che è suo quel fondo, quello schiavo, quel figlio.
Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del
diritto. Prima il diritto esiste allo stato latente, ed ora si produce, si
afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo. Quest'azione
tuttavia, non è ancora la “legis actio”; perchè in compierla l'uomo offeso non
ispirasi ad una *legge*, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso
intimo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto,
sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di
famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere
anche alla violenza ed alla vendetta. Quindi è, che se per avventura verrà a
formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre
da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio
diritto, dall'altra contenga il prorompere violento di colui, che ha ad essere
dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent la
constituer.” Qui però l'autore parla già della “legis actio”. Ma se noi andiamo
più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora “legis actio”, ma semplicemente
“actio”, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un modo di *agire*,
ed è anzi il diritto stesso in azione. Cfr. Carle, La vita del diritto. È poi
notabile, come per i latini il vocabolo “agere” indichi un'azione continuata,
che può scindersi in parti diverse; mentre “facere” si adopera di preferenza
invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per così dire, in un unico
contesto.] offeso nel proprio diritto, l'occasione non dove certamente essere
trascurata. E quindi prima il mos, che comincia coll'additare la via
consuetudinaria, a cui debbe appigliarsi colui, che vuol far valere il proprio
diritto. Poi e il fas, che intervenne anch'esso e dichiara empio chi non segue
quel determinato rito. Ed infine sarà anche il ius, che venne notando in certo
modo i varii stadii, per cui passa quella procedura, e obbliga i contendenti a
passare, almeno per forma – “dicis gratia” -- , per ciascuno di questi stadii. E
in tal modo, che all'actio violenta, rozza, avida, appassionata dell'individuo
sottenne la legis actio, consacrata dalla legge, compassata e lenta, quasi per
attutire le passioni irrompenti dei contendenti; ma che intanto ricorda ancora
gli stadii dell'anteriore violenza, quasi per ricordare che a quella dovrebbe
farsi ritorno, quando la legge non e rispettata. Non è quindi da approvarsi, a
mio avviso, l'opinione di coloro, i quali ritengono che il prevalere delle
norme procedurali nel diritto, e quindi anche nel romano, sia prevenuto da ciò,
che sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La ragione di questo
fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle origini stesse della
convivenza civile e politica. La causa del fatto sta in ciò, che l'opera della
legge negl’inizii e sopratutto necessaria non tanto per assicurare il diritto,
quanto per reprimere le reazioni violente, a cui abbandonavasi colui, il cui
diritto e violato. In questa parte diritto privato e diritto penale segueno
analoghe vicende. Al modo stesso, che la legge penale non mira tanto a punire i
misfatti, quanto piuttosto a porre dei confini alla vendetta, e rende cosi
obligatoria quella composizione a danaro, che dipende dall'accordo delle parti:
cosi anche le norme procedurali comparvero le prime, non tanto perchè i popoli
comprendeno più la forma che la sostanza; ma perchè il primo e più urgente
bisogno di una società, in via di formazione, e quello di impedire fra i
consocii la manuum consertio, ossia l'esercizio violento delle proprie ragioni.
Per lo svolgimento parallelo della vendetta e della pignorazione privata, è da
vedersi: Del GIUDICE, “La vendetta nel diritto longobardo” (Milano). Sembra poi
attribuire la precedenza delle norme di procedura, presso i popoli alla
prevalenza, che presso di essi ha la forma sulla sostanza, lo stesso Sumner
Maine, The early history of institutions, ove, discorrendo della forma primitiva
dei rimedii legali, scrive che in uno stadio delle cose romane i [Intanto non
vi ha forse nel vocabolario giuridico parola, che presenti al giureconsulto
filosofo e storico una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli
di “agere” e di “actio”, e che lo fa rimontare più oltre nelle tenebre e nella
oscurità del passato. Nella loro significazione primitiva di « stimolare » e di
« spingere », questi due vocaboli sembrano ancor richiamare gl’antichi
abitatori del Lazio, che, pastori di greggi, prima di diventare reggitori di
popoli, spingevano al largo le proprie mandre e i proprii armenti. Memori e
quasi alteri della propria origine, non dubitarono di applicare il medesimo
vocabolo a significare l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col
popolo – “ius agendi cum populo” -- , ed anchequella di colui, che forte della
convinzione nel proprio diritto intraprende quella specie di conflitto e di
lotta, che dove essere necessaria per ottenere il riconoscimento delle proprie
ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia dal carattere fiero ed
indipendente non dove esser così facile il conseguire che essi si
sottoponessero ad un'autorità per la decisione delle loro controversie, e non è
quindi meraviglia se l'avvenimento dove loro apparire così importante, che
ritennero opportuno di conservare la memoria dei diversi stadii, che hanno
dovuto attraversare per giungervi. Allorchè sorgeva una controversia fra capi
di famiglia, appartenenti alla medesima tribù, il modo più naturale di risolverla
dovette certamente essere quello di rimettersi ad uno o più arbitri ed
amichevoli compositori, che doveno essere concordati fra le parti, come lo
dimostra un antico costume, che gli filosofi latini attribuiscono ai proprii
maggiori. Era poi naturale, che queste persone, chiamate a risolvere la
controversia, dovessero essere scelte fra i padri ed anziani del villaggio; del
che rimasero le traccie anche in Roma, ove i iudices furono per secoli tratti
dall'ordine dei padri diritti ed I doveri sono piuttosto un'aggiunta della
procedura, che non la procedura una mera appendice aidiritti ed ai doveri. BRÉAL, Dict. étym. latin., v° Agere. Cic.,
Pro Cluentio. “Neminem voluerunt maiores nostri, non modo de existimatione
cuiusquam, sed ne pecuniaria quidem de re minima esse iudicem, nisi qui inter
adversarios convenisset.” Del resto, anche secondo la legislazione decemvirale,
sembra che alla discussione della causa precedesse un tentativo di
componimenti, come lo dimostra il fram., Rem, ubi pacant, orato, tavola II,
legge 14, secondo la ricostruzione del Voigt, Die XII Tafeln, o senatori, e
solo dopo una lunga lotta, che si avvero già sul finire della Repubblica fra il
partito deg’ottimati e quello popolare, poterono anche essere scelti fra gl’equites.
La cosa però venne a farsi più grave, allorchè i contendenti non si mettevano
d'accordo per un amichevole componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che
essi, compresi vivamente del proprio diritto, trovandosi sul fondo stesso o
davanti allo schiavo, oggetto della controversia, cominciassero dall'affermare
altamente il proprio diritto sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi
cede, lo studio della natura umana ci insegna anche ora, che non è punto
improbabile, che essi potessero addivenire a quella vis realis, a cui secondo
Gellio e poi sostituita la “vis festucaria”, e che si effettua cosi fra di essi
una vera e propria lotta, che prese il nome “dimanuum consertio”. È però
consentaneo eziandio al costume patriarcale che, quando due persone sono cosi
in lotta fra di loro, puo anche interporsi fra di esse una persona autorevole,
la quale goda la comune fiducia, e che loro imponga di separarsi colle parole,
che più tardi sonno pronunziate dal praetor nella procedura quiritaria – “mittite
ambo hominem”. Tace allora la lotta: i contendenti, fatti umili dall'autorità
stessa di chi intervenne fra di loro e dallo stato stesso di violenza, in cui
furono sorpresi, chiamano entrambi a testimoni il divino, che la ragione è
dalla parte loro, e per dare energia maggiore alla propria affermazione
aggiungono alla medesima una scommessa, la quale, per essere accompagnata
dall'affermazione giurata di rimettersi al giudizio della persona intervenuta
fra di essi, può prendere il nome di “sacramentum:. Si ha cosi una successione
di fatti, che conducono naturalmente la persona autorevole, che si è in [La
legge che trasporta dall'ordine dei senatori a quello degli equites la capacità
ad essere giudici fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del 632 di Roma, proposta da
C. Gracco, la quale dove però dar luogo a gravi lotte ed agitazioni, che sono
fatte manifeste dalle leggi giudiziarie degli anni, che vengono dopo. È da
vedersi in proposito ORTOLAN, “Histoire de la législation Romaine”. Aulo Gellio,
Noct. attic. -- Questo sentimento veramente sociale ed umano del pudore, che
guadagna colui che si appiglia alla violenza, trovasi maravigliosamente
espresso da OVIDIO, Fastorum. “Et cum cive pudet conseruisse manus.” È però a
notarsi, che Ovidio limita quel senso di pudore alle violenze fra i cittadini.
Con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra cosa.] terposta, ad essere
giudice non tanto della ragione o del torto dei contendenti, quanto piuttosto
della scommessa intervenuta fra i me desimi; sebbene però venne ad essere naturale
conseguenza del suo giudizio, che debba ritenersi aver ragione chi vince la
scommessa e torto colui, che perde la medesima. Fin qui pertanto, non si ha che
un processo di cose sociali ed umane, di cui si potrebbero trovare le traccie
anche ai nostri giorni, e che dove certo essere frequente, allorchè le contese sono
sostenute dai capi di gruppo, che non conosceno altra autorità superiore, salvo
quella, che sono accettata di comune accordo. Pongasi ora, che questo processo
di cose si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come le italiche,
siano use a modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici
della loro vita giuridica, e allora si puo facilmente comprendere, come siasi
venuta formando quel l’ “actio sacramento”, che costitui poi l'azione
fondamentale di tutto il diritto quiritario, e e dai quiriti conservata con
cura così gelosa, che, già abolite le altre azioni delle leggi, l' “actio
sacramento” continua ancora a celebrarsi davanti al tribunale quiritario per
eccellenza, che è il tribunale dei centumviri. Non è quindi il caso di ridurre
questa primitiva azione ad una pantomina incomprensibile, nè di cambiare il
popolo maestro al mondo nel diritto in un architetto di formalità e di
sottigliezze senza scopo; ma è il caso piuttosto di leggervi la storia delle
vicende, che ha a percorrere l'amministrazione della giustizia, riportandola in
quell'ambiente patriarcale, nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla
nelle sue primitive fattezze. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio
l'opinione messa innanzi da una grande autorità, quale è il Bekker, e che e poi
anche divisa da molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an [È
già da qualche tempo, che rivelasi nei filosofi la tendenza a dare una
spiegazione naturale della formazione dell'actio sacramento. Se ne possono
vedere degli accenni nel Maynz, Cours de droit Romain, Bruxelles; nel SUMNER
MAINE, Early history of institutions, nel MUIRIEAD, Historical Introduction,
nel BUONAMICI, Storia della procedura romana. Pisa. Non credo tuttavia che essa
sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha dovuto formarsi, nè che
siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una sopravvivenza di un'epoca
anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade descrive, sopra uno dei
compartimenti dello scudo di Achille, una procedura del tutto analoga a quella
dell'actio sacramento.] tiche della stessa “actio sacramento”, quelle altre
forme di azioni, che sono indicate col vocabolo di “manus iniectio” e di “pignoris
capio”, in quanto che le medesime ricorderebbero più direttamente l'uso della
forza per far valere il proprio diritto. Lasciando per ora in disparte la “pignoris
capio”, che ha solo una importanza secondaria, per i pochi casi in cui fu
ammessa, importa anzitutto notare, che il vocabolo di “manus iniectio” può
essere tolto in due significazioni diverse, anche secondo la legislazione
decemvirale. Havvi anzitutto la “manus iniectio”, a cui ricorre colui che, dopo
aver invitato inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magistrato, gli pone
addosso la propria mano e lo trascina in ius, somministrandogli però quei mezzi
di trasporto, che possano esser necessari per lo stato di malattia, in cui egli
si trovi. In questo senso però non havvi ancora una vera “legis actio”, ma solo
un mezzo per ottenere la comparizione del convenuto davanti al magistrato.
Invece la “manus iniectio”, in quanto costituisce una “legis actio”, consiste
nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano sopra il nexus,
l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo carcere, e
costringerlo così al pagamento del proprio debito od a lavorare per lui finchè
sia soddisfatto. BEKKER, Die Actionen der römisches Privatrechts, Berlin. Del
resto un tale concetto è stato in parte enunziato anche dal JHERING, L'esprit
du droit romain, Trad. Maulenaere, Paris, salvo che egli dà poi alla “manus
iniectio”, come “legis action”, una significazione del tutto speciale. A questa
“manus iniectio” accennasi nella prima legge delle XII Tavole. “Si in ius
vocat, ito. Ni it, antestamino: igitur em capito. Si calvitur pedemve struit,
manum endo iacito.” -- Sonvi persino degli autori, i quali dubitano che la “manus
iniectio” puo essere considerata come una vera “legis actio”, in quanto che
essa non richiede l'intervento del magistrato e ha solo luogo quando trattasi
di esecuzione. E questo il motivo, che induce il JHERING a dare una significazione
speciale alla “manus iniectio”. Quanto alla letteratura sull'argomento e alle
discussioni, che di recente sorgeno intorno alla questione, se la “manus
iniectio” dove ritenersi come una “legis actio”, è da vedersi il MUIRHEAD,
Histor. Introd. Parmi tuttavia, che il dubbio non possa esistere, quando si
tenga conto della significazione larghissima, che ha il vocabolo di “legis actio”
nel diritto; nel quale esso indica in sostanza i diversi genera agendi in
conformità di una lex publica, per modo da comprendere la stessa in iure cessio,
allorchè serve per effettuare una adozione, una emancipazione, una
manomissione, od un trasferimento di proprietà.] Quanto alla manus iniectio
Voigt, Die XII Tafeln. Or bene la “manus iniectio”, cosi intesa, non può
certamente essere considerata, come di formazione anteriore all' “actio
sacramento”. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie peripezie,
per cui passa lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi richiama ancora
un'epoca, in cui non eravi amministrazione di giustizia; la “manus iniectio”
invece, quale appare nelle XII Tavole, suppone già stabilita una
amministrazione della giustizia, in quanto che essa è un modo di procedere
all'esecuzione contro colui, che o siasi obbligato colla solennità del nexum, o
abbia confessato il proprio debito davanti al magistrato, o sia stato
condannato al pagamento. Nè serve il dire, che la “manus iniectio”, essendo un
mezzo per l’esercizio delle proprie ragioni, dove essere applicata anche in
altri casi; mentre la legislazione decemvirale la circoscrive ai casi da essa
determinati, nell'intento di impedirne gli abusi. A ciò infatti si può
facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle genti patrizie si
può comprendere una procedura solenne, come quella dell' “actio sacramento”, in
cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per accordarsi
nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece affatto
ripugnante una procedura, come e quella della “manus iniectio”. Non è un'eguale
che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto egli puo
essere profondamente convinto del proprio torto. Fra due eguali, che siano in
contesa, può comprendersi la “manuum consertio”, e in seguito l'accettazione di
un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al cenno dell'altro, e si
lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo carcere. Con ciò tuttavia
non voglio dire, che la “manus iniectio” e direttamente introdotta dalla
legislazione decemvirale, e che non esiste anteriormente alla medesima. Ritengo
anzi, che essa dove già esistere da lungo tempo: ma intanto a questo proposito
mi fo lecito di avventurare la congettura, che la “manus iniectio” dove essere
una speciale forma di procedura, che non si adopera già nei rapporti fra i capi
di genti patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedeno fra il
creditore patrizio ed il debitore plebeo. Si comprende infatti, come un'aristocrazia
territoriale, come quella delle genti patrizie, puo anche adoperare modi simili
di procedura verso una classe, che nei primi tempi non aveva ancora dimenticato
l'origine servile. Quindi è, che la “manus iniectio” deve essere considerata
come una delle istituzioni, che non appartiene al diritto, che dovette formarsi
nei rapporti fra i capi delle genti patrizie, ma bensi a quello, che dove
formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe inferiore: il che
spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'ha solo ammessa contro i
nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe lotta cosi lungamente
per l'abolizione del nexum, il quale forse era ancora un segno dell'antica sua
soggezione servile. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato
delle proprie ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto
corrisponde alla vendetta nel campo dei delitti e delle pene. Quindi, come è
esistita la vendetta anche fra le genti italiche, così dove anche esservi un
tempo, in cui fra queste esiste l'esercizio privato delle proprie ragioni.
Questo tuttavia può affermarsi con certezza, che l'intento supremo
dell'organizzazione gentilizia e quello di impedire fra i membri di esse cosi
la vendetta, che l'esercizio privato e senza confini delle proprie ragioni. E a
questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i proprii sforzi, e solo a
forze riunite riuscirono a cacciare dalla comunanza la violenza, che continuo a
dominare fra le persone, che non appartenevano alla medesima e quindi non
avevano fra di loro comunanza di diritto. Quindi non è più nell'organizzazione
gentilizia, che deve cercarsi l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal
momento che in essa tutto è regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento
supremo e quello dimettere termine allo stato anteriore di violenza. Fin qui si
considerano soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono
fra i capi dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte
origine a quel diritto, che e poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium
romanorum più tardi. Ora importa cercare invece, quali rapporti corressero fra
i varii gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del
primitivo ius pacis ac belli. Anche i rapporti fra le varie genti,
collettivamente considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere
esclusivamente patriarcale, e appariscono modellati sui rapporti, che possono
intercedere fra i varii capi di famiglia. E a questo proposito parmi anzitutto
opportuno di rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un
dogma, mentre in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola
suol dirsi, che lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra.
Esse invece non erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si
consideravano come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro
comunanza di diritto. Era quindi facile, che fra loro scoppiasse la guerra, ma
questa non e però lo stato naturale di esse. Ciò e come dire, che due persone
che non si conosceno e non hanno fra di loro alcun rapporto giuridico sonno fra
di loro in lotta. Puo darsi che esse siano in reciproca diffidenza, e che
stiano in guardia: ma non percio puo dirsi che siano in guerra effettiva fra di
loro. Ci vorrà pur sempre qualche causa, od anche semplicemente un pretesto,
perchè l'una si arresti minacciosa contro dell'altra. Sarebbe qui inutile
citare tutti gli autori, che professano questa opinione; mi basta ricordare
LAURENT, Histoire du droit des gens a Roma; il JHERING, L'esprit du droit
romain, il quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi delle
genti antiche nella città, a cui esse appartengono; il che è certamente vero,
ma non proviene unicamente dalle guerre esteriori, ma anche da ciò, che,
creandosi una nuova forma di connivenza sociale, e naturale, che tutte le forze
ed energie vitali si concentrassero in essa. Anche Fusinato sembra dividere la
stessa opinione nel suo lavoro: Dei Feziali e del di ritto feziale, Roma, «
Atti della R. Accademia dei Lincei », Memorie, Classe scienze mor. stor.
filologiche, -- al quale io mi rimetto quanto alla bibliografia completissima
sul tema. Egli tuttavia già trova, che il popolo romano e stato, fra le altre
genti, il meno esclusivo su questo punto, a differenza di PADELLETTI, Storia
del diritto romano. Che questi e lo stato dei rapporti fra le genti primitive è
provato dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già viene fatta fra “hostis”
e “perduellis”. “Hostis” chiamasi quello straniero, con cui non sonno rapporto
di diritto, e contro il quale il popolo romano si riserva piena ed intera la
propria autorità giuridica e la propria libertà di azione. “Perduellis,” nella
sua significazione, e colui con cui era scoppiato il dissidio, e col quale, per
mancanza di un comune diritto, venne ad essere necessità di appigliarsi alla
guerra. E solo più tardi, che il vocabolo di “hostis” assunse una
significazione più dura e significa il nemico. In allora le significazioni
accettate furono le seguenti. “Peregrinus” chiamasi colui, col quale non havvi
nè amicizia, nè ospitalità, nè alleanza; “hostis” quegli, con cui Roma trovasi
in guerra aperta; “perduellis” infine colui, che nell'interno dello stato
cerchi di recare perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'interesse
della patria sua. Questa trasformazione si opera però lenta e note relative, il
quale attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore degli altri
popoli, per trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e guerresco ad un
tempo. Per parte mia ritengo, che i romani in questa parte si governano colle
norme stesse delle altre genti italiche, come lo dimostra il fatto che il
primitivo ius foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui sono
circondati. Non posso però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi, si
ritenne in stato naturale di guerra cogli altri popoli; perchè in tal caso
tutte le formalità dell'antico ius foeciale si converte in una commedia
inesplicabile e in contraddizione col prin cipio direttivo dei rapporti fra le
varie genti. Quanto agli argomenti, che sono messi in campo, essi consistono in
sostanza nella significazione di hostis e nel passo di Pomponio, Leg. Dig. Quanto
a questo passo di PomPONIO, egli, anzichè affermare che gli stranieri sono
nemici, dice anzi espressamente che – “si cum gente aliqua neque amicitiam,
neque hospitium, neque foedus amicitiae causa factum habemus, hi hostes quidem
non sunt.” Tuttavia siccome con questa gente non vi ha comunione di diritto,
così contro di “aeterna auctoritas esto” -- donde la conseguenza, che se le
cose nostre cadono in loro mano, diventano loro proprie, e così pure se le cose
loro vadano in mano dei romani: certo la conseguenza è grave, ma essa non è una
conseguenza dello stato di guerra, ma bensì di ciò che fra i due popoli non esiste
comunanza di diritto. Nè vorrei si dicesse, che la questione sia soltanto di
parole, poichè se la guerra e lo stato naturale, non si sa come CICERONE scrive:
“Nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut de
nuntiatum ante sit, et indictum.” De off, e De Rep. Del resto anche questa
opinione è una conseguenza del ritenere, che le cerimonie del diritto feziale e
semplici formalità esteriori, il che certamente non dove essere, allorchè
questa procedura fra le genti venne ad essere introdotta. essa [mente, e nella
stessa legislazione decemvirale, che, come tutta legge, tende a conservare i
vocaboli nella loro significazione arcaica, il vocabolo di « hostis », continua
ancora sempre a significare colui, col quale non esiste comunione di diritto,
come lo dimostrano le espressioni ricordate da Cicerone di “status dies cum
hoste” e l'altra “adversus hostem aeterna auctoritas esto.” Del resto, che il
vocabolo “hostis” negli esordii non suonasse nemico, nella significazione, che
noi siamo soliti attribuire a questo vocabolo, viene anche ad essere dimostrato
dall'analogia evidente, che corre fra i vocaboli di “hostis” e di hospes, il
quale ultimo sarebbe una sincope di hosti-pes, che significa o protettore dello
straniero o straniero ricevuto in protezione -- donde anche i vocaboli di
hospitium e di hospitari. Fermo questo concetto dei rapporti, che intercedeno
fra le genti, che non entrano a far parte della medesima tribù e non hanno
perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad essere facile il comprendere
come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse dovesse derivare dalla
convenzione e dal patto; per modo che anche il “ius pacis ac belli” dove avere
un'origine contrattuale, analoga a quella, che abbiamo riscontrato nei rapporti
privati fra i diversi capi di famiglia. Infatti al rapporto di carattere
negativo, che intercede fra le varie genti, per cui sono estranee le une alle
altre, pud poi sottentrare il rapporto positivo di pace o di guerra. Tanto
l'uno come l'altro indicano, che le genti sono già uscite da quello stato di
indifferenza reciproca, in cui si trovavano fra di loro. Quindi perchè siavi lo
stato di pace, già occorre che fra le genti sia intervenuta una conven [BRÉAL,
Dict. étym. lat., Paris, vº Hospes e Hostis. Del resto questo trasformarsi
dalla significazione di hostis viene ad essere indicato con una mirabile
chiarezza da CICERONE, allorchè scrive. “Hostis enim apud maiores nostros is
dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus.” “Quamquam id nomen durius iam effecit
vetustas; a peregrino enim recessit, et proprie in eo, qui contra arma ferret,
re mansit.” De off., I, 12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V,
I (Bruns, Fontes). Intanto l'analogia, che vi ha fra hostis straniero, ed
hospes, che significa e lo straniero ricevuto in protezione, come pure il
fatto, che nelle origini “per-duellis” significa il nemico esterno ed interno
ad un tempo, costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non
distinguevasi la guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle
guerre esterne. E solo più tardi, nel seno della città e nei rapporti delle
città fra di loro, che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i
reggitori della città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte
interne.] zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di “pax”
e quello di “pactum”). Al modo stesso che, accio siano in istato di guerra,
occorre, che siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di
genti che, senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano pero
l'impero del fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il “ius pacis
ac belli” già erasi formato anteriormente alla formazione della comunanza
romana, e che la medesima in questa parte non fa che attenersi a pratiche e a
riti, i quali, preparatisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia di
un collegio sacerdotale, furono poi applicati con qualche modificazione ai
rapporti, che vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città. Di qui in
tanto, deriva la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale,
essendo stato trapiantato da uno in altro periodo di organizzazione sociale,
acquisce un carattere artificioso, che lo fa talvolta apparire come un
ostentazione puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si fa per
una giusta causa, ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della
guerra. Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente,
in cui ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale
ebbe ad essere determinata dalle condizioni, in cui si trovano le genti.
Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che si vengono a stabilire
pressochè contrattualmente fra le varie genti, si riducono in sostanza a
rapporti fra i capi delle medesime. Cosi essi finiscono per modellarsi e per
ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che possono intercedere
fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che indicano le
gradazioni diverse, in cui possono trovarsi i capi delle varie genti, sono pur
quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto, in cui possono essere le
varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una convenzione di pace. Cosicchè
i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in quei primi tempi non esiste
la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii gruppi ed i rapporti privati
fra i capi, da cui essi sono rappresentati. I vocaboli, intanto, che indicano
questi rapporti pubblici e privati ad un tempo, sono quelli di amicitia, di
hospitium societas. Prima presentasi l' “amicitial”, che indica quel rapporto
contrattuale, che intercede fra due genti diverse o meglio ancora fra i capi di
esse, senza che il medesimo imponga obbligo reciproco di difesa e di aiuto in
tempo di guerra. La gente “amica” è quella, a cui si puo, in caso di bisogno,
ricorrere per un favore e con cui si intenda di intrattenere amichevole
commercio. L'amicizia quindi conduce già ad un riconoscimento del diritto della
gente amica, e quindi se una persona, od una cosa venga a cadere in mano di una
gente amica, questa non puo appropriarsela; il che e potuto fare, allorchè non e
esistita fra di loro alcuna comunanza di diritto. Possono tuttavia esservi dei
casi, in cui i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù
diverse, porgano occasione al sorgere di controversie. Quindi fra i patti, che
accompagnano i trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che più
tardi noi troviamo indicato col vocabolo di “actio” e specialmente con quello
di “reciperatio”; il quale è certamente bene appropriato per significare il
rapporto, a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in
terpretazione a cui esso da luogo. È nota in proposito la definizione di Elio
Gallo. “Reciperatio est, cum inter populum, reges, natio nesque et civitates
peregrinas lex convenit, quomodo per recipe ratores reddantur res
reciperenturque, resque privatas inter se persequantur.” La sua interpretazione
non può dar luogo a dubbio, quando diasi al vocabolo di “lex” la sua
significazione primitiva di convenzione e di patto; interpretazione, che del
resto è anche imposta dall'espressione di “lex convenit.” È evidente infatti,
che qui trattasi di un patto intervenuto prima fra le tribù e più tardi fra i
popoli, le nazioni e le città, nell'intento di permettere ai membri delle
genti, delle tribù e delle città di far valere rispettivamente le proprie
ragioni presso la gente, tribù o città, con cui trovansi in rapporto di
amicizia; come pure è evidente la correlazione, che intercede fra questo
vocabolo e quello di “rerum repetitio”, che costitue uno dei preliminari, che
precedevano la vera dichiarazione di guerra. Questo vocabolo è poi meglio
spiegato da quello di reciprocare, il quale, secondo Festo, significa « ultro
citroque poscere » cioè far valere rispettivamente le proprie ragioni: vocabolo,
che anche oggidi conserva l'antica sua significazione in quei trattati fra gli
stati e le nazioni, che chiamansi di reciprocità e di reciprocanza. Ciò infine spiega
eziandio, come si chiamano recuperatores quei giudici od arbitri, che sono chiamati
a risolvere le controversie degli stranieri fra di loro e dei cittadini cogli
stranieri. Infine si viene anche a darsi ragione, come in una città come Roma,
che e sempre un emporio di tutte le genti, i recuperatores abbiano finito per
essere una autorità giudiziaria, pressochè permanente, la quale, mentre decide
le questioni con stranieri, puo anche essere chiamata a risolvere delle
controversie fra i cittadini, in quei casi sopratutto, in cui non si trattasse
di applicare il ius quiritium, ma piuttosto quei iura gentium, che fin dai
primi tempi dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A proposito
dei “re-cuperatores”, si è poi lungamente disputato se i medesimi fossero
chiamati soltanto a risolvere controversie di diritto privato, o se potessero
essere chiamati eziandio a risolvere controversie di carattere pubblico fra i
popoli e le genti. La definizione di Elio Gallo sembra comprendere le une e le
altre, in quanto che essa accenna alla ricupera delle cose tolte da un popolo
ad un altro, e alla prosecuzione delle cose private. Se quindi e lecito
avventurare una congettura, misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca,
in cui ancora mal si distingue la ragion pubblica dalla privata, i
recuperatores, che sono persone scelte fra le due genti amiche, possono essere
arbitri dell'uno ed un altro genere di controversie, perchè queste tenevano del
pubblico e del privato ad un tempo. Allorchè invece, al disopra delle genti,
venne a formarsi la città, e per tal modo comincia a distinguersi la cosa
pubblica dalla privata, i recuperatores hanno circoscritta la propria
competenza alle controversie di carattere privato. Fu in allora che i
recuperatores si manteneno per le controversie di indole privata, e che i “fetiales”
sono creati invece per le controversie, che insorgevano fra i varii popoli. E allora
parimenti che la recuperatio e il modo, con cui gli individui “res privatas
inter se persequuntur”, mentre la “rerum repetitio” divenne un preliminare
della guerra. E allora infine che i iura gentium si vennero biforcando, e
mentre da una parte il vocabolo di ius gen tium rimane ad indicare un complesso
di norme, che governa i rapporti di indole privata, quello invece di ius
foeciale o di ius belli ac pacis e adoperato per indicare i rapporti di
carattere pubblico fra i popoli e le città. Anche qui insomma non si fa che
applicare un processo, le cui traccie sono evidenti in ogni argomento, il quale
consiste nel “publica privatis secernere, sacra profanes” -- Di qui deriva
quell'incertezza di significazione, che questi vocaboli sembrano avere nelle
proprie origini; incertezza, che non dovette recare imbarazzo a coloro, che
avevano operate queste distinzioni; ma che complica invece grandemente l'opera
di coloro che tentano fondarsi sovra pochissime vestigia di ricostrurre l'opera
compiuta. Al modo stesso poi, che nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene
l'ospite, il quale già viene accolto nella casa e per qualche tempo entra in
certo modo a far parte della famiglia; cosi nei rapporti fra le varie genti, al
disopra dell'amicitia, viene a comparire l'hospitium. L'ospitalità, che diventa
un ufficio di cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità
presso tutti i popoli primitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati
gli uni dagli altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità,
oltre al fondarsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas, e
se la medesima, presso le genti primitive, tenda ad acquistare un carattere
ereditario. L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa famiglia,
come lo dimostra il fatto che gli antichi giureconsulti disputano perfino, se
gl’ufficii verso l'ospite dovessero precedere o susseguire quelli verso il
cliente: nella quale questione, [Quanto alla definizione della recuperatio,
HUSCHKE, Jurisp. ante-iust. quae sup. Questa congettura, che d'altronde è molto
semplice, ha il vantaggio di risolvere parecchie controversie, che sono
largamente trattate da Voigt, Das ius naturale, gentium, etc., e dal Fusinato,
Dei Feziali e del diritto feziale. Essa spiega anzitutto come una sola frase,
quello di “ius gentium”, possa presentarsi con un duplice significato (V.
FusInATO, dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa spiega in
secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo applicata alle
controversie private, nell'antica sua definizione comprenda invece anche quelle
di carattere pubblico. Di qui una divergenza fra Fusinato da una parte, che
vorrebbe negare ai recuperatores ogni competenza giudiziaria in interessi di
pubblica natura e il SelL ed il Rein da lui citati, che sostengono invece
un'opinione diversa. Credo poi che non possa essere posta in dubbio l'analogia
strettissima fra recuperatio e rerum repetitio, sebbene i due vocaboli abbiano
ciascuno una propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca
actio, mentre rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per
riavere ciò che gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra. Del resto
questa stessa analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le
noxae deditio dei cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui
discorre lo stesso Fusinato. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di
fronte ad un processo logicamente applicato in tutte le distinzioni, che si
vennero introducendo fra i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza
stessa dei risultati, in varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata
la congettura di cui si tratta. Come poi i recuperatores sono in Roma
an’autorità giudiziaria, pressochè permanente, appare da ciò, che essi non sono
ignoti alla stessa legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto ai
soli cittadini.] -- mentre vi era chi colloca prima le persone affidate alla
tutela del capo di famiglia, poi il cliente, quindi l'ospite. Masurio Sabino
invece preponeva l'ospite al cliente. Tutti però sono concordi nel ritenere,
che l'ospite dove avere la precedenza sui cognati e sugli affini. Non puo
quindi essere temeraria la congettura, che l'ospitalità e la clientela sono
nell'organizzazione gentilizia due istituzioni, che hanno una correlazione fra
di loro; colla differenza, che la ospitalità importa solo una difesa e
protezione provvisoria, mentre la clientela importa un rapporto di protezione
permanente. Sotto quest'aspetto pertanto, si puo dire che il cliente venne
prima del l'ospite. Ma, quando, invece si consideri che la clientela importa
subordinazione e dipendenza, mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che
l'ospitato di un giorno sia l'ospite in un altro, ben si puo comprendere il
motivo, per cui Masurio Sabino concede sotto questo aspetto la precedenza
all'ospite sopra il cliente, in quanto che l'ospite e l'ospitato sono in
rapporto di UGUAGLIANZA fra di loro, il che non accade del patrono e del
cliente. Così il concetto dell'amicitia, che quello dell'hospitium, dove nel
periodo gentilizio avere un carattere pubblico e privato ad un tempo. E solo
posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù usceno le città, che cosi
l'amicitia come l'hospitium subirono quella distinzione, che si opera in
qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero l'amicitia e l'hospitium pubblico
e privato. Che anzi nella transizione fuvvi un periodo, in cui la casa stessa
del re dapprima e del magistrato dappoi servì per accogliere gl’ospiti del
popolo romano; ma, a misura che si venne distinguendo l'ente collettivo dello stato
dalla persona dei singoli cittadini, si dove anche distinguere l'amicizia e
l'ospitalità in pubblica e in privata. Cosi e un effetto della pubblica
amicizia, che il cittadino romano, quando e fatto prigioniero di guerra, gode
senz'altro del diritto di postliminio, appena ponesse il piede nel territorio
di un re alleato od anche solo amico, poichè da quel momento comincia ad essere
“pubblico nomine tutus.” Parimenti l'hospitium pubblicum, allorchè e accordato
non solo ad un individuo, ma alla intiera popolazione di una città, venne a
cambiarsi in certo modo nella [V. sopra il passo di Masurio Sabino -- Dig.] concessione
della civitas sine suffragio: il che rende non destituita di fondamento
l'opinione di coloro, i quali, dietro l'autorità del Niebhur, vogliono trovare
nel concetto dell'hospitium pubblicum la primitiva significazione, che, secondo
Festo, e stata attribuita al vocabolo di “municipium”. Infine al disopra
dell'amicizia e dell'ospitalità, presentasi la “societas”. Qui non trattasi più
di semplici officii di cortesia, ma di obbligazioni che già assumono un
carattere giuridico; poichè la “societas” fra le genti, al pari della societas
fra i privati, è un accomunare le proprie forze per il conseguimento di un
intento comune, e per ripartire i vantaggi, che si possono ricavare dall'opera
insieme “associate”. I patti e le condizioni di questa “societas” possono
essere molto diversi; ma di regola essa importa alleanza difensiva ed offensiva
delle genti, fra cui interviene, e una conseguente ripartizione del bottino. Di
qui la conseguenza, che mentre l'amicizia e l'ospitalità possono anche trovare
origine nel fatto e nella consuetudine; la “societas” invece suppone una
convenzione espressa fra le genti ed i popoli, fra cui interviene: quindi con
essa viene a sorgere il concetto del foedus, il quale ha larghissimo
svolgimento e da luogo ad importantissime conseguenze nel periodo gentilizio.
Per quanto sia dubbià l'origine della parola, questo è certo, che l'essenza del
“foedus” sta nella “fides”, che stringe quelli che entrano in confederazione
fra di loro, e che il medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello
stesso ufficio, a cui adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia.
Infatti, sebbene di regola sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di
societas e di foedus, è [NIEBhur, Histoire romaine. Questa opinione e sostenuta
dal TADDEI, Roma e i suoi municipii, Firenze] Senza negare che possa esservi
esistito un qualche rapporto fra l'hospitium pubblicum e il municipium, nella
prima delle significazioni che è attribuita a quest'ultimo vocabolo da Festo,
vº Municipium, vuolsi però avere presente che l'hospitium è istituzione di
origine gentilizia, mentre il municipium suppone già esistente e svolta la
convivenza civile e politica.] però facile l'avvertire, che i medesimi,
sopratutto negli inizii, dove avere significazione diversa. Mentre infatti la “societas”
indica il rapporto, in cui entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di “foedus”
invece significa di preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo
rapporto viene ad essere stipulato. Che anzi, siccome fra le genti non si
distinguono i rapporti di carattere pubblico da quelli di carattere privato:
cosi il vocabolo “foedus: si presenta dapprima con una larghissima
significazione, instesse convenzioni e stipulazioni private e, sopratutto nei filosofi,
significa persino quelle convenzioni tacite, che sembrano stringere tutti i
popoli, che si trovino in analoghe condizioni di civiltà: convenzioni e
rapporti, che sono appunto indicati col vocabolo di “foedera generis humani”,
poichè il popolo che vi venisse meno sembra in certo modo uscire dal novero
dalle umane genti. Tali so fra i romani l'inviolabilità e l'immunità dei
legati, senza la quale e stata impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che
non hanno fra di loro comunione di diritto; tale e eziandio quel costume
veramente umano per cui, terminata la battaglia, ad divenivasi ad una breve
tregua, accio i due eserciti potessero addi venire alla sepoltura dei morti. Di
più, anche nei rapporti fra le genti, il “foedus” non significa soltanto la
confederazione o l'alleanza; ma puo significare qualsiasi accordo, che venisse
a seguire fra due popoli, sia per conchiudere la pace, sia per rimettere la
decisione della guerra ad un duello fra individui scelti negli eserciti che si
trovavano di fronte, ed anche quell'accordo, in base a cui si addivenne alla
deditio di un popolo ad un altro e se ne fissano le condizioni. Il “foedus”
insomma indica il momento, in cui l'elemento contrattuale comincia a penetrare
nei rapporti fra le varie genti; ed è perciò, che, malgrado tutti i dubbii che
possano avere gl’etimologi, non sotrattenermi dall'esprimere la persuasione
profonda, che il vocabolo di “ius foeciale”, con cui si indicava il complesso
delle pratiche e delle trattative, che poterono seguire fra i varii popoli così
in pace, come in guerra, non può essere che una corruzione ed una sincope di “ius
foederale”. Gl’etimologi non possono accertare che “foedus” origina da “fides”,
nè che “foeciale” derivi da “foedus”. Ma questo è certo, che le parole di “fides”,
“foedus”, e “foeciale”, come sembrano avere una parentela materiale, così hanno
una strettissima attinenza, quanto al concetto dalle medesime espresso, ed è
questo il motivo, per cui continuo a scrivere “ius foeciale” a vece di “ius
fetiale.” Quanto alla larghissima significazione pri [Intanto il “foedus” è il rapporto
fra le genti e le tribù, che suppone un maggiore progresso nell'organizzazione
sociale. Qui infatti non è più il caso di un semplice ufficio di amicizia e di
ospitalità; ma trattasi già di un rapporto che assume il carattere GIURIDICO,
in quanto che il foedus impone alle genti e alle tribù, che vi addivengono,
delle vere e proprie obbligazioni giuridiche, sebbene queste continuino ancora
sempre ad essere sotto la protezione del fas. Gli è perciò, che col foedus già
comincia a comparire quell'istituto della stipulazione giuridica, che le genti
latine recarono non solo nelle convenzioni private, ma eziandio nelle
convenzioni di pubblica natura; stipulazione che, a mio avviso, dovette
probabilmente essere prima adoperata per i rapporti di carattere pubblico, che
non per quelli di carattere privato. Quanto alle formalità solenni, che
accompagnavano il foedus, ritengo, che se più tardi potè essere attribuita
importanza sopratutto all'elemento esteriore, che serve per dargli il carattere
di iustum, come lo dava al testamento, alle nozze e a qualsiasi altro atto;
questo è però certo, che le cerimonie, che accompagnavano la conclusione del
foedus nel periodo, in cui si vennero formando, dovettero avere una reale ed
effettiva significazione. Non dove quindi nel periodo gentilizio esservi un “pater
patratus”, che addivenisse alla formazione dell'alleanza: ma erano i padri o
capi effettivi delle genti, che da essi erano rappresentati, quelli che
conchiudevano il patto. Così pure dovette anche avere una efficace
significazione l'obtestatio deorum, per cui chiedevasi il divino in testimonio
del patto, che interveniva fra di essi, e si poneva il trattato sotto la
protezione del fas, chiamando la collera del cielo contro colui, che venisse
meno al patto intervenuto, e simboleggiando, col ferire con un coltello di
selce la vittima, il modo, con cui il divino avrebbe colpito il violatore del
patto. [mitiva di foedus, essa appare
sopratutto dall'uso che ne fanno I filosofi latini, pei quali indica dapprima
qualsiasi patto fra gli individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una
parola, che si rifere dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo;
argomento questo che gli uni non si distinguevano dagli altri. Questo
significato di foeduse presentito dal nostro Vico, allorchè chiama le
religioni, le sepolture ed i matrimonii “i foedera generis humani”. Il duplice
significato pubblico e privato di foedus occorre poi nel seguente passo di Livio
– “Aenean apud Latinum fuisse in hospitio: ibi Latinum, apud penates deos, dome
sticum pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in matrimonium data.” Questo è
provato anche da ciò, che nel primo caso narratoci di un patto se [Questo ad
ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il concetto del foedus, vincolo religioso
e giuridico ad un tempo fra le varie genti e le tribù, ha certamente a
precedere la formazione della comunanza romana, e dove anche prima ricevere
applicazioni molteplici e diverse, durante il period gentilizio. Il foedus può
essere anzitutto il mezzo, con cui si pone termine allo stato di guerra fra
diverse tribù, e siccome al momento, in cui si addiviene al medesimo, le sorti
delle armi possono essere diverse per i contendenti, cosi è probabile, che già,
anteriormente a Roma, dovesse esservi quella distinzione, di cui essa poi fa
così larga applicazione fra il “foedus aequum” ed il “foedus non aequum”.
Eranvi infatti dei casi, in cui il foedus, nella significazione di convenzione
e di trattato, serve, come ricorda Gellio, per dettare la legge ai vinti; altri
in cui, senza opprimere affatto quello dei contendenti, per cui volgessero
sfavorevoli le sorti della guerra, il medesimo in una posizione di ossequio e
di subordinazione verso quello che sta per vincere, il che costituie appunto il
“foedus non aequum” e da origine ad una specie di clientela di un popolo verso
un'altro, che nell'epoca romana e poi indicata coll'espressione « at maiestatem
populi romani coleret »; altri infine, in cui, essendo incerte le sorti della
guerra, si pone termine alla medesima con un “aequum foedus” e si veniva,
secondo i patti, alla reciproca restituzione dei prigionieri di guerra e
all'abbandono del territorio occupato.] si pone. Per quanto poi si riferisce a
quella distinzione fra foedus e sponsio, stata invocata qualche volta dai romani,
sembra che la medesima costituisca già un'applicazione, eminentemente giuridica,
trovata dallo stesso popolo romano e posteriore alla formazione della città. È
noto in proposito, che i romani ritenevano per foedus il trattato guìto secondo
il “ius foeciale”, che è quello relativo al combattimento degl’orazii e dei curiazii,
DIONISIO ci narra, che il medesimo e solennemente stipulato, e che due
cittadini eletti a ciò, facendo le veci di padri dei due popoli, lo sancirono a
nome di ciascuno d'essi. Dion. Cfr. Bonghi, Storia di Roma. Ritengo poi
verosimile l'opinione di Pantaleoni, ricordata da Fusinato, “Le droit
international de la république romaine” (Bruxelles) – “Revue de droit
international”, secondo cui il coltello di selce rimonterebbe all'età della
pietra, poichè questo studio di conservare anche materialmente l'antico è
veramente nel carattere romano. Quanto alle varie specie di foedera fra le
città ed i re è da vedersi Livio. Esempii poi di foedera non aequa possono
vedersi in Gellio, Noc. att., e nello stesso Livio] stipulato coll'intervento
del “pater patratus” e colle cerimonie tutte del “ius foeciale”, mentre “sponsio”
e la pace giurata soltanto dal generale. Mentre il primo obbliga direttamente
il popolo pomano, l'altra invece, quando non fosse ratificata dal senato,
obbliga solo a fare la consegna del generale, che ha giurato la pace. Ora è
evidente, che questa distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già il
passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Finchè
trattasi di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù, che la
guida nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la pace
circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere
religioso, che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre
quindi ancora l'artificio del “pater patratus”, nè l'intervento dei feziali,
perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo. Quando invece
trattasi di una città, tanto più se retta a repubblica, il generale non può più
dirsi che rappresenti il popolo e il senato, e quindi egli non può addivenire
che ad una semplice “sponsio”, la quale, per essere cambiata in un vero
trattato, abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle
cerimonie del diritto feziale. Intanto pero, siccome il generale è colpevole
per aver giurata una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo
oltre i limiti del suo mandato; cosi il senato, che non ratifica il suo operato,
si appiglia alla noxae deditio del generale stesso. Intanto si comprende, che
altri popoli, come i Sanniti, al tempo della pace delle forche caudine, i quali
non erano ancora pervenuti ad un eguale sviluppo della loro organizzazione
civile e politica, stentassero a comprendere questa sottigliezza giuridica dei romani:
poichè per essi il loro generale era anche il loro capo effettivo, e quindi puo
obbligare direttamente il popolo da lui rappresentato. Non parmi quindi, che
possa essere il caso di introdurre qui la triplice distinzione, a cui accenna
Mommsen nel “Le droit public romain” fra la semplice “sponsio” del capitano, il
foedus foeciale e il foedus del solo capitano; poichè è dichiarato abbastanza
chiaramente da Livio, che tanto il foedus che la sponsio, se siano fatte in iussu
populi, non possono obbligare il popolo romano. Quindi la distinzione viene ad
essere questa: o la convenzione è opera del solo capitano, in iussu populi ac
senatus, che sono quelli che inviano i feziali, e in allora abbiamo una semplice
sponsio; o invece vi ha il iussus populi ac senatus, che inviano i feziali e
abbiamo il vero foedus: donde la prova che la distinzione dove essere un
effetto del passaggio dall'organizzazione gentilizia all'organizzazione
politica. Cfr. Fusinato, “Dei Feziali e del diritto feziale.” Non credo poi si
possa ammettere con Mommsen, che sulla forma del foedus ha esercitata una
visibile influenza la teoria del contratto, in quanto che nel foedus sarebbesi
adoperata per analogia la forma della stipulazione, come quella che era
considerata come il modo generale e di diritto comune per contrarre le
obbligazioni. Ciò è del tutto impossibile: perchè è certo che esisteno già il
foedus e la sponsio nei rapporti fra i varii popoli e che l'uno e l'altra già
si stipulano con quella forma determinata, assai prima che i giureconsulti
costruissero la teoria della stipulazione e ne fanno applicazione alle
convenzioni private. Del resto la forma della stipulazione, adoperata dai romani
nei rapporti col divino, nella formazione della legge, nella conclusione dei
trattati di pace, solo più tardi sembra essere stata accolta nel diritto civile
romano ed applicata alle convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che
ritengono la stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca.
Il vero si è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i
rapporti di diritto pubblico e quelli di diritto privato; la quale deriva da
ciò, che nel periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra
capi di gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie
genti, possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi
però molte pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella
della sponsio, che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima
nei rapporti fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cio
è anche attestato da Gaio, che chiama sottigliezza il voler applicare la teoria
della stipulazione privata alla sponsio del generale romano; poichè, se si
venga meno al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur. V.
Mommsen, Le droit public romain, il quale, secondo la traduzione Gérard, di cui
mi valgo, scrive. “En ce qui concerne la forme, le principe du droit civil a
fait employer ici par analogie les formes de la stipulation, parce qu'elle
était considérée comme le mode général et de droit commun de contracter des
obligations.” Parmi, con tutta la riverenza al dottissimo autore, che questa
proposizione non possa essere accolta, e che sarebbe vera piuttosto la
proposizione inversa. Infatti secondo MUIRHEAD, Hist. Introd., e molti altri,
la sponsio o stipulatio nelle convenzioni private non sarebbe penetrate in
Roma, che verso l’epoca, in cui la teoria della sponsio e del foedus, nei
rapporti fra le città ed i popoli, aveva già ricevuto tutto il suo sviluppo.
Quindi è che pur non ainmettendo l'opinione del MUIRHEAD, in quanto che ritengo
che la sponsio e romana fino dalle origini e vivesse nel costume, anche [Un'altra
applicazione del foedus era anche quella, per cui tribù e genti, che potevano
anche non essere in guerra fra di loro, stringevano fra di loro un'alleanza, i
cui patti potevano essere molto diversi, ma che il più spesso costituiva una
lega difensiva ed offensiva ad un tempo; la cui idea tipica pud essere ricavata
dal foedus latinum, detto anche foedus Cassianum, il cui tenore ha ad esserci
conservato da Dionisio. È poi notabile, che queste specie di alleanze fra tribù
e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da relazioni ed aderenze fra i
capi di gruppo, cosi si venivano for mando e disfacendo con grande facilità,
per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva essere il nemico di domani. Il che
tuttavia non toglie, che la forza e l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi
profondamente sentita, che stipulavasi talvolta che essa dovesse durare eterna
ed im mortale, come lo erano i popoli, fra cui interveniva. Ciò è dimostrato
dall'energica espressione adoperata nel foedus latinum, secondo la quale la
pace e l'alleanza fra romani e latini doveva durare: « dum coelum et terra
eandem stationem obtinuerint.” Infine un'altra importantissima applicazione del
foedus nelle epoche primitive, è quella, in virtù della quale più tribù, che
possono anche essere di origine diversa, societatem ineunt fra di loro, nel
l'intento di formare una stessa civitas e di partecipare così ad una vita
pubblica comune. È stato questo il foedus, che ha servito per la formazione
dell'urbs e della civitas dei latini, e che fu anche il tipo, sovra cui ebbe ad
essere foggiata Roma primitiva; il qual ca rattere è importantissimo, in quanto
che induce ad affermare che Roma nei suoi inizii ebbe un carattere federale e
pressochè con trattuale. Dal momento infatti, che fra le varie tribù mancava il
vincolo della comune discendenza, non poteva esservi che quello della fides, e
quindi è nel foedus, che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel
diritto, conviene pur sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse
prima nei rapporti fra le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu
stamente quindi Gaio voleva tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che
la sponsio nei trattati fra i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni
private, non era più il caso di confonderle insieme. Da questa nasceva l'actio
ex stipulatu, mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti
tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la
propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum, il ius gentium e il ius
belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. Dion.] 154
della città. Se la tribù può ancora essere una formazione del tutto naturale,
perchè è l'effetto del primato, che una gente acquista sopra le altre che la
circondano; la città invece suppone di necessità l'accordo delle varie tribù,
che entrano a costituirla, accordo, che riveste appunto la forma di un foedus. Intanto
egli è evidente, che allorquando le cose sono per venute a tale, che
nell'organizzazione gentilizia, in cui prima do minava esclusivamente il
vincolo di discendenza, già comincia a pe netrare l'elemento federale e
contrattuale, questo non può a meno di attribuire all'organizzazione stessa una
elasticità e pieghevolezza, che essa prima non poteva avere. Infatti egli è
sopratutto da questo punto, che nel seno della tribù e della città, costituita
mediante la federazione di varie tribù, cominciano a comparire dei mezzi, i
quali o servono ad aggregare alla comunanza un nuovo elemento, o ser vono
invece a staccarne un elemento, che prima ne faceva parte per trasportarlo
altrove. Fu in questa guisa, che, già anterior mente alla formazione della
comunanza romana, si erano venuti svolgendo gli istituti della cooptatio, della
concessio civitatis sine suffragio, della secessio e della colonia; la cui nozione
è indispen sabile per comprendere la storia primitiva di Roma. In virtù della
cooptatio le genti, che già entrarono a far parte di una medesima comunanza
civile e politica, possono accoglierne delle altre a far parte della medesima.
Essa fu applicata più volte in Roma primitiva; come lo dimostra la cooptazione
delle genti Al bane, dopochè Alba fu, secondo la tradizione, distrutta da Tullo
Ostilio, e fu applicata eziandio alla gente sabina, capitanata da Atto Clauso.Questa
origine federale delle città costituite sul tipo latino pud servire a spiegare
il fatto, per cui i Latini nella loro qualità di socii coi Romani abbiano messa
innanzi la pretesa, che Roma e il Lazio dovessero dare origine ad una comu
nione ed unità di governo; per cui dei consoli uno dovesse essere nominato dal
Lazio e l'altro da Roma, e il senato dovesse comporsi in parti eguali dai due
popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr. WALTER, Storia del diritto di Roma, Trad.
Bollati, Torino. È poi questa istituzione, che ci dà la ragione per cui,
durante il periodo di Roma patrizia, la cittadinanza non era conceduta ad in
dividui, ma a genti collettivamente considerate, in quanto che la cooptatio era
per sua natura applicabile all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli
individui (1). Non pud poi esservi dubbio, che questa cooptatio, per essere una
istituzione eminentemente patrizia, doveva certainente essere accom pagnata da
cerimonie religiose; perchè la gente, che era ammessa nella tribù o alla città,
diventava eziandio partecipe della religione di esse, ne aveva comuni gli
auspicia, ed il suo capo poteva anche conseguire un seggio nel senato. Quasi si
direbbe, che la cooptatio di una gente nella tribù o città corrispondeva alla
adrogatio per la famiglia. Quindi si comprende, come al modo stesso che
l'adrogatus, per essere disgiunto dalla gens, di cui faceva parte, doveva prima
addivenire alla detestatio sacrorum; così anche il gentile, per uscire
dall'ordine delle genti patrizie e passare, ad esempio, nella plebe, il che
chiamavasi transitio ad plebem, doveva pure appigliarsi ad una specie di
abdicatio o detestatio sacrorum; alla quale dovette appunto assoggettarsi
Clodio, allorchè abbandono l'ordine patrizio e passò alla plebe per poter
essere nominato tribuno [È poi degno di nota, che questa cooptatio ebbe pure ad
essere applicata ai collegi sacerdotali, finchè i medesimi furono esclusiva
mente tratti dall'ordine patrizio, e fu solo più tardi, allorchè anche la plebe
fu ammessa ai sacerdozii pubblici del popolo romano, che ad alcuni fra essi fu
applicata l'elezione popolare, la quale anzi fini per essere affidata ai comizi
tributi. Quando poi la città cesso di essere esclusivamente patrizia, in allora
noi vediamo svolgersi, qualmodo di accrescere la popola zione, la concessione
della civitas sine suffragio, in virtù della quale gli abitanti di una città
vicina, che venivano a prendere il [Dion., III, 29; Liv., 1, 30. Cfr. Willems,
Le droit public romain; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte. La necessità di una
specie diabdicatio, anche per uscire da una gens, è provata dal seguente passo
di Servio, In Aen. 2, 156: « Consuetudo apud maiores fuit, ut qui in familiam
vel gentem transiret, prius se abdicaret ab ea, in qua fuerat, et sic ab alia
reciperetur ». Quanto alla transitio ad plebem, è da vedersi Cic., Brut., 16, e
Aulo Gellio] nome di municipes (a munere capiendo), recandosi a Roma, erano
ammessi a partecipare ai diritti e alle obbligazioni del cittadino, esclusa
però la partecipazione al godimento dei diritti pubblici, che consistevano nel
ius suffragii e nel ius honorum. Fu con questo mezzo, che Roma incominciò a
mettere le basi di quel sistema mu nicipale, per mezzo del quale tutti gli
abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli delle città italiche,
finirono per essere considerati come cittadini di Roma, che era la patria
communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una propria
amministrazione municipale. Questo carattere dei municipia, i quali in sostanza
erano città per sè esistenti, che venivano ad essere associate alle sorti di
Roma, fu espresso da Gellio con dire, che imunicipia, a differenza delle
colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò però
non tolse, che il concetto del municipium abbia subito poi delle trasformazioni
profonde, le quali sono indicate dalle significazioni diverse, che Festo
attribuisce a questo vocabolo (). i 125. A questi duemezzi, con cui veniva
accrescendosi il numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas, se ne
contrapponevano invece degli altri, che servivano piuttosto a trasportare
altrove una parte della popolazione, sia che ciò occorresse per il vantaggio
della stessa città, come accadeva nella colonia, sia che una parte di essa si
trovasse in condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si ricorreva
alla secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema delle
colonie, che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima nel
costume delle genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti elleniche,
sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal fatto, che,
secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere dapprima, che
una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di famiglie, le quali,
collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria, colla approvazione
di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex coloniae deducendae, e
colla buona volontà di coloro che partono, i quali debbono perciò farsi
iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere espresso da Servio con
dire, che le [I principali passi degli autori, relativi almunicipium e alla
colonia, possono trovarsi raccolti nella eruditissima opera del Rivier,
Introdution historique au droit romain, Bruxelles, la quale contieneun numero
grandissimodi passi di autori e questi raccolti con molta sagacia.] colonie «
ex consensu pubblico, non ex secessione conditae sunt ». Di qui la conseguenza,
che la colonia porta con sé la religione, la lingua, le tradizioni della tribù
o della città, dalla quale si stacca e si organizza a somiglianza di essa, per
guisa che, secondo la efficace espressione di Gellio, le colonie sono quasi
effigies parvae, simula craque della madre patria, e sono quasi propaggini
della città, da cui sonosi staccate, comequelle, che continuano ancor sempre a
mantenersi in rapporti con essa (ex civitate quasi propagatae sunt). Punto non
ripugna, che le colonie nelle loro origini siansi cosi chiamate a colendo; in
quanto che può darsi benissimo, che esse fossero in certo modo delle spedizioni
agricole, che partivano da una tribù, sta bilita sopra un territorio, per
trasportarsi sopra un altro suolo, quando quello prima occupato più non potesse
bastare ai bisogni della intiera popolazione. Però anche in questa parte,
allorchè riuscì a delinearsi l'istituto della colonia, nulla impedi che esso
potesse essere rivolto ad intenti di diversissima natura, marittimi, militari,
commerciali, e che servisse anche a diminuire il numero soverchio della plebe,
quando essa, raccolta nella sola città, già cominciava a cambiarsi in una
factio forensis e a diventare pericolosa. 126. La secessio invece sembra
contrapporsi alla cooptatio, colla differenza che questo vocabolo, in cui non
havvi accenno ad alcun rito religioso, sembra aver trovato origine piuttosto
nei rapporti fra patriziato e plebe, che non in seno all'ordine patrizio. Ad
ogni modo la secessio, intesa in largo senso, ha luogo allorchè un ele mento
già ammesso nella comunanza, trovandosi incompatibile colla medesima, se ne
stacca volontariamente e recasi altrove a porre la propria sede. Lasciando
anche a parte i tentativi di secessio per parte della plebe, i quali non ebbero
mai un esito definitivo, può forse scorgersi un esempio di secessio, ancorchè
dissimulato dalle tradizioni, nel fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma
coi suoi numerosi clienti per stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere distrutta
dai Sanniti, lasciando un solo superstite, che entrò di nuovo a far parte della
cittadinanza romana. Servio, In Aen., I, 12; Gellio. L'importanza delle colonie
nel periodo gentilizio fu già messa in evidenza dal Vico, Scienza nuova. Intorno
alle colonie ed alle varie loro specie, è accurata la trattazione del WALTER,
Storia del Dir. Rom., Trad. Bollati.Quanto alla tradizione circa la gens Fabia,
vedi Bonghi, Storia di Roma. Alla secessio, che è volontaria, si contrappone
invece l'expulsio, quale fu quella, che ebbe ad avverarsi per la gens Tarquinia;
espul sione, che per la intimità del vincolo, che stringe insieme i membri di
una medesima gente, dovette poi essere estesa a tutti coloro che portavano quel
nome, non escluso quel Tarquinio Collatino, marito a LUCREZIA, il cui oltraggio,
secondo la tradizione, e stata occasione allo scoppio di quella rivoluzione
patrizia e plebea ad un tempo, che condusse alla trasformazione del governo
regio in repubblicano. Intanto questi varii istituti, unitamente all'amicitia,
all'hospitium, alla societas e al foedus, che serviva a dar forma giuridica e
so lenne a tutti i rapporti amichevoli fra le varie genti e tribù, avendo in
gran parte avuto origine nel periodo gentilizio, dimostrano abba stanza come la
città, la quale era uscita dalla federazione e dall'accordo, potesse anche
subire dei mutamenti, che si operavano nella stessa guisa. Essa aveva mezzi
diversi per accrescere o scemare il numero di coloro, che partecipavano alla
stessa comunanza. Finchè infatti la città fu esclusivamente patrizia, potevano
bastare la cuoptatio o la expulsio, mediante cui una gente poteva essere ac
colta o respinta dall'ordine patrizio, e cosi entrare od uscire dalla
partecipazione alla stessa comunanza. Quando poi patriziato e plebe si fusero
insieme ed entrarono così a far parte dello stesso esercito e dei
medesimicomizii, in allora si svolgono la secessio da una parte e la concessio
civitatis dall'altra, e quest'ultima potè essere consen tita cum suffragio o
sine suffragio. Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla tribù e
poscia dalla città, serve a questa per trapiantare le sue propaggini altrove;
mentre il municipium viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui
popolazioni,che avevano altrove la propria sede ed avevano anzi una propria
amministrazione ed una propria vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare
alla vita pubblica della città, senza però essere ammesse agli onori ed al
suffragio. Sarà solo più tardi, allorchè il sistema municipale sarà svolto in
tutte le sue conseguenze, che le città latine prima e le città italiche dappoi,
pur serbando il diritto di partecipare alla amministrazione della loro patria
originaria, otter ranno tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di
Roma, che comincierà cosi ad essere considerata come la communis patria. Così
viene preparandosi l'organismo della città per guisa, che essa possa essere
capo e centro di qualsiasi vasto impero, e mentre le popolazioni, ammesse alla
cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della
grandezza romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del
mondo e si eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo. Solo più ci resta a
vedere, se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius belli, già
aves sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute formando. In
proposito già si è dimostrato, come non possa ammettersi il concetto, pressoché
universalmente accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato
naturale delle genti italiche. Esse invece si considerano come straniere le une
alle altre e non hanno fra di loro comunione di diritto. Quindi al modo stesso
che occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di
pace; cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia
uscire da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere considerate
come in stato di guerra. Quanto alle cause, che possono far scoppiare una
guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui si trovano le
tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in cui dovette
dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii, i cui
confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere frequenti
le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di più pud
ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o gli
uomini singoli,che appartengono alla medesima (homines Her munduli) abbiano
commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza vicina. Così
pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie, appartenenti
a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le aderenze dell'una e
dell'altra, come avvenne appunto in occasione della cacciata da Roma di
Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una vera e propria guerra.
Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe [A questo proposito però
fu giustamente notato, che una delle cause della de. cadenza di Roma fu
l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città italiche di prendere
parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva perciò per pre valere
la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella Repubblica Romana.] riodo rappresentate dai proprii capi; cosi punto non
ripugna che le sorti della guerra siano anche rimesse ad un combattimento
singolare fra individui, col patto che l'esito della guerra dipenda dalle sorti
di un privato duello. Così pure, è nel carattere del tempo che, quando si
incontrano i due capi, essi vengano fra loro ad un combattimento non dissimile
da quello, che la tradizione attribuisce a Giunio Bruto e ad Arunte, il più
forte fra i figli di Tarquinio, e che la moltitudine dei combattenti si arresti
a contemplare la lotta fra i proprii capi. Niuna maggior gloria potrà
ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere le spoglie dell'altro, ed è a
questo concetto certamente che rannodasi il culto, che ancora trovasi così
radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano quelle appunto che dal
capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra, erano appese nel
tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali ricordavano le volte in cui
rinnovavasi il memorabile fatto. Per quanto questimodi di pensare e diagire
possano riuscire singolari per noi, che siamo giunti a scorgere nella guerra un
rap porto fra due Stati; questo è però certo, che i medesimi trovano una
naturale spiegazione nel fatto, che durante il periodo gentilizio i rap porti
fra le stesse tribù non riescono ancora a distinguersi da quelli fra i capi,
che le rappresentano. Diqui conseguita, che il concetto della guerra fra i
popoli ancora si confonde col duello fra i capi che lo rappresentano; il che è
dimostrato fino all'evidenza dall'origine co mune dei vocaboli duellum e bellum,
come appare dal vocabolo perduellis, che mentre ancora accenna al duellante
significa già il pubblico nemico. Ciò spiega eziandio le traccie, che occor
rono anche in Roma di duello giudiziario, poichè in esso noi abbiamo quel mezzo,
che serve per risolvere le controversie fra i popoli appli [È ovvio osservare
l'analogia,che presentano le primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci
descrive nell'Iliade, ove soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle
gesta dei proprii capi. Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime
parmi così naturale, che mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che da
me furono letti. (2) A questo proposito osserva il BRÉAL, Dict. étym. lat., vº
Duo, che il cambia mento di duellum in bellum è analogo a quello di duonus in
bonus, di Duilius in Bilius, di duis in bis, per guisa che come da duo derivd
duellum, così da bis potè derivare bellum. Del resto il vocabolo di duellum per
bellum occorre ancora sovente nei poeti latini e fra gli altri Plauto chiama i
Romani « duellatores optimi »] cato a risolvere una controversia privata fra
individui; il che in so stanza costituisce il processo inverso di quello, in
cui il duello fra due individui viene ad essere adoperato qual mezzo per
risolvere la guerra fra due popoli, e dipende perciò dal medesimo ordine di
idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati e viceversa. È
nello stesso modo, che possiamo riuscire a darsi ragione di quella analogia
costante, che non può a meno di essere notata fra le formalità, che
accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle, che accompagnano l'azione
che il capo ili famiglia propone in giudizio. 130. È solo infatti questo modo
di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti ed ispirato al modo di
pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a dare una spiegazione del
tutto naturale di quella procedura grandiosa e solenne, che accompagna appunto
la dichiarazione di guerra. Per quanto tale procedura, tras portata dallo
spirito conservatore dei Romani in un'epoca diversa da quella in cui erasi
formata, possa apparire artificiosa e siasi talvolta considerata come un complesso
di formalità esteriori, archi tettato per celare l'ingiustizia e la prepotenza
di un grande popolo; questo è però certo, che essa, ricondotta col pensiero
all'ambiente in cui ebbe a formarsi, viene ad essere l'immagine di modi di pen
sare e di agire veri e reali, che intanto poterono essere espressi in modo così
vigoroso ed efficace, in quanto furono a quell'epoca profondamente sentiti. Questo
intanto è fuori di ogni dubbio, che i varii stadii del dramma corrispondono
mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero svolgersi in un'epoca
patriarcale. Una popolazione vicina o uomini appartenenti alla medesima in
vasero il territorio della comunanza, saccheggiandone i raccolti ed (1) Le
formole grandiose del ius fociale ci furono conservate sopratutto da Livio, nel
libro primo delle sue storie, ove descrive il processo per la dichiarazione di
guerra al cap. 32; quello per la conclusione di un'alleanza al cap. 24; e
quello per la deditio al cap. 38. Come è notabile la solennità di esse, così è
degna di attenzione la coerenza che esiste fra queste varie procedure, le quali
perciò appari scono come lo svolgimento di un medesimo concetto. Quanto alle
divergenze circa la loro interpretazione e ai tentativi di ricostruzione di
formole, che a parer mio appariscono del tutto complete, mi rimetto all'opera
del FusinaTO, I Feziali ed il diritto feziale. G. CARLE, Le origini del diritto
di Roma. [esportandone mandre ed armenti. La comunanza ne è profonda mente
commossa, e il capo di essa, che è pur sempre il padre co mune di tutti,
accompagnato da altri capi di famiglia, recasi in persona sul confine del
territorio, che appartiene al popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando in
testimonio le divinità patrone della sua comunanza, quella che protegge il
confine e il fas, protettore comune ditutte le genti, espone l'ingiuria e il
danno sofferto, e questo ripete a chiunque incontri per la via, e da ultimo
sulla piazza del villaggio, spergiurandosi di dire il vero. Questa parte
preliminare chiamasi clarigatio, da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta
mente il torto sofferto, e repetitio rerum, dal chiedere la restituzione delmal
tolto. Se le cose, che eglidomanda, sono restituite, egli ritorna con esse, e
cogli uomini, che hanno compiuto il saccheggio, che gli sono consegnati,
mediante la noxae deditio; ma se egli non ottiene soddisfazione, ha luogo
l'obtestatio deorum, con cui chiede in testi monio le divinità del suo popolo e
tutti gli altri Dei, che il popolo, di cui si tratta, è ingiusto e vienemeno al
diritto (populum illum iniustum esse, neque ius persolvere). Viene infine
l'ultima parte della dichiarazione di guerra, in cui il capo del popolo offeso,
dopo essersi consultato coi suoi, dichiara al popolo offensore la guerra, get
tando entro i confini del suo territorio un dardo intriso di sangue
accompagnato dalle parole: « bellum indico facioque », e si ha così in un solo
atto l'indictio belli e l'initium pugnae. È fuori di ogni dubbio, che questa procedura,
eminentemente patriarcale, dovette assumere alcun che di artificioso per essere
adat tata ad un popolo, come il romano: poichè il medesimo aveva una co
stituzione politica molto complicata, in base alla quale i feziali, che si
erano recati per la rerum repetitio, dovevano poi tornare per avere l'avviso
dei padri, e forse anche la deliberazione del popolo intorno alla guerra, che
trattavasi di fare; ma questo è certo, che anche così trasformata essa non
perde le sue primitive fattezze. Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo
una finzione, richiama pur sempre l'im poneute figura del patriarca primitivo;
tolgansi i feziali, che erano sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro
collegio sacerdotale del popolo románo, avevano solo per compito di custodire
le tradizioni, relative al diritto di guerra e di pace, senza avere alcuna
competenza intorno alla giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva
alla guerra o all'alleanza; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la
repetitio rerum, accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio deorum,
quanto infine l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il
colore e il carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali,
che dovettero seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non
toglie, che le procedure del diritto fe ziale, al pari delle antiche procedure
dell'actio sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un
organizzazione sociale di altra indole e natura, affidate alla custodia di un
collegio sacerdotale, rese complicate dei varii congegni di una costituzione
politica, che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun
sero di necessità un carattere alquanto artificioso, e apparvero come forme,
vuote di contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo,
che in sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale, ed era
venuto nel proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il
diritto feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca
remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole
accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie
genti. Era pero naturale, che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale fosse
destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene trarne
l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte, appare sempre lo
spirito conservatore del popolo romano, che continuò a conservare e a tenere in
onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto, di cui essi erano i
depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso. Intanto non pud
essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura e quella, che
abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento. Siccome però queste procedure
non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come alcuni le avrebbero
ritenute, ma sono forme tipiche di fatti, che un tempo dovettero seguire nella
realtà: cosi, per essere il processo effettivo veramente diverso nel venire al
duello od alla guerra fra due popoli, e nel sorgere di una controversia fra due
privati, ne derivò, che le due procedure non poterono essere perfettamente
conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma dovettero di necessità riuscire
diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la storia di una controversia fra
due capi di famiglia, i quali, stando già per venire alle mani, piuttosto che
ab bandonarsi alla forza ed alla violenza, accettano l'interposizione di una
persona autorevole, scommettendo di essere dalla parte della ragione e
chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due genti 164 invece non può
esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo aver reclamato il mal
tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del l'ingiustizia, che quel
popolo ha commessa, e a nomedella medesima divinità gli si dichiara la guerra «
extremum remedium expedien darum litium ». Quello è il processo, che si è
seguito per strappare i contendenti alla privata violenza e per indurli ad
accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice: questo è il processo, che
deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità della guerra. Che poi vi
fossero buone ragioni, perchè una procedura solenne precedesse una
dichiarazione di guerra, appare dalle dure conseguenze, che il consenso delle
genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel periodo gentilizio era
un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare, finchè uno non avesse
portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro. Era guerra di uomini e
guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano le for mole che ci
furono conservate, con cui quel popolo, che faceva delle stipulazioni e dei
contratti « do utdes » anche cogli Dei, cercava di attirare a se il favore
delle divinità del popolo, con cui era in guerra. Una volta poi, che questa era
intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo stato naturale dei due
popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o per seppellire imorti o a
causa della cattiva stagione, la guerra si continuava finché non si veniva ad
un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di uno dei popoli in
guerra. La deditio era per un popolo ciò, che per un privato il darsi a [È
mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e compianto Danz, prof. a
Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi ragionamenti sono
riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata. Intanto tutto questo sforzo
di acutezza è ancor esso una conseguenza dell'aver ritenuto il diritto
primitivo di Roma, e quindi anche il diritto feziale, come una costruzione
essenzialmente formale e non basata sulla realtà dei fatti. Se invece si
ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette in altri tempi essere
up complesso di reali ed effettive procedure, non si potrà certo pretendere che
l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com piuto un ufficio diverso,
potessero essere pienamente identiche fra di loro. Quanto alle loro analogie
esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione fra il diritto pubblico e
privato,durante il periodo gentilizio. Queste formole ci furono conservate da
MACROBIO, Saturn., il quale dice di averle ricavate da un libro antichissimo di
un certo Furio (cuius dam Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A.
Furio Anziate, scrittore di diritto sacro e di annali in versi. Esse sono
riportate dall' HUSCHKE, Iurisp. an teiust. quae sup., pag. 11. - 165 mancipio,
cioè un perdere famiglia, patria, territorio, religione, libertà e non avere
altra speranza, che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità,
che l'avevano abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la
propria sorte, entrando in quella classe dei vinti, che formava un eterno
dualismo con quella dei vincitori. Che anzi i Romani applicavano anche a se
stessi quel medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del
diritto di postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il
cittadino romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra, e a fare
astrazione dal tempo, che egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico.
Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra, che spiegano quanto dovesse
essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei vincitori
e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione di
matrimonii, nè di reli gione, salvo dopo una lunga convivenza nei quadri
dell'organizza zione gentilizia, in cui i vinti formarono la classe dei servi,
dei clienti e per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono
quella dei padri, dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo,
in cui le genti italiche vennero elaborando la religione, il diritto, la
famiglia, le istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è sopravvissuto:
dei veri grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza sociale non si
conosce nè la patria, nè il nome, nè l'epoca precisa, in cui siano vissuti; ma
se la memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le isti tuzioni e tutti
i concetti fondamentali, che costituirono poi la base della futura grandezza di
questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue istituzioni, di cui dovette
essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo passato; ora importa stu
diare le condizioni della plebe, la quale se non ha per sè il passato, dovrà
perd avere una gran parte nell'avvenire della città. La formola della
deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È notabile: che in essa intervengono
anche i Feziali; che si domanda se il popolo che fa la deditio è in sua
potestate (il che prova che un popolo, al pari di una persona, poteva essere
sotto la potestà di un altro); e che è serbata affatto la forma contrattuale
della stipu lazione: « Deditisne vos populum Conlatinum, urbem, agros, aquam,
terminos, de « lubra, utensilia, divinaque humanaque omnia, in meam populique
romani ditio « nem? – Dedimus. At ego recipio ». Le cose premesse intorno
all'organizzazione ed alle istituzioni proprie delle genti patrizie ci pongono
finalmente in condizione di prendere in esame la questione della origine della
plebe e della sua posizione giuridica di fronte al patriziato negli inizii
della comu nanza romana. La genesi di questo elemento, che, poco importante
dapprima, fini per esercitare tanta influenza sull'avvenire della città, è
certo il più importante problema della storia primitiva di Roma, e quindi si
comprende che gli autori tutti siansi travagliati intorno al medesimo ed
abbiano anche proposto opinioni compiutamente di verse (1). Sonovi alcuni, fra
i quali il Lange, che vorrebbero rannodare l'origine della plebe alla caduta di
Alba e alla conquista di altre città latine, la cui popolazione sotto Anco
Marzio sarebbe stata tras portata a Roma. Certo un tale avvenimento non potè a
meno di avere grande importanza per accrescere il numero ed assicurare
l'avvenire della plebe romana; ma egli è impossibile riconoscere in questo
fatto l'origine primitiva della plebe, dappoichè, secondo la tradizione, la
medesima sarebbe già esistita all'epoca della prima fondazione di Roma;
cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb bero preso dei provvedimenti per
l'ordinamento di essa.L'enumerazione delle varie opinioni circa l'origine della
plebe colla indicazione degli autori, che le professano, può vedersi nel
Willems, Le droit public romain, pag. 31, e nel Bouchè-LECLERCQ, Manuel des
institutions romaines, pag. 11, né 3; come pure nell'opera, ancora in corso di
pubblicazione, del prof. LANDO LANDUCCI, col titolo: Storia del diritto romano
dalle origini fino a Giustiniano. Corso scola stico. Padova, 1886, pag. 274;
opera che,mentre nel testo offre riassunti i risultati, a cui son pervenuti gli
studii sulla storia del diritto romano, nelle note porge no tizia agli studiosi
della ricchissima letteratura sull'argomento. (2) Il Lange, Histoire intérieure
de Rome, I, pag. 56 e segg., tratta largamente la questione e considera la
plebe primitiva di Roma, come una moltitudine di pe regrini dediticii, il cui
nucleo più importante sarebbe uscito dalle città latine. A suo avviso, essa è
dapprima affatto estranea al popolo delle curie, la quale opinione è pure
seguita dal KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte] Non può parimenti ammettersi
col Vico, che la plebe fosse origina riamente costituita da clienti ammutinati
contro l'ordine dei padri, in quanto che, durante il periodo regio, la plebe
non trovasi an cora in condizioni tali da impegnare la lotta col patriziato;
lotta che, sebbene siasi forse iniziata al tempo dei re, cominciò solo ad
essere argomento di racconto e di storia col periodo repubblicano. A ciò si
aggiunge, che anche durante la lotta i clienti ed i plebei appariscono in
opposizione fra di loro, comeappare dai richiamidella plebe contro la clientela,
che costituiva la forza maggiore dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto,
che condusse taluni a con siderare la plebe e la clientela, come due termini
inconciliabili ed opposti fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi
state delle famiglie, che originariamente erano in condizione di clienti, e che
poi il quale considera anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della cerchia
della Roma primitiva, e nota che il Celio, l’Appio e il Cispio, secondo una
osservazione stata fatta di recente, hanno un nome identico a quello proprio di
genti plebee. Anche il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 258, viene alla
conclusione che i plebei non solo non partecipassero alle curie; ma che essi
costituissero una corporazione distinta, la quale, dopo l'istituzione del
tribunato della plebe, si sarebbe organizzata nei comitia tributa. La
corporazione esercitava sui suoi membri un potere di coerci zione, ne quid ex
publica lege corrumpent. Il suo magistrato era il tribunus plebis; al modo
stesso che i suoi giudici non sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i
decemviri, che sarebbero stati tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione,
che contrappone più apertamente il populus e la plebes, e ci fa assistere alla
lenta fu sione dei due elementi, anche dopo che entrarono a formare parte della
stessa comu. nanza. Questo è certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che
quella singolare isti tuzione del tribunato della plebe, che non riesce mai ad
inquadrarsi perfettamente nella costituzione politica di Roma, dimostra
abbastanza, che se colla legislazione decemvirale i due ordini cominciarono ad
essere governati da un comune diritto; essi continuarono però ancora per lungo
tempo a costituire due classi sociali com piutamente distinte, e recarono un
contributo molto diverso sia nello svolgimento della costituzione politica, che
in quello del diritto privato di Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia del
diritto romano, pag. 19, e la nota del prof. Cogliolo, in cui pare che
l'annotatore si scosti dall' opinione certamente troppo recisa del Padel LETTI,
il quale sostiene che patriziato e plebe siano stati, fin dalle origini,
ammessi a far parte della assemblea delle curie. Il luogo, in cui il V100
svolge più chiaramente questo suo concetto, è nella prima Scienza nuova, lib.
II, Cap. XXXII, dove scrive: « che le prime repubbliche sorsero dagli
ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di coltivare i campi per li
signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati, gli si rivoltarono contro;
e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi; onde, per resister loro,
furono i nobili dalla natura portati a stringersi in ordini »: Di qui appare,
che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe ad epoca anteriore alla
formazione della città. 168 recarono un contributo potente alla plebe nella sua
lotta col patri ziato; donde si può argomentare, che anche nella plebe
primitiva possono essere entrati degli antichi clienti, che per circostanze di
varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della clientela. Cosi stando le
cose, ha molto del verosimile l'opinione del Mommsen, che in qualche parte si
accosta a quella del Vico, secondo cui il nucleo primitivo della comunanza
plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di clienti, che di fatto si
trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione della gente, da cui essi
dipendevano (1). Se non che si presenta ovvia l'osservazione, che quando questo
fosse stato il solo mezzo per costituire la plebe, la medesima diffi cilmente
avrebbe potuto, fin dal periodo regio, prendere così grandi proporzioni da
imporsi al patriziato e farsi accogliere nella città. Quindi è, che l'opinione
del Mommsen trova forse un opportuno compimento nella teoria del Niebhur, il
quale, tenuto conto del modo, in cui le comunanze plebee si erano formate in
condizioni sto riche analoghe a quelle in cui trovavansi i primitivi
stabilimenti delle genti patrizie, venne a considerare come una legge storica
costante, quella per cui accanto ad uno stabilimento di casate pa trizie,
chiuso e fortificato in sè stesso, formasi naturalmente una specie di comunanza
plebea; la quale, senza partecipare dapprima agli onori, ai suffragi, e ai
matrimonii della città patrizia, pud tut tavia giungere ad una certa
indipendenza dalla medesima, mediante il possesso e la coltura delle terre, e
mediante l'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse (2 ). Tuttavia
anche l'opinione del Niebhur (1) MOMMSEN, Histoire romaine, I, Chap. V, pag.
103 e segg. Questa opinione fu poiadottata dal WILLEMS, Le Sénat de la
République Romaine,Paris, 1878, pag. 15. (2) Ritengo che anche oggi il Niebhur
sia l'autore, che è pervenuto a studiare con vedute più larghe l'origine della
plebe. Di regola esso è annoverato fra coloro, i quali ritengono che la plebe
sia stata composta delle popolazioni vicine a Roma, state dalle medesima
sottomessa. Tale è, ad esempio, l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS
dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc. cit. La lettura invece del capitolo intitolato:
« La commune et les tribus plébéiennes » della Histoire romaine, mi ha convinto
che il NIEBHUR si è fatta una idea più larga della questione. Le conquiste,
secondo lui, hanno bensì contribuito ad accrescere e a trasformare la plebe
romana, sopratutto coll'incorporazione delle popolazioni latine; ma intanto
essa già preesisteva nelle stesse tribù primitive, costituiva una specie di
vera comunanza separata e distinta dal patriziato, composta mediante
l'ammessione di cives sine suffragio, e di clienti rimasti senza patrono (op. e
loc. cit., pag. 149). Tuttavia misia pur lecito di constatare, che l'autore, il
quale ha meglio compreso quel carattere 169 lascia ancor sempre senza
spiegazione quello stato di inferiorità e di abbiezione, pressochè servile, in
cui una parte almeno della plebe trovasi di fronte al patriziato negli inizii
di Roma; cose tutte, che non si comprenderebbero quando si trattasse di
possessori e di cul tori di terre, che fossero stati sempre indipendenti dal
patriziato. 137. Tutte queste considerazioni mi confermano nell'opinione già
altrove manifestata, che il fenomeno della formazione primitiva della plebe
debba cercarsi nella sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra
altre razze già preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non
dovette essere dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le
razze germaniche invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di
loro dovettero dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in
quella dei vinti; in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente
organizzazione genti lizia, e in quella di coloro, che non erano ancora cosi
progrediti nella loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono
la classe dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre
più fortificando nella loro ferrea organizzazione gentilizia, e tentarono di
fare entrare nei quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola
nella condizione subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e
di conflitto, che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione
di classi, che si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso, che
è nell'epoca feudale, che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni
di classi, le cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede
eziandio origine al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima
origine della distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche
primitive, conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la
posizione, in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente
organizzazione dei vincitori; problemi tutti, per la cui risoluzione ci mancano
per ora gli elementi necessarii. particolare della città antica, per cui essa
suppone il concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro
inferiore, le cui lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il
nostro Vico. La città patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione
di padri; mentre è la città patrizio-plebea, che ci porge lo spettacolo della
lotta tra quelli, che intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose,
e quelli che abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente. 170
138. Forse tali indagini potrebbero anche condurre al risultato, che fra le
varie comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed
organizzate per genti e che come tali appartenevano al patriziato e
costituivano una specie di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano
delle altre, prive di tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi e
all'esercizio delle professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere
stato ad esempio il vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee.
Quest' ultime naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e
pressochè di vas sallaggio, rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in
certi con fini quei forcti ac sanates, di cui ci parla Festo, che comprende
vano le popolazioni superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza
rimpetto alla medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del
proprio diritto, cioè il ius nexi manci piique (1). Tuttavia, se ciò può esser
vero delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza, che certamente
un buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana di Roma ebbe
ad uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore nell'orga
nizzazione gentilizia. Cid soltanto può spiegare la superiorità incon trastata
del patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte della plebe, che
tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha il servo
affrancato per il suo antico padrone (2 ). (1) La questione intorno alla
condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la
storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi
degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo, vº Sanates, quale è riportato
nel Bruns, Fontes, pag. 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal
Mommsen). Io credo tuttavia, che la medesima, dandoci un concetto del tratta
mento giuridico, che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma,
possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione
della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi
l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro. (2) Ecco quindi
la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma
voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione
gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione, che ha sede contigua allo
stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra
invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo
nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di
esso. Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa intorno
alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle varie
tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei padri, ed
altra è la plebe, che la tradizione dice rac -- - 171 - 139. La formazione poi
di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli dell'organizzazione
gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde quando alla gente, che
era ancora stretta insieme dal vincolo della discendenza, cominciò a
sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi, che potevano essere di
origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere nei suoi quadri,
consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si venivano affollando
intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori dell'organizza
zione gentilizia, che era l'unica riconosciuta dalle genti patrizie, una
moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito dal seno stesso
della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti senza patrono; al
modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano in parte costituite
da famiglie, che un tempo erano vassalle del feudatario. Siccome però
nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare l'elemento novello,
mentre il mede simo, una volta formato, può poi accrescersi in varie guise ed
acco. gliere tutti coloro, che, per questa o quella considerazione, si trovano
spostati nell'anteriore organizzazione: cosi questo primo nucleo, dopo essersi
staccato dalla stessa organizzazione gentilizia, venne richia mando e quasi
attraendo a sè rifugiati di altre comunanze; servi fuggitivi; immigranti, che
non amavano di porsi sotto la protezione del patriziato, o che, per motivi
religiosi o di altra natura, non erano ammessi alla medesima; popolazioni di
vinti, che perdevano territorio, religione e famiglia; abitatori di vici, che
si erano dati all'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse; cultori
di terre, che di fatto si erano stabiliti sul territorio situato nelle
circostanze dello stabilimento patrizio; popolazioni stabilite superiormente od
inferiormente a Roma, a cui per necessità di commercio si dovette dapprima
accordare quel ius nexi mancipiique, di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai
forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe anche come queste popolazioni, il cui nome
era diventato inesplicabile per gli stessi antiquarii romani, abbiano col tempo
perduta la loro an tica denominazione, in quanto che, a misura che estendevasi
la do minazione romana, tutte queste popolazioni vennero ad essere com prese
nella plebe, e non fu cosi più il caso di attribuire ad esse una colta mediante
l'asilo offerto da Romolo. È parlando di questo asilo, che Livio, I, 8, ebbe a
scrivere: « E. (asylo) ex finitimis populis, turba omnis, sine discrimine liber
seu servus esset, avida novarum rerum, perfugit; idque ad caeptam magnitu dinem
roboris fuit ». 172 speciale posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo primitivo
si venne ingrossando, e quando le genti patrizie volgero lo sguardo at torno a
sè videro in esso una plebs, che nel significato primitivo suona moltitudine o
folla. Il nome pertanto, che le fu dato, corrisponde alla impressione, che
questa folla deve aver fatto sopra una classe di uomini, che non conosceva
altra organizzazione fuorchè la gentilizia. Le genti infatti non potevano
scorgere in essa dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa, che per
esse non aveva quel carattere religioso e sacro, che avevano tutte le loro
istituzioni. Non potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè
divisa in curie, nè aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato, che la
diri gesse, nè era insomma un « coetus hominum iuris consensu et uti. litatis
comunione sociatus », e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra
populus et plebes, che trovasi in alcune formule arcaiche; dualismo, che per
essere l'effetto di cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in
tutte le comunanze delle genti italiche. Di queste tuttavia, se ne hanno di
quelle, in cui quest'elemento è tenuto in umile stato, come sarebbero le città
etrusche, ed altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali
sarebbero appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per
quest'elemento novello, che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria
gerarchia, dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più
tardi i patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano trasformarsi
nei comizii tributi; ma al lorchè il numero di questa plebe venne facendosi
sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di necessità
essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere belligero,
quale era la romana. 140. Narra infatti la tradizione, per bocca almeno di
Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe collocata la plebe
nella clientela del patriziato, e incaricato i padri di farle assegnidi terre,
a titolo di precario, non dissimili da quelli, che essi facevano ai clienti. In
verità per una città eminentemente patrizia, come era Roma primitiva, il
miglior modo per organizzare la folla, che aveva seguito l'esercito del
fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da essa fondato, era
quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione gentilizia. Fin
qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale, ma è costretta ancora nei
quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna nascente di Roma od 173
anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli esuli dalle altre città
(questo vetus urbis condentium consilium, che non è poi cosi improbabile, come
ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia mare nei dintorni della
città una quantità di individui e di capi di famiglia di provenienza diversa;
anche la clientela venne ad essere insufficiente per comprendere nei proprii
ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè forse essere di origine
ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze diverse da quelle dai
fondatori della città. Era stata la lunga coabitazione come servi e famuli
nella famiglia, che nell'anteriore organizzazione gentilizia aveva servito a
preparare la clientela delle genti patrizie. Questa preparazione invece mancava
nel nuovo elemento, che accorreva nei dintorni di Roma; per tal modo l'antica
istituzione religiosa ed ereditaria della clientela venne ad essere inadeguata
e disacconcia al bisogno ed inetta a dare un'organizzazione al nuovo elemento.
Quasi si direbbe che, collo svolgersi della città, l'antica forma, sovra cui si
era modellata l'anteriore organizzazione sociale, che colla tribù già erasi
alquanto sgretolata, venne a rompersi affatto. Quindi mentre tutto prima era
compreso nella gerarchia gentilizia, colla città in vece comincia a farsi
palese e a colpire lo sguardo questo ele mento novello, che guadagna e richiama
a sè tutto ciò, che sfugge all'antica organizzazione. Dapprima il fatto dovette
colpire l'ordine stesso dei padri, e loro parve strano di dover riconoscere,
che l'or ganizzazione gentilizia più non potesse bastare ad ogni emergenza. Ma
col tempo fu necessità arrendersi all' evidenza, e l'elemento nuovo non poteva
essere trascurato per una comunanza come la Romana di carattere eminentemente
belligero, e che abbisognava perciò di un contingente sempre nuovo per riempire
le file del proprio esercito. Sopratutto il nuovo elemento doveva apparire im
portante per il re, il quale da una parte poteva trovare in esso un sussidio
potente per la formazione dell'esercito, e dall'altra, as sumendo la qualità di
patrono non dei singoli plebei, ma dell'in tiera classe, poteva anche trovare
in essa un appoggio per bilanciare la soverchia influenza dei padri. Questi
infatti, memori, che il re era il loro eletto ed il rappresentante, a cui
avevano affidato i proprii auspicia, lo volevano naturalmente ligio ai proprii
interessi e mira vano a valersi di esso per trasportare anche nella città
l'organiz zazione per genti e per tribù, per quanto la medesima male si accon
ciasse alla nuova condizione. Gli è
questo il motivo, per cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai
re, che vengono dopo, una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare
la plebe. Mentre Romolo, dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la
coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto
la clientela dei padri, e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere
un ele mento nuovo (1), Numa invece già prende quanto alla plebe due
importantissimi provvedimenti. Il primo è quello di distribuire direttamente ai
più poveri, che sono appunto quei tenuiores, di cui parla Festo, e che appartengono
alla plebe, l'ager conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac crescere
l'ager publicus; il quale provvedimento produsse l'effetto, che la plebe da
questo momento, almeno in parte, cesso di essere sotto il patronato dei patres.
Però siccome i cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al patronato dei
patres sembra sottentrare una specie di patronato del re, il quale fa alla
plebe quegli assegni di terre, che dapprima erano affidati ai patres (2). Forse
può darsi che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re alla plebe
sull'ager publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario, come quelli
che erano fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius; ma in tanto è già
un passo importante per la plebe quello di non dipen dere più direttamente dai
capi delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno sotto la protezione
diretta del re, custode e ma gistrato della città. L'altro provvedimento,
ricordato da Plutarco, e che egli dice essere stato altamente lodato, fu quello
per cui Numa avrebbe di (1) Dion., 2, 9: « Romulus postquam potiores ab
inferioribus secrevit;mox legem tulit et quid utrisque faciendum esset
disposuit: patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et iudicarent,
plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes exercerent »
(Bruns, Fontes, pag. 3 ). (2 ) Quanto a questa ripartizione fatta da Numa, vi
ha divergenza fra CICERONE, De rep., II, 14, secondo cui la ripartizione si
sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO vuole che siasi
fatta ai più poveri, II, 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I, pag. 85. - Per
quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe, ritengo col
KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi cazione giuridica
attribuita al vocabolo (Röm. R. G., I, pag. 63 ). Ciò tuttavia pon toglie, che
la plebe, dopo essersi resa indipendente dal patriziato, abbia trovato nel re
il suo protettore naturale, e siccome tale protezione non si comprendeva al
lora che sotto la figura di clientela, così gli autori considerarono il re come
patrono o la plebe come sua cliente. - stribuito quella parte della plebe, che
era dedita alle arti manuali e all'esercizio delle professioni diverse, in
corporazioni di arti e mestieri (collegia ), che furono nove: quella cioè dei
suonatori di flauto, degli orefici, dei muratori, dei tintori, dei calzolai,
dei cuoiai, dei fabbri, dei vasai e l'ultima di tutte le altre professioni,
dando alle medesime proprie riunioni e i proprii riti. Vero è, che questo
provve dimento ebbe ad essere posto in dubbio dalla critica e fra gli altri dal
Mommsen, e che probabilmente i collegi, la cui formazione si attribuisce a Numa,
potevano già esistere precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la cui
popolazione fu una delle prime ad essere compresa nella plebe romana: ma non è
punto improbabile che, come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita alla
coltura delle terre, cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla plebe
dedita agli esercizi delle arti e professioni diverse, o di consacrare almeno
l'organizzazione, che già esisteva precedentemente o che tro vavasi in via di
formazione (1). Non è quindi il caso di respingere la tradizione, dal momento
che non vi ha nulla di meglio da sosti tuirvi; almodo stesso che è meglio
accettare anche le figure alquanto leggendarie dei re, piuttosto che
sostituirvi qualche cosa, che non ha neppur più della leggenda, la quale è pur
sempre intessuta sopra un fondo di vero. Intanto questo si può affermare con
certezza, che fin dagli inizii di Roma cominciò ad apparire un dualismo nella
plebe ro mana, che, accennato fin dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe
la coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, già comincia a
delinearsi con Numa, il quale ad una parte della plebe fa assegni di terre e
l'altra distribuisce per arti e mestieri, e che più tardi finisce per
accentuarsi molto più recisamente. Havvi infatti in Roma, fin dai proprii
esordii, una plebe rurale, composta di piccoli possidenti, ed (1) PLUTARCO,
Numa, 17: « De ceteris eius institutis maximam admirationem « habet plebis per
artificia distributio; haec vero fuit: tibicinum, aurificum, fabrorum «
tignuariorum, tinctorum, sutorum, coriariorum, fabrorum aerariorum, figulorum;
« reliquas artes in unum cöegit, unumque ex iis omnibus fecit corpus; consortia
et < concilia et sacra cuique generi tribuens convenientia » (V. BRUNS,
Fontes, pag. 11 ). L'autore, che sembrava porre in dubbio questa distribuzione
della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo stesso MOMMSEN, De collegiis ac
sodaliciis; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 11; ma
pare che nella Storia Romana accetti la ripartizione stessa come una verità di
fatto. - - una plebe, composta di artieri, commercianti, esercenti le arti e le
professioni diverse. L'ideale della prima è quello sopratutto di mu tare le sue
possessioni di terre in una proprietà indipendente, che la ponga in condizione
di provvedere al sostentamento di sè e della propria famiglia; quello insomma
di avere quell'heredium o man cipium, che pur appartiene al capo della famiglia
patrizia. A questa plebe, che non abita nelle mura di Roma, ma nelle
circostanze di essa, dovette probabilmente dalla città patrizia essere
riconosciuto quel diritto, che più tardi da Roma fu pure riconosciuto alle popo
lazioni vicine, che sono indicate col nome di forcti ac sanates, cioè il ius
nexi mancipiique. Cid pud essere argomentato da cid, che Roma di regola suole
seguire gli stessi processi in condizioni anaa loghe e quindi è probabile, che
questa plebe, che risiedeva fuori della città, e costituiva in certo modo una
popolazione circostante alla medesima, fosse trattata nel modo stesso, in cui
da essa furono poi trattate le altre popolazioni vicine. L'altra parte della
plebe invece, mancando di altra organizzazione, cerca di rafforzarsi, come farà
più tardi anche la popolazione commerciante dei comuni del Medio Evo, mediante
le corporazioni di arti e di mestieri. Quelli, che apparten gono alla plebe
rurale, convengono in Roma i giorni di mercato per vendervi i loro prodotti, e per
conoscere anche i provvedimenti, che siano presi nell'interesse comune; mentre
gli altri, che apparten gono alla classe dei piccoli commercianti ed artieri,
formano fin d'allora il primo nucleo di quella plebe urbana, nel seno della
quale si formerà più tardi quella forensis factio, che già comincia ad apparire
sotto la censura di Appio Claudio, e getta il discredito sulle tribù urbane.
143. Già erasi così delineata la distinzione fra plebe rurale ed urbana, quando
sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una grande compattezza
all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne accrebbe il numero e la
potenza, le diede anche un nuovo indi rizzo e ne assicurò l'avvenire. Questo
avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della parte più povera della popolazione
di Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo Ostilio, e quella del
trasporto od anche, come pare più probabile, della riunione alla plebe di Roma
per opera di Anco Marzio, della popolazione di varie città latine da lui
conquistate. Questo nuovo contributo venne ad accrescere la forte plebe rurale,
vivamente affezionata al fondo da essa coltivato, e disposta a porre la vita
per la difesa di esso, e fece entrare nella - 177 plebe un elemento, la cui
origine era analoga a quella del patriziato, e che aveva già un'organizzazione
domestica, non dissimile da quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso
del patriziato primitivo di Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie
delle città la tine, che assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando
in essa un elemento, che portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e
politico una tenacità e perseveranza, non dissimili da quelle, che
contraddistinguono il patriziato romano. Di qui la conseguenza, che come era
stata latina l'organizzazione del patriziato romano, poichè gli elementi
sopraggiunti erano entrati nei quadri della città latina; così fu sopratutto
latina la massa più forte della plebe ro mana, quella massa, di cui una buona
parte entro più tardi a costi tuire la nuova nobiltà. Senza questo elemento la
plebe primitiva, di origine diversa e che in parte era forse di origine servile,
avrebbe molto probabilmente continuato lungamente a mantenersi tale;mentre
questo innesto di famiglie latine, che nel loro paese nativo tenevano già un
certo grado, per cui loro dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri
dell'ordine patrizio, portò forza, organizzazione, tenacità nella plebe e ne
assicurò l'avvenire, fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per
uscire dalla plebe stessa, che aveva resa potente, e aggregandosi alla nobiltà
abbandonò la plebe minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di
frumento. 144. Per comprendere però un avvenimento di questa natura, importa
farsi un'idea chiara della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma
dall'altra. Erano entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica
fra varie comunanze di villaggio, ed erano troppo vicine per poter coesistere.
L'una o l'altra doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover
scompa rire come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano
capo ad essa, dovessero invece fare capo a quella, che riusciva vittoriosa. Il
patto quindi che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi
dei due popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che,
trattandosi di popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre
per parte le sorti della guerra (1). (1) Questo intento della guerra Albana è
messo in evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio
nella concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo
squartamento Metto Fuffezio: « Quod bonum, faustum G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era
lotta di pre dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata e
riconosciuta, ed era una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse
preva lere: senza che occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero dei
tre corrisponda alle tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle curie
(1). Conseguenza dell'esito del duello fu, che la città soccombente perdette la
propria esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie
albane furono aggregate al patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i
Tullii, i Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti
pero, per essere sopraggiunte più tardi, furono poi collocate dallo stesso
Tullo Ostilio o da Tar quinio Prisco nel novero delle gentes minores. Tutta la
popolazione invece, che, nelle condizioni, in cui allora si trovava, non poteva
entrare nel patriziato entro in massa nei ranghi della plebe, e una parte di essa,
cioè la più povera, ebbe anche degli assegni di terre. Cid pure accadde, quando
Anco Marzio vinse altre comunanze latine, e ne aggregò la popolazione alla
plebe romana; il che fu dalla tradi zione espresso con dire, che Anco Marzio
aveva trasportata a Roma la popolazione di quattro città latine (2 ). 145. È a
questo punto pertanto, che la plebe acquista in Roma una vera importanza, e che
viene ad essere indispensabile di trovare un modo per farla entrare, ancorchè a
condizioni disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo cominciato con
Tarquinio Prisco, e condotto a compimento da Servio Tullio (3). Mentre
Tarquinio Prisco non riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque,
Albani; populum omnem Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare
plebi; primores in patres legere: unam urbem, unam rempublicam facere ». (1)
Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 35. (2) Questi fatti attestati
dalla tradizione e da tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile
l'opinione sostenuta con molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia
civile e costituzionale di Roma, lib. I, cap. 6, pag. 97 a 113, Torino, 1881,
secondo cui il partiziato romano sarebbe stato Sabellico, mentre la plebe
sarebbe stata Latina. Questi fatti invece dimostrano, che la popolazione delle
città latine era essa pure divisa in patriziato ed in plebe, cosicchè quel
dualismo che presentasi in Roma già preesisteva nel Lazio. Del resto l'ipotesi
del dotto au tore sarà poi presa in esame quando si tratterà della legislazione
regia, Lib. II, cap. IV, discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi
italiche alle istituzioni giuridiche di Roma. (3) L'importanza grandissima per
l'avvenire della plebe romana di quest' innesto 179 che a conglobare i
rappresentanti di queste varie genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine
dei cavalieri, raddoppiandone il numero, e continua a lasciare la plebe nella
condizione, in cui prima si trovava; Servio Tullio invece inizia una
organizzazione novella, che può comprendere così nelle file dell'esercito, che
nelle riunioni dei comizii quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione
economica e sociale, da interessarla alla cosa pubblica. È da questo punto
parimenti, che la plebe rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che
la plebe urbana, e che principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità
della formazione di un diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo ravvicinamento
deve anche essere riposto nel fatto, che le istituzioni del patriziato e quelle
del nuovo elemento, aggiuntosi alla plebe, non erano a grande distanza fra di
loro; poichè l'uno e l'altro avevano la medesima organizza zione domestica, ed
oltre a ciò fra queste famiglie latine ve ne erano di quelle che un patriziato,
meno esclusivo e geloso dei suoi privilegi, avrebbe potuto accogliere nel
proprio seno (1). Ferma quest'origine della plebe e questa primitiva
organizzazione della medesima, veniamo a ricercare quali fossero le istituzioni
giu ridiche, che essa poteva possedere all'epoca, in cui entrò a far parte
della comunanza romana. di forti popolazioni latine sulla plebe primitiva, in
parte di origine servile, è un fatto riconosciuto da tutti gli storici.
Cominciò a notarlo il NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il Lange e molti
altri. (1) Nota molto accortamente a questo proposito il Gentile, Le elezioni e
il bro glio, pag. 142, che « quella nobiltà, che poscia fu chiamata nuova e che
in gran parte esce di ceppo latino, non era tanto nuova, quanto sembra alla
prima; perchè discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità italiche,
venute ad aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli onori in
quella cittadinanza, a cui più o meno recentemente erano ascritte ». Di qui la
conseguenza, a cui egli allude a pag. 150, che « la costituzione romana,
eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità popolare nel
nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica, immobile nella mano di pochi
». La posizione giuridica della plebe di fronte al patriziato. 146. Se posta
questa origine della plebe e questa primitiva or ganizzazione della medesima,
si domandasse ora in che consistesse la plebe all'epoca, in cui essa appare
nella storia di Roma, sarebbe necessità di rispondere con una deffinizione di
carattere negativo. La plebe infatti è negli esordii di Roma tutto quel nucleo
di indi. vidui e di famiglie di origine diversa, che di fatto trovasi stabilita
nel territorio romano, nei dintorni della città patrizia; ma che intanto è
priva ancora di qualsiasi posizione giuridica, perchè non entra a far parte
dell'organizzazione gentilizia. Essa è, come dice Gellio, quella parte di
popolazione, che è stabilita di fatto sul suolo romano, ma in cui « gentes
patriciae non insunt » (1); o meglio an cora quella parte di tale popolazione,
che, non essendo compresa nei quadri della organizzazione gentilizia, non può
dapprima entrare nelle curie e negli ordini della città patrizia. Al modo
stesso, che più tardi si chiamerà peregrinus chiunque non sia cittadino di
Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare anche ad un altro ordine di
idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte quelle cose, che non
appartengono alla cerchia prima formatasi della res mancipii, e anche più tardi
si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar tengono ad una persona senza
appartenerle ex iure quiritium; cosi alla domanda in che consista la primitiva
plebe di Roma si pud solo rispondere, che essa è quell'elemento, che esiste
accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di esso, consacrati dalla reli
gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul territorio della città patrizia,
ma che non è compreso nell'organizzazione giuridica e politica di essa. Ora e
sempre sarà questo il punto di vista, a cui si colloca il popolo romano, il
quale ferma il suo sguardo sopra di sè, sopra il suo culto, sopra la sua
religione, sopra la sua urbs, la sua civitas, sopra il suo diritto, e in base
al medesimo classifica e dispone tutto il rimanente dell'universo, secondo la
posizione, che esso tiene riguardo a sè e alle proprie istituzioni. Questo modo
di (1) GELL., Noct. att., X, 21, 5. - 181 - procedere del resto non sembra
esser proprio soltanto dei Romani, che chiamano tutti gli altri popoli hostes o
peregrini; ma anche dei Greci, che hanno una sola qualificazione per tutti gli
altri, che è quella di Barbari; anche dei cristiani del Medio Evo, che chia
mano tutti gli altri col nome di infedeli; ed in genere sembra es sere proprio
di tutte le stirpi Ariane, anche nell'Oriente, le quali cre. dono di avere il
diritto di sovrapporsi a tutte le altre. Che anzi questo modo di procedere può
anche ritenersi comune a tutto il genere umano, sopratutto nelle epoche
primitive, in cui ogni popolo, chiuso in sè stesso, mal conoscendo il
rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa, facendo sè il centro dell'universo
(1). È sempre applicando questa logica superba, ma ad un tempo ingenua e del
tutto conforme alla natura dell'uomo, che il popolo formato dalle genti
patrizie, chiamò plebe tutto ciò, che non era compreso nei suoi ordini, cioè
nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia il populus romanus quiritium,
dopo che già comprende va la plebe, vide una folla e moltitudine di peregrini e
di hostes in tutti quelli, che non erano compresi nei quadri della città
romana. Di qui con seguita, che la definizione di quell'elemento, che è il solo
ad essere tenuto in conto, implica eziandio la deffinizione negativa di quello,
che ne costituisce il contrapposto. 147. Se quindi è solo il populus delle
gentes, che possiede un diritto, ne verrà comeconseguenza, che la plebe non può
negli inizii avere rimpetto ad esso che una posizione di fatto, e continuerà ad
esser sempre in questa condizione, finchè il populus non le verrà facendo
qualche concessione, o la plebe stessa troverà modo di ac costarsi
all'organizzazione del populus, e di penetrare, sotto questo o quell'aspetto,
nei suoi ordini e nei suoi quadri, consacrati dalla religione e tutelati dal
diritto. La plebe insomma è un elemento, che ha una posizione di fatto, e che
si viene avviando alla conquista di una posizione di diritto. Essa è nella
stessa posizione, in cui saranno poi i Latini e gli Italici, allorchè
formeranno già il grosso dell'e sercito romano, e intanto non saranno ancora
ammessi alla cittadi. (1) Fo qui applicazione di un concetto del Vico, il quale
certo vide molto addentro alla natura dell'uomo primitivo. Tale concetto
costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda scienza nuova, secondo cui:
« L'uomo per l'indefinita natura della mente umana, ove questa si rovesci
nell'ignoranza, egli fa sè regola dell'universo ». Solo è a notarsi, che i
Romani ciò non facevano per ignoranza,ma perchè veramente attri buivano a se
stessi una superiorità sugli altri. 182 nanza romana: mentre questi
ricorreranno in tale intento alla guerra sociale, la plebe ricorrerà invece
alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto il pareggiamento civile e politico.
Qui, comenel resto, il processo della logica romana è sempre il medesimo;
incomincia da tanti cerchi, che si vengono formando nell'interno della città, e
che poi si vengono sempre più allargando, finchè non giungono a comprendere
tutto l'universo conquistato dalla eterna città. 148. Ciò premesso si può
comprendere, quale potesse essere lo stato delle istituzioni giuridiche presso
la plebe primitiva di Roma. Esse erano istituzioni, che avevano un'esistenza di
fatto: ma a cui il patriziato non annetteva effetti e conseguenze giuridiche.
Tuttavia, anche considerate sotto questo aspetto, le istituzioni plebee non po
tevano certo avere fra di loro un ' analogia, che possa paragonarsi con quella,
che esisteva fra le istituzioni delle genti patrizie, la quale erasi fatta più
intima, stante la loro partecipazione alla stessa co munanza civile e politica.
Anzitutto si cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali,
che abbiamo trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi
vocaboli di fas, di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal
patriziato che il vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima
applicazione. Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente
le unioni ma trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle
cose divine ed umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini
plebee potè avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso
di essa quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per
l'acquisto ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che
appartenga ad una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a
manifestarsi non tanto la pro prietà, quanto la possessio, che dapprima tiene
luogo di essa. In fine sarà eziandio, mediante l'usus, che, allorquando verrà a
morire un capo di famiglia plebea, i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi
congiunti ed anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da
esso lasciati; e avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio
pro herede, che il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era
coerente al principio dell'agnazione posto a fondamento della successione
quiritaria (1). Tutto ciò insomma, (1) GAIO, Comm., II, 53, 54. 183 in cui
predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato
dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto
ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto, è da ritenersi di
origine plebea, e solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario sotto
il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega anche il
motivo, per cui, allorchè la legislazione decemvirale attribuì carattere
giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi tazioni e
prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle richieste più
tardi dalla giurisprudenza, perchè siavi usu capione, e perchè il possesso
possa ottenere protezione giuridica. Ciò del resto era una conseguenza delle
condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea; poichè se in un
patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e regolato con norme
e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere giuridico, avevano
almeno un carattere religioso e morale; in una comunanza invece, composta di
individui e di famiglie di origine diversa, priva di tra dizioni e di recente
formazione, i rapporti fra i singoli individui non potevano essere governati,
che dall'usus. Credo non occorra qui di richiamare l'attenzione sulla
grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare l'origine dimolte
istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione, che appare
introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad apparire
l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè introdussero
contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus, per l'acquisto
della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del l'eredità.
L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la posizione di
fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò spiega
eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto titolo,
nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione, perchè
potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo dell'usucapione, le
quali hanno fra di loro strettissima attinenza. Così pure si spiegano le
definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui: < Usucapio est dominii
adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii », senza che
richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei decemviri per
trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali, che non la rendessero
pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose rubate, e
consentendo alla moglie, che coabitava colmarito, di interrompere l'usucapione
della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium. Intendo però di
riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può ravvisarsi nel
MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 48 e 179, nella sua ingegnosa congettura
intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel suo recente
articolo sull' « Histoire de l'usucapion » che si trova nei suoi Mélanges
d'Histoire de droit, Paris, 1886, pag. 171 a 217. Solo credo di 184 149.
Parimenti, è sempre sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in cui
trovasi la plebe, che i suoi commercii non possono essere governati da forme
solenni, simili a quelle che si erano for mate fra i padri delle famiglie
patrizie; ma dovettero svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai
bisogni di una comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera
propria pro tezione giuridica. Fu quindi certamente nei rapporti della comune
plebea, che dovette anche svolgersi l'emptio-venditio, accompagnata dalla tradizione
della cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il motivo, per
cui presso gli antichi, secondo Festo, emere pro accipere ponebatur, in quanto
che emere era vera mente prendere la cosa comperata (1). Fu in essa parimenti,
che dovette aver origine quel singolare istituto della fiducia, il quale serve
qual mezzo per accordare una efficace garanzia al proprio creditore, lasciando
a sua mano la cosa, che deve servirgli di malle veria (2 ). Fu parimenti in
essa, che dovette svolgersi quel modo aver allargato il concetto riunendo
istituzioni, che potevano apparire disparate, e dimostrando, che l'opera dei
decemviri fu in questa parte indirizzata a dare carat tere giuridico ad
istituzioni, che avevano solo un'esistenza di fatto presso la comu nanza
plebea. (1) Sarebbe infatti pressochè incomprensibile, che un popolo nelle condizioni
eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano, e del quale una parte aveva già
attra versato, e non inutilmente, tutto un periodo di organizzazione sociale,
potesse igno rare contratti, come l'emptio venditio, la locatio conductio, e
simili. Essi dovevano certamente esistere, quand'anche non fossero per
avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd.,
COGLIOLO, Prefazione, pag. XI, alla traduzione del GOODWIN, Le XII Tavole,
eseguita dal Gaddi, Città di Ca stello, 1887. È poi noto, che la disposizione
della legge decemvirale, per cui la ven dita non è perfetta, che col pagamento
del prezzo, è anche coinune alla Grecia; il che dimostra, che dovette essere
determinata da comuni necessità, in quanto che la vendita seguiva talora fra
persone, che appartenevano a genti e a comunanze diverse, e non sarebbe stato
facile riavere la cosa, quando non ne fosse stato pagato il prezzo. (2 ) Anche
l'istituto della fiducia è uno dei più antichi e dovette nascere nella
comunanza plebea, perchè fuorusciti ed immigranti senza posizione giuridica non
potevano ricorrere che a quella. Si spiega pertanto il largo uso, che se ne
fece nel diritto primitivo di Roma, in quanto che vi si ricorre nel testamento,
per la nomina di un tutore, per la concessione di un pegno e forse in molti
altri casi ancora, che dovettero verificarsi pel costume e non penetrarono nel
diritto quiritario propria mente detto. Ciò è dimostrato dalla frequenza, con
cui nei poeti latini e sopratutto nei comici occorre il caso, in cui una
persona, allontanandosi, affida il patrimonio e la figliuolanza (mandat
familiam pecuniamque suam ) ad una persona di sua confi denza. Questo costume è
anzi il perno, intorno a cui si aggira il Trinummus di PLAUTO. 185 -
semplicissimo di fare testamento, che ci venne più tardi ancora de scritto da
Gaio nelle sue forme primitive ed arcaiche, e che dovea servire più tardi come
base al testamento quiritario per aes et li bram, per cui il plebeo, che muore
senza figliuolanza, affida ad un amico il suo patrimonio e le sue sostanze,
indicandogli la maniera in cui dovrà poi distribuirli, quando egli sarà morto.
Del resto è questo il modo che ancora oggidi torna opportuno all'emigrante,
che, trovandosi in pericolo di vita ed essendo lontano dalla patria e dalla
famiglia, affida ad un amico, che avrà la fortuna di tornare in patria, tutto
ciò, che egli ha potuto risparmiare, perchè lo riporti a coloro, che gli sono
cari. Che anzi, dacchè siamo nella ricostruzione di quest'ordine di idee, parmi
che a questo modo pri mitivo di fare testamento si rannodi senz'alcun dubbio
quella istitu zione del fedecommesso, che, mantenutasi per certo nel costume, senza
poter penetrare nella cerchia rigida del diritto civile romano, fini tuttavia
per trionfare negli inizii dell'Impero e trionfo, perchè popu lare erat (1).
Quel testamento quindi, che per un capo di famiglia patrizia doveva essere
fatto coll'approvazione dell'assemblea della tribù dapprima, e poi davanti ai
comizii della città e serviva sopra tutto a perpetuare l'heredium nelle
famiglie, e ad impedire che il patrimonio uscisse dalla gente; per i membri
invece della comunanza plebea non poteva essere che un atto di fiducia, un
rimettersi, (1) Il testamento primitivo, a cui accennanoGaio, Comm. II, 102, ed
anche Gellio, XV, 27, 3, è una specie di mancipatio cum fiducia, in virtù della
quale una persona « si subita morte arguebatur, amico familiam suam, id est
patrimonium suum,mancipio dabat, eumque rogabat, quid cuique post mortem suam
dari vellet ». Ciò indica che la prima forma, sotto cui comparve il vero
testamento, quello che poi si svolse nel testa mento per aes et libram, fu il
fedecommesso,malgrado tutte le difficoltà che il mede simo incontrò poi per
passare dal costume nel diritto civile romano. È poi degno di nota, che i
Romani più tardiritennero di aver ricevuto dai peregrini questa istituzione del
fedecommesso, che certo già esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in
fatti, Comm. II, 285, scrive: « ut ecce peregrini poterant fidem commissam
facere et ferre: haec fuit origo fideicommissorum »; il che mi conferma
nell'induzione, che il primitivo diritto plebeo, di fronte al diritto già
elaborato delle genti patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più
tardi il diritto delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di
Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario,
abbia sempre continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai
comici latini. Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di
TERENZIO, I, 5: « Bona nostra tibi permitto et tuae mando fidei ». È da vedersi
in proposito l’Henriot, Mours jurid. et judic., I, pag. 411 e segg. 186 che
altri faceva ad un amico o ad congiunto, acciò egli distribuisse le sue cose
per il tempo, in cui avrebbe cessato di vivere. 150. Lo stesso infine è a dirsi
dei modi di procedere contro il debitore in questo primitivo diritto plebeo.
Sarebbe inutile cercarvi la forma solenne dell'actio sacramento, che era nata e
si era svolta fra capi di famiglia, che sentivano la loro superiorità ed
indipen denza; ma è più facile che trovisi fra la plebe l'uso della manus
iniectio, ed anche quello della pignoris capio, istituzioni che sa rebbero
incomprensibili fra capi di famiglie patrizie, ove sono già penetrati il fas ed
il ius, ed hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi famiglia, l'uso di
farsi ragione colla forza e l'esercizio della pignorazione privata (1). Così
pure è naturale, perchè conforme alle condizioni della plebe, che in essa
ancora si rinvengano le traccie della privata vendetta, del taglione, come pena
di colui che ha recato un danno, della composizione a danaro per un furto
sofferto, e perfino anche per un adulterio;perchè queste sono tutte
istituzioni, che sono consentanee col modo di agire e di pensare di una
comunanza plebea, mentre ri pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di
carattere religioso, che era così fermamente stabilita presso il patriziato (2).
La plebe (1) L'origine plebea dell'actio sacramento è esclusa dal carattere
religioso inerente alla medesima ed anche dalla circostanza, che noi la
troviamo comune alle genti italiche ed elleniche, come lo dimostra la
descrizione, che ne troviamo in OMERO, Iliade, Canto XVIII, ove descrive lo
scudo di Achille, il che può indurre a credere, che essa fosse già importata
dall'Oriente. Quanto alla manus iniectio, essa poteva esistere fra la plebe,
come esercizio privato delle proprie ragioni; ma non poteva avere la
significazione giuridica, che vi attribuì il patriziato. In questo senso
ritengo, che la manus iniectio fosse una procedura usata dai padri contro i
debitori plebei, il che cercherò di provare nel capitolo seguente. (2) Questa
varia concezione del delitto presso ceti di persone, che erano in con dizioni
sociali compiutamente diverse, può essere facilmente compresa. Il patrizio
sente di far parte di una corporazione religiosa e civile ad un tempo, e quindi
può scorgere nel delitto un'offesa al costume dei maggiori, una violazione del
fas, ed un danno alla comunanza: non così il plebeo, che è ancora soltanto un
individuo, o un capo di famiglia, pressochè isolato in una comunanza in via di
formazione. È quindi naturale, che egli nel delitto senta sopratutto il danno
materiale che gliene deriva, che consideri la noxa (colpa ) come una noxia
(danno): che quindi reagisca contro quel danno; ricorra al taglione; venga alla
composizione a danaro; e così riverberi in modo più schietto l'impressione, che
dovette fare il delitto nelle epoche primitive. Quegli vede già ogni cosa
attraverso al gruppo di cui fa parte, e quindi comincia 187 primitiva nel
delitto sente sopratutto il danno e reagisce contro di esso; mentre il
patriziato già vi scorge un peccato contro la divinità e già comincia a
ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu nanza. Tutte le istituzioni
insomma, che non presuppongono una lunga preparazione anteriore, che non hanno
una storia nel passato, ma che trovano direttamente la propria radice nelle
tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni immediati di una comunanza, che è
soltanto in via di formazione, e in cui entra ad ogni istante un nuovo ele
mento, che si viene aggregando, debbono essere ritenute di origine plebea. Non
chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle cerimonie solenni, da cui sono
circondati, né le procedure, che contengono una storia del passato, nè gli
auspicia, che ad ogni atto pubblico e pri vato imprimono un carattere religioso;ma
solo chiedasi ad essa il senso di quel ius naturale, quod natura omnia animalia
docuit. Sarà anzi questo connubio di un elemento onusto di tradizioni con un
altro vergine di esse, che potrà rendere possibile la formazione di un di ritto,
che finirà per dar forma giuridica a tutta l'immensa suppel lettile dei
rapporti derivanti dalla civil convivenza. Come quindi esistevano, fin dagli
inizii di Roma le traccie del ius gentium; cosi vi erano anche quelle del ius
naturale, non come idea filosofica, pre sente alla mente di un giureconsulto,
ma come un complesso di forze e di energie inerenti all'umana natura, che
spingevano una comu nanza in via di formazione a provvedere a tutti i bisogni e
a tutte le esigenze, che si venivano presentando. Per talmodo ciò che più tardi
verrà ad essere nozione astratta, negli inizii è forza ed energia, che spinge,
come direbbe il Vico, l'uomo ad celebrandam suam so cialem naturam. Basta
questo per dimostrare, come anche negli usi della plebe potesse esistere un
materiale greggio, che potè a poco a poco ricevere forma giuridica nel diritto
quiritario. Per tal modo certe istituzioni, che compariscono solo più tardi,
poterono già esi stere, come usi, da un'epoca ben più antica. Cid serve intanto
a spiegare come nel diritto quiritario non trovisi dapprima una quan tità di
atti e di negozii, senza cui sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere
nel delitto un'offesa collettiva; mentre questi non sente ancora che il danno
privato, che possa derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel
diritto quiritario si presentano dapprima col carattere di offese private, e
solo a poco a poco si convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII
Tafeln, I, pag. 434. 188 mercio per un popolo, le cui istituzioni giuridiche e
politiche già dimostrano assai progredito. Qui intanto, per non spingere questa
ricostruzione a particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due
istituzioni fondamentali del diritto privato, che sono la famiglia e la
proprietà. 151. Se noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della
famiglia, quale è giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le
iustae nuptiae,madei semplici matrimonia, quasi ad in dicare che i plebei
potevano bensi indicare le loro madri, ma non potevano indicare con certezza i
loro padri. Al qual proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi
di persone, alcune delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere
una certa qual rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non
sembra tuttavia, che la congettura possa spingersi fino al punto, a cui la
spinge il Bachofen, secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a
costituire la plebe, avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli
di origine etrusca, abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo
conosciuta la parentela dal lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati
nella condizione del matriarcato (1 ). Senza affermare, nè negare il fatto,
perchè mancano gli elementi per decidere, credo pero didovere osservare che,
quando questo fosse stato, ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii. Il
vocabolo dima trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva la
pa rentela dal lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione
della famiglia patrizia fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione.
Quindi quello solo, che noi possiamo affermare con certezza, si è che nella
plebe primitiva quanto che serve talora ad indicare leesisteva una famiglia,
costi tuita sulle sue basi naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla
affinità. Ed è anche facile trovare la ragione di questo fatto, la quale
consiste in questo, che la famiglia plebea, appunto perchè non era ancora
entrata a far parte dell'organizzazione gentilizia, cosi non aveva ancora
potuto subire quell'artificiale ordinamento, che veniva ad essere necessario
per una famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un
tempo. Era quindi naturale, che la plebe, non avendo l'organizzazione
gentilizia fondata sull'a (1) Cfr. Muirhead, Histor. Introd., pag. 34 e 35; e
il Bachofen, Das Mutterrecht Stuttgart, 1861, pag. 92. 189 gnazione, cercasse
modo di rafforzarsi mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi,
quali sono appunto quelli della co gnazione e dell'affinità. Non è quindi il
caso di contrapporre alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale; ma
solo di dire, che la plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione,
aveva in vece quella fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver
valore per le genti dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e
sentita da chicchessia. 152. Qui però si potrebbe opporre che, così essendo,
male si com prende come nel diritto quiritario a vece della famiglia, fondata
sul vincolo del sangue, che certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto
essere preferita, abbia invece avuta prevalenza la famiglia, fon data
sull’agnazione, e come solo più tardi la cognazione sia riuscita a correggere
almeno in parte la famiglia primitiva romana. Cid tuttavia può essere
facilmente compreso, quando si consideri, che la città, in cui trattavasi di
entrare, era stata fondata dai patrizii; che questi erano i forti ed i ricchi,
mentre i plebei erano, almeno negli esordii, i deboli ed i poveri; che quelli
avevano una posizione di diritto, e che questi erano solo tollerati per la loro
posizione di fatto. Era quindi naturale, necessario, che la plebe, sopratutto
quando fu for temente compenetrata dall'elemento latino, la cui organizzazione
domestica era analoga a quella delle genti patrizie, si sforzasse di imitare
anche in questa parte il patriziato, e che anzi col tempo le famiglie plebee,
che erano pervenute al ius imaginum, si sforzassero di imi tare perfino
l'organizzazione per gentes in un'epoca, in cui essa åveva già certamente
perduto della propria importanza. 153. Del resto è incontrastabile, che di
questo fondamento cognatizio della famiglia plebea rimasero delle traccie nella
legislazione pri mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni domestiche,
che dovettero probabilmente essere di origine plebea. Così, ad esempio, è
notabile che la legislazione decemvirale, mentre assegna la suc cessione
legittima e la tutela legittima agli agnati, lascia invece al gruppo dei
cognati e degli affini (cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di
proseguire e porre in accusa l'uccisore di un parente, quello di appellare da
una sentenza capitale pronunziata contro un congiunto: disposizioni, che
possono considerarsi come sopravvivenze 190 e quasi accenni di vendetta privata,
la quale, come si è visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe (1).
Insomma la conclusione ultima sarebbe questa, che Roma, fin dai suoi esordii,
non ignorò la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi sotto la
umile apparenza di un'istituzione plebea; che tuttavia questa famiglia
naturale, nel periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in certo
modo soverchiata dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato; e solo
riusci di nuovo più tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in modo
indiretto nella cer chia del diritto romano, sotto la protezione del pretore e
del diritto delle genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza, perchè
colla famiglia si connette tutto il sistema della successione e della tutela
legittima, le quali perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione gentilizia
della famiglia nel diritto quiritario. Cid intanto spiega eziandio, come in via
di reazione nello stesso diritto quiritario abbia preso così largo svolgimento
l'istituzione del testamento, perchè questo era il solo mezzo per sottrarsi
alle conseguenze di un sistema di successione legittima, ispirato ancora al
concetto di serbare in tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che una
piccola minoranza di genti patrizie era riuscita ad imporre ad un numero assai
mag giore di famiglie, e che col tempo, col dissolversi della organizza zione
gentilizia, fini per divenire grave allo stesso patriziato. 154. Per quello
poi, che si riferisce alle condizioni economiche della plebe, è assai probabile
che la medesima, prima di giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia
cominciato dall'occupare di fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei
venivano a stabilirsi nelle vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia.
Dapprima queste possessioni figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti
o dai padri o dal re come loro patroni, od erano anche terreni incolti, sovra
cui si arrestava la famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e
dissodarvi attorno un piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere
indotto da alcuni passi di Festo, che si riferiscono a questi primitivi
possessi ed all'occu pazione di agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero
stati ab bandonati. Egli infatti scrive: Possessiones appellantur agri late
patentes, publici privatique, quia non mancipatione sed usu (1) Cfr. MUIRHEAD,
Histor. Introd., tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat (1). Qui
infatti è evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro pubblico, ma
anche di possessioni di carattere privato, e furono queste, che do vettero
appunto essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure confermato dallo
stesso Festo, ove scrive: occupaticius ager di citur, qui desertus a cultoribus
frequentari propriis, ab aliis occupatur (2), indicando cosi l'esistenza di una
consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai suoi cultori, ne
sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni dovessero acquistarsi
in questo modo, in seno alle comunanze plebee, lo dimostra l'importanza, che
presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale importanza appare dal fatto,
che secondo le leggi decemvirali bastava il possesso di un anno per l'acquisto
delle cose mobili e quello di due anni per quello delle immobili; disposizione
questa, che dovette uscire dagli usi proprii della plebe. Mentre infatti,
presso le genti patrizie, tutto era governato dal mos e dal fas; in una
comunanza plebea, che era soltanto nella propria formazione, non poteva esservi
altra autorità, che quella dell'usus, e doveva apparire proprietario quegli,
che in effetto usucapiva la cosa od il fondo, del quale si trattava. La pro
prietà non poteva ancora in questa condizione di cose distinguersi affatto dal
possesso, e quindi si comprende che il giureconsulto più tardi ancora dicesse:
dominium rerum ex naturali possessione cae pisse, Nerva filius ait; eiusque rei
vestigium remanere de his, quae terra, mari, coeloque capiuntur; nam haec
protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum apprehenderint (3). Si com
prende parimenti, comein una comunanza di questa natura, che dap principio era
costituita da una massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi sufficiente
il breve termine di un anno per l'usucapione delle cose mobili, e di due anni
per l'usucapione di quelle immobili; e cið nell'intento di poter trasformare
con celerità lo stato di fatto in stato di diritto, il possesso in proprietà.
Se in una comunanza già formata importa di allungare il termine
dell'usucapione, acciò essa non serva come mezzo per usurpare il diritto
esistente; in una co (1) V. Festo, v° Possessiones (Bruns, Fontes, pag. 354):
la qual definizione è ri portata tal quale anche da Isidoro (BRUNs, pag. 411).
(2 ) V. Festo, Occupaticius. Di qui già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager
occupatorius non doveva confondersi coll'ager occupaticius (Bruns, Fontes, pag.
348, nota 6). Vedi per l'opinione contraria Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 95. (3
) Paulus, L. 1, § 1, Dig. (41, 2 ). 192 munanza invece, la quale sia in via di
formazione e attragga in sé nuovi elementi, importa di abbreviare il termine di
tale usuca pione, acciò lo stato di fatto mutisi al più presto in uno stato di
diritto. Con tale sistema una famiglia plebea, quando fermava il piede sopra un
suolo incolto od abbandonato (possessio, da pedum quasi positio) aveva appena
tempo a metterlo in coltivazione, che già ne diventava proprietaria ex iure
quiritium, e intanto, appena un posto rimaneva vacante, veniva ad esservi
quello, che lo occu pava, e dopo breve tempo era considerato ancor esso come
legittimo proprietario. Certo non poteva esservi un migliore sistema per po
polare immediatamente il territorio circostante a Roma, e per popo larlo di
famiglie che, affezionandosi al suolo, finissero per prendere interesse alla
grandezza e all'avvenire di quella città patrizia, sotto la cui protezione e
tutela la plebe aveva potuto diventare anch'essa proprietaria del suolo (1 ).
Ciò però non dovette accadere di un tratto; ma solo a misura che i commerci fra
Roma patrizia e la popola zione circostante conducevano alla formazione di un
comune diritto. 155. Fu quindi solo col tempo, che queste possessioni,
tollerate dai padri, od anche dai medesimi o dal re assegnate ai plebei a
titolo di precario, poterono cambiarsi in una specie di proprietà di fatto più
che di diritto, sovra cui essi vivevano colla propria famiglia. Intanto questo
piccolo podere coi frutti, che se ne potevano ricavare e che portavansi al
mercato, porgeva anche alla plebe occasione di entrare in commercio col
patriziato. Si comprende quindi, che quando le cose furono a tal punto, che i
re sentirono la conve nienza di aggregare la plebe alla cittadinanza romana,
anche per afforzare l'esercito della città patrizia, dovesse sorgere
naturalmente l'idea, attuata poi da Servio Tullio, di ammetterli alla
comunanza, in quanto erano capi di famiglia, e avevano uno spazio di terra,
sovra cui potevano vivere colla propria famiglia. Siccome poi la plebe non
conosceva altra proprietà, che la privata, o meglio quella, che ap (1) Trovo in
Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un passo, che dimostra come i Romani comprendessero
l'importanza, che aveva la proprietà per interessare la plebe alle sorti della
Repubblica: « Sed quoniam res pecuniaque familiaris obsidis vicem pignorisque
esse apud rempublicam videbatur, amorisque in patriam, fides quaedam in ea,
firmamentumque erat ». Fu questo, aggiunge Gellio, il motivo, per cui i prole
tarii, e i capite censi, solo tardi e quando non se ne potè fare a meno, furono
chia inati a far parte dell'esercito. 193 partiene al capo di famiglia, non
aveva agro gentilizio, e non doveva neppure dapprima essere ammessa ad
immettere i proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo stesso che
più tardi non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la quale
occupazione dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio; cosi
ne derivò la conseguenza, che l'unica proprietà, che poteva essere riguardata
come posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la sola, che
fosse comune ai due or dini, era la proprietà privata. Cid può servire a
spiegare il fatto, che da Servio Tullio in poi quasi più non si discorre degli
agri gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle genti: ma solo
più dell'ager privatus, delmancipium, dei praedia censui censendo, e dell'ager
publicus. Questi sono l'unica proprietà della plebe; mentre l'occupazione
dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza del patriziato. Quindi
si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si attacca alla propria terra,
il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum, piuttosto che alienarla, e la
lotta, che essa sostiene per ottenere quelle ripartizioni dell'ager publicus,
che le porgevano mezzo di entrare nella vera cittadinanza di Roma. Intanto
siccome questa proprietà e il commercio, che derivava da essa, erano gli unici
diritti, che la plebe avesse comuni col patri ziato: così viene eziandio a
spiegarsi, come gli atti tutti del primitivo diritto quiritario assumano un
carattere essenzialmente mercantile, e siano tutti fatti entrare forzatamente
sotto le figure del nexum e del mancipium, come meglio apparirà più tardi. 156.
Dalle cose premesse si può raccogliere la conclusione se guente, quanto ai
rapporti, che intercedono fra il patriziato e la plebe negli esordii della
comunanza romana. Per quanto debba ri tenersi, che il primo nucleo della plebe
siasi costituito mediante ele menti,che si vennero staccando dalla stessa
organizzazione gentilizia, perchè più non potevano essere compresi nei quadri
della medesima; tuttavia la plebe, avendo richiamati a sè tutti coloro, che si
trovarono spostati nell'anteriore organizzazione, crebbe per modo in numero ed
importanza da costituire di fronte alla città patrizia una vera e propria
comunanza plebea, che doveva di necessità essere presa in considerazione.
Siccome tuttavia la plebe è fuori di quella organiz zazione, che è l'unica
riconosciuta dal patriziato; così essa viene dapprima ad essere lasciata a se
stessa ed è considerata come una moltitudine ed una folla, la quale ha bensì
una esistenza G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 13 194 di fatto, ma che
è priva di qualsiasi posizione giuridica di fronte al patriziato. Di qui il
dualismo fra i due ordini, che, nato già nella tribù, viene a costituire il
gran dramma della comunanza civile e politica. In questa infatti son chiamati a
convivere due elementi: di cui uno ha una posizione di diritto, ha la città, ha
gli auspicii, le magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una
posizione di fatto, più tollerata che riconosciuta, e non può fare as
segnamento, che su quello spazio di terra, sovra cui si è stabilito colle
proprie famiglie, ed è solo poggiandosisopra di esso, che potrà entrare a fare
parte della comunanza. Per quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni
religiose, giu ridiche e politiche, non corre una minore differenza fra i due
or dini. Mentre il patriziato è nei vincoli delle tradizioni e del culto dei
suoi antenati, dei concetti, che forse ha recati dallo stesso Oriente, e
trovasi fra le strette dell'organizzazione gentilizia, che dopo aver fatta la
sua forza, comincia ora ad impedirne il naturale sviluppo e a cambiarlo in
un'aristocrazia chiusa in se stessa; la plebe invece ha l'inconveniente, ma al
tempo stesso il vantaggio di en trare nella vita politica, senza la memoria dei
maggiori ed il culto di essi, senza essere vincolata dalle proprie tradizioni,
e trovasi cosi in condizione di ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi
genze, ai bisogni e alle necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò
si aggiunge, secondo la profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della
plebe per la prima volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da
ogni vincolo sociale e gen tilizio, deve essere riguardato come persona, ossia
come capace di diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior
concetto, a cui abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico
noscere l'uomo libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto
l'influenza dell'elemento plebeo (1). 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte
al problema di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero
delmedesimo (1) KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag. 64. L'autore, che
ebbe giusta mente a notare che il più alto concetto, a cui giunse il diritto
privato di Roma, è quello che l'uomo libero, come tale, sia capace di diritto,
è il compianto Bruns, Geschichte und Quellen des römisches Recht's, $ 3, in
HoltZENDORFF's, Encyclo pädie, I, pag. 105, 4.ed. — È da vedersi in proposito
il Brugi, Le cause intrinseche della universalità del dir. rom., Prol.,
Palermo, 1886. 195 diritto due ordini, di cui uno era ricco di tradizioni e
stretto nei vincoli del passato, mentre l'altro, per le speciali sue condizioni
di fatto, non aveva per sè che il presente e sopratutto l'avvenire. Il problema
per la plebe era quello di mutare la sua posizione di fatto in una posizione di
diritto, e per il patriziato quello di dare alla plebe un diritto e di farla
entrare nei quadri della sua città, senza comunicarle che gradatamente quel
fascio di tradizioni reli giose, giuridiche e morali, di cui esso era
gelosissimo conservatore. Certo il problema era di difficile risoluzione, ma la
logica giuri dica di Roma seppe risolverlo in un modo, che può veramente dirsi
meraviglioso. La conseguenza venne ad essere questa, che il di ritto, che venne
formandosi in Roma, si presenta antico sotto un aspetto e nuovo sotto un altro.
È antico nei concetti, nelle forme, nei vocaboli stessi, che già tutti
esistevano precedentemente ed erano stati elaborati dal patriziato nel periodo
dell'organizzazione genti lizia; ma è nuovo in quanto che nelle forme antiche
penetra uno spirito nuovo e si fa entrare tutta una nuova vita civile e poli
tica, che più non poteva essere contenuta nei quadri dell'organiz zazione
gentilizia. Nella formazione di questo diritto tutto ciò che è di forme
solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni aventi carat tere religioso
e morale, viene ad essere di origine patrizia; mentre tutto ciò, che trova
origine nel semplice usus, nella semplice pos sessio, nel fatto più che nel
diritto, e non è avvolto ancora in forme solenni e tradizionali, deve ritenersi
piuttosto di origine plebea. La distanza stessa poi, a cui trovavansi i due
elementi, che dovevano entrare a far parte della medesima città, obbliga il
diritto quiritario a prendere le mosse nella propria formazione dai concetti
elemen tari della proprietà e della famiglia, che erano i soli, che fossero
comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione lenta e graduata di tutti
gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella formazione del diritto
pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co piosissimo di tradizioni,
di concetti e di vocaboli, già preparati in un periodo anteriore, che viene in
certo modo a fondersi nel cro giuolo della comunanza civile e politica, per
guisa che, precipitando e cristallizzando lentamente e gradatamente, finisce
per dare origine ad un diritto, del quale si può dire con ragione, che si è
formato rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente. Solo resta a spiegare,
come in questa condizione di cose siasi de. terminata la prima formazione del
diritto quiritario nello stretto senso, che suol essere attribuito a questo
vocabolo. 196 CAPITOLO X. Le prime origini del Jus Quiritium nei rapporti fra
patriziato e plebe. 158. Non può certamente negarsi, anche da uno schietto ammi
ratore della logica, che ha governata la formazione e lo svolgimento del
diritto privato di Roma, che esso nei proprii esordii presentasi con un
carattere di rozzezza e di violenza, che desta un'impressione sfavorevole e
pressochè di ripugnanza, e spiega anche l'affermazione di coloro, che ebbero a
considerarlo, come l'opera esclusiva della forza. Tale impressione è prodotta
specialmente da certi vocaboli e concetti, che occorrono nel primitivo jus
quiritium: vocaboli, che portano con sè l'impronta della forza e della
violenza. Fra questi vocaboli non deve essere annoverato quello di manus, che
nel di ritto quiritario significò il potere spettante al capo di famiglia sulle
persone e sulle cose, che da esso dipendono, in quanto che questo vocabolo se
da una parte indica la forza e la potenza, che si impone; dall'altra può anche
significare la protezione e la difesa, che la manus accorda a tutti coloro, che
da essa dipendono. Si aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro,
che corrisponda al me desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa
significazione dalle altre stirpi di origine ariana (1). Sonvi invece nel
primitivo ius quiritium altri vocaboli, come quelli di mancipium, di nexum, di
manus iniectio, che non solo si ispirano al concetto della forza, (1) È
abbastanza noto in proposito che alla manus del capo di famiglia romano
corrisponde anche nella sua significazione materiale il mund ed il mundium del
capo di famiglia germanico; il che però non toglie che i due istituti abbiano
rice vuto un diverso svolgimento presso i due popoli, sopratutto per ciò che si
riferisce al potere del padre sui figli. V. in proposito: VIOLLET, Histoire du
droit français, Paris, 1886, pag. 412, cogli autori citati a pag. 447. Del
resto fra il primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno
ben altre istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse
fare un interessante raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il
comitatus e la commendatio presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi
anche alle persone, sembrano recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza
di una persona da un'altra. È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal
mos e dal fas delle genti patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno
della plebe, abbiano potuto scaturire concetti di questa natura, a cui manca
non solo quell’aureola religiosa, da cui sono circondate le istituzioni
gentilizie, ma perfino quel carattere di fiera indipendenza, che con
traddistingue le istituzioni primitive dei popoli italici. 159. Ritengo
tuttavia, che questa apparente contraddizione fra questi concetti del primitivo
ius quiritium e gli elementi, che avreb bero contribuito alla sua formazione,
possa essere spiegata, quando si ammetta la congettura, a cui ho accennato più
sopra parlando dell'actio sacramento e della manus iniectio, e sulla quale
importa qui di insistere più lungamente. La congettura sta in questo, che nelle
istituzioni del diritto quiritario vene hanno alcune, che si erano formate nei
rapporti fra i capi delle famiglie patrizie, e perciò nel seno stesso delle
genti e delle tribù; ma ve ne hanno eziandio delle altre, le quali dovettero
invece formarsi ed assumere un contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti
fra la classe dei vincitori e quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non
governo solo rapporti fra capi di famiglia uguali fra di loro e appartenenti
alla stessa tribù; ma dovette eziandio reggere i rapporti fra le genti
organizzate nella tribù e la moltitudine e la folla, per la maggior parte di
origine servile, che ancora circondava i primitivi stabilimenti patrizii.
Quindi se era naturale, che la prima parte del ius quiritium portasse le
traccie della fiera indipendenza di quei capi di famiglia, dei quali nemo
servitutem servivit; la seconda invece doveva portare quelle della soggezione,
a cui era ridotta la classe inferiore. Non può cer. tamente presumersi, che
questi due ordini di persone potessero en trare in rapporti giuridici fra di
loro, sopra un piede di assoluta eguaglianza. Quindi mi sembra naturale, che il
primitivo ius qui ritium, a somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a
formarsi in una condizione di cose non dissimile da questa, debba in qualche
parte portare le traccie della superiorità, che si attribuivano i vincitori, i
conquistatori, i primi organizzatori di una convivenza sociale, e
dell'abbiezione invece, a cui erano ridotti i vinti, i con quistati e quelli,
che, non essendo ancora pervenuti ad una organize zazione sociale,
abbisognavano perciò di protezione e di difesa. 198 160. Questo è certo che
anche più tardi noi troviamo una disu guaglianza di condizione giuridica fra
Roma e le popolazioni, da cui essa è circondata; come lo dimostra ancora
l'accenno, che più tardi è fatto dalla legislazione decemvirale dei forcti ac
sanates, ai quali, secondo Festo, sarebbe stato accordato unicamente il ius
nesi man cipiique. Da questo peculiare rapporto giuridico, che intercede fra
Roma e le popolazioni circostanti, mi sembra di poter dedurre con fondamento,
che quel nexum e quel mancipium, che poscia vennero a significare dei rapporti
privati fra i cittadini, abbiano potuto un tempo indicare dei rapporti, che
correvano fra le genti patrizie e le popolazioni di diritto inferiore e
pressochè vassalle, che abitavano nel territorio circostante a Roma. Che anzi
qui mi pare opportuno di dare svolgimento ad un concetto, che fino ad ora potè
solo essere accennato, ma non svolto. Il medesimo consiste in ritenere, che la
condizione primitiva della plebe, di fronte alla città patrizia, dovette essere
analoga a quella, in cui ci vengono descritti posteriormente i forcti ac
sanates, in base alla legislazione decem virale. È un magistero eminentemente
romano quello di seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le
stesse condizioni di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva
era costituita da popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in
condi zioni quasi del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi
poscia trovati i forcti ac sanates. È quindi naturale e del tutto pro babile,
che Roma abbia fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e
che costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai
forcti ac sanates; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi
mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la
proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto. Ciò era necessità,
perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe; e intanto spiega
eziandio, come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario,
comune ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium, i quali
perciò, al pari di quello del commercium, al quale corrispondono, si svolsero
dapprima fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni
fra i membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte
usato il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come
una popolazione circostante alla città, con cui non poteva a meno di essere in
commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique,
che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 -
poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle
mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto
dell'urbs, quel diritto, che prima governava i rap porti, che intercedevano fra
due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei due
ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello, che era
dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di partenza
dello svolgimento del ius quiritium. Certo questa non è che una congettura fondata
sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una spiegazione così
naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non mi sembra
temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al riguardo.
Intanto, come ho già altrove avvertito (1), viene eziandio a comprendersi il
motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti ac sanates,
poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il signifi cato
della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte della plebe
romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa peculiare
condizione giuridica. & neaco (Il solo passo, che a noi pervenne intorno ai
forcti ac sanates, è di Festo, ed il medesimo è ancora in tale stato, che fu
assaidifficile la ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d. XII Tafeln
von den Forcten und Sanaten. Vienna, 1866, ritiene che il passo delle XII
Tavole, a cui Festo accenna, vº Sanates (Bruns, Fontes, pag. 664), fosse così
concepito: mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto ». Questa lezione
stata adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag. 171, fu respinta dal
MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare la condizione
dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a comparazione coi
nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire, quale potesse essere la
speciale posizione giuridica. Il Voigt, Die XII Tafeln, I,pag. 273 e 733, Tab.
XI,6, ricostruirebbe invece la legge in questa guisa: e nexum mancipiumque, idem
quod Quiritium, forcti sanatisque supra infra que urbem esto »; ma non pare che
sia nell' indole della legge decemvirale di en trare in particolari così
minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo della legge, quale sarebbe
accettato dal MOMMSEN; ~ Nexi mancipiique forcti sanatesque idem iuris esto »;
il che significherebbe in sostanza ciò, che pure dice il Voigt, che cioè i
forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il proprio mancipium nel modo
riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè verrebbe ad essere probabile, che
la loro posizione fosse precisamente quella della plebs, allorchè era già
ammessa in questi confini al commercium,ma non aveva ancora il connubium.
Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il Mommsen nella nota al Bruns,
Fontes, pag. 365; ed anche il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 111, nota 12, ove
proporrebbe la se guente ricostruzione: « nexum mancipiumque forcti sanatisque
idem esto »; pure avrebbe la medesima significazione. Non conosco però che
altri abbia cercato di. la quale 200 161. Del resto, checchè si possa dire di
questa induzione, questo deve certo essere ammesso, che il ius quiritium, il
quale, sebbene comparisca con Roma, pud tuttavia avere le sue radici, in epoca
di gran lunga anteriore, almeno in parte si formò in un periodo di lotta e di
violenza fra gruppi e ceti di persone, che si trovavano in condi zione affatto
diversa, in quanto che alcuni di tali gruppi e ceti già erano pervenuti alla
formazione di consorzii civili ed umani: mentre gli altri ancora vivevano in
uno stato di promiscuità e confusione, che le genti patrizie riputavano
nefario. Non può quindi essere mera viglia, se alcuni dei resti, che giunsero
fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e dei conflitti, che vi furono
fra vincitori e vinti, non che della soggezione e della dipendenza, in cui
erano le classi inferiori. Al modo stesso, che i ruderi delle costruzioni
primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità delle loro proporzioni,
quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per ripararsi contro i
cataclismi del suolo: così i resti, che ancora ci rimangono del primitivo ius
qui ritium, in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai tempi, in cui si sono
formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero richiedere per
richiamare da una condizione pressochè nefaria, per usare l’es pressione del
Vico, le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem naturam. Gli
uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di fronte ai terrori
della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli scontri continui con
genti di origine stra niera, e quindi non poterono preoccuparsi tanto della
loro libertà, quanto sentire il bisogno di ripararsi sotto la protezione di
quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e a fortificarsi sotto
il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo di « iobi lare »
abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta campagna e come i
deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed alla protezione dei
forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal mancipium e dal nexum,
pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò un diritto mite ed
umano e pieno di grada zioni delicate e sottili, che poteva nascere in questi
inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti fra classi, di cui
una era su periore e l'altra inferiore; ma bensi un diritto rozzo e violento,
che risentisse in certo modo della lotta, da cui esso usciva, e che da una
inferire da questa disposizione la condizione giuridica primitiva, in cui si
trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte avesse l'impronta
della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra dell'abbiezione, a cui
erano ridotti i vinti ed i deboli (1). 162. Si comprende quindi come in questo
periodo, la manus, armata di lancia, pronta da una parte ad atterrare il
nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di guerra, e dall'altra
disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse presentarsi come
l'espressione più, naturale e più energica ad un tempo per significare il
potere giu. ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra tutte le persone,
che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità della famiglia nei
rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali, secondo l'at testazione
di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione di tutte le energie
proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del corpo, cioè l'orecchia
alla memoria, la fronte all'ingegno, la destra alla fede, le ginocchia alla
pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le ginocchia coloro che implorano,
non avevano che ad applicare il medesimo processo per dedicare la manus ad
espri mere il potere unificatore della famiglia (2). Non era forse la manus che
atterrava il nemico e lo faceva prigioniero di guerra e che intanto proteggeva
moglie, figli, clienti e servi? Non era essa, che riuniva e stringeva la
famiglia nella sua compagine interna, e che serviva a renderla forte e compatta
contro le aggressioni esterne? Intanto però è evidente, che la manus, intesa in
questo significato, poteva solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano
serbata intatta la loro autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto (1)
Buona parte di questi concetti trovasi accennata qua e là dal Vico; na è
avvolta in una forma fantastica, proveniente dall'idea preconcetta di voler
conside rare i Romani come i rappresentanti di quell' epoca eroica, che,
secondo le sue teorie, avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e
preceduto quelli, che egli chiama umani; idea, che finì per condurlo a considerare
come una leggenda tutta la storia primitiva di Roma, fino alla prima guerra
Cartaginese. Ciò però non impedisce che le sue divinazioni, anche non essendo
vere, se applicate a Roma sto rica, possano contenere del vero, se riportate
all'epoca veramente patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la fondazione
di Roma. In proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del diritto nel
pensiero dei Giureconsulti romani, Firenze, 1856, pag. 14 e segg., ove parla
dell'origine del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius. (2) Servius, In
Aen., 3, 607: « Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus singulas
corporis partes: ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei, genda
Misericordiae, unde haec tangunt rogantes. Iure pontificali, si quis flamini
genua fuisset amplexus, eum verberari non licebat ». 202 posti a servitù, e
primi erano pervenuti a fondare una vera organiz zazione sociale. Il concetto
quindi di manus, in quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla medesima la
compattezza necessaria per re spingere ogni aggressione, dovette prima formarsi
nei rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che non nei
rapporti interni della famiglia; perchè la causa, che determino questo
irrigidirsi della famiglia, non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna,
ossia la necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza. Dal momento per
tanto, che il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi
pressochè esteriore ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto
delle genti il concetto della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe
giammai a soccombere sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi
delle famiglie patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano
circondati gli stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto
quiritario primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella, che
lotta nella manuum consertio; che rivendica nella vindicatio; che trascina il
debitore nella manus iniectio; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo
(manu emittit); che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da
ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium. Essa
quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna
della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai
rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la
rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi,
che essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap
partengono ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia
fra la moltitudine e la folla, da cui sono circondati. Però almodo stesso, che
la manus in questa significazione è già il frutto di una specie di astrazione,
cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite. Senza entrare nell'etimologia
della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris lancia, o da
curia, come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il vocabolo di
quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente
considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora
ra dunasi nelle curie, ed ora costituisce un esercito. Come tali i qui riti
trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui
appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che
abbiano le iustae nuptiae; che sappiano consul 203 tare gli Dei cogli auspizii;
e che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della
città (1). 163. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla
fondazione della città, e in quello della città esclusivamente patrizia non
intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui
essa è circondata. Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti essi
si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in questa
condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di
condizione, in cui si trovavano le due classi. Il plebeo, che non ha una
posizione giuridica, e che quindi non può offrire garanzia di sorta al patrizio,
quando voglia entrare in rapporto con esso, non può avere altro mezzo che
quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum, per guisa che, se esso non
paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio, assoggettandosi cosi
alla manus iniectio. Di qui la conseguenza, che i durissimi concetti del
mancipium, del nexum, della manus iniectio, prima di diventare istituti proprii
del diritto quiritario, in cui presero poi una significazione speciale,
dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono fra patriziato e plebe,
prima che entrassero a far parte della stessa comunanza; il che spiega appunto
quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una persona ad un'altra, che è
loro inerente. Che anzi, siccome le origini di certi concetti primitivi debbono
talora cercarsi in un periodo anteriore a quello, in cui essi appari scono e
cominciano a prendere una forma determinata e precisa, cosi anche questa
significazione dei vocaboli di mancipium, di nexum, di manus iniectio non è
ancora quella assolutamente pri mitiva; ma conviene cercarne le origini nelle
lotte, che dovettero esistere in epoca più remota fra i vincitori ed i vinti,
fra i con quistatori ed i conquistati. In questa indagine non può esservi altra
luce fuori di quella, che viene dalla significazione diversa, che as sunsero i
vocaboli, di cui si tratta. 164. Nella povertà del linguaggio giuridico
primitivo il vocabolo mancipium ebbe ad assumere significazioni molto diverse,
che però riduconsi a due essenziali; a quelle cioè per cui significa: - o ciò
(1) LANGE, Hist. inter. de Rome, I, pag. 29. 204 che è soggetto al potere del
capo di famiglia – o il modo per trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel
primo significato mancipium in dica anzitutto il prigioniero di guerra, stato
ridotto in schiavitù; poi indica eziandio tutto cid, che può essere preso e
assogettato colla manus: quidquid manu capi subdique potest,uthomo, equus, ovis;
infine indica eziandio, allorchè il diritto quiritario è già formato, il
complesso delle persone e delle cose, che dipendono dalla manus del capo di
famiglia. Questa serie di significazioni, che si vengono sempre più estendendo,
contengono in compendio la storia dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che
il primo mancipium dovette essere lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio
ad esprimerlo, in quanto che questo era stato veramente manu captum e poi
ridotto in schia vitù; poscia l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e
persone, che erano assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali
erano i cavalli e i buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano
dell'uomo; infine, quando la manus prese la significazione traslata, per cui
essa designa il potere del capo di famiglia, tanto le persone, che le cose
soggette al medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium.
Giunge però tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine
essere disadatto a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo
di famiglia, ed in allora esso scompare in questa significazione, ma continua
ancora sempre a mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera;
come lo dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de
mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo (1
). (1 ) Quanto al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes, pag. 214. Non
potrei ciò stante ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di recente
a proporre per i vocaboli di mancipium e di mancipatio, colla quale egli
direbbe, che mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza del
manceps, e che perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli
deriva, che mancipare non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum
capere (Histor. Introd., pag.61). Oltrecchè questa etimologia non servirebbe
veramente a spiegar meglio la significazione primitiva del vocabolo; parmi
eziandio che contraddica all'uso, che i giureconsulti fecero di questo
vocabolo, attribuendo costantemente al medesimo una significazione passiva, la
quale indica piuttosto la soggezione di una persona o di una cosa, che non il
potere che appartiene sulla persona o cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che
mentre occorrono talvolta le espressioni di habere manum, habere potestatem,
habere dominium, i giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium nel
senso di significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso - 205
Se non che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò, che è soggetto al
capo di famiglia, ma indica eziandio il trasferimento, di cui possono essere
oggetto le cose, che entrano a costituirlo. Ciò è dimostrato dall'espressione
vigorosa della legislazione decemvirale, nella quale si dice facere mancipium,
facere nexum, al modo stesso, che direbbesi facere testamentum. Or bene non vi
ha dubbio, che anche il facere mancipium deve avere subito delle trasforma
zioni profonde nel proprio significato. Facere mancipium infatti dovette negli
inizii indicare il darsi o il prendere a mancipio, la dedizione del vinto o la
presa del vincitore, per cui quello viene in tutto ad essere a disposizione di
questo. Ciò è dimostrato da questo che i servi, che erano chiamati mancipia ex
eo, quod ab hostibus manu capiuntur, sono anche chiamati servi dediticii, in
quanto che essi provenivano da una specie di resa o di dedizione del vinto al
vin citore (1). Cid però non tolse, che il concetto del facere mancipium si
applicasse eziandio a persone libere, che potevano dare se stesse a mancipio,
od anche a persone, che dipendevano da esse, come accadeva nella noxae deditio.
Che anzi è molto probabile, che nel periodo, in cui i plebei non erano ammessi
a far parte della citta dinanza, il solo mezzo, che essi avessero per trovare
protezione e difesa, fosse quello di darsi a mancipio. Infine, allorchè il
mancipium prese quella significazione, eminentemente giuridica, per cui
significa il complesso delle persone e delle cose, soggette al capo di famiglia,
anche il facere mancipium ricevette una larghissima applicazione, per modo che
la mancipatio verrà ad essere come il perno, sovra cui si modellano tutti gli
atti, che modificano in qualche modo il potere del capo di famiglia (2 ). che
non adoperano mai il vocabolo di nexus per indicare il creditore, ma sempre per
designare il debitore. Convien quindi dire, che mancipium significò sempre la
cosa soggetta o la trasmissione della medesima, ed è anche questo il
significato, che ha sempre conservato dipoi, allorquando accade ancora di usare
il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche aggiungere, che il vocabolo di
capio nella sua significazione giuridica suole sempre essere accompagnato
dall'ablativo, come accade nell'usucapio, nell'usureceptio e simili. (1) A
questo proposito è notabile il seguente passo di Festo, Vº Quot.: Quot servi
tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius Capito existimat esse dictum initio
quot hostes tot servi» quod tot captivi fere ad servitutem adducebantur »,
BRUNS, Fontes, pag. 359. (2) Per la larghissima esplicazione della mancipatio
nel diritto quiritario è da vedersi il Longo, La mancipatio, parte 14, Firenze,
1886. 206 165. Passando ora alla manus iniectio, noi riscontriamo nella
medesima un processo del tutto analogo. Non può esservi dubbio che essa dovette
essere dapprima il modo effettivo, con cui il vinci tore afferrava il vinto, in
base al diritto di guerra e lo riduceva in schiavitù. Il suo concetto quindi
nacque anch'esso nella lotta e nella violenza; ma poscia dai rapporti fra
vincitori e vinti fu tra sportato anche fra le persone, che appartenevano alla
stessa co munanza e significò l'esercizio privato delle proprie ragioni, come
lo dimostra la seguente deffinizione di Servio: manus iniectio di citur,
quotiens, nulla iudicis auctoritate expectata, rem nobis de bitam vindicamus.
Pare però, che quest'esercizio privato delle proprie ragioni, che non si può
conciliare coll'esistenza della pubblica autorità, non fosse riconosciuto dal
diritto quiritario, che in alcuni casi soltanto. Infatti nel diritto quiritario
noi troviamo la manus iniectio in due significazioni. Essa è il modo per
trascinare avanti al magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato;
ma in ciò non havvi ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un
mezzo per ottenere la presenza del convenuto avanti al magistrato. La manus
iniectio poi, nella legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione
contro il proprio debitore; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi,
cioè: contro coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris
confessi); contro coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro
coloro, che si siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie
applicazioni del diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che
ri guarda gli aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento
dell'autorità giudiziaria; mentre quella, che riguarda il nexum, ri monta
certamente ad epoca anteriore alla formazione della comu nanza, il che fa
credere che la manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta
attinenza col nexum (1). Cid miporge quindi occasione di discorrere brevemente
di esso e di dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle
istituzioni primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il
patriziato e la plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166.
Il nexum è certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul
diritto primitivo di Roma. La sua origine è ignota; ma (1) V.sopra, Cap. VI, §
3, n. 105-6, pag. 135 e seg. - 207 si può affermare con certezza, che essa
rimonta ad epoca anteriore alla formazione della comunanza romana: poichè la
tradizione già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti diretti a limitare
gli effetti, che derivavano da esso. Lo stesso è a dirsi della legislazione
decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a trattenere in certi
confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato a ragione dal
Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce soltanto nei
rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua abolizione si
riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come è anche
dimostrato da ciò, che Livio consi derd l'abolizione di esso come una vittoria
della plebe sopra il pa triziato. Vero è, che questo fatto può anche essere
spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli
imprestiti alla plebe, e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento
di questo « ingens vinculum fidei »; ma parmiche il carattere vero di questa
istituzione possa essere più facilmente spiegato, quando si cer chino le cause,
che vi hanno dato origine. Il nexum dovette essere un modo di obbligarsi di
colui, che, non avendo altre garanzie da offrire al proprio creditore,
obbligava direttamente la propria persona. Ora è questa appunto la condizione,
in cui si trovò il plebeo di fronte al patrizio, anteriormente alla
formazionedella comunanza romana, allorchè, sprovvisto di qualsiasi diritto,
non aveva altro mezzo, per trovare protezione o credito, che o di dare a
mancipio se o la fa miglia, o di vincolarsi col nexum. Quello era una specie di
dedizione di se stesso e questa era una specie di ipoteca, che egli consentiva
sulla propria persona. Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e come del resto
fu già ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la persona, e non
attribuiva qualsiasi diritto sui beni di esso; cosi in parte si comprende che
il diritto del creditore sul debitore, sia stato spinto a quelle estreme
esagerazioni, che a noi riescono pressochè inesplicabili (1). 167. Quanto al
vocabolo poi non può esservi dubbio, che esso ebbe ad assumere significazioni
molto diverse. (Liv. VIII, 28, in princ.: « Eo anno plebi romanae velut aliud
initium liber tatis factum est, quod necti desierunt »; e più sotto: « victum
eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom., III, pag. 375. Della
portata e degli effetti del nexum, come pure del mancipium, si discorrerà più
sotto; poichè qui importava solo di cercare l'origine dei vocaboli e dei
concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è probabile, che il nexum nella
sua primitiva signifi cazione indicasse veramente i vincoli, a cui
sottoponevasi lo schiavo fuggitivo; ma che poscia dalla significazione
letterale siasi fatto pas saggio alla significazione giuridica. Tuttavia
rimangono ancor sempre le traccie delle due significazioni, in quanto che gli
storici chiamano col vocabolo di nexi, ora quelli che si trovano già condotti
nel car cere privato del debitore, ed ora invece i debitori, che si sono ob
bligati colle forme solenni del nexum. Del resto anche questo vo cabolo, al
pari di quello dimancipium, significa non solo il vincolo fisico o giuridico, a
cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con cui egli contrae il vincolo
stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene ad essere cotesta, che
tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel primitivo ius quiritium,
dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i vincitori e i vinti, i quali
trasformati in varia guisa furono poi estesi anche ai rapporti fra il
patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto cið, che pure accadde
delle altre istituzioni del diritto quiritario, che esse si svolsero dapprima
fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e furono poiapplicate
nei rapporti dei quiriti fra di loro. Al modo istesso, che i concetti di
connubium, di commercium e dell'actio sacramento si spiegarono dapprima fra le
varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si svilupparono nel diritto
quiritario; così i concetti del mancipium, del nexum, e della manus iniectio,
dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, ed essersi
poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la plebe, si tra sformarono in
istituzioni proprie del diritto quiritario. Di qui il carattere di rozzezza, di
violenza, inerente ai medesimi, che rese necessaria la loro trasformazione ed
anche il cambiamento dei vo caboli, con cui furono indicati, a misura, che
vennero sempre più pareggiandosi le due classi, dopo che entrarono a far parte
della stessa comunanza civile e politica. 168. Che se, riassumendo, si volesse
ora dare uno sguardo sinte tico a quelle istituzioni esistenti fra le genti
italiche, anteriormente alla fondazione della città, che si vennero
ricostruendo a poco a poco, noi possiamo scorgere fin d'ora, che già si erano
poste le basi fondamentali del diritto pubblico, privato ed internazionale, che
ebbe poi a svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico infatti, già erasi
elaborato il concetto del potere monarchico, di cui avevasi il modello nel capo
di famiglia; - 209 quello di un elemento aristocratico, che era rappresentato
dal con siglio degli anziani, proprio della gente; e quello infine di un ele
mento popolare e democratico, il quale già aveva cominciato a svolgersi nelle
tribù e a presentare quel dualismo fra patriziato e plebe, che doveva poi ricevere
nella città tutto lo svolgimento, di cui poteva essere capace. Furono questi
elementi che, accomodati alle esigenze della vita civile e politica, servirono
di base alla co stituzione primitiva di Roma e condussero naturalmente allo
svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti al re, al senato ed al popolo.
169. Così pure quanto al diritto privato, già erano in pronto gli elementi
diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano porre le basi del diritto
civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio delle genti patrizie, che, appoggiandosi
da una parte sull'elemento religioso del fas e dall'altra sopra l'elemento
morale del mos, già aveva dato origine ai concetti fondamentali del connubium,
del commercium e dell'actio sacramento, ed aveva elaborato tutte quelle forme
tradizionali e solenni, in cui si fecero entrare a poco a poco i nuovi rapporti
giu ridici, ai quali diede occasione il formarsi e lo svolgersi della convi
venza civile e politica. Esisteva parimenti, ancorchè solo in via di
formazione, un diritto proprio della comunanza plebea, fondato so pratutto
sull'usus auctoritas, il quale, per essere più semplice nella sua forma, più
alieno dalle solennità, più libero da ogni influenza del passato poteva meglio
adattarsi alle esigenze della vita civile e po litica. Da ultimo già cominciava
ad elaborarsi un diritto, che non poteva dirsi proprio, nè del patriziato, nè
della plebe, mache ten deva a racchiudere in forme rozze e primitive i
rapporti, che inter cedevano fra di essi. Questo diritto era tutto uscito dal
concetto fondamentale della manus, in quanto esprime il potere del capo di
famiglia patrizio, ed aveva dato origine ai concetti del mancipium, del nexum e
della manus iniectio, i quali, debitamente trasformati, si dovranno poi
convertire in altrettanti concetti fondamentali del diritto quiritario. È
quest'ultimo elemento, che attribuisce al ius qui ritium quel carattere di
rozzezza e di forza, che lo contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando
l'elemento giuridico dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima
trovavasi confuso, viene a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il
quale, assimilando col tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee, finirà
per conver tirsi in un ius civile, che poteva convenire alle due classi, che
erano chiamate a far parte della stessa comunanza civile e politica. G. CARLE,
Le origini del diritto di Roma. 14 210 170. De ultimo, anche per quello che si
riferisce a quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare
internazionali, già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano
elabo rati i concetti dell'amicitia, dell'hospitium,della societas, e del più
importante fra tutti, che era quello del foedus, il quale poi doveva
somministrare il mezzo per far partecipare più tribù alla stessa vita politica,
militare e giuridica, e per dare cosi origine alla città. Questa parimenti,
traendo profitto dagli istituti della cooptatio, della co lonia, della
concessio civitatis sine suffragio, del municipium, pos sedeva anche i mezzi
per accrescere la sua popolazione e per esten dere il proprio impero. I
materiali quindi erano in pronto: solo rimane a vedersi il pro cesso, col quale
Roma, gittandoli tutti nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò, che
in essi eravi di vigoroso e di vitale, e sia così riuscita a ricavarne
lentamente e gradatamente la propria co stituzione politica, e quel diritto
privato, il quale svolgendosi sempre sul medesimo modello e sempre
arricchendosi di nuovi elementi, finirà per diventare tale da poter essere accettato
da tutte le genti. Intanto una delle cause, che condurrà a questo risultato,
sarà la distanza stessa, a cui trovansi i due ordini, che debbono insieme con
tribuire alla formazione della città. Sarà tale distanza infatti, che forzerá
la costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni, di cui possa essere
capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a riconoscere la capacità
di diritto ad ogni uomo, purchè libero. Per tal guisa tutte le gradazioni del
senso giuridico, dalle più semplici e naturali alle più sottili e raffinate,
cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e l'universalità del diritto
romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che esso è la più completa e
pre cisa espressione di un complesso di sentimenti eminentemente sociali ed
umani, che nacquero e si svolsero insieme colla convivenza ci vile e politica.
- 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel periodo esclusivamente patrizio
("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della città primitiva. 171. Nella
storia non vi ha forse avvenimento, il quale abbia eser citata maggiore
influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione gentilizia
alla comunanza civile e politica. Sotto quest'aspetto non sarà mai abbastanza
approfondita la storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha certamente altro
popolo, che abbia più vivamente sentito, e quindi più profondamente scolpito
nelle proprie istituzioni questa importantissima trasformazione, che (* )
Pervenuto a questo punto della trattazione, trovomidi fronte ad una lettera
tura così copiosa, che mi sarebbe impossibile di poter indicare la bibliografia,
che può riferirsi ad ogni singolo argomento. Siccome quindi l'intento del libro
è quello unicamente di tentare una ricostruzione delle istituzioni giuridiche e
politiche di Roma primitiva; così mi limitero ad indicare in nota gli autori,
di cui prendo in esame le opinioni, e i passi di antichi scrittori, sui quali
si fonda l'opinione da me sostenuta, e non mi fard anche scrupolo di citare una
traduzione, quando non tenga l'originale, sopratutto di autori tedeschi. Quanto
alla bibliografia, essa potrà essere facilmente trovata nei recenti trattati di
storia del diritto romano, o di introduzione storica allo studio del diritto
romano, quali sono in Francia quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del
Maynz, del MISPOULET, del Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio
quelli del Maynz, del Rivier, del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns,
del BARON, del KARLOWA, del Voigt, dell'HERZOG, ecc.; in Inghilterra quelli del
MUIR EAD e del Roby; e nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e
del LANDUCCI, ecc.; trattati, che ho citato già, o che mi occor rerà di citare
in seguito. Mi perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a
dovere, mi avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale.
A ciò si aggiunge, che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si,
che esso, modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le
traccie delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la
nuova formazione. Di qui la conseguenza, che quando si riesca a penetrare il processo
logico, stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città, si potranno
determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale di essa, e
il modo, con cui furono costrutte le sue mura; ma eziandio la serie di quei
concetti fondamentali, che, preparati in un periodo anteriore, ricevettero poi
nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci. Già si è veduto,
come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia colla sua
distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni e
clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo punto
dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la
formazione della città. Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi
elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri,
abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una
continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia, o
fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa, che si
introdusse nell'organizzazione sociale? 172. Le teorie, che furono escogitate
in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in
numero e diverse nei risultati a cui giunsero; quindi per noi sarà necessità di
arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la maggior
parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii esordii un
ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo, che un
ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia; essa sarebbe un
edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è foggiato sempre
sul medesimo modello. A quel modo, che la famiglia ingrandita, dando origine a
diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente, e che le genti, riunendosi
insieme, avrebbero dato origine alle tribù; cosi l'aggregazione delle tribù in
un numero determinato, che sembra essere diverso secondo i varii popoli,
avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il Mommsen, che la famiglia
e la gente non solo avrebbero somministrati gli elementi, da cui fu costituita,
ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog --- - - 213 giata la comunanza
civile e politica. Il re della città sarebbesi mo dellato sul capo di famiglia,
e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo spettanti; il senato non sarebbe
che un consiglio di anziani, come lo prova il nome di patres, dato per tanto
tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella città quella medesima funzione,
che il tribunale domestico compieva nella famiglia, e il consiglio degli
anziani nella gente e nella tribù; il populus non sarebbe che la riu nione
delle gentes, per guisa che sarebbe cittadino ogni individuo, che appartenga ad
una di tali gentes; e da ultimo il territorio ro mano comprenderebbe i
territorii riuniti, che appartenevano alle varie gentes, le quali pertanto
sarebbero incorporate nello Stato nella condizione stessa, in cui prima si
trovavano, e con tutte le fa miglie, che entravano a costituirle (1). Tale a un
dipresso sarebbe eziandio la teoria del Sumner Maine, il quale si limita a dire,
che come la tribù era stata una riunione di gentes, cosi la città era dovuta
all'incorporazione di varie tribù (2). Il Lange invece, mentre si studia in
tutti i modi per dimostrare, che lo Stato e il suo ordi namento è fondato sulla
famiglia, e che il diritto pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal
seno del diritto privato, e sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a
riconoscere, che la città primitiva è già fondata sopra una specie di contratto,
il quale avrebbe modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e
redità avrebbe fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece
scorge nella costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente
militare. Per lui il re sarebbe un condottiero, un capitano, e il suo potere
sarebbe, in sostanza, un militare im perium, destinato sopratutto a mantenere
la disciplina nell'esercito, e percid accompagnato dal ius gladii; la curia da
conviria sa rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da
quiris, asta, che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante; il populus
romanus quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di
lancia; e infine le gentes stesse, in cui egli ritiene ancora che si dividano
le curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza, ma già
raffazzonati secondo le esi (1) Mommsen, Histoire Romaine. Trad. DeGuerle.
Paris, 1882, I, pag. 77 et suiv. (2 ) SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad.
Courcelle Seneuil. Paris, 1874, pag. 121. (3) Lange, Histoire intérieure de
Rome. Trad. Berthelot et Didier, Paris, 1885, pag. 37. 214 - genze di un
esercito; donde quel numero fisso di trenta curiae, in cui sarebbe ripartito il
popolo primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento gentes
(1). A queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria, così splendidamente esposta
dal Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe fondata
la famiglia e la proprietà, la gente e la tribù, sarebbe pur quella, che
avrebbe fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe per
lui l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù; mentre
l'urbs sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il santuario di
questa associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un carattere
essen zialmente religioso (2 ). 173. Non è a dubitarsi, che queste varie
opinioni contengano tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare delle
analogie e degli argomenti, che le servano di appoggio; ma intanto ciascuna di
esse, collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud riuscire a spie gare
in modo coerente la natura cosi varia e complessa della costi tuzione primitiva
di Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una sintesi potente, la quale non
può altrimenti essere ricostruita, che riportandoci nell'ambiente stesso, in
cui essa ebbe a formarsi. È questo il motivo, per cui è impossibile spiegare
quel carattere di unità e di varietà ad un tempo, con cui Roma compare nella
storia, senza seguire la lenta e progressiva formazione della città, e tener
conto delle necessità reali ed effettive, a cui le genti primitive cer carono
di soddisfare, creando la comunanza civile e politica. Or bene io non dubito di
affermare che, collocandosi a questo punto di vista, apparisce fino
all'evidenza, che la città per le po polazioni latine non può essere
considerata come una continuazione del processo formativo dell'organizzazione
gentilizia prima esistente; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue
un indirizzo (1) V. IHERING, L'esprit du droit romain. Trad. Maulenaere. Paris,
1880, I, $ 20, pag. 246 e segg.; dove mette molto bene in evidenza il carattere
militare della primitiva costituzione romana, e l'influenza che esso esercitò
anche sullo svolgersi del suo diritto; alla quale opinione in parte anche si
accosta lo SchweGLER, Rö mische Geschichte, I, pag. 523. (2) FUSTEL DE
COULANGES, La cité antique. Paris, 1876. Liv. III, Chap. IV, p. 155. È però a
notarsi, che l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono sul
carattere confederativo della città primitiva. Cfr. pag. 147. 215.
compiutamente diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione
dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra,
come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già
fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi
tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una
lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati
(arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei
momenti di pericolo, e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi
proprii armenti in un'epoca, in cui erano quotidiane le scorrerie e le depredazioni
nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno pertanto, a
cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato quello di
provvedere alla co mune difesa. Poscia, siccome la sicurezza è condizione, che
favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che, accanto a questi
luoghi fortificati, si siano formati dei siti (fora ), a cui le genti
convenivano per scopo di commercio, e dove, occorrendo, si tratta vano anche le
alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località apparve anche
sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che per la
trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie
comunanze (conciliabula ) (1). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento
della religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di
convegno (comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità, non
propria di questa o di quella gente, ma comune alle varie genti; e fu anche in
questa guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di
sopra di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il
concetto della città non sboccið di un tratto, ma ebbe ad essere provato e
riprovato in varie guise sotto forma di arces, di oppida, di fora, di
conciliabula, di comitia, e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa
lenta costruzione ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città
dovevano essere fon date e la loro popolazione doveva essere ripartita,
assunsero un (1) Questa idea, che è fondamentale nella presente trattazione,
ebbe ad essere accennata e dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel
lib. I, ai numeri 5, 14, 66, 99. - 216 - carattere sacro e religioso, per modo
che ogni fondazione di città ebbe ad essere accompagnata da cerimonie religiose.
L'urbs venne così ad essere il frutto di una lunga evoluzione, che già erasi
inco minciata in seno alla stessa organizzazione gentilizia. Essa per tanto,
fin dai suoi primordii, non si presenta sotto l'aspetto di una aggregazione di
gruppi gentilizii, come vorrebbero il Mommsen e gli autori sopra citati; ma
piuttosto come il frutto di una specie di selezione, per cui dal seno stesso
dell'organizzazione gentilizia, si viene sceverando ed isolando tutto ciò, che
si riferisce alla vita pub blica. Quindi la città primitiva viene ad apparire
come un centro e un focolare di vita pubblica, fra varie comunanze di
villaggio, la cui vita domestica e patriarcale continua a svolgersi nei vici e
nei pagi. Di qui la conseguenza, che se essa sia materialmente consi derata,
cioè come urbs, non si presenta, nelle proprie origini, come la riunione delle
abitazioni private; mapiuttosto come la riunione in una orbita sacra degli
edifizi, aventi pubblica destinazione, come la fortezza, il santuario comune,
la dimora del re (custos urbis ) e dei sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo (forum
) ove si tiene il mercato e si am ministra la giustizia, il sito ove si tengono
le riunioni (comitia ) per deliberazioni di pubblico interesse; donde la curia,
il qual vocabolo designa tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle
persone che vi si riuniscono. Che se poi la città primitiva sia riguardata
negli ele menti, che entrano a costituirla, essa non è più l'organizzazione
delle gentes o delle tribù, nelle quali si comprendevano anche le donne, i
vecchi ed i fanciulli; ma è solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle
gentes e dalle tribù, che possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica;
di quegli uomini cioè, che possano difendere la cosa pubblica come soldati
(iuniores), o che col proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle
deliberazioni, che la riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di
una selezione, in virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli
edifizi, che hanno pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui
fra i membri delle gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo,
coloro, che siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed
all'interesse comune; la civitas infine, è quel rapporto speciale, che
intercede fra le persone, che compongono il populus, in quanto esse
appartengono alla medesima cittadinanza, e parteci pano alla stessa vita
politica e militare. 175. La città latina pertanto, e quindi anche Roma, che è
un 217 esemplare tipico della medesima, anzichè essere un'aggregazione di
gentes e di tribus, corrisponde invece a un nuovo aspetto di vita sociale: cioè
al nascere ed allo svolgersi di una comune vita poli tica, frammezzo a
popolazioni rurali, che continuano ancora a svol gere la loro vita domestica
nelle comunanze patriarcali. Allorchè essa compare, quella organizzazione
gentilizia, che aveva prima com piuto le funzioni di associazione domestica e
politica ad un tempo, si viene biforcando: mentre la vita privata continua a
spiegarsi nelle pareti domestiche, ed in gruppi concentrati sotto l'autorità
del capo di famiglia, la vita politica invece prende a svolgersi nella piazza e
nel foro, e dà cosi origine a quelle discussioni e a quelle lotte, che
costituiscono la vita e il movimento della città. Di qui la conseguenza, che la
città, dopo aver ricavato gli elementi, che entrano a costituirla, dalle
comunanze che la circondano, finisce per preparare la via alla estinzione
dell'organizzazione gentilizia, e sopratutto di quelle gradazioni di essa, che
prima compievano eziandio una funzione politica, quali sarebbero la gente, la
tribù e la clientela. Le istituzioni invece, che colla sua formazione vengono
ad affermarsi e a costituire le due basi dell'organizzazione sociale, sono i
due elementi estremi, cioè: la famiglia da una parte, la quale finisce per
richiamare a sè medesima tutto quello, che si riferisce alla vita domestica; e
la città dall'altra, poichè essa, essendo la meta e l'aspirazione comune, tende
ad attirare nella propria cerchia tutte le energie naturali e sociali, che
possono conferire a darle forza e con sistenza. Di qui la conseguenza, che le
due figure preponderanti, negli inizii della città, vengono ad essere il pater
familias, il quale è il solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il
populus, il quale richiama a sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che
esistono nelle comunanze, che colla propria federazione hanno dato origine alla
città. Siccome perd l'opera si viene compiendo gradatamente; cosi sarà
necessario un lungo svolgimento, prima che la città si possa affatto spogliare
di quelle forme, che essa ricava ancora dall'orga nizzazione gentilizia, e
prima che la famiglia possa perdere quel carattere pressochè civile e politico,
che essa aveva assunto durante il periodo gentilizio. 176. Si può quindi
conchiudere, che il processo formativo della organizzazione gentilizia e quello
della città si avverano in guisa com piutamente diversa, e sono avviati in
senso pressochè contrario ed opposto. - 218 Mentre il processo formativo
dell'organizzazione gentilizia, in tutte le sue gradazioni, consiste in una
stratificazione di gruppi natu rali, che si sovrappongono gli uni agli altri, e
intanto continuano sempre ad essere foggiati sul medesimo modello, che è quello
della famiglia patriarcale; la città invece non deve più la sua esistenza ad un
processo di aggregazione, ma ad un processo, che potrebbe chiamarsi
diselezione. Essa non comprende più tutta la vita sociale, come la tribù; ma
tende invece ad isolare l'elemento giuridico, po litico e militare dagli altri
aspetti di vita sociale, che si spiegavano strettamente uniti, e pressochè
confusi gli uni cogli altri nell'orga nizzazione patriarcale. Di qui derivano
alcune importantissime conseguenze. – Mentre l'organizzazione gentilizia, per
quanto abbia già in sè qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la
famiglia deve anche compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora
considerarsi come una pro duzione naturale, come quella che è composta di
gruppi uniformi, che si sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo,
vero o supposto, è pur sempre quello della discendenza da un antenato comune;
la città invece viene già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto,
della federazione insomma di varii elementi, che si associano per costituirsi
un centro comune di vita politica, e per provvedere così alla comune utilità ed
alla comune difesa. Mentre l'organizzazione gentilizia, comprendendo persone,
che si suppongono derivare da un medesimo antenato, tende a mantenere una
proprietà comune e collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e
dall'accordo, tende ad assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e
le terre, che loro appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di
interessi, che riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce
così un patrimonio co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res
publica. Mentre infine il principio informatore dell'organizzazione gentilizia
consiste nell'eredità e nella discendenza, per guisa che in essa tutto tende ad
acquistare un carattere ereditario; il principio in vece informatore della
comunanza civile e politica, appena essa compare, viene ad essere quello della
capacità e dell'elezione. 177. Tutto questo svolgimento della città primitiva,
che solo erasi iniziato presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a
tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il
periodo di incubazione della città può 219. già ritenersi compiuto, e quindi le
cerimonie, che ne accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere
sacro e religioso. È cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per
conoscere a quale dei due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg
gimento della città. Tuttavia la Roma Palatina, finchè è contenuta. nei limiti
dello stabilimento romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria città;
ma è piuttosto lo stabilimento fortificato di una aggregazione di genti, dedita
di preferenza alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è ancora
patriarcale nella medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano, e che
non è ancora eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli auspizii; i
suoi anziani, i quali non sono che i padri delle genti, che entrano a
costituire la tribù; e infine anche il suo populus, che è composto ancora di
persone, che si ritengono unite dal vincolo della comune discendenza, come lo
dimostra la loro stessa denominazione di Ramnenses, derivata dal nome del
proprio capo. Non è quindi appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo, secondo
la tradizione, procede alla costituzione politica della città. Secondo Livio,
ciò accade soltanto dopo la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone aspettasi
perfino la morte di Tito Tazio, capo dei medesimi(1 ). È da questo momento, che
la città assume un carattere federale e pressochè contrattuale. Le singole
tribù infatti continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle, e ad
avere delle proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium, che mutasi nella fortezza
delle varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono raccogliendo
nel sito, che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi che è collocato
il locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non confondersi
colle curiae veteres (2 ), il cui sito era sul Palatino, edifizii tutti, che,
secondo il rito, dovevano trovarsi nel cuore stesso della città. Non consta
quindi che le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie possessioni e le
proprie terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la città ed il
governo di essa, come lo dimostra il fatto, che secondo la tradizione vi
sarebbe stato un breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio avrebbero
(Livio, I, 13; Cic., de Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri 85, 86. « Novae
curiae (scrive Festo) proxime compitum Fabricium aedificatae sunt, quod parum
amplae erant veteres a Romulo factae ». Tuttavia vi restarono an cora sette
curie, che continuarono a compiere i loro sacra nel sito antico (Bruns, Fontes,
pag. 346 ). 220 regnato contemporaneamente: il che significa, che ciascuno di
essi avrebbe conservato la qualità di capo della propria tribù. Non è quindi
meraviglia, se la città primitiva presenti ancora per qualche tempo le traccie
dell'organizzazione gentilizia, perchè il trapasso dalla semplice tribù ad una
vera e propria città si operò solo gra datamente. Intanto però la
trasformazione viene ad essere iniziata e proseguita senz'interruzione fin da
quel momento, in cui al vin. colo della discendenza si sostituisce quello della
federazione e del l'accordo, e alla trasmessione ereditaria sottentra il
principio del l'elezione. 178. A ciò si aggiunge, che Roma, fin dai proprii
esordii, si trovo in una condizione diversa da quella delle altre città latine,
da cui trovavasi circondata. Essa infatti non costitui soltanto un centro di
vita pubblica, frammezzo a varie comunanze rurali; ma diventò ben presto un
centro di vita urbana, contrapposta alla vita rustica dei campi. I suoi primi
fondatori, pur conservando i proprii agri genti lizii, avevano ottenuto nel
recinto stesso della città uno spazio di terra, ove avevano potuto costruirsi
una casa, circondata da un orto. Per tal guisa in Roma non eravi soltanto
l'elemento, che conveniva nei giorni di festa, o di pubbliche riunioni, o per
causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte eziandio, e questa era quella
dell'antico patriziato, che, pur conservando la propria dimora gentilizia,
aveva posta sede permanente dentro la città, o in prossimità di essa. Fu in
questa guisa, che Roma diventò ben presto, secondo l'espressione del Mommsen,
l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato, al pari delle altre città
latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra diverse comunanze,
cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano, la cui vita si contrappose a
quella dei campi, e venne cosi accrescendosi costantemente, mediante
quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche oggi sulle popolazioni,
da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come, durante lo stesso periodo
regio, Roma da sola già potesse conchiudere un foedus aequum con tutta la
confederazione latina, e come l'intento costante dei re sia stato quello di
estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa anche le abitazioni
private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che presenta Roma fin dai
proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per cuidistinguesi la vita
urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che il patriziato romano
ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di tempo fra le mura
della città, 221 e un altro invece alla campagna (ruri), frammezzo alle proprie
pos sessioni gentilizie: consuetudine, che anche oggi può dirsi mantenuta dal
patriziato romano. 179. Di qui la conseguenza, che Roma, in una lunga e lenta
evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello svolgimento, che solo erasi
iniziato presso le altre popolazioni latine. Essa riusci a sceverare la vita
pubblica dalla privata, l'elemento sacro dal pro fano, la vita urbana dalla
vita rustica, la vita militare dalla vita civile; ed effigid questi
atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un linguaggio così
efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa parte competere con
essa. Di queste varie distin zioni, quella, che cominciò ad effettuarsi fin dal
periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la distinzione fra la vita pubblica
e la vita privata; mentre la distinzione fra l'elemento sacro ed il profano
cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe, che non era partecipe del culto
gentilizio, fu anche ammessa a far parte della cittadinanza romana; e da ultimo
la distinzione fra la popolazione rustica ed urbana, solo prese a farsi
evidente, allorchè la città si accorse di essere in parte dominata dalla turba
forense. Infine il dualismo fra la vita militare e la vita civile è anche uno
di quelli, che appariscono costantemente nella storia di Roma, e che rimontano
fino agli inizii di essa. Il suo populus è un'assem blea ed un esercito ad un
tempo; il suo magistrato ha l'imperium domi, militiaeque; i suoi cittadini
hanno un periodo di età, in cui partecipano al servizio attivo, e un altro, in
cui entrano a formare l'esercito di riserva; gli atti stessi più importanti
della vita, quale sarebbe, ad esempio, il testamento, possono farsi in guisa
diversa, secondo che trattisi di cittadini in tempo di pace, o di soldati in
procinto di venire a battaglia; la quale distinzione poi mantiensi co stante
per modo, che anche con Giustiniano il testamento pud distin guersi in comune
ed in militare. Per tal modo il cittadino di Roma è uomo di toga e di spada ad
un tempo, e si acconcia alle esigenze della pace e a quelle della guerra (rerum
dominos, gentemque togatam ). 180. Sopratutto qui importa di mettere in
evidenza quel dua lismo, che colla formazione della città venne ad introdursi
fra la vita pubblica e la privata; in quanto che fu questo il grande intento, a
cui si ispirò Roma primitiva, e a cui accennano costantemente i 222 poeti
latini, i quali non trovano espressione più efficace per indicare la corruzione
del costume, e il perdersi delle buone tradizioni, che l'accennare alla
confusione della cosa pubblica colla privata (1). È questo il dualismo
veramente fondamentale, che, una volta in trodotto, finisce per riverberarsi,
con un processo logico non mai in terrotto, in una quantità di altri dualismi,
che compariscono costan temente nelle stesse circortanze sociali, e che
potrebbero essere paragonati ad una voce, che con gradazioni diverse viene ad
es sere ripercossa e ripetuta dall'eco. 181. Per verità è ovvio il considerare,
come in seguito alla forma zione della città, accanto alla gentilitas, che era
il rapporto, che stringeva i varii membri dell'organizzazione gentilizia, si
svolga la civitas, la quale è il rapporto, che unisce coloro, che appartengono
alla stessa comunanza militare e politica. Quindi è, che alla distin zione fra
liberi e servi, fra gentiles e gentilicii, viene ad aggiun gersi e ad
acquistare un'importanza sempre maggiore quella fra cives e peregrini. Cosi
pure, accanto ai genera hominum, che sono sparsi nei pagi e nei vici, e che
comprendono senza distinzione tutti coloro, che si suppongono discendere da un
medesimo antenato, si svolge il concetto del populus, che dapprima non
comprende ogni ordine di persone, ma solo il complesso degli uomini validi ed
ar mati, che col braccio e col consiglio possono partecipare alla difesa ed al
governo della cosa pubblica. Procedendo ancora innanzi, accanto al concetto
della res fami liaris, che comprende il complesso degli interessi privati di
una de terminata persona, si esplica il concetto della res publica, il quale,
per essere più astratto, compare più tardi, che non quello del popu lus; ma
finisce anch'esso per esprimere con potenza ed efficacia il complesso degli
interessi comuni alla intiera città, ed a tutto il popolo (res populi). Intanto
così la res familiaris, come la res pu blica debbono avere un'autorità che le
governi, e mentre questa per la famiglia sarà indicata col vocabolo di manus,
nella sua signi ficazione più larga, per la repubblica invece sarà indicata col
vo cabolo di publica potestas. Che anzi i due poteri sono cosi distinti (1) Per
dimostrare l'importanza, che nel concetto romano ha la distinzione fra il
pubblico e il privato, basti citare il Trinummus di Plauto, questa commedia,
così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre una censura contro i
corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del pubblico col privato.
223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel seno della famiglia non
toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti come cit tadino, e
partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La distinzione poi, che
è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a riflettersi eziandio nel
diritto, che è chiamato a gover narli. Di qui la distinzione che, iniziata fin
dalla formazione della città, viene col tempo facendosi sempre più netta e
precisa fra il diritto pubblico ed il diritto privato; il quale ultimo, secondo
il con cetto romano, non deve già essere soffocato ed assorbito dal diritto
pubblico, ma trovasi invece collocato sotto la tutela e la protezione di esso.
Non può quindi essere ammesso il concetto del Lange, che in parte è anche
quello del Mommsen, secondo cui il diritto pubblico verrebbe in certo modo a
modellarsi sul diritto privato: poichè il processo che si segui in Roma si
avverd invece in senso contrario ed opposto. Non fu il diritto pubblico, che si
modello sopra il pri vato; ma fu il diritto privato, che venne svolgendosi in
quella guisa e in quei confini, che erano consentiti dalla costituzione
politica della città. Quindi è che il diritto privato di Roma non si formo di
un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a misura che le esigenze della
vita civile fecero sentire il bisogno del suo ricono scimento. Ciò ci è
dimostrato dal fatto, che fin dalle origini di Roma noi possiamo trovare poste
le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre la vera elaborazione del
diritto civile romano, co mune alle due classi del patriziato e della plebe,
incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città, e poi si pensò alla
formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei motivi, per cui il
diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti i popoli. Intanto,
in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge, che è l'espressione
delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les privata ed in
lex publica (1), di cui quella esprime l'accordo di due o più contraenti,
mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà collettiva del
popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche i sacra vengono
a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per cid, che si
rife (1) La distinzione fra la lex publica e la lex privata è accennata più
volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm. I, 3; II, 104;
III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal MOMMSEN nell'ultima
edizione, Friburgi, 1887, da lui curata del Bruns, Fontes iuris romani antiqui,
fu quella di intito larne il capo terzo: Leges publicae populi romani post XII
Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia (1). Lo stesso infine deve dirsi dei
crimina, i quali, a misura che si vengono delineando, sono pure richiamati alla
distinzione fondamentale di publica e di privata, secondo che il danno, che ne
deriva, e quindi la prosecuzione di essi appar tenga ai singoli individui,
oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza; distinzione, che riflettesi
eziandio nei iudicia, i quali fin da Servio Tullio cominciano a dividersi in
iudicia publica e pri vata. A queste si potrebbero aggiungere ancora molte
altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un medesimo concetto, che una
volta accettato percorre l'intiera vita sociale e lascia dapertutto le traccie
del suo passaggio. È in questo senso, che le proprietà si distinguono in due
categorie, indicate coi vocaboli di ager pri vatus e di ager publicus; che i
rapporti stessi, che possono correre fra cittadini e stranieri, subiscono la
stessa distinzione, cosicchè la societas, l'amicitia, l'hospitium, il foedus si
distinguono anche essi in pubblici e in privati. Non è quindi meraviglia, se
parlisi eziandio di costume pubblico e privato, di virtù pubbliche e private, e
se la distinzione si inoltri nei particolari più minuti della vita, co sicchè
anche i servi stessi si distinguono in publici e privati, e chiamasi publicus
l'equus, che è somministrato dallo Stato agli equites, che vengono così ad
essere denominati equo publico. 182. Conviene quindi ammettere, che la
distinzione dovesse es sere profondamente sentita, se essa lasciò le proprie
traccie in qual siasi argomento. Non occorre poi di notare, che l'esplicazione
dia lettica dei due concetti, che qui si compendia in pochi tratti, dovette
naturalmente essere il frutto di una lunga evoluzione; ma se questa potè
accadere colla fondazione della città, mentre prima non erasi avverata, la
causa di un tal fatto deve trovarsi in ciò, che la città non si propose di
agglomerare genti e famiglie, ma intese fin dapprincipio a sceverare la vita
pubblica dalla privata. Che se si volesse spingere più oltre lo sguardo sarebbe
anche facile il dimostrare, che la formazione della città cooperò eziandio allo
svol gersi di sentimenti e di affetti, che prima non riuscivano a sceverarsi
(1) Quanto alla distinzione dei sacra publica ac privata, è da vedersi Festo,
vu Publica sacra (Bruns, Fontes pag. 358), stato già citato a pag. 43, nota nº
3. Quanto alla distinzione poi fra gli auspicia publica e gli auspicia privata,
è da vedersi Mommsen, Le droit pubblic romain. Trad. Girard. Paris, 1887, I,
pag. 101, cogli autori ivi citati in nota. 225 dagli affetti domestici e
patriarcali. Fu infatti la città, che, accanto agli affetti di famiglia ed al
culto per gli antenati, suscitò l'affetto per la propria terra, e il culto per
coloro, che si sacrificavano per essa, e quell'illimitato amore di patria, che
informa tutta la storia e tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al
cittadino ro mano: dulce et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che
accanto al culto per i mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una
legge, espressione della volontà comune, che doveva a tutti essere nota, e
costituire in certo modo la base e il fonda mento della comunanza civile. Fu
essa ancora, che, accanto alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle
famiglie e nelle genti e si trasmettevano di generazione in generazione, diede
origine a quella narrazione dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città,
da cui doveva poi uscire la storia; al modo stesso che, accanto al comando del
padre ed alla persuasione degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e
l'eloquenza, le quali più non si impongono per l'au reola religiosa, da cui
sono circondate, ma commuovono e trasci nano la moltitudine e la folla, a cui
si indirizzano. Fu essa infine, che, accanto alla narrazione delle gesta degli
eroi e dei principi, cantate nelle epopee primitive, rese possibile la storia
militare e po litica della città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor
tanza politica di quell'elemento, che chiamavasi plebe (1 ). 183. Dopo cið
parmi di poter conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro,
che considerano Roma primitiva come uno Stato patriarcale. « Lo Stato romano,
noi diremo con un re. cente autore, che è il Pelham, appartiene, quanto alla
sua struttura, ad uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della
convivenza sociale e suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica. Certo
esso conserva ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine di
cose; ma queste sono traccie di un periodo ormai trascorso, le quali tendono
sempre più a scomparire » (2). La supre (1) Per una più larga trattazione dei
mutamenti, che recò nella vita sociale il surrogarsi della città
all'organizzazione patriarcale, mi rimetto all'opera: La vita del diritto nei
suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, nº. 34, pag. 94 e segg., e alla
dissertazione: Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e po
litica. Torino, 1878. (2 ) Pelham, vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia
Britannica, ninth edition. Edinburgh, 1886, vol. XX, pag. 731. G. CARLE, Le
origini del diritto di Roma. 15 - 226 - mazia dello Stato è ormai stabilita
sopra ciascuno dei gruppi, dalla cui confederazione esso è uscito, e ciascuno
di questi gruppi più non si mantiene, che come una corporazione di carattere
esclusivamente privato. In questa parte pertanto « lo Stato Romano, come ben
nota il Gentile, lascia a grande distanza la monarchia delle popolazioni
Orientali, ed anche quella delle primitive società greche, la quale è ancora
stretta da intimo vincolo colla divinità, da cui ritiensi pro cedere, e che
trasmettesi per eredità nei discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta
potestà il populus od il demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni
sovrane e non mai a deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed
il diritto a partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto
direttamente esercitato, e il diritto anche di voto nell'elezione dei reggitori
dello Stato è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza romana » (1).
Il Re, fin dagli esordii della città, è la suprema magistratura dello Stato, e
questo è l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei capi di famiglia,
che concorsero alla sua formazione, i quali, nella propria elezione, più non
badano esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma cominciano a riguardare
al valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà collocandosi a questo
punto di vista, che non segue questo o quell'elemento esclusivo, ma cerca di
riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo sviluppo, che potrà riuscire
più facile di com prendere i primitivi elementi dello Stato romano, ed il
carattere dei poteri, che lo governano. (1) GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella repubblica romana, Milano, 1879, pag. 2 e 3. 227 CAPITOLO II. Gli
elementi costitutivi del primitivo Stato Romano. § 1. – Cause del rapido
svolgimento di Roma e della sua primitiva costituzione. 184. Le cose premesse
hanno abbastanza dimostrato, come nella formazione primitiva
dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non dissimile da
quella, che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa apparirono
evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente preparando e
quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica. Tuttavia
questo concetto deve essere completato con osservare, che nella storia delle
cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una formazione
novella, e questa trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo, gli elementi,
di cui si tratta, sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi scambievolmente,
riunirsi per guisa, che la nuova formazione sboccia tanto più rigogliosa e
potente, quanto è più matura la preparazione di essa. Per tal modo ad una lenta
incuba zione può anche succedere una pronta e rapida formazione: il che
talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio nella
storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città, dopo essere stata lungamente
preparata, presentasi nella storia pressochè con sapevole della propria
destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si
potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva di Roma, al pari di
Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti
si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione
di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo
essenziale, a cui Roma intende; la costituzione politica di Roma invece sembra
in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia
dell'edifizio, tanta l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si
esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del
nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera
comune. Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo, che con uno sforzo
collettivo giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a stento potrebbe
riuscire un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni cercasse di
isolare da una quantità di materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò, che
si riferisce alla vita politica, giuridica e militare. Tutte le energie
naturali e sociali sembrano concentrarsi in un'opera sola, e ben può dirsi con
Ennio e con Cicerone, che fin dai propri esordii: Moribus antiquis res stat
romana virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno per porre le basi
di una costituzione, che richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le
sue parti (1): nè la tradizione pud essere così facilmente respinta, come
vorrebbe la critica moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo
comprendere l'entusiasmo potente, da cui poterono essere stimolati re, senato,
sacerdozii e popolo, allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande
concetto. 185. L'urbs, dopo la federazione delle varie tribù, viene ad essere
collocata in un sito, a cui hanno facile accesso le diverse comunanze e trovasi
così in tale posizione da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio. Essa per la
prima, fra le comunanze italiche, da cui trovasi circondata, l'ha rotta colle
tradizioni, e si è formata mediante il connubio di genti, che appartengono a
stirpi e a nomi diversi. I padri, che si riunirono per costituirla, hanno
parentele ed aderenze nei territori contigui, e probabilmente continuano a
tenervi delle possessioni, e possono così esercitare un'attrazione potente
sulle popolazioni vicine, a qualunque stirpe esse appartengono. Se a tutto ciò
si aggiunge la fortuna della nascente città, la fortezza della sua posizione e
delle sue mura, il carattere tenace e perseverante de' suoi cittadini, che
tutto aspettano dall'avvenire di essa, potrà lasciarci ammirati, ma non
increduli il suo rapido incremento. Anche lasciando in disparte il
provvedimento, che viene attribuito a Ro molo, di aver aperto un asilo ai
rifugiati delle altre città, era na turale, che essa dovesse cambiarsi in un
asilo per tutti coloro, che « Vi. (1) Cic., de Rep., V, 1. È lo stesso
CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di Roma all'epoca
romulea, e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque igitur, unius viri
consilio non solum ortum novum populum, neque ut in cunabulis vagientem
relictum, sed adultum iam pene et puberem? » (De rep., II, 11). Lo stesso pure
appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si trovassero spostati nella
propria terra o nella propria organiz zazione gentilizia. Il grande scopo dei
fondatori era quello di fon dere insieme questi elementi diversi e di unificare
così la città, tanto nelle mura, che la circondano, quanto nei concetti
giuridici politici e militari, che servono a stringerne insieme le parti
diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua compagine interna sembrano cosi procedere
di pari passo. I suoi fondatori già hanno una lunga esperienza di cose civili e
non ignorano anche i riti religiosi, da cui deve essere accompagnata la
fondazione di una città. Cominciasi pertanto dagli auspizi, per conoscere «
quod bonum, felix, faustum, fortunatumque siet populo Romano», e per tal modo
anche la re ligione viene ad essere posta a base della nuova formazione. Quanto
alla sua costituzione interna, tutto sembra essere preparato ed ac concio. I
concetti politici di Roma primitiva, nella loro sintesi po tente, possono
essere paragonati a quei massi rozzamente modellati, che sovrapposti gli
uniagli altri formano la cerchia delle sue mura, e che per il proprio peso e la
propria quadratura non abbisognano di essere cementati gli uni con gli altri.
Essi non escono da una costituzione scritta: ma erompono dalla stessa realtà
dei fatti, e sono altrettante costruzioni logiche e coerenti in tutte le loro
parti, le quali, una volta accolte nella costituzione, potranno essere svolte
con rigore dialettico, fino a che non abbiano ricevuto tutto lo svi luppo, di
cui possono essere capaci. Le forme esteriori delle istituzioni politiche di
Roma sono bensì ricavate da istituzioni analoghe, esi stenti
nell'organizzazione anteriore, ma il contenuto di esse viene ad essere
determinato dalle esigenze della nuova città. Quanto all'in tento, che la città
si propone, esso è universalmente sentito, e quindi non è meraviglia, se la
nuova città proceda verso il proprio scopo con l'ordine, con cui si
dispiegherebbe un esercito, e se dei suoi fondatori possa dirsi col poeta: cui
lecta potenter erit res, nec facundia deseret hunc, nec lucidus ordo (1). Per
tal modo il concetto della città presentasi determinato in tutte le sue parti,
e si esplica con un rigore geometrico, che rende pos sibile di rifare i diversi
stadii, che ha dovuto percorrere. (1 ) ORAZIO, Ars poetica. 230 187. La città è
un edifizio nuovo, costruito con elementi tolti dall'organizzazione gentilizia
preesistente, i quali però, mirando ad un intento novello, ricevono uno
svolgimento compiutamente diverso. L'urbs è una selezione dalle comunanze di
villaggio circostanti, per cui tutti gli edifizii, che hanno pubblica
destinazione, sono con centrati in un medesimo sito; il populus non è tutta la
popolazione delle comunanze, ma il complesso dei viri, che col braccio e col
consiglio possono cooperare all'interesse comune; la civitas non è più un
vincolo di sangue, ma è determinata dalla partecipazione alla medesima vita
pubblica sotto l'aspetto politico e militare ad un tempo; il munus non è il
complesso delle obbligazioni, che incom bono all'uomo come tale, ma il
complesso dei diritti e delle obbli gazioni, che derivano dall'ubbidire al
medesimo diritto e dal par tecipare alla stessa comunanza civile e politica
(1); la res publica non è la somma degli interessi de' singoli cittadini,ma il
complesso degli interessi, che riguarda l'universalità dei cittadini,
considerata come un tutto organico e coerente; infine la lex publica è il com
plesso dei patti ed accordi votati nei comisii, in base ai quali si conviene di
partecipare alla stessa vita pubblica, e quindi per la formazione di essa
debbono concorrere tutti gli elementi costitutivi della città. 188. Intanto
perd nella formazione della città non può aversi altro punto di partenza, che
quello delle istituzioni preesistenti, per guisa che il nuovo edificio richiama
pur sempre l'antico, ma intanto la sua base è mutata; poichè mentre quello si
reggeva sull'eredità e sulla discendenza, questo invece si fonda sulla capacità
e sull'ele zione; mentre quello si fondava sul vincolo del sangue, questo
invece pone la sua base salda sopra un determinato territorio, nel quale si
fortifica e si chiude; mentre in quello ogni cosa veniva ad essere determinata
dall'età e dalla posizione naturale, che altri tiene nella famiglia e nella
gente, in questo invece le funzioni degli (1) « Munus (scrive Festo, quale è
restituito dal Mommsen nell'ultima ediz. del Bruns, Fontes, pag. 344 e 3-15 )
dicitur administratio reipublicae, magistratus alicuius, aut curae, imperiive,
quae multitudinis universae consensu, atque legitimis in unum convenientis
populi comitiis, alicui mandatur per suffragia, ut capere eum eamque oporteat,
et statim, certove ex tempore, certum usque ad tempus administrare », Qui però
il vocabolo munus è preso in una significazione più ristretta, che non quella
che lo stesso autore vi attribuisce, quando discorre del municipium. - 231 individui
vengono ad essere determinate dalla cooperazione, che possono recare alla città.
Giovani debbono esserne i soldati; anziani debbono esserne i consiglieri. —
Solo potrebbe trarre in inganno quel l'aureola religiosa, che sembra ancora
circondare la formazione della città; maanche questa religione non deve più
confondersi con quella preesistente; essa non è nè il fondamento, nè l'intento
supremo, a cui la città intende, come sembra sostenere il Fustel de Coulanges (1);
ma è soltanto una consacrazione dello scopo, che viene a proporsi la nuova
comunanza, politica e militare ad un tempo, e quindi anche la sua religione, i
suoi sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico, e come tali si
contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii delle singole
genti. $ 2. Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae, decuriae). 189.
Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima giunta appariscono
come un riverbero di quelle, che esistevano nel periodo precedente e quanto
alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali; ma se si riguardano più
da vicino, si presentano con un contenuto, che già comincia ad essere diverso e
che tende a diventarlo sempre più. Così è certamente vero, che la città viene
ad essere divisa in tribu; ma è evidente, che questa divisione in tribů,
trasportata nell'interno di una stessa comunanza, non può più considerarsi come
una distinzione del populus, ma tende di necessità a cam biarsi in una
ripartizione del suo territorio. Le tre tribù primitive, ancorchè serbino per
qualche tempo la denominazione antica, ten dono necessariamente a trasformarsi
in altrettante divisioni territo riali; poichè col mescolarsi degli elementi
riuniti in una stessa co munanza, la distinzione delle stirpi primitive finisce
per non più corrispondere alla realtà dei fatti. Come si potrà ancora parlare
di una tribù di Ramnenses, di Titienses e di Luceres, quando, per la comunanza
di connubio e di diritto, le varie genti si vengono me scolando insieme e nulla
pud impedire, che le persone di una stirpe possano anche trasportare la propria
sede nel territorio dell'altra? Si (1 ) FUSTEL DE COUlanges, La cité antique,
liv. III, chap. 5, 6, 7. 232 comprende pertanto, che fin dapprincipio i re
tentassero di togliere di mezzo questa distinzione, che solo ebbe a mantenersi
ancora per qualche tempo in conseguenza di quello spirito conservatore, che
dimostrasi tenace sopratutto fra le genti di stirpe Sabina, alle quali appunto
apparteneva l'augure Atto Nevio. La sua opposizione tut tavia non mutasi che in
una dilazione, e la soppressione delle an tiche tribù, se non di diritto, verrà
ad essere operata di fatto da Servio Tullio, che alla tribù fondata sulla
discendenza sostituirà la tribù di carattere territoriale, e sarà cosi
conservato il nome antico per indicare una istituzione compiutamente nuova. In
questo modo infatti si sostituisce il vincolo territoriale, a quello della
discendenza, che prima era il solo ad essere riconosciuto (1). 190. La
distinzione invece, che è veramente fondamentale per il populus, è quella per
cui il medesimo viene ad essere ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato
circa il carattere originario delle curiae, e sull'autorità del Niebhur si è
soventi sostenuto, che esse non fossero, che aggregazioni di gentes, e che si
ripartissero anzi in gentes (2 ). Ora però comincia ad essere universalmente
ammesso, che la curia può essere una istituzione, la cui origine è forse an
teriore alla comunanza romana, e che poteva già essere conosciuta alle genti
latine ed etrusche; ma che essa deve ad ognimodo essere considerata come la
base di tutte le divisioni politiche e militari della città, finchè questa si
mantenne esclusivamente patrizia. Essa, al pari del populus, di cui è una
suddivisione, costituisce una cor porazione religiosa, politica e militare ad
un tempo; ha un proprio capo (curio); un proprio sacerdote (flamen curialis );
un proprio culto, che fa parte dei sacra publica; un proprio santuario (sacel
um ); e tutte insieme riunite hanno proprie assemblee, che pren dono il nome di
comitia curiata. L'esattezza stessa del loro nu mero già dimostra come questa
divisione abbia un carattere del tutto artificiale, e miri a uno scopo
preordinato, che è quello di dare (1) Del resto anche VARRONE, De ling. lat.,
IX, 9, parla della divisione primitiva in tribù, come di una divisione
piuttosto dell'ager che del populus. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 31, il
quale anzi nota che la distinzione in tribus, secondo Livio I, 13, si
applicherebbe di preferenza agli equites. (2) Niebhur, Histoire Romaine. Trad.
Golbery. Paris, 1830, II, pag. 19. Vedi in proposito ciò, che si è detto
parlando delle gentes nel lib. I, cap. III, al nº. 28 e seg. e nelle note
relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la protezione della religione, un
ordinamento politico e militare ad un tempo, per modo che essi sotto un aspetto
possano costituire un'assemblea di quiriti, e sotto un altro un eser cito di
Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei rapporti interni (domi), e
questo è quello, con cui sono designati nei rapporti esterni (foris, militiae).
Nulla vieta, che imembri di una medesima curia siano anche stretti da vincoli
gentilizi fra di loro, e che essi, come attesta Aulo Gellio, siano anche tratti
ex generibus homi num (1); ma le curie sono già composte di uomini scelti, di
viri, diguerrieri armati di lancia (quiris), di persone comprese in certi
limiti di età, e quindi non possono più avere colle gentes altro rapporto,
salvo quello che da esse ricavasi il contingente, che entra a costituirle. È
quindi incomprensibile, che le curiae possano ripartirsi in gentes, le quali
comprendono indistintamente tutti coloro, che derivano dal medesimo antenato,
senza riguardo nè all'età, né al sesso. Solo può dirsi, che i membri della
curia possono essere considerati sotto un doppio aspetto: o in rapporto colle
famiglie, colle genti, colle tribù, da cui ebbero a staccarsi, e sotto
quest'aspetto essi continuano ad essere dei gentiles; o rimpetto al populus ed
alla civitas, di cui entrano a far parte, e sotto questo aspetto sono dei viri,
dei quirites, degli uomini di arme e di consiglio, che non debbono avere altro
pensiero, che quello della res publica. 191. Quanto alla suddivisione in
decuriae, che è solo accennata da Dionisio, essa non può certamente essere
confusa colla riparti zione in gentes, come avrebbe voluto il Niebhur; ma può
essere facilmente compresa, quando si ritenga, che dalle curie usciva poi quel
contingente, scelto e nominato dal re, che doveva poi entrare a costituire le
centurie dei cavalieri e le decurie dei senatori. I (1) Aulo Gellio, Noctes
Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in succinto tutta una teoria intorno ai
comizii, che egli dice di aver ricavata dal libro di Laelius Foelix, ad Quintum
Mucium, e sarebbero parole testuali di quest'ultimo le seguenti: « cum ex
generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia; cum ex censu et aetate,
centuriata; cum ex regionibus et locis, tributa ». Fu anche fondandosi su
questo passo, che si è sostenuto per lungo tempo, che le curiae si dividessero
in gentes; ma parmi evidente, che, anche ammettendo che genus in questo caso
suoni gens, il medesimo non potrà mai condurre ad altro risultato salvo a
quello, che il contingente delle curie era ricavato dalle genti e in base alla
discendenza, mentre quello delle cen turie era ripartito in base al censo, e
quello dei comizii tributi in base alle località o alle tribù, a cui erano
ascritti i cittadini. 234 senatori (patres) ed i cavalieri (celeres, equites)
nella città primi tiva appariscono come due corpi scelti nel seno stesso delle
curie, e corrispondono in certo modo alla divisione dei iuniores e dei se
niores. I primi sono l'elemento giovine, splendido nell'armi, che costituisce
il corteggio del re e l'ornamento della città (civitatis or namentum ), sotto
il comando di un tribunus celerum, o di un magister equitum; mentre il senato,
nella concezione estetica ed armonica della città primitiva, rappresenta
l'elemento più maturo negli anni, più saggio nel consiglio, e costituisce
veramente il con siglio, da cui il re è circondato (regium consilium ). Non vi
ha poi dubbio, che l'uno o l'altro elemento viene ad essere ricavato dal seno
delle curie, e quindi è assai probabile, che, nell'ordinamento simmetrico della
città primitiva, ogni curia potesse anche sommini strare un numero eguale di
cavalieri e di senatori, numero che dovette appunto essere quello di dieci per
ogni curia; donde il con cetto, che anche le curiae si dividessero in decuriae.
Del resto non avrebbe nulla di ripugnante, che questa suddivisione esistesse
vera mente nel seno delle curie: mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile,
che le curie si potessero suddividere in gentes (1 ). 192. Conchiudendo si può
dire: che la ripartizione in tribù, qualunque potesse esserne la significazione
primitiva, tende a cam biarsi in una divisione territoriale, ossia in una
ripartizione del l'ager; che il populus, ricavato per selezione dalle genti e
dalle tribù, dividesi in curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e
militari ad un tempo, i cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito,
cosicchè riunite possono costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto
un altro aspetto un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un
carattere sacerdotale, che fu quello (1) Che le decuriae non debbano
confondersi colle gentes, ma debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites
e senz'alcun dubbio anche fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò,
che il senato fin dai primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il
che dovette pure essere degli equites, il cui corpo, secondo OVIDIO, Fast.,
III, 130 dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate « quasi
turimae, quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium, Ramnium, Lucerum
fiebant » (V. Festo, vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de
curiae fu ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia, dei quali si sa, che
erano organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito Belot,
His toire des chevaliers romains, I, pag. 151, 152; e il Bloy, Les origines du
Sénat romain. Paris, 1883, pag. 102-105. 235 - che serbarono più a lungo,
allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e militari; che da
ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo
è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere cercata la riparti
zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò, che Cicerone disse più tardi
della famiglia, che esse cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da esse
ricavavasi il contingente, che entrava a costituire le curie. § 3. — Il
pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo (regis imperium, patrum
auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame del populus e della sua
composizione può facilmente condurci a spiegare in qual modo abbia potuto sboc
ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico potere, ed in quali forme
esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui una guida incerta, poichè
il potere in genere viene ad essere indicato, ora col vocabolo di potestas, ed
ora con quello di imperium; ma l'in certezza, che è nei vocaboli, può essere
tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il processo logico, che in questa
parte seguirono i Romani. Anche a questo riguardo esistevano degli elementi,
che già erano preparati nell'organizzazione preesistente. Per unificare la
città, presentavasi acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti
più difficili, eravi il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare
intorno alle cose, che riguardavano il comune interesse, già si conosceva
l'assemblea della tribù. Erano così in pronto l'elemento monarchico,
l'aristocratico e il democratico; nė ai fondatori della città patrizia poteva
ripugnare, che queste con figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero
trasportate nella nuova comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato
rive renze alle istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del
potere, preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città;
ma intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso. Il re
infatti non è più tale per nascita, ma è creato dall'elezione; il che deve pur
dirsi del senato, e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono una
moltitudine, ne una folla, in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono un
esercito di uomini di arme, ed un'assemblea, debitamente organizzata, di uomini
di senno e di consiglio. Il re, il senato ed il popolo, adu 236 nato nei
comizii, vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si estrinseca
il pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto al
vocabolo adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia,
poichè occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora
quello di imperium. Dei due vocaboli tuttavia quello, che a mio avviso appare
più largo e comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale, per la
propria ge neralità, può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi gradazione
del pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare il potere
del magistrato (potestas regia, consularis, censoria ); quello del popolo
(populi potestas) e talvolta eziandio quello del senato, al modo stesso che può
anche adoperarsi per significare il potere domestico e privato. Potestas
insomma, nella sua significa zione più larga, indica il potere, riguardato in
tutte le sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie, che,
contrapponen dosi talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium, possa anche
assumere una significazione più circoscritta (1). L'espressione quindi (1)
Questa incertezza di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra gli
altri, dal KARLOWA, Röm. R. G., I, pag. 84, il quale trova eziandio, che il
voca bolo di potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa il
MOMMSEN, secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga, e
quello di impe rium la più ristretta; sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio
corrente il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature
maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano
imperium. Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato: « Cum imperio dicebatur
apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium; cum potestate est,
dicebatur de eo, qui negotio alicui praeficiebatur ». Le droit public romain,
I, pag. 24. Lo stesso autore poi osserva, che quel vocabolo di imperium, che in
un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un senso
ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op. cit., I,
pag. 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella significazione
di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che il vocabolo di
potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di imperium
usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più specialmente ancora
per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere privato del capo di
famiglia accadde alcun che di analogo. Questo potere infatti in origine era
indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas; ma ciò non tolse, che
questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti di questo potere, cioè
la manus il potere del marito sulla moglie, e la po testas quello del padre sui
figli. Ciò significa, che i vocaboli presentansi dapprima con una
significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico di quei concetti
primitivi, di cui sono l'espressione; ma quando poi questi concetti si vengono
diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo primitivo suol sempre
essere mantenuto per significare in modo più specifico uno di tali aspetti. 237
- più generale del potere viene ad essere quella di publica potestas; ma
siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi, così ben presto nella
indeterminazione primitiva, compariscono i vocaboli, che esprimono gli
atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali sono i vocaboli
di imperium, che applicasi di prefe renza al potere del magistrato; quello di
auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e quello infine di potestas,
che, applicato al popolo, indica il potere di esso, in quanto iubet atque
constituit (1), Tutti questi concetti sono ancora vaghi ed indeterminati: ma
intanto sono concepiti in una sintesi potente, che renderà possibile a cia
scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito. 195. Ciò può scorgersi
anzitutto quanto al concetto di imperium, che indica di preferenza il potere
del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non esce dalla nascita, nè
dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle volontà, che concentrano
ed unificano in esso il potere, che prima era disperso fra i singoli capi di fa
miglia, alla cui potestà trovasi talvolta applicato il vocabolo stesso di
imperium. Per esprimere un tal concetto non poteva esservi im magine più
efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle aste, che sono
l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti (2 ). (1) Che il potere del
re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più tardi, sia di
regola indicato col vocabolo di imperium, è cosa che appare da tutti gli
antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste varie distin
zioni, allorchè afferma che « potestas in populo, auctoritas in senatu est ».
De le gibus III, 12, § 28; distinzioni, che egli fa rimontare fino agli inizii
di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive: « vidit singulari imperio
et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates, esset optimi
cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas », nel qual passo il
potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis, mentre quello del
senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep., JI, 8. (2) Magistratus,
scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo investito di una
magistratura politica regolare, in quanto essa emana dall'elezione del popolo (Le
droit public romain, I, pag. 8 ); e aggiunge poi a pag. 10, che il magistrato,
quanto alle forme esteriori, è appunto colui, che ha diritto di portare i fasci
dentro la città. Ora se il magistrato è l'eletto del popolo, e se i fasci, che
simboleggiano i poteri riuniti dei quiriti, sono l'emblema del suo potere, non
so veramente com prendere, come siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso
Mommsen, che il re non riceva il proprio potere dal popolo: tanto più, che gli
scrittori antichi parlando del popolo usano le espressioni di imperium dare,
magistratum creare, iubere, sibi ad scire e simili. 238 Per tal guisa, dal
fascio delle armi usci il fascio dei littori, e si frapposero in esso anche le
scuri, che simboleggiano quel ius vitae et necis, il quale apparteneva al capo
di famiglia, e non poteva perciò essere negato al capo della città. È tuttavia
degno di nota, che questo imperium, formatosi mediante la riunione dei poteri
spettanti a ciascuno, appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi,
che ebbero a conferirlo, in quanto che le sue stesse insegne esteriori (fasces)
indicano, come al disopra del potere dei singoli siasi formato un potere
collettivo, a cui tutti debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti
ai fasci dei littori, si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo
a quel magistrato, il quale, mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene
ad essere imponente e pauroso per ciascuno; e che se il magistrato ordini al
littore « col liga manus », il cittadino non osa sottrarsi al comando. 196.
Intanto in questa prima concezione del potere del magi strato, non si potrebbe
certamente aspettare, che siano determinati i confini, in cui il medesimo debba
essere contenuto. La necessità di un elemento unificatore è universalmente
sentita, trattandosi di una città, che fin dalle proprie origini era il frutto
della con federazione di elementi eterogenei e diversi; né si può aspettare,
che un popolo, il quale non pose dapprima alcun limite al potere giuridico del
capo di famiglia, possa cercare di mettere dei confini alpubblico potere del
magistrato. Il medesimo percid compare senza limitazione di sorta; è potere
religioso, militare, politico e civile ad un tempo; ed è concepito in una
sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen, per ricostruire il potere
primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei poteri, che si
vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate di Roma, quali
sono il console, il pretore, il dittatore ed il censore (1). Fu solo
l'esperienza, che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa abusare
anche un eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare
scomposizione del potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare
funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura speciale. Tuttavia,
anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione netta di qualsiasi
potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta essere reso impotente
per un atto di minima (1) Mommsen, Op. cit., pag. 5 e 6. 239 importanza, viene
ad avere un potere pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato e
sorretto dalla pubblica opinione. 197. Lo stesso è a dirsi della patrum
auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che come quello di potestas,
presentasi con significazione alquanto vaga ed indeterminata, e che trovasi
applicato eziandio, cosi in tema di diritto pubblico che di diritto privato.
Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di notare, che il vocabolo
auctoritas, nella varietà delle significazioni, che sogliono essergli
attribuite, significa costantemente l'appoggio, l'approvazione, la ga ranzia,
che si arreca o si assume per un determinato atto. Tale è la significazione
fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di iuris auctoritas, di
usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris auctoritas, o del
venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al compratore, auctor fit dirimpetto
al medesimo. Or bene anche questa è la significazione del vocabolo di patrum
auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed esercita l'imperium, dal.
l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit; mentre il senato trovasi
nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia almagi strato, dall'altra
auctor fit, cioè accorda la propria approvazione alle deliberazioni del popolo
(1). Esso componesi di persone, alle quali, per la loro età e per il loro
grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il consulere, e quindi, senza
avere propria iniziativa, completa in certo modo l'opera dell'uno e dell'altro;
poichè per mezzo del senato le misure prese dal re vengono ad avere l'autorità
e l'appoggio del suo consiglio, e le delibera zioni del popolo ricevono
consistenza ed autorità, mediante la sua approvazione. Finchè dura il periodo
regio, il concetto si man tiene ancora vago ed indeterminato; ma durante il
periodo repub blicano quest'autorità, essenzialmente consultiva, riceverà una
lar ghissima esplicazione, e finirà per penetrare in qualsiasi argomento; e
quindi può affermarsi a ragione, che la grandezza di Roma non fu (1 ) L'ufficio
consultivo, che il senato compie rispetto al re, è bellamente espresso da
CICERONE, allorchè dice di Romolo: « Itaque hoc consilio et quasi senatu fultus
». De rep., II, 8. Quanto poi all'auctoritas, che il senato esercita rimpetto
al populus, essa non può certamente pareggiarsi coll' auctoritas tutoris
dirimpetto al pupillo, perchè non trattasi qui di integrare una personalità
incompleta; ma bensì di recare il sussidio e l'autorità, che viene dall'età e
dall'esperienza, ai provvedimenti, che ri guardano il pubblico interesse. Cfr.
Karlowa, Röm. R. G., I, pag. 47. 240 solo opera della fortezza del suo popolo,
nè dell'energia del suo ma gistrato, ma benanco della sapienza del suo senato.
Per i Romani ebbe importanza l'agere e il iubere; ma l'uno e l'altro dovettero
essere temperati dal consulere. 198. Intanto, dacchè sono in quest'argomento,
importa qui di accen nare alla questione tanto controversa, fra gli autori,
circa la signifi cazione da attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas: col
qual vocabolo alcuni intendono l'approvazione del senato; altri invece
l'approvazione, che, durante i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle
curie dovevano dare alle deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri
infine ritengono, che con esso intendasi l'ap provazione dei senatori
esclusivamente patrizii (1 ). Sembra a me, che la questione possa essere
risolta in modo assai più naturale e più verosimile, quando si abbia presente
che, in una lunga evoluzione storica, quale è quella della costituzione
politica di Roma, una stessa espressione può in varii periodi di tempo anche
assumere significazioni compiutamente diverse. Durante il periodo regio, il
vocabolo di patrum auctoritas significò senz'alcun dubbio l'approvazione del
senato; perchè nella città esclusivamente patrizia erano chiamati col nome di
patres i senatori, mentre gli altri capi di famiglia costituivano il populus e
l'assemblea delle curie. Più tardi invece, allorchè, accanto ai comizii
curiati, si vennero for mando anche i comizii centuriati, ed anche i comizii
tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè naturalmente comprendere tutto
l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente l'ordine dei patres e dei
patricii di fronte al rimanente del popolo, ed aveva ancora una propria
assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui (1) Questa è una delle
questioni più controverse, che presenti la storia politica di Roma, e credo
veramente, che la causa del dissenso provenga dalla supposizione, che un
medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba sempre avere una
medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli autori possono
vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain, 5me éd., Paris 1883, pag.
208 e dal Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris 1886, pag.
16, nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere trattata con grande
chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Roma
nelle sue diverse forme (Rivista di filologia, 1884, pag. 297 a 395. Così pure
ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op. cit., pag. 42 a 48; il quale
finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas
patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la
conseguenza, che d'allora in poi, per indicare l'approvazione del senato si usd
di preferenza il vocabolo di senatus auctoritas, in quanto, che il senato aveva
già cessato di essere composto esclusi vamente di veri patres, e cominciava a
raccogliersi fra gli equites e più tardi fra i magistrati uscenti di uffizio
(patres et conscripti); mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè servire acconciamente
per indicare la ratifica, che i comizii curiati, composti ancora dell'ele mento
patrizio, dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni, che fossero
state votate nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato da ciò, che
si usano promiscuamente le espressioni « patres o patricii auctores fiunt ».
Siccome però in questo periodo, il senato è ancora essenzialmente l'organo del
patriziato, così si comprende come posteriormente, allorchè la necessità della
patrum auctoritas era stata abolita, l'espressione siasi talvolta adoperata per
significare l'una o l'altra approvazione (1). (1) Nella gravissima questione,
che è tuttora aperta, gli unici argomenti, vera mente saldi, di cui possiamo
valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas patrum, durante il periodo regio
esclusivamente patrizio, non potè significare che l'approva zione del senato,
come risulta dal racconto di Livio, relativo all'elezione di Numa, ove i
patres, qui auctores fiunt, non possono essere che i senatori. Hist. I, 17, ed
anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto, attribuisce l'auctoritas al
senatus; 2° Che colla Repubblica il senato continuò senz'alcun dubbio ad
approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche tribute, in quanto
che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da Livio, XXXII, 6;
IV, 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano: nullum plebiscitum nisi ex
auctoritate senatus passuros se perferri; 3º Che oltre a questa approvazione
del senato si parla sovente di patres o di patricii auctores sopratutto da
Livio, ogni qualvolta trattasi di proposta di un interrex, o di qualche
provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40, 55, 59; IV, 7, 17, 42, 43 ecc.
Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi al senato, e quindi l'unica
conclusione probabile viene ad essere, che, siccome l'assemblea delle curie,
composta di patricii, era in certo modo stata esclusa dalla formazione delle
leggi, la quale era passata invece ai comizii centuriati, che erano la vera
riunione del populus, così essa, accid ritenesse sempre una parte nella
formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la patrum o patriciorum
auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla senatus au ctoritas. Cid fu
una conseguenza della modificazione introdottasi nella costituzione colla
introduzione dei comizii centuriati, e del principio ispiratore della
costituzione primitiva, secondo cui, per la formazionedella legge, richiedevasi
il concorso di tutti gli organi politici dello stato. Ciò che è accaduto
dell'auctoritas patrum, si è pure verificato della lex curiata de imperio, ed
anche della proposta dell' interrex, che pure appartengono all'assemblea
esclusivamente patrizia, quale fu per qualche tempo ancora quella delle curie;
mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele mento plebeo, aveva
seguito lo svolgersi della costituzione, e aveva così cessato di G. CARLE, Le
origini del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene infine la potestas populi, e a
questo riguardo io non dubito di affermare, che essa nel concetto della
costituzione pri mitiva di Roma, debbe essere considerata come la sorgente di
ogni altro potere. Alcuni autori trovano ripugnante, che Roma sia sen z'altro
pervenuta al concetto della sovranità popolare, e quindi cercano di dare, come
fondamento all'imperium del magistrato, il concetto degli auspicia, che essi
considerano come una specie di investitura divina (1 ). Parmi invece, che la
genesi dello Stato romano essere esclusivamente patrizio. Insomma,
coll'accoglimento della plebe nel populus quiritium, il vero potere legislativo
viene a portarsi nei comizii centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie
conserva l'auctoritas patrum, la lex curiata de imperio, e la proposta
dell'interrex. Certo è una congettura anche questa, ma mentre essa non
contraddice ai passi degli antichi autori, corrisponde allo spirito della
costitu zione primitiva, in cui ogni organo politico deve aver parte nella
formazione delle leggi e nell'elezione del magistrato, ed al sistema romano,
che, pur introducendo un nuovo organo politico, suole ancora mantenere per
riverenza e per culto quelli, che esistevano precedentemente. Il vero intanto
si è, che queste varie funzioni dell'as semblea delle curie non avevano più una
vera ed effettiva influenza, poichè la lex curiata de imperio divenne una
semplice formalità, la proposta dell'interrex era una reliquia del principio,
che auspicia ad patres redeunt, e la patrum auctoritas soleva solo essere
negata, quando trattavasi di opposizione d'interessi fra patriziato e plebe.
Dovrò ritornare sull'argomento nel Capitolo III, al § 1° e 2°, discorrendo
dello svol gimento storico del concetto di lex, e di quello dell'interregnum.
Del resto delle opinioni poste innanzi dagli autori quella, che parmi la meno
probabile, è quella adottata dal KARLOWA, che intende per patrum auctoritas
l'approvazione dei soli senatori patrizii, perchè essa non si concilia
coll'espressione dei patricii auctores fiunt, patricü coeunt, interregem
produnt e simili, e perchè crea una divisione nel senato, che è incompatibile
col carattere di unità coerente, che ebbe sempre questo corpo. Mentre
l'assemblea delle curie diventava una soprav vivenza dell'antica' costituzione,
il senato invece si mantenne sempre vigoroso e vi tale, e subì modificazioni
analoghe a quelle del populus, senza mai portare le traccie di dissidii che
fossero nel suo seno, poichè la nobiltà plebea, che entrava in esso, aveva già
le stesse tendenze dell'antico patriziato. Che poi il vocabolo di patres, in
questo periodo, fosse venuto a significare in genere l'ordine patrizio, è
dimostrato in modo incontrastabile da quella disposizione della legge
decemvirale: « connubium patribus cum plebe ne esto », dove il vocabolo patres
non comprende certo soltanto i senatori, ma tutti i patrizü; come pure dal
fatto, che gli storici parlano soventi dei iuniores patrum, la cui
intransigenza è condannata dal senato. (1) Parmi, che questa proposizione sia
abbastanza provata dalle espressioni ado. perate dagli autori per significare
il potere del popolo. CICERONE, ad esempio, parla di questo potere, dicendo che
il populus regem sibi adscivit, creavit, iussit, constituit; espressioni, che
indicano abbastanza, che la potestà suprema, a suo avviso, risiedeva presso il
popolo. Lo stesso è da lui confermato, allorchè nel discorso de lege agraria 2,
7, 17 dice: « omnes potestates, imperia, curationes ab universo populo romano
243 dovesse logicamente condurre al risultato di riporre la sorgente del
pubblico potere nella sovranità popolare, circondandola però di quel l'aureola
religiosa, che occorre in tutte le primitive istituzioni di Roma. Lo Stato
romano esce dalla confederazione e dal contratto, e quindi al modo stesso, che
la patria riceve la sua denominazione dai patres; così il potere pubblico si
forma mediante la riunione del potere, che appartiene ai singoli quiriti, e che
è rappresentato dalla lancia, di cui essi sono armati. Quanto agli auspicia,
che appar tengono al magistrato, essi non mirano, che a dare una consacra zione
religiosa al potere stesso, e a metterlo in condizione di sapere giudicare, se
questo o quel provvedimento, da prendersi nel pubblico interesse, possa essere
o non accetto agli dei. Che anzi gli auspicia publica del magistrato debbono
considerarsi essi stessi come una trasmessione, che i padri fanno al magistrato
di quegli auspicia, che appartengono a ciascuno di essi. Cid è dimostrato dal
fatto che, du rante l'interregno, gli auspicia ritornano ai padri (ad patres re
deunt auspicia ); il che significa, che in origine dovevano appartenere ai
padri stessi, i quali, nell'interesse delle loro genti e famiglie, as sumevano
quegli auspicii, che il magistrato romano doveva invece consultare, quando si
trattasse di qualche deliberazione importante per il popolo stesso. Tuttavia se
ai patres tornano gli auspicia, è però sempre al populus, che spetta di creare
il magistrato, che debba succedere nell'imperium, come lo dimostra la
tradizione, per venuta fino a noi, della elezione diNuma. Si aggiunge, che è
solo dopo il conferimento dell'imperium, fatto mediante la lex curiata de
imperio, che il re dapprima e le magistrature, che gli sottentrarono più tardi,
possono entrare nell'adempimento del proprio uffizio. Ri tengo pertanto, che a
questo proposito non possa essere accolta l'opi nione del Mommsen, la quale
riesce pure inammessibile per il Kar proficisci convenit ». Lo stesso è
indicato da Festo, allorchè parlando del magi stratus cum imperio, dice, che
esso è quello al quale « a populo dabatur imperium ». Malgrado di ciò convien
dire, che l'opinione contraria, come si vedrà in seguito, ha la prevalenza
presso gli autori anche recenti, che si occuparono dell'argomento. Si accostano
però al concetto da me sostenuto il Mainz, Introd. au cours de droit romain.
Bruxelles, 1876, nº. 6, pag. 33, ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio nella
repubblica romana, il quale fino dapprincipio afferma molto chiaramente e
giusta mente, a parer mio, che « i pastori della leggenda riconoscono Romolo
per capo supremo; ma, pur conferendogli la somma autorità, riguardano ancor
sempre se stessi quali depositarii, e quasi natural sorgente della sovranità ».
244 - lowa, secondo la quale la lex curiata de imperio non conferirebbe
l'impero, ma soltanto vincolerebbe il popolo verso il re (1). Se cosi fosse
infatti, il magistrato dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio, anche
prima di aver ricevuto questa specie di giuramento di fedeltà, che servirebbe
ad obbligare il popolo, ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il vero invece si
è, che anche in questa appare il carattere eminentemente contrattuale della
costituzione primitiva di Roma, per cui anche il conferimento del potere
supremo si opera colla forma propria della stipulazione, in quanto che havvi il
magistrato, che prima di entrare in ufficio rogat imperium, ed havvi il popolo,
che con una legge glie lo conferisce: e intanto l'uno e l'altro co noscono i
diritti e le obbligazioni, che una legge di questa natura può loro conferire.
Una prova poi di questo riconoscimento della sovranità popolare l'abbiamo per
parte del patriziato, in quel fatto di Valerio Pubblicola, che in tempo di pace
e dentro la città ordinava ai littori di abbassare i fasci, e di togliere
daimedesimi le scuri, come pure nel fatto, che gli imperatori, quando già si
erano fatti onnipotenti, sentirono il bisogno, per rispettare un tradizionale
concetto, di essere investiti dell'imperium dal popolo. 200. Intanto però il
concetto, che il potere supremo risiedesse nel popolo, non poteva in nessun
modo affievolire l'imperium: poichè al modo stesso che il popolo doveva
ubbidire alle leggi, che si erano (1 ) Che il magistrato non possa entrare in
ufficio, e tanto meno esercitare l'im perium, prima della lex curiata de
imperio, è provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice: « consuli, si
legem curiatam non habet, rem militarem attingere non licet » (De lege agraria,
II, 12, 30 ) e più genericamente ancora: « sine lege cu riata nihil agi per
decemviros posse » (Ibidem, II, 11, 28). Dal momento quindi, che il concetto
dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello del regis im perium, non
si comprende come il Mommsen, Staatsrecht, I, 588 s. possa ridurre la lex
curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola i soli sudditi, e
meno an cora, che il Karlowa, op. cit., I, pag. 52 e 82 possa sostenere, che la
lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione, che colla costituzione
Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii centuriati, i quali avrebbero
conferita la potestas, mentre i comizii curiati avrebbero poi conferito
l'imperium. Ciò è contraddetto ripetutamente da CICERONE, de Rep. II, 10, 17,
18, 20, che parla appunto della lex curiata de imperio a proposito dei primi
re. Non solo deve negarsi, che questa lex entrò in azione solo colla
costituzione Serviana; ma deve dirsi piuttosto, che essa da quel momento perde
della propria importanza e riducesi ad una semplice sopravvi venza dell'antico
ordine di cose, in cui erano i patres, che investivano il re del. l'imperium, e
a cui ritornavano gli auspicia. - 245 da lui votate nei comizi, così esso
doveva eziandio inchinarsi al potere, che aveva conferito al magistrato per
mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo potere riusciva tanto più efficace
ed imponente, in quanto si fondava sopra una volontà collettiva, che ve niva a
sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è anche questo il mo tivo, per cui il
potere del magistrato romano veniva in certo modo ad essere senza confini,
finchè aveva l'appoggio della pubblica opinione. Fermo cosi il concetto della
costituzione primitiva di Roma, quale esce dalla logica delle istituzioni
(logica, che nel fatto dovette anche essere più rigorosa e coerente di quella,
che a noi possa esser riu scito di ricostruire ), riescirà più facile di
ricomporre insieme i cenni, che gli autori ci conservarono di questa primitiva
costituzione e di comprendere il vero ed intimo significato della
medesima. § 4. Il re ed il regis imperium. 201. Dei concetti politici del
periodo regio, quello che presentasi modellato in modo più vigoroso e potente è
certamente il potere del rex. Tutti i poteri infatti, che nel periodo
anteriore, presso le genti latine, erano indicati coi vocaboli di magister
populi, di magister pagi, di dictator, di praetor, di iudex appariscono fusi e
concentrati nella concezione sintetica del regis imperium. Per tal modo il con
cetto del rex da una parte inchiude la sintesi di tutte le manifestazioni del
potere, che eransi avverate nel periodo gentilizio, e dall'altra è il punto di
partenza,da cui prendono le mosse tutti i poteri, che, durante il periodo
repubblicano, saranno poi affidati alle diverse magistrature maggiori. Il rex
nel concetto romano è l'unificazione potente del populus; accoglie in sè la
somma dei poteri, che possono essere necessarii nell'interesse della cosa
pubblica; nė vi ha costituzione scritta, che gli prescriva alcun limite
nell'esercizio dei medesimi. Cid però non toglie, che questi limiti esistano di
fatto nel costume pubblico e privato; nel bisogno incessante, che il re ha
dell'appoggio della pubblica opinione; ed anche negli imbarazzi, che gli
possono creare i padri, ogni qualvolta egli volesse spingere troppo oltre la
propria azione. Capo del populus, egli è custode eziandio della città spiega la
vita pubblica (custos urbis), e deve avere la propria casa nel cuore stesso
della città, accanto al sito, ove deve bru 246 ciare perenne il focolare della
vita pubblica, che si conserva nel tempio di Vesta. Che se, per provvedere al
pubblico interesse, debba abbandonare la città, dovrà lasciare nella medesima
un proprio delegato, che prenderà il nome di praefectus urbis. È quindi anche
il re, che provvede al lustro esteriore della città, che progetta e costruisce
quelle opere grandiose, che già rimon tano all'epoca regia, e che non furono le
meno durature fra quelle costruite nell'eterna città. È nella successione dei
re parimenti, che può scorgersi una continuità nel grandioso intento di
ampliarne le mura e le fortificazioni; lavori tutti, le cui reliquie dimostrano
abbastanza, come trattisi di un concepimento, che già presentatosi ai primi re,
ebbe poi ad essere continuato da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato
quello, che aspird alla tirannide. 202. Cid quanto alla custodia materiale
dell'urbs. Che se si con sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un
popolo, che è ripartito in curie, le quali hanno un carattere religioso,
militare e politico ad un tempo, riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché
dura il periodo regio, il magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe
rator) od il magister populi, o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo
di guerra, ma è anche il sommo sacerdote del popolo romano. Esso è augure
sommo, e tale appare Romolo stesso; è pontefice massimo, come lo dimostra il
fatto, che questa ' magistratura sacer dotale del popolo romano compare
soltanto colla repubblica, allorchè sentivasi già il bisogno di limitare in
qualche modo il sovrano po tere, disgiungendone la parte che si riferiva alla
religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra il pontifex maximus ed il rex
sa crorum; e fino a un certo punto esso è ancora il pater patratus del popolo
romano, come lo dimostra il fatto, che nelle descrizioni dei più antichi
trattati sono i capi dei due popoli, che vengono alla stipu lazione del foedus
e al compimento solenne delle cerimonie del ius foederale o foeciale, mentre
gli eserciti si limitano a salutarsi re ciprocamente, e così approvano
tacimente l'opera dei proprii capi (1). Verò è, che già fin dal periodo regio
noi troviamo l'istituzione dei collegii sacerdotali, ma questa creazione è
opera del re stesso, nè essi hanno, anche nella città patrizia, alcuna
partecipazione diretta all'e (1) Ciò appare dal seguente passo di Livio, I, 1,
a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri: « inde foedus ictum inter duces,
inter exercitus salutationem factam ». - - 247 sercizio del pubblico potere; ma
sono soltanto, come si dimostrerà a suo tempo, depositarii e custodi delle
tradizioni giuridiche, politiche, internazionali delle genti e delle tribù, da
cui essi sono tolti, e aiu tano così il re nella opera di unificazione
legislativa, che dovette essere urgente cosa e difficile negli inizii di Roma,
per trattarsi di città, che risultava dalle confederazioni di genti, che
appartenevano a stirpi diverse (1). Vero è parimenti, che durante il periodo
regio già appariscono altre cariche, quali sono quelle del tribunus celerum,
dei quaestores parricidii, e deiduumviri perduellionis; ma anche questi non
sono che ufficiali dipendenti dal re, e da lui nominati. Di qui la conseguenza,
che è solo il re o qualche suo delegato, che può essere preceduto dai fasci dei
littori e dalle scuri, simbolo del pubblico potere. È esso parimenti, che solo
può convocare il popolo e il senato, salvo che egli deleghi questo potere al
tribunus celerum o al praefectus urbis (2). È quindi vero, che colla creazione
del regis imperium si rias sumono in una sintesi potente tutte le
manifestazioni del magi stratus nel periodo gentilizio, e si inizia lo
svolgimento di tutti i poteri, che possono convenire ad una comunanza civile e
politica. Nel rex insomma, per usare una espressione dello Spencer, termina
l'integrazione del potere preparatasi nel periodo gentilizio, e da esso
incomincia quella differenziazione del potere pubblico, che dovrà poi operarsi
nella città. 203. Per quello poi, che si riferisce ai poteri che sono inchiusi
nell'imperium regis, indarno si cercherebbero quelle decise ripar tizioni, che
compariranno più tardi. L'imperium regis è una con cezione logica, più che
l'opera di una costituzione scritta, e quindi egli può compiere tutto ciò, che
può essere indicato coi vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare, di
imperare. Egli deve pren dere norma più dalla funzione, che è chiamato a
compiere nella città, che non da una precisa e particolareggiata determinazione
del (1) Quanto al compito dei collegi sacerdotali in Roma primitiva, mi rimetto
a quanto avrò a dirne in questo stesso libro, capitolo IV, § 2º. (2) Secondo il
LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 115, sarebbe, valendosi di questo
potere, che Giunio Bruto, come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici pitino,
quale praefectus urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la cacciata dei
Tarquinii: quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto eccezionali
non siasi forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248 proprio
uffizio. Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono
distinguere atteggiamenti diversi, che cominciano a diffe renziarsi mediante i
vocaboli di auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae. A lui quindi si
appartiene di assumere gli au spicii, allorchè trattasi di qualche
deliberazione, che si riferisca al pubblico interesse, cosicchè, già fin da
questo periodo, gli auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia
privata. Nell' as sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri,
ma a questi solo si appartiene la custodia dei riti e il compimento delle
cerimonie tradizionali; mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare
se essi siano favorevoli o non lo siano (1). Così pure ha l'imperium
domimilitiaeque, col quale incomincia una distinzione, le cui traccie si
perpetuano per tutta la storia politica e militare di Roma. Per verità, se i
Romani credettero di porre dei confini al l'imperium nei confini della città, e
vollero che i consoli, entrando nella medesima, facessero togliere le scuri dai
fasci, e facessero abbassare anche questi, allorchè concionavano il popolo,
compresero però la necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e che la
provocatio ad populum fosse tolta di mezzo, allorchè si trattava di mantenere
la disciplina dell'esercito; quasi si potrebbe dire, che a Roma il re o il
magistrato rogat in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra. In virtù
dell'imperium militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo in
tempo di guerra (2 ): nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re sarebbe
il duce della fanteria, mentre il tribunus celerum sarebbe quello della
cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso
nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio
militare del re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In
virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i comizi: ra duna il senato;
amministra giustizia, non nella propria casa, ma all'aperto, in cospetto della
cittadinanza; propone le leggi; e (1) Cfr. Mommsen, Le droit public romain, I
pag. 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli auspicia, e
del compito affidato agli auguri. (2 ) Sulla distinzione fra l'imperium domi e
l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale del Mommsen, op. cit.,
I, pag. 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium militiae, ivi, pag. 135 e
157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri nell' epoca regia
sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi ricevono tutto lo
sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i cavalieri e i
senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già accennata più
sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i cavalieri, i
quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali, indicati coi
vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi scelti, in
base a un numero determinato, dall'assemblea delle curie. I primi scelti fra i
giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte militare del re;
mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il consiglio; donde
la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno e l'altro ordine,
e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i medesimi, allorchè
l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un indizio di cið
l'abbiamo in questo, che negli inizii di Roma sembra esservi una correlazione
fra il numero degli equites e quello dei patres, col numero delle curie;
correlazione, che non tardd a scomparire, in quanto che il numero degli equites
si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero dei patres si
arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di più il senato
costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi degli equites,
i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a dare il proprio
voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso, che anche più
tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo per assi stere
ai pubblici spettacoli (1). 204. Questo è certo ad ognimodo, che nella
costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso ed
intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto
all'opera personale del re. Egli impone tasse, distribuisce terre, costruisce
(1) Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci
vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre
dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre. È poi Livio, I,
35, che parla dei « loca divisa patribus equitibusque » nel circo; altra prova
questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini distinti dal resto del
popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea dello stesso
Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un militaris ordo,
ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare, come essi abbiano
poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto questo carattere
militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo delle curie, e a
tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato; sebbene siavi chi
attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES, Della composizione del
senato (Mem. Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii. Può darsi, che la
tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a sintetizzare i processi
seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti, abbia in questa parte
esagerata l'opera personale del re; ma ad ogni modo, quando si consideri che il
primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo di unificazione dei varii
ele menti, che concorrevano alla formazione della città, si dovrà sempre
riconoscere, che la parte più operosa nel compito comune doveva appartenere a
quell'elemento, che era chiamata ad unificarle. Allorchè trattasi della
formazione di una città (e si potrebbe anche dire di uno Stato e di una
nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare una parte maggiore
al consulere, allorchè si tratterà di provvedere all'amministrazione interna, o
a quella delle provincie; sarà infine soltanto, allorchè saranno ferme le basi
della grandezza dello Stato, che potranno svolgersi largamente il iubere e il
constituere. Cid intanto prova ad evidenza che il potere del re in Roma pri
mitiva aveva già assunto un carattere essenzialmente politico e mi litare, come
quello, che conteneva in germe tutti quei poteri essen zialmente politici, che
furono poscia affidati a magistrature diverse. Nelle forme esteriori può ancora
assomigliarsi ad un padre: ma nella sostanza è già un principe, ossia il primo
del popolo (prin ceps), è il duce dell'esercito, e il magistrato della città. §
5. — Il Senato e la patrum auctoritas. 205. On carattere analogo può
riscontrarsi eziandio nel senato, quale appare nella costituzione primitiva di
Roma. Può darsi benis simo, che il nome stesso di senatus sia una sopravvivenza
dell'or ganizzazione gentilizia, come lo è certamente quello di patres, che fu
dato ai senatori, e che essi conservarono anche più tardi, allorchè certamente
avevano cessato di esser tali. Può darsi eziandio, che il primo concetto del
senatus potesse essere suggerito da quel consi glio domestico, che temperava
talvolta il potere del primitivo capo di famiglia, od anche dal consiglio degli
anziani, che provvedeva all'interesse comune della gente. Questo ad ogni modo è
fuori di ogni dubbio, che il senato romano assume fin dai proprii inizii un ca
rattere eminentemente politico, e che presentasi come l'applicazione di un
concetto, che i Romani avevano profondamente radicato, il quale consisteva in
ciò, che tanto il regis imperium, quanto il iussus po 251 - puli abbisognassero
di un ritegno in quell'autorità, che viene ad essere attribuita dall'esperienza
e dall’età (1). Di qui conseguita, che la patrum auctoritas, allorchè
comparenella costituzione primitiva di Roma, non è un'autorità, i cui limiti
siano stabiliti e determinati; ma è anch'essa una costruzione logica, che potrà
col tempo rice vere tutto quello svolgimento, di cui può essere capace il
concetto ispiratore della medesima. Di essa, come dell'imperium regis, non
potrebbe dirsi quale sia l'influenza, che verrà ad esercitare sulle sorti di
Roma; solo si conosce la funzione che, in base al proprio concetto informatore,
è chiamata ad esercitare nella costituzione politica della città. Saranno poi
gli eventi, che additeranno al senatus la via che dovrà seguire, i limiti in
cui dovrà contenersi, e i casi eziandio, in cui dovrà forzare il proprio
ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la logica dell'istituzione
dovrebbe contenerlo. 206. Siccome perd la funzione del consulere, per essere
una fun zione intermedia, ha per sua natura una indeterminatezza molto
maggiore, che non quella dell'agere e del iubere; così ne viene, che i poteri
del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi mento posteriore un
carattere vago ed indeterminato, che dipenderà dall'influenza effettiva e reale,
che i membri, che lo compongono, saranno in condizione di esercitare
sull'andamento della cosa pubblica. Possono esservi dei consigli che, per le
persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in comandi, per quanto siano
accompagnati dalla formola « si eis videbitur »; al modo stesso, che possono
esservi dei responsi e degli avvisi, che, per l'autorità della persona, da cui
partono, possono anche valere come sentenza, contro cui non sia consentito di
appellare. Queste esplicazioni sono frequenti nella lo gica romana, e sono
esse, che possono spiegare in qual modo il se nato, pressochè lasciato in
disparte dallo spirito intraprendente dei re, che dovevano preferire l'appoggio
dell'elemento popolare e quello anche della plebe, abbia potuto, senza romperla
affatto col concetto ispiratore della propria istituzione, cambiarsi colla
Repubblica nel l'organo più potente della costituzione politica di Roma, per
guisa da attribuire ai proprii avvisi (consulta ) l'autorità di vere leggi; (1)
Parmi di trovar espresso questo concetto, a proposito di Romolo, in CICERONE,
de Rep. II, 8. 252 mentre invece coll'Impero viene ad essere ridotto a
concedere la propria autorità ai decreti di un principe, al cui arbitrio non
era più in caso di poter resistere. 207. Del resto questo carattere non è
proprio solo del senato, ma di tutti gli organi della costituzione politica di
Roma, nella quale, ad esempio, occorre un magistrato, come quello del censore,
che in caricato dapprima di una funzione, che sembrava non adatta alla di gnità
di un console, quale si era quella della compilazione del censo, cambiasi poi
in censore del pubblico e del privato costume, in elet tore supremo del senato,
e per la dignità finisce in certo modo per essere considerato come superiore
allo stesso console. Nè altrimenti accade anche delle magistrature plebee, e
sopratutto dei tribuni della plebe, i quali negli inizii non hanno che il ius
auxilii, e non mirano che a difendere i debitori dai maltrattamenti dei
creditori, e i plebei dai maltrattamenti del console; ma poi da ausiliatori si
mutano in organizzatori della plebe, in accusatori del patriziato, e
nell'organo certamente più efficace del pareggiamento giuridico e politico
della plebe; finchè da ultimo il potere tribunizio, che continua pur sempre ad
essere circondato dal favor popolare, mutasi ancor esso nella base più salda,
sovra cui poggi ildispotismo imperiale. È quindi sopratutto in Roma, che
qualsiasi aspetto del potere sovrano tanto vale quanta è la tempra della
persona, che trovasi investito di esso, e quanto è l'appoggio, che esso trova
nella pubblica opinione, con quest'unica limitazione, che esso deve trattenersi
nei limiti del concetto, a cui si informa dai proprii inizii. Questo concetto
da una significazione materiale potrà passare ad una significazione morale e
politica, sic come accadde del censore, che da compilatore del cengo si cambiò
in censore del costume, dalla difesa potrà anche passare all'accusa, in uno
scopo di difesa, siccome fecero i tribuni della plebe;ma intanto nel proprio
sviluppo sarà costantemente percorso da una logica interna, a cui i Romani
seppero mantenersi fedeli, non solo nelle istituzioni giuridiche, ma anche in
quelle politiche. Questo carattere perd so pratutto si appalesa
nell'istituzione del senato. Potere consultivo nelle proprie origini trovò
opposizione nel partito popolare, allorchè cerco di cambiare i proprii
senatusconsulti in leggi; ma anche in quei senatusconsulti, che ebbero autorità
di vere leggi, esso si propose costantemente di esercitare sulla comunanza un '
autorità di carat tere consultivo e pressochè di protezione e di tutela: come
lo pro 253 vano il senatusconsulto intorno ai Baccanali, ed i senatusconsulti
Macedoniano e Velleiano. Intanto per tornare all'argomento, questo è certo che
tutti gli autori sono concordi nel descrivere il senato come elettivo fin dagli
inizii di Roma. Festo anzi ci attesta, che la nomina attribuita al re era più
libera di quella, che più tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere
lasciati in disparte dal re (praeteriti sena tores) non era riputato ignominia;
il che fu invece di quei ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le
condizioni per entrare nel senato, non vi fossero chiamati dal censore, o
fossero rimossi dal medesimo, se già ne facevano parte (1). 208. L'incertezza
invece è grande, quanto alle funzioni, che da esso furono effettivamente
esercitate; il che provenne probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere
di carattere vago ed indeterminato, gli autori, e fra gli altri Dionisio, non
potendo attribuirgli dei poteri determinati da una costituzione scritta,
dovettero sforzarsi ad asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla
funzione, che esso era chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che
le sue funzioni, anche durante il periodo regio, furono essenzialmente con
sultive. Esse anzi sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i
senatori son chiamati a fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe
inferiore, e quando ad essi viene affidata, almeno secondo Dionisio, la
punizione dei delitti meno importanti, mentre il re sarebbesi riservata la
giurisdizione sui più gravi (2). Non può invece ammettersi, perchè ripugna al
carattere dell'istituzione, che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato,
fosse obbligato ad attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere
degli avvisi dati al re, che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che
poscia furono non solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e
limitati quanto alla propria durata, per maggior ragione i senatusconsulti
avrebbero conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè,
durante il periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè
onnipotente. Sembra invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil
senato, durante il periodo regio, non abbia potuto esercitare tutta quella
influenza, che spiego più tardi; cosicchè, quando volle (1 ) Festo, V °
Praeteriti senatores (Bruns, Fontes, pag. 355). (2 ) Dion. 2, 12, 14, il cui
testo è riportato in greco ed in latino dal Bruns, Fontes, pag. 4 e 5. 254 -
contrastare alla intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal
medesimo tentate, dovette ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei
sacerdoti, come lo dimostra la tradizione relativa all'augure sabino Atto
Nevio, all'epoca di Tarquinio Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi
inefficace di fronte ad un re a vita, che aveva per sè l'appoggio del popolo
non solo,ma anche della plebe, la quale già cominciava ad esercitare
un'influenza, se non di diritto, almeno di fatto. Quindi fu solo colla cacciata
dei re, che il senato, consesso permanente fra magistrati, che mutavano ogni
anno, e che usciti dalla magistratura entravano a farne parte, divenuto così
custode della politica tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori,
potè dare al concetto ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica, di
cui poteva essere capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla
logica erano consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze
intorno alla composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi
vamente patrizio; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare
i pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre
il processo logico, che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere
il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere
concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece
che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine;
quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento, che sembra
appunto essere il numero adottato per le altre città latine, e per gli stessi
municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano (1).
Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a
chiudersi in sè stessa,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in
questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare
nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire
difficoltà, finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui, che
appartenessero alla plebe. Questa non era ancora organizzata o almeno lo era in
guisa tale, che poteva accogliere, senza difficoltà, qualsiasi nuovo elemento.
Di più (1) Liv. I, 8; Dion., II, 12; Cic., De Rep., II, 12. Che il senato o
meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si componesse
solitamente di cento, appare da ciò, che essi talvolta erano perfino chiamati
centumviri. Cfr. Willems, Le droit public romain, pag. 535. 255 l'Aventino, che
sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza la comunanza
plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori della cinta
Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le nuove famiglie
si possano stabilire. Tutto al più oc correrà di far loro concessioni di terre,
che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un mezzo sicuro di provvedere
al proprio sostentamento. Cosi invece non accade, allorchè trattasi di famiglie,
che già abbiano ottenuta posizione elevata nella comunanza, a cui esse
appartengono, e tanto più se trattasi di quelle, che,mediante l'orga nizzazione
gentilizia e le numerose clientele, siano in condizione tale da offrire un
contingente poderoso alla crescente popolazione romana. Allora anche Roma deve
venire a patti, in quanto che genti nume rose e potenti difficilmente si
disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede gentilizia, quando non fossero
accolte nell'ordine patrizio, mediante la cooptatio, e quando non potessero
ottenere, che i loro capi entrassero nel senato, e i gentili, che entrano a
costituirle, non fossero ammessi a far parte delle curie. Quanto a quest'ul
time, non occorre dimutare l'ordinamento primitivo della costituzione romana,
nè di aumentarne il numero, poichè, non essendo determinato il numero dei
componenti ciascuna curia, le curie costituiscono dei quadri, che possono anche
accogliere gli elementi, che si vengono aggiungendo. Cosi non è invece del
senato; la consuetudine latina vorrebbe che il medesimo fosse limitato al
numero di cento, e tale esso fu veramente nelle origini, secondo la tradizione,
e lo fu anche più tardi nei municipii e nelle colonie: ma, una volta completato
questo numero, sarebbe stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al
partito di aggiungere un determinato numero disenatori, ogniqual volta si
avverasse in una sola volta una considerevole aggregazione di genti patrizie.
Tuttavia non è nel costume dei romani di abbandonare senz'altro il numero
prefisso, poichè tutto ciò, che viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi,
siccome Roma risulta in certo modo dalla confederazione di un triplice elemento:
così il senato potè essere portato fino a trecento, il qual numero aveva anche
il vantaggio di essere in esatta correlazione con quello delle curie, e di non
contrastare cosi colla composizione simmetrica della città. 210. Come e quando
siasi fatta quest'aggiunta, non è bene atte stato. Alcuni, ritenendo che Roma
avesse successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive,
direbbero, che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses,
gli altri, che 256 vengono dopo, dai Titienses, e gli altri infine dai Luceres:
la cui aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco, al quale ap punto
si attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori (1). Questa
spiegazione sarebbe abbastanza verosimile, allorchè non fosse contraddetta
dalla tradizione, che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione delle
tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto, allorchè
una nuova tribù veniva aggregata, non si comprenderebbe come potesse parlarsi
di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin zione
appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui aumento
sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento nel
numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza, che la spiegazione più
verosimile del processo, che è stato seguito in questo argomento, sia quella
stessa, che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che
costituirono Roma primitiva, non potevano essere tali da offrire il numero di
trecento senatori, e Livio ci dice appunto, che il numero del senato primitivo
fu di cento, per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di
sedere nel senato (2). Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che
sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono
due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città
esclusivamente patrizia, contribuirono ad un forte aumento del patriziato
romano. 211. Il primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba,
in seguito al combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già
notato altrove, più che una vera e propria scon fitta, deve piuttosto essere
considerato comeuna specie diduello giu diziario, a cui si rimisero i due
popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della
vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano. In quella circostanza
infatti la (1) Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de la
république romaine, Paris, 1878, I, pag. 21 e segg.; dal Bloch, Les origines du
Sénat romain, Paris, 1883, pag. 43 e 55; i quali pure accennano alle diverse
opinioni professate in proposito. (2) Liv., I, 8. È però a notarsi, che Livio
farebbe rimontare la composizione del senato per opera di Romolo, ad un'epoca
anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece della formazione
delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è però contraddetto da
CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la federazione coi
Sabini. De Rep., II, 8. (3 ) V. sopra, lib. I, Cap. VIII, nº 144. 257
tradizione narra, che la parte povera della popolazione latina entrò a far
parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle genti
patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero venir
accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto, che così accadde. Ora
l'effetto naturale di questa coo ptatio era, che i capi di queste genti
dovessero essere ammessi nel senato, il che non avrebbe potuto essere fatto,
senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche le
testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero
simile il supporlo; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare
espressamente alle proporzioni di tale aumento, attestano però che esso dovette
aver luogo. Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di aver
duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali
cittadini d'Alba; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia; e di
aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un
contributo dal nuovo popolo. Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel
patriziato e nel senato all'epoca di Tullo, in occasione della distruzione di
Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento (1). Il numero tut
tavia si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che
Tarquinio Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a
trecento, il qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo
e precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri
cento (2). Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero, che il secondo
centinaio si fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense; ma ciò non
può essere ammesso, in quanto che l'ordinamento politico della città, per opera
di Romolo, era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù, come lo
dimostra la tra dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro
nome dalle donne sabine; inoltre, cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato
quell'aumento, che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212.
Quanto all'ultimo aumento, la tradizione e concorde nell'attri (1) LIV., I, 30;
Dion., III, 29. (2) Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco « centum in patres
legit »; e Dion., III, 62: « Et tunc primum populus tercentos senatores habuit,
qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant ». (3) PANTALEONI, Storia civile
e costituzionale di Roma. Appendice III, pag. 645 a 672. G. CARLE, Le origini
dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi ha divergenza nel
modo, in cui sa rebbesi operato. Cicerone dice, che egli avrebbe duplicato il numero
dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che farebbe supporre, che
anteriormente fossero soli cento cinquanta, il qual numero non può essere
ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente seguiti dai Romani, e dai
quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi monianza concorde di
Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato di cento senatori.
Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle genti Albane: ma è
ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti, entrate nella
comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio, siano rimaste tutto questo tempo
senza rappresentanti nel se nato. Altri invece, come il Pantaleoni, sostengono
che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei Luceres, i quali,
a suo avviso, deriverebbero il proprio nome da Lucer, che in Etrusco
corrisponde rebbe a Lucius (1); ma contro quest'opinione vi ha sempre la consi
derazione, che se questi entravano per la prima volta nella comunanza romana,
non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi tes, ricarate da
essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò indica, che dovevano
esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima nella comunanza; il qual
fatto potrebbe forse essere spie gato colla tradizione, serbataci da Varrone,
secondo cui Romolo in guerra coi Sabini avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni
Etruschi, uno dei quali (forse Celes Vibenna, che dette nome al Celio, già
compreso nell'antico Septimontium ) avrebbe anche preso parte alla confede
razione, che segui allora fra i due popoli, sebbene le sue genti siano state
forse collocate in condizione inferiore (2). Bensi è probabile, che le genti,
da cui si trassero i nuovi senatori, potessero essere altre genti, pure di
origine Etrusca, come i Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al
seguito di Tarquinio e della sua gente: il che spiega molto meglio, che non la
leggenda di Tanaquilla, comemaiTarquinio, appena giunto a Roma, abbia potuto
avere un seguito e un appoggio così forte nella popolazione romana, da aspirare
e da ottenere colle (1) PANTALEONI, op. cit., pag. 660. (2 ) L'opinione di
VARRONE a questo proposito è ricordata da SERvio, in Aen., V, ove scrive: « nam
constat tres fuisse partes populi Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem
contra Titum Tatium, a Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde
quidam venit cum exercitu; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est ». Del
resto anche Livio, I, 13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres
primi, solo mettendo in dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la
dignità regia. Egli tuttavia non potè passar sopra almetodo essenzialmente
romano, che è quello di porre come primi quelli, che veramente sono tali, e
quindi dovette collocare i nuovi senatori nel novero dei patres minorum gentium;
quest'appellazione tuttavia non sembra tanto indicare la minor dignità delle
medesime, quanto il loro essere entrati più tardi a far parte della comunanza.
È questo il motivo, per cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il
proprio avviso; al modo stesso, che anche più tardi nei co mizii centuriati
erano chiamati primi a dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu,
e soltanto dopo venivano i iuniores, che erano i minores natu. Cid dimostra,
che, trattandosi di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene
indizio di minor dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in
appli care il principio: « prior in tempore, potior in iure ». 213. Le genti
insomma, che, a nostro avviso, si vennero ag giungendo, escono da quelle
stirpi, a cui appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva
dato origine alla città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano
potuto esservi attirate dalle aderenze e parentele, che già potevano avere in
Roma, e come, offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi
accolte. A misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una
rappresentanza nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a
trecento; il quale, essendo in correlazione con quello delle curie, non ebbe ad
essere più superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero.
D'altronde le occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la
città patrizia ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a
rinchiudersi in sè stessa, e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e
le cooptazioni, si propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli
altri popoli, e di associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata, all'avvenire
della sua città. Bene è vero, che si verifica ancora più tardi la cooptazione
della gente Claudia: ma essa avverasi, quando erano troppi i vuoti nel senato,
perchè bisognasse aumentarne il numero, e poi trattavasi di una gente soltanto,
la quale, per quanto numerosa, non poteva occupare tanti seggi nel senato, da
richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi son fatto lecito di
proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei senatori, parmi, fra
le moltissime che si posero innanzi, che si concilii più facilmente colla tradi
260 zione e col processo eminentemente romano di far procedere di pari passo
gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli dell'or dine dei
cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten dosi negare, che
nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa debbono essere
simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro. La medesima intanto ci
prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla composizione del
senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che parlano talvolta
dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero popolo, il quale
all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la plebe, così sem brano
talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di se natori, che non
sarebbero stati tolti dalle genti patrizie; e cid fra gli altri attribuiscono
allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto essere smentito
dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono chiamati patres minorum
gentium, denomina zione, che poteva solo accomodarsi all'ordine patrizio, il
quale consi derava come un suo privilegio la gentilità. A ciò si aggiunge, che
in quest'epoca la distanza era ancora troppo grande fra i due ordini, perchè
deimembridella plebe potessero essere ammessi nell'ordine più elevato della
cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come dimo strerò a suo tempo, non
erano ancora ammessi a far parte delle curie. Ritengo quindi in proposito, che
l'opinione più probabile e più conforme al processo solitamente seguito nello
svolgimento politico di Roma, ove i cambiamenti, più che da arbitrio di uomini,
sogliono derivare dal processo naturale delle cose, sia quella, che
l'ammessione della plebe al senato dovette essere una naturale conseguenza del
l'ammessione di essa a far parte del populus delle classi e delle centurie;
poichè, modificandosi la composizione di uno degli organi essenziali della
costituzione, che erano i comizii, anche il senato dovette subire un'analoga trasformazione
(1 ). Più tardi poi, allorchè (1 ) Il WILLEMS, nella sua opera: Le Sénat de la
République romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public romain, pag. 46,
sostiene invece che i plebei non sareb bero stati ammessi nel senato, che a
misura che furono ammessi alle magistrature ed agli onori. Tale opinione
trovasi in contraddizione col fatto, che gli storici attri buiscono a Giunio
Bruto od a P. Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel senato da Tarquinio
il Superbo, mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed agiata (ex
primoribus equestris gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante, perchè
il cambiamento nella composizione del popolo richiedeva una modificazione
correlativa - - 261 - i senatori cessarono in realtà di essere nominati
esclusivamente fra i patres delle antiche gentes, ma furono scelti fra i
magistrati, uscenti di ufficio: ne consegui per una naturale evoluzione di
cose, che anche i plebei, che un tempo non avrebbero potuto esservi am messi
per nascita, poterono esservi ammessi per la dignità, che avevano coperto.
Probabilmente fu poi in questo secondo periodo, e in conse guenza di questa
trasformazione, per cui la dignità e gli onori con seguiti cominciano a tener
luogo della nascita, che i capi delle grandi famiglie plebee, che erano già
pervenute al ius imaginum, e ave vano così imitata l'organizzazione gentilizia,
poterono perfino entrare a far parte delle curie; le quali, se avevano perduta
ogni loro im portanza politica, continuavano però sempre ad avere una impor
tanza grande sotto l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro,
che già eguali in influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano
desiderare di apparire loro eguali, anche nella no biltà di origine. § 6. – I
comizii curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono
l'unica assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente
patrizia, appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva
di Roma. Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza
e siansi ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale, che può
quasi considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose; ciò però
non toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si vennero
foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo più tardi,
allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare, che essi si
circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali: manel loro
comparire essi hanno un carattere religioso, militare e politico ad anche nel
senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla plebe i capi
delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della composizione del
senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle Memorie
dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il quale
inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300, come quello, che
corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota, che egli
attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un tempo (1).
Essi, nella costituzione politica della città, corrispondono all'assemblea
patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo, per accordarsi
con esso intorno alle cose, che possono interes sare la comunanza. In questo
però le curie già differiscono da quella, che non comprendono tutta la
popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta della medesima, ossia
coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare alla cosa pubblica.
Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un piede di uguaglianza,
alla vita pubblica le varie tribù, la cui confederazione è concorsa a formare
le città (2 ). 216. I membri delle curie, come tali, chiamansi quirites, e sono
noti i dubbii intorno all'origine di questa denominazione. Sonvi coloro, che
fanno discendere il vocabolo da quiris, asta, che sa rebbe stata l'arma del
quirite, il simbolo del potere al medesimo spettante; nè l'etimologia può dirsi
inverosimile, quando si consideri, che nei carmi saliari il popolo ramnense è
chiamato populus pi lumnus, ossia il popolo del pilo, e viene così ad essere
qualificato anch'esso dall'arma, che lo contraddistingue (3). Altri invece, fra
i (1) Il carattere non solo politico, ma anche essenzialmente militare dei
comitia curiata, è stato posto in evidenza sopratutto dal IHERING, L'esprit du
droit romain, $ 20. Esso è poi provato dal seguente passo di Livo, V, 32: «
comitia curiata, qui rem militarem continent », e da un altro di Cicerone, De
lege agraria, II, 12, 30, ove è detto, che il console, finchè non abbia
ottenuta la legge curiata, non può as sumere il comando militare (rem militarem
attingere non licet). È però notabile, che il carattere militare di
quest'assemblea, che dapprima fu il più accentuato, come lo indica il nome
stesso di quirites, e l'asta di cui erano armati, fu anche il primo ad essere
perduto coll' introduzione dei comizii centuriati, che assunsero di preferenza
questo carattere militare: poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il
carattere politico, allorchè la lex curiata de imperio fu ridotta ad una
semplice formalità e la patrum auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia
o dalla lex Moenia. Il carat tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle
curie, fu il carattere religioso e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che
si mantennero gli auspicia, come lo dimostra la nomina dell'interrex, la quale
viene ad essere loro affidata, in quanto i patres o pa tricii delle curie sono
i soli depositarii dei primitivi auspicia, e sono le curie, che presiedute dal
pontefice, continuano ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari.
Ciò spiega, come anche nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con
una significazione pressochè sacerdotale. (2) Cfr. il Bouché-LECLERCQ,
Manueldes institutions romaines, Paris, 1886, pag. 6 e 7, e il BourgeaUD, Le
plébiscite en Grèce et en Rome, Paris, 1887, pag. 39. (3) Cfr. PANTALEONI,
Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice II, pag. 617. 263 quali, il
Niebhur, vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium, città
sabina, e che avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono
per confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) (1); la quale
opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso, con cui sarebbero
indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites,
più che l'origine, sembra indicare l'ufficio, il compito, a cui essi sono chia
mati di fronte alla città, poichè il nome loro nei rapporti esteriori continua
sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno provenire
il vocabolo da ciò, che essi facevano parte delle curiae, cosicchè quiriti
significherebbe per essi gli uomini delle curie (2). È perd facile il vedere,
che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia, esprime pur sempre il
medesimo concetto, poichè è la lancia, che è il simbolo del potere di chi
appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia, che sono i membri delle
curie. I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali, in quanto hanno
partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica, mentre nei rapporti
esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra
corrispondere, sotto un certo aspetto, a quella indicata coi vocaboli domi,
militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè
sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici
notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di
discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones.
In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro; intervenire i
patres, quali moderatori del populus; e tenersi anche orazioni (conciones), le
quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai
personaggi della loro storia, dovettero però essere ispirate alle circostanze,
in (1) NIEBAUR, Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita dal
WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero, che
il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il che ci
è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites: « Quirites autem, dicti post
foedus a Romulo et Tatio percussum, comunionem et societatem populi factam
indicant ». (2) LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag. 29. Inering, L'esprit
du droit ro main, 1, $ 20, pag. 20. Secondo il Lange, il vocabolo quirites non
è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono gli uoniini
delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una determinata
curia. 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono convocati i comizii,
tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo, ordinato a guisa di un
esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde il vocabolo di comitium
(1 ). Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de liberazioni il popolo romano
primitivo osservi un processo analogo a quello da lui seguito nelle sue
transazioni private. Finché trattasi di mettersi di accordo, è lecito discutere
e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a porre sotto l'aspetto più favorevole
la transazione proposta; ma allorchè il periodo delle trattative è finito, più
non occorre che una interrogazione ed una risposta, so lenni, ed allora: « quod
lingua nuncupassit, ita ius esto ». È in questo senso soltanto, che deve essere
inteso, ciò che attestano gli storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè
discutere, nè di videre o modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o
respin gere il candidato propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere.
Già nelle adunanze anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute
nei comizii avrebbero impedito quella solennità e quel silenzio, che
ritenevansi indispensabili nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse
pubblico, e che avevano per i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro
(2 ). 218. I comizii pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se
la volontà divina si palesasse favorevole, o non alla delibera zione, che si
stava per prendere; si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi
templum; e si tenevano in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle
pubbliche deliberazioni, i quali perciò chiamavansi dies comitiales. (1) Quanto
alla distinzione fra comitium e contio, vedi il KARLOWA, Röm. R. G. I, pag. 49.
È però a notarsi, che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo,
ma suppone anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal
seguente passo di Paolo Diacono: « Contio significat conventum; non tamen alium,
quam eum, qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur ».
Ciò pur conferma Liv., 39, 15. (2 ) Combatto qui l'opinione universalmente
seguìta dagli autori, specialmente ger manici (v. fra i recenti Karlowa, Röm.
R.G., pag. 52), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva
nella formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera
il carattere del populus primitivo; il quale, composto di capi di famiglia e di
persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche
prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga
mente nel capitolo III, § 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, § 1º,
parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta
la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse
consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse
l'impor tanza del proprio uffizio. Da una parte eravi il re o magistrato, che,
dopo aver premessa la formola: quod bonum felis, etc., invitava il popolo
(rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta
fattagli colla formola: velitis, iubeatis, quirites; e dall'altra vi erano i
membri delle curie, che rispondevano affermando (uti rogas), o negando
(antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle
assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri
comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa prevale
il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende dal voto
complessivo delle curie; nel che abbiamo un indizio del vincolo potente, che
stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in quanto che
non era il voto degli individui, che prevaleva, ma quello dei gruppi, a cui
appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla stessa
organizzazione gentilizia, in cui non si può comprendere l'in dividuo, che
aggregandolo ad un gruppo; ma dall'altra dovette anche condurre alla disciplina
del voto. I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di un
organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza; disciplina questa,
che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed anche nei
tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria, e la tribů. Intanto
anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino superstizioso
del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre un pronostico,
in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un augurio (omen );
donde la denominazione di curia principium, che viene ad essere imitata anche
negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione stessa delle
delibera zioni comiziali. sono 219. Sopratutto poi importa determinare, quali
fossero le funzioni affidate ai comizii curiati; il che riesce assai difficile,
in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare presentasi dapprima
piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato. Secondo Dio nisio, il quale
talora si sforza a precisare i contornidelle istituzioni primitive di Roma,
sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me diante una lex de bello indicendo,
avrebbe deciso della pace o della 266 guerra; sarebbe essa, che conferirebbe la
cittadinanza non ad indi vidui, ma ad intiere popolazioni o gentes, mediante la
cooptatio; sarebbe essa parimenti, che voterebbe le leggi, e nominerebbe il
magistrato supremo (1). Che se invece si tiene conto dei fatti, dei quali ci
pervenne notizia, ben poche sarebbero state le occasioni, in cui l'assemblea
delle curie avrebbe esercitato queste funzioni. Cid vuol dire, che anche il
potere dei comizii curiati non dovette dap prima essere determinato da una
costituzione scritta; ma deve ri guardarsi come un potere in via di formazione,
che poi si svolgerà, a seconda delle occasioni e degli avvenimenti,
mantenendosi perd sempre fedele al proprio concetto informatore. Esso tuttavia,
come si vedrà più sotto (2 ), già contiene in germe tutti quei poteri, che
l'assemblea del popolo acquisterà colle altre forme di comizii. È esso infatti,
che nomina il Re e si ha così il germe del potere elettorale; è esso che,
secondo la tradizione, sanziona le leges re giae, e si ha così l'inizio del suo
potere legislativo; è esso infine, che già avrebbe avuto l'occasione di
esercitare una specie di giu risdizione criminale, come lo dimostra la
provocatio ad populum, che si fa rimontare all'epoca dei primi re, e si sarebbe
dispiegata, secondo la tradizione, nel fatto dell'Orazio, uccisore della
propria sorella. 220. Sopratutto poi è notabile nei comizii coriati uno
speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più evidente del passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e politica, e che non
parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori. Questo ca rattere
consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie; la quale, sotto
un certo aspetto, è ancora sempre una riunione di ca rattere gentilizio, e
coll'intervento dei pontefici provvede alla con servazione delle genti e delle
famiglie, e del loro culto, e sotto un altro aspetto è una riunione di
carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe, che il quirite, al pari di
Giano, protettore della città, deve avere lo sguardo rivolto in due opposte
direzioni: da una parte egli è ancora un rappresentante della gente e della
tribù, (1) DION., 2, 14, scrive in proposito: « populo vero haec tria
concessit,magistratus creare, leges sancire, et de bello decernere, quando rex
rogationem ad eum tulisset ». (2) Rimando la prova di ciò al capitolo seguente,
ove si considera la costituzione primitiva di Roma nelle sue principali
funzioni. 267 da cui discende, e come tale è ancora strettamente vincolato al
l'organizzazione gentilizia, e deve curare che il culto di essa non venga ad
interrompersi, e che il suo patrimonio non sia disperso; dall'altra invece è
membro del populus, e come tale deve obbe dire ai cenni del magistrato, e deve
aver presente sopratutto il pubblico interesse, in quanto che « salus populi
suprema lex esto ». Questa doppia qualità del quirite si appalesa nell'indole
diversa delle riunioni, di cui esso è chiamato a far parte. Accanto ai veri
comizii, convocati dal magistrato, per mezzo dei littori, e in cui si votano le
cose attinenti al pubblico interesse, sonvi i comitia ca lata, convocati dal
pontifex maximus, per mezzo dei suoi calatores, nei quali si compiono quegli
atti, che possono toccare in qualche modo l'organizzazione gentilizia. Nei
primi si votano le leggi; si deliberano le guerre e le paci; si nomina il
magistrato; si assolvono o condannano coloro, che appellarono al popolo. Nei
secondi invece, che rivestono di preferenza un carattere religioso, i quiriti
si ra dunano, in quanto hanno un culto, a cui debbono provvedere. È quindi in
essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed anche quella dei flamines; come pure
è in essi, che si compiono quegli atti, che possono alterare in qualche modo
l'organizzazione gentilizia, e com promettere l'avvenire del culto. È perciò in
questa specie di co mizii, che deve essere approvata l'adrogatio di una persona
sui iuris, come quella che ha per effetto di fare entrare un capo di famiglia
sotto la podestà di un altro; il che significa sopprimere una famiglia e il suo
culto, per continuare invece un'altra famiglia e il culto della medesima. È in
essi parimenti, che ha luogo la detestatio sacrorum, che è la rinuncia al
proprio culto gentilizio, per causa di adrogatio o di transitio ad plebem; come
pure è ivi, che segue la cooptatio di una gens nell'ordine patrizio: cooptativ,
che si opera per l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a
costituirla. È in essi infine, che deve seguire quel testamen tum, che vien
detto appunto in calatis comitiis; il quale, secondo il concetto delle genti
patrizie, costituiva materia di diritto pubblico, come quello, che alterava le
norme relative alla successione genti lizia, e quelle riferentisi alla
trasmessione dei sacra. Cid è provato dal fatto, attestatoci da Cicerone, che
il ius pontificium, nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per
porre i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità; donde
l'espressione popolare, che occorre soventi nei comici latini, di haereditas
sine - 268 sacris, per significare un vantaggio conseguito senza i pesi
inerenti al medesimo (1). 221. Intanto questo speciale punto di vista, sotto
cui debbono, a parer mio, essere considerati i comitia calata, ci spiega quel
carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma,
il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di
disporre delle proprie cose per testamento; dal l'altra vuole, che i
testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi privati,
siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo, e li ritiene come relativi ad
argomenti di diritto pubblico. Gli autori vollero spiegare la cosa con dire,
che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante leges
publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e
coll'approvazione del po polo. Riterrei invece, che in questa istituzione dei
comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere
meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato
nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande
intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e
il loro culto, e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la conseguenza,
che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione
dell'assemblea della gente o della tribù (2 ). Or bene così continuò ancora ad
essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia: quindi questi atti
continuarono ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi
sacerdotali, che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica,
ma ancora i sacra privata. Quindi conviene ammettere, che le curie non
prestassero soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a
darvi la loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che
viene ad essere provato dalla formola, conserva taci da Aulo Gellio,
relativamente all'adrogatio (3 ). Una volta poi, (1) La teoria dei comitia
calata ci fu conservata sopratutto da Aulo Gellio, Noc. Att.. XV, 28 e 3, il
quale dice di averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla
ripartizione dei sacra, in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è
attestata da CICERONE, De legibus, II, 19, SS 47, 49. (2) Vedi libro I, cap. IV,
$ 4, nº. 61 a 65. (3 ) Aulo Gellio, Noc. Att., V, 19. Ivi si dice che a
adrogatio per rogationem populi fit », ed è riportata la formola, che è quella
della vera e propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis,
iubeatis, quirites » e termina coll'espres. sione « Haec ita, uti dixi, ita
vos, quirites, rogo ». 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata
nella primitiva costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il
tempera mento del popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban
donerà così presto. Si comprende pertanto, che quando si introdussero i comizii
centuriati, anche questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano avuti i
proprii comizii calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due volte
all'anno, più non dovette approvare il te stamento, ma solo prestare la propria
testimonianza. Ciò è dimostrato dal fatto, che il testamento in calatis
comitiis potè poi essere surro gato da quello per aes et libram, in cui i
quiriti sono chiamati non per approvare, ma solo per testimoniare (testimonium
mihi perhi bitote). Intanto però, anche quando l'adrogatio e il testamentum
furono atti di carattere intieramente privato, rimane però sempre la traccia
dell'antico stato di cose nel concetto, ricordatoci da Papiniano, secondo cui
la testamenti factio pubblici iuris est (1). A questo riguardo poi, è ancora
degno di nota, che quando l'as semblea delle curie fini per perdere ogni
importanza politica e mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di trenta
littori, presie duta dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse esagero
perfino questa competenza, per ciò che si riferisce agli atti, che riguardano
l'organizzazione gentilizia, e sopratutto, quanto all'adrogatio. Questa fu
praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e Claudio, i
quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti patrizie,
seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di Nerone. Cosi
le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a poco in Roma,ma
ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad esaminarsi la
questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte della
assemblea delle curie; ma (1) Papin., L. 4, Dig. (28, 1). La conclusione
sarebbe questa, che il carattere di lex del testamento primitivo è una reliquia
dell'antica organizzazione gentilizia. Tale carattere poi in parte avrebbe
cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati calati, si
introdussero anche i comiziï centuriati calati, la cui esistenza ci.è attestata
da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente dovettero essere quelli, i
quali, secondo Gaio, Comm., II, 101, si radunavano due volte l'anno,acciò in
essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso della loro riunione
periodica dimostra, che molti testamenti si potevano presentare ad un tempo, e
che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a prestare la propria
testimonianza. Fu questo il motivo, per cui il testamento in calatis comitiis
potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram, ove i quiriti si
riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm., II, 103. 270 credo
opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò di
determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del
diritto pubblico, che sotto quello del diritto pri vato; premettendo però fin
d'ora, che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo
regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle
curie (1 ). $ 7. Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in Roma.
222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del
carattere speciale della primitiva assemblea curiata: ma intanto per scoprire
certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate, quando non
fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli
svolgimenti, che verranno dopo, e dimo strarne la continuità, ritengo
opportuno, a costo anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo
sintetico allo svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in
cið alla moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni
della costituzione politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad
epoche compiutamente di verse, ma che intanto funzionano contemporaneamente.
Ciò è vero sopratutto per quello, che si riferisce ai comizii. Roma patrizia, e
forse anche Roma, durante tutto il periodo regio, non conosce altra assemblea
del popolo, che quella delle curie. Essa è un'assemblea, di carattere religioso
e sacerdotale, politico e militare ad un tempo: è la riunione del primo populus
romanus quiritium, di quello cioè, che era ristretto al populus, che usciva
esclusivamente dalle genti patrizie. In base alla costituzione Serviana, che
ammette la plebe a far parte delle classi e centurie, sulla base del censo,
intro ducesi un' altra assemblea del populus romanus quiritium, già inteso in
senso più largo, che è la centuriata. Anch'essa è mo dellata sulla prima, e
secondo Gellio, imita perfino i comizii calati, come pure è anche preceduta
dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già un elemento, che non partecipava al
culto gentilizio, che era quello della plebe, perde ogni carattere religioso e
sacerdotale, e (1) La questione qui accennata sarà presa in esame in questo
stesso libro, cap. V. 271 assume un carattere essenzialmente militare, e poscia
anche poli tico. Da questo momento l'assemblea per curie più non può rap
presentare l'intiero populus, perchè una parte di questo, cioè la plebe, non
entra a farne parte. L'assemblea curiata quindi diventa, dirimpetto alla
centuriata, un' assemblea di patres, perchè com prende coloro, che discendono
sempre dalle antiche genti patrizie. La vera rappresentanza dell'intiero
populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere l'assemblea per centurie;
perchè essa soltanto comprende tutto il popolo, organizzato sulla base del
censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i discendenti delle antiche genti
pa trizie, continuano ancora sempre a formare un nucleo separato del populus,
cosi essi sono ancora chiamati a dare alle deliberazioni dei comizii centuriati
la patrum auctoritas, la quale viene, come sopra si è veduto, a distinguersi
dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico populus, composto appunto dai
patres, continua ancora sempre a con ferire l'imperium colla lex curiata de
imperio, sebbene l'una e l'altra funzione tendano naturalmente a perdere della
loro im portanza, e l'assemblea curiata si limiti sempre più a funzioni di
carattere puramente gentilizio e sacerdotale (1). 223. Fin qui lo svolgimento
della costituzione primitiva procede ancora regolarmente: ma la cosa si fa più
malagevole, quando, fra i congegni della costituzione politica di Roma, compare
un nuovo elemento, che è quello delle assemblee proprie della plebe (concilia
plebis). La plebs forma già parte del populus e partecipa alla civitas; ma la
sua civitas è ancora minuto iure, in quanto che essa non ha ancora nè il ius
connubii col patriziato, nè il ius honorum. È quindi naturale in essa
l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una opposizione di interessi fra il
patriziato e la plebe. Quest'ultima, che, uguale sotto un aspetto, aspira a
diventarlo anche sotto gli altri, viene naturalmente a costituire sotto un
certo riguardo una fazione nello Stato, poichè i suoi interessi si
contrappongono a quelli del patriziato, il quale continua ad essere il vero
reggitore dello Stato, essendo il solo ammesso alle magistrature e agli onori.
La plebe però ha già un proprio magistrato, sotto cui si organizza, che è il
tribuno della plebe, il quale, in base alla costituzione, può (1) È da vedersi,
quanto all'auctoritas patrum, questo stesso capitolo, § 3º, n° 198, pag. 240 e
seg. colle note relative. 272 convocarla per prendere deliberazioni nel proprio
interesse. Sorge cosi spontaneamente l'istituto dei concilia plebis, i quali
dapprima hanno più un'esistenza di fatto, che non di diritto: ma che intanto,
fatti forti dal numero e dalla intraprendenza dei tribuni, tendono naturalmente
a prendere dei provvedimenti, che mirano a prepa rare l'uguaglianza giuridica e
politica fra la plebe e il patriziato. Essi perciò mettono in accusa patrizii avversi
alla plebe e gli stessi consoli, allorchè escono di ufficio. Proibirli è
impossibile, perchè è principio riconosciuto dalle XII Tavole, che ogni
sodalizio, che abbia un capo (magister ), possa dettarsi una propria legge, e
perchè in ogni caso sarebbe impossibile vietare le riunioni di un elemento, che
ha per sè il numero e la forza, e che, ricorrendo ad una secessio, potrebbe
mettere a repentaglio l'avvenire della città (1). L'unico partito pertanto, che
rimanga al patriziato ed al senato, che lo rap presenta, è quello di
riconoscere queste riunioni e di farle entrare, per quanto sia possibile, nei
quadri legali della costituzione politica di Roma, trasformando a poco a poco i
concilia plebis in comitia tributa: in comizii, cioè, che comprendano eziandio
tutto il popolo, ma non più in base al censo, come l'assemblea delle centurie,
ma in base alle tribù locali, in cui è raccolta tutta la cittadinanza ro mana.
È questa la trasformazione, che incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il
quale, nel 283 U. C., dopo lunghe lotte, ottiene che la plebe possa nominarsi i
suoi tribuni nei proprii comizii; ma con ciò questi non possono ancora prendere
che provvedimenti riguar danti la sola plebe, e che possono soltanto essere
obbligatorii per essa. Quindi incomincia da parte di questa uno sforzo inteso a
pareggiare i comizi tributi agli altri comizii, e a fare si che i plebisciti
obbli ghino anche il patriziato, il che si opera per mezzo delle leggi Va leria
-Orazia, Publilia e Ortensia; le quali, sebbene, per il poco che a noi ne
pervenne, mirino tutte allo scopo di rendere obbligatorii i plebisciti per
tutto il popolo, segnano però, come si vedrà più sotto, pag. 728, (1) La
proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle disposizioni
della legge decemvirale, secondo cui « Sodalibus potestas esto, pacionem, quam
volent, sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. V. Voigt, die
Tafeln, I, che attribuisce tal legge alla Tavola VIII, n. 12. Qualcosa di
analogo ci è pure accennato da Livio, 39, 15: « ubicumque multitudo esset, ibi
et legitimum rectorem multitudinis, censebant maiores debere esse »; ed è
questo forse il motivo, per cui i concilia plebis cominciano a diventare
potenti, quando la plebs ha trovato un proprio rector o magister nel tribunus
plebis. - 273 discorrendo del concetto romano di lex, i varii stadii, per cui
passò la risoluzione del gravissimo problema (1). 224. Giungesi cosi ad un
periodo della costituzione politica di Roma, in cui nei quadri di essa trovansi
tre specie di comizii. I primi e i più antichi sono i comizii curiati,ma essi
vengono ad essere sempre più ridotti a funzioni puramente gentilizie e
sacerdotali, e anzichè essere in effetto ancora le riunioni delle curie, si
riducono ad essere la riunione dei trenta littori, che le rappresentano, e
diven tano così una sopravvivenza dell'antico ordine di cose. Accanto ad essi
sonvi i comizii centuriati, che sono sempre la vera assemblea del popolo
romano, e continuano a conservare in qualche parte il pri mitivo carattere
militare: ma anch'essi si fanno più democratici, come lo dimostrano le riforme,
che sappiamo essere state introdotte, senza saperne precisare il come ed il
quando, e debbono dividere in parte le proprie funzioni colla nuova assemblea
tributa, più fa cile a convocarsi e più intraprendente nella propria
iniziativa. Certo si richiedeva il genio pratico dei Romani per far procedere
di pari passo assemblee, che rappresentavano un principio diverso, cioè la
nascita, il censo, ed il numero. Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè
serbare intatto il proprio carattere primitivo; ma poscia la fusione sempre
maggiore dei due ordini condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di
grandi famiglie, che furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la
dignità sacerdotale di curio maximus; al modo stesso, che i pochi discendenti
delle an tiche genti patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i
quali ricevettero cosi anche la consacrazione religiosa, e poterono essere
presieduti da magistrati, che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le
cose pervennero a questo punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii
centuriati, e nei comizii tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e
questi in base alle tribù lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti; quelli
serbano ancora un carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio,
fuori delle mura Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e (1)
Rimetto la discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se
guente § 2º, n ° 232 e seg. dove si discorre del concetto romano di lex. Quanto
alla proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da vedersi
il Bonghi, Storia di Roma, pag. 439 a 451, come pure a pag. 593, ove parla
dell'elezione dei tribuni nei comizii tributi. G. CARLE, Le origini del diritto
di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della
costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia,
a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati
ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e
circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso, e i concilia
plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo
col patriziato, e nei quali continuano a nominarsi le magistrature
esclusivamente plebee (1). Intanto è ancora degno di nota, che la
trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni
della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe,
diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure
accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle
leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente.
Questo è il solito processo, seguito dai Romani, nello svolgimento delle
proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo
ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico, che
a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad
un tempo, e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella
compagine romana non scomparirà, se prima non siasi ricavato da esso in
profondità ed estensione tutto ciò, che contenga di vigoroso e di vitale.
Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a
costituirla, importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali
funzioni. (1) È questo, a parer mio, il solo modo per risolvere la questione
così contro versa relativa alle analogie ed alle differenze, che possono
intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis. È noto in proposito,
come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea tributa (Histoire romaine,
III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima (concilium plebis), avrebbe
più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi così cambiata in comitium
tributum. Il Mommsen invece (Römische For schungen, Berlin, 1864, I, 151 a 155)
sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due assemblee tribute: l’una
patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra esclusivamente plebea (concilium
plebis). Ritengo che quest'ultima opinione possa essere accolta, ma limitando
le funzioni dei concilia plebis a cose di interesse esclusivamente plebeo,
quali erano la nomina dei tribuni e degli edili plebei, mentre il vero potere
legisla tivo, elettorale e giudiziario appartiene ai comitia tributa, i quali
soli possono con siderarsi come un vero organo della costituzione romana. Cfr.
BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris, 1887, pag. 57 a 76; Karlowa,
Röm. R. G., pag. 118; MORLot, Précis des instit. polit. de Rome. Paris. La
primitiva costituzione di Roma nelle sue principali funzioni. $ 1. - Carattere
generale della medesima. e 225. La costituzione primitiva di Roma, finchè si
mantenne esclusivamente patrizia, si presenta con un carattere di unità e di
coerenza, che indarno si cercherebbe più tardi nelle istituzioni po litiche di
Roma. Vero è che la plebe, entrando a far parte della comunanza politica, recò
nella medesima il movimento e la vita, rese possibile per Roma un avvenire, che
non avrebbe mai conse guito la città esclusivamente patrizia, la quale da sola
tendeva più a chiudersi in se stessa, che ad estendersi; ma è vero eziandio,
che colla plebe penetrò il dualismo in ogni aspetto della costituzione
primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii disciplinati del popolo rac colto
nelle curie, si svolsero i concilii talvolta tumultuosi della plebe; ai
magistrati del popolo si contrapposero quelli della plebe; ed alle leggi votate
nella solennità e nel silenzio dalle curie si so vrapposero i plebisciti. Fu in
tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma venne in certo modo ad essere
forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore della medesima, e fini per
assumere un ca rattere del tutto peculiare, in quanto che dovette stringere insieme
due popoli, che politicamente erano associati, ma che non erano intimamente
uniti fra di loro, di cui uno pretendeva di avere per sè la priorità ed il
diritto, mentre l'altro aveva per sè il numero e la forza. Nè conseguita che,
per comprendere lo spirito della primitiva costituzione di Roma, conviene in
certo modo isolarla dagli elementi, che sopravvennero coll' ammessione della
plebe alla cittadinanza, e quando ciò si faccia non si può a meno di rima nere
ammirati di fronte all'unità ed alla coerenza, che presenta la costituzione
esclusivamente patrizia. Essa è un vero organismo, che componesi di varie
parti, delle quali ciascunaè chiamata ad adempiere la propria funzione: ma che
tutte intanto si suppongono e si completano a vicenda. La potestas in largo
senso si ritiene bensi appartenere al popolo, ma questo non potrebbe
esercitarla, se 276 non fosse posto in azione dall'imperium del magistrato; e
intanto fra di loro si interpone l'auctoritas del senato, il quale da una parte
modera col suo consiglio il regis imperium, e dall'altra da la consistenza e
l'appoggio della propria autorità ai iussa populi. 226. Questa coerenza poi
appare anche più evidente, allorchè i congegni della costituzione siano
considerati nel loro movimento; poichè mentre ciascun aspetto del pubblico
potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio concetto ispiratore,
niuno di essi però può compromettere l'interesse comune, senza che vi
concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione politica di
Roma ha fatto dire a Polibio, che essa appariva mo narchica, aristocratica e
democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava rimpetto a questo o a
quell'aspetto del pubblico potere (1); ma se altri poi la consideri in
movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi caratteri ad un tempo.
L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi potestas sono altrettante
concezioni logiche, destinate col tempo a ricevere tutto lo sviluppo, di cui
possono essere capaci; ma intanto son disposte per modo, che si contengono e si
limitano a vicenda, non già perchè esista fra di essi una ripartizione o
circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi elementi puo
compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti gli altri.
Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere impotente,
quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi; donde l'importanza,
che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio, la quale viene
atteg giandosi in guise molteplici e diverse, in quanto che tale intercessio, o
può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la par ma iorve potestas,
o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima magistratura (2 ).
Questo è, a parer mio, il carattere fon (1) Polibio, Histor., lib. VI. (2) È
mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal concetto dell'intercessio nello
svolgimento storico della sua costituzione, come appare dalla magistrale
trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit public romain, pag. 230 a 329.
Non potrei tuttavia accettare la sua affermazione recisa, che l'intercessio non
esistesse nel periodo regio. Certo essa non ebbe occasione di svolgersi, perchè
i tre elementi od organi della costituzione erano potentemente unificati; ma
intanto la cost ituzione primitiva inchiudeva già allo stato latente il
germe di tutta la teoria dell'intercessio, in quanto che in essa niun
provvedimento, che possa compromettere il pubblico interesse, pud damentale della costituzione primitiva di
Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino allo scrupolo, ed ora
invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia, secondo che essa
abbia o non l'appoggio dell'opinione generale. Intanto quando trattasi della
res publica, ossia di cosa, che possa interessare l'intiera comunanza, tutti
questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio contributo. È infatti
almagistrato (rex, interrex, tribunus celerum, praefectus urbis) che si
appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il popolo o il senato; il ro
gare, quando importa di ottenere l'approvazione di qualche proposta;
l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo imperium si spinge fino
alla maggiore estensione, di cui possa essere capace. E invece al senato, che
si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il proprio avviso al
magistrato, o di richiamare l'attenzione di lui su qualche imminente pericolo,
« ne res publica detrimenti capiat »; e l'auctor fieri, se è questione invece
di appoggiare le de liberazioni del popolo. È infine al popolo, che spetta il
iubere e lo statuere, quando trattasi di una lex, sotto la qual forma si
manifesta di regola la volontà collettiva del quando trattasi della
elezione dei magistrati. Intanto però, siccome queste gradazioni dell'azione
collettiva debbono tutte concorrere in sieme per costituire un atto compiuto,
cosi niun elemento pud da solo prendere un provvedimento, che possa
compromettere l'interesse comune (1 ). Ciò sopratutto appare nel compimento di
quegli atti, che, per propria natura, interessano l'intiera comunanza, quali
sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione del magistrato, e
l'amministra zione della giustizia; dai quali poi discendono le tre
manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio nel
periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò il
suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del
potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum,
alla rogatio, ed al senatus consultum, il quale, se colpito dall'intercessio,
non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve essere perscriptum,
perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus, col quale vocabolo
viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op. cit., (1) Ho già insistito
su questo concetto, che può essere considerato comela chiave di volta della
primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al corso di Storia del
diritto romanu col titolo: L'evoluzione storica del diritto pubblico e privato di
Roma, Torino, 1886, pag. 13. pag. 317. 278 del potere sovrano nella città
antica, che sono il potere legislativo, il potere elettorale, ed il potere
giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi atti, che vuolsi cercare
in qual modo entri in movimento ed in azione la primitiva costituzione di Roma,
dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo allo svolgimento storico, che
dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $ 2. Il concetto romano di lex
nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col plebiscitum. 228. Nel
considerare il concetto primitivo della lex in Roma si riman magistratum
creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione, colla quale si
presenta questo vocabolo. Esso significa dapprima qualsiasi ac cordo di più
individui in una stessa volontà, e viene così, fin dagli esordii, a
distinguersi in lex privata, che significa una convenzione od una norma, che
altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex
mancipii, lex testamenti), ed in les publica, che significa la volontà
collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui.
Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di
convenzione o di contratto, quello di lex publica continua ancora ad avere una
estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi
delibera zione solenne del popolo. Parlasi infatti di una lex belli indicendi,
foederis ineundi, coloniae deducendae, agri adsignandi e simili; e fino a un
certo punto la nomina stessa del magistrato, o almeno il conferimento
dell'imperium, spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge.
Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale
iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue
così da qualsiasi de liberazione, relativa ad una persona o ad un fatto
particolare (1). Ciò (1) Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la
lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato
dell'accordo di tutti gli organi dello Stato, viene ad essere una communis
reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata; donde la conseguenza,
che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece
è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è
quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della
stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la
legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum. È in questa guisa, che vuol
dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione: ma
intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo di
più volontà in un medesimo intento. Tale significazione sembra pure essere
indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo, la
quale perciò non indica tanto la forma scritta, assunta dalla legge, come
vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo
intento (1 ). 229. Un altro carattere della lex, secondo il primitivo concetto
romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo
dimostrano le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni
comiziali, e la reverenza e il culto, di cui la legge viene ad essere l'oggetto
in Roma primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo. Di qui
alcuni autori ebbero a ricavare la conseguenza, che la forza obbligatoria della
legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio del popolo, quanto piuttosto
da questo carat tere religioso, da cui essa appare circondata. Se con ciò si
vuol dire, che la legge solennemente votata dal popolo, dopo aver assunto gli
auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una interpreta zione della
stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil mente ammesso, essendo
il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si è dimostrato a suo
tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso, e impotente a
sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas. Ma se con
ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più tardi si
vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro, lasciando perd sempre
una traccia nel concetto, che « il contratto costituisce legge per i contraenti
». (1) L'etimologia di lex a legendo nel senso di « leggere, suole appoggiarsi
al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66: leges, quae lectae et ad populum
latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui Varrone, non sempre felice
nelle sue etimologie, non ha punto l'intenzione di proporne una. Se quindi è
vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict. étym. latin, vº lego, che
il vocabolo di legere ebbe anche la antica significazione di raccogliere, di
scegliere, di riunire, parmi sia molto più acconcio di dare questa etimologia
al vocabolo di lex. Così si potrà anche compren dere la lex privata, la quale
certo non pud essere derivata da ciò, che i contratti fossero scritti; ma da
cid, che le volontà si accordavano e si riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict.
étym., vº lex. Un passo, in cui il vocabolo « legere » prende questa an tica e
larga significazione, è il seguente di Virgilio: Iura, magistratusque legunt,
sanctumque senatum. (Aen., I, v. 431). - 280 vece, che la sua efficacia
obbligatoria provenga direttamente dalla volontà divina, se questo può forse
ancora ammettersi per il vóuos de' Greci, più non può ritenersi vero per la lex
romana (1). Questa non potrà essere votata senza che prima si assumano gli
auspicii; ma intanto, fin dal periodo esclusivamente patrizio, essa è già
l'espres sione della volontà collettiva del popolo, come lo dimostra il fatto,
che assume la forma di una vera e propria stipulazione fra il ma gistrato che
propone (rogat), e il popolo che vota (iubet atque con stituit); come pure il
concorso nella formazione di essa di tutti gli organi della costituzione
politica di Roma, per cui essa, fin dagli esordii della città, deve essere
considerata come una « communis rei publicae sponsio ». Essa sarà ancora
riguardata come una volontà divina; ma il popolo già si attribuisce facoltà
d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta trattisi, non di cosa relativa al
culto, ma di provvedimenti, che riguardano l'interesse generale della comu
nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti classici: « lex est, quod
populus, senatorio magistratu rogante, iubet atque con stituit », può già
essere applicata alla legge, durante il periodo regio; salvo che in questa
definizione più non compare l'elemento della patrum auctoritas, che nella città
patrizia era ancor ritenuto indispensabile, e che era poi stato tolto di mezzo
dalla legge Ortensia. Vero è, che più tardi il patriziato cercò di dare
sopratutto prevalenza all'elemento religioso, che accompagnava la legge; ma ciò
accade unicamente, allorchè l'assemblea patrizia delle curie perdette ogni
importanza politica; poichè in allora la religione e gli auspicii diven tano
pressochè il solo titolo di superiorità del patriziato sopra la plebe, e fu
naturale che si cercasse di accrescerne la importanza. 230. Intanto questo
carattere, eminentemente contrattuale della legge, che corrisponde all'origine
federale della città, ed anche la necessità, secondo il concetto primitivo
delle genti patrizie, che, a formare la legge, dovessero concorrere tutti gli
organi dello Stato, servono a spiegare naturalmente certe singolarità del
diritto primitivo (1) V. in senso contrario il FUSTEL DE COULANGES, La cité
antique, liv. III, chap. XI, pag. 221 e segg., e fra i recentiilBourgeaud,
Leplébiscite dans l'antiquité, Paris, 1887, pag. 91 e segg. Quest'ultimo nega
il carattere contrattuale alla legge, anche per la considerazione, che essa non
potrebbe obbligare quelli, che non vi hanno consentito; ma egli è evidente, che
l'accordo in una pubblica votazione non può aversi, che dando prevalenza al
maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a verificarsi, allorchè la plebe entrò
a far parte della comunanza politica. Allora infatti venne ad essere necessità,
che il potere legislativo si portasse ai comizii centuriati, in quanto che
questi soltanto erano l'assemblea plenaria del populus romanus (comitiatus
maximus). Siccome però, accanto ai comizii centuriati, si manteneva pur sempre
l'assemblea curiata dei patres o dei patricii: così, per ubbidire al principio
che tutti gli organi politici dello Stato dovevano concorrere alla formazione
della legge, fu necessario che vi contribuisse eziandio l'assemblea dei patres;
donde la conseguenza, che la legge centuriata dovette dapprima essere proposta
dal magistrato, votata dal popolo, e poscia ancora approvata non solo dal
senato, ma anche dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la
distinzione della patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas,
ancorchè le due approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa,
perchè in questo periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del
patriziato; il che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono
facendo fra l'una e l'altra auctoritas, in un'epoca, in cui erano già scomparse
e l'una e l'altra (1). 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio
diventò assai più difficile, allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag
giungersi eziandio il plebiscitum, che costituiva in certo modo una lex
inauspicata. Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo, perchè è
l'opera soltanto di una parte di esso; e quindi, al pari dei concilia plebis,
in cui viene ad essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di
diritto. Intanto però la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di
essi cerca talora di forzare la mano al senato. In questa condizione di cose
viene ad essere nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare
nell'ordine legale tanto i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa,
allorchè trattisi di provvedimenti, che possano interessare tutto il populus,
quanto eziandio di riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi
scano le condizioni richieste per obbligare tutto il popolo. È in questa
occasione, che nella storia politica di Roma compa riscono successivamente tre
leggi ad epoca diversa, il cui contenuto, conservatoci dagli scrittori, sembra
essere identico (ut plebiscita (1) V. sopra capitolo II, § 3, n ° 198, pag. 240
e segg. e le note relative. 282 omnem populum tenerent); ma che intanto
sembrano indicare tre successivi stadii di una importantissima trasformazione.
La difficoltà di conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che
anche oggi suole essere considerata come una delle più gravi questioni, che
presenti la storia politica di Roma (1), pud, a parer mio, essere supe rata,
quando abbiasi presente il concetto della primitiva costituzione di Roma,
secondo cui qualsiasi vera legge suppone il concorso di tutti gli organi
politici dello Stato. 232. Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia, dell'anno
304 di Roma; la quale è la prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino
tutto il popolo (ut quod tributim plebs iussisset omnem populum te neret) (2 );
ma ancorchè la legge nol dica, questo è certo che, secondo il concetto
informatore della costituzione politica di Roma, ciò poteva solo accadere,
allorchè i provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe, avessero subite
tutte le prove, a cui erano sottoposte le stesse (1) Così si esprime il Soltau,
die Gültigkeit der Plebiscite, Berlin, 1888, pag. 107. La bibliografia sulla
questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris,
1887, pag. 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo
una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi
dere tale opinione, poichè vi fu un tempo, in cui la differenza fra plebiscito
e legge si ridusse unicamente alla persona diversa, che ne prendeva
l'iniziativa, secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato. Vero è
che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i
patrizii;ma il motivo, per cui i patrizii non si tenevano legati dai plebisciti
non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire ai comizii
tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi soste
nevano « plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta essent »,Gaio,
Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum auctoritas, i
plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i patrizii
poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge Ortensia
le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro equipollenti,
e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse, come nella lex
tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, pag. 51). (2) Secondo il Mommsen, è da questa
legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati, e quindi egli riterrebbe,
che nei termini conservatici da Livio, III, 55, come proprii della legge
Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di populus a quello ivi
adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim populus iussisset, omnem
populum teneret (Römische Forschungen, I, pag. 164-5 ). Non parmi, che questa
opinione possa essere accolta, sia perchè tutti i giuristi fanno partire il
pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge Ortensia, e non dalla legge
Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la denominazione di lex o di
plebiscitum non sembra più dipendere dalla composizione dei comizii, ma
piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati, il quale come dava il suo nome
alla legge, così poteva anche attribuirvi il carattere di lex o di plebiscitum:
tanto più che la sua efficacia veniva ad essere uguale. 283 - leggicenturiate.
Questa legge pertanto significo solamente, che anche i tribuni della plebe
potevano prendere l'iniziativa di un provvedi mento, che potesse obbligare
tutto il popolo; ma che il medesimo, per avere un tale effetto, doveva poi
essere approvato dal Senato, ed ottenere anche la patrum auctoritas, come lo
dimostrano gli sforzi, che in questo periodo si fanno dai tribuni per ottenere
l'ap provazione del senato a plebisciti, come quelli di Canuleio, di Icilio e
altri ancora. Quasi si direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a
cui ricorre appunto la plebe, quando non può ottenere dal senato l'approvazione
di un provvedimento da essa desiderato. Suc cede quindi una seconda legge, che
è la legge Publilia del 415 di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che
la patrum auctoritas doveva precedere le leggi centuriate, ripete in un altro
l'ingiunzione già fatta che « plebiscita omnes quirites tene rent (1). È però
evidente, che la portata di questa legge verrà ad essere diversa, perchè in
virtù di essa i plebisciti, al pari delle leggi centuriate, non dovevano più
essere susseguiti, ma preceduti dalla patrum auctoritas, che comprende
probabilmente anche la senatus auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo
periodo, in cui tutte le proposte di provvedimenti, per parte dei tribuni della
plebe, sogliono esser precedute da trattative ed accordi fra il senato e i
tribuni della plebe, per guisa che il senato si vale talvolta di questi per
ottenere, che essi prendano la iniziativa di una determinata proposta (2 ) 233.
Da ultimo infine apparve, che anche questa previa approva (1) È lo stesso
Livio, che ci conservò i termini di questa legge, VIII, 12. (2 ) Secondo il
WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I, l'espressione di patrum auctoritas sarebbe equipollente
a quella di senatus auctoritas. Tale opinione è divisa dal Bour GEAUD, op. cit.,
pag. 135, ed è combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit der Ple. biscite,
pag. 135, come pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua dissertazione:
Dell'auctoritas patrum nell'antica Roma (< Rivista di Filologia », Torino,
1884, pag. 350 a 395). Di fronte ad una quantità di passi di scrittori antichi,
citati da quest'ultimo, in cui si usano le espressioni di patricii auctores,
mentre altre volte si parla invece della senatus auctoritas, fra cui è notabile
il passo di Livio, III, 63, parmiche l'opinione del WILLEMS non possa essere
accolta. Ritengo tuttavia, che gli storici, mossi forse dall'identico
interesse, che potevano spingere le curie dei patrizii e il senato a fare
opposizione ad un provvedimento di iniziativa della plebe, possano talvolta
aver comprese le due cose col vocabolo alquanto incerto di patrum aucto ritas.
V. in proposito ciò, che si è detto nel capitolo precedente 83, n ° 198, pag.
240 e note relative. 284 zione dei padri, senza sempre riuscire nell'intento,
finiva per essere causa di dissidii e di secessioni. Fu quindi, in seguito ad
una di queste secessioni, che sulla proposta del dittatore Ortensio, uscito
dalla no biltà di origine plebea, sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della
città, che ripete pur sempre la stessa formola; ma intanto toglie di mezzo la
necessità della previa approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio,
l'effetto, che « inter plebiscita et legem species con stituendi interessent,
potestas autem eadem esset (1) ». Fu neces saria una secessione e ci volle un
dittatore per vincere questa legge; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio
avviso, non vi ha forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una
rivoluzione più ra dicale di questa. Con essa infatti l'antico concetto di lex,
quale era stato concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito; in
quanto che potrà esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti
gli organi politici dello Stato; poichè d'allora in poi anche un solo elemento,
la plebe, può dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo. Strappo
più grave non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia: ma tentasi
ancora di rimarginarlo nel senso, che fu da questo tempo probabilmente, che la
nobiltà plebea co minciò a penetrare nelle curie, e che il patriziato antico si
valse * della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri
buti, i quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono
anche essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della
plebe diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che
doveva essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si
adunavano in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù. Da questo
momento il senato trovossi (1) Che il pareggiamento fra la lex e il plebiscitum
parta veramente dalla legge Ortensia, la quale deve aver tolta dimezzo la
patrum auctoritas, risulta dai seguenti passi di scrittori e giureconsulti, che
erano meglio in caso di apprezzare il valore tecnico delle parole. Pomponio L.
2, 8, Dig. (1, 2 ), oltre l'espressione già riportata nel testo, scrive: « pro
legibus placuit et ea plebiscita observari », e aggiunge al $ 12: « plebiscitum,
quod sine auctoritate patrum est constitutum », con che accen nerebbe
all'abolizione della patrum auctoritas per i plebisciti. Così pure Gaio, Comm.,
I, 3: « lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem populum
tene rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin., Instit., I, 2: «
sed et plebi scita, lege Hortensia lata, non minus valere, quam leges,
coeperunt ». Lo stesso confermano Aulo Gellio, Noc. Att., X, 20 e XV, 27; come
pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15, 10. — Cfr. ORTOLAN, Histoire de la
législation romaine, pag. 161, n. 178 et suiv. e il Madvig, L'État romain,
trad. Morel, Paris, 1882, I, pag. 260. 285 costretto ad invitare frequentemente
i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure amministrative alla
plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e quindi il tribunato viene
a for mare l'elemento riformatore, ed attivo nell'organizzazione dello Stato.
Che anzi i comizii tributi possono anche essere presieduti da magi strati
patrizii, trattandosi di leges praetoriae, o di elezioni dimagi strati minori.
Accanto ai medesimi, si mantengono perd ancora i concilia plebis: ma si
limitano a provvedimenti, che riguardano la sola plebe, e alla nomina di
magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto però eravi sempre l'organo
politico più potente in questo periodo, che era il senato, il quale veniva ad
essere lasciato in disparte nella formazione della legge, in quanto che non era
più richiesta la sua approvazione. È in allora che il senato, non avendo più in
questo argomento una parte proporzionata alla effettiva sua influenza, non potendo
sempre bastargli di far dichiarare gli au spicia vitiata e di rifiutare
l'esecuzione dichiarando « ea lege non videri populum teneri » viene ad essere
condotto a forzare la propria funzione consultiva. È quindi da quell'epoca, che
cominciano a compa rire dei senatusconsulti con autorità di leggi (1 ). Indarno
i seguaci del partito popolare protestano contro questa violazione della logica
inerente all'istituzione del senato, poichè questo ha influenza suffi ciente
per far valere la propria pretesa. Si capisce quindi come più tardi i
giureconsulti finiscano per esclamare « non ambigitur senatum ius facere posse
»; indicando così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente
esistito (2 ). Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione
non si fanno impunemente: cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei
magistrati e sopratutto quelli del pretore,avendo l'appoggio dalla pubblica
opinione, finiscono ancor essi per costituire un ius non scriptum, che viene
poi a conver tirsi in un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A
questo punto lo Stato romano è ormai un organismo troppo (1) Cfr. Madvig,
L'État romain, I, 260; WILLEMS, Le Sénat, II, chap. III. Però è sopratutto il
PUCATA, che hamesso in evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge
Ortensia (Cursus der Institutionen). Solo mi pare di dover ag giungere, che la
rivoluzione stessa sta nell'aver cambiato il primitivo concetto di lex, e di
aver così iniziato l'esercizio di una specie di potere legislativo per parte
dei singoli organi politici dello Stato. (2 ) ULP., L. 8, Dig. (1, 3 ). 286
grande, perché possa mantenersi ancora il rigoroso principio del l'antica
costituzione patrizia, che a formare le leggi debbono con correre tutti gli
elementi costitutivi dello Stato; conviene di ne cessità lasciare, che ciascuno
di questi elementi possa dal suo canto prendere l'iniziativa. È per questo
motivo, che i comizii tributi di ventano la sorgente legislativa più copiosa,
durante gli ultimi secoli della repubblica, e che i pretori, di magistrati
preposti all'ammini strazione della giustizia, si mutano in certo modo in
legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che più tardi anche i
giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che avranno autorità di
leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi fattori con tinuano
pur sempre a procedere sulle traccie antiche; così l'edificio non solo potrà
mantenersi saldo, ma per qualche tempo si innal zerà tanto più rapido e
grandioso, quanti più sono gli artefici, che cooperano alla costruzione. Sarà
invece quando mancherà il senso del pubblico bene, e quando scomparirà la
distinzione antica fra l'interesse pubblico e il privato, che, per salvare un
edifizio, il quale tende a scompaginarsi, sarà necessario di rimettere ogni
cosa nelle mani di un solo, la cui volontà, in base ad una apparente investi
tura del popolo, legis habet vigorem (1). Questo sguardo allo svolgimento
storico del concetto di legge, pro lungato oltre i confini, che misarebbero
prefissi, deve essermi per donato; perchè era soltanto sorprendendo il concetto
alle origini, che poteva comprendersene l'incerto ed irregolare sviluppo, come
lo dimostrano le divergenze di opinioni, che ancora oggi dominano l'ar gomento.
(1) Ulp., L. 1, Dig. (1, 4 ) « Quod principi placuit, legis habet vigorem;
utpote quum lege regia, quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum
omne suum imperium ac potestatem conferat ». Per tal modo la lex, che era un
tempo il frutto dell'accordo di tutti gli organi politici, diventa ormai
l'opera di un solo; ma intanto si mantiene sempre il concetto, che la sorgente
di ogni potere sia il popolo; altra conferma dell'opinione, fin qui sostenuta,
relativamente alla populi potestas. Questo svolgimento storico della legge in
Roma sembra essere compendiato da POMPONIO, allorchè, dopo aver discorso delle
lotte fra la plebe, il patriziato ed il senato, con chiude dicendo: « Ita in
civitate nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius
civile, quod sine scripto in sola prudentum interpretatione consistit; aut sunt
legis actiones, quae continent formam agendi; aut plebiscitum, quod sine
auctoritate patrum est constitutum; aut est magistratuum edictum, unde ius hono
rarium nascitur; aut senatus consultum, quod solum senatu constituente
inducitur sine lege; aut est principalis constitutio, id est, ut quod ipse
princeps constituit, pro lege servetur », L. 2, 12, Dig. (1, 2). 287 $ 3.-
L'elezione del rex, l'interregnum, e la lex curiata de imperio. 235. Per quello
che si riferisce al magistrato supremo del popolo romano, il concetto, a cui si
informa la primitiva costituzione pa trizia, consiste nel ritenere che, come è
immortale il popolo, cosi non debbano mai essere interrotti nè gli auspicia, nè
l'imperium, indispensabili entrambi per la prosperità della repubblica. È
questo concetto, che spiega, come, morto il re, auspicia ad patres re deant; è
questo parimenti, che condurrà più tardi a fissare il co stume per cui i magistrati
annui succeduti al re, debbono, prima di uscire di ufficio e finchè ritengono
ancora gli auspicia, proporre il proprio successore; è questo infine, che può
somministrare il mezzo per comprendere quella singolare istituzione
dell'interregnum, non che la procedura solenne per l'elezione del re, che,
introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano ancora col medesimo nome e
colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè i re sono aboliti, e che
in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di tante e cosi erudite
elucubrazioni. 236. Un recente autore, il Bouchè Leclercq, ebbe a scorgere nel
l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re, « un capo lavoro di
casuistica, in cui appare lo spirito sottile e formalista degli antichi romani
» (1). Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano una creazione
architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero dato prova
del loro acume teologico e giuridico. Parmi invece assai più semplice e più
verosimile il ri tenere, che i romani, in questo, come in altri casi, non si
compiac ciano nella creazione di formalità, come tali, ma intendano piuttosto a
conservare le tradizioni del passato. Le formalità infatti, che accompagnano
l'interregno e la elezione del re, non dimostrano l'investitura divina del re,
come alcuni vorrebbero: ma provano sol tanto, che i romani avevano altissimo il
concetto della continuità ideale dello Stato, alla guisa stessa, che prima
avevano avuto quello della perennità della famiglia e della gente. Esse provano
parimenti, (1) Bouché-LECLERCQ, Manuel des institutions romaines, Paris, 1886,
pag. 15. 288 che, secondo il concetto primitivo della costituzione romana, al
l'elezione del magistrato, per trattarsi dell'atto forse più importante per la
comunanza, dovevano prendere parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato.
Ciò stante, anche in quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale,
che abbiamo trovato nella legge, in quanto che il re, già nominato e
consacrato, deve ancora sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de
imperio, e solo dopo la medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come
capo civile e militare della comunanza. Infine queste formalità possono anche
considerarsi come un indizio, che in un anteriore periodo di orga nizzazione
sociale gli auspicia risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano
ritornare, allorchè il re veniva a mancare. 237. Per conchiudere, questa
istituzione dell' interregnum, ar gomento di tante discussioni, deve essere
considerata anche essa come un naturale processo, che dovette spontaneamente
formarsi in una comunanza primitiva, uscita allora dal seno dell'organizzazione
gentilizia: processo, che è perd rivestito di quel carattere religioso e
solenne, che i romani attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli,
che riguardavano il pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere
gentilizio, formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e
memore delle tradizioni del passato, era na turale, che, mancando il capo
comune, il suo potere religioso, civile e militare dovesse passare al padre più
anziano della più antica decuria del senato, e da questa trasmettersi successivamente
ai principes delle altre decurie, che venivano dopo, in base all'an zianità,
accið non venisse ad essere offeso il senso geloso, che i capi di famiglia
avevano della propria uguaglianza, e non potesse neppur nascere il timore, che
uno di essi « regni occupandi consilium iniret ». Era naturale parimenti, che
la proposta del successore dovesse partire da uno dei padri, ed anzi dal più
anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo all'indole di questa comunanza,
che la sua proposta potesse essere anche comunicata agli altri padri, e che
fosse anche sentito in famigliari concioni l'avviso del popolo, ancora composto
esclusivamente di membri delle genti patrizie. Maturata così la proposta, è
l'interrè, che deve farla; le curie, che debbono approvarla; la presa degli
auspicii, che deve inaugurarla; e infine fra l'eletto e la comunanza deve
intervenire quella specie di con venzione e di accordo, che avverasi mediante
la lex curiata de imperio; la quale, sotto un aspetto, costituisce
l'investitura del ma 289 gistrato per parte del popolo, e dall'altro vincola
quest'ultimo alla obbedienza verso di quello. Infine questo processo naturale
di cose viene come al solito gittato e fuso in certe forme solenni, che si
trasmettono ad epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi, che le fecero adottare;
cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata in modo casuistico e
sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la naturale conseguenza
del modo di pensare e di agire di coloro, che concorrevano alla formazione di
essa. 238. Ad ogni modo il caso, di cui ci fu serbata memoria parti
colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità questa pro cedura
solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi si presenta ancora
con un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra gli dei
col nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai capi delle
decurie del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque giorni le
insegne (decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et lictoribus erat). I
padri, che non parevano troppo soddisfatti del regis imperium, agitano il
partito se non fosse il caso di non più nominare il re: ma di lasciare, che il
potere si venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa essere re per tutta
la vita. Il partito non prevale fra il popolo, il quale non ama di avere cento
capi, a vece di un solo, e quindi a re si sceglie Numa di stirpe sabina. È
l'interrè, che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo che è chiamato a
crearlo, mentre sono i padri, che approvano l'elezione (quirites, regem create:
deinde, si dignum crearitis, patres auctores fient). Segue poscia l'inauguratio,
che è descritta in modo particolare da Livio; e viene ultima la proposta della
lex curiata de imperio, la quale, non ri cordata da Livio, è invece ricordata e
ripetuta da Cicerone ad ogni elezione di re, quasi ad indicare l'importanza,
che la medesima doveva avere. Ci attesta poi Livio, che questta procedura, che
egli descrive come introdotta per quel caso determinato, ma che Dionisio
farebbe già rimontare allo stesso Romolo, non è stata abbandonata più tardi: «
hodieque in legibus magistratibusque rogandis usurpatur idem ius, vi adempta »,
cioè esclusa la violenza, a cui dovette dal popolo ricorrersi in quel caso,
accid i patres procedessero alla proposta del nuovo re (1) (1) Livio, I, XVII;
Cic. De Rep., II, 13, 17, 18, 20; Dion., II, 57; PLUTARCO, Numa, 2. Di fronte a
queste testimonianze concordi, non può esservi dubbio, che du G. Carle, Le
origini del diritto di Roma. 19 290 239. Il concetto informatore dell'elezione
del magistrato non po trebbe qui essere più chiaro; essa deve essere l'opera di
tutti gli organi dello Stato, ed assume un carattere pressochè contrattuale fra
magistrato e popolo, al pari di qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il
concetto si mantiene, poichè anche con magistrati annui la con tinuità degli
auspicia e dell'imperium non deve essere interrotta; quindi è l'antecessore,
che è chiamato a proporre il successore, e se egli per qualche motivo non possa
farlo, si ricorre alla nomina di un interré, anche quando i re già sono
aboliti. Tuttavia, anche in questa parte, l'accoglimento della plebe nel
populus delle classi e delle centurie produce una modificazione nella primitiva
costituzione; modificazione, che in questi tempi diede argomento a gravissime
discussioni, e che, in coerenza alle cose sovra esposte, pud a mio avviso
essere spiegata nel modo seguente. Non può esservi dubbio che, durante il
periodo regio, l'interres era uno dei patres del senato, ai quali redibant
auspicia. Colla repubblica invece, al modo stesso che nel populus delle classi
e delle centurie fu compresa anche la plebe, così anche il senato venne ad
essere non più composto esclusivamente di patrizii, ma anche di nobili plebei;
del che alcuni scorgono un indizio nella de nominazione data ai senatori di
patres et conscripti. Comunque stia la cosa, questo è certo, che il senato,
divenuto patrizio -plebeo, non poteva più rappresentare gli antichi patres o
patricii, che erano stati i fondatori della città, e ai quali redibant auspicia.
Erano le curiae invece, le quali continuarono ancora per lungo tempo ad essere
esclusivamente patrizie, e di cui potevano fare parte anche i senatori di
origine patrizia, che di fronte al rimanente del popolo rappresentavano
l'antico ordine dei patres o dei patricii, e alle quali perciò dovevano
ritornare gli auspicia. Di qui la conseguenza, che furono i patricii, o in
altri termini le curiae, a cui venne a devolversi la proposta dell'interrex,
come lo dimostrano le espres sioni « patricii coeunt ad interregem prodendum »,
« patricii rante il periodo regio l'interrea era tolto, secondo certe regole
tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso senato partiva la patrum
auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio, ancorchè solo ricordata
da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta, manca ogni motivo di
ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è accennato, nº 199,
pag. 244, in nota, consentire col Karlowa, Röm. R.G., pag. 52 e 82 e segg., il
quale ritiene che la lex curiata de imperio sia entrata in azione soltanto
colla costituzione di Servio Tullio. 291 interregem produnt» e simili, e ciò
perchè l'interrex, facendo in certa guisa ancora rivivere la figura del rex
primitivo, ed essendo depositario e custode degli auspicia, durante il periodo
della va canza del magistrato, non poteva esser nominato che da patrizii e fra
i patrizii, come espressamente ci attesta Cicerone allorchè af ferma: « cum
interrex nullus sit, quod et ipsum patricium et a patriciis prodi necesse est »
(1). Come sia accaduto questo cambiamento, se cioè per legge o per il logico
sviluppo delle isti tuzioni, il che è più probabile, non si può affermare con
certezza; ma certo dovette essere questo il processo logico, che governo tale
modificazione. In questo modo infatti si vengono a rannodare insieme tre
istituzioni, che furono argomento di lunghe discussioni, e di cui tutti
riconoscono la strettissima attinenza, che sono la patru patriciorum auctoritas
per le leggi, la lex curiata de imperio per la elezione dei magistrati, e la
proposta dell'interrex, accið l'im perium e gli auspicia non siano interrotti,
durante la vacanza del magistrato. Tutte queste istituzioni non sono che
conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio, che « auspicia penes patres
sunt»; dal qual concetto conseguiva, che nè una legge, nè un magistrato, nè un
interrex potevano ritenersi bene auspicati per lo Stato, senza l'intervento
dell'ordine patrizio, il quale, di fronte al nuovo popolo, corrispondeva ai
patres del periodo regio. In questo senso viene ad essere spiegato quanto ci
afferma Cicerone che « curiata comitia, tantum auspiciorum causa, remanserunt »,
come pure si com prende, che col tempo i medesimi si siano ridotti ad una
imitazione od adombramento dell'antico per mezzo dei trenta littori, che rap
presentavano le trenta curie (ad speciem atque ad usurpationem vetustatis per
XXX lictores) (2 ). Intanto però, anche coll' introduzione dei comizii
centuriati, la nomina dei veri magistrati cum imperio continua ancora sempre ad
essere l'opera di tutti gli organi politici dello Stato, in quanto che vi ha
sempre il magistrato o interrè, che lo propone (rogat); il popolo delle classi
o centurie, che lo elegge (creat); il senato, che continua a dare la propria
auctoritas alla elezione (auctor fit); e da ultimo l'assemblea delle curie, che
lo investe degli auspicia e dell'imperium mediante la lex curiata de imperio,
per modo (1 ) CICERO, Pro domo sua, 14. (2) CICERO, De lege agraria, II, 11, 27
e 28. 292 che il magistrato non può entrare in ufficio, e compiere sopratutto
atti di carattere militare, prima di aver ottenuta la legge stessa (1). 240. Se
non che anchequi lo svolgimento armonico e coerente della primitiva
costituzione romana comincia a dar luogo ad un dualismo, allorehè compariscono
i magistrati plebei, e sopratutto il tribunato della plebe, il quale, pur
essendo la magistratura urbana più operosa del periodo repubblicano, non riesce
però mai ad inquadrarsi per fettamente nella costituzione politica di Roma.
Dapprima infatti i tribuni della plebe non sono ancora veri magistrati, ma
piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud neppure affermare con certezza
dove fossero nominati, in quanto che gli storici parlano di una no mina fatta
dalla plebe per curie, di cui non si comprende il signifi (1) Ho cercato qui di
riunire e di risolvere, mediante i concetti informatori della primitiva
costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in essa si vennero operando,
alcune questioni, che furono oggetto di gravi e lunghe discussioni. La patrum
au ctoritas, la lex curiata de imperio, la proposta dell'interrex furono
spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del Niebhur, seguìta anche dal Becker,
Röm. Alterth., vol. II, pag. 314-332, che pareggia fra di loro la patrum
auctoritas e la lex curiata de imperio, e quindiattribuisce l'una e l'altra
alle curie fin dal periodo regio; vi ha quella del WILLEMS, Le droit public
romain, pag. 208 a 212, che invece attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas
la significazione costante di senatus auctoritas, affi dando al senato anche la
proposta dell' interrex; sonvi il Rubino, e fra i recenti il Karlowa, Röm.
R.G., I, p. 44 e seg., i quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di
patricii interregem produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad
essi così la patrum auctoritas, come la proposta dell'interrex. Vi banno infine
quelli, i quali sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire
qualche modi ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei
magistrati dal popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie,
e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora tutte le funzioni,
che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità passare alle curie,
che erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e
delle centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo; poichè in allora
tutte le funzioni, che si rannodavano agli auspicia, dovettero di necessità
passare alle curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è
l'opinione sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum
nell'antica Romu (Rivista di Filologia, Torino, 1884, pag. 297 a 395). Se
guendo un processo diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella
soste nuta dal Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico
concetto i varii aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che
tanto il pareggiamento della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio
(BECKER), quanto quello della patrum auctoritas e della senatus auctoritas
(WILLEMS), quanto infine il con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo,
che darebbe l'auctoritas e proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto
sostenute con ingegno e con erudizione, siano in contrasto coi passi degli
antichiautori, e collo svolgimento storico della costituzione romana. 293 cato
(1 ). Più tardi nel 283 U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la
plebe possa nominare i suoi tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono
ad essere legalmente riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un
magistrato esclusivamente patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii
delle curie, che è l'interrex; così vengono ad esservi deimagistrati,
esclusivamente plebei, quali sono appunto i tribuni e gli edili della plebe,
che debbono esser sempre nominati nei concilia plebis. Per quello poi, che si
rife risce ai magistrati veri del popolo romano, e comuni ai due ordini, si
viene ad operare una specie di divisione del potere elettorale fra i comizii
centuriati, che continuano sempre a nominare i magi strati maggiori, ei comizii
tributi, che finiscono per attirare a sè la nomina dei magistrati minori; di
quei magistrati cioè, che un tempo erano nominati direttamente dal magistrato
maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si
confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del
l'opposizione, che un tempo esisteva fra patriziato e plebe (2 ). Infine è
ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i romani seguirono
nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati
di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano
pro-magistrati nelle pro vincie. Per noi la cosa può sembrare singolare: ma pei
romani era un processo regolare e costante, in quanto che essi, al modo stesso
che avevano prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate nella
città, così presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle provincie,
prorogandone l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri magistrati
dovevano essere quelli di (1) È Dionisio, IX, 41, il quale dice, che i tribuni
furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non si riesce a comprendere
come i difensori della plebe potes sero essere eletti coll'intervento del
patriziato; salvo che con ciò si voglia dire, che la plebe, per la nomina dei
suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso, ove si riunivano le
curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima importanza in quanto che è
con essa, che incomincia il riconoscimento legale dei concilia plebis. Cfr.
Bonghi, Storia di Roma, pag. 593 e segg. Non parmi tuttavia, che si possa far
rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia tributa, poichè i tribuni della
plebe, anche più tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. (2) Questa
è una prova, che in questo periodo della costituzione politica di Roma i veri
comizii del popolo romano erano i comiziï centuriati e i comizii tributi;
mentre i comizii curiati erano solo più conservati auspiciorum causa, ed i
concilia plebis per provvedimenti di interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma
(1 ). Veniamo ora all'esercizio del potere giudiziario nel periodo regio. § 4.
– L'amministrazione della giustizia, la distinzione fra ius e iudicium, e la
provocatio ad populum nel periodo regio. 241. Per quello che si attiene
all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione
fondamentale, intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella
che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale,
apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il
senato ed il popolo. Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo
si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e
la criminale, sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti,
come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio, e
delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores
parricidii e duumviri perduellionis ) (2). Senza pretendere di volere risolvere
le gravissime questioni, che si agitano in proposito, mi limito unicamente ad
osservare, che anche in questa parte la costituzione primitiva di Roma contiene
il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a determinare lo
svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste isti tuzioni
primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio, sono: la
potestà di giudicare, che appartiene al re; la distin zione fra il ius e il
iudicium, per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già compariscono i
iudices, gli arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i duumviri, ed i
quaestores in materia crimi nale; e da ultimo l'istituto della provocatio, che
col tempo sarà quello, che finirà per trasportare la giurisdizione penale dal
magi strato ai comizii. Questi istituti sono in certo modo altrettanti abbozzi,
che svolgendosi a poco a poco finiranno per determinare l'evoluzione del potere
giudiziario, durante il periodo repubblicano. 242. Che la potestà del ius
dicere sia compresa nella concezione (1) Non occorre di notare, che qui si
parla dei pro-magistrati, che dopo essere stati consoli o pretori in Roma, diventavano
proconsoli o propretori nelle provincie. Cfr. in proposito MOMMSEN, Le droit
public romain, I, pag. 11 e segg. (2 ) Cfr. Muirhead, Histor. introd., Sect. 15,
pag. 59. 295 - sintetica del regis imperium, sebbene non esista ancora la sepa
razione recisa fra la iurisdictio e l'imperium, è cosa a parer mio chenon può
essere posta in dubbio. Non può quindi essere accolta l'opinione del Maynz, che
quasi vorrebbe fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione criminale al
popolo (1 ). Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un concetto, che
sembra essere general mente adottato, secondo cui si vorrebbe in certo modo
riconoscere nel re il potere di giudicare di qualsiasi controversia e di
qualsiasi misfatto. Questo concetto ripugna col processo seguito nella forma
zione della città, e dell'imperium regis. Almodo stesso, che la ci vitas non
assorbi tutta la vita delle genti e delle famiglie, ma è dovuta ad una specie
di selezione, che si viene operando di quelle funzioni civili, politiche e
militari, che prima erano esercitate dalle singole comunanze patriarcali; così
anche il potere regio venne for mandosi, mediante lente e graduate sottrazioni,
che si vennero ope rando da quei poteri, che prima appartenevano ai capi di
famiglia e delle genti. Di qui la conseguenza, che negli esordii dovette per
lungo tempo mantenersi vigorosa, accanto al potere del re, la giu risdizione
propria dei capi di famiglia e delle genti, e che per lungo tempo ancora i capi
di famiglia curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e continuarono
ad essere i vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta nelle
famiglie; come lo dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene narrato
da Livio. Tut tavia in questa progressiva formazione del potere del magistrato
fu la stessa realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e po litica,
che somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla. Questo
concetto consiste in cid, che il re primitivo non si impone ai membri delle
genti e delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi, in quanto sono quiriti,
cioè in quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica. Quindi il
re dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il vindice delle
offese tutte, che possono patire i membri di esse; ma è il custos urbis, ed è
incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges publicae,
che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e politica, a cui
addivennero le varie comunanze. Nel resto continuano ad essere competenti i
singoli padri e capi di famiglia, V. Maynz, Introd. au cours de droit romain,
n. 20, pag. 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione criminale la
sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti gli altri
sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali, secondo il
concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del sodalizio, come
lo dimostra, fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui sacerdozii, che
da esso dipendono (1 ). Sarà quindi solo più tardi, ed a misura che nella
cerchia delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni private, che
la giu risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e si potrà esten
dere anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti domestiche e da
persone dipendenti dall'autorità del capo di famiglia, potranno tuttavia
produrre una pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere speciale della
giurisdizione, spettante al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una prova
eloquente in quella distinzione fondamentale per l'antica amministrazione della
giustizia, così civile come penale, fra il ius ed il iudicium. Sono note le
discussioni, che seguirono in proposito, e non mancarono anche coloro, che
attribuirono la divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei
romani avrebbe tentato di fare, fin d'allora, fra il diritto ed il fatto:
cosicchè il magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto, mentre il
giudice avrebbe poi applicato il diritto al fatto. Una simile distinzione non
si cercò mai dai Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur
ius;ma furono invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi
formando la città, che condussero naturalmente a questa distinzione. Pongasi
infatti un centro di vita pubblica, che stia formandosi fra varie comunanze
patriarcali. L'effetto, che dovrà risultare da questo stato di cose, sarà
quello di produrre, fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere ai
capi delle famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico, che
appartenga al capo ed al (1) Cfr. Maynz, op. cit., n. 20, pag. 60, e MOMMSEN,
Le droit public romain, I, pag. 187: « Magistri (scrive Festo, po magisterare),
non solum doctores artium, sed etiam pagoram, societatum, vicorum, collegiorum,
equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes, pag. 341). È da vedersi
a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I, Capo V, n ° 88, pag. 109
e nota relativa. (2 ) Fra gli autori, che in questa distinzione videro in certo
modo una separazione fra il diritto ed il fatto havvi il Bonjean, Traité des
actions chez les Romains, Paris, 1845, vol. I, § 29. Cfr. Carle, De
exceptionibus in iure romano, 1873, pag. 11. Di tale distinzione tratta il
BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa, 1866, I, $ 5. 297
custode della città. Di qui la conseguenza, che la questione pre liminare, che
questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta gli sia sottoposta
un'accusa od una controversia, consisterà nel decidere, se il fatto, del quale
si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati alla giurisdizione
domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di carattere pubblico, che a
lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto, del quale si tratta,
siavi qualche lex pu blica, che debba essere applicata. Se quindi, ad esempio,
l'Ora zio avrà uccisa la sorella, e sarà trascinato innanzi al re in ius, la
questione, che questi è chiamato a decidere, sta in vedere, se il fatto in
questione debba essere lasciato alla giurisdizione del padre, che afferma che
la sua figlia è stata iure caesam, o se trattisi invece di tal fatto, alla cui
repressione provveda una lex publica. Ed è questa appunto la questione, che
risolve Tullo Ostilio, il quale, secondo Livio: « concilio populi advocato:
duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem iudicent, secundum legem fació » (1).
Che se in vece di un misfatto si fosse trattato di una controversia di
carattere civile, la questione a risolversi sarà pur sempre quella di vedere,
se trattisi di un caso contemplato da una legge pubblica, e se perciò si dovrà
accordare diritto di agire secondo la legge. Solo allora il magistrato gli dirà
di agire secundum legem publicam: oppure più tardi, allorchè vi sarà una
speciale magistratura per l'amministrazione della giustizia, questa pubblicherà
nel proprio editto quali siano i casi particolari, in cui actionem dabit. Non è
perciò da ammettersi il concetto per tanto tempo ricevuto, che, secondo il
diritto civile romano, vi fossero dei diritti, che erano senz'azione; ma
soltanto si deve dire, che il diritto in Roma si venne lentamente e
gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato di esaminare e di risolvere
la questione, se in quel caso determinato dovesse, o non, essere accordata
l'azione. Spettava quindi al magistrato (in iure) di decidere in ogni caso
particolare, se il caso stesso fosse stato tale da richiedere, in base alle
leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere: ma, una volta decisa
affermativamente una tale questione, il magistrato aveva compiuto (1 ) Liv., I,
26. Dalle espressioni, che Livio attribuisce a Tullo Ostilio, si ricava, che la
questione, che egli si propose di risolvere, consisteva nel decidere, se vi era
una legge, e quale fosse la legge, che colpiva il delitto del quale si
trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituzionale di Roma, I, pag. 317.
298 il proprio ufficio, e quindi poteva rimettere il giudizio o ai quae stores
parricidii, o ai duumviri perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale, od
anche ad un iudex e perfino ai recuperatores, se trattavasi di una controversia
civile, intorno a cui le parti non si fossero poste d'accordo innanzi al
magistrato. Questo è certo, che già nel periodo regio vi furono queste varie
maniere di giudici; ed è anzi probabile, che già esistessero i iudices selecti,
il cui albo do veva probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori;
come lo dimostra la testimonianza di Dionisio, ed anche il fatto, che fu così
anche dopo, e che in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio,
che i padri fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti,
che quando trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da
un consilium; come ap pare dal fatto, che, secondo Livio, a Tarquinio il
Superbo fu mossa l'accusa che « cognitiones capitalium rerum sine consiliis per
se ipsum exercebat ». Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto
dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo
del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza
patriarcale giustizia (1). Per quello poi, che si riferisce all'intervento
dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile, sembra che
il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana, alla quale
puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale dei
centumuiri, come si vedrà a suo tempo. 244. Intanto è sempre dal modo, in cui
la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella vita
pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura, che
dovette essere seguita negli esordiidella città, così nei giudizii civili come
nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza, che deve essere
amministrata giustizia, come lo dimostra il fatto, che una delle ac cuse, mossa
contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto meno al
tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della propria casa
(2 ). Così pure si comprende come questa (1) Il testo è citato da Livio, I, 49.
Abbiamo poi Dionisio, II, 14, che dice parlando del re: « de gravioribus
delictis ipse cognosceret; leviora senatoribus committeret; donde si può
inferire, che anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti ca
pitali, ricavarsi dal senato. Cfr. Karlowa, Röm. R. G., pag. 54. (2 ) Liv., I,
49. 299 procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di una
assoluta parità di condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi
tare, cosi nei giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di
certame, che un tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un
misfatto, sarà il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso
le prove, sovra cui si appoggia la propria accusa, e se si tratterà invece
diazione civile, sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od
anche quella della iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già
si era formata nella stessa tribù patriarcale: mentre un tempo essa era il modo
di pro cedere del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno della
tribù, venne poi ad essere trapiantata nella città, unitamente alle formalità,
che ricordano l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad usarsi dal
quirite contro ' il quirite (1 ). La seconda poi, ossia la iudicis postulatio,
fu l'effetto necessario di quella separazione del ius dal iudicium, che, come
si è dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una
giurisdizione pubblica, accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e
patriarcale, in quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione
se in quel caso dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem
publicam, conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o un
arbiter per la risoluzione della controversia; donde l'antica de nominazione
della iudicis arbitrive postulatio (2 ). Questa conget tura ha la sua base in
ciò, che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due maniere di
procedura, senza che si possa deter minare, quando le medesime siano state
introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra capi di
famiglia, pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i cittadini di una
medesima città, hanno già cessato di essere semplici actiones, e sono diventate
legis actiones, in quanto che sono altrettanti modi riconosciuti dalla legge
pubblica per far valere in giudizio le proprie ragioni. 245. Soltanto più ci
resta a discorrere di una istituzione, che era (1) Quanto all'origine
gentilizia e alla naturale formazione dell'actio sacramento vedasi sopra lib.
I, n. 104. (2 ) La iudicis arbitrive postulatio è ricordata da Gaio, come una
delle più antiche legis actiones, Comm. IV, § 12, sebbene poi il manoscritto di
Verona sia stato il. leggibile nella parte, che vi si riferisce. V. quanto alla
medesima il Murhead, Hist. introd., Sect. 35, pag. 197, e il BuonamiCI, Storia
della procedura civile romana. I, Cap. VII, pag. 43 a 57. 300 poi chiamata a
ricevere una larga applicazione, durante il periodo repubblicano, e che è
indicata colla denominazione di provocatio ad populum. Si dubita dagli
scrittori, se questa istituzione già potesse esistere fin dal periodo regio, ed
alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo periodo le funzioni del
popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il re credeva di dovergli
affidare. Per parte nostra, di fronte alla testimonianza di Cicerone, che,
augure egli stesso, ebbe a dire, che della provocatio ad populum parlavano i
libri pontificii e gli augurali, il dubbio non dovrebbe più presentarsi (1 ).
Quanto alle considerazioni desunte dagli stretti confini della populi potestas,
durante il periodo regio, ed anche dalla narrazione di Livio, che nel caso
dell'Orazio parla di una provocatio ad populum, accordata da Tullo « clemente
legis interprete », parmi che esse non possano condurre ad escludere un diritto
di provocatio ad populum, che in effetto sarebbe stato invocato e fu fatto
valere dallo stesso Orazio. Pud darsi, che in quel caso particolare potessero
esservi dei motivi per dubitare, se dovesse o non essere ammessa. Ma se
l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base ad una consuetudine, le cui origini
dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore. Si aggiunge, come appare dalle cose
premesse, che la costituzione primitiva di Roma dovette essere più liberale
negli inizii, quando vi era un populus, tutto composto di padri uguali fra di
loro e consapevoli del proprio diritto, che non posteriormente, allorchè il
populus cominciò ad essere composto di due classi disuguali fra di loro, cioè
del patriziato, che era il populus primitivo, e della plebe; di una classe
dirigente e di una classe, che trovavasi in posizione inferiore. In base ad una
tale costituzione primitiva, secondo cui la populi potestas era la sorgente di
tutti i pubblici poteri ed anche del regis imperium, veniva ad essere naturale
e logico, che se il ius dicere apparteneva al re, il con dannato dovesse poter
ricorrere in appello al potere supremo che era il popolo, mediante la
provocatio. Per verità di questo diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex
horrendi criminis, i cui termini ci furono conservati da Livio « duumviri
perduellionem iudicent: si a duumviris provocarit, provocatione certato ». Era
poi naturale, che questa provocatio, al pari dell'azione e del giudizio,
venisse a canıbiarsi in quella specie di certame o di combattimento (1) Cic.,
De Rep., II, 35: « Provocationem etiam a regibus fuisse, declarant pon tificii
libri, significant nostri etiam augurales », 301 legale, che viene appunto ad
essere descritto da Livio, a proposito del giudizio dell'Orazio, in quanto che
ogni procedura patriarcale prende naturalmente questo carattere. I duumviri,
che avevano pronunziata la condanna, dovevano essi sostenere l'accusa davanti
all'assemblea del populus. Eravi cosi una specie di certamen fra essi e
l'accusato, che simboleggiava quel combattimento vivo e reale, che un tempo
aveva dovuto effettivamente seguire. Che anzi, già fin d'al lora, il populus,
trattandosi di reato di carattere politico, quale era la perduellio, poteva anche
passare sopra alla questione puramente giuridica, per giudicare invece ex animi
sententia, e assolvere, come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio,
«admirationemagis virtutis, quam iure causae » (1). Vero è, che posteriormente
nel primo anno della repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de
provocatione, che riconobbe solennemente al popolo questo suo diritto, il quale
fu anzi conside rato come il palladio della libertà del cittadino romano
(unicum praesidium libertatis); ma allora le circostanze erano cambiate, perchè
il populus non comprendeva solo più i patres e i patricii, ma anche la plebs, e
quindi volevasi una legge, che accomunasse e consacrasse una istituzione, forse
solo consuetudinaria, a tutto il nuovo populus quiritium, comprendendo in esso
anche la plebe (2). 246. Intanto è evidente la influenza, che questa
istituzione della provocatio ad populum, solennemente consacrata, doveva
esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale, in quanto che
essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal pronunziare
una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e trasportare cosi in
definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al popolo. Tuttavia anche
qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere per qualche tempo
interrotto, allorchè i tribuni della plebe presero a portare accuse contro i
patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di ufficio davanti ai
concilia plebis. Fu (1) Liv., I, 26. (2) Non potrei quindi ammettere l'opinione
del KarlowA, Röm. R. G., pag. 53 e segg., il quale, argomentando da ciò, che le
leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta la provocatio ad populum, vorrebbe
inferirne, che questa sotto i re non esistesse che per la perduellio. CICERONE
parla di provocatio in genere, e quindi non vi ha motivo di restringerla, ma
vuolsi ammetterla in genere per i reati a quella epoca puniti di pena capitale,
cioè tanto per la perduellio, quanto per il parricidium. 302 allora, che la
legislazione decemvirale ebbe a stabilire il principio che soltanto i comizii
centuriati potessero pronunziare una condanna capitale (1 ). Ciò però non
impedisce, che i tribuni della plebe conti nuino ancora ad eserc itare il
proprio diritto di accusa, sopratutto per i delitti di carattere politico, e
per quelli che sono puniti di sole pene pecuniarie. Di qui deriva la
conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione criminale viene a ripartirsi
il compito fra i comizii centuriati, che giudicano dei delitti capitali, e dd i
comizii tributi, che giudicano dei delitti, che debbono essere puniti con pene
pecuniarie, finchè l'incremento della città ed anche dei delitti perseguiti per
legge non renderà necessario di ricorrere alla istituzione delle quaestiones
perpetuae, ossia di tribunali speciali per giudicare delle diverse categorie di
delitti (2 ). Parmi con ciò di aver abbastanza dimostrato non solo l'unità e la
coerenza della primitiva costituzione patrizia; ma di aver provato eziandio,
come essa debba essere considerata come il modello e l'esem plare, sovra cui si
foggiò tuttoil posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa
fu tale dameritarsi il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva, che la
costituzione politica di Roma formatasi « non unius ingenio, sed multorum, nec
una hominis vita, sed aliquot saeculis et aetatibus », era tuttavia riuscita
superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata
dei filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con
logica tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore
all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità: nam, dice lo stesso
Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum exstitisse
dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset; neque cuncta in
genia, conlata in unum, tantum posse uno tempore providere, ut omnia
complecterentur, sine rerum usu ac vetustate (3). Veniamo ora alle leges
regiae. (1) Cic., De leg. 3, 4: « De capite civis nisi per maximum comitiatum
ne fe runto », disposizione questa, attribuita alla legislazionedecemvirale, la
quale mirava con ciò ad impedire, che le cause capitali contro i patrizii e
contro i consoli fossero dai tribuni della plebe recate innanzi ai concilia
plebis. (2 ) Cfr. Esmein, Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia, de
adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris, 1886, pag. 71 et suiv. (3
) Cic., De Rep., II, 1. La legislazione regia durante il periodo esclusivamente
patrizio. $ 1. - Del contributo delle varie stirpi italiche alla primitiva
legislazione di Roma. 247. Dal momento che a costituire la città patrizia
concorsero comunanze, le quali erano di origine diversa, era naturale, che,
anche esistendo una certa analogia fra le loro istituzioni, non potesse perd
esservi una identità perfetta fra le medesime. È quindi evidente, che col
partecipare di diverse stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro
una assimilazione lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che
anzi, a questo proposito, un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione
del diritto primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie
stirpi, come recarono un diverso contributo alla costituzione politica di Roma,
cosi deb bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione del
diritto privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei
seguenti termini: « La patria potestas spinta fino al ius vitae et necis sulla
figliuolanza; la manus ed il potere del marito sulla moglie; il concetto per
cui « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio,
IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non paga,
di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma,
che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua esse credebant,
quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di
porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche
di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto, che la
forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent »
(Gaio, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che
non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto
ciò insomma, che deriva dal concetto, che la forza generi « maxime sua
esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio, IV, 16 ); il diritto del
credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se
occorre anche di ridurlo a schiavitù; tutto ciò insomma, che deriva dal
concetto, che la forza generi il diritto, sarebbe dovuto all'influenza
latina: « Le cerimonie religiose invece, che accom pagnano il matrimonio, il
riconoscimento della moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure
religiose e domestiche; il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni
che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica
giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire
l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e
dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda
il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del
l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non
privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii necessarii per il riposo delle loro anime, sarebbero
evidentemente uscite da un diverso ordine di idee, e sarebbero perciò a
ritenersi di provenienza sabina. - « Quanto all'influenza etrusca non si
sarebbe sentita che ad una data più recente;ma dovrebbe probabilmente essere
attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os
servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti
transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certam ma dovrebbe
probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che
deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più
impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamma
dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto
riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole
solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1).
Non può certamente negarsi, che la ricostruzione dell'in signe giureconsulto
appare come una verosimile congettura, quale del resto è annunciata dallo
stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire la stretta attinenza,
che dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato nello svolgimento
delle primitive istitu zioni: e ciò lo condusse a questa ripartizione di parti,
che pure si appoggia al carattere e alle opere, che la tradizione attribuisce
ai re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia, con tutta la reverenza
all'opinione di un insigne, crederei che questa ricostruzione del diritto
primitivo di Roma non possa essere accettata, neppure come ipotesi e congettura,
perchè è in contraddizione col modo, in cui Roma e il suo diritto si vennero
formando, e colle tradizioni, che a noi pervennero. 248. Non credo anzitutto,
che la costituzione, anche politica di Roma, possa considerarsi in certo modo
come una composizione di elementi diversi recati da questa o da quella stirpe.
In proposito ho cercato di dimostrare che l'ossatura della città primitiva fu
essen zialmente latina, e che, al pari delle altre città latine, Roma usci da
un foedus, ossia dall'accordo di varie tribù per partecipare ad una stessa
comunanza civile e politica. Quindi è che gli elementi, che sopravvennero,
entrarono tutti nei quadri della città latina, la quale fu anzi concepita sopra
un'unità cosi organica e coerente, che non può essere riguardata, come il
frutto del contemperamento di ele menti diversi (2 ). Re, senato e popolo
esistono fin dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi elementi si
aggiungono, il re potrà sce (1) MUIRHEAD, Historical introduction to the
private law of Rome, Edinburgh. 1886, pag. 4. (2 ) In questa parte divido
perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro « che han
voluto trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella sua
politica e nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in uno
amalgamarsi confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino pelasgiche ».
A suo avviso sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo fondarono e
diedero il proprio nome alle città, ma che posero eziandio quelle linee
primitive, in cui entra rono poi tutte le istituzioni, che furono assimilate
più tardi » Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4, pag. 54. Questa opinione, fra
gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham, Encyclopedia Britannica, XX, vº
Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i caratteri di una città latina. 305
gliersi da un'altra stirpe, il numero dei senatori e dei cavalieri potrà essere
aumentato, e potranno anche accrescersi i coll egi sacerdotali, ma
l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero è che un re sabino, cioè
Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del culto e del collegio dei
pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già attribuite
allo stesso Romolo; nè tutto ciò, che si riferisce all'organizzazione
domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che già una legge,
attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem (1). Lo stesso
è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle famiglie a
perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine sabina, mentre
ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in tutti quelli
parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione patriarcale (2).
Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di parole so lenni nei
contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla in fluenza etrusca,
poichè, se stiamo alla tradizione, questo cerimoniale esteriore rimonta alla
fondazione stessa della città, e quindi sarebbe anteriore all'epoca, in cui,
secondo il Muirhead, si sarebbe comin ciata a sentire l'influenza etrusca. Si
aggiunge, che le solennità di parole, di atti e di gesti non sono anch'esse un
privilegio di questa o di quella stirpe; ma sono comuni a tutti i popoli, che
attraver sarono l'organizzazione gentilizia, e trovano anzi, come si è dimo
strato, una causa naturale in ciò, che in questa condizione di cose, gli atti
ed i contratti, seguendo in certo modo, non fra individui, ma fra capi di
gruppo, acquistano una solennità, che ora direbbesi internazionale, la quale si
conserva poi eziandio negli inizii della co munanza civile e politica. Infine
non pud neppure affermarsi, che quella serie di istituzioni, che mette capo al
concetto, che il diritto scaturisce dalla forza, debba considerarsi come di
provenienza latina, in quanto che questo concetto deriva piuttosto
dall'attitudine emi nentemente guerriera, che prende il populus romanus
quiritium (1) Dion. II, 25 (BRUNS, Fontes, pag. 6 ). (2) Che questo sia un
carattere comune a tutti i popoli, che trovansi nell'orga nizzazione
patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato dimostrato dal SUMNER MAINe,
nelle varie opere sue, e di recente dal Leist, Graeco-italische Rechtsge
schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data la prova nell'opera: La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, lib. I e II, seguendo le
migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come esse abbiano trapiantato
nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano preparato nell'Oriente) nelle
sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono;
come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es.,
la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali
appariscono non meno amiche della forza, e fino anche della prepotenza, di
quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le genti,
che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla plebe, e
più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame delle
singole affermazioni del Muirhead, che io qui intendo di fare; ma piuttosto
dalle cose pre messe intendo inferire, che, trattandosi di genti, che
probabilmente erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel
medesimo stadio di organizzazione sociale, le istituzioni fondamentali del di
ritto privato, salvo le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere
essenzialmente comuni alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui
prevaleva il carattere religioso; tutte compievano i loro atti con solennità e
cerimonie esteriori, che richiamavano un precedente periodo di organizzazione
sociale; e tutte possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia, e gli
istituti della gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può affermare
con certezza, dal momento, che questi caratteri sono comuni al diritto
primitivo, quale ebbe a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo,
chepotrebbe chiamarsi della comunanza del villaggio. La stirpe tuttavia, che
diede il primo modello, in cui furono poi fuse le istituzioni analoghe, che
erano già possedute dalle varie genti, fu anche, quanto al diritto privato, la
stirpe latina, la quale appare come fondatrice della città; il che punto non
tolse, che, stante il comporsi dei varii elementi, si allargasse poi il
concetto della divinità, patrona comune della città, e si ammettessero man mano
anche istituzioniproprie di altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma fece
anche più tardi, sul l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover
affermare, che quella potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma,
appena compare, deve sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui
Roma ebbe la sua prima origine. Per verità, anche prima della fondazione di
Roma, le popolazioni latine erano quelle, che avevano già mag giormente svolto
il concetto di federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive,
e perfino anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri
elementi nel proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle
istituzioni degli altri popoli. Ciò è tanto vero, che nella storia primitiva di
Roma l'ele mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato, e più tardi,
quando diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed espulso;
l'elemento sabino fu quello, che, essendo ancora più tena cemente vincolato
nell'organizzazione gentilizia, si dimostrò il più esclusivo e il meno
favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo
essere stato il primo a modellare la città, entrò anche dopo in copia maggiore
a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe
operosa e battagliera, che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova
di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co
munanze italiche, combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi
Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro
civiltà; mentre quanto ad Alba, la considerò come sua madre patria, e anzichè
estinguerla e soffocarla, dopo averla vinta, pre feri di accoglierne il
patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima, continuando quel
processo nell'organizzazione sociale, che da essa erasi iniziato. Fra Roma da
una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra, vi fu pressochè una guerra di
sterminio, sopratutto fra le due prime, mentre fra Roma e il Lazio vi fu
soltanto una lotta di precedenza; perchè due città foggiate sullo stesso
modello, come Roma ed Alba, non potevano coesistere l'una in prossimità
dell'altra (1). (1 ) La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione,
da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli
eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ. e costituz. di Roma, I, nei
primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume,
avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione
patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i
Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori
gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente
use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma
primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già
eravi la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la
dottrina certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che
contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del
popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota
letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi,
nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca. Anche
questi nuovi studii mi confermano nella conclusione: che l'organizzazione
gentilizia sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca
della formazione di Roma, la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa
divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere
la sua teoria, devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che
sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di
Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso, egli sia fra gli autori re centi
uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato alla
formazione del diritto Romano, dal patriziato e dalla plebe), la città di Roma
continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti
alle stirpi latina, sabina ed etrusca, ed è ancora questo il concetto, che egli
pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma. Era
naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna
dovesse recare il proprio contributo, anche alla formazione di un comune
diritto, e che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte, che
a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero, che alcune volte egli
si trova imbarazzato del fatto, che il diritto quiritario primitivo si presenta
del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza anche
primitiva, e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano già
certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur
sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere (1). Che se invece si ammetta,
come ho cercato di dimostrare, che Roma è una città formata sul modello della
città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo, costituisce
dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di villaggio,
in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione, ma le
avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo dimostrano le
genti Claudia e Fabia: che la stirpe Latina fosse invece già p ervenuta al
concetto della città federale; e che da ultimo l'Etrusca fosse già pervenuta
alla città, che potrebbe chiamarsi corpora tiva. Roma partì dal tipo latino e
quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di federazione: poi sotto
l'influenza etrusca diventò anche una città unificata; ma serbò tuttavia anche
in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi in certo modo in un
centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. Tale difficoltà occorre al
MUIRHEAD, per esempio, allorchè a pag. 50 parla del. l'opinione di coloro, che
sostengono che Roma non conoscesse dapprima che la pro prietà degli immobili,
ed anche a pag. 54, ove, parlando dei delitti e delle pene, trova non parlarsi
di delitti, che non potevanomancare anche in una città primitiva. Questi fatti
invece sono facilmente spiegati, se si ammette la formazione progressiva e gra
duata, così della città, come del suo diritto civile e criminale, non che della
giuri sdizione spettante ai suoi magistrati. sarà facile il comprendere come,
nella formazione del suo diritto pub blico e privato, Roma, dopo aver preso
lemosse da quelle istituzioni di origine latina, che potevano già confarsi
colla comunanza civile e politica, sia poi venuta lentamente assimilando tutte
le istituzioni, che già si erano formate nel periodo gentilizio, anche presso
le altre stirpi, quando le medesime potessero conciliarsi coll'impronta primi.
tiva, che essa aveva data al suo diritto. Questo è stato certo il me todo, che
Roma seguì anche più tardi nella trasformazione del suo diritto privato; nè,
conoscendo ormai per prova la sua costanza nei processi seguiti, possiamo
averemotivo di dubitare, che essa abbia dovuto esordire nella stessa guisa. § 2.
Della esistenza di vere e proprie leggi (leges rogatae) durante il periodo
regio.Intanto questo modo di considerare la formazione di Roma e del suo
diritto mi conduce ad apprezzare la legislazione primitiva di Roma in guisa
diversa da quella, che suole essere generalmente adot tata dalla critica, e ad
accostarsi invece a quella, che, ci verrebbe ad essere indicata dalla
tradizione. Mentre la critica infatti, dopo aver resi leggendari i re, nega
pressochè ogni fede alla legislazione, che suol essere indicata col nome di
regia, e la riduce esclusiva mente ad essere opera dei collegi sacerdotali, o a
semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni anteriori, la tradizione
invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a Servio Tullio, come un
periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio avviso, si deve andare
a rilento nel respingere in questa parte il racconto della tradizione. Se la
città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu dapprima un organo di
vita pubblica fra comunanze, in cui continuavasi la vita domestica e
patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il frutto di una
specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che governo i primi
rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita civile e politica
sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale: quindi se questa
poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche giuridici, già
prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati tali e quali, ma
dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento, ed è questo appunto,
che dovette compiersi durante il periodo regio. Ne ripugna il credere, che ciò
siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza dimostrato, come le
genti, che fondavano la città, erano lungi dall'essere del tutto primitive, ma
avevano una suppellettile copiosa di concetti e di tradizioni, che già si erano
prima formati. Esse non erano più nello stadio della primitiva formazione del
di ritto: ma erano già in quello della elaborazione e dell'adattamento di un
diritto già formato alle esigenze della vita cittadina. Ammet tasi, che in
parte siano leggendarie le figure dei primi re; ma questo è certo che,
leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla neces sità di quella convivenza,
di cui erano i capi, e quindi dare opera vigorosa a quella selezione ed
unificazione legislativa, che era il più urgente bisogno per una città, che
risultava di elementi diversi. Conviene aver presente, che la città in genere e
sopratutto Roma, (che fra le genti italiche fu forse la prima ad iniziare il
processo di accogliere persone di discendenza diversa a partecipare alla stessa
vita pubblica ), si presentava come una istituzione novella, destinata ad un
grande avvenire. Era mediante la città, che l'uomo o meglio il capo di famiglia
cominciava ad essere qualche cosa, anche fuori della propria famiglia o gente,
e quindi non è punto a maravigliare, se un senso pubblico energico e potente
abbia potuto penetrare re, senato, sacerdoti e popolo. Quelsenso di devozione e
di abnegazione, di cui diedero prova più tardi le grandi famiglie plebee,
allorchè giunsero finalmente ad essere ammesse come eguali nella città, do
vette dapprima essere provato dagli uomini, usciti dalle genti patrizie,
allorchè sentirono di costituire un populus, malgrado la loro ori gine diversa:
e quindi non è punto probabile, che essi abbiano dovuto mantenersi del tutto
estranei alla elaborazione di quel diritto, che doveva governarli, e che tutto
lasciassero ai collegi sacerdotali ed al re loro capo. Se essi eleggevano il re
e per tale elezione si ra dunavano nei comizii, non si comprende veramente come
essi abbiano potuto essere affatto esclusi dall'opera legislativa, che era una
con seguenza inevitabile della formazione della città (1). (1) L'opinione, qui
combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN, Die Quellen des röm misches Rechts,
Leipzig, 1823, pag. 234 e segg., in un'epoca, in cui tutta la storia primitiva
di Roma erasi convertita in una specie di leggenda, trova ancora oggidi molti
seguaci. Basti annoverare, tra i recenti, il PANTALEONI, op. cit., pag. 309; il
KARLOWA, Röm. R. G., pag. 52,ed anche il Murrhead, Hist. Introd., pag. 20. L'ar
gomento da questi due ultimi invocato consiste sopratutto nella nota
espressione di Livio: « vocata ad concilium multitudine, quae coalescere in
populi unius corpus, nulla re, praeterquam legibus, poterat, iura dedit ». Essi
argomentano dal iura 311 252. A ciò si aggiunge che in una piccola comunanza,
formata da persone, che poco prima ancora vivevano patriarcalmente, do vette
essere frequente e quotidiano il contatto fra elementi, che ora a noi
appariscono grandiosi per l'età remota e per il grande avve nire, che ebbero di
poi. È quindi assai probabile, che i rapporti fra re, padri, pontefici, auguri
e popolo fossero continui, e che perciò potesse anche formarsi una specie di
pubblica opinione in torno a ciò, che potesse esservi di comune interesse per
una città, che era uscita dalla volontà comune, e che era la creazione di
tutti. Senza voler sostenere che le concioni, da Livio e Dionisio attribuite ai
personaggi della loro storia, siano state veramente quelle, non è però
inverosimile, che concioni siansi veramente fatte, e che in tutti i casi, in
cui trattavasi di qualche pubblico interesse, potesse vera mente accadere, che
i padri intervenissero fra il popolo ed anche fra la plebe, e interponessero
nei rapporti quotidiani un'autorità di persuasione, non dissimile da quella,
che entrò a far parte sostan ziale della costituzione primitiva di Roma, sotto
il nome appunto di patrum auctoritas. Se il rispetto, che quegli uomini avevano
per l'età, e la loro disciplina domestica spiegano la solennità, con cui essi
votavano nei comizii, e il loro limitarsi a rispondere, appro vando o negando;
non possono però escludere, che quelle discussioni, che erano inopportune al
momento della votazione, potessero anche essere indispensabili e frequenti in
seno ad un popolo, che senti con tanta energia la vita pubblica, e l'influenza
della medesima. Il popolo romano, fin dalle proprie origini, non fu un popolo
nè di asceti, nè di anacoreti, che seguissero una regola conventuale: ma fu un
popolo, i cui membri appresero ben presto a dire la verità nella vita pub blica,
quantunque i suoi membri continuassero ad essere ligii ed ossequenti
all'autorità del padre nella vita domestica. dedit, adoperato invece di iura
tulit; ma è facile il notare, che le espressioni di iura dare et accipere sono
talvolta sinonime di quelle di iura ferre, come lo dimostra fra gli altri Aulo
GELLIO, XV, 28, 4, che deffinisce i plebiscita « quae, tribunis plebis
ferentibus, accepta sunt». Si aggiunge che Livio in quello stesso passo insiste
sulla necessità di vere leggi per incorporare elementi eterogenei e diversi, e
usa quel vo cabolo di legge, che pei Romani significò sempre un provvedimento
proposto dal magistrato e accettato dal popolo. Ad ogni modo questa
proposizione si riferisce an cora all'epoca anteriore alla confederazione coi
Sabini, e quindi, trattandosi ancora del capo patriarcale di una tribu militare,
si comprende che egli potesse iura dare; mentre si dovettero richiedere vere
leges rogatae, allorchè le varie tribù entrarono a partecipare alla medesima
città. La loro caratteristica prevalente non è nè la religiosità, né l'indole
guerriera, ma piuttosto quell'equilibrio e contemperamento di facoltà umane, in
cui consiste il senso giuridico e politico. La qualità, che prepondera in essi
fra le facoltà affettive, è la volontà pertinace, costante, e fra le facoltà
intellettuali è una logica, che analizza con un acume senza pari i varii
elementi dell'atto umano, e che quando ha afferrato un concetto non lo
abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che da esso può ricavarsi; due
qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica, che si corrispondono
perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia giuridica e politica
di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo processo, che inizia
tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa formazione del diritto
pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza, che tanto nella politica,
quanto nel diritto,Romanon procedette maiper semplice agglomerazione ed
incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte le genti, ma
accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del proprio
edificio. Roma nella storia dell'umanità rap presenta, per cosi esprimersi, un
crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori del periodo
gentilizio, e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli altri popoli
conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della vita sociale
l'elemento giuridico e politico, e questa selezione e questo isolamento essa
cominciò ad operare fin dai proprii esordii. 254. Credo quindi che per
comprendere Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella, che suole
essere chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che possa negarsi
ai Romani un sentimento profondamente religioso; ma essi non si trovano punto
sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità, che soffoca
l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale invocata e resa
benevola con determinati riti, doveva condurre il popolo romano ad insperata
grandezza. Si aggiunge, che questa carattere religioso, finchè Roma fu
esclusivamente patrizia, era co mune a tutti i membri del populus, i quali
tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da conservare. Non era quindi
possibile fra essi la formazione di una classe esclusivamente sacerdotale, che
con ducesse al risultato, a cui si giunse in Oriente, di fare preponderare per
modo l'elemento religioso da soffocare affatto l'elemento politico e il
giuridico. Quanto alla differenza, sotto il punto di vista religioso, fra le
razze Arie del 313 A questo proposito pertanto è opportuno di tener distinti
eziandio due periodi in Roma primitiva: quello cioè di Roma esclusivamente
patrizia, in cui ci troviamo di fronte ad un popolo, i cui membri, uscendo
dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli auspizii e le cerimonie
religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e quello invece, in cui fu
ammessa anche la plebe alla cittadinanza. In questo secondo periodo infatti il
populus viene a comprendere due classi: l'una, poco numerosa, ricca di
tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle civili e politiche; e
l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza, ma che è nuova alla vita civile,
priva di tradizioni, e si trova nella necessità di ricevere modellato e formato
il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in questo secondo periodo, che
la conoscenza degli auspicia e delius viene a cambiarsi in un ti tolo e in un
mezzo di superiorità per il patriziato, il quale se ne vale per tenere in
rispetto e in riverenza le masse. È solo allora che il diritto, le cui origini
erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le cui formalità erano già divenute
inesplicabili per la generalità dei cittadini, viene ad essere chiuso negli
archivii dei pontefici, che sono in certo modo incaricati della custodia e
della elaborazione di esso; mentre quest'arcano e questa segretezza non
poterono certo esi stere negli esordii della città, allorchè la conoscenza del
diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i capi di famiglia (1). Cid
mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al populus, nella formazione
del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella, che suole generalmente
essergli assegnata; ma per riuscire in qualche modo a determinarla, importa
ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i collegii sacerdotali
in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto. l'India e quelle
trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti nell'opera: « La
vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale », pag. 92, n ° 33, e
agli autori, che ivi sono citati. (1) Vedasi a questo proposito il MACHIAVELLI,
Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI, XII, XIII e XIV, e il
MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des Romains dans la religion. 314 $
3. – I collegii sacerdotali in Roma e la loro influenza sulla formazione del
diritto primitivo. La caratteristica di
Roma è una mirabile coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi
aspetti della propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città
fu il frutto di una selezione della cosa pubblica dalla privata, cosi anche la
re ligione pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei
culti e delle credenze proprie delle varie genti; ma fu an ch'essa il risultato
di una selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù continuarono nel
proprio culto gentilizio, vennesi formando nella città un culto pubblico, il
quale alla sua volta assunse poi una doppia forma, quella cioè di culto
pubblico ed ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare (sacra popularia
). Ciò è dimostrato dal fatto, che fra la quantità degli Dei riconosciuti dai
Romani, quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono Marte, Quirino e
Giove, di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del fondatore,
l'altro il fondatore stesso della città, e l'ultimo infine sembra talvolta con
fondersi coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla Greca. Intanto
una pubblica religione richiedeva pure un pubblico sacerdozio. Questo
concentrasi dapprima nello stesso re, il quale è augure sommo e pontefice
massimo; ma poscia il re stesso, pur conservando gli auspicia del magistrato
supremo, costituisce intorno a sè dei collegii sacerdotali, i quali hanno un
carattere del tutto peculiare, in quanto che essi non hanno un compito
esclusivamente religioso,ma anche una vera importanza civile e politica. Cotali
sono sopratutto gli auguri, i feziali e i pontefici, i quali,mentre hanno un
carattere sacerdotale, che dà un'aureola religiosa al loro ufficio, compiono ad
un tempo una funzione importantissima per le genti patrizie, che è quella di
essere i custodi e gli interpreti delle tra (1) La triade di Giove, Marte e
Quirino si fa dalla tradizione rimontare a Numa, il quale avrebbe già istituiti
i tre flamini maggiori, dando però la prevalenza al fila mine di Giove (Liv.,
I, 20). Fu più tardi però, che la religione si rivestà alla Greca e ciò
sopratutto sotto l'influenza etrusca, ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto
che fu allora che venne costituendosi la triade Capitolina di Giove, Minerva e
Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel des instit. romaines, pag. 456 a 562. 315
dizioni,non solo religiose, ma anche giuridiche e politiche, e sopra tutto di
quella parte di esse, che era indicata col vocabolo di fas, ed era considerata
come l'espressione della volontà divina. Quelle tradizioni, che in Grecia
furono lasciate ai poeti, i quali in antico avevano ancor essi un carattere
sacerdotale, in Roma invece sono affidate a collegi sacerdotali, i cui membri
sono scelti nel novero stesso dei padri, memori dei riti e degli auspicii
religiosi, i quali, malgrado il loro carattere sacerdotale, continuano pur
sempre a prendere parte alla vita civile e politica, e sono i custodi fedeli
del patrimonio tradizionale delle genti patrizie. Cid spiega come le varie
tribù primitive, a quella guisa che erano concorse in parti eguali sotto
l'aspetto politico e militare, così sembrano pure avere na propria
rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo dimostrano il numero di
tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e pontefici, ed anche il
numero di venti, che sembra essere stato quello dei feziali. Intanto se un
posto facevasi vacante, il vuoto veniva a riempirsi con quella stessa cooptatio,
mediante cui una nuova gente doveva essere accolta nell'ordine patrizio. Cosi
es sendo composti i collegii sacerdotali, essi erano in condizione di
contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle varie tribù, che erano
concorse alla formazione della città; e potevano col re, che era il loro capo,
contribuire potentemente all'unificazione e al coordinamento legislativo.
Quindi è che il culto, di cui essi sono i sacerdoti, non è un culto speciale di
questa o di quella tribù, ma un culto ufficiale del popolo romano, come lo
dimostrano le appel lazioni di augures publici populi romani quiritium, di
fetiales populi romani, non che la qualificazione data ai pontifices di
sacerdotes publici populi romani. Per quello poi, che si riferisce alle
tradizioni, della cui custodia essi sono incaricati, senza voler pretendere,
che in cið potesse esservi uno scopo preordinato, questo è però certo, che si
effettud fra essi una ripartizione, la quale corri sponde ai varii aspetti,
sotto cui il diritto può essere considerato (1). (1) Non ho creduto qui di
dovermi occapare specialmente dei quindecim viri sa cris faciundis, poichè
questo collegio, iniziato da Tarquinio Prisco colla nomina di due sacerdoti per
la custodia dei libri sibillini, si cambid col tempo nel custode dei culti, che
erano di provenienza straniera. Esso quindi non esercitò alcuna diretta
influenza sul diritto specialmente privato; sebbene sia una prova evidente del
con tinuo studio dei Romani per assimilarsi le istituzioni anche religiose
degli altri po poli. È a vedersi, quanto al medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op.
cit.,pag. 555 a 560, e il Villems, Le droit public romain, pag. 323-24. 316
257. Vengono primi gli auguri, i quali, secondo la tradizione, sem brano
costituire il più antico di questi collegii, in quanto che Roma stessa sarebbe
stata fondata coll'osservanza delle cerimonie prescritte dall'arte augurale.
Essi sono i custodi dei riti, che debbono prece dere e accompagnare tutte le
deliberazioni, che possono riferirsi al pubblico interesse, e costituiscono
cosi nella religione pubblica della città una imitazione degli stessi augurii
privati: come lo dimostra l'at testazione di Cicerone, che l'abitudine di
consultare la volontà divina era universale, e che i capi delle famiglie e
delle genti non tenevano meno dello Stato ai loro auspizii privati (1). È
indubitabile, che essi ebbero dei libri augurales, in cui serbavano le proprie
tradizioni e la propria giurisprudenza, e senza voler penetrare nei concetti, a
cui poteva ispirarsi l'arte loro, egli è certo, che essa fu una crea zione
originale, propria sopratutto alle stirpi latina e sabellica, che dimostra lo
spirito religioso e giuridico ad un tempo del primitivo popolo romano. È al
collegio degli auguri, che devesi la teoria sot. tile e complicata degli
auspicii, che dovevano essere osservati, la distinzione fra quelli, che
potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la precedenza che certi segni
dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che devesi l'orientamento del
templum, ossia la delimi tazione di un sito senza ostacoli e in cui potesse
spaziare la vista, per modo che gli auspizii potessero essere osservati;
delimitazione, che do vette probabilmente anche esercitare influenza sulla
scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le città dovevano essere
edificate (2 ). 258. È però notabile, che se gli auguri sono incaricati
dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e decisioni
augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica auspicia, il
quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può così eser
citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al pubblico
interesse (3).Era poinaturale, che gliauguri, i quali, nella città esclu (1 )
Ciò è attestato da Cicer., De div., I, 16, 28. — Cfr. MOMMSEN, Le droit public
romain, I, pag. 100 e 101. (2 ) Il vocabolo di arte augurale prendesi talvolta
in senso così largo, da com. prendere non solo l'avium inspectio (donde
l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli animali, donde
l'aruspicium. Questo però è da avere presente, che l'ar spicium era di origine
latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve dersi in proposito
il PANTALEONI, Storia civ. e cost., appendice III, relativa ai Luceres. (3 )
Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, pag. 119. 317 sivamente patrizia, erano i custodi di
riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il populus, posteriormente,
allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero per acquistare una grande
autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per recare al primo un
potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione era ormai divenuta
inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse genti patrizie. La
loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da Cicerone, il quale
scrive: « maximum autem et praestantissimum in re publica ius est au gurum cum
auctoritate coniunctum », e lo prova dicendo, che essi potevano disciogliere i
comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli viziati, anche dopo che eransi
tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di pubblico carattere poteva essere
presa senza il loro inter vento (1). Però questa loro apparente onnipotenza, di
fronte allo Stato, scompare, quando si consideri, che il giudizio relativo agli
auspizii favorevoli o non appartiene al magistrato, e che gli auguri emettono
il loro avviso sulla osservanza del rito, con cui siansi tenuti i co mizi,
solamente quando siano interrogati dal senato o richiesti dal magistrato stesso.
259. Quanto al collegio dei feziali, esso è il custode e il deposi tario del
ius foeciale; ma non è certo il creatore del medesimo, come lo dimostra il
fatto, che questo erasi già formato durante il periodo gentilizio, ed era
comune ad altri popoli, pure di origine la tina e sabellica (2 ). L'istituzione
del collegio è dagli antichi attribuita ora a Tullo Ostilio, ed ora ad Anco
Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius foeciale ad epoca anteriore, poiché
Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche prima che il collegio fosse da lui
istituito. Narra. infatti la tradizione, che il fatto di rimettere le sorti
della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare combattimento fu solennemente sti
pulato coi riti proprii del ius foeciale. « I due cittadini eletti a cid, cosi
riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le veci dei padri dei due popoli, lo
sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e l'altro giurarono, invocando
Giove, che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato. Quello dei due popoli,
che primo vi fosse ve (1) Cic., De legibus, II, 12. (2 ) Il processo di
naturale formazione, durante il periodo gentilizio, di quel ius belli ac pacis,
che costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto nel Lib. I, Cap. VII,
pag. 139 a 166. 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come l'uno e l'altro ferivano
il porco, che sacrificavano; anzi con tanta più forza, quanto era la forza di
lui » (1). Ciò significa che il collegio dei feziali non è stato mai il giudice
della giustizia intrinseca della guerra o della opportunità della pace; l'una e
l'altra son trattate dal senato e sono deliberate dal popolo; mentre i feziali
sono incaricati dell'osservanza dei riti o custodiscono le tradizioni relative
al ius pacis ac belli. Anche essi sono messi in azione dagli organi del potere
civile e politico, e potranno talora essere chiamati a decidere delle
questioni, ma queste non si riferiscono alla giustizia intrinseca, nè almerito
delle cause di guerra, ma sono di preferenzaquestioni di rito e di procedura
(2). I feziali sono in numero di venti; riempiono i posti vacanti, mediante la
cooptatio; non hanno un capo permanente, ma scelgono caso per un pater patratus
nel proprio seno; il che è un altro indizio come veramente il pater patratus
fosse un cittadino eletto a fare le veci del popolo, e che ricordasse così
l'antico patriarca della gente e della tribù. Il ius foeciale pertanto è in
ogni sua parte una sopravvivenza del periodo gentilizio; indica lo stadio più
pro gredito, a cui erano pervenuti i rapporti anteriori fra le genti e le tribù;
dimostra come già allora vi fossero degli esperimenti di amichevole
componimento, prima di addivenire alla guerra; ed è una prova di più, che i
fondatori della città non erano popolazioni primitive nello stretto senso della
parola, ma avevano anche in questa parte un tesoro di antiche tradizioni, le
quali, serbate dallo spi rito conservatore dei Romani, furono mantenute fino a
che non di ventarono pienamente disadatte e incompatibili colla convivenza
civile e politica (3 ). 260. È poi probabile, e l'ho dimostrato a suo tempo,
che la distinzione fra foedus e sponsio fu una conseguenza del passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla costituzione politica della città, il (1)
Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 79. (2) Tale è pure l'opinione sostenuta dal
FusiNATO, Dei Feziali e del diritto fe. ziale, Cap. III. (3 ) Il numero dei
venti feziali, che non corrisponde a quello degli auguri e dei pontefici, può
forse essere un indizio, che il diritto feziale, comune ancora ai Latini e ai
Sabini, che erano più vicini ancora all'organizzazione gentilizia, non
apparteneva invece agli Etruschi, che, più avanzati nella vita cittadina, già
si erano maggior mente discostati da pratiche di carattere eminentemente
patriarcale. - - 319 – che rendeva tale distinzione incomprensibile per popoli,
che non erano ancora pervenuti a questo punto di svolgimento (1). Così pure è
un effetto di tale passaggio la distinzione netta, che viene operandosi fra
l'amicitia, l'hospitium,i quali si dividono in pubblici e in privati; ancorchè
sia facile di scorgere, che nel primo periodo le amicizie sono ancora curate
specialmente dallo stesso re; il qual sistema fu seguito sopratutto dalla
politica dei Tarquinii, che intrattenevano relazioni coi capi delle comunanze
vicine, e macchinavano proba bilmente un cambiamento nella forma di governo,
che doveva es sere generale (2 ). Era poi una conseguenza logica della politica
seguita da Roma nella propria formazione, che essa in questo primo periodo non
si chiudesse ancora in se medesima, ma venisse in certo modo at traendo a sè le
popolazioni vicine. Roma continua in questa parte la politica dell'asilo, dalla
tradizione attribuita a Romolo, e in ciò presenta un carattere del tutto
opposto alla formazione delle città greche, e a quella della stessa Atene.
Giovano a questo intento l'isti tuto dell'hospitium publicum, la concessione
della civitas sine suf fragio, l'istituzione del municipium, singolare
istituzione, per cui altri, pur restando nella propria terra, e partecipando
alle cose amministrative di essa, pud tuttavia prendere parte viva alla gran
dezza della patria communis, e recarsi a darvi il prorio voto, allorchè
trattisi di quelle deliberazioni, che possono interessare direttamente anche
gli abitanti dei municipia. È poi notabile il profitto, che Roma seppe ricavare
dall'istituzione, graduando e differenziando le con cessionida essa fatte ai
municipii, e svolgendone il concetto in guisa da cominciare colla concessione
di una civitas sine suffragio per giungere sino alla concessione di una
cittadinanza compiuta, il che pure a dirsi dell'istituto della colonia (3 ).
Intanto però anche qui è (1) V., quanto al foedus e alla sponsio, il Lib. I,
Cap. VII, nº 118. (2) Cid è attestato da Livio, I, 49, allorchè scrive di
Tarquinio il Superbo: « La tinorum maxime sibi gentem conciliabat, ui
peregrinis quoque opibus tutior inter cives esset; neque hospitia modo cum
primoribus eorum, sed adfinitates quoque iungebat ». (3) Inteso in questa
guisa, il sistema municipale per Roma non è che l'applica zione del sistema
stesso, che essa aveva seguito nella propria formazione, quello cioè di
interessare alle sorti della patria comune tutti i popoli, che da essa
dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni a quelli, che le erano più
vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore bisogno. V. sopra, Lib. I, Cap.
VII, nº 127. 320 appare, che la politica estera di Roma non appartiene punto ad
un collegio di sacerdoti,ma che nel periodo regio appartenne al re, e nel
repubblicano al senato, il quale, essendo un consesso permanente ed accogliendo
nel proprio se noi magistrati uscenti di ufficio, poteva mantenere quella
continuità tradizionale non interrotta, di cui porge un mirabile esempio la
storia politica di Roma. Infine si comprende eziandio, come il collegio dei
feziali, custode di tradizioni, che si riferivano ai rapporti colle altre
genti, non abbia avuta l'influenza effettiva, che appartenne agli auguri e ai
pontefici, perchè il nucleo delle tradizionida esso serbate non poteva trovare
applicazione nelle lotte fra patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini
erano ancora distinti, vi furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto
feziale, e accompagnati, a richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di
colui, che li avesse violati (leges sacratae) (1). 261.Non vi ha poi dubbio,
che il collegio sacerdotale più importante nell'organizzazionedella città
patrizia è, senza alcun contrasto, quello dei pontefici. È questo collegio che
riverbera nel proprio seno le istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a
differenza degli altri collegi, ha una costituzione monarchica, ed ancorchè
composto di più membri, è presieduto nel periodo regio dal re, e poscia dal
pontifex maximus, il quale raffigura il capo religioso del popolo romano, in
quanto costituisce una famiglia religiosa. Cid appare da questo, che il
pontefice massimo, durante la repubblica, e quindi anche il re,nel periodo
anteriore, ha una vera patria potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da
esso dipendono, le quali ultime sono da lui captae in quella stessa guisa, in
cui lo sarebbe una figlia dal proprio padre o marito (2). Il collegio dei
pontefici poi, al pari del popolo dei quiriti, di cui esso ha la direzione
religiosa, ha un potere, che spiegasi in doppia direzione. Da una parte esso
costituisce il vero sacerdozio del po polo romano, e quindi prima il re e
poscia il pontifex maximus, da cui dipende lo stesso rex sacrorum, compiono i
sacrifizii proprii della religione pubblica ed ufficiale del popolo romano. Da
un altro (1) Cfr. LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 134, e la sua
dissertazione: De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura. Lipsiae, 1883.
(2) Cfr. Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871; Ma nuel
des Instit. romaines, pag. 510 a 533. 321 - canto invece il collegio dei
ponteficideve eziandio curare, che i culti delle genti e delle famiglie non
siano interrotti (sacra privata ): e sotto quest'aspetto raduna le curie in
quanto costituiscono una religiosa famiglia nei comitia calata, per mezzo dei
proprii cala tores. Quindi è pure col suo intervento, che compiesi la cerimonia
solenne della confarreatio, la quale dà origine alle iustae nuptiae delle genti
patrizie, e consiste in una cerimonia religiosa, che si compie avanti ai
pontefici coll'intervento di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie
delle tribù, a cui appartiene quegli, che addiviene alle medesime. È esso
parimenti, che presiede a quei co mitia calata delle curie, in cui i membri del
popolo primitivo addiven gono all'adrogatio e al testamentum, i quali, durante
il periodo della città patrizia, dovettero ottenere un ' approvazione analoga a
quella, a cui erano sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola
conservataci da Aulo Gellio, relativa all'adrogatio, la quale senza dubbio
doveva essere analoga a quella del testamentum. Per verità ho già cercato di
dimostrare a suo tempo come per le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto
dovevano subire la pubblica approvazione, in quanto che i medesimi potevano
alterare quell'organizzazione gentilizia, che aveva costituita la forza e la
superiorità del patriziato, e che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni
costo. Intanto ne veniva, che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche
eser citare un'influenza sulla successione per quella parte, che si rife risce
alla trasmissione dell'obbligazione relativa ai sacra. 262. Tuttavia
l'importanza maggiore del collegio dei pontefici provenne sopratutto da che
questo collegio ebbe l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al
mos, al fas ed al ius, e proba bilmente dovette anche compiere quella prima
elaborazione, me diante cui il diritto, che, erasi formato fra le genti e i
loro capi, potè poi essere applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par
tecipavano alla medesima comunanza civile e politica (1). Essi dovet (1) Questa
funzione, essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni, che
sarebbe stata affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di Livio,
I, 20: « Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis
subiecit: ne quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque
adsciscendo, turbaretur ». Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al
testamentum, è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I,
Cap. IV, n ° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II,
nº. 220. G. Caeli, Le origini del diritto di Roma. 21 322 tero essere in questo
periodo i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium, e furono
in condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati
dalle varie tribù, ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad
unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse.
Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei
pontefici, presieduto appunto dal re, dovette essere un cooperatore potente di
quell'unificazione legislativa, di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette
anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo
dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima
collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale,
trattandosi della legislazione di un popolo, i cui componenti prima quasi non
conoscevano altra autorità, che quella del fas, che anche questo primitivo
diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di
tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio. Intanto però in questo
periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero
potuto attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che
potè as sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i
custodi, vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il
populus primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche
ad un tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una
repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati
esclusivamente dalle genti di origine patrizia, le funzioni del collegio dei
pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i
sacerdoti del popolo Romano: ma intanto non escono che da una parte di questo
populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di
questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli
auspicia e ad essere la reggi trice della città. Si aggiunge, che il potere
religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re, viene poscia
attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar
sempre più al diritto un'aureola religiosa; sebbene sia vero che questa se
parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione
del ius sacrum dal ius civile. Intanto però, cosi l'uno come l'altro sono
conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum
), sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la
legislazione decemvirale, durante il quale sono i pontefici, che compiono
quell'elaborazione giuridica, che sarebbe stata impossibile permagistrati
annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse. Sipud
quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al
patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici; cosa del resto, che è
concordemente attestata da Pomponio, da Valerio Massimo, da Cicerone e da
altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei
rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro (1).
Di qui la conseguenza, che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a
procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi; ma intanto
la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium; nè è a
credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro;
poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto, essendo una magistratura
sacerdotale, erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui
religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito
militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di questa
scienza del diritto, conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio dei
pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti, molti
dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi stessi
pontefici massimi(2 ). Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del
diritto pontificale, sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di
diritto sacro; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò nei
giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza, mentre
quella, che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia
più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli
ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur (1)
Questa influenza dei Pontefici sul diritto, sopratutto nei primi periodi della
Repubblica, è attestata da VALERIO Massimo, II, 5; Livio, IX, 46; Cic., pro Mu
rena, 11; De legibus, II, 8, 9; De oratore, III, 33. I passi relativi sono
raccolti dal Rivier, Introd. histor., pag. 121 e segg. (2 ) Basta perciò il
considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto il nome,
come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui segretario Gneo
Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio Coruncanio, che appare
come il primo giureconsulto di origine plebea, furono pontefici massimi, o
quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli poi, che più non erano
tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium, come appare ad evidenza
dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp.
anteiustin. quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 - riporsi in questo, che a
misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi nelle mani dei
giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne naturalmente
restringendosi al ius sacrum, e fu in questa guisa che alla separazione, che
già erasi operata nella città patrizia fra il pubblico ed il privato, venne
poscia aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il diritto civile
strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che questo ritirarsi
del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo periodo della
repubblica, venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus di un nuovo
ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che sotto questo
aspetto doveva dipendere da un'altra classe: il qual concetto ci conduce a
combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta, circa quella
legislazione, che suol essere compresa col vocabolo di « leges regiae ». § 4.
Delle leges regiae e della fede da attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza
noto come qualsiasi demolizione ne provochi un'altra; tanto più se trattisi di
un edifizio armonico e coerente. Ciò videsi sopratutto della storia primitiva
di Roma. Dopo aver resi leg gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la
storia, senza pur nominarli; anche la legislazione, che era aimedesimi
attribuita dalla tradizione, dovette essere considerata come una invenzione di
tempi posteriori. Parve che un popolo, il quale era solo chiamato ad ap provare
o a respingere le proposte fattegli, non potesse avere una parte effettiva
nella formazione di leggi, di cui alcune avevano un carattere essenzialmente
religioso, e che la collezione di leggi regie, accennate dagli scrittori, e
attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e poca regia, dovesse ritenersi come
opera di tempi posteriori (1). (1) Questa opinione, che prevalse col DIRKSEN:
Die Quellen des römisches Rechts, Leipzig, 1823, trovò uno strenuo
oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera è
divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il
contenuto delle leges regiae, mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità
e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del
diritto romano. Milano, 1885, pag. 3, nota 2, l'opinione del Voigt, se in
qualche parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR,
dall'altra per ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a
molti. Cid si capisce, trattan. dosi di persone educate a tutt'altra scuola; ma
intanto abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della
storia primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi
spinta troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria
formazione ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non
fosse ram mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una
necessità dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone
appartenenti a genti patrizie, memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non
è punto ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e
conferiva l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato
a dare approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in
base a cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza
civile e politica. Ciò non potè accadere, come narra Pomponio, finchè Romolo fu
solo capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina; ma dovette
divenire indispensabile, allorchè la città, la no mina del suo re, la sua
religione, il suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione
e degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi,
che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che
riguar. davano il comune interesse, di adottare la forma della legge, la quale,
elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re, appoggiata
dai padri del senato, approvata dalle curie, poteva veramente ritenersi come
l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le ragioni Livio,
allorchè ci dice, che il popolo romano era cosi composto, che « nulla re, nisi
legibus, in unius populi corpus coalescere potuisset ». Era solo a questa
condizione, che capi di tribù e di genti, fino allora indipendenti e sovrani,
potevano sottoporsi all'impero di uno stesso magistrato e di un medesimo
diritto. Lo stesso carattere religioso della le gislazione regia non può costituire
un argomento in contrario; perchè il primitivo populus diRoma era composto di
persone esperte anche nei riti e nelle cerimonie religiose, che ciascun capo di
fa miglia compieva nel seno della propria famiglia. Del resto a voler anche
ammettere, che quella parte della legislazione regia, la quale ha un carattere
esclusivamente sacro, potesse, fin da quella prima epoca, essere lasciata
intieramente alla elaborazione del collegio dei pontefici; egli è però certo,
che l'altra parte invece, la quale ha un carattere civile, giuridico e politico
ad un tempo, dovette essere il frutto del concorso dei varii organi della
costituzione primitiva di Roma, e deve perciò aver presa la forma di vere e
proprie leges rogatae. Certo possono darsi dei casi, in cui questa procedura
regolare 326 non sarà stata effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al
modo stesso, che, secondo gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua
parte la procedura relativa alla nomina dei re: ma in man canza di prove in
contrario, di fronte all'attestazione concorde degli autori, che non avevano
alcun motivo di alterare le cose, e cono scendo il carattere del popolo,
osservatore costante della legalità e facile a commuoversi, quando questa non
fosse osservata, non si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e
proprie leggi, anche in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a
cose di pubblico e di privato interesse (1). 265. Pur ammettendo che in questa
primitiva condizione di cose, la maggior parte dei rapporti giuridici abbia
continuato ad essere lasciata all'impero della consuetudine e del costume,
dovevano perd anche esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra
le varie comunanze, presupponevano una unificazione ed un coordina mento, che
doveva di necessità operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si
chiamavano publicae, perchè erano la base della comune convivenza civile e
politica. Che anzi dovettero esser queste leges, che costituirono il nueleo
primitivo di quel ius quiritium, che cominciava a sceverarsi dal fas e dai
bonimores. Siccome perd questo ius venne formandosi « rebus ipsis dictan tibus
et necessitate exigente »; cosi esso non potè formarsi di un tratto, nè essere
fin dapprincipio un organismo coerente, che provvedesse a tutti i rapporti; ma
dovette lasciare la maggior parte di questi rap porti alla consuetudine,
limitando l'opera sua a concretare quei prov vedimenti, la cui necessità
facevasi urgente e palese, a misura che la convivenza civile venivasi
svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i concetti e sopratutto le forme di
questa primitiva legislazione dovessero essere tolti dal periodo anteriore: ma
il fatto stesso, per cui essi erano trapiantati in terreno diverso, dovette far
sì, che essi mutassero carattere. 266. Se intanto potesse essere
lecito anche solo tentare di rico struire il processo, con cui dovette formarsi
il primo nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base alla
formazione progres siva della città, crederei di poter rich iamarlo alle
seguenti leggi fondamentali: (1) Liv., I, 8. - 327 l• Un primo effetto di
questa grande trasformazione, per cui i capi e membri delle varie genti
venivano ad essere cittadini della medesima città, dovette esser quello di far
trasportare nella città e nei rapporti fra i quiriti quelle istituzioni e quei
concetti giuridici, che si erano formati nei rapporti fra le varie genti e
specialmente fra i capi delle medesime. Tutti i concetti pertanto, che apparte
nevano ai iura gentium, diventarono proprii del ius quiritium; cosicchè il
commercium, il connubium, l'actio, da rapporti fra le varie genti e i loro
capi, diventarono rapporti fra i quiriti; donde la spiegazione di quelle
solennità di carattere gentilizio, che ancora si mantengono nel diritto
primitivo diRoma. Processo più naturale di questo non sarebbesi potuto seguire,
poichè colla formazione della città i capi di famiglia e delle genti, che prima
erano indi pendenti, vennero a cambiarsi in quiriti, e quindi il loro diritto
di internazionale ed esterno, quale era prima, doveva cambiarsi in di ritto quiritario
ed interno. 2º Una seconda conseguenza poi dovette essere eziandio che questi
concetti, così trapiantati dai rapporti fra le genti, nei rapporti fra i
quiriti o membri della stessa civitas, i quali prima avevano solo avuto uno
svolgimento estensivo, poterono ricevere uno svolgimento inten sido, e
cambiarsi in altrettante propaggini, da cui scaturirono le varie forme del ius
quiritium. Dal connubium potè uscire il ius connubii con tutte le conseguenze
delle iustae nuptiae, che consistono nella manus, nella potestas, nel mancipium,
nella successione e nella tutela legittima: le quali naturalmente non poterono
in questo periodo ispi rarsi, che ai concetti dell'organizzazione gentilizia.
Il commercium parimenti si esplico nel ius commercii, con tutte le sue varie
gra dazioni del comprare e del vendere (mancipium ), dell'obbligarsi (nexum ) e
del poter ricevere o disporre per testamento (testamenti factio). Così pure
l'actio sacramento, che era una procedura fra i capi di famiglia indipendenti,
nel seno delle tribù, potè conver tirsi in una procedura fra quiriti, e siccome
eravi un magistrato, a cui si apparteneva di pronunziare circa il ius, che si
manteneva distinto dall'iudicium, così fu naturale, che accanto all'actio sacra
mento si svolgesse eziandio la iudicis postulatio (1). 3º Infine una terza
conseguenza di questa trasformazione dovette (1) È da vedersi in proposito
quanto si disse nel capitolo precedente nº. 244, pag. 298 e segg. 328
consistere in ciò, che le istituzioni, cosi trapiantate nella città, es sendo
staccate dall'ambiente, in cui si erano formate, si trovarono libere dai
vincoli, in cui prima erano trattenute, e poterono cosi ricevere tutto lo
svolgimento, a cui le portava il proprio concetto informatore. Ciascuna di esse
si ridusse in certo modo ad essere una concezione astratta; e potè così essere
sottoposta a quegli speciali processi e a quelle analisi, che sono proprii
della logica giuridica (iuris ratio ). Per tal guisa venne ad essere
un'astrazione il quirite, perchè esso non è più tutto l'uomo, ma è l'uomo
considerato sotto l'aspetto speciale dei diritti e delle obbligazioni, che gli
incombono come cit tadino; fu un ' astrazione il potere giuridico (manus)
attribuito al medesimo, in quanto che esso è concepito senza le limitazioni esi
stenti nel costume. Di qui la conseguenza, che egli come capo di famiglia (pater
familias) giuridicamente la riassume in sè stesso, e ha il ius vitae et necis
sulla moglie, sui figli, sugli schiavi; come proprietario può disporre in
qualsiasi guisa delle proprie cose; come creditore può appropriarsi e perfino
dividere il corpo del debitore. Per tal guisa tutto il diritto primitivo di
Roma è già il frutto di un'astrazione, cioè di una specie di isolamento
dell'elemento giuridico dagli altri elementi della vita sociale, per cui ogni
istituzione può ricevere quello svolgimento logico e dialettico, che
costituisce la ca ratteristica del diritto romano, e ne costituisce la superiorità
sopra tutte le altre legislazioni. Il diritto romano infatti, fin dai proprii
esordii, è uscito bensi dalla realtà dei fatti, ma fece ben presto astrazione
da essi e diede uno svolgimento logico alle proprie istitu zioni, le quali
perciò diventarono istituzioni tipiche, e poterono essere portate dapertutto,
perchè la logica è di tutti i popoli e di tutti i tempi. Fu mediante questo
processo; che i Romani poterono essere per il diritto ciò, che i Greci furono
per l'arte, e questo segreto essi già lo possedevano fin dalla prima formazione
della propria città, e continuarono sempre ad applicarlo, senza curarsi di
darne nelle opere loro una spiegazione, che sarebbe stata inutile, perchè
trattasi di un genio originario e nativo, che può essere intuito, ma non
insegnato. Tutte queste conseguenze del nuovo stato di cose poterono rica -
varsi senza bisogno di apposita legislazione, per opera di una logica istintiva
e naturale, sentita universalmente da un popolo, che mi rava diritto al proprio
scopo, e che, poste le premesse, sapeva deri varne le conseguenze. 329 267.
Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a cui potevano esistervi
divergenze nelle istituzioni particolari delle varie tribù, ed in questi
argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap parire le traccie di
una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci pervenuta nelle sue
fattezze genuine: ma che intanto non merita punto di essere senz'altro
respinta, come una creazione di tempi posteriori (1). Essa porta in sè
un'impronta efficace di verità, in quanto che si presenta con un carattere del
tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione gentilizia, e le
cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola religiosa; del
che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo insieme i rottami,
che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che si riferisce al
diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. § 5. – La famiglia e la
proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto privato
l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle reliquie delle
leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia. È evidente, che essa riducesi
in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione gentilizia, che viene ad
essere portato nel seno della città. Ma intanto separata dall'orga nizzazione
gentilizia, in cui erasi formata, e dalla quale era tempe rata in qualche
parte, presentasi con linee così rigide e precise, da riuscire a noi pressochè
incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in cui dovette formarsi. Dei
varii modi, in cui questa famiglia potrà essere fondata, le leggi regie non ne
ricordano che un solo, e questo è la cerimonia re ligiosa della confarreatio,
la quale già conosciuta probabilmente alle genti delle varie tribù può
benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e riconosciuta per il
matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice, che Romolo avrebbe condotto
all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe stabilito: « uxorem,
quae nuptiis (1) La vera causa di questa critica, che tutto nega, relativamente
alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto, che il popolo fondatore
della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho cercato di dimostrare il
contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile, che un popolo, che si
presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già elaborati, fosse in
condizione tale da prendere una parte effettiva, anche nella formazione delle
leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti convenisset, commu nionem
cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum ». Noi ab biamo qui il matrimonio
primitivo, esclusivamente patrizio, accom pagnato da una cerimonia religiosa;
esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla testimonianza di dieci
testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è ripartita ciascuna tribù
primitiva; produce la comunione delle cose divine ed umane; e intanto riduce in
certo modo la moglie in posizione di figlia, rimpetto al marito; il che però
non toglie, che essa gli sia compagna nel culto domestico. È al marito, che
appartiene la giurisdizione sulla moglie pei delitti, che essa compie; anzi due
fra essi, l'adulterio ed il bere vino (per causa che proba bilmente può
riferirsi a qualche rito religioso ) possono essere puniti di morte: ma egli
deve perciò essere circondato dal tribunale dome stico, il quale è ancora una istituzione
eminentemente gentilizia (1). Il vincolo matrimoniale, stretto coll'intervento
della religione, è per per sua natura indissolubile, in quanto che non potrebbe
compren dersi, che una moglie, che è figlia al marito, possa far divorzio da
esso. Di qui una legge, che Dionisio chiama dura, la quale nega alla moglie
difar divorzio dal marito;ma intanto questi può ripudiarla,ma solo per cause
determinate, quali sarebbero il venefizio commesso a danno della prole, la
sottrazione delle chiavi e l'adulterio. Che se il marito abbandoni la moglie
per altre cause, dei suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà alla
moglie, l'altra sarà sacra a Cerere: che se egli la venda, dovrà essere
immolato agli dei infernali (2 ). Qui pertanto il potere del marito sulla
moglie ha ancora tutti i caratteri del periodo gentilizio; ma le cerimonie
religiose, che forse potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono
ad essere unificate e son tutte ridotte alla confarreatio; son fissati i casi
per il ripudio; e sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla (1)
Le disposizioni attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci
furono conservate da Dionisio, II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns,
Fontes, pag. 6. (2) Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium,
è ricordata da PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente
l'argomento, già co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico
matrimonio per confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium, nel
senso vero della parola; il quale dovette avere origine dal divertere della
moglie dalla casa del marito nel matri monio sine manu, e poi si concretò in
una istituzione giuridica, che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr.
Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit,
pag. 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume
un carattere più sacro, la quale è cosi concepita: « paelex aram Iunonis ne
tangito; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito »: la
qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da
Festo, secondo cui suonerebbe la donna « quae uxorem habenti nubebat » ),
significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna
non poteva entrare nella casa, ed accostarsi all'altare di Giunone, protettrice
appunto delle giuste nozze; in caso contrario doveva sacrificarsi una
piacularis hostia (agnum foeminam caedito) (1). 269. Lo stesso è a dirsi della
patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva tutta
la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio, e la facoltà di
venderlo fino a tre volte per trarne profitto; alla qual legge se ne aggiunge
un'altra di Numa, secondo cui il padre, che abbia consentito alle nozze confar
reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose divine ed umane,
più non è in facoltà di venderlo. Devono poi i padri educare tutta la prole
maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte niun feto
minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato, nel qual caso deve prima
essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo operato;
disposizione questa, che richiama ancora le consuetudini proprie della vita
patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in giudici ed
in consi glieri (2). Alle leggi relative a quest'ordine di idee può eziandio ri
chiamarsi quella, attribuita a Numa, secondo cui se una donna fosse morta in
istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non se fosse
estratto il feto: alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con molta
verisomiglianza, quel passo di lex regia, conserva toci da Paolo Diacono,
secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto (3). (1)
Festo, v ° Paelices (Bruns, Fontes, pag. 350). Tutti i passi relativi possono
vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig, 1876, § 2º, pag. 8.
(2 ) Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà, sono ricordate da
Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15; II, 27. Quella attribuita a Numa è pur ricordata
da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel Bruns, Fontes, pag.
7 e 9. (3) A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO, L. 2, Dig. (11, 8):
mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº aliuta. Il Voigt ritiene
doversi combinare i due frammenti in una sola legge, Über die leges regiae, 8
13, pag. 75. 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento religioso e politico
della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la protezione del fas, in
quanto che i figli, i quali maltrattino i genitori, e la nuora, che venga a
cattivi trattamenti verso la suocera, mettendo cosi in non cale il rispetto
dovuto all'età, incorrono nella capitis sacratio; la quale è pure la pena, in
cui incorre il patrono, che faccia frode al proprio cliente, e ogni altro, che
venga meno alle disposizioni re lative all'ordinamento della famiglia (1). 270.
Per quello poi, che si riferisce alla proprietà, nulla ci fu con servato circa
il carattere intimo della medesima; ma dalle disposi zioni, che Dionisio
attribuisce a Romolo relativamente alla clientela, e dall'incarico, che secondo
Festo sarebbesi da Romolo affidato ai patres o senatori, di fare assegni di
terre agli uomini di bassa condizione (tenuioribus), è lecito di inferire, che
la proprietà con tinua in parte ad avere un carattere gentilizio, e che in
questo periodo ancora si mantengono quelle proprietà o possessioni collet tive,
sulle quali si possono fare degli assegni ai clienti (2). Tuttavia nell'interno
della città vediamo già comparire netta e decisa l' isti tuzione della
proprietà privata. In virtù di una legge attribuita a Numa, quel dio Termine,
che un tempo separava i confini fra i ter ritori delle varie genti e delle
varie tribù, viene a ripartire e a consacrare la proprietà fra i quiriti, i
quali hanno già una proprietà individuale e privata, rappresentata dal proprio
heredium. Per tal modo la terminazione, che prima esisteva fra i territorii
gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si fa nel ius foeciale alle
divinità patrone dei confin., viene a cambiarsi anch'essa in una istituzione
quiritaria, e si introduce così la terminazione fra le proprietà private. Tutti
quindi son tenuti a porre dei termini al proprio campo, e questi sono
consacrati a Giove Termine; colui, pertanto che li ri. muova o li trasporti da
un sito all'altro, sarà soggetto alla capitis sacratio (3 ). (1) Così,ad
esempio, secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, pag. 7, nota 6, una legge,
attribuita a Tullo Ostilio, sarebbe così concepita < si parentem puer
verberit, ast olle (ille) plorasset, puer divis parentum, sacer estod; si nurus,
sacra divis pa rentum estod. » Per i divi parentum si intendono poi i diï
manes, Cfr. Voigt, Op. cit., § 7, pag. 41. (2) Dion., II, 9; Cic., De rep., II,
9; Festo, vº Patres (Bruns, pag. 372). (3) Dion., II, 74; Festo, pº Termino.
Cfr. Voiat, Op. cit., $ 9, pag. 48. 333 Certo queste son tutte disposizioni di
legge, che consacrano isti tuzioni, che vivevano nella consuetudine e nelle
tradizioni; ma punto non ripugna, che, trattandosi di genti, le cui istituzioni
nei partico lari potevano essere diverse, le medesime abbiano anche potuto fare
argomento di disposizioni legislative, elaborate dai pontefici, pro poste dal
re, appoggiate dal senato, ed approvate dalle curie. Quanto alla sanzione
religiosa, che accompagna ciascuna legge, essa si spiega facilmente, se si
tiene conto del carattere religioso del popolo delle curiae, il quale esce
allora allora dall'organizzazione gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano
rivestite di un ' aureola religiosa e sacra. Solo ci resta a vedere quali siano
le traccie, che ci pervennero della legislazione penale primitiva di Roma
patrizia, alla quale occorre una trattazione speciale per il peculiare
svolgimento, che ebbe a ri cevere, e per le molte discussioni, a cui diede
occasione. § 6. – Le origini della legislazione criminale in Roma e
specialmente del parricidium e della perduellio. 271. Per quanto la
legislazione criminale primitiva di Roma sia quella parte del suo diritto,
dicui giunsero a noi più scarse reliquie, tuttavia anche queste poche sono
tali, che ricomposte possono ad ditarci, come anche in essa siasi effettuato un
lento e graduato pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla convivenza
civile e politica. Anche il delitto nel periodo regio ritiene ancora quel
carattere, che aveva assunto presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro
gli uomini e contro l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è
poi sopratutto un'offesa contro la divinità. Chi l'abbia com messo di proposito
(dolo sciens), di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla
consecratio bonorum; mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza
(imprudens) egli e la famiglia di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia
alla famiglia dell'of feso (1). Ciò vuol dire, che il concetto gentilizio del
delitto e della (1) La più notabile distinzione fra il reato doloso e colposo,
che occorra nella legislazione regia, è quella che si desume dalle due leggi
attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella
relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti
termini: « In Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di
peso nel seno della città. Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a
cui accennano le leges regiae; in quanto che non parlasi nè del furto,nè
dell'ingiuria, nè di quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente
preveduti dalle XII Tavole. Ciò non significa certamente, che questi misfatti
fossero ignoti, nè che i medesimi fossero impuniti: ma soltanto, che le leges
publicae (quelle almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato
alla pubblica giurisdizione la repressione di essi; ma avevano continuato a
lasciarli alla prosecuzione dell'offeso, che doveva perciò seguire le pratiche
tradizionali, formatesi nelle tribù, le quali già avevano ricevuta una
consacrazione religiosa (1). 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati
nelle leges regiae, già può introdursi una distinzione; sonovi dei delitti, che
possono essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie, comprendendo anche fra
questi quello contro la proprietà, consistente nella rimozione dei termini;
altri, che sono contro la religione, quale sarebbe l'incesto della Vestale e
l'abbandono dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il nomedi
crimina publica, in quanto che, fin dagli inizii della città, sonovi autorità
incaricate dalla pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi mantiensi
ancora nella propria integrità l'auto rità e la giurisdizione del capo di
famiglia, il quale in certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale domestico;
come pure sono san cite contro di essi pene di carattere sacro e religioso,
comela capitis sacratio e la consecratio bonorum. Quanto ai reati contro la
religione, appare invece la giurisdizione dei pontefici; giurisdizione, che
alcuni autori, fondandosi sul carattere sa crale del delitto e della pena in
questo periodo, avrebbero creduto, che dovesse essere prima estesa in più
larghi confini. Il carattere, che ab biamo trovato nella istituzione del
collegio dei pontefici, per cui esso appare come depositario e custode delle
tradizioni gentilizie, ci impe disce di seguire una tale opinione, in quanto
che il carattere sacrale del delitto e della pena in questo periodo non è
creazione dei pon ut si quis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi,
agnatis eius in contione offerret arietem ». Bruns, Fontes, pag. 10. Cfr., per
ciò che si riferisce all'omicidio involontario, il Voigt, Op. cit., § 11, pag.
64 a 72. (1) Cfr. MUIRIEAD, Histor. Introd., pag. 54 a 55. 335 - tefici, ma è
un carattere proprio di tutte le istituzioni gentilizie, che si mantiene ancora
nel la città esclusivamente patrizia. Del resto la sola giurisdizione
criminale, che gli antichi scrittori attribuiscono ai pontefici, è quella relativa
alle Vestali, la quale per giunta sembra essere una conseguenza della patria
potestà, di cui essi sono rive stiti riguardo alle medesime. Sono quindi i
pontefici, che secondo una legge, che la tradizione attribuisce a Tullo
Ostilio, giudicano dell'in costo delle Vestali, il quale è considerato come un
delitto, che da una parte contamina i sacra publica, e dall'altra provoca la
ven detta di Vesta sopra il popolo. Quindi da una parte sacrificavansi alla dea
la Vestale, nei tempi più antichi col gettarla nel fiume e più tardi
seppellendola viva, e l'amante, flagellandolo fino alla morte, e dall'altra si
facevano sacrifizii di purificazione per la città. Da questo caso in fuori non
trovasi traccia di giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai
pontefici; nè vi ha motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal
momento che presso i romani pareva già enorme questo potere accordato a una
magistratura sacerdotale (1). 273. A noi però importa sopratutto di cercare
come siasi venuto svolgendo il concetto del pubblico delitto; perchè è con esso,
che incomincia l'esercizio del magistero punitivo, per parte dell'autorità
sociale. Già ho accennato altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma
quanto ai misfatti non presentasi svolta fin dai propri inizii; ma viene invece
estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte
alla giurisdizione domestica del capo di famiglia. Qualche cosa di analogo
accade eziandio nello svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi
misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità, compariscono coi nomi di
parricidium e di perduellio; e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero
istituiti due speciali magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum
viri perduellionis; fra i quali intercede perd questa differenza, che mentre i
primiappariscono quali magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere
nominati, caso per caso (2 ). (1) Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain, I, pag.
187. (2 ) Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26, relativo al fatto
dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per quel caso dal re,
mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº
Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti, create « ut de
delictis capitalibus quaererent ». 336 Son pochi i passi, che si riferiscono
all'uno e all'altro misfatto, donde la conseguenza, che non solo gli autori
moderni, ma anche gli storici antichi attribuiscono significazione diversa ai
due vocaboli. È noto infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole
di parricidium l'Orazio, uccisore della propria sorella, Tito Livio parla
invece di perduellio (1). In questa condizione di cose occorre ripren dere in
esami e passi di antichi autori, che sono a noi pervenuti; esa minare le
opinioni principali emesse dagli autori in una questione, che ha una
copiosissima letteratura; e poi cercare di ricomporre i testi che si
riferiscono all'argomento per ricavarne il processo logico e storico, che
dovette essere seguito nella configurazione di questi primitivi misfatti. 274.
Quanto al parricidium, i pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una
certa quale meraviglia, per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva
lasciato senza pena e neppur rite nuto possibile il parricidium, nello stretto
senso della parola, avesse poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di
parricidium, il che sa rebbesi pur fatto da Numa, al quale si attribuisce una
legge, secondo cui: « si quis hominem liberum,dolo sciens,morti duit,
parricidas esto ». Quanto poi alla perduellio si sa con certezza, che questo
vocabolo deriva certamente da perduellis, che in antico significava il nemico,
con cui erasi in guerra, e che il medesimo comprendeva, tanto il tradimento
verso la patria, mediante pratiche tenute col ne mico esterno di essa,
tradimento, che suole essere indicato special mente col vocabolo di proditio;
quanto eziandio le perturbazioni ed i sovvertimenti contro la cosa pubblica,
tentati all'interno, per i quali era specialmente adoperato il vocabolo di
perduellio. Circa quest'ultima però abbiamo una descrizione abbastanza completa
di un primitivo processo per causa di perduellio in Tito Livio, il quale in
questa parte, come ben nota il Bonghi, « sembra dare al proprio racconto un
colorito particolare e diverso dal rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi
espositore preciso delle forme antiche e solenni, con cui sarebbe seguito
questo primitivo giu dizio » (2 ). Furono questa scarsità di passi e questa
incertezza negli antichi au tori, che provocarono molte indagini per spiegare
il fatto, per cui negli (1) Dion., III, 22; Festo, vº Sororium tigillum; Livio,
I, 26. (2) Liv., 1, 26; Bongai, Storia di Roma, I, pag. 102 e pag. 129 e segg.
337 inizii col vocabolo ili parricidium sarebbesi indicato ogni omicidio, ed
anche le cause, per cui gli antichi autori in un medesimo fatto poterono ora
ravvisare il carattere di parricidium, ed ora quello di perduellio (1). Fra le
molte congetture fattesi in proposito sono degne di nota sopratutto le seguenti:
quella messa prima innanzi del Gebauer, ed ora anche seguita dal Voigt, e
pressochè dalla universalità degli au tori tedeschi, secondo la quale a vece di
leggere parricidium si dovrebbe leggere paricidium, cosicchè il vocabolo
verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari o di un eguale (2 ); quella
messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui il vocabolo parricidium
significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un congiunto, ossia un parentis
excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina dal Brüner e poi seguita
damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe dapprima da molti altri
significato soltanto l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e sarebbe
poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi uomo libero (4 ); e da
ultimo quella sostenuta, fra gli altri,dalWalter e dal Maynz, secondo cui idue
termini di parricidium (1) La questione non è recente, ma fu già trattata dagli
antichi criminalisti, e fra gli altri dal Sigoxio, De iudiciis, Cap. XXX, dal
Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono vedersi citati dal CARRARA,
Programma di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, pag. 137, $ 1138. (2 )
Il primo, che sostenne « paricidam esse, qui parem occidit fu il GEBAUER,
Dissertationes academicae, vol. I, pag. 64, § XI, il quale si fondava sul detto
di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi, « omnes homines esse
aequales. » L'opinione era nuova, e fu accolta come osserva il CARRARA, op. e
loc. cit., pressochè universalmente in Germania. Di recente poi il Voigt
aggiunse a questa opinione anche il peso della sua autorità: Über die leges
regiae, pag. 11 a 64, e sopratutto a pag.57, nota 130. L'opinione stessa fu
seguita fra noi anche dall'ARABIA, Princ. di diritto penale, III, pag. 258.
Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso l'espressione « paricidas
esto » significasse « capital esto », cioè condannabile a morte; ma tale
opinione non trovò seguito (Op. cit., § 1139). (3) Tale fu l'opinione messa
innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte.
Casellae, 1839, pag. 433-466; e dal Rein, Das Crimi nalrecht der Römer.
Lipsiae, 1844, pag. 401 e segg. (4 ) L'autore, che a mio avviso sostenne con
grande erudizione, e con un senso vero di romanità, quest'opinione è il BRÜNER
in una dissertazione col titolo « De parricidii crimine et quaestoribux
parricidii », letta il 2 marzo 1857 e riportata negli Acta societatis
scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, pag. 519 a 569. Quest'o pinione è
anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea: « De parricidii
notione apud antiquissimos romanos », Bonnae, 1869, notevole per la rassegna,
che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro pareggiati, e
significherebbero qualsiasi delitto, che per sua natura sia tale da chiamare la
pub blica vendetta, e da eccitare una ripulsione universale (1). 275. Or bene
con tutta la riverenza, che deve certo aversi per un autore cosi benemerito
degli studii sul diritto primitivo, quale è il Voigt, non ritengo, che possa
adottarsi l'opinione da lui seguita, secondo cui parricidium significherebbe il
paris excidium. Anzi. tutto è malagevole di trovare negli esordii di Roma
l'idea di questa parità e di questa uguaglianza giuridica, in quanto che, se si
tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre persone, che abbiano un'assoluta
parità di diritto. Vi ha di più, ed è che, mettendo il concetto della parità a
fondamento della figura criminosa del pa ricidium, ne verrebbe come
conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe paricidium, quando un pari
uccidesse un altro pari, cioè quando cosi l'uccisore che l'ucciso fossero in
condizioni uguali fra di loro; il che certo non può richiedersi. Infine male si
comprende, come questa figura primitiva di reato si venga foggiando sopra un
con cetto puramente astratto, come è quello della uguaglianza, mentre vediamo,
che tutte le altre distinzioni di reati, ed anche le confi gurazioni giuridiche
di altra natura, che compariscono nell'antico diritto, vengono piuttosto ad
essere determinate da circostanze este riori di fatto, come accade dal furtum
manifestum, nec manife stum, conceptum, ed oblatum, ed anche della distinzione
della res mancipii e nec mancipii, come pure delle mancipationes, vindi
cationes, e simili. Cið anche per il motivo, che nel linguaggio pri mitivo si
passa di preferenza da una significazione fisica ad una mo rale, o da una
concreta ad un astratta, di quello che non accada il contrario. Quanto al fatto,
che il vocabolo parricidium e parricidas in certi antichi codici trovisi
scritto paricidium e paricidas, non può avere importanza, quando si consideri,
che nelle leggi arcaiche trovansi soventi le lettere semplici, a vece delle
doppie, come lo di mostra l'antico Senatusconsulto de bacchanalibus » in cui
occor rono le parole esent, velent, bacanal per essent, vellent, baccanal;
quest'argomento del resto è anche distrutto da ciò, che son vi pure (1) Questa
opinione enunziata prima dal WALTER, Storia del diritto romano. Trad. BOLLATI,
8 766, vol. II, pag. 450, fu di recente anche sostenuta dal Maynz, Introd., $
18, 1, pag. 55. Essa però fu vigorosamente confutata dal Koestlin: Die
perduellio unter der römischen Königen. Tubing, 1841, pag. 10-14. 339 dei
codici, in cui occorrono le parole patricidium e patricidas, le quali attestano
cosi anche la materiale derivazione dei due vocaboli da patris excidium. Vero
è, che anche, fra gli antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano
accennare a questa origine del vocabolo; ma non è punto improbabile, che,
allorquando la figura del parricidium aveva già presa altra significazione
nella lex Pom peia de parricidiis, siasi anche allora cercato di spiegare nello
stesso modo, cioè col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo
primitivo, con cui erasi indicato l'homicidium (1). 276. Non può del pari
ammettersi, che il vocabolo parricidium abbia significato dapprima un parentis
excidium, ossia l'uccisione di un congiunto in certi limiti di parentela, e che
poscia siasi esteso a significare l'uccisione di qualsiasi concittadino, anche
per quella specie di parentela, che viene ad esservi fra i cittadini di una me
desima città. Per verità, quando così fosse, il vocabolo di parrici dium
avrebbe avuto fin dapprincipio una significazione, che non cor risponde alla
parola, in quanto che, come nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva
del linguaggio, per indicare l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata
piuttosto l'espressione di parentici dium, che non quella di parricidium, in
cui compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre (2 ). Lo stesso è a
dirsi dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini della
città, significato l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo più
tardi sarebbesi estesa all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione,
sostenuta con logica ed erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più
probabile, e quella che meglio spiega i passi a noi pervenuti, quando non
contrastasse colla testi monianza di Plutarco: singulare est, quod Romulus, cum
nullam in parricidas statuerit poenam, omne homicidium appellavit parricidium.
Qui infatti si direbbe, che Romolo fin dagli inizii (1) Lo scrittore latino,
che sembra far derivare l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed
ucciso, sarebbe ISIDORO, De orig., X, 225, il quale scrisse: « parri cidium et
homicidium, quocumque modo intelligi possunt, cum sint homines homi. nibus
pares »; ma qui è evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine del
vocabolo, ma solo di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile
all'epoca sua. Del resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN,
Das altrömische parricidium. Kiel, 1841, pag. 59. (2) Cfr. Voigt. Op. cit., §
10, pag. 57, nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium
ogni omicidio, e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo
la for mazione della città, la parola fosse stata ristretta a significare
l'uccisione di un padre delle genti patrizie (1). 277. Resta ancora l'opinione
sostenuta fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e
perduellio sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più
gravi misfatti, che si potessero commettere nella comunanza. Vero è, che
soventi nel lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli sintetici, e
comprensivi, che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in guisa da
espri mere solo più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto
primitivo; ma qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due concetti si
svolgono in certo modo paralleli l'uno all'altro, ei due crimini sono
perseguiti da ufficiali diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due
vocaboli, anche questa viene ad essere completamente diversa; poichè, per
formare la figura del parricidium, si riguarda alla persona dell'offeso,
mentre, per formare invece quella della per duellio, si parte invece da quella
dell'offensore, ossia dal vocabolo di perduellis, che nelle origini significava
nemico. Nel parricidium si ha un'offesa contro un privato, che è sottratta alla
privata per secuzione, ed attribuita alla pubblica autorità; mentre nella per
duellio compare già personificata la stessa comunanza collettiva, la quale,
trovando nel proprio seno chi cerca di comprometterne la sicu. rezza, scorge in
esso una somiglianza coi nemici esterni della città, e perciò lo qualifica col
nome stesso, che darebbe al nemico, con cui trovisi in aperta ostilità. 278.
Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che compariscono in
Roma primitiva, possano essere spiegate in modo assai più verosimile, quando si
tenga conto, che la città risulto dalla confederazione delle tribù, e che
percid, colla sua formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù,
vennero a trapiantarsi nella città, colla differenza, che quei concetti, che
prima erano intergen tilizii, per cosi esprimersi, diventarono invece concetti
interqui ritarii, e ricevettero cosi una significazione diversa, per il diverso
punto di vista, sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è provato (1)
PLUTARCO, Romulus, 22. - - - 341 - da questo che, appena Roma è fondata, già
presentansi formati così il concetto del parricidium, che quello della
perduellio; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo
Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi
criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa, che queste due figure di
reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia, e che il
parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia
o di una gente: la quale uccisione costituiva l'unico misfatto, che non
dipendesse dalla giurisdizione domestica, e che dovette per il primo essere
punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di
guerra fra le genti; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità
fra gente e gente (1). Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia
entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium
si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque
partecipasso alla comunanza, tanto più che i partecipi di essa dapprima erano
veri padri, e che la perduellio, mentre prima significava le ostilità fra le
genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città,
poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini.
Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia, ma anche
altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di
qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene
cosi ad essere natural mente spiegato ciò, che ci attesta Plutarco: che Romolo,
senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia mato
ogni omicidio parricidium: in quanto che quello, che era parri cidio nei
rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un
quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città; al modo
stesso, che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico
dell'intiera comunanza, nel seno della città. Solo potrebbe notarsi, che non si
deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione ad
un'altra: ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu pressochè
in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che simili
trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual volta
hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un caso ad
un altro; come lo dimostra il ius Latii, che (1) V. Festo, vº Hostis (Bruns,
Fontes, pag. 340). 342 trovato pei latini fu poi dai Romani applicato a popoli
ed a genti, che non avevano più nulla a fare con essi. Era poi naturale, che
quell'estendersi, che aveva luogo nella significazione del parricidium, a
misura che la figura del cittadino e quella dell'uomo libero si ve nivano
sostituendo a quella del padre, dovesse pure avverarsi quanto ai quaestores
parricidii, il cui compito si viene così allargando, finchè più tardi il
vocabolo apparisce disadatto, ed in allora sembra siansi sostituiti ai medesimi
i tres viri capitales (1). 279. Intanto però nulla potè impedire, che, accanto
alparricidium pubblicamente perseguito e che mutasi a poco a poco in homicidium,
potesse ancora sussistere la configurazione tradizionale del massimo dei
misfatti, che consiste nell'uccisione di un genitore, operata per mano di un
figlio o di una figlia. La sua stessa enormità ed infre quenza spiega come
negli esordii Romolo, al pari di Solone, non l'abbia contemplato: ma intanto,
se per avventura accadeva, veniva ad essere punito con pene tradizionali, che
cogli accessorii stessi, da cui erano accompagnate, cercavano di simboleggiare
l'enormezza del delitto. Fu soltanto allorchè questo triste misfatto diventò ab
bastanza frequente per la corruzione dei costumi, che la punizione di esso,
prima conservata nella tradizione e nel costume, penetro anche nella
legge, che dovette anche punire il parricidium in senso stretto, dandogli
tuttavia una significazione più larga, comprenden dovi cioè qualsiasi uccisione
di un parente o di un congiunto in certi confini di parentela, e a tal uopo far
rivivere l'antica pena tradizionale. Fu allora, che il vocabolo di parricidium
abban donò il semplice omicidio per venire ad indicare l'uccisione di un
parente e di un congiunto, il che appunto si fece colla legge Pom (1) Questa
trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8 7. Parmi tuttavia,
che essa fosse una naturale conseguenza dell'estendersi della competenza dei
quaestores parricidië, e del processo seguito dai Romani nello svolgimento
delle proprie istituzioni. Essa poi sembrami anche una conseguenza della
diffinizione da taci da Festo: « quaestores parricidii, appellantur, qui
solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum ». Non sarebbe poi qui il
caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii del periodo regio,
ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la medesima origine: ma
ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla di improbabile,
allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle funzioni, che erano
talora affidate allo stesso magistrato. Cfr. al riguardo il Villems, Le droit
public romain, pag. 303, nota 3. - 343 peia de parricidiis. Tuttavia, per il
vocabolo di parricidium, alla significazione più ristretta, che esso viene ad
assumere, sopravvive ancora un'altra significazione, non compiutamente
giuridica, ma piut tosto oratoria, per cui parricidas viene ad essere chiamato
il tradi tore della patria, l'oltraggiatore dei templi, quegli insomma, che col
proprio delitto abbia violato uno di quei doveri, che hanno un ca rattere sacro
per l'umanità (1). 280. Solo più resta a spiegare il fatto, per cui un medesimo
de litto, quello cioè dell'Orazio, uccisore della propria sorella, abbia po
tuto essere qualificato come perduellio da Livio, e invece sia riguar dato qual
parricidium da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo, che il fatto
dell'Orazio, quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un carattere
molto dubbioso. Da una parte eravi per certo l'uccisione di una persona libera,
e quindi occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa; ma dall'altra
l'uccisione era stata commessa, allorchè il popolo seguiva in massa l'Orazio
vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe stata da lui
inflitta, come pena contro coloro, che piangevano la morte di un nemico della
patria. L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria, aveva usurpato
un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel momento aveva
operato, come un perduellis, come una persona, che si era posta al disopra
delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che plaude il
vincitore, trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi, che, in
base a quella distin zione fondamentale della primitiva procedura nel ius e nel
iudicium, viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si tratti. In
darno il padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione per
trattarsi di un misfatto, che erasi compiuto da un suo figlio contro una sua
figlia; qui il re ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e
quindi ritiene trattarsi di perduellio e conchiude: « duum viros, qui Horatio
perduellionem iudicent, secundum legem facio ». Dura era la legge relativa al
perduelle, in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva
avere avvolto il capo, essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a
colpi di verghe, (1) Cfr. BRÜNER, Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che
parla di parricidium patriae, civium, e scrive: « sacrum, sacrove commendatum,
qui clepserit rapsitve parricida esto ». Cfr. CARRARA,Op. cit., § 1139. 344 «
intra pomoerium vel extra pomoerium ». Il tenore della legge era quindi tale,
che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava al littore «
colliga manus» quando l'Orazio propone appello al popolo, il quale l'assolve in
memoria del fatto compiuto, e sotto l'e sortazione del padre stesso, che viene
esclamando fra la folla, che la propria figlia era stata iure caesam. Tuttavia
l'Orazio, anche assolto, fu costretto a passare sotto il giogo, donde
l'erezione del tigillum sororium, e la sua gente, secondo Dionisio, dovette
anche offrire una piacularis hostia in base alla legge di Numa, che prevedeva
il caso di un omicidio commesso per imprudenza. Anche in ciò abbiamo un indizio
del dubbio, che si era presentato intorno al carattere del misfatto, poichè il
passare sotto il giogo era certo la pena, a cui era sottoposto il nemico vinto,
e il sacrifizio dell'ariete era imposto alla gente per causa dell'omicidio
involontario (1). 281. Tuttavia, a mio avviso, la ragione che rende più
verosimile la spiegazione premessa intorno alle origini del diritto criminale
in Roma, sta sopratutto in ciò, che in questa parte sarebbesi seguito quel
medesimo processo, che abbiamo potuto constatare in tutto il rimanente. I
concetti già elaborati nella tribù sono trapiantati dalla città, al modo stesso
che più tardi dalla città saranno portati ed estesi a tutto il mondo
conquistato, e per tal modo di concetti intergentilizii, diventano concetti
quiritarii, al modo stesso che più tardi i concetti quiritarii, ricevendo un
nuovo contenuto, di venteranno poi di nuovo universali e comuni a tutte le
genti. (1) A questo proposito tolgo dal Bongai, Storia di Roma. I, pag. 132,
nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra confermare l'opinione qui
sostenuta: « Horatium, quum supplicium de sorore indemnata sumpsisset, eaque
caede et ius regis ac populi imminuisset, visum esse adversus ipsam rempublicam
adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo parricidii, teneretur ». Osserverò
poi per mio conto la singolarità del fatto, per cui il perduelle, considerato
come nemico interno, viene ad essere assoggettato alla pena stessa del nemico
esterno, cioè fatto passare sotto il giogo, quasi in segno di sottomissione
forzata alle leggidella patria; altra prova, che non solo si tolse
dall'ostilità esterna la figura della perduellio, ma in parte anche la pena,
con cui essa era punita. Insomma perduellis significava il nemico nei rap porti
fra le varie genti; ma quando i membri delle genti diventarono cittadini della
stessa comunanza, diventò il nemico interno della medesima, e il nemico esterno
si chiamò hostis. 345 Intanto anche in questa parte il parricidium e la
perduellio sono due nozioni, il cui contenuto non è ancora ben determinato, ma
al pari di tutti i primitivi concetti quiritarii appariscono come due co
struzioni logiche, che si verranno svolgendo col tempo. Di qui con seguita, che
il parricidium finirà per allargarsi per modo da com prendere tutte le offese
contro il libero cittadino, che giungono a produrre la morte di lui: mentre la
perduellio finirà per compren dere tutti i reati contro lo Stato, e quando
questo si concentrerà nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen
lesae maie statis. È quindi fino da quest'epoca, che comincia ad apparire la di
stinzione fra il reato comune e il reato politico; ed è fin d'allora, che si
sente l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati
politici propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la
sintesi dei reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi
i delitti privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio, diventerà
poi fondamentale nella legislazione decemvirale. Intanto le cose premesse
bastano per dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una
giurisdizione e di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione
criminale fu il risul tato di una sottrazione lenta e graduata, che l'autorità
pubblica venne facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi
pubblici delitti furono due figure di misfatti, che già preesistevano
nell'organizzazione gentilizia, le quali, sebbene continuino ad essere indicate
cogli stessi vocaboli, assumono però una significazione di versa. Di più anche
nella primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza
sintetica, che già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della
costituzione politica, e che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi
del diritto quiritario. Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che
il diritto penale, allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una
potente selezione ed elaborazione, fatta sui materiali somministrati
dall'anteriore orga uizzazione gentilizia. I concetti del diritto primitivo di
Roma sono altrettante sintesi potenti, in cui i fondatori della città cercano
di scegliere e di con densare ciò, che hanno appreso nel periodo precedente.
Ora più non ci resta che ad esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di
diritto pubblico, che di diritto privato. La condizione dei clienti e della
plebe in Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose premesse
dimostrano ad evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica di Roma, e
quella legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque re,
debbono ritenersi di origine esclusivamente patrizia, in quanto che si riducono
in so stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali, trapian
tati nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento, ed a prendere una
nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a determinarsi quale
potesse essere in questo periodo la condizione giuridica delle classi
inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente distinti i
clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si riferisce ai
clienti, la loro posizione giu ridica, in questo primitivo stadio della città,
non viene ancora ad essere modificata, in quanto che essi continuano sempre ad
apparte nere più alla gente, che alla città: perciò essi, per quanto si può
ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli obblighi fra patrono e
cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio, continuano ad avere gli stessi
diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il periodo
gentilizio (1). Essi quindi non hanno ancora una vera proprietà, ma continuano
a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di precario sugli agri gentilizii;
ne pos sono parimenti far valere direttamente le proprie ragioni davanti al
magistrato della città, ma perciò debbono valersi della protezione e degli
uffici del patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo primo
stadio essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene un
gran numero di autori (2 ). Le curie sono (1) Dion., II, 10. Cfr. quanto si
espose intorno alla clientela, nel Lib. I, Cap. III, § 3º, pag. 46 a 52. (2)
Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain, pag. 46 e seg. e del
PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 48 e seg., nota 2. Il prof.
COGLIOLO nella sua nota nº d, pag. 50, non approva intieramente l'opinione del
Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri,
il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere
state aperte a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in
condizione subordinata, anche per il semplice motivo, che, quando così fosse
stato, il numero dei clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto,
avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in
occasione di guerra anche i gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi
dipendono ancora più dal cenno di esso, di quello che dipendano direttamente
dallo Stato. Sarebbe in fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non
possono ancora stare in giudizio, potessero concorrere direttamente alla
elezione del re ed alla votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che
abbiano interposto appello al popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana,
che, ponendo il censo a base della partecipazione ai ca richi civili e
militari, obbligherà i padri delle genti a fare conces sioni di terre in
proprietà ai propri clienti, per avere cosi un ap poggio nelle votazioni dei
comizii centuriati, ed è da quest'epoca che cominciano a sentirsi le lagnanze
dei plebei, perchè i padri appoggiati dai loro clienti riescono a dominare le
votazioni nei co mizii centuriati (1). In questo senso la costituzione Serviana
fu quella, che diede il gran colpo alla clientela, e con essa alla
organizzazione gentilizia, perchè da quel momento anche i padri furono tenuti a
fare concessioni di terre in proprietà ai proprii clienti, i quali acqui
starono così una indipendenza economica dai patroni, che fu anche il principio
della loro indipendenza politica; donde la conseguenza chemolti fra essi sono
poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad appoggiare le
pretensioni di essa. 284. Intanto peró la questione, la cui risoluzione è
assolutamente indispensabile per comprendere la storia politica e giuridica di
Roma primitiva, è quella relativa alla condizione giuridica della plebe sotto i
primi re, così sotto l'aspetto del diritto pubblico, che sotto quello del
diritto privato. Il grande avvenire della plebe romana rese per gli storici di
Roma assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai tempi (1) Che
le lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza, che essi re
cavano al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati, appare dal seguente
passo di Livo, II, 64: « irata plebs inesse consularibus comitiis noluit; per
patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et P. Servilius
». 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del foro, po
tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è che
essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii
curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla
nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella
primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa. Essi
quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi
avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito, cioè
inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia, malgrado quest'attestazione concorde,
dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del
Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo
della città patrizia. La loro opinione trovò favorevole accoglimento; ma in
questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato, che vi fu un tempo, in cui
dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il
dubbio, che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie. Che anzi,
siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione,
vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a
sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città.
Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono sulle
fonti le origini della città, come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il
Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una
città esclusivamente patrizia, ed alla esclusione della plebe primitiva dal far
parte dell'assemblea delle curie (1). 285. Non è qui il caso di entrare in
discussioni erudite sull'argo (1) L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche
seguita dal WILLEMS, Op. cit., pag. 47 e segg.; dal LANDUCCI, Storia del
diritto romano, pag. 357, nota nº 2; dal Peluam, Encyclop. Britann., vol. XX,
pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli argomenti
in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare, che se la sua
autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto quanto
al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii dell'opera,
col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e che lo studio
delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo ed allo
storico, ma è molto sterile per il giurisprudente » (pag. 4 ). Ciò spiega come
l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto dello studio
delle origini, sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò
quell'argomento, come può scorgersi quanto alle origini della famiglia, della
proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera
sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia, donde pro
ceda. Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo, che intese a supplirvi colle
proprie note. 349 mento; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo,
che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile, che
la plebs abbia potuto essere ammessa, fin dagli inizii, alla civitas e quindi
anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I
cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive, perchè un
elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un
tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi
organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un
piede di uguaglianza, in guisa da entrare a far parte della civitas e della
curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche, erano anche
corporazioni strette dal vincolo di una religione, chenon era ancora accomunata
alla plebe. È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che è
sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra essi
fosse mai stato servo nè cliente, potesse diun tratto accettare un voto del
tutto eguale con un plebeo, che poteva forse essere stato prima suo cliente o
suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e non poteva
indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle genti
primitive, che non conoscendo altro vincolo, che quello del sangue, dånno
sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano, che
quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le
collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento completo
del loro ordine colla moltitudine o folla, da cui si trovavano circondati.
Questa pa rità, secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva essere am
messa dal patriziato, nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale trovavasi
ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a credersi, che il
patriziato primitivo, fondatore della città, volesse per generosità accordare
spontaneamente cid, che era ancora in condizione di negare, e che non concesse,
che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto più improbabile, in quanto
che la curia, come abbiamo dimostrato a suo tempo, era chiamata eziandio a
deliberare sopra una quantità di affari, che si riferivano direttamente
all'organizzazione domestica e gentilizia loro esclusivamente propria; poichè
il quirite in questo periodo da una parte guarda ancora alla gente, da cui
esce, e dall'altra alla città, di cui entra a far parte. 286. Quanto al fatto,
che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati ammessi alle
curie, esso può essere facilmente spie gato. La lunga convivenza nelle stesse
mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi; anche i plebei vennero
imitando l'or ganizzazione del patriziato; e non mancarono anche le famiglie,
che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza politica, eco
nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche delle poche
famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo stesso, che più tardi anche
i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi; cosi non è
meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli auspicii ed ai
sacerdozii, abbia potcui esce, e dall'altra alla città, di cui entra a far
parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350
anche stati ammessi alle curie, esso può essere facilmente spie gato. La lunga
convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi;
anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato; e non
mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per
importanza politica, eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a
fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie. Quindi al modo
stesso, che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii
tributi; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori,
agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potuto essere am messa anche alle curie,
la cui importanza non era più che religiosa. Un tal fatto venne certo ad essere
possibile più tardi; ma l'ammet terlo fin dagli inizii, è uno sconvolgere ed
invertire ilmodo di pensare dell'epoca e l'ordine degli avvenimenti.
Sarebbe infatti un fare co minciare l'unione del patriziato e della plebe dal
partecipare ad una stessa corporazione religiosa; mentre i fatti dimostrano,
che questa fu l'ultima parte delle loro tradizioni, che si decisero ad
accomunare alla plebe. Se quindi la plebe riuscì a penetrare nella civitas ciò
non dovette essere mediante le curiae, che avevano ancora un ca rattere religioso,
ed erano formate ex hominum generibus; ma bensi per mezzo delle classi e delle
centurie, che avevano piuttosto un carattere militare, e si fondavano sulla
proprietà e sul censo. Le cause, che cooperarono più tardi a ravvicinare i due
ordini, furono sopratutto i comuni pericoli, che obbligarono la città patrizia
ad arruolare nell'esercito i plebei, al modo stesso che dovette arruolare più
tardi anche i liberti; come pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure
acquistata dalla plebe ed i conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e
il patriziato; ed è forse questo il motivo, per cui la costituzione Serviana
assunse dapprima un carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al
fatto allegato dai sostenitori del l'opinione contraria, che il vocabolo
populus romanus quiritium abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può
essere facilmente spiegato, in quanto non è questo il solo caso, in cui i
Romani, man tenendo la parola, ne mutassero il significato. Del resto il
vocabolo populus per Roma era una concezione e forma logica, al pari di tutte
le altre concezioni giuridiche e politiche; esso comprendeva l'uni versalità
dei cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la plebe,
finchè questa non faceva parte della città, cosi doveva comprenderla, allorchè
essa, in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle centurie
Serviane. 351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della storia
primitiva di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in questo
periodo essere la posizione della plebe in tema di diritto privato; il qual
compito ci è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto, come
il ius quiritium, allorchè giunse al suo completo sviluppo, mentre in tema di
diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum, che entrambi,
a nostro avviso, furono dapprima negati alla plebe, in tema invece di diritto
privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii. Quanto al primo di
questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare con
certezza, che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col
patriziato; il che però non significa, che essi non potessero contrarre fra
loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di
fronte al patriziato, produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione
quindi, che suol essere comunemente accolta, è quella secondo cui la plebe
sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii (1). Così avrei
ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato, produrre gli effetti
della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta, è
quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius
commercii (1). Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e può
darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte; ma ora il
processo logico, che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di
ogni informazione diretta, mi conduce ad affermare, che non dovette essere il
ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì
il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra, è quello stesso
diritto, che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad
accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di
forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium, nella larga
significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di
comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium,
suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede.
Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere
compiutamente ai loro bisogni: così non poteva dap prima essere il caso, che
riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di
eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium,
ossia quello di avere una proprietà, che poteva essere alienata, e il ius nexi,
ossia il di (1) Tale è, ad esempio, l'opinione del LANGE, Histoir. intér. de
Rome, I, pag. 61. 352 ritto di potersi obbligare, mediante il nexum. Le
conseguenze pra: tiche nella sostanza potevano essere le stesse; ma intanto la
supe riorità delle genti e il vassallaggio della plebe venivano ad essere
riconosciute. Ed è questo il motivo, che allorquando la plebe fu ammessa nella
città, il nexum ed il mancipium, come accadde anche in tutto il resto,
cessarono di significare dei rapporti fra le genti patrizie e la plebe, che le
circondava, per diventare rapporti interni, e costituirono cosi i primi
concetti quiritarii, comuni alle due classi. Più tardi però, anche questi
vocaboli, che ricordavano una disugua glianza di condizione fra le due classi,
apparvero disadatti, e nella successiva elaborazione del diritto quiritario
furono sostituiti da altri (1). Non può dirsi pertanto, che in questo periodo
siasi già cominciata l'elaborazione di un vero ius civile, ispirato ad un
concetto di ugua glianza fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere
un diritto proprio delle genti patrizie, che parteciparono alla formazione
della città, e che costituisce il primitivo ius quiritium; ed un di ritto che
governa i rapporti fra la città patrizia e la plebe, che la circonda, il quale
si risente ancora delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo
il motivo, per cui la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la
sua esistenza giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo
del diritto pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare,
che influi potente mente su tutto lo svolgimento, che ebbe ad avverarsi più
tardi, e merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato. (1)
Non mi trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen narvi
nel Lib. I, Cap. X, nº 160, pag. 193 e seg., e perchè la prova delle cose qui
enunziate apparirà anche più evidente, quando si tratterà della costituzione
Ser viana e della sua influenza sul diritto privato di Roma. Colla venuta dei Tarquinii
a Roma, si inizia nella medesima una trasformazione profonda, la quale potè in
parte essere travisata dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata
dall'amor patrio degli storici latini, ma i cui principali tratti si possono di
scernere nelle serie degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata
memoria. Fino a quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co
stituire la città, avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le
latine e le sabine, fra le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo;
mentre i Luceres non avevano somministrato alcun re, nè forse avevano avuto
nella formazione dei primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di
origine latina, la gente Tarquinia, di origine etrusca, ricca di capitali e
numerosa per clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi
quello stato, che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa
è uomo abile ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio,
ne guadagna per modo la fiducia, da diventare dopo la sua morte tutore dei
figli di lui, o ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della
propria vita tale un seguito, da essere assunto al trono, mediante il suffragio
del G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e coll'autorità dei
padri: « eum, scrive Livio, ingenti con sensu populus romanus regnare iussit »
(1). Nè sembra essere il caso di supporre col dottissimo OldofredoMüller, che
questa immigrazione di genti etrusche corrisponda alla supre mazia, che la
città di Tarquinia avrebbe conquistata su Roma, su premazia, che gli storici
latini avrebbero cercato di dissimulare (2 ): poichè le nuove genti appariscono
in concordia con tutti gli ordini della città, e il capo di esse, chiamato con
tutte le formalità al trono, raccoglie in effetto tutte le sue cure sulla
patria novella, e l'arricchisce di pubblici edifizii, che allo splendore delle
costruzioni greche ed etrusche sembrano associare quel carattere di grandiosità
e di forza, che è proprio delle costruzioni latine. Sembra quindi più
verosimile, che alcune fra le città etrusche in quell'epoca fossero pervenute a
quel periodo di crisi, che occorre eziandio nelle città greche, durante il
quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo minio fra i capi delle grandi
famiglie, vengono ad esservene di quelle, che sono forzate a cercare altrove
miglior sorte e fortuna. Per un tale intento offerivasi opportuna la città di
Roma, la quale in quel periodo di tempo era ancora disposta ad accogliere nuove
genti nei proprii quadri, e mentre da una parte, per la fortezza già
sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare ad un grande avvenire,
dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto allo splendore dei
pubblici edifizii, sia quanto all'ordinamento mi litare e civile. Di più essa
già conteneva nel proprio seno delle genti di origine etrusca, cosicchè la
nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze, che spiegano l'appoggio
e il seguito, che vi trovarono in breve la gente Tarquinia e il proprio capo
(3). 289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma si manifestano ben tosto i
segni di una trasformazione potente. - Infatti, secondo la tradizione, la sua
popolazione viene ad essere come raddoppiata, ed il nuovo elemento sembra dare
alla città un indirizzo mercantile, come lo dimostra il fatto, che dopo la
dominazione dei Tarquinii (1) Liv., 1, 34; Dion., IV, 2. (2 ) Müller O., Die
Etrusker. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costituz.di Roma, pag. 134, ove si
impugna appunto l'opinione del Müller. (3) L'opinione qui accettata è conforme
a quella, che ho cercato didimostrare più sopra, relativamente agli aumenti nel
numero dei senatori. Lib. II, cap. II, § 5, nn. 212 e 213, pag. 258 e segg. 355
Roma è già in condizione di conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio,
un trattato di navigazione con Cartagine (1). Mentre poi fino a quell'epoca
Roma aveva ancor sempre conser vato il suo carattere primitivo di federazione
fra diverse comunanze, con Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che
potrebbe chia marsi di incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio
avrebbe distribuito spazi intorno al foro, accið i privati vi potessero
costruire le proprie abitazioni, e che in lui era già sorto il pensiero di cin
gere la città di mura, adottando così il tipo delle città etrusche, le quali,
essendo dedite ai commerci, solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie
mura (2 ). A compir l'opera sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri
mitiva fossero modificati, e che alle divisioni di carattere gentilizio se ne
sostituissero altre di carattere territoriale e locale. Cid secondo la
tradizione avrebbe pur tentato Tarquinio, quando non si fosse op posto il
patriziato per mezzo dell'augure sabino Atto Nevio, osser vando che la
primitiva città erasi fondata mediante gli auspicii, e che perciò i quadri di essa
consacrati dalla religione dovevano essere mantenuti (3). Non vi fu quindi
altro mezzo che di fare entrare il nuovo elemento nei quadri antichi, il che
Tarquinio avrebbe cercato di conseguire: lº aggiungendo alle centurie dei
cavalieri, altre centurie, che serbarono il nome antico, ma presero la deno
minazione di Ramnenses, Titienses, e Luceres secundi; 2º ac crescendo il senato
di cento nuovi senatori, che si chiamarono patres minorum gentium; 3º
raddoppiando il numero dei pontefici e degli auguri, e destinando anche alla
custodia ed alla interpretazione dei libri sibillini i duoviri sacris faciundis,
i quali, portati poscia a dieci e più tardi a quindici, finirono per cambiarsi
in un collegio sacerdotale, che sovraintendeva și culti di provenienza
straniera (4 ). (1) La memoria di questo trattato di navigazione, conchiuso nel
primo anno della Repubblica, ci fu serbata da POLIBIO, III, 22, 24, il quale
l'avrebbe tradotto da un latino arcaico, che ai suoi tempi era già diventato
difficile a comprendersi. (2) Liv., I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a
Tarquinio di aver già intrapresa la cinta, che prese poi il nome di Serviana.
(3 ) Liv., I, 36; Dion., III, 70, 72. (4 ) Dron., III, 67; IV, 62. L'istituzione
dei duoviri sacris faciundis ora è attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a
Tarquinio il Superbo. Quanto allo svolgimento storico di questo collegio
sacerdotale è da vedersi il Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination, Paris,
1882, IV, pagg. 286-317, come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris,
1886, pag. 545 e segg. 356 Intanto anche la religione subì l'influenza del
nuovo elemento, ma in proposito fu giustamente osservato, che la religione,
importata da questa immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed
arcano, che vuole essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece
dell'influenza greca, come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e
Giunone (1); il che sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una
città etrusca, potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo
la tradizione sarebbe stata Corinto (2 ). Della plebe quasi non si occupa la
tradizione; ma si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine
avevano ac cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così
quella etrusca dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di
commercianti, di uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad
accrescere la plebe urbana (3). Intanto si accrebbero i mo tivi di
ravvicinamento fra patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era
divenuta un elemento indispensabile per rafforzare l'esercito, e la
cooperazione della plebe urbana era anch'essa necessaria per compiere quelle
opere pubbliche grandiose, che sono la caratteri stica di questo periodo della
storia di Roma, e che erano natural mente richieste dall'ingrandirsi della
città e dal nuovo indirizzo preso dalla medesima. 290. Le cose quindi erano
venute a tale, che coll'ampliarsi della città, anche i quadri del populus
dovevano essere allargati in guisa da potervi comprendere quella parte della
plebe, che ormai per venuta a qualche agiatezza, ed affezionata al suolo da
esso col tivato, poteva avere interesse all'incremento e alla difesa della
città. Fu questa l'opera, che la tradizione ha attribuito a Servio Tullio;
altro re, che appare come trasfigurato dalla leggenda, la quale probabilmente
ha finito anche qui per attribuire all'opera di un solo ciò che ha dovuto
essere l'effetto del concorso di varii elementi, e delle nuove energie e forze
operose, che vennero a (1) Questa osservazione è del PANTALEONI, op. cit., p.
149. (2) È noto che, secondo Livio I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo
diretta mente da Tarquinia, sarebbe tuttavia figlio di un Demarato Corinzio. (3
) Quanto all'incremento della plebe sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve
dersi Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung. Leipzig,
1884, I, pag. 32 e segg. 357 scaturire dal nuovo stato di cose e dal nuovo
indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È dubbia la origine di Servio
Tullio: mentre la tradizione latina, unitamente al carattere della sua riforma,
che appare più una evoluzione che una rivoluzione, lo la scierebbero credere di
origine latina, una tradizione invece, che vigeva presso gli Etruschi, e che ci
fu conservata dall'imperatore Claudio nel preambolo ad un senatusconsulto, lo
direbbe di origine etrusca, e gli attribuirebbe il nome di Mastarna (1). Tutta
l'antichità ad ognimodo è concorde nel riconoscere l'impor tanza della sua
costituzione, poichè è certo che, debbasi ciò attribuire alla sapienza del
principe autore di essa, o alla tenacità del popolo che ebbe a svolgerla, essa
corrisponde a un graduato sviluppo e segna comeun nuovo stadio nella formazione
della città. Essa chiude il pe riodo esclusivamente patrizio, in cui domina
ancora la discendenza e la nascita, ed inizia quello patrizio -plebeo, in cui i
due ordini, dopo essere entrati a far parte del medesimo popolo, sulla base del
censo, finiscono per avviarsi fra le lotte ed i dissidii al pareggia mento
giuridico e politico. Può darsi, che anche altre città abbiano avuta una
costituzione analoga, come, ad esempio, Atene per opera di Solone (2 ); ma non
ve ne ha certamente un'altra, che per la tenacità e la perseveranza degli
ordini, che si trovarono di fronte, abbia saputo ricavarne un più sicuro e
graduato sviluppo. Ben è vero, che anche per Roma vi fu un periodo, in cui
l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo di tirannide; ma nel resi
stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio fu estremo, quello cioè
di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste a repen (1) L'oratio,
che precede il senatusconsulto Claudiano dell'anno 48 dell'êra vol gare de iure
honorum Gallis dando può vedersi nel Bkuns, Fontes, ed. V, p. 177. Ivi
l'erudito imperatore, volendo accogliere nel senato anche dei Galli, fa la
storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito nei suoi varii stadii, e
trova così occa sione di accennare alle due tradizioni relative a Servio
Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di nome Ocresia,
mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca. Le diverse opinioni degli eruditi
sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma indiretta, che
esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche, sono riportate
dal Bonghs, Storia di Roma, I, pag. 201, nota 14. (2) Quanto alle analogie fra
la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le condizioni storiche, che
poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a consultarsi il GROTE, Histoire
de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome IV, chap. 4me, pag. 137 a 216,
come pure l'appendice allo stesso capitolo, in cui discorre della con dizione
dei nexi e degli addicti in Roma antica. - 358 al taglio le libere istituzioni,
malgrado le difficoltà gravissime, in cui venne allora a trovarsi la città.
L'interruzione però non impedì che, superata la crisi, lo svolgimento storico
fosse ripreso punto stesso, a cui erasi arrestato, cosicchè lo spirito della
costituzione serviana pervade non solo l'elaborazione del diritto pubblico, ma
ancora quella del privato. Fu il non averne tenuto conto sufficiente che, a mio
avviso, ha impedito di dare una spiegazione plausibile dei più singolari
caratteri del diritto primitivo di Roma. § 2. – Il concetto ispiratore della
riforma Serviana eimezzi che servirono ad attuarla. 291. Fu abbastanza
dimostrato, che la formazione della città pri mitiva non è un'opera di semplice
agglomerazione, che piglia i ma teriali quali si presentano e li amalgama
confusamente insieme; ma un'opera di selezione, che solo li accetta in quanto
entrano nel suo ordinamento simmetrico e coerente; donde la conseguenza, che se
un mutamento si introduce in una parte essenziale di essa, questo deve pur
riflettersi e riverberarsi nelle altre parti. Ciò apparve nella città patrizia,
e appare ugualmente nella costituzione serviana. Il problema era quello di
unire due popolazioni, che si trovavano, come si è veduto, in condizioni
sociali compiutamente diverse, e di farle entrare a far parte della stessa
comunanza civile, politica e militare. Il fonderle insieme era per il momento
impossibile, perchè la distanza fra di loro. era ancora troppo grande, e certi
istituti, come la religione e i connubii, erano ancora troppo gelosamente
custoditi per poter essere accomunati. Le sole istituzioni, comuni ai due
ordini, erano la proprietà e la famiglia, e il solo inte resse, che li aveva
condotti ad avvicinarsi, era quello di prov vedere insieme alla difesa di sè e
delle proprie terre. Queste sol tanto potevano essere le basi della loro
partecipazione alla medesima città: quindi è che la costituzione serviana,
sebbene allarghi le file del populus, comprendendovi un elemento, che era
escluso dalla città patrizia, finisce però per dare una base più ristretta alla
par tecipazione dei due ordini alla stessa comunanza civile e politica. Mentre
il popolo delle curie aveva comune l'elemento religioso, l'organizzazione
gentilizia, e il culto per le antiche tradizioni; il popolo invece, che esce
dalla costituzione di Servio, viene ad essere composto di capi di famiglia e di
proprietari di terre, che entrano 359 a far parte del medesimo esercito, e più
tardi anche della medesima assemblea, in base alla sola considerazione del
censo, e nell'intento esclusivo di provvedere alla difesa di quegli interessi,
che loro potevano essere comuni. La nuova comunanza pud in certo modo essere
paragonata ad una società, in cui ciascuno viene ad aver diritti ed
obbligazioni proporzionate al proprio censo, il quale viene così ad essere
considerato come una garanzia dell'interesse, che altri può avere all'avvenire
e alla grandezza della città (1). Il nuovo popolo pertanto non ha nulla a fare
colle curie dei patrizii, ai quali continuano ad essere riservati gli auspizii,
i sacerdozii, le magistrature e gli onori; ma viene ad assumere negli inizii
una organizzazione di carattere essenzialmente militare, in cui la parte
cipazione ai diritti e alle obbligazioni della cittadinanza sotto l'aspetto
militare, politico e tributario viene ad essere determinata esclusiva mente dal
censo. In apparenza quindi l'organizzazione per curie delle genti patrizie è
lasciata integra ed intatta; ma intanto a lato della medesima sorge un nucleo
novello, che per essere più numeroso e più forte finirà per richiamare in sè
ogni energia civile, politica e militare, lasciando col tempo alle curie la
sola custodia delle tradi zioni e dei culti gentilizii. 292. È questo il motivo,
per cui la costituzione serviana potè essere apprezzata in guisa compiutamente
diversa, anche dagli an tichi scrittori, i quali la descrivono, ora come
favorevole al patri ziato o almeno alle classi più elevate, ed ora invece come
favorevole alla plebe (2). Essa era tale, che da una parte doveva essere
accetta al patriziato, il quale, mentre riteneva ciò, che era esclusivamente
suo proprio, trovava poi più forte il proprio esercito, più ricco il proprio
erario, più ampia la città, di cui continuava ad avere le magistrature e gli
onori; dall'altra doveva anche essere gradita alla plebe, perchè essa, ancorchè
sulla base esclusiva del censo, veniva (1) Che questo fosse il concetto
informatore della costituzione serviana appare da Aulo Gellio, XVI, cap. 10, n
° 11, il quale dice espressamente che « res pecuniaque « familiaris obsidis
vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque « in patriam fides
quaedam in ea, firmamentumque erat ». Il paragone poi della comunanza
quiritaria, in base alla costituzione serviana, ad una società di azionisti già
occorre nel NIEBHUR, Histoire romaine, II, p. 193. (2 ) Il diverso
apprezzamento,che gli antichi fecero della riforma serviana, apparisce da Cic.,
De rep., II, 22; Liv., 1, 42, 43; Dion., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi,
op. cit., I, pag. 548 e segg. 360 ad acquistare una posizione giuridica, che
prima non aveva, ed è abbastanza noto, che quando trattasi di un'aggregazione
sociale, il passo più difficile è quello di potervi penetrare, poichè dopo la
forza stessa delle cose condurrà ad avervi una posizione adeguata al pro prio
valore. Questo è certo, per quanto appare dalla tradizione, che i due ordini
sembrano essere concordi nell'accettare la costituzione di Servio Tullio, per
guisa che ad opera compiuta gli riconoscono re golarmente quel potere, che
prima aveva esercitato più di fatto, che non di diritto; tantoque consensu,
quanto haud quisquam alius ante, rex est declaratus (1). Intanto la nuova
costituzione appare informata anche essa ad un unico concetto, che è quello di
dare a ciascuno nella città una parte proporzionata all'interesse, che egli può
avere per l'incremento della medesima: interesse, che si ritiene dover essere
misurato dal censo. Quest' unico concetto poi viene incarnandosi nel fatto con
mezzi e con istituzioni diverse, fra i quali sono sopratutto importanti e degni
di nota l'ampliamento delle mura, la ripartizione del territorio in tribù o
regioni locali, l'istituzione del censo e l'organizzazione del nuovo popolo in
classi ed in centurie; istituti questi, che abbozzati negli inizii da mano
maestra, dovranno poi ricevere dalla logica tenace del popolo romano tutto lo
sviluppo, di cui possono essere capaci. 293. Coll’ampliamento delle mura la
città, che prima riducevasi ad un complesso di edifizii, aventi pubblica
destinazione e riuniti in un piccolo spazio, a cui mettevano capo le varie
comunanze, viene a comprendere nella propria cerchia buona parte di tali
comunanze, le loro rispettive fortezze, ed una quantità grande di abitazioni
pri vate. Cresce così il nucleo della popolazione urbana di fronte a quella del
contado; il contatto fra il patriziato e la plebe diviene più intimo e
frequente, e la vita della città concorre così a dissol vere quell'ordinamento
per genti e per clientele, che forse sarebbesi mantenuto stazionario o almeno
più duraturo in seno alle comunanze di villaggio. La città intanto, chiusa e
fortificata nelle proprie mura, difesa da un esercito, il cui contingente viene
ad essere più volte moltiplicato, abitata da un popolo pressochè militarmente
organizzato, assume anch'essa un carattere più decisamente militare e apparisce
(1) Liv., I, 46. 361 paurosa ed imponente alle popolazioni vicine (1). Così
pure è da questo momento, che la vita fra le stesse mura conduce a mescolare e
a confondere il sangue delle varie stirpi, fino a che per mezzo di re ciproci
adattamenti finiranno tutte per concorrere a formare un or ganismo unico e
coerente (2). Quasi poi si direbbe, che i fondatori della nuova città abbiano
una certa consapevolezza dell'avvenire di essa; poichè il nuovo circuito
comprende non solo il Palatino, il Capitolino, il Quirinale, il Celio, il
Gianicolo, ma anche l'Esquilino e il Viminale, alcuni fra i quali sono ancora
spopolati (3 ); cosicchè il pomoerium della città non dovette più essere
ampliato, durante il periodo repubblicano, malgrado gli incrementi, che si
verificarono nella popolazione. A questo riguardo vuolsi però osservare, che
sebbene la città dal tipo latino sembri far passaggio al tipo etrusco, tuttavia
essa au menta bensi il suo nucleo centrale, ma serba ancor sempre i ca ratteri
primitivi della città latina. Infatti non tutta la sua popola zione viene ad
essere accolta nelle sue mura, ma buona parte di essa continua ad essere
dispersa per le campagne e fuori delle mura; cosicchè la città continua sempre
ad essere un centro di vita pub blica per popolazioni, che possono avere
altrove la propria resi denza. Cosi pure in tutta questa trasformazione punto
non parlasi di nuove ripartizioni di terre, se si eccettuano i soliti assegni,
che per consuetudine invalsa i re sogliono fare alla plebe; il che si gnifica
che le famiglie, le genti e le tribù dovettero continuare a ritenere le proprie
terre (4 ). 294. Intanto è evidente, che in una città cosi concepita diveniva
necessario, che all'antica distinzione fondata sull'origine e sulla discen (1 )
L'intento eminentemente militare della cinta serviana è dimostrato anche dal
fatto, che gli intelligenti delle cose militari ritengono che dall'orientamento
di essa si possa perfino argomentare alla situazione delle porte in essa
esistenti. V. BARAT TIERI, Sulle fortificazioni di Roma antica, « Nuova Antologia
», 1887, fascic. 10. (2 ) Questo concetto trovasi efficacemente espresso da
Floro nel passo citato al lib. I, cap. I, nº 10, pag. 10, nota 1. (3)
MIDDLETON, Ancient Rome, pag. 59 e segg. « L'ampliamento delle mura, scrive
NIEBIUR, fu il pensiero di un genio, che confidava nella eternità e negli alti
destini della città, e che aperse la via ai suoi futuri progressi o. Op. cit.,
II, 123. (4 ) Questi assegni fatti da Servio Tullio alla plebe sono attestati
da Livio, I, 46, più chiaramente ancora da Dionisio, IV, 9, allorchè scrive: «
agrum publicum di « visit civibus romanis, qui ob rei domesticae difficultates
aliis, mercedis causa, ser viebant ». e 362 denza si aggiungesse una nuova
ripartizione di carattere locale e ter ritoriale, la quale potesse anche essere
di base per constatare la po polazione, che vi avesse la propria residenza, e
per fissare il tributo, a cui dovesse essere soggetta (tributum ex censu ). Cid
si ottenne col ri partire il territorio in tribù o regioni locali, le quali si
suddivisero poi in rustiche ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono
senz'altro il nome dalle località, e chiamansi così Suburana, Esquilina,
Collina e Palatina: mentre le rustiche continuano per la maggior parte a
prendere il nome dalle genti patrizie, quali sarebbero l'Emilia, la Cornelia,
la Fabia, la Galeria, l'Orazia, la Menenia, Papiria, Pollia, Sergia, Romilia,
Voturia, Voltinia, ed altre; solo eccettuata la tribù Crustumina, che sarebbe
stata la prima ad essere denominata dalla località. Cid indica che nel contado
continud la prevalenza delle genti, che vi tenevano le loro possessioni. Il
numero origi nario delle tribù rustiche non è ben noto, ed anzi, secondo alcuni
storici, fra i quali Livio, le tribù rustiche comparirebbero solo più tardi.
Questo è certo pero, che la ripartizione, anche del ter ritorio rustico, era
una conseguenza del concetto informatore della costituzione serviana, e che il
numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede occasione la cacciata dei
Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio, che ne fu la conseguenza,
appare ri dotto a quello di venti. La cooptazione della gente Claudia
porto le tribù a vent'una, e da quel punto la storia ricorda tutte le date, in
cui la conquista di un nuovo territorio conduce alla for mazione di nuove tribù,
fino al numero di trentacinque, che poi si mantenne immutabile (1). Non è già
con ciò, che Roma non abbia fatte nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi
cittadini si fecero rientrare nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto
una base locale, si mutarono cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere (1)
Mentre Livio, I, 43 attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della
città nelle quattro tribù urbane, Dionisio, IV, 15, invocando la testimonianza
di Fabio, gli attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè
il numero complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di spiegare
comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al numero di
20 soltanto. Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere quella
data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la diminuzione di
varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi guidati da Porsena.
Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca, in cui si vennero aggiungendo le altre
tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a vedersi il Willems, Le
droit public romain, pag. 34 e segg. e il Morlot, Institutions politiques de
Rome, Paris, 1886, p. 71 e segg. 363 ascritti tutti i cittadini romani, senza
tener conto della effettiva residenza dei medesimi (1). 295. Sopratutto poi il
concetto informatore di tutta la costitu zione serviana fu l'istituzione del
censo; poichè è in proporzione del censo, che vengono ad essere determinati i
diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver presente, che nel censo
di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui, ma solo i capi di fa
miglia, quelli cioè, che per non essere soggetti a potestà altrui possono
giuridicamente essere considerati come padri di famiglia, ancorchè in realtà
non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia deve essere duplice,
cioè comprendere tanto le persone quanto le cose, che da lui dipendono; donde
provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone e le cose,
dipendenti dalla stessa potestà, si presentarono come un tutto indistinto, che
suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium. Il padre di
famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog getto a potestà
altrui, ha diritto di contare per uno nel censo, deve dichiarare anzitutto, ex
animi sententia, il suo stato civile, cioè il suo nome, il prenome, il nome del
padre o del patrono, la tribù a cui trovasi ascritto, l'età, il nome della
moglie, il nome e l'età dei figli. Esso deve dichiarare eziandio il patrimonio,
che a lui ap partiene in proprio; non quello cioè, che appartenga alla sua
gente, ma quello che è collocato in suo capo, che gli appartiene ex iure
quiritium, che fa parte del suo mancipium, il quale in significa zione più
ristretta comprende appunto il complesso dei beni, che deb (1) È solo in questo
modo, che a parer mio si può risolvere la questione tanto agitata fra gli
autori se le tribù di Servio fossero divisioni di territorio, oppure di visioni
di persone. Non parmi poi che possa ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo
cui le tribù dapprima non avrebbero compreso che i plebei, e solo dopo il
decemvirato avrebbero compreso anche i patrizii (Op. cit., IV, 16 ); poichè il
loro stesso nome derivato da quello di genti patrizie ed anche lo scopo della
ripartizione del territorio in tribù o sezioni dimostrano ad evidenza il
contrario. Che anzi, in base alla narrazione di Dionisio, IV, 15, il re Servio
non solo avrebbe diviso il ter ritorio in tribù, ma nei siti montani avrebbe
costrutto dei pagi, che dovevano ser vire come luogo di rifugio, e avrebbe
obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes romanos) a consegnarsi nel censo «
addito et urbis tribu et agri pago, ubi singuli habitarent »; il che fa
credere, che le tribù rustiche serviane fossero un rimaneggia mento dei pagi,
che già prima esistevano nel territorio circostante a Roma. Cfr. il Morlot, op.
cit., pag. 57 e seg., ove espone le varie opinioni degli autori intorno al
carattere locale o personale delle tribù. 364 bono essere valutati nel censo.
Sarà poi in base a questo censo, che sarà designata la classe del popolo, a cui
deve appartenere, tanto per sè che per i figli, che abbiano raggiunta l'età di
diciasette anni, e verranno cosi ad essere determinati i suoi diritti e le sue
obbliga zioni sotto l'aspetto politico, militare e tributario ad un tempo (1 ).
296. Basta questa semplice indicazione per comprendere l'im mensa importanza,
che dovette, sopratutto negli esordii, esercitare una istituzione di questa
natura sopra il popolo forse più tenace che presenti la storia in quella che il
Jhering chiamerebbe la lotta per il diritto. Per la città serviana la
formazione del censo ha quella stessa importanza, che ha per una società di
carattere mercantile la determinazione del contributo, che altri deve arrecare
alla for mazione del capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di
base per la ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a
considerare ogni individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il
numero dei figli e l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce
alla comunanza. In essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche
pesato, e viene ad essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere
considerato esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle
sostanze, che in lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la
proprietà, che conta nel censo serviano, non è la proprietà gentilizia, che
apparteneva al solo pa triziato, ma è la proprietà famigliare e privata, che
era la sola, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la
conseguenza, che tutte le altre forme di proprietà vengono di un tratto ad
essere lasciate in disparte, cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg
(1) Quanto alle operazioni relative al censo cfr. WILLEMS, op. cit., pag. Per
me è sopratutto notabile la circostanza, che il capo di famiglia doveva
denun ziare persone e cose, che da lui dipendevano, poichè essa serve a
spiegare come i due vocaboli di familia e di mancipium potessero talvolta
scambiarsi fra di loro, e as sumessero una significazione così larga da
comprendere le persone le cose ad un tempo. Cid non accadeva già, perchè si
confondessero persone e cose, ma perchè le une e le altre apparivano nel censo
come dipendenti dalla stessa persona. Tale doppia consegna è attestata
espressamente da Dion.,. IV, 15, verso il fine. Parmi che in questo modo si
possano conciliare le due opinioni contrarie del MARQUARDT, Das privat leben
der Römer, pag. 2 e quella del Voigt, Die XII Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84,
quanto alla significazione primitiva dei vocaboli manus, di mancipium e di
familia. Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 5, nota
8, ed il BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 100, nota 1. 365
avere nelle classi l'appoggio dei proprii clienti, dovranno dividere fra essi i
proprii agri gentilizii, e fare a ciascuno un'assegno di terra in proprietà
quiritaria, che valga a farli ammettere in una delle classi. Da questo momento
viene solo più ad essere questione di mancipium o di nec mancipium, perchè è
solo il primo, che conta nel censo di Servio Tullio, e se il medesimo non
giunga ad una certa misura, altri non potrà essere censito, che per il proprio
capo (capite census ), o verrà ad essere confinato nei proletarii, senza poter
far parte delle classi e delle centurie, in cui si raccoglie l'eletta del
popolo romano, ossia coloro (adsidui, locupletes) i quali avendo una terra di
loro proprietà esclusiva, si possono ritenere aver interesse alla difesa della
patria comune. Si comprende quindi l'affezione tenace, con cui il plebeo,
ammesso a questa condizione nella città, si attacca al proprio tugurio e al
campicello, che lo circonda, perchè è questo, che gli assicura una posizione
giuridica, militare, economica per sè e per i proprii figli, quando siano perve
nuti ai diciasette anni; il che spiega eziandio come il plebeo ami meglio di
vincolare se stesso e la propria figliuolanza col nexum, che di privarsi della
sua piccola terra. 297. Noi stentiamo naturalmente a ricostruire col pensiero
tutte le conseguenze, che una istituzione di questa natura può avere pro dotto
sovra un popolo, come il romano, in un momento storico, in cui la grande opera,
a cui si intendeva, era la formazione della ' città. Quando si pensi tuttavia,
che trattavasi di un popolo, il quale una volta ammesso un principio sapeva
trarne tutte le conseguenze di cui poteva essere capace, che possedeva una mirabile
potenza, che chiamerei di astrazione giuridica, la quale consiste nell'isolare
l'ele mento giuridico da tutti gli altri con cui trovasi intrecciato, e che
questo popolo fu costretto per secoli a misurare la propria posizione politica,
militare e tributaria attraverso il crogiuolo del censo, si pud in qualche modo
giungere a comprendere il punto di vista rigido ed esclusivo, a cui esso fu
costretto di collocarsi e le con seguenze, che possono esserne derivate nella
elaborazione del suo diritto. Ciò spiega intanto l'importanza immensa, che si
diede per tutto il periodo dalla repubblica alla istituzione del censo; le
cerimonie religiose, da cui esso era preceduto ed accompagnato; le cure, che
pose nel medesimo lo stesso Servio, il quale, secondo la tradizione, ebbe a
farlo per ben quattro volte; le pene gravissime, cioè la vendita al di là del
Tevere, da lui stabilite contro coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere
nel censo (incensi); l'opportunità, che si senti più tardi di creare talvolta
un dittatore per la sola for mazione del censo, e di affidare poscia la
formazione del censo ad una speciale magistratura (censura), a cui potevano
esservene delle altre superiori in imperio, manessuna che fosse superiore in
dignità. Ciò spiega infine la singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma
il concetto del censo, il quale negli inizii comincia dall'essere una
valutazione, che potrebbe chiamarsi puramente economica dei singoli capi di
famiglia, e poi finisce per cambiarsi in una specie di valutazione politica e
morale di tutti i cittadini. Cid infatti è comprovato dalla trasformazione, che
accade nel censore, che isti tuito dapprima per la materiale formazione del
censo, reputata in degna delle cure dei consoli, finisce per acquistare tale un
potere, da eleggere senatori, fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere
note di ignominia su chi venga meno al pubblico o al privato co stume, prendere
le persone da una classe per confinarle in un altra, e trasportare a suo
beneplacito tutta una classe di popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o
viceversa, e ad essere cosi l'arbitro sovrano della cooperazione effettiva, che
i varii individui e le varie classi recano al benessere delle città. 298.
Infine è anche il censo, che serve di base alla classificazione del populus
nelle classi e nelle centurie. Non è già, come alcuni credettero, che coloro, i
quali non avevano un certo censo, non fossero contati ed iscritti a questa o a
quella tribù; ina essi vi erano iscritti solo nel capo (capite censi), oppure
nella classe dei proletarii, la quale secondo Aulo Gellio, « honestior
aliquanto et re et nomine quam capite censorum fuit ». Gli uni e gli altri non
facevano di regola parte dell'esercito, perché né la repubblica avrebbe avuto
garanzia dell'interesse, che essi avevano a combattere per essa, nè essi
avrebbero avuti i mezzi per far fronte alle spese per il proprio equipaggio.
Quelli invece, che giungevano ad un certo censo appartenevano agli adsidui, per
l'assiduità appunto a compiere il loro ufficio civile e politico (munus), sia
pagando le imposte (ab asse dando), sia ubbidendo alla leva, sia per la sede
fissa, ove po tevano essere cercati e dove avevano i loro possessi (locupletes)
(1). (1) Il criterio, che servì a distinguere i varii ordini di persone
indicati coi voca boli di capite censi, proletarii, adsilui e locupletes, si
può ricavare sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È pure lo stesso Gellio, il
quale ci attesta che la proprietà 367 I vocaboli di classi e di centurie, ed
anche il luogo, ove si riu nirono i comizii centuriati (Campo Marzio ), il modo
di convocazione di essi (per cornicinem ), e il vessillo rosso inalberato sul
Gianicolo o in arce durante le riunioni di questi comizii, rendono verosimile
il concetto stato svolto sopratutto dal Mommsen, che questa riparti zione siasi
presentata dapprima con un carattere principalmente militare. Cið poteva anche
essere opportuno per ovviare a quella opposizione del patriziato e degli
auguri, che aveva incontrato l'an tecessore di Servio; e sembra anche
corrispondere all'intento, che si propone la comunanza serviana, che è quella
di provvedere so pratutto alla comune difesa. Egli è però certo, che se la
costituzione per classi e per centurie è negli inizii organizzata per guisa da
presentare l'aspetto di un esercito, essa è però in condizioni tali da
cambiarsi facilmente nell'assemblea di un popolo; perchè i suoi quadri possono
essere allargati in guisa da non comprendere solo un esercito, ma tutta la
popolazione di una città (1). 299. Ad ogni modo nel loro primo presentarsi le
classi e le centurie di Servio costituiscono un vero esercito, di cui venne ad
allargarsi la base, in quanto che nella sua composizione più non si ha riguardo
all'origine ed alla discendenza, ma unicamente al censo. Nelle sue file possono
essere compresi tutti i liberi abitanti del ter ritorio di Roma, distribuito
per quartieri o regioni, senza riguar tenuta in conto nel censo era quella
famigliare e privata, poichè egli parla di res, pecuniaque familiaris, e dice che
i proletarii si arrolavano nell'esercito solo in caso di necessità, e che i
capite censi vi furono solo arrolati da Mario nella guerra contro i Cimbri o in
quella contro 'Giugurta. Tutte queste distinzioni poi fondate sul censo
spiegano le espressioni di Livio, I, 42, che dice il censo « rem saluberrimam
tanto futuro imperio, e chiama Servio a conditorem omnis in civitatem
discriminis ordinumque, quibus inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid
interlacet ». (1) Pur ammettendo col Mommsen, Hist. rom., I, cap. VI, e col
Peluam, v° Rome, « Encych. Britann.., XX, pag. 731 che lo ha seguito, che
l'ordinamento per classi e centurie, tanto più se posto a raffronto con quello
delle curie, avesse un carattere eminentemente militare, non parmituttavia, che
anche nei suoi inizii si possa escludere affatto la sua attitudine alle
funzioni civili. Ciò ripugna al carattere delle istitu zioni primitive, le
quali di regola hanno del civile e del militare ad un tempo, ed alla
circostanza, che mal si saprebbe comprendere comemaiuna base, come quella del
censo, non dovesse servire ad altro, che ad indicare il modo con cui le varie
classi aves sero ad equipaggiarsi. Del resto questo carattere esclusivamente
militare mal potrebbe conciliarsi con ciò che scrive Livio, I, 42: «tum classes
centuriasque, et hunc ordinem ex censu descripsit, vel paci decorum, vel bello
». 368 dare se essi entrino o non nelle antiche divisioni, e senza più tenere
conto delle formalità e delle cerimonie religiose proprie delle riunioni
esclusivamente patrizie. La sua unità è la centuria, che nominalmente dovrebbe
comprendere cento uomini; le centurie poi vengono ad essere aggruppate in
classi, che sono in numero di cinque, e che alcuni vorrebbero collocate
nell'ordine stesso della falange. Le centurie, che vengono prime, sono composte
dei più ricchi cittadini, che possono procacciarsi un completo equipaggio
indispen sabile per coloro, che primi debbono sostenere l'urto del nemico. Esse
in numero di 80 costituiscono la prima classe. Dopo vengono le centurie della
seconda e terza classe, in numero di 20 per ogni classe, le quali sono già meno
completamente armate, ma costituiscono con quelle della prima classe la
fanteria pesante. Ultime vengono le centurie della quarta e della quinta
classe, di cui quella composta di 30 e questa di 20 centurie, reclutate fra i
cittadini meno ab bienti, e che serviranno come fanteria leggiera. L'intiero
corpo degli uomini liberi è poi diviso in due parti eguali, cioè in un numero
eguale di centurie di seniores (da 47 ai 60 anni), che costituivano l'esercito
di riserva, ed un uguale numero di centurie di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per
il servizio attivo. Ciascuno di questi corpi viene cosi ad essere
composto di 85 centurie (8500 uomini) ossia di due legioni di circa 4200
per ciascuna, che costituiva appunto la forza normale della legione consolare
durante la repubblica. In sieme colle legioni, ma non inchiuse con esse, vi
erano 2 centurie di fabbri e di legnaiuoli (fabri, tignuarii) e 2 di suonatori
di tromba e di corno (tibicines et cornicines ), circa le quali non vi è
accordo quanto alle classi a cui erano assegnate. Per quello poi che si
riferisce al censo richiesto per ciascuna classe, il medesimo ci pervenne
calcolato in assi, ma è probabile che nelle origini dovesse essere valutato in
iugeri (1). (1) È abbastanza noto, che il censo per la prima classe era di 100
mila assi, per la seconda di 75 mila, per la terza di 50 mila, e per la quinta
classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500 secondo Dionisio; ma il difficile
sta in determinare, se negli inizii la fortuna dei cittadini non fosse
piuttosto valutata in iugera, e in de terminare qual fosse il valore dell'asse.
Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni dubbio, che l'iscrizione alle varie
classi era dapprima determinata dal possesso delle terre, argomentando anche
dalle denominazioni di adsidui e locupletes. Hist. rom., chap. VI. Di recente
poi il Karlowa ha pur seguìta la stessa opinione e ha rite nuto che il iugerum
debba ritenersi rispondere a cinque mila assi, cosicchè il patri monio della
prima classe corrisponderebbe a 20 iugeri, quello della seconda a 15, 369
Intanto però in questa organizzazione militare del populus con tinuano a tenere
un posto distinto le centurie degli equites. Di queste 6 ritengono ancora i
vecchi nomi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi, e sono ancora
composte esclusivamente di patrizii. Esse quindi stanno a parte, son
determinate dalla na scita, e costituiscono i sex suffragia; poichè è da esse
che si trae a sorte la centuria principium, quella cioè, che sarà chiamata a
votare per la prima nei comizii centuriati. Ad esse poi furono ag giunte da
Servio altre 12 centurie, le quali sono reclutate dai più ricchi ordini di
cittadini, sia patrizii che plebei (1 ). Da questi brevi cenni appare che, pur
ammettendo il carattere essenzialmente militare di questa organizzazione,
basterà però sop primere nella centuria il limite di 100, per togliere alla
medesima tutta la sua rigidezza militare, e per fare entrare nei suoi quadri
tutta la popolazione della città; trapasso, che non offrirà gravi diffi coltà
quando si consideri la facilità, che è propria delle organizzazioni primitive
di passare dalle funzioni militari alle civili, e il nessun scrupolo, che si
fecero i Romani di mantenere costantemente il vo cabolo antico, facendo anche
entrare in esso un contenuto diverso da quello, che sarebbe indicato dal
medesimo. Queste sono le istituzioni fondamentali di Servio; ora importa di
vedere lo svolgimento storico, che esse ebbero a ricevere e la con seguente
influenza che esercitarono sul diritto pubblico e privato di Roma. quello della
terza a 10, della quarta a 5 iugeri, e quello della quinta a 2 iugeri incirca,
ritenendo con Livio, che il censo della medesima ammontasse a soli 11,000 assi.
Röm. R.G., I, pag. 69-70. Sono a vedersi, quanto al valore dell'asse, il
WILLEMS, op. cit., pag. 58 e segg., dove son riassunte le diverse opinioni al
riguardo, e il Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 16 a 23. (1) Quanto agli equites
e ai loro rapporti coi primitivi celeres, richiamo volentieri i due recenti
lavori del BERTOLINI, I celeres e i7 tribunus celerum, Roma, 1888, e del
TAMAssia, I Celeres, Bologna, 1888. - Par ammettendo col primo che gli equites
non siano che uno svolgimento dei primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i
celeres possano anche essere un ricordo di qualche istituzione, che occorre
presso tutti i popoli di origine Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che
nell'ordinamento simmetrico della primitiva città patrizia vi fosse una
rispondenza fra i celeres, che costituivano la corte militare del Re primitivo
e il senato, che ne costituiva il consiglio, donde quella correlazione, che per
qualche tempo si mantenne fra gli aumenti nel senato e quello degli equites, e
la distinzione così del senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº
191, pag. 233 e 234. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 -
CAPITOLO II. Influenza della costituzione Serviana sul diritto pubblico di
Roma. 300. L'influenza della costituzione Serviana sullo svolgimento, che
ebbero le istituzioni politiche di Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può
essere posta in dubbio, e non mancano i lavori ché la posero in evidenza (1).
Ne ebbero consapevolezza anche i Romani, come lo provano le tradizioni, che
attribuirono a Servio Tullio di aver voluto abdicare per istituire due consoli
annui, e che fanno ricorrere i due primi consoli della repubblica ai
commentarii di Servio Tullio, per ricavarne le norme secondo cui dovevano adu
narsi i comizii per centurie (2). Le due tradizioni possono anche essere non
vere: ma dimostrano ad ogni modo in coloro, che le trovarono e le custodirono,
la persuasione, che la costituzione repubblicana metteva capo alle istituzioni
serviane, e che, appena superato il peri colo della tirannide, si dovette
riprenderne lo svolgimento al punto stesso, a cui era stato interrotto. Ad ogni
modo se si tenga dietro alla evoluzione storica, quale si rivela negli
avvenimenti, si può affermare con certezza, che le istituzioni politiche di
Roma per tutto il periodo repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non
mai interrotto dei concetti informatori della costituzione patrizia, combinati
perd e modificati dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana.
301. Fra queste modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre
trasformazioni, che derivarono dalla costituzione serviana, quella, in virtù
della quale venne a mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus
romanus quiritium. Questa espressione (1) NIEBHUR, Histoire romaine, II, pag.
91 a 255; Huscke, Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg, 1838;
Maury, Des événements qui portèrent Servius Tullius au trône. « Mém. de l'Acad.
des Inscript. et belles lettres », année 1866, vol. 25, pag. 107 a 223: Herzog,
Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig, 1884, I, § 5,
pag. 37 a 48; KarlowA, Röm. Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12, 13, pag. 64 a 85.
(2 ) Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste tradizioni non
sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 242. - 371
infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo delle curie,
venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo delle classi e
delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites, che d'allora
in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle centurie, non che
ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere quiritario
(classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di convocazione dei
comizii centuriati, stateci conservate da Varrone (1). Quanto ai membri delle
curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle centurie, sono
anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto hanno delle
proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli onori, gli
auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo separato del
populus romanus quiritium, prendono il nome di patres o di patricii, come già
si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata de imperio
e dell'interrex (2 ). Mentre quindi prima i termini non erano che due, quelli
cioè di populus e di plebes; dopo Servio i termini vengono ad essere tre, cioè
quello di patres o patricii, che indicano i primitivi fondatori della città, i
ritentori degli auspicia e dell'imperium; quello di plebes, che designa
l'elemento, stato di recente ammesso nella medesima; e quello infine di
populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in quanto entra a
far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso vuolsi ammettere
col Mommsen, che uno dei significati di populus sia stato quello di leva
plebeo-patrizia; ma certo non può dirsi, che questa sia stata la significazione
primi tiva del vocabolo; poichè nulla vi è di ripugnante al processo ro mano,
che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli (1) Le formole di
convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling. lat., VI, 86 a 95,
sono riportate dal Bruns, Fontes, pag. 383 e segg. I classici testes sono poi
ricordati da Festo, pº classici, come testimoni adoperati nei testa menti; ma è
probabile che questo nome si estendesse a tutti i testimonii dell'atto per aes
et libram, di cui il testamento non era che un'applicazione, come si vedrà a
suo tempo al cap. IV, § 4 di questo libro. (2) V. sopra, lib. II, nº 198, pag.
240 e seg. e le note relative. (3) È questo appunto il concetto di populus,
quale appare più tardi anche nei grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio
infatti, Noct. Att., X, 20, attribuisce al giureconsulto Ateio Capitone di aver
distinto il popolo dalla plebe, « quoniam « in populo omnis pars civitatis,
omnesque eius ordines contineantur: plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes
civium patriciae non insunt », il qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm.,
I, 3 e ancora nelle stesse Institut. di GIUSTINIANO, I, 2. 372 uomini validi ed
armati della tribù gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia,
e da ultimo il popolo patrizio - plebeo della città serviana (1). Questo
populus intanto perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del
popolo delle curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che
entrano a costituirlo; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di
proprietarii di terre, che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono
de diti alla coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da
tutti quei rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti
dell'epoca serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità
indipendenti e sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto;
ritengono come proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed
il loro potere appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose,
che da essi dipendono; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium,
che viene formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo
(2). 302. Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale
della costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale, che
anche questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione
col medesimo. E così accade appunto del senato, il quale accompagnando lo
svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere
fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre, i quali
per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres, donde la formola patres
et conscripti, finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento, che
siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature
e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad
assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece
non accadde del magistrato, poichè questo continud (1 ) MOMMSEN, Rötnische
Forschungen, I, pag. 168. (2 ) V. il cap. seg. in cui si discorre
dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le
trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia
che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan
DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8, colle note
re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato esclusivamente
dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è sopratutto contro
l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della plebe, le quali
più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta, anche nelle
magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva conseguita negli
altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale, perchè non vi
sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il senato già
potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo; mentre il
magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva ad
apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come un
rappresentante imparziale del popolo. Di qui la conseguenza, che anche le
lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte
ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato
a suo tempo (1 ). 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi
essen ziali della costituzione politica, e quindi si trasformano a poco a poco
le loro principali funzioni, che, come si è veduto, consistono nella formazione
delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione della
giustizia, tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano soltanto
abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento, di cui potevano essere
capaci. Cid appare quanto al censo, il quale, come già si è accennato,
incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit tadini, e poi
cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei medesimi. Il
punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun cittadino una parte
di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo censo, mentre lo
svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e ai varii elementi
del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla cooperazione, che
essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati uscenti di ufficio,
che somministrano il contingente per la formazione del senato e poscia dell'ordo
senatorius; abbiamo gli equites, che perdono il carat tere essenzialmente
militare, che avevano nelle proprie origini, e finiscono per formare un ordine
distinto di cittadini, che chiamasi ordo equestris, e costituiscono una specie
di aristocrazia del censo, (1) V. il cap. IV del presente libro, in cui si
tratta appunto delle lotte fra il patriziato e la plebe. 374 da cui esce poi la
nuova nobiltà, la quale, dopo aver lottato coll'an tica, finisce per
confondersi con essa (1). Di qui la conseguenza, che col tempo quel populus,
che erasi formato, mediante la riunione del patriziato e della plebe, finirà
un'altra volta per subire un nuovo dualismo, che è quello del partito popolare
e del partito degli otti mati. Queste però sono conseguenze remote
dell'ordinamento ser viaño, fondato sul censo, mentre è assai più facile tener
dietro alle trasformazioni, che subirono le centurie e le tribù introdotte col
medesimo. 304. Le centurie infatti, allorchè perdettero il loro carattere es
senzialmente militare, finirono per cambiarsi in altrettanti quadri, in cui
potè essere compreso tutto il popolo romano, che avesse rag. giunto certi
limiti nel censo, il quale, fissato dapprima in iugeri di terra, sembra essersi
più tardi calcolato in una somma di denaro. Si formarono così quei comisii centuriati,
che ebbero tanta impor tanza sopratutto nei primi secoli della repubblica, e
che furono per certo una delle assemblee meglio organizzate, che offra la
storia politica dei popoli civili. È tuttavia notabile, che anche in questa
parte si conserva sempre mai l'antico modello, per guisa che i con cetti
informatori dell'assemblea delle centurie sembrano essere tolti e trasportati
da quella più antica delle curie. Anch'essi quindideb bono essere preceduti da
cerimonie religiose, ed il magistrato, che li convoca in giorni prestabiliti
(dies comitiales), essendo investito degli auspicia, debbe prima investigare se
gli dei si dimostrino fa vorevoli alle deliberazioni, che debbono essere prese
dai comizii. Anche la precedenza nella votazione deve seguire l'antico costume,
e quindi precedono le sei centurie di cavalieri, le uniche cioè che
rappresentino ancora il patriziato primitivo, fondatore della città; quindi è
fra esse, che chiamansi i sex suffragia, che viene tratta a sorte quella che
dovrà essere la centuria principium, il cui voto continua ad essere considerato
come un augurio (omen). Dopo aver così attribuita la debita parte alla nascita
e ai primi fondatori della città, viene il riguardo all'età, in quanto che i
seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno in ogni classe un numero di centurie eguale
a quello dei iuniores (dai 17 ai 46 ), malgrado il numero certo maggiore di
questi ultimi, e le loro centurie negli inizii erano probabilmente le (1)
Queste trasformazioni sono accuratamente seguìte dal Madvig, L'État romain,
trad. Morel, Paris 1882, tome 1er, pag. 135 e segg. 375 prime chiamate a dare
il proprio voto. Viene poscia la considera zione del censo, in quanto che le
centurie, che votano per le prime sono, dopo le diciotto centurie degli
equites, quelle della prima classe e queste sono in numero tale, che se siano
concordi, possono da sole avere la maggioranza, senza che più occorra di
passare alla chia mata delle altre classi (1). Intanto perd nel seno di ogni
centuria ogni individuo ha il proprio voto, e tutti contano egualmente; ma,
come già accadeva nelle assemblee curiate, l'esito definitivo dipende dalla
maggioranza delle centurie. Qui parimenti si presentano le distinzioni fra
comitia e contiones; come pure dovette introdursi eziandio la distinzione fra
comizii propriamente detti e i comizii calati, in cui si compievano pei quiriti
i testamenti e le arroga sioni, ma questi non sembrano essere durati lungamente,
perchè erano una semplice imitazione dell'antico, senza che avessero lo scopo
dei comizii calati delle curie, che era quello di mantenere salda ed integra
anche nella città la primitiva organizzazione delle genti patrizie (2). Così
pure sopra i nuovi comizii, i padri, antichi fondatori della città, continuano
ad esercitare una specie di prote zione e di tutela, sotto il nome di patrum
auctoritas, dalla quale i comizii centuriati riescono ad emanciparsi soltanto
molto più tardi (3 ). 305. Nella realtà però questa imitazione dell'antico non
impe disce che tutte le principali funzioni vengano a concentrarsi nei co mizii
centuriati. Sono essi infatti che votano le leggi fondamentali dello stato,
come le leggi Valerie-Orazie, la legislazione decemvirale, le leggi Licinie
Sestie, e da ultimo la legge Ortensia; sono essi parimenti, che nominano i
magistrati maggiori, come i consoli, i pretori, i censori, quei magistrati
insomma, il cui potere può essere considerato come una suddivisione di
quell'imperium, che trovavasi un tempo con centrato nel re. Da ultimo fu
davanti alle centurie, che dovette essere interposta quella provocatio ad
populum, che un tempo pro ponevasi dinanzi al popolo delle curie; il che spiega
comeun ma (1) Sono queste gradazioni e distinzioni che fecero dire a CICERONE,
De leg., III, 19, 44: < descriptus enim populus censu, ordinibus, aetatibus
plus adhibet ad suf « fragium consilii, quam populus fuse in tribus convocatus
»; concetto che ripete con altre parole nel De rep., II, 22. (2) L'esistenza di
comizii calati, proprii delle centurie, è attestata espressamente da Aulo
Gellio, XV, 27, 1. (3) V. quanto alla patrum auctoritas ciò che si è detto al
nº 198, pag. 240 e segg. 376 gistrato annuo, come il console, abbia finito per
rinunziare a poco a poco a pronunziare condanne, da cui poteva esservi
appellazione al popolo, il quale venne cosi ad essere direttamente investito
della giurisdizione criminale (1). Intanto si comprende eziandio come la lotta
fra i due ordini, finchè non furono ancora del tutto pareggiati, abbia dovuto
concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e come quindi il patriziato
per assi curarsi una prevalenza nel seno delle centurie, abbia dovuto dividere
i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò i medesimi potessero essere
collocati nelle classi e possibilmente nella prima di esse, la quale aveva una
prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la disorganizzazione delle genti,
che erasi già iniziata colla costituzione di Servio, con tinud necessariamente
collo svolgersi delle istituzioni da lui intro dotte; poichè quei clienti, che
sotto l'impressione immediata del benefizio ricevuto stavano ancora agli ordini
dell'antico patrono, se ne emanciparono ben presto, allorchè il censo loro
assicurò una indipendenza, mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla
stessa plebe. Conviene tuttavia riconoscere, che la plebe negli inizii del
l'organizzazione per centurie male poteva riuscire nella lotta contro un
patriziato reso forte e numeroso mediante l'appoggio dei proprii clienti. Di
qui la conseguenza, che la plebe resa impotente alla lotta nei comizii per
centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non avessero più la loro base nel
censo, ma bensì nel luogo di residenza e nel numero. A tal uopo la plebe,
guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe trarre profitto di un'altra
istituzione ser viana, che è quella della tribù locale, ricavando da essa uno
svolgi mento, che probabilmente non doveva essere nella intenzione di quegli,
che l'aveva istituita. 306. La tribù nella costituzione serviana non era che
una ripar tizione locale, fatta in uno scopo essenzialmente amministrativo,
cioè per fare il censo, per fare la leva militare e per ripartire i tributi.
Essa però aveva il vantaggio su tutte le altre ripartizioni, che mentre le
curie non comprendevano dapprima che i patrizii, e le centurie e le classi non
accoglievano che i locupletes od adsidui, le tribù invece comprendevano anche i
proletari, i capite censi, gli aerarii; quindi in essa esisteva un
germeessenzialmente democratico, (1) Cfr. ciò che si è detto più sopra intorno
alla provocatio ad populum nel pe riodo regio, n ° 245 e 246, pag. 299 e segg.
377 che non poteva mancare di svolgersi col tempo. Era infatti naturale, che i
tribuni della plebe, per radunare la medesima, non potessero indirizzarle il
proprio appello, che per tribù (tributim ), e che quindi si facessero già in
questa guisa quelle prime riunioni, che appellavansi concilia plebis. Intanto
le tribù, che avevano dapprima un carattere essenzialmente locale e
comprendevano realmente le persone, che dimoravano in quel determinato
quartiere, si cambiarono in effetto in altrettanti quadri, in cui poterono
essere compresi tutti i cittadini romani, senza tener conto del sito effettivo,
in cuiavessero la propria residenza. Si avverò anche in questo, ciò che è
accaduto in molte altre istituzioni di Roma, che cominciano dall'avere una base
reale nei fatti, ma col tempo si cambiano in concezioni teoriche ed astratte, e
in forme tipiche, in cui può farsi entrare un contenuto, che nella realtà loro
non potrebbe appartenere. Per tal guisa la ripartizione delle tribù diventò la
più comprensiva di tutte; cesso quasi di essere locale per diventare personale;
la indicazione della tribù entrò a far parte della denominazione stessa del
cittadino romano, e fu in tal modo, che essa potè riuscire di base alla più
democratica delle riunioni, che siasi conosciuta in Roma, che fu quella appunto
dei comizii tributi. Questi non hanno più il carattere militare dei co mizii
centuriati, ma hanno un'impronta essenzialmente cittadinesca; si tengono perciò
nel foro e nei primitempi si riuniscono nei giorni di mercato, in cui la plebe
del contado ha occasione di convenire nella città (1 ). 307. Tuttavia anche i
comizii per tribù, allorchè entrarono nei quadri regolari della costituzione
politica, finirono per modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti,
quando sono giunti al pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii,
quando siano convocati da un magistrato, a cui questi appartengano, e sono
convocati solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non
saranno più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies
fasti. È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si
dà per tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende
anche il (1) È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO,
Saturnales, I, 16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto
P. Rutilio Rufo, parla dei giorni dimercato, in cui « rustici, intermisso rure,
ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent ». Husche, Jurisp. antijustin.,
pag. 11. 378 nome di tribus principium. Nel seno poi di ogni tribù il voto è
dato viritim, e l'esito definitivo viene ad essere determinato dalla
maggioranza delle tribù. Questi comizii hanno però il vantaggio della più
facile convocazione, in quanto che possono essere convocati da magistrati
patrizii e da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i
provvedimenti, che essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici
plebisciti, secondo l'autorità che li propone (1); il che spiega come i comizii
tributi si siano gradatamente cambiati nell'organo legislativo più operoso
nell'ultimo periodo della repub blica. Mentre essi infatti richiamano a sè la
sola elezione dei magi strati minori, e la giurisdizione per i reati punibili
con sole pene (1) Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii centuriati
e dei comizii tri buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al n ° 224,
pag. 273 e segg. e per il pareggiamento che venne facendosi fra le leggi ed i
plebisciti ai numeri 231, 232 e 233, pag. 281 e seg. Solo mi limito ad
aggiungere che negli ultimi tempi dagli stessi comizii tributi potevano emanare
vere leggi, allorchè erano convocati da veri magistrati, come consoli e
pretori, oppure plebisciti, allorchè erano convocati da tri buni della plebe.
Trovo una prova di ciò paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal
Bruns. L'una è la lex agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui
intestazione è così concepita: « tribuni plebei plebem ioure rogarunt,
plebesque ioure scivit », sebbene in tale occasione abbiano preso parte alla
votazione anche i patrizii come lo dimostra il fatto, che ivi si aggiunge: «
Tribus principium fuit, pro tribu Q. Fabius, Q. filius, primus scivit », il
quale Fabio dovette probabilmente essere un patrizio della gens Fabia (Bruns,
Fontes, pag., 72). L'altra legge invece è la les Quinctia, de aqueductibus,
dell'anno 745 di Roma, che è così intestata: « T. Quinctius Crispinus populum
iure rogavit, populusque iure scivit, in foro pro rostris Aedis divi Iulii
pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit; pro tribut Sex... L. F. Virro
primus scivit ». Bruns, Fontes, pag. 112. — Diqui infatti appare ad evidenza,
che quando la convocazione parte dal tribuno della plebe parlasi di plebes e di
plebiscitum, ancorchè la riunione comprenda anche i patrizii: mentre quando
trat tasi di convocazione fatta dal console esso chiama ai comizii tributi il
populus e il provvedimento emanato viene così ad essere un populiscitum, ossia
una lex nel senso primitivo dato a questo vocabolo. La cosa è pur confermata da
quella parte, che ci pervenne della intestazione alla lex Antonia, de
Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la riunione dei comizii tributi,
essendo provocata dai tribuni della plebe, ancorchè in base ad un parere dato
dal senato (de senatus sententia) parlasi perciò di convocazione della plebes e
quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p. 91). In questo periodo quindi tanto le
leges quanto i plebiscita emanano da comizii tributi e la loro differenza
deriva dall'essere l'iniziativa presa da un vero magistrato (console, pretore)
che convoca il popolo, o da un tribuno della plebe, che convoca invece la
plebe, sebbene anche in queste ultime riunioni intervengano anche i patrizii.
Viene così ad essere vero ciò che dice Pomponio, che « inter plebiscita et
leges species constituendi interesset, potestas autem eadem esset ». L. 2, 8,
Dig. 1, 21. pecuniarie, finiscono invece per assorbire tutto il potere
legislativo. È a notarsi tuttavia, che mentre la legislazione dei comizii centu
riati aveva avuto un carattere specialmente politico e costituzionale, perchè è
con essa che si vennero pareggiando gli ordini, quella in vece, che usci dai
comizii tributi, ha un carattere eminentemente sociale, e in parte già si
riferisce ad argomenti di diritto privato (1). 308. Si può quindi conchiudere,
che la costituzione serviana per vade le istituzioni politiche di Roma per
tutto il periodo repubblicano. I concetti della medesima cominciano dall'avere
una base nella realtà, ma finiscono per cambiarsi in altrettante costruzioni
logiche, a cui si dà tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. In questa
guisa il censo di economico divien morale, le centurie di militari si con
vertono in politiche, le tribù di ripartizioni locali mutansi in quadri, in cui
tutta la cittadinanza può essere compresa, per quanto la me desima dimori
eziandio fuori della città. Per tal modo la costitu zione di Servio Tullio, al
pari delle mura che ne portano il nome, poté bastare a tutti gli incrementi e a
tutte le trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi secoli, e per
tutto quel tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche virtù ed
istituzioni. Vero è, che le forme esteriori sembrano sempre essere foggiate su
quelle, che erano prima adoperate; ma conviene dire che « spiritus intus alit »,
e che questo nuovo alito spira per modo entro le forme an tiche, da far loro
capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da spezzarle anche, quando
siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne foggiano delle nuove, ma
sempre sul modello delle an tiche. Questo è il magistero, che Roma seguì costantemente
nello svol gimento delle proprie istituzioni politiche. Un analogo processo ap
pare anche più evidente nella elaborazione più lenta e graduata, che ebbe a
ricevere il diritto privato di Roma, sovra il quale la costituzione serviana ha
certamente esercitata una influenza di gran lunga maggiore di quella che soglia
essergli attribuita, come spero di poter dimostrare nel seguente capitolo. (1)
Quanto alla legislazione comiziale e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI,
Storia delle fonti del diritto romano, Milano. La costituzione serviana e la
sua influenza sull'elaborazione del ius Quiritium. 309. Se fu agevole il
mettere in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul diritto
pubblico di Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita, ma non meno
importante, che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato. A questo
proposito poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che naturalmente si
arrestarono alle mutazioni più appariscenti, che si erano avverate nelle
istituzioni politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio, che egli
pubblico ben cinquanta leggi sui delitti e sui contratti; che egli distinse i
giudizii pubblici dai privati; e che prese anche dei provvedimenti a favore dei
debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi (1). La
probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca serviana non
può certo essere negata, non potendo essersi avverata una trasformazione cosi
profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che si riflettesse
eziandio nel diritto privato. Tut tavia è certo, che le mutazioni nel diritto
privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi, quanto piuttosto
mediante quella tacita elaborazione di un diritto comune alle due classi, che
era la naturale conseguenza dei nuovi rapporti, in cui esse venivano a
trovarsi. È quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono cer care le
reliquie delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a cercarsi
quelle distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che sopravvissero ancora
in epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato, e che possono in
qualche modo rannodarsi al concetto informatore della costituzione serviana.
Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici, gli atti per aes et
libram, i concetti primi tivi del caput, della manus, del mancipium, la
distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti quei concetti
insomma, (1) Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV, 9, 11,
attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e di aver
voluto che i beni e non la persona del debitore fossero vincolati al creditore;
ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza, che fa riportare a Servio
tutti i provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla classe servile ed
alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono sopravvivenze di
un'e poca anteriore, che possono servire come materiali per la ricostru zione
del primitivo diritto. Gli è soltanto col ricomporre insieme tutti questi
rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce, quando siansi
collocati nel sito, ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il carattere
del popolo, le sue istituzioni politiche, il suo metodo di serbare i vocaboli,
cambiandone anche il contenuto, ed il criterio informatore della riforma
serviana, che si pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che dovette
iniziarsi in questo periodo, se non nei particolari minuti, almeno nelle sue
linee generali e nella logica fondamentale, da cui dovette essere percorso.
310. Fu questo paziente lavoro di ricomposizione, che mi mette in condizione di
porre innanzi a questo proposito una congettura, la quale a prima giunta potrà
apparire ardita, ma che risulterà sempre meglio comprovata, a misura che,
procedendo innanzi, tutte le reli quie, che ci pervennero, dell'antico diritto,
finiranno per prendere senza sforzo quel posto, che loro compete, e ci
porgeranno cosi una spiegazione naturale, logica e verosimile dei caratteri
primitivi del medesimo. La congettura sta nell'affermare, che almodo stesso che
con Servio Tullio si posero le basi della Roma storica, e si formd quel populus
romanus quiritium, che riempi poi la storia del racconto delle proprie gesta,
così fu eziandio da quel punto, che dovette iniziarsi la vera e propria
elaborazione di quel ius quiritium, che fu ilnucleo primitivo di tutto il
diritto privato di Roma, e che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo
svolgimento, non perdette più mai quella speciale impronta, che ebbe ad
assumere sotto l'influenza della costi tuzione serviana. Non si vuole già dire
con ciò, che prima non vi fossero i quirites ed un ius quiritium; ma quelli non
comprendevano che i membri delle curie, e questo indicava il complesso delle
istituzioni di carattere gen tilizio, che erano proprie del popolo delle curie,
e che perciò avevano ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale (1).
Con Servio (1) Cid parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta della
legislazione attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente patrizia,
dalla quale risulta che la famiglia, la proprietà, il delitto e le pede
continuavano ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel
periodo gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, pag. 329 e segg. 382
Tullio invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e
siccome i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie, prendono il nome di
quirites, così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium, in
cui i vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le
genti patrizie e la popo lazione di condizione inferiore, da cui esse erano
circondate, ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere applicati
ai rapporti, che erano l'effetto della nuova condizione di cose. Si conservano
pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso i poteri,
che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come proprietario di
terre; quello di nexum per indicare l'obbligazione di carattere quiritario;
quello di mancipium per in dicare il complesso delle cose e delle persone, che
dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli, che dapprima designavano il
diritto proprio della classe superiore di fronte alle popolazioni vas salle, da
cui era circondata, vengono a significare i concetti pri mordiali del vero ius
quiritium, comune alle due classi, e si mutano in altrettante concezioni
logiche ed astratte, in cui può farsi entrare un nuovo contenuto. A quel modo
insomma che colla formazione della città patrizia quei concetti di connubium,
di commercium e di actio, che prima si erano spiegati nei rapporti fra le varie
genti, vennero invece a governare dei rapporti fra quiriti, e cambiandosi così
in concetti quiritarii furono il punto di partenza di altret tante istituzioni
proprie dei quiriti (ex iure quiritium ) (1); così quel ius nexi mancipiique,
che prima governava i rapporti fra i padri della gente patrizia e la plebe
circostante, per l'accoglimento di quest'ultima nel populus romanus quiritium,
venne a cam biarsi eziandio in una istituzione di carattere quiritario. Fu in
questa guisa, che accanto a quella parte del diritto quiritario, che si ispira
ad un'assoluta uguaglianza fra i capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne
presenta un'altra, che tradisce l'inferiorità di con dizione di una delle
classi, che entró a costituire il populus, alla qual parte appartengono appunto
i concetti del nexum, del manci pium, della manus iniectio (2). 311. Si
aggiunge che il contenuto di questi concetti viene anche (1) Questo è ciò che
ho cercato di dimostrare più sopra al nº 266, p. 326 e segg. (2 ) Cfr. a questo
proposito ciò, che si è detto intorno alla condizione giuridica della plebe,
anteriormente alla sua ammessione nella città, al n ° 287, pag. 351 e seg. 383
a risentirsi delle circostanze sociali, in cui essi vennero a consolidarsi.
Siccome quindi il concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva
nel censo, quale misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti,
cosi il censo venne in certo modo ad essere un crogiuolo, che servi ad isolare
l'elemento giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di
carattere diverso con cui trovasi confuso. Il diritto perdette cosi alquanto
del suo carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o
sintetico sul concetto del mio e del tuo; esso inoltre assunse un'im pronta di
rigidezza pressochè militare, quale poteva convenire ad un popolo, che
presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano
l'asta come simbolo del proprio diritto, e « ma xime sua esse credebant, quae
ab hostibus caepissent ». Il censo viene in certo modo a misurare il contributo,
che ciascuno reca in questa specie di società, e quindi, mentre esso è la
stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima, serve
anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co mune
difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel lavoro, che
dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le persone sotto il
punto di vista esclusivamente giuridico, facendo astrazione da tutti gli altri
aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate. Per tal modo il quirite,
come tale, non è più nè patrizio nè plebeo, ma viene ad essere isolato da tutti
i suoi rapporti gentilizii; si considera come un caput; conta come uno nel
censo, e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le per sone e le cose,
che da esso dipendono. Di qui l'immedesimarsi dei diritti di famiglia e di
proprietà, che è il carattere più saliente del primitivo ius quiritium, e la
significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso adoperati, che lo
indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale proprietario di terre, ed
hanno in certo modo l'apparenza di altrettante rubriche, che esprimono
disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il quirite può essere
considerato (1). (1) Ritengo che questo sia il solo modo per spiegare in modo
plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo di Roma, per cui
persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed immedesimarsi
insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca confondessero il
diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con quello del
proprietario sopra una cosa; ma siccome persone e cose figuravano nel censo,
come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista giuridico
comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo mancipium o
della stessa familia. 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile trovare un
autore, che accenni a questa tacita elaborazione, ma la medesima risulta da
diverse circostanze, le quali insieme riunite provano che tale ha dovuto essere
il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium all'epoca
serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen, che una delle
significazioni più certe dell'espressione « populus romanus quiritium » è stata
quella di indicare la « leva patrizio plebea », leva che ha cominciato appunto
ad effettuarsi in quest'e poca (1). Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca
cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium, di
iura gentilitatis, di ius gentilicium, che dovevano essere ancora frequenti
durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di
ius quiritium, e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium.
Cosi pure non vi ha dubbio, che le altre forme di proprietà non vengono più
tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium, che vedremo a
suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium,
quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione
del cittadino (2). Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune:
come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così
serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere
quiritario (classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad
essere l'emblema del diritto quiritario, che il populus assunse un carattere
essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a
quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium, tribunale essenzialmente
quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta, che si infiggeva
davanti al medesimo (3). Infine fu certamente una conseguenza di questo (1)
MOMMSEN, Röm. Forschungen, I, pag. 168. (2) Quanto allo svolgimento del
concetto di mancipium, e alla conseguente distin zione delle res mancipii e nec
mancipii mi rimetto al seguente lib. IV, cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. (3) L'origine
del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella storia
del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla. Per ora mi
limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo: «
festuca « autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii, quod
maxime sua « esse credebant, quae ab hostibus caepissent; unde in
centumviralibus iudiciüs hasta « praeponitur ». Parmi infatti di scorgervi un
nesso, se non storico, almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare come
un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò, che conquisterà
sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale punto di vista,
sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i diversi negozii
giuridici, che potevano essere in uso, venne facendosi la scelta di quelli, che
si riferissero direttamente al diritto quiritario. Di qui le espressioni di
legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio continentia, di negozii,
che si com pievano secundum legem publicam, espressioni tutte, che noi tro
viamo anche più tardi, ma la cui origine dovette rimontare a quel momento
storico, in cui il diritto quiritario cominciò a consolidarsi, come diritto
comune al patriziato ed alla plebe. Che anzi fu anche in quest'occasione, che
dovette modellarsi quell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes
et libram, il quale serve in certo modo per attribuire autenticità a tutti gli
atti, che possono modifi care in qualche modo la posizione giuridica del
cittadino nella comunanza quiritaria. 313. Per verità basta porre l'istituzione
del censo, come base di partecipazione alla vita giuridica, e politica e
militare di una comu nanza, per comprendere come per l'attuazione di un tale
concetto fosse indispensabile: lº di determinare quali fossero le persone, che
dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare la parte del pa trimonio, che
è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da tutte le altre (nec mancipium );
3º di determinare le forme pubbliche cium. Ora se vi ha epoca in cui il quirite
assuma decisamente questo carattere di uomo di guerra, questa è certamente
l'epoca serviana; e quindi è a quest'epoca che deve rimontare il concetto
informatore dell'hasta, della festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si
adopera, e del centumvirale iudicium, che deve essere appunto preceduto
dall'actio sacramento, e avanti cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto
dominio. La grave questione fu di recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor.
Introd., pag. 74, il quale sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, pag.
168, seguita poi dal KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana
l'istituzione dei centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente
combattuta dal WLASSAK, Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, pag. 131 a
139, il quale verrebbe alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non
abbia preceduto di molto la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere
assegnata al principio del sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di
sostenere, che non abbiamo una prova diretta, che l'esistenza dei centumviri
rimonti ad epoca anteriore, egli è certamente nel vero; ma ciò non basta per
escludere, che l'istituzione potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia
pervenuta notizia. È poi incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di
antichità remota, e che i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è
proceduta, ci riportano a quella concezione essenzialmente militare del popolo
romano, che rimonta appunto all'epoca serviana. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 25 386 - e solenni, mediante cui questa proprietà potesse
essere trasmessa, e che servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse
soprav venire nella condizione giuridica del caput (atto per aes et libram );
4º di richiedere, che questi atti, i quali influissero sulla posizione del
quirite, fossero compiuti coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens)
e colla testimonianza di persone, che appartengano alla stessa comunanza
(classici testes); 5 ° E infine di introdurre eziandio una procedura, che debba
essere di preferenza seguita nelle controversie di diritto quiritario (actio
sacramento ), ed anche un tribunale per manente, composto esso pure di persone
tolte dalle classi e dalle centurie, per risolvere le questioni relative al
diritto stesso (cen tumvirale iudicium ). Non può certamente sostenersi, che
tutte queste istituzioni, che poi si incontrano effettivamente nell'antico
diritto romano, possano tutte rimontare alla stessa costituzione serviana; ma
si può almeno affermare con certezza, che esse erano una conseguenza logica del
concetto informatore della medesima. Spiegasi in questo modo come mainel
diritto di Roma trovinsi sen z'altro costituita e formata una quantità di
istituzioni, in cui si ac centua il carattere quiritario, e come queste
acquistino un carattere prevalente e preponderante, mentre le istituzioni di
carattere genti lizio sembrano per il momento essere lasciate in disparte.
Spiegasi parimenti come il mancipium siasi distinto dal nec mancipium; come
l'espressione pressochè militare di mancipium sia sottentrata a quella
gentilizia di heredium; come diversi siano i modi per la trasmissione delle res
mancipii, e di quelle che non sono tali; come i diritti del quirite
compariscano in certo modo come illimitati e senza confine, poichè egli,
essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad essere
riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si comprende
eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto quiritario, e
come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche fra i
cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni
gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius
quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico,
che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma consuetudinaria,
che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a diventare comune al
patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del populus romanus
quiritium. Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due classi, che prima
erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in questo periodo
della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere le mosse da
certi concetti, come quelli del nexum, del mancipium, della manus iniectio, che
eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con quella inferiore.
314. Le cause intanto, che a parer mio possono aver determinata questa
singolare formazione del ius quiritium, che doveva poi eser citare tanta
influenza sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono essere cercate nel
carattere peculiare della costituzione serviana, e nello svolgimento che seppe
dare alla medesima il genio eminentemente giuridico del popolo romano. Prima
fra esse è la costituzione serviana, in virtù della quale all'organizzazione
essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra un'organizzazione novella,
in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella doppia qualità di capi di
famiglia e di proprietarii di terre. Siccome infatti la famiglia e la proprietà
privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni alle due classi, così esse
solo potevano essere di base alla partecipazione nella stessa comunanza. Quindi
un primo effetto logico ed inevitabile di questa speciale condi zione, in cui
si trovò collocato il popolo dei quiriti, venne ad es sere questo, che al punto
di vista giuridico si fece astrazione da quelle istituzioni intermedie, che si
frapponevano fra la famiglia ed il popolo, quali erano le genti e le tribù
primitive. Sia pure che queste istituzioni continuino ad esistere nel
patriziato; ma in tanto l'elemento gentilizio viene ad essere escluso dal ius
quiritium nello stretto senso della parola, in quanto che di fronte al censo
più non vi sono che capi di famiglia, riguardati come liberi disposi tori delle
proprie cose. Quasi si direbbe, che la vita giuridica si ri tira dalle
istituzioni intermedie, e viene invece a riunirsi più potente e concentrata
nelle due istituzioni estreme, le quali vengono cosi ad irrigidirsi, come il
diritto da esse rappresentato, per guisa che la famiglia e il suo patrimonio si
cambia nel mancipium del proprio capo, ed il populus assume un carattere
essenzialmente militare. Quella distinzione pertanto fra res publica e res
familiaris, che già aveva cominciato a delinearsi fin dapprincipio, ora viene
ad accentuarsi in modo più vigoroso e potente; poichè tutti i gruppi intermedii
vengono in certa guisa ad essere soppressi al punto di vista della costituzione
serviana. Parimenti siccome l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui
intercedevano così gravi differenze, era quello della comune difesa, e forse
anche quello dell'offesa e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il
nuovo popolo non poteva a meno di assumere un carattere essenzialmente
militare, che doveva riflettersi eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto
ciò che riferivasi al connu bium, al culto gentilizio, agli auspizii,
continuava anche dopo la costituzione serviana ad essere esclusivamente proprio
del patriziato: quindi i soli atti, che potessero essere comuni ai due ordini,
dove vano essere atti di carattere mercantile, quale era appunto l'atto per aes
et libram, il quale viene così a ricevere molteplici e sva riate applicazioni,
e ad essere la forma fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di
carattere quiritario. A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio
emi nentemente giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del
proprio diritto seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale
punto di vista, a cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo,
che per l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo
considerare i capi di famiglia come altrettanti capita, ed il complesso dei
loro diritti come un manci pium, ossia come una questione di mio e di tuo. Era
soltanto in questa guisa, che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza
poteva essere applicata quella iuris ratio, elaborazione propria del genio
romano, mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli
elementi affini. Fu questo il processo, mediante cui il diritto potè essere
sottoposto a quella logica astratta, per cui le per sone perdono in certa guisa
ogni personalità concreta e diventano dei capita; le fattispecie si riducono ad
una selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei
fatti umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante
costruzioni geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere
cosi un proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si
presenta più rigida, più esclusiva, fu certamente l'epoca serviana, perchè in
essa i membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto
del mio e del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero,
pondere acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti
del diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di astrazione
giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo, quale sa rebbe il
Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva chiamarsi
del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un lungo periodo
di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle tradizioni del medesimo.
Ma vi ha di più, ed è che senza un'astrazione di questo genere era impossibile
la formazione di una comunanza, come quella dei quiriti. Questi sono certamente
uomini reali, ma in quanto entrano nella comunanza sono riguardati soltanto
come capi di famiglia e come proprietarii di terre. Il quirite pertanto è esso
stesso un'astrazione, come sono astrazioni e costruzioni logiche tutti i
diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì, che ad esso può applicarsi
quella logica geometrica e precisa, che nel suo genere non è meno meravigliosa
di quella, che i Greci applica rono ai concetti del vero, del bello e del
buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà, ma hanno anch'essi una potenza
specula tiva e di astrazione, per cui isolano l'elemento giuridico dagli
elementi affini, e per tal modo riescono a costruire un edifizio logico e dia
lettico in tutte le sue parti, le cui linee son dissimulate nelle parti colari
fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei giureconsulti. È l'ignorare
questa dialettica latente, che ci rende così difficile il ricom porre le
dottrine dei giureconsulti classici, e a questo proposito sono altamente
persuaso, che questa dialettica non può essere sorpresa che alle origini del
diritto quiritario. Posteriormente infatti il numero infinito dei particolari
colla sua stessa varietà e ricchezza rende im possibile di comprendere
l'ossatura primitiva dell'edifizio, mentre la sintesi primitiva del diritto
quiritario, le cause che ne determina rono la formazione, e la logica, che ebbe
a governarla, possono facil mente somministrarci la chiave per comprenderne il
successivo svi luppo. Lo studio di questa struttura primitiva del diritto
quiritario, sarà argomento del seguente libro, e conclusione del presente
lavoro. Per ora intanto, onde non essere costretto ad interrompere la
esposizione della struttura organica del jus quiritium col racconto degli
avvenimenti storici, che contribuirono alla formazione di esso, credo opportuno
di porre termine al presente libro con un capitolo, in cui cercherò di
riassumere quella lotta per il diritto fra il pa triziato e la plebe, che segui
nel periodo, che intercede fra la co stituzione serviana e la legislazione
decemvirale. Le divergenze fra gli autori nell'apprezzare gli effetti della
costituzione serviana, non impediscono, che tutti siano concordi nel
riconoscere, che essa costitui il primo passo al pareggiamento dei due ordini.
Con essa infatti la plebe venne ad avere un terreno giuridico e legale, sovra
cui potè misurarsi col patriziato, ed una assemblea, in cui potè impegnare la
lotta. Da quel momento perciò potè manifestarsi quella legge, che secondo
Aristotele determina tutte le rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli
eguali sotto un aspetto, tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri
aspetti. Come potevano gli eguali nell'esercito, nei comizii centuriati, nei
tributi, continuare ad essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei
sacerdozii, e nel diritto (1 )? Finchè durd il regno di Servio Tullo, la lotta
non ebbe occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso
Servio si appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era
nello spi rito della costituzione da lui introdotta. Egli quindi rinnovo a più
riprese il censo; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti;
concesse la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo;
distinse i giudizii pubblici e privati; institui giudici privati per la
decisione delle controversie di minore impor tanza, e probabilmente eziandio la
Corte dei centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso della
parola, e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori (2). Fu in
tal le que (1) ARISTOTELES, Politica, ed. Bekker. Lib. V, pagg. 1301 e 1302.
Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE, De rep., I, 49,
allorchè scrive: « quo iure societas civium teneri potest, cum par non sit
conditio civium? Iura « paria esse debent eorum inter se, qui sunt cives in
eadem republica ». Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata la
dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno
stabile assetto; « itaque cum patres rerum poti rentur, nunquam constitisse
civitatis statum putant ». (2 ) Questi sono i provvedimenti attribuiti a Servio
Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad essere
accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione della
storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla punto
dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion., IV, 22, 4, 10, 13. 391
modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle plebi, che
continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come l'iniziatore
di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una sorda opposizione
nel patriziato, come lo dimostra il fatto, che egli avrebbe dovuto confinarlo
ad abitare nel vicus patricius (1). Dopo Servio così il patriziato che la plebe
si trovarono di fronte ad un pericolo comune, che fu il tentativo di tirannide
di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di mezzo le leggi ser viane, e
mentre da una parte cercò di occupare la plebe con la vori edilizii, si studið
dall'altra di comprimere il patriziato, non curandosi di convocare il senato,
nè di riempirne i seggi, che re stavano vacanti (2). – Ne consegui una sosta
nello svolgimento dei concetti ispiratori della costituzione serviana: sosta
forse più appa rente, che reale, poichè se il governo di un tiranno comprime la
libertà di tutti, può sotto un certo aspetto esser favorevole allo svolgersi
dell'uguaglianza fra le varie classi, rendendo tutti eguali di fronte al
dispotismo di un solo. Il tentativo ad ogni modo non potè riuscire, e quando i
due or dini dimenticarono le loro gare di fronte al nemico comune, venne ad
essere naturale, che l'evoluzione si ripigliasse, ritornando a quelle
istituzioni serviane, che per il momento erano ancora le sole, che potessero
essere di base ad un accordo del patriziato e della plebe. 317. Narra infatti
Livio, che i primi consoli furono nominati in base ai commentarii di Servio Tullo,
e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero richiamate in vigore le leggi di Servio
sui contratti, abrogate da Tarquinio ed accette alla plebe, riattivata
l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii per l'elezione dei magistrati e
per le deliberazioni popolari (3). Tutti gli autori poi, che ricordano il
passaggio dal governo regio al repubblicano, sono concordi in rico noscere, che
il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire al re, magistrato unico ed a
vita, il consolato, magistrato duplice ed (1) « Patricius vicus, scrive Festo,
dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a bente Servio Tullio, ut, si
quid molirentur adversus ipsum, ex locis superioribus opprimerentur ». Bruns,
Fontes, ed. V, pag. 351. (2) Dion., IV, 25; Liv., I, 49. Cfr. Bonghi, Storia di
Roma, I, pag. 209, ove riassume le tradizioni diverse a noi pervenute intorno a
Tarquinio il Superbo. (3 ) Liv., I, 60; Dion., V, 2. 392 annuo (1). Il potere
pertanto dei consoli fu una continuazione del potere regio, colla sola
differenza che il potere religioso si venne già in parte separando dal civile,
in quanto che i poteri, che appar tenevano al re qual sommo sacerdote del popolo
romano, furono per imitazione dell'antico affidati a un rex sacrorum, o rex sa
crificulus, ma in realtà si vennero concentrando nel pontifex maximus, chiamato
a presiedere il collegio dei fpontefici (2 ). Da cid in fuori il potere sovrano
non è dapprima ripartito fra i due consoli, ma persiste intero in ciascuno di
essi, salvo la reciproca intercessione, che l'uno può opporre agli atti
compiuti dall'altro. Che anzi, ad impedire che la continuità dell'imperium
possa essere interrotta col passare da un console ad un altro, tocca al magi
strato che esce di proporre ai comizii il proprio successore, e nel caso in cui
egli non lo faccia, si continua sempre a provvedere coll'istituzione
dell'interregnum, conservando il concetto ed il vo cabolo, che erano già in
vigore durante il periodo regio (3 ). È poi solo in seguito alle lotte fra
patriziato e plebe, e in causa anche dell'accrescersi della dominazione romana,
che quell'unico potere (imperium ) che accentravasi dapprima nel re e poscia
nei consoli, si viene lentamente e gradatamente suddividendo fra le mol.
teplici magistrature del periodo repubblicano; per guisa che le ma gistrature
maggiori (consoli, pretori, censori) si dividono in certo modo le funzioni, che
un tempo erano comprese nell'imperium regis, (1) Questo concetto, che nel
passaggio alla repubblica non siasi sostanzialmente mutato il carattere del
potere spettante al magistrato, occorre in Dion., IV, 72-75; in CiceR., De rep.,
II, 30 e in Livio, II, 1, 17. V. il raffronto che ne fa il Bongai, op. cit.,
pagg. 562-69. (2 ) Che la dignità del pontifex maximus dati soltanto dalla
repubblica, mentre prima era il re stesso, che era il sommo sacerdote del
popolo romano, è cosa da tutti ammessa. V. fra gli altri, Bouché-LECLERQ, Les
Pontifes de l'ancienne Rome, p. 8 e 9; e il Willems, Le droit public romain,
pag. 51 e pag. 318. A parer mio la causa storica del fatto sta in questo, che
colla costituzione serviana il populus ro manus quiritium, comprendendo anche
la plebe, perdette in parte quel carattere re ligioso, che aveva finchè era
ristretto alle genti patrizie, e quindi il magistrato del popolo romano assume
un carattere essenzialmente civile e militare, mentre i pon tefici, pur
rappresentando il popolo come famiglia religiosa, continuarono ad essere i
custodi delle tradizioni religiose e giuridiche di quel patriziato, da cui
erano tolti. (3 ) V. quanto all' interrex e alla nomina di esso per parte dei
patres o patricii ciò che si è detto ai numeri 237-39, pag. 288 e segg., ove ho
cercato di dimostrare che la nomina dell'interrex, la patrum auctoritas e la
lex curiata debbono riguar darsi come sopravvivenze della costituzione
esclusivamente patrizia. 393 mentre le magistrature minori (questori, edili)
sono uno svolgimento di quegli ufficiali subalterni, che dapprima erano
nominati dal re e dal console, e che finiscono col tempo per essere anche essi
nomi nati direttamente dal popolo (1). È in questo modo che si spiega come mai
siasi potuto avverare una trasformazione cosi grande nella forma di governo,
senza che si alterassero le basi fondamentali della costi tuzione primitiva di
Roma. 318. Intanto finchè durarono i pericoli esterni delle guerre susci tate
dagli esuli Tarquinii, si mantenne fra i due ordini un' appa rente concordia
(2), come lo dimostra il fatto, che i consoli sogliono essere tolti da famiglie
ritenute di tendenze favorevoli alla plebe, e che sono i consoli stessi, che
propongono di togliere le scuri dai fasci, allorchè rientrano nelle città, e
consacrano con leggi spe ciali il ius provocationis ad populum (3). Ma appena
colla morte di Tarquinio si attutiscono i pericoli esterni, si accentuano
invece i dissidii interni, ed è allora che si inizia una lotta, che direbbesi
un modello nel suo genere, tanta è la tenacità del patriziato nel conservare i
suoi privilegii e la perseveranza della plebe nell'ap profittarsi di tutte le
opportunità per ottenere concessioni novelle. Egli è durante questa lotta, che
già si pud scorgere come nella massa plebea venga distinguendosi la plebe ricca
ed agiata, la quale essendo pari in ricchezze aspira alla comunanza dei
connubii e degli (1) La specializzazione dell'imperium del magistrato è uno dei
processi più degni di nota, che presenti lo svolgimento delle istituzioni
repubblicane, poichè l'imperium regis, al pari del potere giuridico del capo di
famiglia, parte da un'unità e sintesi potente, a cui succede durante la
repubblica una differenzazione, la quale,mentre è determinata dall'incremento
della città e dalle lotte fra patriziato e plebe, obbe. disce però sempre alla
logica fondamentale del concetto primitivo di imperium. Cfr. MOMMSEN, Le droit
public romain, I, pag. 5; Herzog, Op. cit., I, § 32, pag. 580 e segg., e ciò
che si disse in proposito al nn. 201-204, pag. 245 e segg. (2) La diversità di
trattamento, usata dal patriziato alla plebe, nell'epoca che seguì
immediatamente la cacciata dei re e in quella posteriore alla morte di
Tarquinio il Superbo è accennata da Liv., II, 21, 6 e da Sallustio, Hist. fragm.,
I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che i dissidii esistevano già prima, e
che quindi venne soltanto meno l'indulgenza, che prima era adoperata. Op. cit.,
pag. 302. (3) La provocatio ad populum, che Livio chiama « unicum libertatis
praesidium ebbe ad essere consacrata negli inizii della repubblica colla lex
Valeria, proposta dal console Valerio Pubblicola. La provocatio doveva già
preesistere nel periodo regio, ma fu necessaria una espressa consacrazione di
essa per il nuovo elemento, che era entrato a far parte del populus. Cfr. ciò
che si disse al n ° 245, pag. 300 e 301. >> 394 onori, e la plebe povera
e minuta, che sopratutto teme il carcere privato dei creditori patrizii, e
aspira a quella ripartizione dell'ager pubblicus, mediante cui può entrare a
fare parte della vera ed ef fettiva cittadinanza, accolta nelle classi e nelle
centurie (1). Di qui i caratteri peculiari di questa lotta, che ha del pubblico
e del pri vato ad un tempo, cosicchè una sommossa provocata dalla legge inumana
sulla condizione dei debitori, può condurre alla istituzione del tribunato
della plebe, al modo stesso che una mozione per restringere l'arbitrio del
magistrato, finisce per riuscire ad una proposta di generale codificazione.
Cosi pure è un carattere di questo conflitto, che le proposte dei tribuni
sogliono comprendere più provvedimenti ad un tempo, anche di natura diversa, e
cid perchè essi mirano a tenere unite la plebe ricca ed agiata e quella povera
e minuta (2 ). Di più anche in questa lotta si mantiene quel carattere
pressochè contrattuale, che ha governato la formazione della città; poichè i
due ceti vengono fra di loro a transazioni e ad accordi, stipulano dei foedera,
e cercano persino di dare aime desimi quella consacrazione religiosa, che è
propria dei trattati fra i popolidiversi (leges sacratae) (3). Così pure la
plebe, quando trova incomportabile la propria coesistenza nella città, minaccia
di abban donare la comunanza e di fermare altrove la propria sede, o quanto
meno si ricusa alla leva, che è il primo obbligo e diritto del citta dino.
Dappertutto infine si palesa il carattere essenzialmente pra tico del popolo
romano, in quanto che il conflitto non appare do minato da questo o da quel
concetto teorico, ma sembra essere determinato dalle opportunità ed occasioni,
che si presentano nella realtà dei fatti. La questione infatti che si agita
viene nella so stanza ad essere una sola, cioè quella del pareggiamento
giuridico e politico dei due ordini; ma essa prende occasione ora dai mal
trattamenti inflitti ai debitori, ora dall'arbitrio del magistrato, ora (1)
Questa distinzione della plebe in due parti è acutamente notata da leinio
GENTILE, Le elezioni e il broglio nella Rep. Rom., pag. 24. (2) Di qui
l'espressione di lex satura o per saturam, la quale secondo Festo si
gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta ». Siccome però essa
cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti, che altrimenti non
sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano popolari, così si
cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma. Cic., De domo,
20, 53. Festo, vº Satura. Cfr. WILLEMS, op. cit., pag. 184. (3 ) V. quanto alle
leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta tri buniciæ
potestatis natura eiusque origine. Leipzig, 1883. 395 dalla ripartizione
dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto, ed ora infine dal divieto
dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall' esclusione di quest'ultima
dalle magistrature e dai sacer dozii (1). Per tal modo quella plebe, che memore
dapprima della condizione pressochè servile da cui era uscita, si contenta di
chie. dere l'istituzione di un magistrato, il quale non abbia altra potestá che
quella di venirle di aiuto, finisce col tempo, guidata ed orga nizzata da
questo istesso magistrato, per ottenere non solo il pareg giamento giuridico e
politico, ma per far entrare nei quadri della costituzione politica di Roma i
suoi magistrati (tribuni della plebe), i suoi plebisciti, ed i suoi comizii
tributi (2 ). 319. Qui però non può essere il caso di tener dietro alle vicis.
situdini diverse dei varii aspetti della questione politica e sociale, che si
agito fra il patriziato e la plebe, ma piuttosto di cercare quali fossero le
condizioni rispettive dei due ordini per ciò che si riferisce al diritto
privato. È questo certamente il maggior problema che presenti questo pe riodo
di transizione, poichè se la storia ha serbato qualche traccia delle lotte
politiche fra il patriziato e la plebe, noi sappiamo quasi nulla di quello che
accadde fra di loro nell'attrito dei quotidiani in teressi. Si aggiunge che le
testimonianze, che ci pervennero in proposito, sono del tutto contradditorie.
Mentre infatti Dionisio attesta che si rimisero in vigore le leggi intorno ai
contratti attri buite a Servio Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che
tutte le leggi promulgate dai re furono abolite con una legge tribunizia, e che
tutto fu lasciato alla consuetudine come era prima (3). Non vi è quindi altro
modo di uscire dalla difficoltà, che di argomentare lo stato del diritto
privato dalle condizioni rispettive, in cui si tro vavano le due classi. (1) Un
riassunto chiaro ed ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui ebbe a svol
gersi la lotta, fra patriziato e plebe, nelle parti attinenti al diritto,
occorre nel Mui RHEAD, Histor. Introd., part. II, sect. 17, pag. 83-88. Per un
racconto più partico lareggiato cfr. il Lange, Histoire intérieure de Rome,
livre II, pag. 111 a 217. (2 ) Già ebbi occasione di riassumere questo
singolare svolgimento della costitu zione politica di Roma a proposito dei
comizië tributi ai numeri 233-34, p. 271 e segg.; dei plebisciti ai numeri
231-32-33, pag. 281 e seg.; e dei tribuni della plebe n ° 249, pag. 292 e seg.
(3 ) Dion., V, 2; Pomp., Leg. 2, § 3 (Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo
l'incertezza del diritto sarebbe durata circa vent'anni; ma è facile il notare,
che se essa perdurò fino alle XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa
sessant'anni. 396 Ora è certo anzitutto, che in questo periodo quell'attrito
delle classi, che appare nel campo politico, dovette avverarsi eziandio nel
dominio strettamente giuridico. Anche qui dovettero trovarsi di fronte le
tradizioni patrizie e le consuetudini plebee, coll' avver tenza perd che la
magistratura esclusivamente patrizia fini per dare una prevalenza alle prime
sulle seconde; cosicchè è probabile, che sopratutto la plebe ricca ed agiata,
malgrado il divieto dei connubii, cercasse già in qualche modo di imitare
l'organizzazione della fa miglia patrizia. Di più siccome eravi fra il
patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non ancora quella di
connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un jus quiritium,
comune alle due classi, che già erasi iniziata colla costituzione serviana, ed
il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto quelle forme di carattere
mercantile, che allora si erano introdotte, ricorrendo sopratutto
all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, ossia dell'atto per aes
et libram. Che anzi, quando si voglia ammettere con alcuni autori, che il
tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti tolti dalle varie
classi e poscia dalle varie tribù, rimonti all'epoca di Servio Tullio,
converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca probabilmente
presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla formazione
del jus qui ritium, come quello che anche più tardi appare chiamato a ri
solvere questioni di diritto strettamente quiritario (1). Nella sua opera
tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai
decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca
distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei
tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le
questioni di stato (2 ). Infine è (1) Quanto all'istituzione dei centumviri e
alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo
precedente, nº 312, pag. 384, nota 3. (2) È del tutto incerta anche l'origine
dei decemviri stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai medesimi
sarebbe quello, che occorre in Livio, III, 55, il quale parla di iudices decemviri,
stati dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli edili della plebe
colla legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi il WLASSAK,
Römische Processgesetze, Leipzig, 1888, pag. 139 a 151, sostiene che i
decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices decemviri di
Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di essi, che
giudicavano delle questioni di libertà e distato. Cic., pro Caec., 33. V. per
l'opinione comunemente ricevuta Keller, Il processo civile romano (Traduz.
Filomusi, Napoli 1872, pag. 17), il quale anzi li farebbe rimontare sino a
Servio Tullio, come giudici per le cause 397 pur probabile, che gli edili della
plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora chiamati a
risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e sulle
fiere, e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle
costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo
il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si
riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia,
lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo
collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato
alla custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il
proprio ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una
indipendenza maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un
pontifex maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si
comprende pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci
descrivono il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della
Repubblica, come riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi
ultimi come dei primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium, come di
una scuola a cui venne poi formandosi il ius civile (1). Intanto è naturale,
che i pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto
per iscopo di applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano
sor gendo collo svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso
venissero continuando quella elaborazione di un ius quiritium, che erasi
iniziata dal tempo, in cui la plebe era entrata a far parte della cittadinanza
romana. 320. Insomma la conclusione ultima viene ad essere questa, che in
questo periodo dovette avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni
patrizie e le costumanze plebee, e che perciò dovette essere grandissima
l'incertezza intorno a quel diritto, che doveva essere applicato nei rapporti
fra il patriziato e la plebe. Ne conseguiva che private, il che non sembra da
ammettersi, perchè il giudice di queste cause dovette essere piuttosto il iudex
unus tratto dai iudices selecti. (1) Per l'influenza dei pontefici sul diritto
civile vedi sopra i numeri 262 e 263, pag. 321 e seg. colle note relative. Si
occupò molto largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm. R. G., 1, $
43, pag. 219 e seg. Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e
commentarii dei pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm. Literatur, Leipzig,
1882, SS 70-76, pag. 114 a 119. 398 il console, chiamato ad amministrare la
giustizia, finiva per non avere alcun confine al proprio arbitrio, il che
doveva essere grave alla plebe, anche per trattarsi di magistrato, il quale per
essere tratto esclusivamente dall'ordine patrizio, poteva ritenersi favorevole
a quest'ultimo. Si comprende cid stante come Terentillo Arsa, nel 292,
cominciasse dal chiedere che fosse eletta una commissione, che determinasse per
iscritto quale fosse la giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine
all' arbitraria ed oppressiva ammini strazione di ciò, che essi chiamavano col
nome di diritto e di legge (1). Fu solo nell'anno dopo, che d'accordo coi
colleghi, per togliere alla sua proposta il carattere di odiosità contro il
potere dei consoli, egli chiese che la legge, così pubblica come privata,
dovesse essere codificata, e che cosi ogni incertezza venisse per quanto si
poteva ad essere rimossa. L'importanza della questione viene ad essere provata
dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad essere sostenuta in torno alla medesima;
poichè solo nel 303 di Roma si ebbe completa la legislazione decemvirale. Qui
non può essere il caso di entrare nell'esame minuto della medesima, nè di
parlare dei tentativi di rico struzione, che se ne vennero facendo anche in
questi ultimi tempi (2): mi basterà invece dir qualche cosa intorno al
carattere generale di questo codice, da cui doveva prendere le mosse tutto lo
svolgimento posteriore del diritto civile di Roma. A mio avviso la legge
decemvirale e la legge Canuleia, che la segui a poca distanza (309 di Roma) ed
aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato e la plebe, debbono essere
considerate, quanto al diritto privato di Roma, come l'avvenimento che chiude
il periodo delle origini ed apre quello dello svolgimento storico della giuris
prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole si chiude in certo modo il
periodo del ius non scriptum, di quel diritto cioè, che viveva più nelle
consuetudini che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo del ius scriptum,
poichè da quel momento anche l'interpre tazione cominciò ad avere la sua base
nella codificazione (3 ). Con (1) Liv., III, 9. Cfr. MuirŅEAD, op. cit., pag.
87 e 88. (2 ) V. Ferrini, Storia delle fonti del diritto romano, pag. 5 a 9. È
poi noto, che i grandi tentativi di ricostruzione delle XII Tavole si riducono
a quelli di Jacopo Gottofredo, del Dirksen e a quello recentissimo del Voigt,
già più volte citato. (3) Non voglio dire con ciò, che prima non esistessero
delle leggi scritte: ho anzi dimostrato che dovettero esservene fin dal periodo
regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole, che si introdusse tutto un sistema di
legislazione scritta, il quale potè servire 399 esso parimenti termina il
periodo del ius non aequum, ossia di un diritto disuguale fra patriziato e
plebe, e comincia il periodo del ius aequum, ossia la formazione di un diritto
eguale per l'uno e per l'altro ceto, il che gli autori esprimono con dire, che
le leggi delle XII Tavole erano intese ad aequandum ius e ad aequandam
libertatem (1). Con esso infine termina il periodo della indistinzione del fas
e del ius, al modo stesso che già si possono scorgere i principii del diverso
indirizzo, in cui si pongono il diritto pubblico e il diritto privato; dei
quali il primo continua a svolgersi nelle lotte della piazza e del foro, mentre
il secondo comincia ad apparire come il frutto della tacita elaborazione prima
dei pontefici e poscia dei giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche
la legislazione decemvirale deve essere considerata come un compromesso fra i
due ordini e in certo modo come una specie di patto fondamentale della loro coe
sistenza nella medesima città (2 ). Di qui la conseguenza, che le XII Tavole nè
comprendono un sistema compiuto di legislazione pubblica e privata, nè
rinnovano tutte le disposizioni che già erano contenute nelle leggi regie: ma
sembrano il più spesso limitarsi ad introdurre sotto forma imperativa quei
provvedimenti, che potevano essere stati oggetto di discussione e di lotta, il
che è sopratutto evidente quanto alle disposizioni, che si riferiscono al
diritto pub come punto di partenza alla iuris interpretatio ed alla disputatio
fori, di cui parla Pomponio, L. 2, § 5, dig. 1-2. Quanto ai caratteri
particolari di questa interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING,
Esprit du droit romain, III, pag. 142 e segg. (1) LIVIO (III, 24 ) fa dire ai
decemviri « se quantum decem hominum ingeniis provideri potuerit, omnibus,
summis infimisque iura aequasse ». Di quianche l'espres sione, che occorre in
Livio ed in Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero il fons omnis aequi
iuris, ed anche il finis aequi iuris, perchè esse, a differenza di altre leggi,
non furono il frutto di una sorpresa, ma di una vera transazione ed accordo fra
i due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER, Introd. Histor., Bruxelles,
1881, pag. 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII Tafeln, I, pag. 7 e note
relative. (2) Questa specie di compromesso appare dalle parole che Livio, III,
31 attribuisce ai tribuni della plebe: « finem tamen certaminum facerent. Si
plebeiae leges displi « cerent, at illi communiter legum latores et ex plebe et
ex patriciis, qui utrisque « utilia forent, quaeque aequandae libertatis
essent, sinerent creari ». Di qui rica vasi anche un argomento per inferire,
che la legislazione decemvirale suppone già una specie di fusione del diritto
delle genti patrizie con quello della plebe, il che sarà meglio dimostrato più
oltre. 400 blico, e per quelle che riguardano l'usura e il trattamento che il
creditore può usare contro il debitore (1). Cid spiega anche in parte la
sobrietà e la concisione della legislazione decemvirale, la quale, senz'entrare
nella descrizione degli istituti ed in disposizioniminute, si limita a porre
dei concetti sintetici e comprensivi, pressochè enunziati in forma assiomatica,
lasciando poi alla interpretazione di ricavare da essi tutte le conseguenze, di
cui potevano essere ca paci (2). Di qui derivano eziandio la venerazione e la
riverenza, in cui fu tenuto sempre questo codice primitivo del popolo romano;
la differenza che i Romani ravvisarono sempre fra queste leggi fonda mentali, e
quelle che si vennero gradatamente aggiungendo alle medesime; ed il fatto
incontrastabile, che la legislazione decemvirale, malgrado la pochezza dei
proprii dettati, ha finito per essere il punto di partenza di un sistema intiero
di legislazione. Tuttavia il carattere più saliente e più importante per la
storia del diritto primitivo di Roma, che a mio giudizio vuolsi ravvisare nella
legislazione decemvirale, consiste in questo, che siccome le XII Tavole furono
il primo codice comune ai due ordini, cosi fra tutti i documenti dell'antico
diritto, esse portano le traccie più evi denti dell'origine diversa delle
istituzioni, che entrarono a costituire il sistema del primitivo diritto romano.
In esse infatti noi troviamo da una parte trasportate di peso certe
istituzionidelle genti patrizie, il che si avverò sopratutto quanto
all'organizzazione della famiglia e alla successione e tutela legittima degli
eredi suoi, degli agnati e dei gentili, istituzioni che i giureconsulti ci
dicono appunto essere state introdotte dalla legislazione decemvirale (3 ). In
esse parimente (1) Così, ad esempio, la legge secondo cui a de capite civis
nisi maximo comi tiatu ne ferunto » mira certamente ad impedire, che le accuse
capitali potessero re carsi innanzi ai concilia plebis, come i tribuni della
plebe avevano più volte tentato di fare, come lo dimostra, fra gli altri, il
processo contro C. Marcio Coriolano. Uno scopo analogo dovette pure avere la
legge: privilegia ne inroganto. Cic., de leg., 19, 44. (2) Nota a ragione il
Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu ridico di Roma, sia
perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia anche per il
carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi HOLTZENDORF's,
Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano eziandio, che
l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in quanto che già si
dànno come formati i concetti del nexum, del mancipium, del testamentum, senza
che occorra di indicarne il contenuto. (3) Se prestiamo fede ai giureconsulti
sarebbero state introdotte direttamente dalla legislazione decemvirale le
successioni e le tutele legittime e le legis actiones, le quali sarebbero state
composte dai pontefici sui termini stessi delle XII Tavole. 401 è evidente lo
sforzo dei decemviri di porgere alla plebe un mezzo per uscire dalla posizione
di fatto in cui si trovava, e procurarsi invece una posizione di diritto; come
lo dimostra fra le altre cose la parte assai larga fatta all'usus auctoritas,
che compare qual mezzo per contrarre le giuste nozze, per acquistare le cose
mobili ed immobili, e qual modo di acquisto della stessa eredità (1). Infine
nella legislazione decemvirale si rinviene eziandio una parte dovuta
all'elaborazione di quel rigido ius quiritium, che ebbe a formarsi sotto
l'influenza del censo e delle altre istituzioni serviane, i cui concetti
fondamentali sono quelli del nexum, del mancipium, del testamentum, dell'atto
per aes et libram, nei quali tutti il quirite appare con un potere senza
confini, cosicchè la sua parola viene in certo modo a convertirsi in legge: «
uti lingua nuncupassit ita ius esto » (2 ). 322. Questi varii elementi di
origine diversa, che insieme ad alcune disposizioni particolari imitate dalle
legislazioni greche (3) (1) Lo stesso è pure a dirsi del riconoscimento della
fiducia, la quale non avendo forma giuridica dovette probabilmente nascere
nelle consuetudini della plebe. Vedi in proposito ciò che si disse quanto al
contributo della plebe nella formazione del di ritto romano ai numeri 148 a
157, pag. 182 e segg., e sopratutto a pag. 184. Si ritornerà poi sull'argomento
nel libro seg., cap. IV, § 3, trattando della mancipatio cum fiducia. (2) V.
cap. precedente, relativo all'influenza della costituzione serviana sulla for
mazione del ius quiritium. (3) V. Lattes, L'ambasciata dei Romani per le XII
Tavole. Milano, 1884. Non può qui essere il caso di trattare a fondo la
questione della ambasciata in viata in Grecia e ne quella dell'influenza greca
sulle XII Tavole, questione che pud aver bisogno di un nuovo stadio dopo la
scoperta delle leggi di Gortyna: ma credo che il seguente libro proverà fino
all'evidenza, che le basi fondamentali del primitivo ius quiritium sono desunte
dalle istituzioni già esistenti fra le genti italiche, e che furono
eminentemente ed esclusivamente romani così il modo in cui furono foggiati gli
istituti giuridici, come il processo logico e storico ad un tempo, con cui
furono svolti. L'analogia pertanto di certi istituti può anche essere prove
nuta o dalla comune origine ariana, o dalle condizioni analoghe, in cui si
trova rono le genti italiche e le elleniche nel passaggio dall'organizzazione
per genti alla vita cittadina; mentre l'imitazione diretta si limita a
disposizioni di poca impor tanza, la cui origine ellenica è sempre di buon
animo accennata dagli autori la tini, che non disconobbero mai la sapienza dei
Greci, pur affermando la propria superiorità in tema di diritto. Cfr. Voigt,
XII Tafeln, I, pag. 10 a 16, dove pare si trovano raccolti i passi degli
antichi autori, che si riferiscono all'argomento. Quanto all'influenza greca
sulla giurisprudenza romana in genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella
Vita del diritto, pag. 179 a 194. 1. CARLE, Le origini del diritto di Roma, 26
402 formarono il substratum della legislazione decemvirale, finiscono dopo di
essa per svolgersi contemporaneamente e quindi con essa può dirsi aver termine
il ius quiritium propriamente detto, e cominciare. invece l'elaborazione di un
ius proprium civium romanorum, in cui continuarono però a perdurare le
primitive istituzioni del ius quiritium. Ciò ci è dimostrato dall'attestazione
di Pomponio, se condo cui tutto quel diritto, che venne a formarsi sulla
legislazione decemvirale, mediante la iuris interpretatio, la disputatio fori,
e la formazione delle legis actiones, venne appunto ad essere indi cato col
vocabolo di ius civile (1). Anche qui pertanto si fa ma nifesto quel singolare
magistero, che si rivela poi in tutta la forma zione della giurisprudenza romana,
per cui, accanto al diritto già formato e consolidato, havvene una parte, che
continua sempre ad essere in via di formazione. Per talmodo accanto al ius
quiritium, iniziatosi sopratutto colla costituzione serviana, venne formandosi
il ius civile, i cui esordii partono dalla legislazione decemvirale; poi
accanto a questo si esplicò il ius honorarium, elaboratosi sopratutto
sull'editto del Pretore; infine molto più tardi ancora, secondo qualche autore,
accanto al ius ordinarium viene formandosi il cosi detto ius extraordinarium (2
). Parmi quindi giusto il ritenere, che colla legislazione decemvirale si
chiude il periodo delle origini propriamente dette, in cui le varie istituzioni
trovansi ancora allo stato embrionale, e comincia il vero svolgimento storico
del diritto romano, in cui le varie parti del di ritto pubblico e privato, già
procedendo separate le une dalle altre, debbono anche essere studiate
separatamente nel proprio sviluppo. È a questo punto pertanto, che può essere
opportuno un tentativo di ricostruzione di quel primitivo ius quiritium, che a
mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva di tutta la giurisprudenza
romana, e può darci il segreto di quella dialettica potente, che strinse
insieme le varie parti della medesima. Spero che la bellezza e l'im portanza
grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per la spiegazione del
diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie origini, non ha
cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi perdonare l'audacia
del tentativo. (1) KUNTZE, Ius extraordinarium der römischen Kaiserzeit.
Leipzig, 1886. (2 ) POMP., Leg. 2, SS 5 e 6, Dig. (1-2). LIBRO IV.
Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La struttura
organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E opinione
pressochè universalmente adottata, che il primitivo diritto di Roma porti in sè
le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato in ogni sua
parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata, determinata
esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui trovossi il
primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della formazione del
ius quiritium, nel momento in cui per opera della costituzione serviana
comincio ad essere comune alle due classi, mi conduce a conclusioni alquanto
diverse. Questo ius quiritium, se nei vocaboli può ancora portare le traccie di
un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il risultato di
una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a trascegliere
dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento di questo
libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto privato di Roma,
che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium, e a costituire
così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che doveva poi
durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di seguire
talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici, anche
oltre gli stretti confini del ius quiritium. Il motivo è questo, che anche
nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a parer
mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle origini.
Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto romano
consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua lunga
durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era stata
iniziata; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi occorrano
certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una conseguenza
logica di fatti, che si avverarono nel principio della formazione, e
dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata. 404 - che potevano
accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento
giuridico da tutti gli altri punti di vista, sotto cui i fatti sociali ed umani
possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace; i suoi
concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche, in cui esso si
manifesta; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si
trasportano da uno ad un altro negozio giuridico; la coerenza organica delle
sue varie parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica, di
cui appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui
esso riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni
so ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di
esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che
concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso
nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo
genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a
vocaboli tolti dalle scienze fisiche, chimiche e naturali, perché è soltanto
nelle naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle
analisi, ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In
esso dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e
coerente, che anche un giureconsulto, preparato da una lunga edu cazione
giuridica, stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata con
dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il quale,
guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro di arte
giuridica, che può essere considerato come un pegno della perfezione, a cui
esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto quiritario
infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi, di cui esso
si vale; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni elemento affine, che
i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari dei suoi concetti
politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche, e
costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica
astratta, che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la logica
giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo più
vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i varii
atteggiamenti, sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito
infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite, in quanto si
considera come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche,
deve per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero
della parola. Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è
l'uomo isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto
l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale
soltanto, che egli conta nel censo serviano, ed è come tale eziandio, che esso
si presenta nel primitivo ius quiritium. Esso inoltre è anche un'astrazione sotto
un altro aspetto, in quanto che la logica giuridica lo isola da tutti i vincoli
religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere sottoposto, e lo concepisce
come fornito di un potere illimitato e senza confini. Essa lo considera come un
pater familias, ancorchè in effetto non abbia figliuolanza, e in quanto è tale,
gli attribuisce i poteri più illimitati. Egli infatti quale capofa miglia ha il
ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sui servi; come proprietario pud
usare ed abusare delle proprie cose; come credi tore può anche appropriarsi il
proprio debitore, venderlo al di là del Tevere e dividerne il corpo, se
concorra con altri creditori; come testatore pud disporre in qualsiasi guisa
delle proprie cose per il tempo per cui avrà cessato di vivere. Col tempo
questa potestà giuridica illimitata potrà apparire eccessiva, in quanto che si
verrà a riconoscere che il quirite potrà anche abusare di essa, come il
magistrato del proprio imperium, ed in allora si cercherà di porre dei limiti
al suo potere come padre, come proprietario, come credi tore, come testatore,
come padrone; ma nel suo erompere primitivo l'uomo, a cui appartiene l'optimum
ius quiritium, è una indivi dualità completa, che sotto l'aspetto giuridico non
subisce limitazione di sorta. Il quirite poi, in base al censo serviano,
riunisce due carat teri: quello cioè di capo di famiglia e di proprietario di
terre, e i medesimi si compenetrano per modo, che i due concetti si vengono
immedesimando l'uno nell'altro, cosicchè, quale padre di famiglia, esso
apparisce come un proprietario, e per essere proprietario deve essere un capo
famiglia; donde consegue, che anche i due vocaboli di familia e di mancipium
possono sostituirsi l'uno all'altro (1). (1) V. in proposito il Voigt, Die XII Tafeln,
II, pag. 10 e 11, note 5 e 6, ove son citati varii passi da cui risulta, che la
familia in personas et in res deducitur. Leg. 195, Dig. (50, 15 ). Cid pure
accade del mancipium, il quale talvolta è preso in significazione così larga da
comprendere non solo le cose, ma anche le persone 406 Nel censo infatti non
comparisce che il caput, in quanto unifica in sè medesimo persone e cose, e in
quanto egli è libero, cittadino, in dipendente nel seno della famiglia. Esso
conta per uno, ma intanto rappresenta molte persone ad un tempo: cosicchè anche
la proprietà, che trovasi posta in suo capo, mentre nel costume appartiene alla
famiglia, sotto il punto di vista giuridico viene invece ad essere considerata
come una proprietà esclusivamente propria del capo di famiglia. Quasi si
direbbe che l'imperium del quirite nella propria casa viene ad essere foggiato
sulmodello stesso del regis imperium per quello che si riferisce alla città.
Esso ha impero sulle cose e sulle persone, al modo stesso che il magistrato ha
l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed anche l'altra podestà, sotto il punto
di vista giuridico e politico, non hanno confine, sebbene nella realtà siano
contenute in stretti vincoli dal costume pubblico o privato. Di qui la
conseguenza, che mentre questo è il momento storico, in cui ap parisce più
senza confini il potere del padrone sugli schiavi, quello del marito sulla
moglie, quello del padre sui figli, noi intanto ab biamo tutti gli argomenti
per credere, che fu appunto questo il tempo, in cui fu migliore la condizione
degli schiavi, volontariamente accettata la subordinazione dei figli e della
moglie, e quello in cuiil potere del padre, cosi esorbitante nella sua
configurazione giuridica, nella realtà non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu
sopratutto in questo primo periodo, che i figli dei servi erano allevati con
quelli del padrone; che le mogli, mentre giuridicamente potevano essere
ripudiate, nel fatto non conoscevano il divorzio; che i figli prova vano la
severità del padre, non tanto nelle pareti domestiche, quanto piuttosto,
allorchè egli investito del pubblico potere giungeva a soffo care gli affetti
del sangue per far rispettare l'imperium, di cuitro vavasi insignito (1).
dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra l'espressione conservataci da
Gellio, secondo cui la mater familias è in manu mancipioque mariti. XVIII, 6,
9. Ciò però non toglie, che il vocabolo familia significasse di preferenza il
complesso delle per sone, e quello di mancipium il complesso delle cose, che
erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid apparirà meglio in questo
stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto del mancipium, e delle sue
varie significazioni. (1) La causa di questo contrasto tra l'ordinamento
giuridico della famiglia e le condizioni reali della medesima sarà meglio posta
in evidenza al cap. 1, § 1°, ove si discorre del ius connubii. Quanto alla
figura del padre di famiglia patriarcale durante il periodo gentilizio, vedi
sopra il nº 94, pag. 119. 407 326. Se non che è ovvio il chiedersi, in qual
modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso ed efficace la figura del
quirite. Io non dubito di rispondere che questa concezione dell'uomo sotto
l'aspetto esclusivamente giuridico, se per una parte fu determinata dalle
condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche l'effetto di una potente
astrazione giuridica, compiuta da un popolo con un pro cesso mentale non
diverso da quello, che seguirebbe un giureconsulto moderno. Gli elementi
preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella figura del
capo di famiglia, e nel concetto della proprietà, che a lui apparteneva.
Mediante un lavoro di astrazione, che è famigliare al giureconsulto, i due
concetti di capofamiglia e di proprietario furono staccati dall'ambiente, in
cui si erano for mati, furono isolati da tutti gli altri rapporti di carattere
gentilizio, riguardati attraverso il crogiuolo del censo, in cui persone e cose
dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa figura tipica del quirite,
che è soldato ed agricoltore, capo di famiglia e proprietario, individuo e capo
gruppo, il quale sotto un aspetto è una realtà e sotto un altro è già una
astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi delle due istituzioni
fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali vengono a presentarsi nel
ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla costituzione serviana, An
ch'esse sono tratte dalla realtà, e sono due ruderi dell'organizzazione
gentilizia, nel senso vero e proprio della parola, salvo che, traspor tate nel
seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le circon dava, fanno su chi
le considera un effetto analogo a quello di quei ruderi delle mura serviane,
che circondate da un' aiuola si incon trano nella Via Nazionale di Roma
moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e la famiglia debbono
essere considerate come due costruzioni giuridiche, in quanto che esse non sono
la pro prietà e la famiglia, quali effettivamente esistevano, ma sono il frutto
di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e l'altra sono iso late da quegli
elementi, sopratutto religiosi e morali, che nella realtà ne moderavano la
rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale, non è più nè il gentile, nè
il cliente, né il patrizio, nè il plebeo, ma è un capo famiglia, considerato
come padrone assoluto delle cose e delle persone, che da lui dipendono; cosi
l'aureola del buon co stume, del consiglio domestico, del consiglio degli
anziani, delle tradizioni del villaggio, della religione, di cui il padre
antico era il sacerdote, viene a scomparire pressochè intieramente nel diritto
408 quiritario. In questo più non scorgesi, giuridicamente parlando, che un
caput, che è proprietario e padre ad un tempo, e il cui potere (manus) sulle
persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium o familia ), apparisce senza
confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di una logica, il cui processo
sarebbe stato ad ogni istante interrotto, se si fosse dovuto tener conto degli
altri vincoli e rapporti, in cui il quirite effettivamente si trovava. 327. Lo
stesso deve pur dirsi di quel carattere, cosi saliente nel di ritto primitivo
di Roma, per cui i poteri sulle persone e sulle cose vengono ad immedesimarsi
l'uno nell'altro, e possono quindi essere in dicati coimedesimivocaboli,
rivendicati nella stessa guisa, e trasmessi col medesimo atto. Anche ciò non
deve ritenersi come indizio, che per i Romani la potestà del padre si
confondesse colla proprietà: ma è unicamente il frutto di una elaborazione giuridica,
in quanto che questi due poteri, dovendo passare per il crogiuolo del censo,
venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto del mio e del tuo. Ed a questo
riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu una grande ventura per il
diritto romano, che il medesimo fosse cosi costretto a modellare ogni diritto
sopra quello di proprietà, in quanto che non eravi certamente altro concetto,
che potesse meglio acco modarsi a tutte le applicazioni della logica giuridica.
Se questa infatti avesse dovuto applicarsi alle persone, si sarebbe ad ogni
istante inceppata in considerazioni di umanità, mentre spiegandosi in certa
guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte le deduzioni, di cui poteva
essere capace, e per tal modo il diritto potè appa rire in certi casi inumano e
crudele, ma la costruzione giuridica venne ad essere più logica e più coerente.
Cosi deve pure attribuirsi ad una elaborazione giuridica, resa ne cessaria
dalle condizioni, sotto cui patriziato e plebe entravano a far parte della
comunanza, quel concetto, per cui quella proprietà, che nel costume ritenevasi
appartenere alla famiglia, giuridicamente in vece venne ad essere considerata
come spettante ad un individuo, che poteva disporne in qualsiasi guisa. Questo
infatti era il solo modo di combinare il concetto della proprietà famigliare,
che era proprio del patriziato, con quello della proprietà privata ed
individuale, che era la sola, che fosse conosciuta dalla plebe. Fondendosi
insieme, le due formedi proprietà diedero origine a quella singolare
istituzione della proprietà quiritaria, che nel costume si ritiene della
famiglia, e in diritto si considera come esclusivamente propria del padre, per
409 cui tutto ciò, che acquistano gli altri membri della famiglia, a lui solo
appartiene (1). 328. Fermo cosi nelle sue linee generali il concetto
fondamentale del quirite, quale ebbe ad uscire dal crogiuolo del censo
istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il comprendere come i varii
atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato, abbiano potuto essere
scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad al trettante concezioni
giuridiche foggiate sullo stesso modello. Il quirite infatti costituisce in
certo modo la configurazione giu ridica dell'umana persona, quale allora poteva
essere concepita, e come tale può essere considerato: – o in quanto sta, ossia
nella posizione giuridica (status), che egli tiene nella comunanza quiri tiana:
- o in quanto egli si muove ed agisce, ossia in quanto egli entra in rapporti
con altri quiriti. In quanto sta, ossia in quanto egli tiene uno status, questo
può essere scomposto nei suoi varii elementi, e quindi il quirite viene ad
avere un caput, che comprende tutta la sua capacità giuridica come quirite; una
manus, che inchiude il complesso dei poteri, che gli appartengono ex iure
quiritium; un mancipium, il quale implica parimenti nella sua significazione
primitiva così le persone, che le cose, che da lui dipendono per diritto
quiritario. È poi degno di nota, che tutti questi vocaboli, in cui viene ad
essere racchiusa l'individualità giuridica del quirite, hanno una
significazione mate riale e giuridica, concreta ed astratta ad un tempo. Cosi,
ad esempio, il vocabolo caput, mentre da una parte indica la parte più nobile
ed importante del corpo, dall'altra designa la capacità giuridica poten ziale
del quirite che è come la sorgente di tutti i diritti spettanti al medesimo;
quello dimanus,mentre esprime l'organo mediante cui si esplica la forza e
l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il sim bolo efficacissimo
dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in certi determinati poteri;
e quello infine di mancipium da ma nucaptum, mentre da una parte significa una
cosa, che per essere materialmente afferrata dalla manus, non può sfuggire alla
mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di sottomissione giuridica, in
cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da essa dipendono. (1) Questo
carattere speciale della proprietà quiritaria e il modo in cui essa potè
formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg., $ 6, ove si discorre
dell'origine del dominium ex iure quiritium. 410 Questi varii elementi poi,
intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e coerente; poichè,
tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico, la manus viene in certo
modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la dirige e il mancipium
che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed agisce, il quirite
viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue estrinsecazioni giuridiche
possono essere richiamate: al connubium, da cuideriva, si può dire, tutto il
diritto, che si riferisce alle persone; al commercium, in cui si com pendiano
tutte le manifestazioni giuridiche, che si riferiscono alle cose; all'actio, da
cui scaturisce tutto quel complesso di proce dure, con cui egli pud far valere
qualsiasi suo diritto: vocaboli anche questi, che hanno pure una significazione
materiale e giuridica ad un tempo. Tutti questi elementi poi, mentre concorrono
a costituire l'organismo del tutto, sono percorsi da un proprio concetto
informa tore, che si viene logicamente svolgendo, e che dà cosi origine a
quella dialettica latente della giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si
possono spiegare certe peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi,
che tutto questo bagaglio del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal
periodo gentilizio, perchè già in esso eransi formati i concetti del caput per
indicare il capo del gruppo famigliare o gentilizio, della manus per indicare
il complesso dei suoi poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone
che gli erano soggette; come pure in esso, già si erano preparati i concetti di
connubium, di commercium e di actio. Vi ha però questa differenza, che mentre
questi un tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle
varie genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende
nella co munanza quiritaria, ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività
giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti (1). Quindi è, che
mentre questi concetti un tempo avevano una significazione, che era determinata
dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo staccati
dall'ambiente stesso, si cambiano in altrettante forme e concezioni logiche, e
come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico compiutamente
diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli seguenti. (1) Il
naturale processo, in base a cui venne formandosi un diritto fra le varie
genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg., pag. 117, e quello per cui i
concetti intergentilizii così formati si cambiarono in concetti quiritarii
trovasi descritto al n ° 266. Il quirite nel suo status. § 1. – Il censo
serviano e la genesi dei concetti di caput, manus, mancipium. 329. Anche oggidi
il più arduo problema, che presentino le ori gini del ius quiritium, consiste
nello spiegare come mai il mede simo si trovasse di un tratto isolato da
quell'ambiente religioso e gentilizio, in cui erasi formato, e come esso abbia
potuto prendere le mosse da concetti così sintetici e comprensivi, quali sono
quelli di caput, manus, mancipium. Come mai potè accadere, che quel ius, che
presso le genti patrizie era ancora soverchiato dal fas ed ed avviluppato nel
mos (1), sia pervenuto pressochè di un tratto ad affermare la propria esistenza
e a ricevere uno svolgimento lo gico e storico del tutto distinto da quello
della religione e della mo rale? In qual modo parimenti potè accadere, che un
diritto, il quale, secondo l'attestazione dei giureconsulti, ebbe a formarsi «
necessi tate exigente et rebus ipsis dictantibus », siasi iniziato con sintesi
potenti, che inchiudono in germe tutti i suoi ulteriori svolgimenti? Son note
in proposito le divergenze degli autori e le congetture innumerabili, che
furono poste innanzi, ed è certo assai difficile di giungere ad una
risoluzione, che possa rispondere a tutte le ob biezioni. Persuaso tuttavia,
che per comprendere le istituzioni di un popolo, sia sopratutto indispensabile
di spogliarsi delle idee del tempo, per trasportarsi nell'ambiente e nel
pensiero del popolo, fra cui quelle istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo
che il solo modo per giungere a comprendere questa singolare formazione del ius
quiritium e la significazione dei concetti da cui esso parte, sia quello di
ricostrurre in base alle condizioni economiche e sociali, in cui si trovavano
il patriziato e la plebe, quella comunanza quiritaria, (1) Il carattere
eminentemente religioso del diritto primitivo delle genti patrizie fu
dimostrato più sopra, lib. I, cap. V, pag. 90 a 104, discorrendo dei rapporti
fra il mos, il fas e il ius. Il medesimo poi si mantenne ancora durante il
periodo della città esclusivamente patrizia, come lo dimostra l'analisi delle
leges regiae fatta ai nn. 268 a 270, pag. 329 e segg. 412 la cui formazione
ebbe ad essere determinata dalla costituzione e dal censo di Servio Tullio.
330. Credo di avere dimostrato a suo tempo come il patriziato e la plebe,
anteriormente all'epoca serviana, non avessero comuni nè la religione, né i
costumi, nè l'organizzazione gentilizia, nè i connubii, che sono il fondamento
dell'organizzazione domestica. I soli diritti, che la città patrizia avesse
accordati alle plebi circo stanti, non devono neppure essere indicati col nome
di ius com mercii, ma bensi con quello di ius nesi mancipiique; il quale
consisteva nel diritto dei plebei di potersi obbligare vincolando la propria
persona, e di poter disporre di quelle possessioni, che essi tenevano nel
territorio romano (1). È quindi evidente che, se era possibile una comunanza
fra i due ordini, questa nelle origini non poteva avere nè un carattere
religioso e neppure un carattere mo rale, ma poteva solo avere un carattere
esclusivamente economico, giuridico e militare. Ne consegui pertanto, che per
formare questa comunanza venne ad essere necessario di sceverare affatto il
ius, nel senso stretto e rigido della parola, dal fas e dal mos, con cui prima
trovavasi implicato nelle istituzioni delle genti patrizie. Questa selezione
erasi già in parte iniziata col formarsi della città esclusivamente patrizia,
poichè già fin d'allora erasi venuta distin guendo la vita pubblica dalla
privata ed erasi già in parte affie volita l'organizzazione gentilizia (2); ma
la medesima dovette spin gersi ben più oltre coll'accoglimento nel populus di
un elemento, a cui non erasi riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui la
rigidezza singolare, che ebbe ad assumere il ius quiritium, allorchè cominciò
ad essere comune al patriziato ed alla plebe; poichè da quel momento esso venne
ad essere sottratto a quell'au reola religiosa e patriarcale, che dominava il
periodo gentilizio, e fu sottoposto all'impero di una logica del tutto sua
propria. Se non che, anche in tema di diritto, nel senso stretto della pa rola,
non tutte le istituzioni potevano servire di base alla comu (1 ) V., quanto
alla condizione della plebe, il lib. I, cap. IX, pag. 180 a 196, e quanto al
ius nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160, pag. 198 e 199, come
pure il nº 287, pag. 351 e 352. (2) Che anche il diritto della città patrizia
supponesse una specie di selezione fra le istituzioni delle varie genti,
operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di legislazione regia,
fu dimostrato nel libro II, cap. IV, SS 1º, 2º e 3º, pag. 303 a 333. - 413
nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano comuni ai due ordini,
o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento fra di loro. Quindi
anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da tutti quei rapporti, che
per il momento non potevano essere comuni, per fissare lo sguardo su quei
rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano partecipare alla
stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il patriziato e la
plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto l'interesse della
comune difesa, così la comunanza quiritaria assunse in que st'epoca un
carattere più esclusivamente militare, che prima non avesse. Siccome parimenti
gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un ravvicinamento fra di loro,
erano quelli relativi alla fa miglia unificata sotto il proprio capo, e alla
proprietà spettante alla famiglia stessa, così il ius quiritium comune ai due
ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa alle due istituzioni
fondamentali della proprietà e della famiglia. 331. Di cid è facile persuadersi
quando si considerino le condi zioni rispettive dei due ordini, che dovevano
partecipare alla stessa comunanza. Da una parte eran vi i membri delle gentes
patriciae, i quali ancorchè fossero i fondatori della città, continuavano però
sempre ad essere organizzati per gruppi, sovrapponentisi gli uni agli altri
(famiglie, genti, e tribù gentilizie), come lo dimostra il fatto, che il popolo
primitivo era diviso per curiae, le quali erano appunto for mate ex hominum
generibus. Il patriziato pertanto non aveva in certo modo il concetto della
individualità nello stretto senso della parola, ma solo il concetto dei diversi
gruppi e dei capi che rap presentavano imedesimi. Di questi gruppi poi ilmeno
esteso e il più strettamente unificato era quello della famiglia, fondata sulla
agna zione, e riunita sotto la potestà del padre. - Dall'altra parte in vece
eravi la plebe, la quale, essendo una moltitudine di individui rimasti liberi
dalla clientela, o immigrati da altre città, o traspor tati da popolazioni
conquistate, componevasi invece di individui anche isolati o tutto al più di
famiglie, le quali non erano più strette insieme dal vincolo di agnazione, ma
piuttosto da quello più naturale dell'affinità e della cognazione (1 ). (1)
V.,quanto all'organizzazione gentilizia del patriziato, il lib. I, cap. IV, e
quanto alle condizioni della plebe, il lib. I, cap. IX. 414 Queste differenze
poi, che esistevano fra di loro quanto alla loro organizzazione, si
riflettevano eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da una parte infatti
continuava a prevalere presso le gentes patriciae la proprietà collettiva
dell'ager gentilicius o dell'ager compascuus, il che però non impediva che esse
già conoscessero una specie di proprietà famigliare e privata, la quale era
designata col vocabolo di heredium. Questo consisteva nell'assegno, che le
varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni gentile, che passando a
matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia, ed era a somi glianza di esso,
che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a ciascuno dei suoi seguaci
un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium. Il medesimo quindi
costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come tale non poteva
essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia, ma doveva
invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si poteva
indiviso (ercto non cito ); ma intanto, essendo già intestato al capo di
famiglia, cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata.
Dall'altra invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia, non poteva
neppure avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager
compascuus. Di qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti
sopra certi spazi di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o
di cui avevano ottenuto il godimento da qualche gens patricia, o che loro erano
stati as segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente, che
questi stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii alla
medesima accordato, più non potevano essere chia mati col vocabolo di heredia,
poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da trasmettersi
agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col vocabolo
dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè fino a
quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere proprietà al
punto di vista gentilizio (1). 332. In questa diversità di condizioni egli è
evidente, che il (1) Quanto al concetto dell'heredium, come forma della
proprietà famigliare nel periodo gentilizio, vedi il nº 56, pag. 70; ma devo
aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva ancora ravvisata la differenza
esistente fra l'heredium ed il man cipium, nè aveva cercato di spiegare come
perchè all'heredium del periodo genti lizio fosse sottentrato nel ius quiritium
il concetto di mancipium. - 415 censo, dovendo comprendere i due ordini, non
poteva tener conto che degli elementi, che erano loro comuni. Se il censo
quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii, si sarebbe dovuto indicare la
famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap partenevano, e avrebbesi così
avuto un censo fondato sulla discen denza, come quello sovra cui dovevano
probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso invece avesse dovuto
comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per capita; poichè fra
essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro caput, e che non
avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome invece il censo,
come base della nuova comunanza quiritaria, do veva comprendere gli uni e gli altri;
cosi la soluzione fu la più naturale di tutte, quella cioè di dare al censo non
più una base genealogica (ex hominum generibus), che avrebbe potuto compren
dere solo i patrizii ed alcune famiglie plebee, ma bensì una base territoriale
e locale (ex regionibus et locis) (1), che poteva com prendere gli uni e gli
altri, e di censire gli abitanti, non per genti e neppure per famiglie, ma per
capita, attribuendo perd al voca bolo di caput la doppia significazione di
individuo e di capo di quel gruppo famigliare, che era appunto il solo, che
fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così pure se si fosse trattato di
censire le proprietà patrizie, si sarebbe dovuto prendere come base la
proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella quale sarebbero anche
rientrati gli heredia delle singole famiglie; ma volendosi anche censire i
possessi e gli stanziamenti della plebe, convenne di necessità prendere a base
del censimento quella sola forma di proprietà e di possesso, che apparteneva ai
patrizii sotto il nome di heredium, e ai plebei sotto quello di mancipium.
Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare ad un tempo, che era comune
ad entrambi gli ordini, non potè più essere indicata acconciamente col vocabolo
di here dium, il quale era pur sempre una istituzione di origine gentilizia, ma
potè esserlo più acconciamente con quello di mancipium, il quale, oltre al
rispondere perfettamente ai concetti di caput e di inanus, aveva anche il
vantaggio di significare al tempo stesso la proprietà e il possesso, e di
esprimere con potente efficacia quel carattere di proprietà esclusiva ed
individuale, che veniva ad assu (1) Gellio, XV, 28, 4. 416 mere quel patrimonio,
che nel censo era intestato ad una deter minata persona. La conseguenza intanto
fu questa, che nella comunanza quiritaria, formatasi in base alla costituzione
ed al censo serviano, mentre il patrizio fu isolato in certo modo dall'ambiente
gentilizio, in cui esso prima si trovava, il plebeo ottenne invece il
riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui esso era stabilito. L'uno e
l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia come capi di famiglia e come
proprietarii di terra; ebbero un complesso di diritti comuni, che prese appunto
il nome di ius quiritium. Così pure la comunanza quiritaria, avendo una base
economica, venne a considerare ogni cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e
assunse eziandio una impronta emi nentemente militare, che spiega quel
carattere di forza e di vio lenza che è inerente al ius quiritium e si rivela
nei vocaboli e nei simboli da esso adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di
comprendere in certe rubriche, che si adattino per la formazione del censo,
l'individualità giuridica di questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse
difficile di sovrap porre a queste varie rubriche vocaboli più sintetici e
compren sivi e al tempo stesso più esatti e precisi di quelli di caput, manus,
mancipium. Nella categoria del caput verrà il nome del cittadino, libero e sui
iuris, come individuo e come capo di famiglia, e vi saranno le indicazioni del
suo nome, della sua età, della tribù locale a cui appartiene, la cui
indicazione finirà anzi per formar parte delle denominazioni ufficiali del
cittadino romano (1). Nella seconda rubrica invece saranno indicati i poteri,
che a lui ap partengono sulle persone, che entrano a costituire il gruppo, di
cui egli è capo, sulle persone cioè, che siano in manu, in potestate, in
mancipio, e siccome questa enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla
moglie, che trovasi sotto la manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri
vengano sotto la intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine
comparirà il mancipium, ossia il complesso delle persone e delle cose, che
costituivano il vero patri monio del quirite, in quanto egli era un capo di
famiglia indipen dente e sovrano. (1) Che il nome della tribù, a cui il
cittadino apparteneva, entrasse nelle deno minazioni ufficiali del medesimo,
appare da una quantità grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du
droit de cité romaine, Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto non potrà più
comprendere nè l'ager gentilicius, come quello che non appartiene al capo di
famiglia, ma alla gente; né le mandrie e gli armenti, che pascolano in questo
ager gentilicius; né eziandio le possessiones, che si possano avere nell'ager
publicus; nè la pecunia circolante, il cui ammontare pud essere variabile e non
si presta ad una constatazione esatta e pre cisa, quale è quella richiesta per
un censo; ma dovrà invece com prendere soltanto quella proprietà, che
costituisse in certo modo il patrimonio normale, costante, e pressochè tipico
di un capo di fa miglia agricola, nelle condizioni economiche e sociali in cui
trova vasi allora il popolo romano. Egli è probabile infatti, per chi tenga
conto della tendenza delle genti italiche a modellare i loro istituti sul
medesimo tipo, che quel mancipium, che doveva figurare nel censo, quale
patrimonio asso luto ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità dei
casi ad essere configurato nella istessa guisa. Per verità se trattavasi
dell'heredium ossia dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia,
il medesimo probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager
gentilicius, che potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e
della sua famiglia; ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che,
salve le proporzioni, dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti
facevano ai clienti, e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui
consegui na turalmente che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi
nore di iugera, o dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del
tugurium nel contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere
del quirite. Che anzi non è punto impro babile, che nella formazione del censo,
dovendosi ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a
costituire questo man cipium, anche queste fossero raccolte sotto certe
denominazioni ti piche, quali sarebbero quelle di praedia, di praediorum instru
menta (servi, quadrupedes quae dorso collove domantur), di praediorum
servitutes (iter, via, actus, aquaeductus); le quali po terono assai
naturalmente essere indicate col vocabolo complessivo di res mancipii, come
quelle che effettivamente entravano a costi tuire il mancipium (1). (1) Mi
limito qui ad accennare in genere come possa esser nato e siasi svolto
l'importantissimo concetto del mancipium, perchè le molteplici questioni al
riguardo saranno prese più opportunamente in esame in questo stesso capitolo, §
4º, ove si G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 27 - 418 334. Intanto una
conseguenza necessaria di questa specie di se lezione del patrimonio, che
apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia, veniva ad essere questa, che le
res mancipii, come quelle che servivano a determinare la posizione di esso
nella comunanza quiritaria, costituissero come una specie di proprietà
privilegiata, che doveva ritenersi appartenere in modo assoluto ed esclusivo al
quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono così a comprendere le
espressioni più antiche di mancipium facere, mancipio dare, mancipio accipere,
le quali dapprima dovettero significare la costi tuzione di una cosa nel
mancipium, e poi anche l'acquistare e il trasmettere una cosa, che fa parte del
mancipium; finchè la fre quenza di questi atti non condusse a creare un vocabolo
apposito, che è quello di mancipare, da cui derivò appunto quello della
mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo proprio ed esclu sivo per
l'alienazione delle res mancipii (1 ). Non conseguiva tuttavia da cid, che non
esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse l'effettivo godimento: ma
questi non con tavano nel determinare la sua posizione di quirite, non
entravano a costituire il suo contributo alla comunanza quiritaria, e come tali
non erano dapprima oggetto di proprietà assoluta ed esclusiva, nelvero senso
della parola: essi formavano piuttosto oggetto di uso e di godimento, ed erano
compresi genericamente in una categoria ne gativa, che più tardi fu denominata
delle res nec mancipii, le quali perciò potevano essere alienate collasemplice
traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo la prima pro
prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della quale poteva
esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al
p semplice traditio. Può dirsi pertanto, che il mancipium fu in certo modo
la prima pro prietà ufficialmente constatata del cittadino romano, fuori della
quale poteva esservi uso o godimento, ma non proprietà nel senso vero della
parola e al punto di vista quiritario. È poi questa se parazione, che a causa
del censo si venne operando fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di
una cosa, e l'effettivo godimento di essa, che ci spiega come negli antichi
autori si contrappongano tratterà ex professo del mancipium e della distinzione
delle res mancipii e nec mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië
e nec mancipii dovesse avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad
essere enunciata dal PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche
seguìta presso di noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, § 21. Vedi lo
Squitti, Resmancipi e nec mancipi, Napoli, 1885, pag. 51, gli autori ivi
citati, e gli argomenti che egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad
essere fino ad ora formulata. (1) Cfr. BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi,
Roma 1888, pag. 90. 9 419 talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus
fructus (1), e come più tardi abbia potuto accadere, che una persona avesse
sopra una cosa il nudum ius quiritium, mentre un'altra invece ne aveva l'ef
fettivo godimento (in bonis ). È poi facile a comprendere come questa posizione
privilegiata, in cui venne ad essere collocato il mancipium, abbia anche
cooperato efficacemente a dissolvere la proprietà collettiva dell'ager
gentilicius, e con essa a dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia, la
quale venne in certo modo ad essere senza base, allorchè manco del suo
fondamento economico. Ogni gens patricia infatti, se volle avere una quantità
di suffragii anche nelle centurie, ove fini per concentrarsi la somma del
pubblico potere, dovette affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri
non solo, ma anche ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii
vennero spartendosi, ed all '« ercto non cito », che indicava l'indivisione del
patrimonio famigliare nel periodo gentilizio, sottentrò il principio già
riconosciuto dalle XII Tavole, secondo cui altri non può essere costretto a
rimanere in comunione suo malgrado: « si erctum ciet, arbitros tres dato » (2
). 335. Così spiegato il censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi
conoscere la vera posizione del quirite, non come uomo, ma come membro della
comunanza quiritaria, sarà nelle tabulae censoriae, che a lui si riferiscono,
che dovrà essere cercato il suo vero status. Quindi se trattisi di un
cittadino, libero e sui iuris, ma senza potestà famigliare e senza patrimonio,
egli sarà bensi un caput, ma, non avendo che quello, sarà un capite census, e
sarà (1) Questo contrapposto occorre più volte nelle epistole di CICERONE, e
fra le altre volte in una lettera ad Curium, VII, 30, 2 ove scrive: « Cuius
(Attici) quando « proprium te esse scribis mancipio et nexo, meum autem usu et
fructu, contentus « isto sum. Id enim est cuiusque proprium, quo quisque
fruitur atque utitur »; il che significava in sostanza, che egli preferiva al
dominio ufficiale su Curio (man. cipium et nexum ), che spettava ad Attico, il
godimento effettivo (usus et fructus ) della sua conversazione. Altre volte
però questo contrapposto ha una significazione diversa, come nel bel verso di
LUCR., III, 969: « vita mancipio nulli datur, omnibus usu », ove mancipium si
contrappone ad usus, in quanto significa una cosa, che ci appartiene a
discrezione, in guisa da poterne usare ed abusare, ed indica così il potere
illimitato ed esclusivo, che competeva sulmancipium. Cfr. BONFANTE, op. cit.,
pag. 92, nota 2, e pag. 96, nº 2, e gli altri passi ivi citati. (2 ) Secondo la
ricostruzione del Voigt, op. cit., I, pag. 712, tale sarebbe stato il tenore
della legge 16, della tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si
contenterà di accettarlo nella formazione del proprio esercito. Che se egli,
pur non avendo il patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie,
abbia tut tavia qualche sostanza (1500 assi) ed una prole, che può crescere a
benefizio della repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel
censo colla prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e
sarà cosi nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile,
poichè in condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito,
almeno di una specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che
sarà armata a spese della repub blica (1). Infine se anche per ciò, che si
riferisce al mancipium, egli giunga a quella misura, che è necessaria per
essere ammesso nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o
locuples, e secondo il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere
collocato in una delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus
quiritium. Queste diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di
loro, che ancora nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un
debito, dovrà rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà
rispondere chicchessia: « adsiduo vindex adsiduus esto; proletario, iam civi,
quis volet vindex esto »; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di
Gellio, « proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum
antiquitas consopita est » (2). Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse
tavole censuarie si po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come
individuo, che come capo di famiglia e proprietario. Siccome tuttavia, accanto
alle qualificazioni generali del capo gruppo, trovavansi pure nel censo le
qualificazioni speciali di pater familias, mater familias, di liberi, di servi,
di sui iuris, di alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato
giuridico, senza essere create dal censo, furono tuttavia nel medesimo
delineate, e per tal modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare,
accanto al concetto generale del quirite come tale, anche il concetto degli
stati speciali, che una persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. (1)
Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio mili
tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10, $$ 10 a 15. Egli poi,
citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non furono arruolati,
che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro Giugurta. (2 )
Gellio, XI, 6, 10, 8. Che se alle cose premesse si aggiunga, che il censo
all'epoca serviana fu il documento ufficiale dello stato del cittadino, il
quale serviva a determinare la sua posizione come contribuente, come cit tadino
e come soldato ad un tempo, per guisa che la sola iscrizione nel censo poteva
valere per la manomissione di un servo, sarà fa cile il comprendere come esso
abbia potuto in parte conferire a determinare il linguaggio sintetico ed
astratto, da cui prese le mosse il ius quiritium, ed il processo con cui esso
vennesi elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più potenti, mediante cui
l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da tutti gli elementi
estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente gentilizio in cui
prima si trovava, ed obbligato a fermare il suo sguardo sovra quei rapporti che
comparivano nel censo. Esso parimenti fu una delle cause per cui il ius.
quiritium, che venne elaborandosi su questa trama pri mitiva, perdette di un
tratto quell'aureola religiosa, che circondava le istituzioni delle genti
patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con una logica astratta,
che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si conoscesse la causa, da cui
poterono essere de terminate. Con ciò non intendo già affermare, che i
concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium, siano stati creati dal censo,
poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano; ma solo di provare, che
il censo servi a dare loro una configurazione esatta e precisa; a separarli
nettamente gli uni dagli altri; a fare in guisa che ciascuno avesse
un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti concorressero a costituire
una sola individualità giuridica. Fu in questo modo, che al punto di vista
quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato sotto il proprio capo;
che tanto il diritto sulle persone che quello sulle cose nel l'elaborazione
giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo; che ciascun gruppo,
essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria determinata, ebbe un'esistenza
cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i membri dell'uno non potevano
promettere nè stipu lare per quelli dell'altro; che infine anche le varie
membra del quirite si vennero come dislogando le une dalle altre, e poterono
ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così occasione a quel
l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei caratteri più salienti
del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai caratteri peculiari
della co munanza quiritaria, quale si formò nell'epoca serviana, e al censo che
servi di base alla medesima, ci preparerà la via per ricostruire 422 la storia
primitiva dei concetti fondamentali di questa, che può a ragione chiamarsi la
parte statica del ius quiritium, in quanto fu in parte determinata da una delle
prime applicazioni della sta tistica per la constatazione del numero, della
forza e della ricchezza di un popolo (1). § 2. – Il concetto del caput e la
teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse cercare le prime origini del
concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col pensiero a quell'epoca, in cui
i fonda tori della città contavano dai capi i proprii greggi ed armenti; nè
sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che essi non dubitavano di chiamare
ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le centurie e le classi per dare il
proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più verosimile, che il vocabolo di
caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore alla formazione della città,
avere quella significazione, che tuttora conserva presso le popolazioni, che si
trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui esso indica un capo di gruppo,
quella per sona cioè, che avendo preminenza su tutti quelli, che da essa di
pendono e che la circondano, pud essere considerata come il rap presentante, in
cui si unifica il gruppo stesso. Questo vocabolo poi, trapiantato nel censo
serviano, viene ad indicare colui, che conta per uno nel censo, e conserva cosi
un'analogia colla significazione anteriore, in quanto che il medesimo, pur
essendo un individuo, unifica però in sè stesso le persone e le cose che ne
dipendono. Se per tanto altri non abbia che il proprio caput e manchidi una
sostanza valutabile nel censo stesso, verrà ad essere un capite census; se
invece abbia solo una sostanza, che giunga ai 1500 assi e conti so. pratutto
per la prole, che potrà produrre per la repubblica, sarà un proletarius; se
infine abbia una sede fissa, e sostanze sufficienti per (1) A scanso di ogni
malinteso, devo qui dichiarare che il concetto, che qui ap pare come direttivo
nella ricostruzione della parte statica del ius quiritium, non fu un
presupposto, dal quale io sia partito, ma fu il risultato ultimo, a cui mi con
dussero pazienti e minute elucubrazioni intorno ai singolari caratteri con cui
esso si presenta. Questo paragrafo pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma
ho creduto di premetterlo; perchè esso, a mio avviso, agevola al lettore la
comprensione di ciò che verrà dopo. Ciò valga anche a farmi perdonare, se per
avventura occorra qualche ine vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi
e per assicurare la città della assiduità di lui a compiere le proprie
obbligazioni di cittadino e di soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato
adsiduus o locuples (1). In ogni caso, per avere integro il proprio caput e per
poter contare per uno nel censo, conviene essere libero, cittadino, e sui iuris
nel seno della famiglia; come lo dimostra il fatto, che se altri abbia un
figlio, che per aver raggiunta l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi
e nelle centurie, non sarà esso che conterà per uno, ma sarà invece il padre,
che verrà ad essere un duicensus, in quanto che egli viene ad essere censito
con un'altra persona, cioè col proprio figlio: « duicensus dicebatur cum altero
id est cum filio, census » (2 ). 338. È quindi facile il comprendere comefosse
facile il passaggio dalla significazione materiale del caput alla
significazione giuridica di esso, chiamando col vocabolo di caput il complesso
delle condi zioni richieste per figurare nel censo, ossia lo stato generale
della persona. In tal modo il vocabolo di caput cessa di indicare questo o
quell'individuo in particolare, per trasformarsi in una concezione logica ed
astratta (persona ), la quale, ancorchè ricavata dalla realtà, può servire ad
indicare il complesso delle condizioni richieste, accid altri possa avere la
capacità giuridica quiritaria. Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere
cambiato in una concezione astratta, il medesimo potè essere assoggettato ad
una specie di analisi o di scomposizione dei varii elementi, che entravano a
costituirlo. Tali elementi erano la libertas, la civitas e la qualità di sui
iuris nel seno della famiglia (3). Di qui la teoria della capitis diminutio,
che non si ricavò esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione
logica del caput; come lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche
l'arrogato, sebbene in sostanza vengano talvolta a migliorare (1) Quanto
all'etimologia di questi vocaboli vedi il $ prec., nº 335. (2 ) V. Festo, vº
duicensus; Bruns, Fontes, pag. 337. (3) V. quanto al concetto di caput, Herzog,
Gesch. und Syst., I, pag. 997; il KRÜGER, Geschichte der capitis diminutio,
Breslau, 1887, $ 5 “, pag. 49 a 67, ove prende in esame il concetto di caput
nei diversi autori moderni, sopratutto germa nici. Egli poi sembra ritenere,
che il concetto di caput siasi venuto formando gra datamente. Ritengo invece,
che il diritto romano anche in questo prorompa da una sintesi potente, a cui
solo più tardi sottentrò quell'analisi, che diede poi origine alla teoria della
capitis diminutio. Il caput quindi dapprima appartenne solo all'uomo libero,
cittadino, e sui iuris; e fu solo più tardi, che anche il figlio di famiglia si
considerò avere un caput. 424 la propria posizione, finiscono tuttavia per
subire una capitis dimi nutio (1 ). Che anzi questa logica giuridica dovrà
anche applicarsi al cittadino, che sia fatto prigioniero di guerra, e piuttosto
che venir meno alla medesima si cercherà di supplirvi colla finzione di
postliminio (2 ) Intanto sono tre gli elementi del caput, e questi vengono
l'uno dopo l'altro in base alla loro importanza. Quindi la perdita della
libertas costituisce la maxima capitis diminutio, la perdita della civitas la
media, e la mutazione di stato nel seno della famiglia la minima. Ciascuno poi
di questi elementi dà origine ad una di stinzione che vi corrisponde; donde le
distinzioni fra liberi e servi, fra cives e peregrini, fra persone sui iuris e
le persone alieni (1) Gaio, Comm., I, 160-64. Secondo il Krüger, op. cit., pag.
5 a 21, ed altri autori germanici da lui citati, la teoria della capitis
diminutio avrebbe avuto uno svolgimento storico, nel senso che la prima a
delinearsi sarebbe stata la mi nima capitis diminutio, sul cui modello si
sarebbe poi foggiata la magna capitis diminutio, che fu poi divisa in maxima e
media capitis diminutio. Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere
uno svolgimento storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto
primitivo di caput, così la primitiva capitis diminutio dovette comprendere
qualsiasi avvenimento, per cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la
perdita della libertà, quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri
cessava di essere sui iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che venne
poi distinguendosi nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il
determinare come mai l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e
si comprende come il Savigny, Traité de droit romain, trad. Guenoux, II, pag.
66, quasi voglia esclu derla dalla vera capitis diminutio; ma questa
singolarità potrà essere capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni
famiglia sotto il suo capo costituiva un gruppo, e quindi anche
l'emancipazione, facendo uscire quell' individuo dal gruppo, costituiva, come
dice Gajo, una « prioris status permutatio », la quale era anche compresa nella
significazione larga di capitis diminutio. Del resto l'emancipatio sotto un
certo aspetto produceva anche un deterioramento nello status dell' emancipato,
poichè nel diritto primitivo questi perdeva ogni diritto di successione di
fronte al gruppo, da cui esso era uscito. Intanto ciò serve eziandio a spiegare
quella singolarità del diritto romano, in virtù di cui la capitis diminutio fa
perdere soltanto i diritti fondati sull'agnazione, e non quelli provenienti
dalla cognazione, poichè quella teoria fu una creazione del ius quiritium e del
ius civile, e come tale non poteva produrre effetti, che al punto di vista del
diritto civile, per la ragione appunto detta da Gajo, Comm., I, 158: « civilis
ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest »;
distinzione questa, che nell'epoche primitive non poteva esservi, ma cominciò a
formarsi quando comparve il dualismo fra il ius civile ed il ius gentium, a cui
sottentrò più tardi il ius naturale. (2) È nota in proposito la finzione della
legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII Tafeln, I, pag. 299 e 300.
425 - iuris, le quali vengono ad essere fondamentali e servono di punto di
partenza anche ai giureconsulti classici, come lo dimostrano le Isti tuzioni di
Gaio. Che anzi, una volta adottato questo metodo, si po terono anche attuare
delle posizioni giuridiche intermedie, come quella che è rappresentata dal ius
latii, e queste si poterono applicare tanto ai popoli, ai quali non si voleva
accordare il completo ius quiritium, quanto eziandio ai servi affrancati, i
quali, invece di es sere posti senz'altro nella condizione degli altri cives,
erano invece collocati nella condizione di latini iuniani (1). Certo tutta
questa teoria non potè svilupparsi di un tratto; ma intanto è con Servio, che
si pose il vocabolo ed il concetto infor matore della medesima, e si iniziò
così quel processo logico, che de terminò poi l'elaborazione progressiva.
Questa poi si spinse fino tale da distinguere fra lo stato generale della
persona e le condizioni speciali, in cui essa può trovarsi; donde ne provennero
le determina zioni giuridiche speciali del pater familias, del filius familias,
della mater familias, che distinguesi dall'uxor. Che anzi ciascuno di questi
stati speciali venne eziandio a convertirsi in una conce zione astratta, per
modo che una persona poteva essere padre senza aver figli, essere tenuto come
figlio, ancorchè effettivamente fosse padre, essere riguardata come figlia,
ancorchè in effetto fosse moglie, poichè tutto dipendeva dal punto di vista
giuridico, sotto cui la per sona veniva ad essere considerata (2 ). (1) Per tal
modo mentre prima non eravi che una specie di libertas se ne ven nero creando
varie gradazioni, cioè quella dei libertini, che erano cives romani, quella dei
latini, e quella infine dei dediticii; altra prova questa, che il concetto pri
mitivo è sempre sintetico, mentre le suddistinzioni compariscono più tardi. V.
GAJO, Comm., I, 10. (2 ) Ciò è detto espressamente da ULPIANO, Leg., 195, § 2,
dig. (50, 16) ove dice del pater familias: « recteque hoc nomine appellatur,
quamvis filium non habeat; non enim solam personam eius, sed et ius
demonstramus »; il che vuol dire, che nel qualificarlo come tale, il
giureconsulto si poneva al punto di vista giuridico. Era poi nello stesso modo,
che la moglie in manu si riteneva figlia del marito, e simili. Ciò mi
indurrebbe alquanto a modificare la teoria accettata intorno alla fictiones
nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag. 25 e
dal Juering, Ésprit de droit romain, IV, p. 295, sono in certo modo ritenute
come alterazioni della realtà dei fatti, a cui si ricorre per modificare il
diritto già esi stente. Se ciò è vero delle finzioni, che poifurono introdotte
dal diritto pretorio, non può dirsi delle fictiones del primitivo ius quiritium.
Queste, come lo dice la stessa etimologia da fingere nel senso di foggiare,
modellare, fanno parte dell' ars iura condendi, e sono un mezzo per completare
una costruzione giuridica. 426 339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la
concezione giu ridica del caput, era naturale che la medesima potesse essere
con siderata indipendentemente da colui, al quale essa si riferiva, e che fosse
così riguardata come una specie di persona e quasi ma schera giuridica, che
poteva essere anche sovrapposta non solo ad uomini realmente esistenti, ma
eziandio a quegli enti giuridici, i quali « etiam sine ullo corpore iuris
intellectum habent »: donde la co struzione delle persone giuridiche (1). Che
anzi si va anche più oltre e per quell'immedesimarsi che è proprio di
quest'epoca fra i diritti delle persone e quelli sulle cose, anche la proprietà
quiritaria può essere considerata, o in quanto è perfetta e senza limitazione
(er optimo iure quiritium ), o in quanto può subire delle diminuzioni, le quali
verranno ad essere designate col vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al
pari della servitù riguardo alle persone, scemano e di minuiscono quella
perfetta posizione giuridica, in cui trovasi la proprietà del fondo, allorchè
non abbia subito limitazione di sorta (2 ). Si comprende infine come spinta
fino a questo punto l'elabora zione del concetto del caput, la medesima sia una
costruzione giu ridica, che può anche stare da sè e svolgersi per conto proprio,
secondo che esige la logica informatrice dei varii elementi, che en trano a
costituirla. Che anzi questo caput e lo stato giuridico, che ne dipende, potrà
anche essere trasportato da una ad un'altra per sona. Quindi è facile a
spiegarsi come il caput dapprima non ap partenesse che al capo di famiglia, e
poi fosse attribuito ad ogni cittadino, e per ultimo all'uomo libero; nel qual
trapasso la logica giuridica non fa che rinunziare successivamente ad uno dei
tre ele menti, che costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa
comincia quindi a rinunziare alla qualità di sui iuris, e viene (1) Tale
essendo il processo seguito dalla giurisprudenza romana nella formazione del
concetto di persona, la famosa questione intorno all'esistenza della persona
giu ridica in diritto romano può essere risolta nel senso che essa deve
ritenersi come una fictio iuris, attribuendo però a questo vocabolo la
significazione sopra accennata di una costruzione giuridica modellata su quella
della persona fisica, ma limitata solo a quella categoria dei diritti della
persona fisica, che poteva avere una base nella realtà; donde la conseguenza,
che queste persone hanno il diritto ai beni, ma non possono avere i diritti di
famiglia. Cfr. Savigny, Traité de droit romain, II, pag. 234 e segg. (2) Questo
svolgimento pressochè parallelo del concetto della persona e della pro prietà
libera da qualsiasi vincolo sarà posto in maggior luce in questo stesso capi
tolo, § 5, discorrendo del dominium ec iure quiritium. 427 ad essere capace di
diritto ogni cittadino, ancorchè non sia capo di famiglia; poi rinunzia
indirettamente a quella di civis, in quanto che la civitas finisce per essere
estesa a tutti i sudditi dell'impero, e viene ad essere persona ogni uomo
libero; ma la logica romana non potè ancora fare a meno della libertas per
accordare il caput, e quindi solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato
come capace di diritti e di obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa,
perchè la logica romana si basava sui fatti, e la schiavitù, finchè durò il
Romano Impero, fu una istituzione comune a tutte le genti (1). Cid perd non
tolse, che il concetto del caput o della persona, quale era stato elaborato dai
Romani, potesse più tardi essere trasportato anche all'uomo come tale, perchè
esso era una costruzione logica, la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei
fatti, erasi poi staccata da essi, e poteva così ricevere delle nuove
applicazioni. S 3. Il concetto di manus e le sue principali distinzioni. 340.
Può darsi benissimo, che l'antichissimo vocabolo dimanus significasse un tempo
la forza effettiva dell'uomo, in quanto sottopone a sè stesso uomini e cose,
ossia la forza del vincitore, che si impone al vinto, o il potere dell'uomo,
che doma e addomestica gli animali. È tuttavia più probabile, che questo
vocabolo nel periodo gentilizio significasse già il potere effettivo, di cui
ciascun capo poteva disporre, nei conflitti e nelle lotte coi capi delle altre
famiglie e genti, della qual primitiva significazione potrebbero ancora
trovarsi le traccie nel nostro vocabolo di masnada. La manus invece nelius qui
ritium viene già a cambiarsi anch'essa in una concezione giuridica ed astratta,
che comprende il complesso dei poteri, che appartengono ad una persona nella
sua qualità di quirite. Come il vocabolo di caput indica per cosi esprimersi la
capacità potenziale del quirite: cosi l'estrinsecazione effettiva di questa
potenza sulle persone e cose (1) Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm.
Rechts (in HOLTZEND., Encyclop., I, pag. 105 ), ebbe a dire con ragione, che il
più alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto in
ogni uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero; ma vuolsi
aggiungere, che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa
piena capacità prima al capo famiglia, poi al civis, e da ultimo all'uomo
libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche della universalità del diritto ro
mano, Prolus., Palermo, 1886, pag. 8. 428 che ne dipendono viene ad essere
designata col vocabolo di manus (1). È questo il motivo, per cui la manus viene
a comparire in tutte le manifestazioni, che si riferiscono al diritto
quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la
proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio; se essa riven dica
qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo possegga, abbiamo la
vindicatio e la manuum consertio: se essa lascia uscire qualche cosa dal
proprio potere quiritario, abbiamo la manumissio e la emancipatio; se essa
infine afferra il debitore condannato per trascinarlo nel carcere privato
abbiamo la manus iniectio. Questa manus simbolica non è però sempre inerme, ma
talvolta compare munita della lancia od asta quiritaria, che trovasi
simboleggiata nella vindicta, la quale serve come modo tipico per la manomis
sione dei servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa cramento;
nell'hasta, sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in guerra, e che si
infigge dinanzi al centumvirale iudicium. Questo potere giuridico, sintetico e
comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo serviano, e quindi viene
negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio e del tuo, per modo che
così il potere sulla moglie, che quello sui figli, che quello sui servi e sulle
persone quae sunt in causa mancipii appariscono foggiati sul modello della
proprietà, sebbene non sia lecito dubitare, che essi nel costume pre (1 ) La
generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei varii vo
caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più antico
sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del
PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei
Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il
vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi,
oppure anche il potere sulle cose. Egli è certo a questo riguardo, che i
giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere
sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas.
Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione
del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per
il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato
vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono,
che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium: ma miriservo di
dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose
soggette al potere, che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni
caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi
quella di manu-captum, e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per
significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona. Cfr. Voigt,
XII Tafeln, II, $ 79; BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, pag. 100, nota 1;
Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, pag. 3, nota 4. 429 sentavano delle
differenze e dei temperamenti. Così pure, sotto il punto di vista giuridico,
nulla hanno di proprio nè la moglie, nè i figli, né i servi, e tutto ciò che
essi acquistano va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero
quirite e quegli che conta nel censo. Sarà poi una conseguenza di questa logica
giuridica, che se il dipendente rechi un danno, il capo di famiglia potrà
addive nire alla noxae datio; che se alcuno si ribellerà al suo potere, gli
spetterà un ius coercendi, che potrà giungere fino al ius vitae ac necis; e se
alcuna delle persone, che da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta, egli
potrà proporre percid quella stessa actio furti od actio exhibendi, che
potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di cui sia stato derubato. 341.
Dalmomento poi che la manus costituisce così una concezione giuridica, si
comprende che anche ad essa siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già
a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da Valerio
Probo, secondo cui il potere giuridico del quirite verrebbe a suddividersi
nella manus, che resta a significare il potere del marito sulla moglie, nella
potestas, che significa il potere del padre sui figli, e nel mancipium, che qui
sembra indicare il potere sulle persone quae sunt in mancipii causa.
Quest'ultimo vocabolo tuttavia, più che un aspetto del potere quiri tario,
sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e delle cose, che
dipendono dal potere spettante al quirite; come lo dimostra la circostanza, che
il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione attiva, ma
sempre con significazione passiva (1). (1) Basta per ciò osservare, chementre
nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum, potestatem,
dominium, non occorre però mai l'espressione habere mancipium, ma sempre quella
habere in mancipio: poichè quest'espressione di man cipium, derivando da
manu-captum, significa bensì la cosa soggetta, ma non può si gnificare il
potere sulla medesima. Io ritengo, che questa inesatta significazione data al
vocabolo mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii ed incertezze nell' ar
gomento. Così, ad esempio, non potrei accettare l'opinione, che mancipium sia
stato il primo vocabolo con cui si indicò il dominium ex iure quiritium; ciò
sarebbe come dire che i vocaboli di praedium, fundus significassero il diritto
di proprietà, mentre invece indicano la cosa, che ne forma l'oggetto. L'unico
passo, che suol essere citato per far significare a mancipium un potere, è
quello di GELLIO, XVIII, 6, 9, ove si parla della mater familias in manu,
mancipioque mariti, ma anche questo dimostra, che anche la moglie era talora
considerata come in mancipio, e conferma così la significazione passiva del
vocabolo. Se dovette quindi esservi un vocabolo primitivo, che potè indicare il
potere del proprietario, esso fu quello di manus, che ha in 430 Una volta poi,
che i poteri, un tempo inchiusi nel vocabolo generico di manus, sono cosi
separati l'uno dall'altro, essi possono essere ca paci di una propria
elaborazione e venirsi cosi differenziando fra di loro secondo il diverso
concetto a cui si ispirano, per modo che cia scuno di essi finirà per ricevere
un diverso svolgimento logico e storico ad un tempo, e per essere sottoposto a
quelle limitazioni, che verranno ad apparire necessarie nella realtà dei fatti.
Negli esordii invece della formazione del ius quiritium non presentasi ancora
il dubbio, che il quirite possa in qualche modo abusare della propria manus, e
quindi tutti i poteri, che a lui appartengono, giuridicamente considerati,
vengono ad apparire senza alcun limite e confine. Che anzi le persone a lai
soggette, sotto il punto di vista giuridico acquistano ed operano non per sè,ma
per le per sone, di cui trovansi in manu, in potestate, in mancipio. Di qui la
conseguenza, che mentre le persone sottoposte al potere del capo di famiglia
possono rappresentarlo, questa rappresentazione invece non può essere cosi
facilmente ammessa, allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il
principio prevalente nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può
promettere nè stipulare per un'altra. Il concetto del mancipium e la
distinzione delle res mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad
essere considerata, in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le
cose che da essa dipen dono, formasi il concetto del mancipium. Mentre i
concetti di caput e di manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo
invece di mancipium indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano
sè l'idea della forza e dell'energia, ma non mai quello di mancipium, che
allora e sempre significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi
giureconsulti ci attestano, che in antico non eravi un vocabolo speciale per
significare il dominio, ma dicevasi soltanto meum, tuum. (1) Di qui credo di
poter indurre, che anche quel principio del diritto primitivo, secondo cui
altri non può essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e
niuno può promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in
cui si iniziò la formazione del ius quiritium; in quanto che nell'esercito e
nei comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare
da altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa, e presentasi con
una signi ficazione eminentemente passiva. Non vi ha quindi nulla di ripu
gnante, che esso nelle origini significasse il manu -captum; e designasse
specialmente il vinto che, fatto prigioniero di guerra, veniva ad es sere
soggetto alla potestà del vincitore. Questo è certo ad ogni modo, che nel ius
quiritium il vocabolo dimancipium, al pari di quello di caput e di manus, ha
già assunta una significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel
complesso di persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di
famiglia, e che a lui apparten gono ex iure quiritium, e che nel censo
compariscono in certo modo comeposte in suo capo (1). È quindi sopratutto
coll'entrare a far parte delmancipium, che i diritti spettanti al capo di
famiglia ed al pro prietario ex iure quiritium assumono quel carattere così
esclusivo ed individuale, che è del tutto proprio del diritto primitivo di
Roma. Con esso infatti il quirite viene ad essere staccato dall'ambiente gen
tilizio, di cui fa parte, a compare nel censo con un complesso di persone e di
cose, che dipendono da lui in modo assoluto. È quindi in virtù di
quest'astrazione, che viene a formarsi il concetto di una potestà senza confini
e di una proprietà assoluta ed esclusiva spet tante al capo di famiglia (2 ).
Anche nel mancipium, come negli altri (1) Quasi tutti gli autori son concordi
in ritenere, che il mancipium abbia avuta una significazione così larga da
comprendere così le persone, quanto le cose, in quanto son soggette al potere
del capo di famiglia. Solo combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das
Privatleben der Römer, pag. 2. Ritengo che debba essere seguita la prima
opinione, la quale per me ha un appoggio incontrastabile in ciò, che le formole
serbateci da Aulo Gellio e VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu,
potestate, mancipio; la qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più
antiche che a noi pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di
Roma (Bruns, Fontes, pag. 45) e nella lex Acilia repetundarum, del 631 di Roma
(pag. 57). Ciò vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si
considera vano come comprese nel mancipium del capo famiglia, il che poi spiega
come ad esse potesse anche applicarsi la mancipatio, l'emancipatio e simili.
Ciò però non toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium
fossero quelle specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto
curule de mancipiis vendundis (Bruns, pag. 214 ), o quel complesso di beni, che
doveva essere consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni
dimancipium, è da vedersi il BONFANTE, op. cit., pag. 79 a 105, col quale
tuttavia non concordo in questo, che egli attribuisce al mancipium anche la
significazione di una potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il
mancipium non comprenda mai le persone (pag. 101, in nota). (2) Come il
mancipium, fondendosi in certo modo coll'heredium, sia venuto a de signare le
cose comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino romano è stato
dimostrato più sopra al nº 331, pag. 414. 432 concetti fin qui presi in esame,
trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla stessa
persona; ma poi anche qui viene operandosi una specie di differenziazione, per
cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il complesso dei beni, e quello
di familia il complesso delle persone, che dipendono dal medesimo capo. Siccome
però nel mancipium non si comprende tutto il pa trimonio del quirite, ma solo
quella parte di esso, che è portata nel censo e che serve come stregua per
determinare la classe, di cui entra a far parte; così ne deriva che il censo
serviano deve eziandio essere considerato come il momento storico, in cui
cominciò ad accen tuarsi quella distinzione fra il mancipium e il nec mancipium,
che diede poi origine a quella importantissima distinzione fra le res mancipii
e le res nec mancipii, che deve formare oggetto di par ticolare esame per le
molte discussioni, a cui diede argomento. 343. La distinzione fra le res
mancipii e le res nec mancipii, è a mio giudizio, un rottame del diritto
primitivo, che indecifrabile da solo, può cambiarsi in un documento prezioso,
quando si riesca a ricomporlo nell'ambiente in cui ebbe a formarsi (1).
L'antichità del concetto, a cui si ispira la distinzione, è dimostrata dal
fatto, che i giureconsulti ebbero ad accettare la medesima come già esi stente
nel fatto, senza pur cercare di darsi la vera ragione di essa (2 ). La
circostanza poi, che questa distinzione ebbe a perdurare per se coli, dimostra
che essa non può considerarsi come una semplice biz zarria giuridica, ma deve
invece rannodarsi a qualche concetto fon damentale dell'antico diritto, che i
giureconsulti classici credettero di dovere accettare e rispettare. Ció del
resto può in certi confini anche argomentarsi dal modo singolare, in cui è
concepita questa distinzione; in quanto che essa è evidentemente fatta
nell'intento (1) L'importanza della questione per lo studio del diritto
primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi assai sentita in Italia, come lo
dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti e del BONFANTE sulle res mancipi
e nec mancipi e quello del Longo sulla mancipatio. Ritengo tutta via, che
questa sia una di quelle questioni, che prima debbono essere studiate nei
particolari, ma difficilmente possono poi es sere comprese e spiegate, se non
siano coordinate colle altre istituzioni del diritto primitivo, con cui
concorrevano a costituire un tutto organico e coerente. (2 ) Non può certamente
ritenersi definitiva la ragione data da Gavo, Comm., II, 22, che le res
mancipii siano così dette perchè suscettive di mancipatio; poichè si potrebbe
sempre chiedere la ragione, per cui le sole res mancipii furono ritenute
suscettive della mancipatio. 433 di mettere in una posizione speciale e
privilegiata le res mancipii, che costituiscono la parte positiva della
distinzione, mentre l'altra parte della distinzione ha un carattere puramente
negativo, cioè comprende tutte quelle cose, che non appartengono alla prima ca
tegoria. Da questo carattere infatti è lecito indurre, che nello svol gimento
storico dovette precedere la formazione delle res mancipii, ossia di un
complesso di cose, che erano comprese nel mancipium, e che solo più tardi
quelle, che non erano comprese nelmedesimo, vennero ad essere chiamate res nec
mancipii, quasi per contrap porle alla categoria già formata dalle res
mancipii. Queste considerazioni aggiunte a quella pur importante, che dopo
l'ultima lettura del manoscritto di Gaio da lui fatta, lo Studemund avrebbe
adottata la lezione di res mancipii e res nec mancipii a vece di quella di res
mancipi e nec mancipi, che prima era ge neralmente adottata, mi inducono a
ritenere che il caposaldo, a cui deve rannodarsi questa antica distinzione, sia
l'antichissimo concetto del mancipium, le cui origini rimontano quanto meno
alla costitu zione ed al censo di Servio Tullo (1). 344. Per poter poi spiegare
come nell'antico diritto possa essersi cominciato a distinguere il mancipium
dal nec mancipium, non sarà inopportuno il notare, che fin dai tempi più
antichi noi troviamo degli accenni ad una specie di distinzione, che erasi
fatta nel pa trimonio spettante al capo di famiglia. Noi troviamo infatti una
specie di dualismo nei vocaboli di heredium e di peculium, e in quelli eziandio
di familia pecuniaque, i quali appariscono in certo modo contrapposti fra di
loro. Per verità mentre i vocaboli di he (1) Del resto la questione della i
doppia o semplice nel vocabolo mancipi o man cipii non ba grande importanza dal
momento, che nel latino primitivo solevasi usare l'i semplice a vece della
doppia ii. Che anzi sonvi autori, i quali continuano a seguire l'antica
scritturazione, appunto perchè veggono in essa un indizio ed una prova
dell'antichità della distinzione, sebbene ammettano la parentela delle res man
cipiä сol primitivo mancipium. Così il BONFANTE, op. cit., pag. 21. Per parte
mia, siccome mi propongo di fare la storia del concetto, anzichè della parola,
così trovo più conveniente di adottare quella scritturazione, la quale,
esprimendo materialmente l'attinenza fra il mancipium e le res mancipii,
impedisce di dare a questa distin zione una significazione diversa da quella,
che veramente ha. La grafia mancipi sarà forse la più genuina e la più antica;
ma essa condusse alla distinzione fra cose man cipabili e non mancipabili, e a
cercare l'origine della distinzione in cose, che non avevano a fare con essa,
il che appunto deve essere evitato. G. CARLw, Le origini del diritto di Roma.
28 434 redium e di familia indicano di preferenza quella parte del patri monio,
che nel proprio concetto informatore è destinata a passare negli eredi, i
concetti invece di peculium e di pecunia sembrano designare di preferenza
quella parte di patrimonio, che per sua na tura è destinata allo scambio, alla
circolazione ed al soddisfacimento dei quotidiani bisogni. Di quisi può
inferire, che una distinzione come questa, che compare indicata con vocaboli
diversi, e che si mantiene con una certa costanza, dovette trovare la propria
ragione d'essere nelle condizioni economiche e sociali, in cui allora trovavasi
il popolo romano, e che perciò la spiegazione di essa debba ricercarsi nell'e
poca, in cui vennesi formando il primitivo ius quiritium (1). Parmipoi a questo
proposito, che anche oggi, fermando lo sguardo sopra una comunanza di carattere
rurale, si possa trovare qualche vestigio di condizioni sociali ed economiche
analoghe a quelle, che determinarono questa distinzione nell'antico diritto di
Roma. Anche oggi nelle comunanze agricole la famiglia rurale appare in certo
modo unificata nella persona del suo capo, e sotto l'aspetto econo mico
costituisce come un gruppo di persone e di cose, in cui si comprende il
capofamiglia, la moglie, i figli, il bestiame, la terra coltivata, e la cui
importanza può essere maggiore o minore, secondo la quantità di terra da esso
posseduta, e il numero di braccia, di cui può disporre per la coltura della
medesima. È poi facile l'osser vare come in questo patrimonio, che si intitola
al padre, ma che nel costume si considera come proprietà comune del gruppo, for
misi naturalmente una distinzione congenere a quelle, le cui traccie pur
compariscono fra gli antichi romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia
agricola havvi anzitutto una parte fissa, sostanziale, che comprende tutti quei
beni, senza di cui l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso
regolare. Essa costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della
famiglia agricola; quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto
appartenga al padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune;
quella che è dal padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a
malincuore, ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria
figliuo lanza. Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza
rurale non può a meno di esserne informata e il suo credito vacilla. Quindi
piuttosto di alienare questa parte fissa e trasmessibile dal (1) Già si accenno
a questa correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56, pag. 70.
435 proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un
tempo la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di
ricorrere a quella vendita con patto di riscatto, che nei nostri villaggi si
cambiò nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde
quell'usura, che chiamasi palliata. Accanto poi a questa parte fissa del
patrimonio havvi eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale
circolante della fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti
dell'annata, le somme di danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto,
che ogni anno si compra e si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il
capo famiglia può fare maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di
essi potrà rendere più o meno agiata la famiglia, senza però mettere a
repentaglio l'esistenza della medesima. È naturale che una distinzione di
questa natura abbia dapprima alcunché di vago e di indeterminato, in quanto che
possono esservi delle cose, di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in
questa od in quella parte del patrimonio. Se tuttavia in determinate con
dizioni economiche avvenga un avvenimento di carattere ammini strativo, che
costringa in certo modo a distinguere le due parti del patrimonio, quale,
sarebbe ad esempio, la formazione di un censo o di un catasto per fissarvi
sopra una imposta, la conseguenza im mediata di questo fatto sarà, che quella
distinzione, che stava for mandosi, perderà il suo carattere vago ed
indeterminato e finirà per assumere un significato preciso, il quale, mentre
corrisponde allo stato reale delle cose in quel determinato momento, potrà in
vece riuscire inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le
condizioni economiche del popolo, di cui si tratta. 345. Or bene un avvenimento
di questa natura ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e
giuridica di Roma. Esso fu il censo di Servio Tullio, il quale, essendo stato
posto a base di una nuova composizione del populus romanus quiritium, non potè
a meno di lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto
romano. Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche
le sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori
avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della
stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi
assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia,
che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa
436 miglia, colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano
ricavati dall'ager gentilicius, quelli invece, che si facevano alla plebe,
erano fatti direttamente dallo Stato sul suo ager publicus, mediante le così
dette adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di
due, di cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano
una specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale
(tugurium ), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle
servitù rurali di pas saggio e di acquedotto, che erano del tutto
indispensabili per la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a
costituire la pro prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente
dalla sua manus, poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium. Che anzi è
anche probabile, che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo
proprietario, come lo dimostra il fatto, che i poderi romani ancora più tardi
conservano il nome derivato da quello del primitivo proprietario, che si
considera in certo modo come il fon datore del podere, e lo trasmettono
successivamente ai proprietarii che vengono dopo (1). Era quindi questo
mancipium, che doveva essere consegnato e valutato nel censo, e che costituiva
la base, sovra cui si determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite; le
altre cose invece non gli erano tenute in conto, o perchè non appartenevano al
quirite come tale, ma piuttosto alla gente, di cui esso faceva parte, o perchè
costituivano una specie di capitale cir colante, di cui non potevasi fissare
l'ammontare in questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che
questo mancipium (1) Questa induzione mi fu suggerita da due notevoli articoli
del FUSTEL DE COULANGES, pubblicati sulla « Revue des deux mondes » del 1886
col titolo Le domaine rural chez les Romains, tomo 3º dell'annata. II FUSTEL DE
COULANGES non si occupa veramente delle origini del podere ru rale in Roma,
stante le incertezze che ancor durano sull'argomento, ma parla piut tosto dei
poderi rurali sul finire della Repubblica e durante l'Impero, allorchè i
medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che fare col primitivo
man cipium. Egli nota tuttavia, che i poderi anche in quest'epoca avevano una
denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario attuale ma del
proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus Manlianus,
Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per dare una
personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato e posto
in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità nel
podere romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria del
quirite, al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a lui
spettante, il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani trasmisero
poi con quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri esempi. 437
veniva in certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del quirite,
cometale: quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in certo modo
ne prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione di sorta,
purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla comunanza
quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili per il
quirite; ma quelli, che entravano nel mancipium, avevano per esso una
importanza del tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla
loro alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i
mali trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo,
in cui si formò ilmancipium, trova poi la sua conferma nella enumerazione, che
i giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii (1).
Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità
remota, e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione
tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai
gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei
sull’ager publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come
cose singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto, che corrisponde alle
condi zioni economiche del tempo, ed ai bisogni di una famiglia agricola, la
quale debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla
circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium, non è
già un campo nudo di qualsiasi attrezzo, ma è un praedium instructum
considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù, che sono necessarie per la
sua coltivazione (2). Una casa in città, un tugurio in campagna, circondato da
un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per
la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà
tipica del quirite; quella proprietà cioè, che lo rendeva adsiduus, perchè ne
accertava la residenza, e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e
della famiglia. Essa era la prima porzione di (1) Gajo, I, 120; II, 14-17;
Ulp., Fragm., XIX, 1. (2 ) Anche questo concetto del fundus instructus
sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op.
cit., pag. 340, che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i
giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e
instrumentum fundi », ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di
servi, che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che
sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager
gentilicius), o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera
proprietà esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di
cose, che può raccogliersi. dall'enumerazione conservataci da Gaio e da Ulpiano
delle res man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi nell'attestare, che
queste comprendevano; lº i praedia, così rustici comeurbani, purchè situati
nell'ager romanus od anche nel suolo italico, il quale mediante la concessione
del ius italicum, poteva anche essere oggetto del do minium ex iure quiritium;
2° le servitù rustiche, che sono il naturale compimento di un podere rurale,
quali le servitutes viae, itineris, actus, aquaeductus; 3° i servi, in
quell'epoca strumento indispensabile per la coltura; 4º e infine i quadrupedes,
quae dorso collove domantur, veluti boves, equi, muli et asini. Invece le altre
cose tutte, che esorbitano da questa cerchia, comprendendovi la stessa pecunia,
le pecore, i buoi ed i cavalli non domati, sono indicate senz'altro colla
espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte a questa enumerazione dei
giureconsulti si osservo, che riesce difficile a comprendersi come nelmancipium,
quale pro prietà tipica del cittadino, non si comprendessero nè le pecore, nè
le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né i greggi ed ar menti, cose
tutte, che certamente costituirono la parte più notevole della ricchezza dei
primitivi romani. È perd anche ovvio il rispondere, che il criterio della
riforma serviana non fondavasi sulla ricchezza, quale che essa fosse, ma
piuttosto sulla proprietà stabile, esente da qualsiasi vincolo. Era solo questa
forma di proprietà, che poteva ren dere i quiriti adsidui e locupletes, e
servire così di garanzia alla co munanza dell'interesse, che essi avevano alla
comune difesa. Non fu quindi la pecunia, che ebbe ad essere tenuta in conto,
perchè questa, anche consistendo in greggi ed in armenti, poteva sempre essere
trasportata altrove. Si aggiunga che le mandre, i greggi, e gli ar menti
dovevano dapprima non appartenere ai singoli capi di famiglia, macostituire
invece la ricchezza delle genti collettivamente conside rate; poichè per il
loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe stato atto il piccolo podere
quiritario, ma occorrevano dei grandi e vasti spazi, che solo potevano trovarsi
negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus della tribus primitiva, o
nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai capi di piccolo bestiame,
che po tevano anche appartenere al proprietario di un piccolo podere, 439
tenuto ex iure quiritium, essi costituivano quel capitale circolante, che
formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti diane, e che perciò
non offriva una base salda per essere valutato nel censo. 348. Parmi cið stante
di poter conchiudere, che il primitivo man cipium consistette in quel complesso
di cose, che costituiva in certo modo la proprietà tipica del quirite, come
capo di una famiglia agricola, all'epoca in cui ebbe ad essere introdotta
l'istituzione del censo. La selezione di questo mancipium dal resto delle cose,
il cui godimento apparteneva ai primitivi romani, erasi preparata len tamente
nelle condizioni economiche e sociali ed ebbe poi ad essere determinata in modo
esatto e preciso dal censo serviano, il quale per tal modo potè perfino
influire nel determinare le varie categorie delle res mancipii (1). È infatti
questo mancipium, che nel censo appare intestato ad ogni singolo quirite, e che
costituisce il primo nucleo di quella proprietà ex iure quiritium, che ebbe poi
a svol gersi coi caratteri di assoluta, di esclusiva e di irrevocabile. Sia (1)
Infatti non è punto improbabile, che la distinzione stessa delle res mancipii
abbia potuto essere determinata dalle rubriche diverse, in cuidividevasi il
mancipium, come già ebbi ad accennare al n ° 332 (in fine). Intanto colla
soluzione indicata nel testo credo di aver fatto procedere di pari passo i due
aspetti, sotto cui fu discussa l'origine delle res mancipië e nec mancipii.
Nota giustamente il Bon FANTE, op. cit., pag. 35, che le teorie diverse, da lui
esposte, si possono dividere in razionali e storiche, secondo che cercano di
spiegare razionalmente quella distinzione, oppure di rannodarla ad un fatto
storico. I due punti di vista, a parer mio, deb bono esser fatti procedere di
pari passo; poichè la distinzione non sarebbesi intro dotta presso un popolo
pratico e logico come il romano, se non avesse avuto una ragione di essere
nelle condizioni economiche e sociali del tempo, ed essa non sareb besi poi
perpetuata con tanta tenacità, se non vi fosse stato un avvenimento storico
importantissimo, come il censo, il quale, per essersi in certo modo
immedesimato colla vita e col modo di pensare del popolo, mantenne allo stato
fossile la distinzione, di cui si trattava, anche allorchè non aveva più
ragione d'essere. Che anzi in questo modo vengono perfino ad offrire
alcunchè di vero anche le opinioni, che vogliono rannodare il concetto di
mancipium alla bellica occupatio; poichè questo carattere militare, inerente
anche almancipium, è una conseguenza di quell'impronta militare, che sopratutto
in quell'epoca assume il populus romanus quiritium; impronta, che rimane
inerente a tutti i concetti e alle istituzioni che ebbero origine in quell'occa
sione. Tuttavia, siccome trattasi qui di ricostrurre e non di far l'esame
critico delle varie opinioni, mi rimetto per l'analisi di queste opinioni,
delle quali alcune hanno perfino del singolare, allo Squirti, pag. 38 a 68, al
BONFANTE, pag. 35 e 75 e agli altri autori, che di recente esaminarono la
vecchia controversia. 440 pure, che più tardi, per l'accrescersi della fortuna
dei cittadini ro mani, siansi aggiunte molte cose, che avrebbero pur dovuto
essere tenute in conto per valutare il patrimonio del quirite; ma in questa
parte, come nel resto, i giureconsulti, allorchè trovarono foggiata questa
configurazione giuridica, si guardarono dall'alterarne in qual siasi modo le
primitive fattezze. Di qui ne venne, che il concetto del mancipium, come molti
altri concetti del primitivo diritto, dopo avere un tempo corrisposto alla
realtà dei fatti e aver così com preso quelle cose, che effettivamente
costituirono la prima proprietà esclusiva del quirite, fini in certo modo per
fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria giuridica, in cui si compresero
tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere consegnate nel censo. Il
mancipium si mantenne cosi come un rudere dell'antichità primitiva di Roma, che
malgrado l'incremento delle cose romane rimase ad attestare le condizioni
economiche dei quiriti, nel tempo in cui Servio Tullio pose il censo come base
di partecipazione alla comunanza quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il
potere rurale presso i Romani, salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora
sempre conservati i tratti del primitivo mancipium, in quanto che esso continud
pur sempre a costituire un tutto organico, ad avere un proprio nome, che è
quello del primitivo proprietario, e ad essere considerato come fornito delle
servitù e del bestiame necessario per la coltivazione di esso (instru mentum
fundi). Le cose romane di piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad
essere foggiate sul primitivo modello (1). 349. Nè può essere difficile lo
spiegarsi come il concetto del man cipium siasi cosi conservato allo stato
fossile, malgrado l'ingrandirsi delle cose romane, quando si tenga conto dello
spirito conservatore della giurisprudenza romana, e della circostanza, che i
giureconsulti (1) La miglior prova di ciò può aversi dagli articoli citati del
FUSTEL DE COULANGES, sur le domaine rural chez les Romains. Da questi infatti
si scorge che i Romani portarono il loro concetto del podere anche nelle
provincie conquistate, e che le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad
avere talora una esistenza propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere
coltivato per mezzo di schiavi, quello fatto valere per mezzo di affittavoli,
quello lasciato alla coltura dei servi e dei liberti, e quello più tardi
coltivato da coloni; ma intanto le fattezze primitive non scomparvero più. Per
tal modo anche il podere romano, come tutte le altre istituzioni di quel
popolo, è un organismo, che si svolge e si differenzia nelle sue varie parti,
ma conserva sempre quei caratteri, che già si potevano ravvisare nell'embrione,
da cui è partito; em brione, che, secondo il mio avviso, consisterebbe appunto
nel primitivo mancipium. 441 in questa parte trovarono già chiusa e formata la
cerchia delle res mancipii, nè ebbero motivo di estenderla o modificarla in
un'epoca, in cui già cominciavano a ritenersi gravi e inopportune le forma lità
dell'antico diritto. Di qui la conseguenza, che i giureconsulti in tutti i
responsi, che si riferiscono alle res mancipii, mantennero inviolata l'antica
misura, e solo ammisero qualche allargamento, che corrispondeva al concetto
informatore del primitivo mancipium, e che era necessario per rendere
applicabile il concetto stesso (1). Così noi troviamo, ad esempio, che i
giureconsulti interrogati, se i camelli ed elefanti potessero essere compresi
nelle res man cipii, risposero negativamente, sia perchè questi animali non
erano conosciuti, quando si fissd il concetto del mancipium, o meglio ancora,
perchè essi non si sarebbero potuti riguardare come una pertinenza di quel
podere tipico, che costituiva il mancipium (2 ). Indarno parimenti si fece
notare, che le servitù urbane avevano la medesima natura delle rustiche; esse
malgrado di ciò furono sempre ritenute come res nec mancipii, non tanto perchè
non fossero co nosciute a quell'epoca, quanto piuttosto perchè non formavano
parte integrante del podere stesso (3). Quando poi si chiese, se i cavalli e i
buoi non domati potessero essere ritenuti come res mancipii, l'opinione
prevalente fu che non fossero tali, probabilmente perchè essi, finchè non erano
domati, non potevano essere strumento indi (1) Parmi perciò da seguirsi,ma con
una certa discrezione, l'opinione che l'enumera zione delle res mancipii debba
ritenersi tassativa, come quella che in parte fu determi nata da un avvenimento
che doveva dargli un carattere esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel
concetto comune anche altre cose potessero essere considerate come res
mancipii, quali erano, ad esempio, le pietre preziose di Lollia Paolina, di cui
ci parla Plinio il Vecchio (Hist. nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè
posteriormente il concetto di mancipium, che erasi sovrapposto a quello di
heredium, tornò a riacco starsi almedesimo, e nell'uso non giuridico significò
talora i bona paterna avitaque, e specialmente quelli, che nel costume solevano
trasmettersi digenerazione in genera zione, quali erano appunto le pietre
preziose, che costituivano in certo modo un avitum mancipium. In ciò seguo
l'opinione, che il Bonghi ebbe a manifestare nella recensione del lavoro dello
SQuitti nella Cultura, anno 1886, 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op. cit., p. 93.
(2) GAJO, Comm., II, 16; ULP., Fragm., XIX, 1. (3 ) GAJO, II, 17; ULPIANO, loc.
cit. Che anzi fra le servitù rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che
hanno una maggior importanza per un podere ru stico, e che formano parte
integrante del medesimo, cioè l'iter, actus, via, aquae ductus, e non le altre,
come quelle del ius pascendi, calcis coquendae e simili, le quali, essendo
particolarità di certi speciali poderi, non potevano dapprima essere tenute in
conto. -.442 spensabile per la coltura del fondo, che costituiva il primitivo
man cipium (1). Cid intanto può eziandio servire a spiegare come Varrone parli
di formole relative alla vendita di animali da tiro, e da soma ed anche di
servi, accennando alla semplice traditio e non alla mancipatio; poichè questa
doveva solo ritenersi necessaria, allorchè gli animali e i servi, di cui si
trattava, dovessero considerarsi come instrumenta fundi (2). Siccome invece le
res mancipii, ancorchè singolarmente enumerate, costituiscono però un tutto
(cioè il man cipium ), così i giureconsulti rispondono, che alle medesime
conside rate come un tutto può essere applicato quello stesso mezzo di
alienazione, che è proprio delle singole res mancipii; donde la pos sibilità
della mancipatio familiae e del testamentum per aes et libram, di cui si
parlerà a suo tempo (3 ). (1 ) La controversia in proposito fra i Proculeiani,
che escludevano dalle res man cipii questi animali finchè non fossero giunti a
tale età da essere domati, e i Sabi niani, che invece li ammettevano fra le res
mancipii, appena fossero nati, è accen nata da GAJO, II, 15, comemolto dubbiosa
anche per lui, che era Sabiniano. In ogni caso la stessa esistenza di una
simile controversia, ed anche il fatto, che erano res man cipii solo i
quadrupedes, quae dorso collove domantur, dimostra abbastanza che la
determinazione delle res mancipii aveva stretta attinenza colla coltivazione
del fondo. (2) Le formole conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio
dei cavalli e dei buoi anche domati (V. Bruns, Fontes, p. 388) condussero il
Voigt a ritenere che i cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone
nel novero delle res man cipië (Ius nat., Leipzig). Veramente non si saprebbe
ilmotivo di questa nuova introduzione in una distinzione, che oramai appariva
antiquata; ma ad ogni modo la cosa a mio avviso è facile a spiegarsi, quando si
ritenga che la qualità di res mancipiä era dapprima attribuita dall'essere
questa cosa un « instru mentumt fundi». Quindi non sempre era necessaria la
mancipatio per questi animali, come non sempre era necessaria per i servi, come
lo attesta lo stesso Varrone. Non credo poi che possa essere il caso di
supporre degli errori nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante,
op. cit., pag. 111, non potendosi supporre un er rore di questo genere sopra
formole, che vivevano nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi
giureconsulti. (3) È tuttavia degno di nota, che mentre il mancipium o la
familia, intesi nel senso di patrimonio, sono per sè suscettivi di mancipatio,
l'hereditas invece è consi derata come una res nec mancipië, e come tale è
suscettiva di in iure cessio, ma non di mancipatio (Gajo, Comm., II, 14, 17,
34). La ragione, a parer mio, è questa, che la familia o il mancipium, finchè
dipendono dal pater familias, costituiscono un'entità concreta: mentre
l'eredità, riguardo a colui che vi ha diritto, costituisce già una cosa
incorporale, una res, quae etiam sine ullo corpore iuris intellectum habet, e
quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto però non parmiaccettabile
l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit., pag. 12, che la distinzione
delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile alle res singulares,
poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium, nè la familia.
Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle cose con dusse in qualche
parte ad allargare i confini del primitivo manci pium. Così, ad esempio, non
può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano solo essere compresi i
praedia, che fossero si tuati nel primitivo ager romanus, mentre più tardi
furono compresi eziandio quelli situati nel restante suolo italico, quando
anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà quiritaria. Così pure è
pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima compresi solo i servi
addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i servi della città
potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in genere furono
compresi fra le res mancipii (1). Non potrei invece ammettere col Puctha, che
fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere, che fossero in
potestate, in manu, o in causa mancipii(2); poichè, come sopra si è notato, qui
il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più ristretta e si ri
ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal capo di famiglia, le
quali persone si dicono « alieni iuris, quae in manu, potestate,mancipio sunt »,
ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che anche alle persone si
applica la mancipatio, ma cid provenne, come si vedrà più tardi, da cid che la
mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per eccellenza, che è l'atto
per aes et libram, e quindi compare ogniqualvolta trattisi di acquistare o
trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà giuridica quiritaria. 351.
Intanto questa storia primitiva del mancipium ci pone eziandio in caso di
risolvere la questione tanto agitata fra gli autori relativa alla precedenza
fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii e nec mancipii. hi
seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece denza alla
mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si chiamerebbero
tali appunto, perchè si trasferiscono me diante la mancipatio; ma rimarrebbe
ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne ad essere il
mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di cose. La cosa
invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri (1) Ho già notato più
sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo, allorchè non era un
instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem plice traditio. (2 )
Puchta, Inst., § 238. Cfr. SQUITTI, op. cit., pag. 15. 444 tenga, che primo a
formarsi dovette essere il concetto delmancipium, il concetto cioè di una
proprietà tipica del quirite, che compren deva uno spazio di terra e quelle
pertinenze di esso, che riputa vansi il patrimonio indispensabile del capo di
una famiglia agricola. La formazione di questo mancipium, che già aveva una
base nelle condizioni economiche e sociali dei primitivi romani, venne in certo
modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto l'influenza della costitu zione
serviana. Da quel momento l'importanza non solo economica, ma anche politica
del mancipium, pose le cose, che erano comprese nel medesimo, in una posizione privilegiata
di fronte a tutte le altre cose, che potevano spettare al cittadino romano, e
trasformò così il mancipium in una proprietà essenzialmente quiritaria, perchè
apparteneva al quirite come tale. Era quindi naturale, che all’alie nazione del
mancipium e delle cose comprese nel medesimo si estendesse l'atto quiritario
per eccellenza, che era l'atto per aes et libram, mentre per l'alienazione
delle altre cose potè bastaré anche la semplice traditio accompagnata dal
pagamento del prezzo. Per quello poi, che si riferisce alla distinzione fra le
res mancipii e quelle nec mancipii, parmi evidente che essa fu l'ultima ad es.
sere introdotta, e non ho difficoltà di ritenere, che essa possa anche essere
stata formolata più tardi dai giureconsulti, quando i mede simi già sentivano
il bisogno di ridurre ad ordine sistematico le distinzioni molteplici, che
eransi introdotte nel diritto. Il censo in fatti per sè poteva condurre alla
determinazione delle res mancipii, ed anche alla divisione delle medesime in
varie categorie; ma esso non poteva determinare che indirettamente la
formazione delle res nec mancipii. È quindi probabile, che i giureconsulti
trovando più tardi questo nucleo di cose (mancipium ), per la cui alienazione
era richiesta la mancipatio, abbiano formato di queste cose una cate goria
speciale (res mancipii), la cui caratteristica consisteva ap punto nel modo di
alienazione (mancipatio), mentre tutte le altre furono lasciate nella categoria
negativa dalle res nec mancipii (1). (1) Non parmi tuttavia accoglibile
l'opinione del Voigt, secondo cui la distinzione sarebbe nata fra il 585 e il
650 di Roma. Essa invece dovette già essere formata all'epoca delle XII Tavole,
in cui accanto alla mancipatio, riservata alle res man cipii, era già comparsa
l'in iure cessio, che era applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che
sarebbe anche provato da ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res
mancipii nella condizione speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos
sero state vendute da una donna senza approvazione del tutore. È evidente
infatti 445 Essi insomma fecero qui una distinzione analoga a quella, che si
introdurrà più tardi, fra le cose, che appartengono ad una persona ex iure
quiritium, e quelle invece che le appartengono solo in bonis; poichè le prime
costituiscono una cerchia chiusa e circo scritta, quanto alle cose, che possono
essere l'oggetto, quanto ai modi di acquisto, e alle persone cui appartengono,
mentre quelle in bonis comprendono tutte le altre. $ 6. La storia primitiva della
proprietà ex iure quiritium. 352. L'analogia, che ho sopra notata fra la
distinzione delman cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi
fra il dominium ex iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra
volta sul grave problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà
ex iure quiritium. Fino ad ora si è sola mente dimostrato, come già nel periodo
gentilizio vi fosse una forma di proprietà, che intestavasi al capo di
famiglia, e che pren deva il nome di heredium. Questa tuttavia non costituiva
ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di
famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui
apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando
gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi
mancipia. Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso
populus romanus qui ritium, in base alla considerazione del censo, la sola
proprietà, che era loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e
perciò fu questa, che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris,
sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente
individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex
iure quiritium, ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo
formo oggetto del medesimo; come lo dimostra la circostanza, che in questo
periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il
che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e
da Ul PIANO, Fragm., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di
cui si tratta. Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti, op.
cit., pag. 73 e seg., e BONFANTE, op. cit., pag. 115 e seg. 146 dominio
quiritario all'espressione meam esse: « aio hanc rem iure quiritium ». Ferma
cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo del
dominium ex iure quiritium, resta ora a ve dere come il suo concetto siasi
venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso questa
proprietà ex iure quiritium, la quale doveva poi divenire il modello di ogni
proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i
ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto
singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto
della proprietà ex iure qui ritium. L'Ortolan, ad esempio, trova assurdo che il
quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano certe
servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i servi e
le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in qualmodo
quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi indifferenti alla
distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo induce a
combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non conosceva
un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium: « aut enim ex iure quiritium
unusquisque do minus erat, aut non intellegebatur dominus » (1). È certo che la
cosa riesce assai strana, quando si voglia ritenere che, al difuori della
proprietà ex iure quiritium, non vi fosse pei romani primitivi altra forma di
proprietà o di possesso; ma la cosa pud invece essere spiegata quando si abbia
presente il modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e le istituzioni,
che entrarono a costituirlo. Già ho cercato di dimostrare comeil ius quiritium
non comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di
esso, che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e che di vento cosi
comune ai due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far parte della stessa
comunanza quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono ancor sempre a
seguire le proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che quella parte
di diritto, che essendo stata accettata come base della comunanza quiritaria
prese il nome spe ciale di ius quiritium. Questo pertanto non governd dapprima
tutti i rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano fra loro nelle (1)
Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880, p. 606. MUIRHEAD,
Histor. Introd., pag. 40.. 447 loro qualità di quiriti, e fu solo col tempo e a
misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti, che esso venne
arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti, modellando nuovi
negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una grande e popolosa
città, e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum (1). 354. Or bene ciò
che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò eziandio
nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a costituirlo, e
quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium. Questa non comprende dapprima
tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma comprende solo
quella parte di essa, che loro appartiene nella loro qualità di quiriti.
Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il mancipium,
che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a cui si
determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la primitiva
proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il mancipium, e
fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per eccellenza, cioè l'atto
per aes et libram, e quella pro cedura quiritaria dell'actio sacramento, in cui
i contendenti affer mavano: « hanc rem suam esse ex iure quiritium ». Questa
infatti era l'unica proprietà, che poteva essere tenuta in conto al punto di
vista quiritario e che doveva perciò avere la tutela del diritto qui ritario.
Quindi era giusto il dire, che altri « aut erat dominus ex iure quiritium, aut
non intellegebatur dominus »: il che non vuol già dire, che non si potesse
avere il possesso od il godimento di altri beni, ma soltanto che le altre forme
di proprietà non potevano es sere tenute in calcolo al punto di vista
quiritario. Quindi al modo stesso, che il ius quiritium fu il frutto della
selezione di certi con cetti e forme solenni, che furono adottate dalla
comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure quiritium fu anche essa
determinata da una specie di selezione. Il suo primo nucleo consistette nel man
cipium, il quale costitui in certo modo la proprietà tipica del qui rite, ma
più tardi i suoi limiti apparvero troppo circoscritti, e perciò alla cerchia
troppo ristretta del mancipium si venne sostituendo un concetto più esteso del
dominium ex iure quiritium. Questo infatti (1) Questo carattere particolare del
ius quiritium, per cui esso non è tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo
quella parte di esso, che vennesi consolidando al lorchè patriziato e plebe
entrarono a formar parte della stessa comunanza quiritaria. fu dimostrato
sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448 viene già ad essere più esteso: lº quanto
alle persone a cui compete, che non sono più i soli capi di famiglia, ma tutti
i cittadini ro mani ed anche i latini cui sia accordato il ius quiritium; 2°
quanto ai modi, con cui si acquista, che non si riducono più alla sola man
cipatio, ma comprendono anche la in iure cessio e la usucapio (1 ); e quanto
alle cose, che possono essere l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii,
ma tutte le cose in commercio, eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è
evidente, che anche in questo secondo stadio la proprietà ex iure quiritium
costituisce ancora sempre una proprietà privilegiata, quanto alle persone, alle
cose, ai modi di acquisto; cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste
condizioni la cosa ap partiene solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto
della pro tezione pretoria, che viene a poco a poco delineandosi una proprietà
in bonis, accanto alla proprietà per eccellenza, che era quella ex iure
quiritium. Qui pertanto appare evidente quella legge di for mazione del diritto
romano, per cui accanto alla parte di esso già formata ne compare un'altra, che
trovasi in via di formazione e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle
forme di quella, che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel
primitivo ius quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium, il
medesimo invece nel ius proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato
dalla proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis; ma intanto la seconda
distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad
essere foggiata sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a
ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium, dopo esser stato modellato
sulla realtà dei fatti, abbia finito per convertirsi in una costruzione
giuridica non dissimile da quella, che abbiamo ravvisata nei concetti di caput,
di manus e di mancipium. Esso è una forma di proprietà, che cor risponde al
concetto del quirite, e quindi al modo stesso, che questi nella sua
configurazione giuridica era una individualità integra e perfetta, concepita
sotto l'aspetto esclusivamente giuridico, ed (1) Non è qui il caso di parlare
nè dell'adiudicatio, nè della lex, e dell'adsignatio viritana, che potevano
anche attribuire il dominium ex iure quiritium; poichè lo stesso Gajo, Comm.,
II, 65, parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e dell'usucapio,
come costituenti un ius proprium civium romanorum. 449 isolata da tutti gli
altri suoi rapporti, cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere concepita come
assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine della persona, a
cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo, che allo
svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del tutto ana
loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di caput;
cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio, furono adoperati
dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato del
quirite. Così, ad esempio, al modo istesso, che si ha l'optimum ius quiritium
allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi havvi il
dominium optimum maximum, quando il dominium non è soggetto ad alcuna limita
zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi havvi
eziandio una diminutio dominii, la quale è perfino in dicata collo stesso
vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis diminutio. Che
anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti gli uomini,
cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium.ex iure quiritium; il qual
concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una specie di correlazione
fra la concessione della civitas agli abitanti, e la concessione al suolo da
essi abitato di quel ius privilegiato, che lo rende suscettivo di dominio
quiritario. Cosi mentre il solum italicum ottenne questa speciale condizione,
sotto il nome di ius italicum, il solum provin ciale invece non potè mai essere
oggetto di vera proprietà, se non quando scomparve con Giustiniano la
distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis (1). Vi
ha di più ancora, ed è che le trasformazioni storiche, che ac cadono nel
concetto di caput, camminano di pari passo con quelle del dominium ex iure
quiritium. Così, ad esempio, finchè il vero caput non appartenne che al capo di
famiglia, anche questi fu il solo capace di proprietà ex iure quiritium. Quando
poi la capacità di diritto dal capo di famiglia passò ad ogni cittadino romano
) (1) In questa guisa si spiega, come i Romani procedessero nell'accordare ad
un determinato territorio l'attitudine ad essere oggetto di proprietà
quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano nell'estendere la cittadinanza
romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia fra la formazione del ius latiï
e quella del ius italicum: di cui quello si riferisce alle persone, questo
invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin, Étude sur le ius italicum, nella «
Nouvelle revue historique de droit français et étranger », annate 1881 e 1882).
G. CARLI, Le origini del diritto di Roma. 29 450 bastò essere tale, per essere
capace di proprietà ex iure quiritium. Quando infine la capacità giuridica
appartenne ad ogni uomo li bero, perchè tutti gli abitanti dell'impero
ottennero la cittadinanza, bastò essere uomo libero per essere capace di quella
proprietà, che un tempo era stata privilegio dei soli quiriti. La qual
trasforma zione avverasi anche, quanto alle cose che ne formano l'oggetto, le
quali cominciarono dall'essere quelle soltanto, che figuravanonel censo
intestate al capo di famiglia (res mancipii), e finirono per compren dere tutte
quelle, che potevano essere in commercio. Il che deve pur dirsideimodi
diacquisto, i quali dapprima furono probabilmente circo scritti alla sola
mancipatio, mentre dopo compresero l'in iure cessio e l'usucapio, e finirono
col tempo per comprendere anche quei modi di acquisto, che dapprima erano
proprii soltanto del diritto delle genti; donde la distinzione della classica
giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio, civili e naturali,
originarii e derivativi (1 ). 356. Era poi naturale, che alla proprietà cosi
intesa i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella stessa analisi, che
già ab biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il quirite alla cosa che
gli apparteneva: gli fecero afferrare materialmente la cosa ed affermare la sua
proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua ex iure quiritium:
immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla medesima spettante, e
le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne, goderne, e di disporne,
anche abusando di essa. In questo diritto del proprietario, che non ha confine,
deve quindi ravvisarsi una costruzione giuridica, non dissimile da tante altre,
che occorrono nel diritto romano: poichè in effetto l'abuso della proprietà era
poi frenato dal costume, e sopratutto dal iudicium de moribus, il quale, dopo
essere stato una istituzione gentilizia, fu di nuovo ristabilito dalle XII
Tavole, e fu affidato al pretore (2 ). Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi
nella proprietà (1) Non può ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle
origini del diritto ro mano non esistessero modi naturali di acquisto, il che
sarebbe contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto alle res nec
mancipii: ma soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca forse più
antica, furono solo più tardi incorporati nella com pagine del diritto romano,
il quale assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle
forme prestabilite. (2 ) L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu
dimostrata al n° 59, p. 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata
dalla intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra
richiamare qualche antica norma consuetudi 451 fini per ricevere una propria
denominazione, e staccato dal ceppo, sovra cui aveva radice, fini per dare
origine alle varie configura zioni dei diritti reali, comprendendovi anche il
ius possessionis, ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo,
pur sempre ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà,
di cui costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra
essere venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare
adoperato, quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che
erano inchiusi nella medesima (1). 357. Questa ricostruzione intanto del
dominium ex iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei
rapporti, che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A
questo proposito il diritto romano presenta questa singolarità, chementre il
giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come
fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale
appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse)
(2); noi troviamo invece, che nello svolgimento storico presentasi dapprima
integro e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium, ed è solo molto
più tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti tuzione
giuridica, protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo stato di
cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non distinguessero
dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la padronanza giuridica
sovra di essa; ciò sarebbe smentito dal fatto, che essi fin dai primi tempi
ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas, ed anche dalla
circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si riconobbe
dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza, che le XII Tavole,
affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla gens,
richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium, che era
venuto meno nello stretto ius quiritium, e ristabili rono contro il prodigo
interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una reliquia
dell'organizzazione gentilizia. Il testo infatti, secondo la ricostruzione del
Voigt, Tav. VI, 10, sarebbe il seguente: « Qui sibi heredium nequitia sua
disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor
interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto ». (1) Che il vocabolo di
proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si trat tava di
contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi nella medesima,
può argomentarsi, fra gli altri passi, da quello di GAJO, II, 30, ove la
proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. (2 ) L. 1, § 1, Dig. (41, 2
). 452 proprietà, ma una specie di possesso a titolo di precario, che non aveva
ancora carattere giuridico (1). La causa invece del fatto deve riporsi in ciò,
che anche in questa parte il ius quiritium, essendo già stato il frutto di una
vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal concetto più vasto e
comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di proprietà. Il concetto
infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad essere modellato sul
mancipium, il quale, implicando la sottomissione illimitata di una cosa ad una
persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti i po teri, che ad una persona
possono appartenere sopra una cosa. Il diritto infatti, che al quirite spetta
sul proprio mancipium, nella sua sintesi vigorosa, implica la detenzione
materiale e la proprietà della cosa: è un fatto ed è un diritto; è una
proprietà originaria, ma intanto comprende eziandio la proprietà derivata; esso
anzi de signa perfino una proprietà, che ha dell'individuale e del famigliare
ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche in questo concetto venne
penetrando l'analisi, la quale cominciò dal distinguere la materiale detenzione
di una cosa (naturalis possessio), la quale è un puro e semplice fatto (res
facti), dalla padronanza giuridica sovra di essa (dominium ex iure quiritium ),
la quale costituisce invece un vero e proprio diritto (res iuris). Col tempo
però, siccome fra questi due termini estremiverranno ad esservi delle
possessiones, che per speciali considerazioni potranno anche apparire
meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal
pretore il concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più
unicamente come una res facti, ma in parte eziandio come una res iuris; non
supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche
l'intenzione di tenere la cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo
possesso verrà cosi a pren dere un posto di mezzo fra la semplice detenzione
materiale di una cosa, e la proprietà della medesima (2 ); quindi, per la protezione
di esso, il pretore, non trovandosi di fronte ad un diritto compiutamente
formato, non potrà ius dicere nel vero senso della parola, ma sol tanto
interdicere, cioè proibire che venga turbato lo stato di fatto, del quale si
tratta (vim fieri veto ), donde la denominazione degli inter. (1) Vedi, quanto
alle primitive possessioni della plebe nel territorio romano, il nº 154, pag.
190 e segg. (2) V. in proposito Savigny, Dela possession, Trad. Staedtler,
sulla 74 ed. tedesca, Bruxelles 1879, § 5º, pag. 20 a 25. 453 dicta, con cui si
protegge il possesso. Siccome poi questo possesso, du rando un determinato
spazio di tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero
diritto; cosi il possesso, oltre al costituire per se stesso una istituzione
giuridica, protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo,
mediante cui il fatto della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può
trasformarsi nel di ritto di proprietà (auctoritas) (1). È tuttavia a notarsi,
che siccome tanto il dominium ex iure quiritium, quanto la semplice possessio
debbono ritenersi come una scomposizione del diritto, che al quirite spettava
sul primitivo mancipium, il quale aveva del materiale e del giuridico ad un
tempo; così tanto il dominium, che la pos sessio, presso i romani, non poterono
mai intieramente spogliarsi di un certo carattere di materialità. Cid è
dimostrato dalla circostanza, che da una parte il dominium fini per essere
circoscritto alle cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo
della tra dizione, e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che
alle cose corporali e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime
(quasi possessio ) (2). In questo modo possono facilmente spiegarsi le
incertezze dei giureconsulti, i quali ora considerano il possesso come una res
facti, ed ora come una res iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del
diritto di proprietà, ed ora dicono invece, che il possesso ha nulla di comune
con essa; poichè il medesimo, essendo una istitu zione intermedia fra il fatto
ed il diritto, fra la detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto
l'uno or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale punto di vista, sotto cui
era considerato (3 ). Si comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia
dovuto (1) A parer mio è importante nello svolgimento storico del diritto
romano di tener distinti i due istituti del possesso ad usucapionem, e del
possesso ad inter dicta. Il primo prese le mosse del concetto dell'usus e
perciò potò essere applicato così alle res mancipië che alle nec mancipii, così
alle cose corporali, che alle incor porali; mentre il secondo fu il frutto
dell'analisi del mancipium, e ritenne quindi sempre qualche cosa della
materialità inerente a quest'ultimo. L'uno mette capo alla legislazione
decemvirale, mentre l'altro ricevette la propria configurazione giu ridica dal
diritto pretorio. (2 ) Cfr. Savigny, V. i passi in proposito citati dal
Savigny, op. cit., § 5, pag. 21 e segg., nelle note. Sono poi noti i passi di
Ulp., 12, § 1, Dig. (41, 2) nihil commune habet proprietas cum possessione», ed
altri analoghi, L. 1, $ 2, Dig. (43, 17). Cfr. JHERING, Fondement des interdits
possessoires, Trad. Maulenaere, Paris 1882, pag. 42. - 151 prendere le mosse
dalla materiale appropriazione di una cosa, il concetto del possesso sia
tuttavia di formazione posteriore, e non abbia ricevuto una propria
configurazione giuridica, che per opera del pretore, allorchè il medesimo
cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle possessiones nell'ager
publicus, che per la propria durata già cominciavano ad assumere il carattere
di un vero A proprio diritto (1). Per quello poi, che si riferisce alla
questione tanto agitata del fon damento razionale della protezione giuridica
accordata al possesso, essa, come al solito, non ebbe ad essere trattata di
proposito dai giu reconsulti; ma si può indurre dallo svolgimento storico di
esso, che tale fondamento deve riporsi sul principio, sovra cui poggia tutto il
diritto romano, secondo cui « ex facto oritur ius », in quanto che ogni fatto,
che riunisca in sè certe condizioni di durata e di buona fede, contiene in sé i
germi di un diritto e come tale può già meri tare la protezione giuridica e
servire ad un tempo di base all'usu capione (2 ). (1) Tale sarebbe l'opinione
del Niebaur, Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del Savigny, op. cit., § 12
a, pag. 177-185. Essa parmi in ogni caso più verosimile di quella sostenuta dal
Pochta, Istit., § 225, secondo cui l'idea del possesso sarebbe provenuta dalla
concessione del possesso interinale, che si accordava ad uno dei contendenti
nella procedura di vindicazione coll' actio sacramento; poichè questo possesso
interinale non ha punto che fare col possesso, in quanto ha una protezione
giuridica tutta sua propria, che consiste negli interdetti. Comunque stia la
cosa, sembra che l'interdetto più antico sia quello uti possidetis, destinato
appunto ad impedire il turbamento di uno stato di fatto. Intanto viene ad
essere evidente, che in base all'opinione qui sostenuta, se si voglia collocare
il possesso nella solita di stinzione dei diritti in personali e reali, esso
dovrà certo esser collocato tra i diritti reali. Cfr. il SavIGNY, op. cit., $ 6,
p. 42, il quale sostiene un'opinione in parte diversa. (2 ) Senza voler qui
prendere in esame le molte teorie, che furono escogitate in proposito, solo mi
limiterò ad osservare, che la questione ebbe ad essere profonda mente discussa
in due opere, che vennero ad un risultato compiutamente diverso; di cui una è
quella del JHERING, Ueber den Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui
abbiamo la trad. franc. del Maulenaere, sopra citata, e l'altra è quella del
Bruns, Die Besitzklagen des röm. und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con
cetto fu adottato e largamente esposto dal PADELLETTI, Archivio giuridico, XV,
pag. 3 e segg. Secondo il primo, la protezione accordata al possesso fondasi su
ciò, che il possesso è una estrinsecazione della stessa proprietà, e quindi
senza tale pro tezioneanche la proprietà non sarebbe sufficientemente difesa.
Secondo l'altro invece, il posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base
al concetto, enunciato nella L. 2, Dig. (43, 17): qualiscumque possessor, hoc
ipso quod possessor est, plus iuris habet, quam qui non possidet ». Parmi che,
assegnando a questa protezione il fondamento razionale indicato nel testo, cioè
il principio: « ex facto oritur ius », si 455 358. Di fronte a questo
svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere difficile la
risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come quella della
proprietà ex iure quiri. tium, dopo essere stata esclusivamente propria dei
romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per essere
adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta della
dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo, che la proprietà
quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da quel nucleo
di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai singoli capi
di famiglia, fini per essere isolata dall'ambiente, in cui si era formata, e si
cambiò così in una costruzione logica e coerente. Fu in questa guisa, che la
medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di costruzione
giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per diventare
quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti giuridici,
e quindi anche questa o quella forma di proprietà, ma non tutti riescirono ad
isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente storico, in cui
si erano for mati; solo i romani ebbero la potenza di sceverarli da ogni
elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non interrotta, che duro pa
recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato di purezza quella, che
potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli istituti. Le loro
analisi, le loro fattispecie, le loro costruzioni giuridiche non potranno
sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche nel loro
genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte greca; ed è
questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto romano. Questa
elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al concetto della
privata proprietà. In questo senso si pud dire col Sumner Maine (1) che essi
furono i crea tori della proprietà privata ed individuale;ma è sopratutto
notabile abbia il vantaggio di far contribuire alla giustificazione della
protezione giuridica accordata al possesso e l'una e l'altra teorica, e quello
di dare contemporaneamente una base, così al possesso ad interdicta, come al
possesso ad usucapionem. Secondo il Puglia, Studii di storia del diritto
romano, Messina 1886, pag. 72: « l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso
come un mezzo particolare per risolvere una controversia, per la quale non
potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio »; ma è ovvio il notare che in
questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non
maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr.
PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom., pag. 529 e segg., ove trovasi citata
in nota la bi bliografia più recente sull'argomento. (1) SUMNER-MAINE, L'ancien
droit, trad. Courcelles Seneuil, Paris, il modo e il perchè essi ed non altri
riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi pervennero svolgendo prima il
concetto della pro prietà individuale, assoluta ed esclusiva, riguardo a quel
nucleo di cose, che era compreso nel primitivo mancipium, con cui ogni sin golo
quirite compariva nel censo, e poi trasportarono successiva mente il concetto
logico, che essi si erano formati di questa pro prietà ex iure quiritium, a
tutte le cose corporali, che potevano essere oggetto di commercio. Per tal modo
la proprietà quiritaria si staccò da una organizzazione gentilizia e
patriarcale, non dissi mile da quella, da cui usci la proprietà privata dei
Germani e degli Inglesi nell'evo moderno; ma a differenza di questa, quella fu
ben presto isolata dall'ambiente, in cui erasi formata, e si cambid cosi in una
proprietà tipica, strettamente individuale, che potè con certi temperamenti
essere adottata da tutti i popoli. Appendice. Senza voler qui fare
comparazioni, che miporterebbero fuori del tema, non so tuttavia trattenermi
dall'accennare ad alcune singolari analogie fra lo svolgi mento della proprietà
privata in Roma e presso i popoli Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a
pag. 62, nota 2, la discussione seguita nell'Accademia Francese, a pro posito
della proprietà presso gli antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa
discussione porse argomento ad una nota del prof. Del Giudice, stata letta
all'Isti tuto Lombardo, nelle adunanze del 4 e 18 marzo 1886, in cui egli fa un
accura tissimo raffronto fra la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa
le condizioni dei primitivi Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini
le mutazioni, che si erano avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150
anni, che separano i due autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a
ciò, che i possessi erano diventati più stabili, e che dalla proprietà
collettiva del villaggio già erasi venuta distin guendo la proprietà della
famiglia. Pervenuti così a questo punto della evoluzione della proprietà presso
i Germani, analogo a quello, a cui erano pervenute le genti italiche, allorchè
fondarono la città di Roma, noi troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER
sull'Allodio nei secoli Barbarici, Torino, 1886, la descrizione degli ulteriori
stadii, per cui passò l'evoluzione stessa. Noi cominciamo anzitutto dal
trovarci di fronte a certi vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni
primi tive delle genti italiche. Cotali sono i communalia, i vicinalia, i
vicanalia (SCHUPFER, pag. 26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica
dell'ager compascuus delle tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così
anche tra i Germani trovasi una forma di proprietà, che, senza essere del tutto
individuale, già si accosta alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le
genti italiche, come fra i Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama
l'eredità, il passaggio cioè di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo
vocabolo presso i Romani, era quello di heredium, e presso i Germani è quello
di alodium; il quale eziandio, secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò
dapprima dall'indicare l'eredità, e passò poscia ad indicare il patrimonio
avito. SCHUPFER, Op. cit., pag. 11 e 12. Or bene, presso l'uno e l'altro
popolo, è questo heredium o alodium, che finisce per costituire il primo nucleo
della proprietà esclusivamente privata. — È notabile anzi, che, nel periodo
della tras 457 formazione, nè i Romani, nè i Germani hanno un vocabolo
specifico per indicare la proprietà: poichè mentre i primi esprimono la
proprietà coi concetti di meum e di tuum, di heredium, di praedium, di
mancipium, i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land, Erbe, Eigen,
Allod, Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani occorrono quei
consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi vocaboli di « ercto
non cito ». Questi consortia parimenti esistono sopratutto fra fra telli, e
talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente nella comunione
(SCHUPFER, pag. 52), e richiamano così la familia omnium agnatorum. — Infine la
vera proprietà privata formasi presso i due popoli nella stessa guisa. Al modo
stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu un assegno sull'ager
gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà privata, presso i
popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof. Schupfer, fu anche
essa una sors, un lotto, un assegno (pag. 63); accanto al quale però si svolge
eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag. 60), il quale, salvo il
linguaggio, non presenta poi grande differenza dal manucaptum dei latini. È poi
anche degno di nota, che questo nucleo cen trale della proprietà privata presso
i Germani, al pari che presso gli antichi Ro mani, è costituito da un podere o
da una abitazione rustica, a cui trovasi annessa una certa quantità di terra,
che in massima avrebbe dovuto essere invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è
indicato coi nomi dimansus, di hoba, di sedimen, i quali proba bilmente portano
eziandio con sè quella idea di residenza, che era indicata anche dai vocaboli
di mancipium e di dominium. Che anzi, come già notava lo Schupfer, p. 78, anche
l'uomo libero longobardo, che si chiama arimanno, indica la sua libera pro
prietà col vocabolo di arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la
sua proprietà esclusiva « dominium ex iure quiritium ». Infine questa proprietà
si acquista, si trasmette e si rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la
manci. patio e l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., pag. 122, 138
e 160 ). Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle
leggi che go vernano l'evoluzione della proprietà, sonvi anche le differenze,
che sono determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il
popolo romano, giunto una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa
una costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in
commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici
invece non giungono a questa concezione tipica; quindi mentre la proprietà
romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà
mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta
raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente
gentilizio, e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa,
pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i
popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a
districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui
era uscita, o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà,
quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della
istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero
sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione
feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e
di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla
proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad.
Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh. Il ius
quiritium ed i concetti di commercium, connubium, actio. 359. Fin qui ho
cercato di ricomporre il quirite negli elementi essenziali del suo status, e di
seguire le trasformazioni, che si vennero introducendo man mano in ciascuno di
questi elementi. Ricostruendo cosi il primitivo diritto, fummo condotti ad una
con figurazione giuridica del quirite, la quale, ancorchè rigida e com passata,
si presenta però organica e coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte
più difficile di questa ricostruzione, quella cioè di cercare, come mai una
figura cosi automatica potesse entrare in rapporti con altre individualità
foggiate sullo stesso modello, e dare cosi origine a quella infinita varietà di
negozii, in cui il quirite pud essere chiamato a svolgere la propria attività
giuridica. Non è quindi meraviglia, se qui sopratutto apparisca sorprendente il
magi stero dei veteres iuris conditores, in quanto che non trattavasi solo più
di notomizzare e di scomporre lo status del quirite, ma di mettere il medesimo
in movimento ed in azione, valendosi di pochissimi mezzi per dar forma
giuridica alla varietà grandissima dei negozii, che si venivano moltiplicando
col formarsi e collo svol gersi della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione
più ovvia intorno al magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto,
sarebbe che essi, da uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le
istituzioni, a mi sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto
privato di Roma, almeno in questa parte, debba essere considerato come il
frutto di una evoluzione lenta e graduata, determinata sopratutto dalle
condizioni economiche e sociali del popolo romano (1). Lo studio invece delle
vestigia, che a noi pervennero dell'antico ius quiritium, mi hanno
profondamente convinto, che il medesimo, anche in questa parte, che potrebbe
chiamarsi la dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie
di elaborazione e selezione potente, (1) Tale sarebbe l'idea, forse alquanto
preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo: Studii di
storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia scientifica,
Messina, 1886. 459 che venne operandosi su materiali giuridici preesistenti, la
quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica giuridica, non
dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica del diritto
quiritario. Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi fondamentali
dello status del quirite furono fissate, pressochè contemporaneamente,
dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano; lo svolgimento invece
della parte del diritto quiritario, che si riferisce al negozio giuridico, fu
l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata, la quale si operd man mano,
che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato e la plebe, e che le
loro rispettive istituzioni si fondevano insieme nell'attrito della vita
cittadina. 360. Che questo sia stato il processo, con cui si formò eziandio la
parte dinamica del ius quiritium, risulta da una quantità gran dissima di
indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più importanti. È indubitabile
anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio giuridico, il ius
quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto particolare, ma parte
invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi, quali sarebbero quelli
del commercium, del connubium e dell'actio, i quali tutti hanno una larghissima
signi ficazione, e sembrano già preesistere nel periodo gentilizio, anteriore
alla fondazione della città. Cosi pure è certo, che il primitivo ius quiritium
non viene già creando le forme giuridiche, a misura che si vengono svolgendo i
nuovi rapporti giuridici, ma compare invece con certe forme tipiche,
efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare entrare, anche
forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento la convivenza
civile e politica. È in questa guisa, che un solo atto, quale sarà, ad esempio,
l'atto per aes et libram, finirà per servire alle applicazioni più disparate.
Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius quiritium, nelle diverse
serie di rapporti giuridici da esso governati, presentasi dapprima con
istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il nucleo centrale,
intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che hanno qualche
affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha dubbio, che il
ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio, che è il matrimonio cum
manu; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes et libram; come
pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio sacramento.
Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto quiritario
non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano; - 460 - ma si
viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si adottano
quelli, che possano convenire al concetto fondamentale, che è quello del
quirite. È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di questa
parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi della sua
naturale formazione, cominciando dal cercare: lº quali siano i concetti
fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del ius
quiritium; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che essi
subiscono en trando nel diritto quiritario; 3º l'ordine progressivo, con cui
questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora zione
del ius quiritium. 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende le mosse
la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli del
connubium, del commercium, dell'actio. Cid pud inferirsi anzitutto dalla
circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo
gentilizio, nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era
naturale, che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria, li
applicassero eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite,
pur essendo un individuo, continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si
aggiunge, che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica
del quirite, quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla
costituzione serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di
capo di famiglia e di proprietario di terra, i quali due caratteri, nella
sintesi primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo
dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium. Era quindi
naturale, che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si
riducevano alla famiglia ed alla proprietà, così le varie manifestazioni
dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del
connubium, da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a quella
del com mercium, in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge occasione la
circolazione e lo scambio della proprietà. — Le une e le altre ma nifestazioni
poi trovavano la propria difesa nell'actio, che serviva a tutelare il quirite
sotto l'uno e sotto l'altro aspetto, non essendovi ancora la distinzione fra i
diritti reali e personali. Questi concetti pertanto, trasportati nel ius
quiritium, si cambiarono, per così dire, in altrettanti capisaldi, da cui si
vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud esplicarsi l'attività
giuridica del quirite; co 461 sicchè anche più tardi, per mettere ordine nello
svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio dovette di necessità
ricorrere ad una distinzione, che richiama quella antichissima del connubium,
del commercium e dell'actio (1). Tutto il diritto infatti, che si ri ferisce
alle persone, considerate sotto il punto di vista esclusiva mente privato,
sembra metter capo al concetto del connubium; quello invece, che si riferisce
alle cose, non è che uno svolgimento del commercium; e quello infine, che
riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella legis actio, che
costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del resto sono gli stessi
giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti pubblici dai privati,
finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti fondamentali del con
nubium e del commercium, somministrandoci così, almeno questa volta, una chiave
di quella dialettica fondamentale, che stringe ed unifica il molteplice
svolgimento della giurisprudenza romana (2). 362. Per quello poi, che si
riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di questa parte del ius
quiritium, non può esservi dubbio, che essa deve essere cercata nel periodo
gentilizio, il che credo di avere largamente dimostrato a suo tempo (3). Vuolsi
perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima avevano governato dei
rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè furono tras portati nei
rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante basi del diritto
spettante ai quiriti, cosicchè dal connubium derivd il ius connubii ex iure
quiritium; dal commercium il ius commercii pure ex iure quiritium; e infine
dall’actio il sistema delle legis actiones, che è parimenti proprio della
comunanza quiritaria. Questi concetti pertanto cessarono di avere uno
svolgimento pura mente estensivo, come era accaduto nei rapporti fra le
famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno svolgimento intensivo;
cosicchè (1) Intendo qui parlare della nota distinzione di Gaio, Comm., I, 8: «
Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad
actiones ». Quanto alle obbiezioni che si fecero, sopratutto dal Savigny, al
valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97, pag. 124, nota
1. (2) È sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due larghissimi
concetti di connubium e di commercium tutto l'esplicarsi dell'attività
giuridica del qui rite. V. Ulp., Fragm., V, 3, quanto al connubium, e XIX, 5
quanto al commercium. Quanto all'uno e all'altro concetto cfr. il Voigt, XII
Tafeln, I, pag. 244 e. 274, coi passi ivi citati, ed il MUIRHEAD, Histor.
Introd., pag. 108 e 109. (3 ) V. sopra lib. I, cap. VI, SS 2 e 3, pag. 123 a
138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una propaggine di quel diritto pri
vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il nomedi ius quiritium, e che più
tardi chiamarono ius proprium civium romanorum. Cosi, ad esempio, il connubium
nel periodo gentilicio, era il di ritto di imparentarsi fra di loro, che
esisteva fra i membri delle genti, che appartenevano al medesimo nomen.
Trasportato invece nella comunanza quiritaria, esso venne a trasformarsi nel
ius con nubii ex iure quiritium. Secondo Ulpiano infatti « connubium est uxoris
iure ducendae facultas », ossia il diritto di addive nire alle giuste nozze
riconosciute dal ius quiritium, e di godere cosi di tutti i diritti, che in
base al medesimo derivavano da queste giuste nozze, cioè: della manus sulla
moglie, fino a che il matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del
cittadino romano; della patria potestas sui figli, che anche più tardi i
giureconsulti consideravano come istituzione peculiare al popolo romano. Che
anzi, siccome anche l'istituto dell'arrogazione e dell'adozione, come pure
quello della successione e della tutela le gittima nel diritto romano avevano
stretta attinenza coll'organiz zazione domestica e col principio
dell'agnazione, che stava a fonda mento della medesima, cosi anche queste
istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium, come una dipendenza del
connubium, considerato come un ius proprium civium romanorum. 363. Lo stesso è
pure a dirsi del commercium. Il medesimo, nei rapporti fra le genti, era il
diritto di addivenire ai reciproci scambii « emendi vendendique invicem
potestas »; ma allorchè invece venne ad essere trapiantato fra i quiriti, i
quali come tali avevano una proprietà speciale e privilegiata, che era la
proprietà ex iure quiritium, esso venne a cambiarsi nel ius commercii ex iure
qui ritium, ossia nel diritto di addivenire a tutti quei negozii giuridici, di
carattere mercantile, che erano stati adottati come proprii dalla comunanza dei
quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui ritium e ancora nella
legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme fondamentali, che sono:
lº il facere nexum, che è il diritto di potersi obbligare nella forma e cogli
effetti riconosciuti dal diritto quiritario; 2° il facere mancipium, che è il
diritto di acquistare e trasmettere la prima proprietà quiritaria, consistente
appunto nel mancipium, colle forme riconosciute dal diritto quiritario; 3º e in
fine il facere testamentum, che è il diritto di acquistare o di tras mettere
un'eredità, mediante il testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario,
donde il vocabolo di testamenti factio (1). Che anzi l'unità primordiale di
questi varii negozii, in cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium,
viene ad essere messa in evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii
finiscono per compiersi con una sola forma tipica, che è quella dell'atto per
aes et libram, e tutti appariscono foggiati sullo stesso modello. Basta perciò
considerare, che il nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico
ad un tempo, il mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la
proprietà, e infine il testamentum, sotto un aspetto ha tutte le apparenze di
un negozio tra vivi, e sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non
produce i suoi effetti, che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di
vivere. Così pure l'unità di origine di questi varii negozii e il loro
diramarsi dal concetto, che il proprietario ex iure quiritium deve poter
liberamente disporre delle proprie cose, viene anche ad essere dimostrata dalla
circostanza, che di fronte a tutti questi atti la legislazione decemvirale
proclama il principio: « uti lingua nuncupassit », o quello analogo: « uti
legassit, ita ius esto ». 364. Da ultimo accade eziandio una trasformazione
analoga nel concetto dell'actio. Questa nel periodo gentilizio era la procedura
solenne, consacrata dal costume, a cui doveva attenersi il capo di famiglia, il
cui diritto fosse disconosciuto e violato, e la medesima poteva anche dar luogo
ad una effettiva violenza fra i contendenti, quando essi non avessero potuto
venire ad un amichevole compo nimento (2 ). Allorchè invece l'actio compare nel
ius quiritium, essa imita bensì ancora la procedura anteriore allo stabilimento
della ci vile giustizia, ma intanto già si compie in iure, cioè davanti al
magistrato riconosciuto come capo e custode della città. Di più questa actio
non può più seguire arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel
costume, ma deve invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa.
Essa cessa perciò di essere,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio, e
viene così a cam (1) Fra gli autori, che dànno questa larga significazione così
al connubium, che al commercium, accennerò il LANGE, Histoire intérieure de
Rome, pag. 13, in nota, il quale pur riconosce, che questi concetti dovettero
prima aver origine nei rapporti fra le varie genti. (2 ) Quanto alle origini
dell'actio nel periodo gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra
lib. I, cap. VI, § 3, pag. 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far valere le
proprie ragioni davanti al ma gistrato, nella forma che è riconosciuta dal
diritto quiritario. Quindi è, che anche la procedura quiritaria sembra prendere
le mosse da un'azione tipica, che è l'actio sacramento, la quale può anche essa
essere considerata come il nucleo centrale, da cui si verrà poi derivando non
solo tutto il sistema delle legis actiones, ma in parte eziandio il sistema
delle formulae. È poi quest'origine gentilizia dei concetti fondamentali del
diritto quiritario, che spiega eziandio, senza bisogno di ricorrere a quello
spirito formalista del popolo romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato, le
cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di carattere quiritario: poichè
anche queste solennità dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che
intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in quanto
rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che spiega le
formalità, da cui erano circondati (1). 365. Resta ora a determinarsi l'ordine
progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del primitivo
ius quiritium. Anche qui ci mancano le testimonianze dirette, perchè i veteres
iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano divulgare
il segreto dell'arte loro (2); ma abbiamo tuttavia una quantità di fatti, che
possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima parte del
diritto, che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu certamente
quella relativa al commercium, e quindi viene ad esser naturale, che
l'elaborazione di un ius quiritium, comune ai due ordini, inco minciasse da
quegli atti, che si riferiscono al commercium. Questa circostanza verrebbe poi
ad essere eziandio confermata dal fatto, che la parte di antichissima
legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si
riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte
relativa al com (1) Tralascio qui ogni maggior spiegazione intorno alle origini
del formalismo romano, perchè ebbi già ad occuparmene al n ° 94, pag. 117 e
segg. e sopratutto nella nota 1a a pag. 118, ove si presero in esame le opinioni,
in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering. (2) Cic., De Orat., I, 42,
lagnandosi delle difficoltà, che ai suoi tempi ancora accompagnavano lo studio
del diritto, dice espressamente, che una delle cause di queste difficoltà deve
essere riposta nella circostanza che « veteres illi, qui buic scientiae
praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa, pervulgari artem
suam noluerunt ». 465 mercium. Cosi pure abbiamo un'altra conferma di questo
fatto nella circostanza, che, all'epoca della legislazione decemvirale, già si
presentano come compiutamente formati i tre negozii giuridici attinenti al ius
commercii, cioè il nexum, il mancipium ed il testa mentum; cosicchè in questa
parte viene ad essere evidente, che le leggi delle XII Tavole non fecero che
confermare uno stato di cose già preesistente, e si limitarono a dire, che in
questa specie di negozii, la volontà del quirite doveva essere sovrana, per
modo che la sua parola costituisse legge (1). Infine un argomento indiretto di
questa precedenza l'abbiamo anche in questo, che la forma dell'atto commerciale
per eccellenza, che è l'atto per aes et libram, ebbe più tardi ad essere
applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii, come nella coemptio,
nell'adoptio e simili: il che significa, che l'atto per aes et libram già
doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla concessione dei connubii
fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi. Mi pare ciò stante di
poter conchiudere, che la parte del ius quiritium, relativa al commercium, fu
la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve attribuirsi a questo
motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano appare costantemente
modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il concetto espresso da
Ulpiano, allorchè scrive: omne ius consistit aut in acquirendo, aut in
conservando, aut in minuendo; aut enim hoc agitur, quem admodum quis rem vel
ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo amittat (2); ma la causa
storica, che determinò questo carattere peculiare del diritto romano, deve
essere riposta nel fatto, che la parte del ius quiritium, relativa al
commercium, fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo il nucleo
centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si aggiunsero più
tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta. Quando si
tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al connubium, si
trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà, e quindi anche il
diritto del marito, del padre, del padrone furono model (1) Cid non può lasciar
dubbio quanto al nexum ed al mancipium, che già si presentano nelle XII Tavole
come istituzioni compiutamente svolte, ed è confermato eziandio, quanto al
testamentum, da ULPIANO, il quale dice espressamente, che le suc cessioni
testamentarie e i tutori nominati per testamento furono confermati dalle XII
Tavole. Fragm., XI, 14. (2) Ulp., L. 41, Dig. (1-4 ). G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 30 - 466 lati su quello di proprietà. Cosi pure quando si
tratto di model lare le azioni, tutto si ridusse ad una questione di mio o di
tuo, si trattasse di rivendicare una cosa qualsiasi, oppure la moglie od un
figlio. Quindi è che la rigidezza, che a questo riguardo presenta il primitivo
ius quiritium, non proviene già da una confusione, che si facesse fra i diritti
di famiglia ed i diritti di proprietà, ma bensi da ciò, che essendosi nel ius
quiritium modellato prima il diritto di proprietà, anche le elaborazioni
posteriori ne conservarono l'im pronta. Ciò è anche provato dal fatto, che
nelle fonti l'espressione di ius quiritium è sopratutto adoperata relativamente
alla proprietà ed al commercio; cosa del resto, che è facile a comprendersi,
quando si consideri, che la comunanza quiritaria all'epoca serviana si formo
appunto in base alla proprietà ed al censo. 366. Noi possiamo invece affermare
con certezza, che fu solo assai più tardi, che il ius connubii entrò a formar
parte di quella singolare costruzione giuridica, che porta il nome prima di ius
qui ritium e poscia quello di ius proprium civium romanorum; poichè fu soltanto
colla legge Canuleia, che si riusci ad abolire il divieto del connubio dei
patrizii colla plebe. Malgrado di ciò, si può essere certi, che, anche prima di
quest'epoca, la parte più ricca ed agiata della plebe già aveva cercato di
accostarsi alla organizzazione della famiglia patrizia. Ciò è abbastanza
dimostrato dal fatto, che i de cemviri considerarono la famiglia fondata
sull'agnazione, come la famiglia propria dei quiriti, e cercarono anzi di
fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per addivenire al matrimonio cum
manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un anno, non interrotta per tre
notti di seguito. Allorchè poi colla legge Canuleia furono leciti i connubii
fra il patriziato e la plebe, era naturale, che l'atto quiritario per
eccellenza venisse ad essere applicato anche in que st'argomento. Probabilmente
dovette essere allora, che fra le forme del matrimonio cum manu, di cui una era
la confarreatio, propria del patriziato, e l'altra l'usus, propria della plebe,
venne svolgendosi. la forma del matrimonio, che può ritenersi come quiritaria
per ec cellenza, cioè quella per coemptionem. Intanto questo trapianto del
l'organizzazione domestica, propria del patriziato, nel ius quiritium, comune
ai due ordini, fece si che la famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente
sulla patria potestà e sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la
tutela legittima fossero deferite, in base alla legislazione decemvirale, agli
eredi suoi, agli agnati e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in
questa parte, che l'organiz zazione gentilizia del patriziato riusci a
penetrare nel diritto quiri tario; donde la conseguenza, che il ius connubii e
la conseguente organizzazione della famiglia finiscono per essere la parte
dell'an tico diritto, in cui rivelasi più tenace e persistente lo spirito
conser vatore dell'antico patriziato romano (1 ). 367. La parte infine del
diritto primitivo, che ultima sarebbe entrata nella compagine del ius quiritium,
deve ritenersi essere quella, che si riferisce alle legis actiones. Non è già,
che anche in questa parte non vi fossero dei materiali preesistenti: ma,
secondo l'attestazione concorde degli stessi giureconsulti, fu soltanto poste
riormente alla legislazione decemvirale è in base alle parole stesse della
medesima, che sarebbe stato modellato il sistema delle legis actiones. Che anzi
si può affermare con certezza, che questa parte del primitivo diritto di Roma
fu certamente dovuta alla elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle
tradizioni patrizie, spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica
giuridica, e cer tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che
erasi già adottato nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi
essi, che introdussero, quale azione tipica del diritto quiritario, l'actio
sacramento, la quale può essere considerata come il germe di tutto lo
svolgimento posteriore della procedura quiritaria: come pure furono essi, che
si fecero gli iniziatori di quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla
varietà infinita delle fattispecie, che si potevano presentare, la quale giunse
poi a tanta eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non
ignoro che l'opinione qui professata, secondo cui le legis actiones sarebbero
state le ultime a penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius
proprium civium romanorum, sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi
giureconsulti, sembra (1) Le affermazioni, che qui sono semplicemente
enunciate, verranno poi ad essere meglio comprovate nel capo V, ove trattasi
diproposito del ius connubii. È notabile, quanto al connubium, che
l'espressione ad perata nelle fonti non è più quella di ius quiritium, la quale
sopratutto si adopera in tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium
civium romanorum. La causa di questo cambiamento sta in ciò che il connubium
venne ad essere comune dopo le XII Tavole, cioè quando al concetto più
circoscritto del ius quiritium già cominciava a sovrapporsi il concetto più
largo di un ius civile, ossia di un ius proprium civium romanorum. 168
contraddire alla opinione oggidi molto seguita, secondo cui le actiones
avrebbero avuta la precedenza su tutte le altre parti del diritto quiritario (1).
Credo quindi opportuno di avvertire, che io pure ammetto, che in quella
evoluzione lenta dei concetti giuridici, che ebbe ad avverarsi nel periodo
gentilizio, il concetto che prima venne a svolgersi, fu certamente quello di
actio (2 ): ma così invece più non accadde nell'elaborazione del ius quiritium.
Questo infatti è già una costruzione organica e coerente, che prese le mosse
dal concetto del quirite, come individualità giuridica integra e perfetta, e
che in base al medesimo cominciò dapprima dal modellare la pro prietà, a lui
spettante; poscia gli attribui il connubio; da ultimo provvide anche alle
azioni, che potevano tutelarlo nei suoi diritti di proprietà e famiglia: donde
la conseguenza, che il ius quiritium, essendo già un'opera riflessa, accolse
talvolta più tardi istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le
prime (3 ). Intanto questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del
ius quiritium ha ' per noi una grandissima importanza, in quanto che mantenendo
nella ricostruzione l'ordine stesso, che ebbe ad essere seguito nella naturale
formazione del ius quiritium, si potrà giungere a spiegare certi caratteri
peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero
incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in
tre capi toli, di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius
connubii, e l'ultimo delle legis actiones. (1) Fra gli altri sembra attribuire
questa precedenza all'actio sulle altre parti del diritto civile romano il
Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del diritto privato, Torino, 1885, pag. 105
e segg. (2 ) Ho cercato altrove di spiegare questo carattere delle società
primitive, che al punto di vista attuale pud apparire alquanto singolare nella
Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880, pag. 40.
(3 ) Per una più larga discussione intorno al modo, in cui si formarono le
legis actiones, mi rimetto al cap. VI ed ultimo, § 1º, ove trattasi appunto di
quest'ar gomento. - 469 CAPITOLO IV. Il ius commercii nel diritto quiritario. $
1. Il commercium e l'atto per aes et libram. 368. Se havvi parte del ius
quiritium, che sia modellata in per fetta correlazione con quella individualità
giuridica, integra e com piuta, che era il quirite, è quella certamente, che si
riferisce al ius commercii. In questa parte la volontà del quirite apparisce
indi pendente e sovrana; la sua parola costituisce una vera legge;" e non
trovasi imposto altro limite e confine al suo potere, salvo quello, che deriva
dalla osservanza delle forme solenni, che sono ricono sciute ed adottate dal
diritto quiritario. Il quirite infatti, quale pro prietario, può disporre delle
sue cose fino ad abusarne, e può alienarle nel modo solenne proprio dei quiriti
(facere mancipium ); quale debitore può obbligare se stesso fino a vincolare la
libertà della propria persona (facere nexum ) per il caso in cui non soddisfi
il suo debito, e come creditore può appropriarsi perfino la persona ed il corpo
del debitore; come testatore infine può disporre in qual siasi modo del suo
patrimonio, dimenticando anche di avere de' figli. Si può quindi affermare, che
i tre atti fondamentali, in cui si esplica il ius commercii ex iure quiritium,
sono tutti governati dal con cetto, che la volontà del quirite non deve aver
limite o confine: concetto, che, quanto al nexum ed al mancipium, viene enun
ciato con dire « uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e quanto al
testamento, colle parole: « uti pater familias super familia tute lave suae
rei, legassit, ita ius esto (1) ». E questa la parte, in cui « uti (1) Mentre
nella ricostruzione del Dirksen, seguita dal Bruns, Fontes, pag. 22 e 2.3, la
disposizione: « Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius
esto » sarebbe la legge 1º della Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt
invece, essa viene ad essere la 1° della Tavola V. Così pure la disposizione
legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto », che nella
ricostruzione del Dirksen è la terza della Tavola V, in quella del Voigt viene
ad essere la prima della Tavola IV. Ciò dimostra quanto sia grande, anche oggi,
l'incertezza intorno all'ordine dei frammenti delle XII Tavole. - 470 domina
sovrana la nuncupatio, e quindi si comprende come tanto nelle obbligazioni,
quanto nei trasferimenti del dominio, quanto nei testamenti abbia avuto cosi
larga parte lo studio delle espressioni adoperate. Queste espressioni infatti
nel concetto primitivo costitui vano delle vere leggi, come lo dimostrano
ancora le espressioni ado perate di lex mancipii, di lex testamenti, di lex
fiduciae e simili, colle quali si comprendevano le varie clausole, che potevano
essere apposte ad un trasferimento del dominio, o ad un testamento (1 ).
L'unità poi, che domina tutta questa parte del primitivo ius qui ritium, viene
anche ad essere provata dal fatto, che un medesimo atto tipico, che può
chiamarsi l'atto quiritario per eccellenza, fini per servire quale mezzo per
compiere tutti questi negozii giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente
seguita, intorno all'atto tipico del diritto quiritario, sembra ritenere, che
tale atto debba essere riposto nella mancipatio, argomentando dalla larga
applicazione, che questa ebbe a ricevere, ogni qualvolta trattavasi di
trasferire la manus, intesa nel senso di potestà giuridica sopra una cosa o
sopra una persona (2 ). Parmi invece, che le poche vestigia, che a noi
pervennero dall'antico diritto, conducano a ritenere, che la forma (1 ) Il
vocabolo di lex, come significò la clausola di un contratto o di un testa
mento, così indicò eziandio le condizioni pubblicamente prescritte per i
luoghidesti nati ad uso pubblico o comune. Vedi Bruns, Fontes, Pars II, Negotia,
Caput I, pag. 240. Quanto agli altri significati del vocabolo di lex, nel
primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº 228, pag. 278. (2) Tra gli autori
recenti, che cercarono di ricostruire il primitivo diritto romano, poggiandosi
sul concetto di manus, in quanto comprende i poteri sulle cose e sulle persone,
e sulla mancipatio, quale mezzo generale per il trasferimento delle manus, deve
essere ricordato il Voigt, XII Tafeln, II, pag. 83 a 345. Anche il lavoro del
dott. Longo, La mancipatio, Firenze, 1887, è un tentativo in questo senso.
Questi verrebbe alla conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne,
sarebbe una reliquia di un atto più antico e più solenne, il quale in origine
avrebbe dovuto compiersi in calatis comitiis, e che sarebbesi applicato ad ogni
acquisto e trasferi mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe
le traccie nel testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis.
Quest'opinione, a parer mio, non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve
relativamente tardi, e si riduce in sostanza ad una semplice applicazione
dell'atto per aes at libram. Quanto agli atti di diritto privato, in cui
abbiamo ancora l'intervento del populus, essi non indicano già, che tutti gli
atti relativi alla manus richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma
debbono considerarsi come una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel
pe riodo della città; come ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221,
pag. 256 e segg., discorrendo dei calata comitia, e degli atti che compievansi
in essi. 471 tipica del negozio quiritario, debba essere riposto nell'atto per
aes et libram; cosicché la nexi datio, la nexi liberatio, la man cipatio, la
testamenti factio debbono essere riguardate come altret tante applicazioni di
quest'atto primordiale. Cid può essere dedotto anzitutto dal concetto
fondamentale del primitivo ius quiritium, in cui tutto si riduceva ad una
questione di mio e di tuo; donde la conseguenza, che ogni atto relativo al
commercium si riduceva in sostanza a fare in modo, che una cosa di nostra
diventasse altrui (quod de meo tuum fit) mediante un corrispettivo, che può
consistere o nel prezzo, o nell'obbligazione solenne assunta dal de bitore, o
nel corrispettivo di quella finta mancipatio familiae, in cui facevasi
consistere lo stesso testamento: trapasso, che trova vasi mirabilmente
espresso, mediante l'atto per aes et libram. Ed è questo concetto appunto, che
risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi giureconsulti. Questi
passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era un'applicazione dell'atto
per aes et libram, e dapprima quasi confondevasi con esso, poichè era definito:
« omne quod geritur per aes et libram ». Lo stesso è a dirsi del facere
mancipium, in quanto che una parte essenziale della mancipatio, quale è
descritta da Gaio, consiste senz'alcun dubbio eziandio nel l'atto per aes et
libram; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa del testamento per
aes et libram, il quale si introdusse più tardi, e non fu che una nuova
applicazione dell'atto per aes et libram. Si aggiunga, che questi passi degli
antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla significazione
primitiva del nexum e del mancipium. Vi sono infatti dei giureconsulti, che nel
nexum comprendono anche il mancipium, mentre altri già distinguono fra l'uno e
l'altro, osservando che dal nexum deriva un obbligazione, mentre col mancipium
si opera la traslazione della proprietà. Questa incertezza appare eziandio
quanto al testamento per aes et libram, il quale sotto un aspetto appare come
una vera vendita o mancipatio familiae, come lo dimostra l'intervento del
familiae venditor e del familiae emptor; mentre sotto un altro aspetto non è
più una vendita nel vero senso della parola, ma è già un vero atto per causa di
morte, poichè il familiae emtor riceve solo in deposito e in custodia il
patrimonio del te statore, accið egli possa liberamente disporne « secundum
legem publicam » per il tempo in cui avrà cessato di vivere (1). (1) Non sarà
inutile riportare qui alcuni dei passi di antichi giureconsulti, che 472 Di qui
pertanto si può ricavare, che nella sintesi primitiva del diritto quiritario
tutto ciò, che riferivasi al commercium, compievasi per aes et libram, col
quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra passo, e che solo col tempo in
questa sintesi primitiva si vennero differenziando il nexum, il mancipium, il
testamentum; i quali col tempo procedettero ciascuno per la propria via, ed
informati ad un proprio concetto finirono per dare origine a tre istituzioni
fonda mentali. Col tempo infatti dal nexum scaturi la teoria delle obbli
gazioni, dal mancipium derivò quella dell'alienazione e trasmissione del
dominio e dei diritti reali inchiusi nel medesimo, e dal testa mentum si derivò
tutta la teoria della libera disposizione delle proprie cose per causa di morte,
la quale non potè mai confondersi ed imparentarsi colla successione legittima,
poichè questa nel ius quiritium ebbe un'origine compiutamente diversa, come
sarà di mostrato a suo tempo (1 ). È poi notabile, che il primitivo ius quiri
tium, nella sua sintesi potente, ebbe a ravvisare uno scambio, ed una
trasmissione con corrispettivo, tanto nel contratto, in quanto è fonte di
obbligazioni, quanto nel trasferimento delle proprietà, quanto eziandio nel
testamento, mediante cui l'erede viene in certo modo a dimostrano come il nexum,
il mancipium e il testamentum facere non fossero, che altrettante applicazioni
dell'atto per aes et libram. « Nexum Manilius scribit omne, quod per aes et
libram geritur, in quo sint mancipia ». Varro, De ling. lat., 7, 5, § 105
(AUSCHKE, Iurispr. antiiustin., pag. 6 ); « Nexum, est ut ait Aelius Gallus,
quodcumque per aes et libram geritur, idque necti dicitur; quo in genere sunt
haec: testamenti factio, nexi datio, nexi liberatio » (Hoschke, Op. cit., pag.
96 ). Accanto a questa significazione larghissima, in cui il vocabolo di nexum
comprende ancora « omne quod geritur per aes et libram », sonvi poi altri
passi, che già attribuiscono al nexum una significazione più circoscritta.
Così, ad esempio: « Nexum, Mucius scribit, quae per aes et libram fiunt, ut
obligentur, praeter quae mancipio dentur », la quale opinione sarebbe prevalsa
secondo VARRONE, De ling. lat., VII, 105, il quale aggiunge: « hoc verius esse
ipsum verbum ostendit,de quo quaerit, nam id est quod obligatur per libram,
neque suum fit, inde nexum dictum » (Bruns, Fontes, pag. 386). Quest'ultima
definizione sarebbe pur confermata da Festo, vº Nexum: « Nexum aes apud
antiquos dicebatur pecunia, quae per nexum obligatur » (Bruns, Fontes, pag.
346). Sonvi poi eziandio dei passi, in cui la mancipatio sarebbe indi cata
perfino colla espressione di traditio alteri nexu, quale sarebbe il seguente di
Cic., Top., 5, 28: « Abalienatio est eius rei, quae mancipii est, aut traditio
alteri nexu, aut in iure cessio ». Per altri passi vedi il Voigt, XII Tafeln,
I, pag. 197, nota 7, e II, 482 e segg. (1) La successione legittima non prende
le mosse dal commercium, ma dal con nubium, come sarà dimostrato nel seguente
cap. V, $ 5. - 473 continuare la personalità giuridica del proprio autore, e
viene perciò ad essere obbligato alla continuazione dei sacra. Di qui la
conseguenza, che, per ricostruire in questa parte il ius quiritium, vuolsi
ricomporre anzitutto il primitivo atto per aes et libram, cercare l'epoca in
cui esso penetrò nel ius quiritium, e se guire da ultimo le progressive
applicazioni, che se ne vennero facendo. 370. Più volte ebbe ad essere notato,
che nel diritto romano oc corrono le traccie di un processo, che ha del
matematico, e che taluni vollero attribuire alla influenza di Pitagora, la cui
filosofia, teorica e pratica ad un tempo, poggiava appunto sul numero, come
espres sione dell'ordine e dell'armonia (1). Senza entrare in una simile di
scussione, questo è certo, che non si può a meno di ravvisare questo carattere
di matematica precisione ed esattezza in quel negozio, es senzialmente proprio
dei quiriti, che compare sotto la forma del l'atto per aes et libram; poichè in
esso noi vediamo comparire la persona di un pubblico pesatore, che tiene la
bilancia quasi per de terminare ciò che altri då, e ciò che deve essere
ricevuto in con traccambio. Può darsi benissimo, che quest'atto per aes et
libram abbia avuto origine dalla necessità, in cui i contraenti erano di pesare
l'aes rude, allorchè non erasi ancora introdotto l'aes signa tum: ma intanto si
stenta a credere, che i veteres iuris conditores, allorchè introdussero come
tipico quest'atto nel ius quiritium, e ne prolungarono la vita ben oltre
l'epoca, in cui era veramente neces saria la bilancia, non abbiano ravvisato
nel medesimo come una espressione ed un simbolo della esattezza e della
precisione, che deveaccompagnare il negozio giuridico, e della uguaglianza, che
deve mantenersi fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si
riceve in contraccambio. Questo è certo, che difficilmente sareb besi potuto
rinvenire un atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia, che
Aristotele chiamò poi commutativa, e che era quella appunto, che doveva
sovraintendere a quegli scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo di
commercium (2 ). Ad ogni modo l'esistenza presso i Romani di un atto quiritario
« quod geritur per aes et libram » da applicarsi in tutti gli scambii, in tutti
i trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero interve (1) V. ZELLER, La
philosophie des Grecs, trad. Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto la
nota 8, pag. 401. (2 ) Cfr. Carle, La vita del diritto, pag. 132. - 474 nire
fra i quiriti, tanto negli atti tra vivi, quanto eziandio negli atti per causa
di morte, non pud essere posta in dubbio (1). Vero è, che il medesimo non ci
pervenne nelle sue fattezze genuine, ma soltanto nelle applicazioni diverse,
che se ne fecero; ma il fatto stesso che l'atto per aes et libram compare nelle
obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti dimostra, che esso in certo
modo fra i quiriti compieva quella funzione, che presso di noi ha compiuto,
sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi l'atto pubblico ed autentico, il
quale, al pari dell'antico atto per aes et libram, con tinua in certi confini
ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia del titolo esecutivo, salvo che
esso sia impugnato di falso (2). Dal momento, che erasi venuto formando per la
comunanza dei quiriti una forma particolare di diritto, che prese il nome di
ius quiritium, era naturale che si modellasse eziandio un atto tipico, che
potesse ser vire nei negozii essenzialmente quiritarii. Esso doveva essere pub
blico, come tutti gli atti, che si compievano fra i quiriti; doveva es sere
fatto colla testimonianza dei quiriti stessi, in quanto che poteva mutare in
qualche modo la posizione rispettiva degli uni verso degli altri nella
comunanza quiritaria, donde l'intervento nel medesimo dei classici testes,
corrispondano o non i medesimi alle cinque classi serviane; doveva esser fatto
coll'intervento di un pubblico ufficiale, che era il libripens, il quale poteva
anche essere inca ricato di denunziare agli uffizii del censo le mutazioni, che
ne derivavano alla condizione dei quiriti; alle quali solennità negli antichi
tempi aggiungevasi eziandio la presenza di un antestator, incaricato in certo
modo di richiamare l'attenzione delle parti e dei testimoni sulla importanza
dell'atto (3). Il medesimo poi, per quanto si può inferire dalle applicazioni (1)
Tra gli autori, che sembrano accostarsi all'idea, che l'atto per aes et libram
costituisca nell'antico diritto la forma solenne per tutti i negozi relativi al
com mercium, parmi di poter annoverare l'HÖLDER, Istituzioni di diritto romano,
$ 28, trad. Caporali. Torino, 1887, pag. 82. (2 ) Cod. civ. it., art. 1317. (3)
Questi varii caratteri del primitivo atto per aes et libram si possono facil
mente ricostruire, ricomponendo insieme la descrizione, che sopratutto Gajo ed
Ul PIANO ci serbarono, dei varii negozii, che compievansi per aes et libram,
quali la nexi datio, la nexi liberatio, la mancipatio, ed il testamentum per
aes et libram, dei quali avremo poi a discorrere partitamente. Quanto all'
antestator o antestatus vedi il Longo, La mancipatio, pag. 74 e segg. 475
diverse, che ne furono fatte, ebbe ad essere costituito di due parti, cioè: lº
dell'atto per aes et libram, il quale, mentre dava al negozio il carattere di
pubblicità e di autenticità, poteva eziandio essere un ricordo effettivo di
un'epoca, in cui l'aes rude serviva di istrumento per gli scambii e doveva
perciò essere pesato colla bilancia; 2º della nuncupatio, che era un complesso
di parole solenni, accomodate alla natura dell'atto, le quali esprimevano con
preci sione ed esattezza il negozio giuridico, che veniva operandosi fra i
contraenti. Mentre la prima parte era un ricordo del passato e conservavasi «
dicis gratia, propter veteris iuris imitationem »; la seconda parte invece
serviva a dargli duttilità e pieghevolezza, e a rendere possibili le
applicazioni diverse, che si fecero dell'atto per aes et libram, non solo ai
negozii giuridici propriamente detti, ma anche agli atti relativi
all'ordinamento della famiglia (1). 371. Quanto al tempo, in cui l'atto per aes
et libram può essere stato introdotto nel ius quiritium, esso non può e non
potrà forse mai essere determinato con certezza, anche per il motivo che il
medesimo può essere stato il frutto di una formazione lenta e gra duata. Egli è
probabile tuttavia, che l'epoca, in cui esso cominciò a formarsi, dovette
essere quella stessa, in cui prese ad elaborarsi un ius quiritium, comune al
patriziato ed alla plebe, e quindi le sue origini possono con probabilità
essere riportate all'epoca della costi tuzione serviana. Fu allora, che
mediante l'istituzione del censo co minciò a delinearsi una proprietà ex iure
quiritium, la quale con sisteva nel mancipium; quindi è probabile, che anche
allora siasi sentito il bisogno di una forma tipica per compiere i negozii
quiri tarii. Questo è certo, che alcuni tratti dell'atto per aes et libram
richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad esempio, noi sappiamo, che probabilmente
in quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione nel sistema monetario,
poichè presso i primitivi romani il più an tico strumento di scambio non
consistette nel rame, ma nei capi di (1) L'esistenza di questo duplice elemento
nel primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla disposizione delle
XII Tavole: « qui nexum faciet, mancipium que, uti lingua nuncupassit, ita ius
esto », e appare poi dall'analisi di tutti i ne gozii, che si compiono per aes
et libram, descrittici sopratutto da Gajo, Comm., II, 104-5 e da Ulp., Fragm.,
XX, 9. - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e nei buoi, come lo dimostra
la designazione delle multe, che anche più tardi si continuò a fare in questa
guisa. Che se per avventura si volesse ritenere, come fino a un certo punto è
probabile, che l'atto per aes et libram fosse stato anche adottato per
simboleggiare lo scambio, il trapasso, anche questo linguaggio simbolico
corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che ricorre ai simboli
dell'hasta, della vindicta, e simili. Cosi pure noi sappiamo, chei testimonii
dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed è anzi probabile, che
fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra la denominazione di
classici testes: la quale, sebbene sia solo menzionata per i testimonii nel
testamento, può ra gionevolmente essere estesa alle altre applicazioni
dell'atto per aes et libram (1). Infine anche l'intervento di un pubblico
ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla necessità, in cui
si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella posizione ri
spettiva dei quiriti. Comunque sia, è però sempre probabile, che anche nella
formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es sere adoperato
dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già preesistente,
attribuendovi il carattere quiritario, e cambiandola cosi in una forma tipica,
che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla ripugna pertanto,
che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà nell'epoca, in cui
l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece essere pesato; ma questo
è certo, che quando quest'atto compare nel ius quiritium, esso viene già (1)
Festo, vº « Classici testes dicebantur, qui signandis testamentis adhibebantur
». La questione se questi classici testes dovessero ritenersi come
rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi non potevano essere meno
di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La mancipatio, pag. 83 e segg., il
quale sosterrebbe che i clas sici testes non hanno che fare colla
rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di dire, che i testimoni
non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque classi serviane, ciò può
facilmente essere consentito, poichè, secondo la testimonianza di GaJo, Comm.,
II, 25, questi testi solevano essere amici dei contraenti e potevano perciò
essere presi anche dalla stessa classe: ma intanto non vi ha motivo per ne
gare, che essi fossero chiamati classici, appunto perchè dapprima dovevano
essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui e locupletes. Era infatti nello
spirito della costituzione serviana, che nell'atto per aes et libram, con cui
si attuavano le muta zioni di proprietà quiritaria, dovessero intervenire dei
testimonii tolti dalle classi al modo stesso, che ancora in base alle XII
Tavole era stabilito: « adsiduo adsiduus vindex esto ». Tale sembra pur essere
l'opinione del MUIRHEAD, Histor. introd., pag.59, il quale trova anzi non
improbabile, che i non minus quam quinque testes rappresentassero le cinque
classi. 477 ad essere cambiato in un atto tipico, che poteva essere suscettivo
di molteplici applicazioni. Si comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della
mancipatio, come di una imaginaria venditio, senza neppur far cenno di un'epoca,
in cui essa poteva costituire una vendita effettiva e reale (1 ). 372. Per
quello poi che si riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et
libram sarebbe stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto
quiritario, è opinione generalmente ammessa, che esso siasi prima applicato
alla mancipatio, poscia al nexum, e più tardi al testamentum per aes et libram
(2). Mentre non pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda
dell'atto per aes et li bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano
attestano, che questa forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior
mente a quella in calatis comitiis (3), ritengo invece, che sianvi dei forti
indizii per credere, che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum
debba essere considerata come la più antica. Un argomento di ciò l'abbiamo
anzitutto nel fatto, che nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi
prima contro la persona del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è
solo assai tardi e sotto l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite
nere vincolati i beni, anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il
facere mancipium suppone già un'epoca, in cui anche la plebe era pervenuta alla
proprietà, mentre il facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la
plebe, nei suoi rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia
reale, non poteva ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A
ciò si ag giunge, che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà
relativamente al nexum, poichè in un'epoca, in cui l'aes rude serviva come
strumento di scambio, era una necessità il pesare la somma, che era data ad
imprestito; mentre invece l'applicazione (1) Egli è evidente che i
giureconsulti considerarono sempre l'atto per aes et libram come una forma
riconosciuta dalla legge (secundum legem publicam ) per compiere i negozii di
carattere quiritario; di qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di
imaginaria mancipatio, e la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di
applicarle a negozii, che più non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad
esempio, il matrimonio per coemptionem. (2) Tale sembra, ad esempio, essere
l'opinione del Voigt, XII Tafeln; del MUIRHEAD, Op. cit., pag. (3 ) GAJO, Comm.,
II, 102; ULP., Fragm., XX, 2. 58 e segg. 478 dell'atto per aes et libram, non
solo per eseguire il pagamento del prezzo, ma anche per operare il
trasferimento della proprietà di una cosa, è già ad evidenza un espediente
giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di « imaginaria venditio ». Si
comprende pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il
facere mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo nome «
omne quod geritur per aes et libram », mentre non consta che essi facciano mai
rientrare il nexum nel concetto del facere mancipium (1). Infine si può anche
aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un ius nexi mancipiique, e che le
stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel famoso testo: « cum nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto »: argomento questo,
chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto, quando si
consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani,
sopratutto nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo,
facendo di solito precedere il concetto, che prima erasi formato a quello, la
cui formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per
prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica, dal fatto
cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad
essere abolita, il che accadde per mezzo della lex Paetelia, nel 428 dalla
fondazione di Roma; donde la conseguenza, che il nexum cadde pressochè in
dimenticanza, mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per
eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che
presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario;
perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il
mancipium, e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio;
cosicchè tutto ciò, che compievasi per aes et libram, necti dicebatur, e quindi
nel nexum veniva ad essere compreso « omne quod geritur per aes et libram ». La
distinzione invece fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto Muzio
Scevola, il quale dice bensi che il nexum è ancor sempre « quod per aes et
libram fit », ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì in
quello di obbli garla soltanto; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad
essere seguita, e fu allora che si chiamò nexum, « quod obligatur per libram,
neque suum fit». Si pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe
dapprimauna significazione più larga, per cui tutto (1) V. in proposito i passi
di antichi giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota 1. -- 479 ciò che
compievasi « per aes et libram, necti dicebatur », mentre più tardi fini per
significare l'obbligazione assunta per aes et libram; trasformazioni di
significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i
vocaboli di imperium, di manus e di mancipium, i quali tutti, mentre hanno una
significazione più larga, finiscono per assumere un significato specifico più
circoscritto. A queste considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge
un'altra, per me più importante di tutte, ed è che nella formazione del diritto
quiritario, che poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il diritto,
quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come un nexum,
ossia, come un vincolo, che intercede fra due quiriti. Ciò è dimostrato dal
fatto, che la procedura primitiva è azione di una persona contro di un'altra, e
che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la persona del debitore, e
si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo (1 ). Quest'indagine
intanto è per noi importante anche nel senso, che ci induce a discorrere prima
del nexum, poscia della mancipatio, e da ultimo del testamentum per aes et
libram. $ 2. Il nexum e la storia primitiva della obbligazione quiritaria. 373.
L'origine diquell'obbligazione quiritaria di strettissimo diritto, che
contraevasi mediante il nexum, deve essere cercata in quel (1) Non parmi
pertanto, che possa essere accettata la teoria ingegnosa, ma non fondata sui
fatti, del SumnER-MAINE, L'ancien droit, p. 305 e seg., secondo la quale il
nexum avrebbe prima significato il trasferimento della proprietà, e sarebbe
poscia venuto a significare l'obbligazione del venditore, che non avesse pagato
il prezzo. Cid è assolutamente contrario al concetto romano, secondo cui la
consegna della cosa e il pagamento del prezzo seguivano contemporaneamente
nella mancipatio. Si può anzi dire che il processo seguito dal diritto romano
fu compiutamente inverso. Il primo rapporto, che potè esservi fra il patriziato
e la plebe, fu quello del nexum, ossia quella rigida obbligazione, per cui il
mancato pagamento dava luogo alla manus iniectio contro la persona; mentre solo
più tardi l'atto per aes et libram potè servire per il trasferimento della
proprietà. Queste considerazioni mi impedi scono eziandio di aderire allo
svolgimento storico, che sarebbe proposto dal CoglioLO nelle note al
PadELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 250, dove, premesso che il con cetto del
diritto reale dovette precedere quello del diritto personale, farebbe anche
precedere la formazione della mancipatio a quella del nexum. Cfr. Puglia,
Studii di storia del dir. priv., pag. 73 e segg. 480 l'epoca, in cui la plebe,
priva ancora di una vera posizione di diritto di fronte al patriziato, non
poteva trovar credito presso ilmedesimo che vincolando la propria persona. In
virtù del nexum il debitore plebeo, che non pagava a scadenza, poteva essere
sottoposto alla manus iniectio, ed essere tradotto nel carcere privato del
creditore patrizio (1). Coll'ammessione dei plebei alla comunanza quiritaria,
il nexum, questa obbligazione rozza è primitiva, che era surta nei rapporti fra
la classe superiore e la classe inferiore, venne ancor essa a con vertirsi
nella forma tipica della obbligazione quiritaria, ma dovette perciò
sottomettersi a tutte le solennità dell'atto quiritario. Essa quindi dovette
essere contratta colle formalità dell'atto per aes et libram, colla assistenza
cioè di non meno di cinque testes cives romani, e coll'intervento del libripens
e dell'antestator (2). La formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci
giunse invece, conservataci da Gaio, quella della nexi liberatio, la quale,
essendone naturalmente il contrapposto, pud servirci per determinare, se non la
formola precisa, almeno gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella
nezi datio, per usare una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo
(3 ). Da questa formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero
concorrere due parti, cioè: (1) Senza pretendere qui di citare la ricchissima
letteratura sul nexum, ricorderò soltanto l'Huschke, Ueber das nexum, Leipzig,
1846; GIRAUD, Des nexi, ou de la condition des débiteurs chez les Romains,
Paris 1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd., 152 a
163. Le opinioni degli autori tuttavia sugli effetti del nexum primitivo sono
ancora molto discordi. Secondo la dottrina più seguita, il nexum dava origine
ad un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non soddisfatta,
autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il Voigt
sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun effetto
speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note al
PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 329. Per mio conto seguo la prima
opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum, che ho cercato di
spiegare più sopra ai nu meri 166-67, pag. 206 a 208, e sulla considerazione,
che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere
l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse prodotto
i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della stipulatio. (2 )
Questa necessità dell'atto per aes et libram, per contrarre il nexum, probabil
mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da Dionisio è
attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op. cit., pag. 67. (3 ) La formola
della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm., III, 174, sa rebbe la
seguente: « Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum, me eo nomine a te «
solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam postremamque
481 1° l'atto per aes et libram, non minus quam quinque testes, cives romani,
il libripens e forse eziandio l'antestator; 2° e la nuncu patio, che non si sa
bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi i contraenti.
Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una pronunziata dal
nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una specie di
damnatio. Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro rispondeva damnas
sum, il che implicava una specie di condanna, che il debitore pronunziava
contro se stesso, al pagamento della somma (1 ). Di qui la conseguenza, che se
il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di lui, come se il medesimo
fosse damnatus al paga mento, e perciò poteva essere soggetto alla manus
iniectio, senza che fosse richiesta una speciale condanna del magistrato. I
dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum, sono quelli re lativi alla
natura dell'obbligazione contratta col nexum, ed agli effetti, che derivavano
da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia appariscono ancora nella
legislazione decemvirale. 374. Per quello che riguarda la natura della
obbligazione con tratta col nexum, alcuni antichi scrittori, non giuristi,
descrivendo la trista condizione dei debitori, tradotti nel carcere privato del
loro & expendo secundum legem publicam ». Essa è per noi molto preziosa: 1°
perchè ci dice anzitutto, che il nexum per aes et libram importava una damnatio
per parte del debitore, il che fa credere che rendesse contro di lui
applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio ci dice appunto essere
ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè essa è un argomento
per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes etlibram dovevano essere
risolte con un atto della medesima natura; 3. perchè infine ci attesta, che
l'atto per aes et libram era una forma di liberatio secundum legem publicam, e
come tale non si applicava soltanto nei casi di obbligazioni con tratte col
nexum, ma anche quando trattavasi del pagamento di una somma ex causa iudicati,
o del pagamento di un legato per damnationem. Ciò conferma sempre più la
congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram era in certo modo la
forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue molteplici applicazioni,
allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium. (1) La nuncupatio del nexum
secondo il Voigt, XII Tafeln, pag. 483, si com porrebbe bensì di due parti; ma
egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e spressione damnas esto e
damnas sum, in conformità appunto della sua teoria, se condo cui il nexum non
avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere spe ciale. Parmi che
quest'ultima parte della sua ricostruzione non possa accettarsi; poichè, così
essendo, la formola della nesi datio non corrisponderebbe a quella della nexi
liberatio, conservataci da Gaio, la quale è certo ciò, che noi abbiamo di più
testuale in proposito. G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 31 482
creditore, ebbero a dire, che essi, dopo essere stati spogliati dei beni,
avevano poi dovuto rinunziare alla propria libertà (1). Ciò fece ri tenere
talvolta, che il nexum attribuisse il diritto di procedere non solo contro la
persona, ma anche contro i beni del debitore. Questo concetto sembra ripugnare
a quel carattere del primitivo ius qui ritium, secondo cui il medesimo,
allorchè giungeva a separare due istituti, quali sarebbero quelli del nexum e
del mancipium, lasciava poi che ciascuno procedesse per la propria via,
informato ad una propria logica, senza che l'uno più non si confondesse
coll'altro. Ora pur riconoscendo che il vocabolo di nexum, nella sua
significazione primitiva, designasse in genere il vincolo giuridico, che
intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche estendersi ai beni
del debitore, questo è certo che non dovette più essere cosi, allorchè si operò
la distinzione fra il nexum ed il mancipium, e i due con cetti cominciarono ad
avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi sappiamo, che questa distinzione
del nexum dal mancipium già erasi operata anteriormente all'epoca decemvirale,
e che da quel momento il quirite come tale ebbe due mezzi per provvedere alle
proprie necessità; quello cioè di alienare il proprio mancipium, o quello di
vincolarsi col nexum. Con quello egli poteva trasferire i beni e con questo
vincolare la sua persona; ma gli effetti dell'uno non potevano più confondersi
coll'altro. Fu in seguito a questa di stinzione, che anche più tardi la
giurisprudenza romana ebbe a ri tenere, che le obbligazioni ed i contratti, che
derivarono dal nexum, non possono mai riuscire al trasferimento della proprietà,
il quale con tinuò sempre ad operarsi per mezzo della usucapione e della tradi
zione, che erano sottentrate all'anticamancipatio. Parmi pertanto in questa
parte di dovere seguire l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder,
secondo cui il nexum costituisce in certo modo il con trapposto della
mancipatio nel senso, che quello è la sottomissione della persona del debitore
alla potestà del creditore per il caso di non seguito pagamento, mentre la
mancipatio costituisce invece (1) Così, ad esempio Livio, II, 23, attribuisce
queste parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe
per causa della legge sui debiti: e se « aes alienum fecisse; id cumulatum
usuris primo se agro paterno avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis;
postremo, velut tabes, pervenisse ad corpus ». È tuttavia evidente, che quinon
si dice punto, che il creditore, in base al nexum, potesse pro cedere sai beni
del debitore, ma solo che quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo
patrimonio avito, e poi anche vincolare la sua persona al proprio creditore.
483 il trasferimento di una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione,
che fu seguita recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono, che la
primitiva obbligazione quiritaria, la cui forma tipica fu il nexum, costituisse
dapprima un legame del tutto personale e fosse perfino intrasmessibile da una
persona ad un'altra (1). Ho insistito sopra questo carattere esclusivamente
personale del nexum primitivo; perchè il medesimo, se nori a giustificare, può
condurci in qualche modo a spiegare le conseguenze estreme, a cui nel diritto
primitivo di Roma potè giungere il diritto del creditore contro il proprio
debitore. Parmi tuttavia, che sarà più opportuno discorrere di tali conseguenze,
allorchè si tratterà della manus iniectio, ossia della procedura di esecuzione
contro il debitore; poichè l'inumanità di questa primitiva procedura non
spiegasi soltanto contro i nexi, ma anche contro i iudicati ed i damnati (2 ).
375. È certo ad ogni modo, che il nexum, fra le istituzioni qui ritarie, era
quella, che ripugnava maggiormente a quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto
esistere fra i membri di una stessa comunanza. Esso portava ancora le traccie
della soggezione, pressochè servile, a cui un tempo era ridotta la plebe;
poichè anche nel periodo sto rico sono sempre i plebei, che appariscono
sottoposti al rigore del nexum, mentre il patrizio, anche oberato di debiti,
poteva trovar sussidio presso la propria gente. Ne derivò che, durante le lotte
fra i due ordini, il nexum si cambið talora in un'arma del patri ziato per
assicurare la sua superiorità sopra la plebe, e fu in tal modo che una
istituzione di diritto privato si cambiò in un fomite di dissensioni civili. La
questione della condizione dei debitori sembra già rimontare all'epoca di
Sergio Tullio, il quale, se non pagd del proprio i creditori, come vorrebbe la
tradizione, certo impose la solennità dell'atto per aes et libram per potersi
obligare col nexum. Sotto la Repubblica poi, è a causa della legge sui debiti,
che i plebei si rifiutano prima alla leva, poi abbandonano la città e si
ritirano (1) HÖLDER, Istituz., trad. Caporali, pag. 225 e segg. Cfr. eziandio
l' Esmein, L'intrasmissibilité première des créances et des dettes, nella « Nouvelle
Revue histo rique », 1887, pag. 48, nel quale scritto egli cerca di corroborare
la stessa tesi già enunciata dal CuQ, Recherches historiques sur le testament
per aes et libram pubblicato nella stessa « Nouvelle Revue », 1886, pag. 536.
(2) La questione qui accennata del trattamento contro i debitori sarà trattata
nel capitolo VI, § 3º, parlando della procedura esecutiva, mediante la manus
iniectio. 484 sul monte Sacro, da cui non ritornano, che dopo aver ottenuto la
istituzione del tribunato della plebe. Anche la stessa legislazione decemvirale
porta le traccie di questa contesa; come lo dimostrano le disposizioni minute,
a cui essa discende nella parte, che si rife risce al trattamento del debitore,
ridotto in potestà del creditore. Malgrado di ciò, le dissensioni continuano
fino alla legge Petelia del 428 di Roma, la quale non abolisce il nexum, e
neppure dà diritto al creditore di procedere contro i beni del debitore,
anzichè contro la sua persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il
diritto di poter procedere immediatamente alla manus iniectio contro il
debitore, senza che neppure occorresse l'intervento del magistrato (). Continuò
quindi ancora a sussistere l'atto per aes et libram, qual mezzo di
sottomettersi al nexum, come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio,
che è ancora ricordata da Gaio; ma intanto il nexum, sprovvisto di quegli
effetti immediati contro la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di
questo ingens vinculum fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad
essere sosti tuito da altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel costume,
ma non erano ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius
quiritium. 376. Accade qui, in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga
a quella, che abbiamo veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al
concetto del mancipium. Al modo stesso che (1) Le espressioni di Livio, VIII,
28, sono le seguenti: « iussique consules ferre ad « populum, ne quis, nisi qui
noxam meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur;
poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium « esset. Ita nexi
soluti, cautumque in posterum, ne necterentur ». Di qui alcuni autori avrebbero
argomentato, che da quel momento fosse stata abolita la procedura contro la
persona dei debitori, e introdotta invece quella contro i beni. Cid sarebbe
smentito espressamente dalla storia giuridica di Roma, dove la vera procedura
fu sempre contro la persona, mentre quella contro i beni fu solo introdotta dal
pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa cessio bonorum, introdotta dalla
legge Giulia, fu ancora considerata come un beneficio fatto al debitore. Le
parole quindi di Livio debbono essere intese nel senso, che d'allora in poi il
nexum non bastò più per sè ad autorizzare il creditore a tradurre il debitore
nel suo carcere privato, e che in tal modo l'obbligazione, contratta con questo
mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di autorizzare senz'altro la manus
iniectio; ma produsse solo gli effetti, che sareb bero derivati da un
'obbligazione assunta mediante la semplice stipulatio. Questa fu probabilmente
la causa, per cui il nexum andò gradatamente in disuso, e sottentra rono al
medesimo la mutui datio e la stipulatio, come sarà dimostrato più sotto. 485 al
mancipium, quale unica forma della primitiva proprietà quiri taria, sottentrò
il concetto più largo del dominium ex iure qui ritium; così al nexum, forma
primitiva dell'obbligazione quiritaria, sottentrò il concetto più esteso
dell'obligatio propria civium roma norum, al vincolo materiale, che stringeva
il debitore al creditore sottentrò il vincolo giuridico (vinculum iuris); ma
intanto i voca boli di obligatio, di solutio, di liberatio e simili rimasero
ancor sempre a ricordare la rozzezza dell'antico concetto, che scorgeva nell'
obbligazione un vincolo pressochè materiale, e nel pagamento ravvisava lo
scioglimento di questo vincolo (solutio ). Così pure al modo stesso, che col
sostituirsi al mancipium un concetto più largo del dominium ex iure quiritium,
si vennero accogliendo nuovi modi di acquistare e trasmettere questo dominio;
cosi, allorchè al concetto del nexum sottentrò quello dell'obligatio, si
vennero accogliendo nel ius proprium civium romanorum nuovi modi di obbligarsi.
Il nexum, mentre costituiva ed esprimeva efficacemente un vincolo materiale e
giuridico ad un tempo, aveva eziandio questo carattere speciale, che esso
teneva in certo modo del reale e del verbale, in quanto che componevasidi
dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram, mediante cui avveravasi il
trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna immediata della cosa (tuum de
meo fit ): e della nuncupatio, mediante cui fra creditore e debitore si
conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due parti, collo scomporsi del
nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di movimento, e si operò la
distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e quella che con trahitur
verbis, a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio l'obligatio quae
contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi potente
del nexum, che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure quiritium,
sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius proprium
civium romanorum, quali sono la mutui datio, la sponsio o stipulatio, e la
acceptilatio: ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii
contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano,
sotto il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente
anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio. Questa infatti continua a
produrre un'obligatio stricti iuris; si ap plica dapprima alla credita pecunia,
e poi si estende a tutte le cose quae numero, pondere ac mensura constant: e la
sua effi 486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae, oppure con
segna della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu il
modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato,
del deposito, del pegno (1). Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un più
largo sviluppo collo scomparire del nexum, è sopratutto la sponsio o stipulatio.
Questa, sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio, che già
preesisteva nel nexum, salvo che essa, liberata di quella forma rigida della
damnatio, che era propria del nexum, venne a trasfor marsi in una semplice
sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo
di una interrogazione e di una risposta, congrue e solenni, le quali, per la
propria elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere
la varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino
romano. Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto
nello svol gimento di essa, che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti
romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio l'attendere a
concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula zione nei
varii negozii giuridici (2 ). Anche la stipulatio divenne (1) Per ciò che si
riferisce alla mutui datio, è nota la censura, che di regola suol farsi alla
etimologia di mutuum data dai giureconsulti, secondo cui questo vocabolo
deriverebbe da « quod de meo tuum fit ». Per conto mio, non come etimologo, ma
come giurista, ritengo invece assai probabile questa etimologia, tenuto conto
di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum
e di tuum, e che l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un
oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano
tanto più probabili, quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi
tempi fu il frutto di una vera elaborazione, la quale può benissimo avere
adattata la parola al concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi
delle etimologie di testamentum da mentis testatio, di manci pium da manucaptum,
e di altre analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per essere
composte post factum, sono evidentemente foggiate per far dire alla parola cid,
che è nella mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli analizza il
significato della parola. Intanto il fatto stesso, che i giureconsulti cercano
sempre di dare alla parola un senso, che corrisponda alla cosa significata,
dimostra, che essi dovevano procedere in tal guisa, allorchè il comparire di
qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare qualche nuovo vocabolo. In cid
abbiamo anche una delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico di Roma potè
diventare pressochè universale, come le sue leggi. (2 ) Sono molte le opinioni
intorno all'origine della sponsio o stipulatio nel di ritto romano. Alcuni la
ritengono come la parte verbale del nexum, allorchè andò in disuso l'atto per
aes et libram nel contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal vocabolo
sponsio, la ritengono come una specie di promessa giurata, che facevasi davanti
all'antichissima ara di Ercole; altri infine la ritengono di origine greca,
donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe, ad es.,
l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi; ma il suo carattere non è più
artificioso, come quello dell'atto per aes et libram, nè così rigido come
quello della damnatio, propria del nexum, ma sembra essere desunto dalla natura
stessa delle cose. La parola infatti è riguardata come il vero mezzo di
obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso, viene colla
stipulatio ad essere conchiuso, in guisa da escludere qualsiasi dubbiezza sulla
volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un beneficio a suo
favore, di interrogare il promettente: « centum dare spondes? », e tocca a
colui che promette di rispondergli congruamente: « spondeo » per modo che non
possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà (1 ). Viene poscia
nel costume una dextrarum iunctio, poichè, fra le genti primitive, la destra è
l'emblema della fede, in base a cui si conclude il negozio. Forse in antico
potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento, come lo indicherebbe la
significazione in parte religiosa, del vocabolo di sponsio; ma questa, quando è
accolta nel diritto civile romano, sembra già aver perduto questo carattere
primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica di obbligazione, ma essa
non è più quella del nexum, propria del ius quiritium, e modellata
probabilmente dal ius pontificium, nell'intento di serbare le tradizioni del
passato; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum, come lo dimostra
il fatto, che anche quando i romani consentirono la stipulatio ai peregrini,
riservarono sempre per sè la espressione primitiva: « spondes? spon deo », la
quale sembra ancora richiamare quel carattere religioso, che doveva
accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio. Questo è certo ad ogni
modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist, Graeco-ital.
Rechtsgeschichte, pag. 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op. cit., pag.
228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi stere un
modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello rappresentato dalla
stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di correlativo, anche fra i popoli
germanici (SCHUPPER, L'allodio, pag. 47); ma non posso in verità persuadermi,
che i Romani dovessero apprenderlo dalla Grecia, dal momento, che senz'alcun
dubbio già lo conoscevano nei rapporti fra le varie genti. Essa quindi deve
essere ritenuta come una di quelle istituzioni, che vivevano nelle costumanze,
e che solo più tardi riuscirono ad entrare nella cerchia rigida del ius
quiritium, il che probabilmente dovette accadere, quando cominciò ad andare in
disuso il nexum. (1) Questo carattere speciale della stipulatio, per cui essa
costituisce il modo più semplice ed acconcio per conchiudere le trattative di
un negozio, in quanto che l'in terrogante viene ad essere colui che stipula, e
il rispondente colui che promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE,
L'ancien droit, pag. 311. 488 contrastati sul nexum. Essa è duttile, pieghevole,
come la parola umana, e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso; è un materiale,
che si adatta ad ogni specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico
per conchiudere qualsiasi trattativa; può servire per un'obbligazione
principale ed anche per un'obbligazione accessoria; sebbene unilaterale per
propria natura, si può, raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una
convenzione bilaterale. Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio
è sopratutto atta ad esprimere i negozii stricti iuris. Ma essa, coll'aggiunta
di una clau sola semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi
ai negozii di buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i
giureconsulti romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei
contratti, in cui la giurisprudenza romana spiego una duttilità e
pieghevolezza, tanto più mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai
dall'esattezza e dalla precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più
tardi, che vennero ad essere accolti nella compagine del diritto civile di
Roma, quegli altri modi di obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti
letterali. Anche a questo riguardo non può esservi dubbio, che il diritto
civile di Roma non creò di pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per
dir cosi, di accogliere sotto la sua tutela e di modellare, in base alla
propria logica giuridica, le istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel
costume. Così dovette accadere senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale,
ancorchè entrata tardi nel diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la
figura del primitivo capo di famiglia, il quale dir: gendo una vasta azienda e
avendo sotto la sua dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il
conto quotidiano del dare e dell'avere. Ciò che egli scrive nel proprio libro
doveva certo far fede dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero, che
era il più ovvio nelle consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe
ricoli nel diritto, come quello, che fondavasi esclusivamente sulla buona fede.
Fu questo il motivo, per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma,
il quale cerco poi di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al
nomen transcripticium una ricognizione scritta del debito, che doveva restare a
mani del cre ditore (cautio, chirographum ); al qual proposito viene ad essere
probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi
imparentata con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di
origine probabilmente g: eca, donde la cautio chirographaria, che pervenne fino
a noi (1 ). 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta es
sere indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi ad
entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava a
comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo,
sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius
honorarium, sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica
all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si
perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche
l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto, poichè la legislazione
decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta, doveva essere
accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi
stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per
trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata
dalla mancipatio o dalla traditio. Di qui ne venne, che essa, come contratto
stante per sè, comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale non
ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il
dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere,
praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè
della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati
sul modello della compra e vendita (2 ). 380. Intanto si comprende, che la
giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le
mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria, che era quella assunta col
nexum, allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo, abbia cominciato
a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera obligationum, quae
ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di fronte ad una
suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai contratti fu
costretta a creare la figura dei quasi- con (1) Cfr. per ciò che si riferisce
all'expensilatio ed all'abitudine del capo di fami glia romano di tenere il
Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto romano, cap.
XXI, pag. 249 e segg. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER, nella «
Enciclopedia giuridica italiana », vol. I, pag. 175 a 180, vº acceptilatio. (2)
Quanto alle origini di uno di questi contratti consensuali, cioè della
societas, vedi l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico » diretto dal
Serafini, anno 1887. 490 tratti; accanto ai contratti nominati dovette porre
quelli non no minati; accanto ai veri e proprii contratti, i patti, che non pro
ducono azione, ma una semplice eccezione; e da ultimo accanto ai contratti, che
avevano avuto origine nel diritto civile, quelli che avevano avuto origine nel
diritto delle genti. Anche qui pertanto è facile lo scorgere come, prima nel
ius quiritium e poscia nel ius civile, presentisi costantemente una parte già
formata e consoli data, e un'altra, che si viene foggiando e consolidando sựl
modello somministrato dalle formazioni anteriori, senza che mai si abbandoni il
concetto fondamentale della primitiva obbligazione, da cui il ius quiritium
aveva preso le mosse. Ciò tanto è vero, che, anche nel conchiudersi dello
svolgimento storico del diritto delle obbligazioni, si riscontra ancora quel
con cetto, a cui si informava l'istituzione primitiva del nexum, con cetto, che
viene ad essere enunziato da Paolo con dire « obligationum « substantia non in
eo consistit, ut aliquod corpus, nostrum, aut « servitutem, nostram faciat, sed
ut alium nobis obstringat ad « dandum aliquid, vel faciendum, vel praestandum »
(1). Si viene cosi a mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni
e quella del trasferimento della proprietà, non meno radicale e pro fonda, di
quella, che negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere
nexum e quello del facere mancipium. È questo il motivo, per cui la genesi dei
modi, coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la
proprietà e i diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro
istituto del diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio. $ 3. –
La mancipatio e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire
ildominio quiritario. 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la
forma primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che
prese più tardi il nome di mancipatio, deve considerarsi come la forma
primordiale, che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della
proprietà ex iure quiritium (2). Tanto la nexi datio, (1) Paolo, Leg. 3, Dig.
(44, 7). (2) Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura. Tra i
recenti mi limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums Tradition,
Iena, 1865; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30, pag. 131 a 149; il Voigt, XIl
Tafeln, II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere considerate come
due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per aes
et libram, come lo dimostra il fatto, che i più antichi giureconsulti
comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che si compiono per
aes et libram (1). Esse vengono soltanto a differire fra di loro nella
nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano accompagnare l'atto
per aes et libram, e che potevano attribuire al medesimo una significazione
diversa. Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere in una specie di
condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma da lui tolta in
imprestito; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe ad esserci
conservata da Gaio, consiste nella affermazione solenne del mancipio accipiens,
che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium, per averla egli acquistata con
tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc ego hominem ex iure
quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra ). Gaio
poi non ci dice, se a questa affermazione solenne del mancipio ac cipiens
corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma ad ogni modo egli è
certo, che questi, essendo presente all'atto, e ricevendo quell'aes rude, con
cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo, riconosceva con cið la
verità dell'affermazione dell'acqui rente (2). È poi anche degno di nota nella
mancipatio, che sebbene a 88; il Longo, La mancipatio, Firenze, 1887. Sembra
essere opinione comune a questi autori, che nell'antico linguaggio in luogo di
mancipatio si dicesse mancipium; donde la conseguenza, che la espressione
facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo di facere mancipationem. Noi
abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium ebbe, fra le altre
significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri. monio del quirite;
quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo. Quindi per noi le
antiche espressioni di facere mancipium, mancipio dare, mancipio acci pere
dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium, o il
trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di
mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni
costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto. Di
qui la conseguenza, che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da
manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr.
BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, pag. 90 e 91. (1) « Nexum
Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram, in quo sine mancipia ».
VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel § 1° di questo
capitolo, nº 369, pag. 471, nota 1. (2 ) Gaio descrive la mancipatio e le
formalità, da cui era accompagnata, nei Comm., I, SS 119 a 123. 492 la medesima
in effetto servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria, aveva perd
eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo dimostra il
fatto, che era l'acquirente, il quale doveva per il primo affermare la sua
proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la cosa stessa; donde anche la
conseguenza, che la mancipatio richiedeva la presenza delle cose mobili, e per
gli immobili era stata la sola necessità, che aveva condotto all'uso, accen
nato da Gaio, secondo cui « immobilia in absentia solent manci. pari » (1).
382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe dapprima ad essere indicata
coll'espressione di facere mancipium, costituisce un forte indizio, che la
mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in quell'epoca stessa, in cui
si formd il concetto del manci pium, e che essa sia stata introdotta quale
mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento del mancipium, in
quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della proprietà quiritaria,
quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere consegnata e valutata nel
censo. Fu l'importanza economica e politica, dal censo attribuita al mancipium,
che rese necessario un atto solenne per la trasmis sione delle res mancipii
contenute nel medesimo. Quindi l'origine della mancipatio deve rimontare
probabilmente alla costituzione serviana, e l'introduzione di essa avere una
stretta attinenza col concetto del mancipium; il che è comprovato dal fatto,
che anche i classici giureconsulti, memori dell'origine di essa, continuarono
sempre a considerare la mancipatio, come un modo di alienazione del tutto
proprio delle res mancipii, e sostennero perfino, che queste fossero cosi
chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio (2). (1) Gaio, Comm., I,
119. Sono da vedersi, quanto alla necessità di adprehendere manu la cosa
acquistata, se mobile, i passi citati dal Voigt, op. cit., II, pag. 133, nota
10. Intanto nella necessità di questa materiale apprensione della cosa parmidi
scorgere un'altra prova, che il concetto del primitivo mancipium implicava in
certo modo la detenzione materiale e la proprietà delle cose, che ne formavano
oggetto, al modo stesso che il nexum indicava ad un tempo il vincolo fisico e
il vincolo giuri dico, a cui era sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende
probabile l'etimologia di mancipium da manucaptum, come lo provano i passi
citati dallo stesso Voigt, op. e loc. cit., pag. 134, nota 12. (2 ) Cfr.,
quanto alle origini della mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., pag. Sono poi
Gaio, I, 120 e Ulpiano, Fragm., XIX, 3, i quali attestano che la manci patio
era esclusivamente propria delle res mancipii. « Mancipatio, scrive
quest'ultimo, propria species alienationis est rerum mancipü ». Ciò però non
impedì, che, trattan 57 e segg. 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto
alle cose, che costituivano il nucleo del mancipium, vi erano quelle, che non
erano comprese nel medesimo, e a cui perciò non potevasi applicare il facere
man cipium, così ne venne che accanto alla mancipatio dovette già essere in
vigore la semplice traditio, la quale, accompagnata dal pagamento del prezzo,
poté servire per il trasferimento delle cose, che non erano comprese nel
mancipium. Mentre quindi la man cipatio veniva ad essere una costruzione
giuridica, la cui forma zione fu determinata dal formarsi del mancipium, la
traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio per il trasferimento di quelle
cose, che erano nec mancipii, e che perciò in questo primo periodo non
formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium (1). 383. Questo stato di
cose venne poi a subire una modificazione profonda, sotto l'influenza della
legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che al concetto del
mancipium, il quale restringeva di troppo il novero delle cose, che potevano
essere oggetto di pro prietà quiritaria, cominciò già a sovrapporsi un concetto
più esteso del dominium ex iure quiritium. Da questo momento infatti le res
mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo più importante delle
cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria, ma questa già può
estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel primitivo mancipium. Di
qui ne derivo, che mentre le XII Tavole serbarono la mancipatio, quale mezzo
esclusivamente proprio per la trasmissione delle res mancipii, esse perd
introdus sero o confermarono due altri mezzi, per l'acquisto e la trasmis sione
del dominium ex iure quiritium, di cui uno è l'in iure cessio, la quale,
essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche dosi di cose, le quali si
ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano in fami glia, quali erano
ad esempio le pietre preziose, si potesse nella consuetudine appli carvi anche
la mancipatio. V. quanto si è detto a pag. 441, nota 1. (1) Ciò è dimostrato da
ULP., Fragm., XIX, 3, e 7; il quale, dopo aver premesso che la mancipatio era
propria delle res mancipii, soggiunge poi: « traditio aeque propria est
alienatio rerum nec mancipii »; nei quali passi è evidente, che la man cipatio
e la traditio si contrappongono fra di loro, come il mancipium ed il nec mancipium.
Quello cade sotto il diritto civile, e perciò deve essere alienato colle forme
del diritto civile, il che pure si accenna da Festo, tº censui, allorchè
scrive: « censui censendo agri proprie appellantur, qui et emi et venire iure
civili pos sunt » (Bruns, Fontes, pag. 334). Che il contrapposto fra mancipatio
e traditio sia stato poi la prima origine della distinzione fra i modi civili e
naturali di acqui stare e di trasmettere il dominio appare ad evidenza da Gaio,
Comm., II, 65. 494 essere estesa alle res mancipii, e l'altro è l'usus
auctoritas, più tardi denominata usucapio, mediante cui l'uso ed il possesso di
una cosa, durato per un certo tempo, potė attribuire la proprietà quiritaria
della medesima. Colla legislazione decemvirale pertanto vengono ad essere tre i
principali mezzi, con cui può essere acqui stata e trasmessa la proprietà
quiritaria, e che costituiscono perciò un diritto esclusivamente proprio dei
cittadini romani. 384. Di questi mezzi il più importante è sempre la mancipatio,
la quale è il vero modo ex iure quiritium per l'acquisto ed il tras ferimento
del dominio, ma la medesima, essendo nata col mancipium, continua sempre ad
essere un mezzo di alienazione proprio delle res mancipii. Vero è, che in
questi ultimi tempi si è dubitato, se la mancipatio non siasi più tardi
applicata anche a quelle res nec mancipii, che potevano essere oggetto di
proprietà quiritaria: ma questa opinione non sembra potersi accogliere, di
fronte alle afferma zioni precise di Gaio e di Ulpiano, i quali parlano sempre
della manci. patio, come propria delle res mancipii (1). Ciò tuttavia non
impedi, che colla legislazione decemvirale la mancipatio abbia acquistata una
elasticità e pieghevolezza, che prima non aveva, il che spiega come essa sia
durata così lungo tempo, quale mezzo di trasferimento della proprietà, ed abbia
in questa parte esercitata una influenza analoga a quella esercitata dalla
stipulatio in materia di obbligazioni. Sembra infatti, che il facere mancipium,
negli inizii, fosse uno di quei ne gozii di strettissimo diritto, che
producevano l'immediata traslazione della proprietà, e non ammettevano perciò
nè termine, nè condi zioni. Le XII Tavole invece introdussero il principio: «
qui manci pium faciet, uti lingua nuncupassit, ita ius esto », e diedero così
libertà ai contraenti di aggiungere al primitivo mancipium, sotto la forma di
una nuncupatio, che faceva parte integrante del negozio, tutte le clausole e
condizioni, che potessero convenire ai contraenti. Fu in questo modo, che
l'antica mancipatio potè accomodarsi alla varietà dei casi e delle esigenze, e
che si vennero così formolando, per opera degli stessi pontefici e
giureconsulti, quelle clausole diverse, che sogliono essere indicate col
vocabolo di leges mancipii. Colle medesime infatti il mancipio dans, pur
alienando la cosa, potè riservarsi l'usufrutto della medesima, potè alienarla
con patto di (1) GA10, I, 120, Ulp., Fragm., XIX, 3. Vedi tuttavia ciò che in
proposito si disse a pag. 441, nota 1. 495 - riscatto, poté restringere la
propria garanzia per l'evizione, ed anche limitare l'uso della cosa venduta per
parte dell'acquirente. Era pero naturale, che, per aggiungere alla mancipatio
tutte queste clausole, più non poteva bastare la semplice affermazione del man
cipio accipiens, che la cosa era sua ex iure quiritium; maoccor reva eziandio,
che il mancipio dans, con una congrua risposta, apponesse quelle clausole e
condizioni, che potessero essere del caso, le quali, entrando a far parte
integrante della stessa mancipatio, dovevano fra i contraenti avere la forza di
vere leggi (1). 385. Sopratutto, fra queste leges mancipii, viene ad essere
impor tantissima quella, che suol essere indicata col vocabolo di lex fidu ciae,
od anche semplicemente con quello di fiducia (2). Questa pro babilmente doveva
essere nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non possedendo le vere
forme giuridiche, doveva di necessità nelle proprie convenzioni lasciare una
larga parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia colla
legislazione decemvirale pe netrò nel ius quiritium, dove, combinandosi col
rigoroso atto della mancipatio, diede origine a quella singolare istituzione
della man cipatio cum fiducia, che doveva poi acquistare un così largo (1) Si
può veder raccolta nel Voigt, op. cit., II, $ 85, pag. 146 a 166, una varietà
grandissima di queste clausole o leges mancipii, raccolte da passi di antichi
autori. Nel Bruns parimenti, Fontes, pag. 251 a 256, sono riportati parecchi
moduli di mancipationes, che pervennero fino a noi. (2) Quanto alla mancipatio
cum fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86, pag. 166 a 187, ove sono raccolte le
formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di mancipatio
fiduciae causa, che si fa risalire al primo o secondo secolo dell' êra
cristiana, riportato dal Bruns, Fontes, pag. 251. (3) Le ragioni, per cui le
origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono già
esposte al n ° 149, pag. 184. Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli,
ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come forma di pegno, non dovette
essere il prodotto spontaneo delle pratiche necessità del commercio, ma una
creazione artificiale, e che l'ipoteca nel suo concetto astratto è più semplice
della fiducia (Le origini dell'ipoteca e l'interdetto Salviano, Livorno, 1887,
pag. 1). Io credo, che se l'autore si riporti col pensiero ad una plebe
ragunaticcia, in parte immigrata e priva ancora di una vera posizione di
diritto, di fronte ai patrizii, fon datori della città, comprenderà facilmente
come i membri di essa, per trovar cre dito presso coloro, che già vi si trovavano
stabiliti, non avessero mezzo più acconcio, che quello di alienare a questi cum
fiducia le cose, che loro dovevano servire di pegno. L'ipoteca invece avrebbe
già supposto una comunanza di diritto, che ancora non esisteva, e un'analisi
del diritto di proprietà, che mal si poteva conciliare colle condizioni di un
popolo primitivo. 496 svolgimento nel diritto civile di Roma. Con essa, accanto
all'ele mento strettamente giuridico, cominciò a penetrare anche la consi
derazione della buona fede, in quanto che non si bado più in modo esclusivo
alla osservanza delle forme esteriori del negozio giuridico, ma cominciò anche
a tenersi qualche conto dell' intenzione vera ed effettiva dei contraenti. Che
anzi questo elemento fiduciario fu introdotto nella formola stessa della
mancipatio, cosicchè il man cipio accipiens non affermò più, la sua proprietà
assoluta sulla cosa a lui alienata, ma disse invece: « hunc ego hominem fidei
fi duciae causa ex iure quiritium meum esse aio »; colla qual formola già si
lasciava intendere, che, sebbene egli avesse acquistata la proprietà
quiritaria, questa perd era stata affidata al suo onore per l'adempimento di
qualche incarico di fiducia (1). Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi
o con un amico o con un creditore. Essa accadeva, ad esempio, con un amico
nella manci patio familiae cum fiducia, che fu una delle forme più antiche di
testamento, mediante cui si mancipava il proprio patrimonio ad un amico (familiae
emptor), coll'incarico di disporne nella guisa statagli indicata per il tempo,
in cui altri avesse cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un
creditore, allorchè a lui si mancipava la cosa, che si voleva lasciargli a
titolo di pegno (2 ). È probabile che dap prima questa clausola fiduciaria non
avesse efficacia giuridica, ma col tempo essa venne acquistandola. Per tal modo
la mancipatio cum fiducia venne cambiandosi in un espediente giuridico,
mediante cui la mancipatio non serviva più unicamente al trasferimento della
proprietà; ma serviva eziandio per costituire comodati, donazioni mortis causa,
doti, e riceveva cosi applicazioni diverse, anche nei rapporti famigliari, nei
quali essa si svolse, come vedremo a suo tempo, sotto la forma di coemptio
fiduciaria (3). 386. Fu questo il magistero, mediante cui la mancipatio fu dal
diritto civile di Roma adattata alle varie contingenze di fatto; ma (1) Cfr. il
MUIRHEAD, op. cit., pag. 140 e seg. e il Voigt, op. cit., II, pag. 172. (2) È
notevole in proposito il passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23, 24, riportato dal
Bruns, Fontes, pag. 406, in cui egli istituisce, sulle vestigia di qualche
antico au tore, una specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e l'hypotheca.
Della fiducia egli scrive: « fiducia est, cum res aliqua, sumendae mutuae
pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur ». (3) Quanto alle
svariate applicazioni della fiducia V. Ascoli, op. cit., pag. 3 e seg. 497
siccome la sua applicazione era pur sempre circoscritta alle res mancipii,
cosi, accanto alla medesima, si introdussero o si confer marono dalla
legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e di trasmettere la
proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa, ancorchè entrambi
costituiscano un ius proprium civium romanorum. Essi sono l'in iure cessio e
l'usucapio. È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di
acquisto della proprietà ' quiritaria. Mentre l'in iure cessio viene talvolta
nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio, perchè essa, al
pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è
in certo modo una rei vindicatio non con traddetta. (1); l'usucapio invece
nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas.
Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o
dal cessionario, non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa, che
forma oggetto di negozio, la quale si compie davanti almagistrato, e a cui
sussegue l'aggiudicazione del medesimo; la seconda invece fondasi
esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due
anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra
cosa, finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla.
Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente
legale e giuridico, in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato;,
nella usucapio in vece abbiamo un fatto, che trasformasi in diritto, ossia
l'uso od il possesso, che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium,
quando abbiano durato per un certo spazio di tempo. Queste considerazioni mi
inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto,
ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie, presso le quali tutto già
facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato, l'usus
auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale, avendo
dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto, dovette cono
scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione, che
vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di
acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa (1) È lo stesso Gaio,
Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis actio
vocatur ». A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella brevissima di
Ulp., Fragm., XIX, 10 « In iure cedit dominus; vindicat is, cui ceditur;
addicit Praetor ». G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 32 498 taria fu in
certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due ordini; poichè da
una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al magistrato, il quale era
ricavato dall'ordine patrizio, e dall'altra il patriziato cominciava a
riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus auctoritas, sulla quale
'soltanto fondavansi i di ritti della plebe (1). (1) Qui cade in acconcio di
arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi alla espressione « usus
auctoritas », che occorre nelle XII Tavole. La legge relativa dal DIRKSEN
collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle parole stesse di
CICERONE, Top., 4: « usus auctoritas fundi biennium est; ceterarum rerum omnium
annuus est usus ». Essa invece dal Voigt, op. cit., I, pag. 110, sarebbe
collocata al n. 6, della Tavola V, e sarebbe così concepita: « usus, auctoritas
biennium, cetera rum rerum annuus esto ». Di qui molte discussioni fra gli
studiosi relativamente ai rapporti fra i due termini usus ed auctoritas, al
qual proposito l'opinione pre valente sembra essere, che il vocabolo di usus si
riferisca all'usucapione e quello di auctoritas alla garanzia del titolo, che
incombe al venditore in una mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire,
che tanto l'usus quanto l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno,
secondo le cose di cui si tratta. Tale opinione sarebbe stata prima enunciata
dal SALMASIO, De usuris, cap. 8, pag. 215; Lugd., Bat. 1638, e troverebbe
seguito ancora oggidì, presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus
dall'auctoritas con una virgola. A mio avviso invece sembra alquanto fuor di
luogo, che si venga a discorrere di garanzia dall'evizione colà, ove tutti gli
antichi autori non ci parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che
l'espressione effi cacissima di « usus auctoritas » non possa essere che il
contrapposto dell'altra espres sione « iuris auctoritas », e che quindi la
significazione naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come
titolo, e il possesso equivarrà a proprietà, allorchè essi siano durati un
biennio pei fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus,
analogo a quello di possessio, non avrebbe potuto da solo indicare
l'usucapione, e fu perciò, che dovette dirsi usus auctoritas, la quale
espressione appunto occorre in Cic., Top., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro
Caec., 19, sembri separare le due cose, allorchè scrive: « lex usum et
auctoritatem fundi iubet esse biennium »; ma è facile il vedere, che la dizione
qui è già alterata dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur
sempre una cosa sola, cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti
dall'uso. Ogni dubbio poi viene ad essere tolto dal passo di Boezio, in Cic., Top.,
loc. cit., nel quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris
auctoritas. Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive: « Plurima «
rum autem rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, «
id firma iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem; fundi vero usucapio «
biennii temporis spatio continetur. Ait Cicero: ut, quoniam ususauctoritas
fundi « biennium est, sit etiam aedium. Hic igitur aedium usus auctoritatem
biennio « fieri sentit » (Bruns, Fontes, pag. 400). Che se altrove la legge
dice a adversus hostes aeterna auctoritas esto », gli è perchè ivi parlasi
tanto della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva
specificare il concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo
significa la iuris auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due
istituti tuttavia esercito certamente una maggiore influenza sullo svolgimento
del diritto romano l'usucapio, che non l'in iure cessio. Di questa infatti dice
Gaio, che la medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla
mancipatio, poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi
contraenti, coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori
presso il magistrato (1). Di qui ne venne che, sebbene l'in iure cessio po
tesse anche applicarsi alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al
trasferimento di quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive
di mancipatio. Così, ad esempio, Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si
poteva fare la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec
mancipii, la cessione della eredità, che consideravasi come una cosa
incorporale, come pure la costituzione dell'usufrutto. Quanto a quest'ultimo
tuttavia, egli os serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la
mancipatio, al lorchè altri, mancipando la cosa, riservava per sè l'usufrutto
della medesima, apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva
conservare la proprietà, non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che
mediante la in iure cessio (2). L'usucapio invece deve essere considerata come
una delle istitu zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del
diritto. Essa in certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da
una posizione di fatto ad una posizione di diritto, per cambiare cioè la
semplice usus auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa, che determinò
la formazione della teoria del possesso, accanto a quella della proprietà, e
che condusse la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il
possesso può trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto
all'usucapio del diritto qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero
più volte ad accennare a questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre
solo avuto occasione di parlare della durata dell'usucapio, e non mai della
durata dell'obbligo di garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la
ricostruzione più probabile sia la seguente: « usus auctoritas fundi biennium,
ceterarum rerum annus esto »; la quale concorda anche di più colle regole
grammaticali. (1) Scrive infatti Garo, Comm., II, 25, discorrendo della iure
cessio per le res mancipii: « Plerumque tamen et fere semper mancipationibus
utimur; quod enim ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non
est necesse cum maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae
agere ». (2) GAIO, II, 33; Ulp., Fragm., XIX, 11 e 12. 500 ritario, che essa, a
differenza della prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi,
non presentasi ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto
il carattere di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di
usucapio. Cid pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento
all'usucapio, il quale non consiste nell'intento di punire coloro, che
trascurassero di esercitare il proprio diritto, ma bensi in quello di evitare
l'in certezza dei dominii: « ne rerum dominia diutius in incerto essent ». 388.
Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente
adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe
potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere
quiritario, cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in
veri proprietarii ex iure quiritium. Quest'effetto era già stato ottenuto in
grande col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i
mancipia, proprii della plebe, in altrettante proprietà ex iure quiritium,
facendoli consegnare nel censo; ed il medesimo processo venne ad essere reso
continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas, la quale in breve
spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero e
proprio diritto. Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di
questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la
pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per
far acquistare al marito la manus sulla propria moglie, e quale mezzo infine
per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di
un'eredità, come accade nell'usucapio pro herede (1 ). Così pure dapprima non
si richiedono condizioni di sorta, perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma
basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente, che i
giurisprudenti fis (1) Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto
al nº 154, p. 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere
giuridico ai possessi della plebe nel ter. ritorio romano era il miglior mezzo
per interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD,
op. cit., pag. 48, e l'Es sin, Histoire de l' usucapion nei « Mélanges
d'histoire du droit », Paris, 1886, pag. 171 a 217. Dal momento poi, che l'usus
auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di fatto in
una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto diffi coltà
di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della manus, ed anche
all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le condizioni, che
debbono concorrere in tale possesso, perchè possa dar luogo all'usucapione (1).
Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia ad escludere certe
cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii appartenenti alla
donna, quando siano state vendute e consegnate senza il consenso del tutore
(sine tutoris auctoritate) (2 ), mentre è solo più tardi, che la giurisprudenza
venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal modo un mezzo, che
dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una posizione di diritto,
fini col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio contro il difetto
inerente al titolo di acquisto, proveniente o da irregolarità dell'atto di
trasferimento o da incapacità dell'ac quirente (3 ). L'usucapione poi, per sua
natura, può già applicarsi cosi alle res mancipii, che alle res nec mancipii,
ma non pud tuttavia applicarsi al suolo provinciale, come quello, che non
poteva essere oggetto di proprietà quiritaria (4 ). Tuttavia anche qui co
mincia a svolgersi una istituzione del diritto delle genti, che è quella della
prescrizione, la quale, salvo la durata maggiore, ha un carattere analogo a
quello della usucapio nel diritto civile: come lo dimostra il fatto, che le due
istituzioni finiscono col tempo per fondersi insieme, e dar cosi origine alla
praescriptio longi temporis giustinianea (5 ). (1) Questo carattere
dell'usucapio primitiva è già accennato dall'Esmein, op. cit., pag. 177, e può
inferirsi dalla definizione di Ulpiano, Fragm., XIX, 8: « Usucapio « est
dominii adeptio per continuationem possessionis anni, vel biennii »; nella
quale non occorre ancora quel carattere della iusta possessio, che compare
invece nelle altre definizioni, e fra le altre in quella di Boezio riportata
dal Bruns, Fontes, pag. 400. Quanto ai rapporti fra il possesso, di cui qui si
parla, che sarebbe il pos sesso ad usucapionem, ed il possesso ad interdicta,
che costituisce un istituto, avente un proprio scopo, e distinto da quello
della proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n. 357, pag. 452, nota 1. A
parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos sesso ad usucapionem, e
più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta. (2 ) Questa condizione
speciale delle res mancipii, spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha
evidentemente lo scopo di impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo
nella linea agnatizia, è attestata in modo concorde da Gaio, Comm., I, 47, 192
e II, 80, e da ULP., Fragm., XI, 27. (3) È naturale infatti, che l'usucapione
in una società, che si forma, sia un modo di acquisto, e che in una società
invece, che si è formatn, si converta in un mezzo di difesa; e richieda così un
tempo maggiore per servire quale mezzo di acquisto. Le società giovani pensano
sopratutto all'acquisto; mentre le società adulte e già for mate pensano
sopratutto a conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm., II, 46: « item
provincialia praedia usucapionem non recipiunt ». (5 ) Mainz, Cours de droit
romain, I, SS 111 e 112, pag. 745 e segg. 502 389. Intanto,mentre accade questo
svolgimento nei modi di trasfe rimento della proprietà ex iure quiritium,
accanto alla medesima viene lentamente consolidandosi un'altra forma di
proprietà, che prende il nome di proprietà in bonis. Questa dapprima non è che
una proprietà di fatto, ma col tempo ottiene anch'essa in via indi retta e per
opera del pretore una protezione di diritto, e viene così a costituire un vero
dualismo nel concetto di proprietà, il che ebbe ad esprimere Gaio con dire: «
postea divisionem accepit dominium, ut alius possit esse ex iure quiritium
dominus, alius in bonis habere (1) ». Il primo nucleo di questa nuova forma di
proprietà ebbe ad essere costituito dalle res mancipii, allorchè le medesime
erano trasmesse colla semplice traditio; ma poscia essa fini per comprendere
tutte le altre cose, che per qualsiasi causa non fossero oggetto della
proprietà ex iure quiritium. Che anzi il dualismo andò fino a tale per
l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius honorarium, che di una
stessa cosa potè accadere, che altri fosse il proprietario ex iure quiritium,
mentre un altro la teneva in bonis; il che voleva dire in sostanza, che l'uno
ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre l'altro ne aveva l'effettivo godimento.
È tut tavia notabile, che prima della fusione delle due proprietà, quella in
bonis già cominciava in certe cose ad avere la prevalenza; come lo dimostra il
fatto, che se un servo appartenesse ad una persona ex iure quiritium, e fosse
stato in bonis di un altro, gli acquisti, che egli faceva, andavano a profitto
di colui, del quale era in bonis (2 ). Diqui una lotta fra le due forme di
proprietà, che diede occasione allo svolgersi dei modi naturali di acquisto,
accanto a quelli ricono sciuti dal diritto civile; lotta, che Gaio ebbe a
riassumere scrivendo: « Ergo ex his, quae dicimus, apparet, quaedam naturali
iure alie nari, qualia sunt ea, quae traditione alienantur; quaedam civili, nam
mancipationis et in iure cessionis et usucapionis ius pro prium est civium
romanorum » (3). Così è pure questa lotta, che porge occasione allo svolgersi
della publiciana in rem actio (4 ), ac canto alla rei vindicatio, della
prescrizione accanto all'usucapione, (1) Gaio, Comm., II, 40. (2) Gaio, II, 88
e UlP., Fragm., XIX, 20. (3) Id., II, 65. Di qui infatti Gaio prende occasione
di discorrere deimodi natu rali di acquisto. (4) Quanto all'actio in rem
pubbliciana è da vedersi APPLETON, De l'action pub blicienne nella « Nouvelle
Revuehistorique », 1885, pag. 481-526, e 1886, pag. 276-342. - - 503 fino a che
le due proprietà finiscono per essere pareggiate fra di loro, ed allora si
consegue l'effetto, che quelle caratteristiche della pro prietà quiritaria, che
si erano prima applicate a quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese
nel mancipium, poi si erano estese a tutte le cose, che erano oggetto delle
proprietà ex iure quiritium, finiscono per essere estese a tutte le cose, che,
per essere in com mercio, possono essere oggetto di proprietà privata. È solo
allora che Giustiniano, forse non troppo consapevole dell'ufficio, che un tempo
avevano compiuto le distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la
proprietà ex iure quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab
irato queste distinzioni, le quali a suo giu dizio « nihil ab eniymate
discrepant» e dànno solo più origine ad inutili ambiguità ed incertezze (1).
390. Infine anche qui deve essere notato, che tutta questa teoria del
trasferimento della proprietà non potè mai trovare applicazione in tema di
obbligazioni. Almodo stesso, che più tardi la giurisprudenza romana continua ad
affermare che « traditionibus et usucapionibus dominia rerum, non nudis pactis,
transferuntur » (2); così essa pur continua a professare, che i modi, i quali
servono a trasferire la pro prietà, non possono invece servire per trasferire
un'obbligazione da una persona ad un'altra. Scrive infatti Gaio, dopo aver
discorso della mancipatio e della in iure cessio, quali modi di trasferimento
della proprietà: « obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt;
nam quod mihi ab aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo,
quibus res corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum; sed opus
est, ut, iubente me, tu ab eo stipuleris » (3 ). Quindi le obbligazioni, che si
contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla
stipulatio, e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio,
che sono circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per
tal modo quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius
quiritium, fra il facere mancipium ed il facere nexum, si mantenne per tutto lo
svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra
prova della dialettica co (1) Giustin., Cod., VII, 25: de nudo iure quiritium
tollendo; e VII, 31, $ 4: de usucapione transformanda et de sublata differentia
rerum mancipii et nec mancipii (2 ) L.20, Cod., II, 3 (Dioclet. et Maxim.). (3
) Gaio, Comm., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti romani tengono
dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella prima
elaborazione del ius quiritium. Ciascun concetto di questo è come un nucleo,
che viene attraendo tutto ciò, che può esservi di affine, ma il medesimo non si
confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud at trarre
materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso. Chi poi volesse
trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il semplice
contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai bastare
da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente ricercarla nel
concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi formato prima del
manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium; avrebbe infatti
ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva in se qualche
cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato da qualche
fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione dell'acquirente.
Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai anche un atto di
questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto per aes et libram.
$ 4. La testamenti factio e la storia primitiva del testamento quiritario. 391.
Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium, il testa mento è certamente
quello, di cui ci pervennero in maggior quantità i dati per ricostruirne la
storia primitiva, e per seguire le trasfor mazioni, che ebbe a subire nel
passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non può dubitarsi
anzitutto, che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca anteriore alla
fondazione della città, perchè noi sappiamo con certezza, che esso fin dagli
inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti, che, al pari
dell'adrogatio, della detestatio sacrorum e simili, dovevano essere compiuti
coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie, riunito nei
comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le genti
patrizie, che concorsero alla fondazione delle città, le quali dovettero ser
virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto. Si è
veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia,
ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e della
tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto, e un proprio
patrimonio (heredium ). Era quindi naturale, che essa tendesse a perpetuarsi, e
che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande sventura la
mancanza di un erede, che continuasse in certo modo la sua personalità, e che
adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico. Fu quindi per supplire alla
mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso presso le genti
italiche l'adrogatio ed il testamentum: due istitu zioni, le quali, ancorchè in
guisa diversa, mirano in sostanza al medesimo intento, cioè alla perpetuazione
della famiglia e del suo culto. Intanto però, siccome l'una e l'altra
istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia, cosi egli è certo,
che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non poterono compiersi
dal capo di famiglia, di sua privata autorità, ma dovettero invece essere
compiuti colla approvazione degli altri capi di famiglia, che appar tenevano
alla medesima gente o tribù (1). 392. Allorchè poi le due istituzioni vennero
ad essere trapiantate nella città patrizia, esse conservarono dapprima il
medesimo carat tere, e perciò apparirono come due negozi, i quali, avendo un
carat tere pubblico, non potevano operarsi di privata autorità, ma dovevano
essere compiuti nei comizii calati delle curie, convocati dai ponte fici. Che
anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola dell'adro gatio, che ci fu
conservata da Gellio, conviene inferirne, che anche il testamento, in questo
periodo, dovette assumnere il carattere di una vera e propria legge (2 ).
Intanto però egli è evidente, che questo testamento nei comizii calati delle
curie dovette essere esclusivamente proprio delle genti patrizie, e che il
medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al testatore un mezzo di
disporre a capriccio delle proprie sostanze; (1) Ho già toccato dell'attinenza
strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il testamentum nel periodo
gentilizio al nº 63-65, pag. 77 e segg. Cfr. in proposito il SUMNER -MAINE,
Ancien droit, pag. 184 e il CoQ, Recherches sur le testament per aes et libram
nella « Nouvelle Revue historique », 1886, pag. 536. Qui solo ag. giungerò, che
questa attinenza appare anche meglio nel diritto greco, e sopratutto
nell'ateniese, nel quale il primitivo testamento compare sotto la forma
dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales a Sparta. Paris, 1880,
pag. 96 e segg.; e il Cocotti, La famiglia nel diritto attico. Torino, 1886,
pag. 69. (2) Questo carattere pressochè pubblico dell'adrogatio e del
testamentum in Roma non è mai intieramente scomparso, come lo prova il detto di
PAPINIANO, L. 4, Dig. (28-1): testamenti factio iuris publici est. Cfr. quanto
ho scritto a n ° 221, pag. 268 e seg. 506 - ma lo scopo invece di perpetuare la
famiglia ed il suo culto, e di impedire la divisione immediata del patrimonio,
come lo dimostra l'antica espressione romana « ercto non cito »; la quale ha
tutti i caratteri di una primitiva clausola testamentaria. Quanto alla plebe,
non avendo essa la organizzazione gentilizia, non poteva certamente possedere
un simile testamento; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo,
quando rimaneva senza figliuolanza diretta, non avesse altro mezzo di disporre
delle proprie cose, che quello di ri correre all'istituto della fiducia,
affidando il suo patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui
indicato; modo questo di far testamento, che era una conseguenza naturale delle
condizioni economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci
indicherebbe come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di
testamento, che a noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et
libram (1 ). Di qui la conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro
varsi di fronte due forme di testamento; un testamento cioè, di origine
patrizia, fatto colla formalità di una vera e propria legge, nei comizii calati
delle curie, coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la famiglia ed
il suo culto e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e l'altro, di
origine plebea, che compievasi colle forme stesse di quel fedecommesso, che
penetrò solo più tardi nel diritto civile romano, il quale non era che una
applicazione della fiducia, e aveva l'unico scopo di porgere un mezzo al capo
di famiglia per disporre delle proprie cose per il tempo, in cui egli avrebbe
cessato di vivere. 393. Fu soltanto allorchè la plebe entro eziandio a far
parte del populus, che potè svolgersi una forma di testamento, comune ai due
ordini, ed è sopratutto a questo punto, che l'esposizione di Gaio ci può venire
in sussidio per ricostruire la storia primitiva del testa mento civile romano
(2 ). Gaio ci parla di due forme primitive di testamento, cioè: di un
testamento, che compievasi in calatis comitiis, i quali si sarebbero radunati
due volte all'anno per la confezione dei testamenti; e del (1) Gaio, Comm., II,
107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe, che era una
applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel fedecommesso,
che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a n ° 149, pag.
184 e seg. Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd. (2 ) GAIO, II, 101 a 108. 507
testamento in procinctu, che facevasi invece davanti all'esercito già preparato
alla battaglia. Egli anzi sembra compiacersi nel notare, che queste due forme
di testamento corrispondevano a quel carat tere civile e militare ad un tempo,
che era proprio del popolo ro mano: « alterum itaque in pace et in otio
faciebant, alterum in praelium exituri » (1); ma intanto non dice, se i comizii
calati, a cui egli accenna, fossero i comizii delle curie o quelli delle
centurie. Sembra tuttavia ovvio l'osservare, che Gaio qui discorre già delle
due forme di testamento, comuni cosi al patriziato che alla plebe, allorché i
medesimi già erano entrati a far parte dello stesso populus, e che perciò la
sua distinzione non si deve riferire al popolo primitivo delle curie, ma bensì
al popolo plebeo-patrizio delle centurie; del quale sopratutto si poteva dire a
ragione, che mentre in pace co stituiva i comizii, in guerra invece costituiva
un esercito. Di qui la conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di
cui discorre Gaio, non è più il testamento proprio delle genti patrizie, che fa
cevasi nei comizii calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi
un testamento, già comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei
comizii calati, che noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii
delle centurie (2 ). Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie,
che dovevano radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti:
mentre i comizii calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni
qualvolta ne occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite,
come tale, appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed
è già libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte, come ebbe
a dichiararlo espressamente la legge decemvirale; così si può in durne, che il
popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario, più non
intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare
la propria testimonianza, secondo la (1) GAIO, II, 101. (2 ) Gellio, XV, 27, 1
e 2, parlando dei co:nitia calata, scrive: « eorum alia esse « curiata, alia
centuriata. Curiata per lictorem curiatim calari, id est convocari; «
centuriata per cornicinem ». Egli dice poi, che in questi comizii si facevano i
testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii calati
curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V, 19, 6, parla un'altra ' volta
dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere
soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a
differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie,
salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la
rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr. Cuq, art. cit., p. 539. 508
formola, che poi ricompare più tardi nel testamento per aes et libram: « et vos,
quirites, testimonium mihi perhibitote ». Cid è confermato eziandio dalla
considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che due
volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso pressochè
impossibile, che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi avesse potuto
essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria legge, che
erano richieste nei comizii calati delle curie primitive. 394. Di qui deriva,
che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava ancora nella
forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii calati delle
curie, nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè nel medesimo
questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice formalità, in
quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il testamento,ma sol
tanto ad assistere al medesimo cometestimonio. Si comprende pertanto, che la
consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo più semplice di
fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio familiae cum fiducia,
che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci descrive essersi introdotta
posteriormente al testamento in calatis comitiis (1). Questo testamento non era
in sostanza, che il testamento primitivo di origine plebea, salvo che esso era
già sottoposto alla forma quiritaria dell'atto per aes et libram, e ac
compagnato dalla fiducia. Era quindi un testamento, che era facile a
celebrarsi, ma che, al pari della fiducia iure pignoris, aveva dapprima
l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona fede del familiae emptor, il
quale poteva anche abusare della fiducia, che il testatore aveva in lui riposta.
Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la necessità, come dice
Gaio, di ordinare altrimenti il testamento per aes et libram, e modellarono
così quella forma di testamento, che penetrd con questa denominazione nel ius
quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum, e che fu poi argomento
di uno svolgi mento storico non interrotto fino a Giustiniano. Questo
testamento (1) Fra gli autori, che distinguono la primitiva mancipatio familiae
cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore testamento per aes
et libram, quale è descritto da Gaio, II, 102, è da vedersi il MuIRHEAD, op.
cit., pag. 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc. cit., pag. 534 e segg., il
quale, dopo aver discorso prima della familiae mancipatio, passa a trattare
separatamente del testamento per aes et libram. 509 pertanto compare nel ius
quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il mancipium, e viene ad essere
una artificiosa applica zione dell'atto per aes et libram, nell'intento di
porgere al quirite un mezzo per disporre del suo patrimonio per il tempo, in
cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento, secondo la definizione di
Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè della mancipatio familiae e
della nuncupatio. La prima consiste in un atto per aes et libram, compiuto,
come al solito, davanti a non meno di cinque testimoni, cittadini romani, ed al
libripens, in cui si addiviene ad una « ima. ginaria venditio » delle sostanze
del testatore (familiae). È però a notarsi, che,mentre nella primitiva
mancipatio familiae il negozio seguiva effettivamente fra il testatore e
l'erede, di cui quello era il familiae venditor e questo il familiae emptor;
nel testamento invece per aes et libram, quale appare modellato in questo
secondo stadio, il familiae emptor non è più il vero erede, ma è piuttosto un
depositario e custode del patrimonio, accid il testatore possa disporne «
secundum legem publicam » (1 ). Cið appare dalla circostanza, che il familiae
emptor, dopo aver finto di comprare il patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne
dichiara perd semplice depositario, ricorrendo alla formola seguente: « familia
pecuniaque tua endo mandatelam, custodelamque meam, quo tu iure testamentum
facere possis secundum legem publicam, hoc aere esto mihi empta » (2). (1)
Trovo alquanto singolare la interpretazione che il Cuq, art. cit., pag. 565,
verrebbe a dare a queste parole: « secundum legem publicam ». Egli ritiene, che
tutte le parole del testamento dovessero aversi come confermate da quella lex
publica, che era andata in disuso; mentre invece è evidente, che le parole
della formola: « quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam
», mirano evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter
fare il testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica. Una prova di
cið l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione « secundum
legem publicam », compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui
si dice: « hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem
publicam » (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la
significazione, che vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea
interpretazione sta in ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et
libram, come una modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha
un'origine affatto diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo. (2) GAIO,
Comm., II, 104. Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal
MOMMSEN, sull'Apographum Studemundianum, novis curis auctum, Berolini, 1884; la
quale presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal
Dubois, dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una
imaginaria venditio, della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta
soltanto « dicis gratia, propter veteris iuris imitationem ». La sostanza
invece di questa forma di testamento consiste nella nuncupatio solenne, nella
quale il testatore, in presenza dei testimoni, istituisce il proprio erede, il
quale viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed indica eziandio i
legati, che saranno poi a carico dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette
essere compiutamente orale; ma poscia potè essere fatta in doppia guisa, in
quanto che il testa tore – o dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai
testi moni, - o presentava invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie,
dichiarando solennemente, che queste contenevano la sua ultima volontà: « haec
ita, ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor:
itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote » (1). Di qui prorenne, che
già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la
distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento
nun cupativo e il testamento scritto. 396. Basta questa semplice descrizione
per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un concetto
ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle genti
patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis mirava a
perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri monii:
quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al quirite
un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato dalla
circostanza indicataci da Cicerone, che questo testamento deve considerarsi
come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole: qui nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto; ed è pur confermato dagli
antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento, come di una va
rietà ed applicazione del nexum, o meglio dell'atto per aes et libram (2 ).
Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva (1) Gaio, loc. cit. e
Ulp., Fragm., XX, 2 a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue nettamente le due
parti, di cui componesi il testamento per aes et libram, allorchè scrive al $ 9:
« In testamento, quod per aes et libram fit, duae res aguntur, fa miliae
mancipatio et nuncupatio testamenti »; e dopo viene senz'altro a parlare della
nuncupatio, come di quella, che veramente importa. (2 ) Cic., De Orat., I, 57,
§ 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e 103, dimostra, che il
testamento per aes et libram ebbe origine diversa da quello in - 511.
l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di provvedere al
mantenimento del culto; il testamento invece per aes et libram viene ad essere
considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia della facoltà del
quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi si attua mediante
un atto di carattere esclusivamente mercantile, quale era l'atto per aes et
libram, lasciando poi al ius pontificium di provvedere, quanto all'adempimento
dei sacra (1). Mentre infine nel testamento primitivo la volontà del testatore
era sottoposta all'approvazione del popolo; nel testamento invece per aes et
libram, la volontà del quirite appare indipendente e sovrana, e non è soggetta
a qualsiasi limitazione. Dopo ciò credo di poter conchiudere con fondamento,
che anche il testamento per aes et libram, quale compare nel ius quiritium,
deve già essere considerato come il frutto di una vera e propria elaborazione
giuridica, e comeuna conseguenza logica di quel potere illimitato e senza
confine, che appartiene al quirite di disporre delle proprie cose, non solo per
atto tra vivi, ma anche per causa di morte. Non potrei quindi ammettere col
Sumner Maine, che questa forma di testamento importasse dapprima uno spoglio
immediato ed irrevocabile del testatore a favore del proprio erede: tanto più,
che questa congettura è in diretta opposizione con tutte le notizie, che a noi
pervennero del testamento romano, il quale appare essere stato fin dapprincipio
una attestazione solenne « de eo quod quis post mortem tuam fieri vult » (2 ).
calatis comitiis, poichè egli non dice già, che il medesimo sia stato surrogato
a quello in calatis comitiis, ma dice invece: « accessit deinde tertium genus
testamenti ». (1) Cic., De leg., II, 19, 47. Cfr. in proposito il Cuq, art.
cit., pag. 555, il quale pure osserva, che la mancipatio familiae, e quindi
anche il testamento per aes et libram più non aveva carattere religioso, pag.
553, nota 2. (2) È noto come il SUMNER Maine, Ancien droit, pag. 191, abbia
coll'autorità del suo nome resa accetta a molti l'opinione, che il testamento
per aes et libram fosse di origine plebea, e che esso importasse negli inizii
una spogliazione immediata ed irre vocabile del testatore a favore dei proprii
eredi. Tale opinione non può essere ac colta; poichè il testamento per aes et
libram, anzichè essere proprio della plebe, fu invece una creazione del ius
quiritium, e quindi, al pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà la
forma dell'atto per aes et libram. Il motivo poi, per cui esso ri vestì la
forma di una mancipatio non sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato
come una vendita immediata, ma bensì nella circostanza, che esso imponeva
all'erede una quantità di obbligazioni, e fra le altre anche quella di
provvedere alla continuazione dei sacra e al pagamento dei legati. A questo
motivo si aggiunge una causa storica, ed è che il testamento per aes et libram
era un rimaneggia mento della primitiva mancipatio familiae cum fiducia, la
quale, essendo un atto di carattere puramente fiduciario, figurava come un vero
atto fra vivi. 512 397. Una volta poi che questo testamento entrò a far parte
del diritto quiritario, esso ebbe a ricevere uno svolgimento storico e Ingico
ad un tempo, non dissimile da quello delle altre istituzioni quiritarie, senza
che mai si perdessero i caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto
civile di Roma. Così, ad esempio, il testamento era stato accolto nel diritto
quiri tario sotto l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual
familiae venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca
di Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di
contesto, che è richiesta nel testamento, e la disposizione per cui quelli, che
dipendono dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo (1). Cosi
pure il testamento, nel suo concetto primitivo, aveva per iscopo di perpetuare
nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che
l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale « caput et fundamen
tum testamenti»; il qual concetto continua pure a mantenersi fino alla più
tarda giurisprudenza. Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era
stato un negozio di carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la
parola del testatore costituiva legge, e noi troviamo, che in tutto il suo
svolgimento posteriore esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui
giunge fino agli ultimi confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso;
come lo provano le espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi
l'istituzione di erede, la diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione,
e simili. Sopratutto poi questo carattere nuncupativo del testamento si fece
palese nel tema dei legati, in quanto che nel diritto civile di Roma le varie
specie di legato vennero ad essere determinate dalle diverse espressioni, adoperate
dal testatore (2 ). Infine anche quel principio, secondo cui la volontà del
testatore costituiva legge, continud a mantenersi anche più tardi; dapprima
infatti si cercò con mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della
diseredazione e la querela di (1) Questo carattere del primitivo testamento per
aes et libram, per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor
ed il familiae venditor, è chiara. mente attestato da Gaio, Comm., II, 105 a
107 e da Ulp., Fragm., XX, 3 a 6. Questo carattere poi non si perdette mai
completamente, ed è ancora ricordato da GIUSTINIANO, Instit., II, 10, $ 10. È
nota la distinzione fra i legati per vindicationem, per damnationem, sinendi
modo, e per praeceptionem: in essi la volontà del testatore appare come una
vera legge, e viene ad essere analizzata e studiata come la parola stessa del
legislatore. V. Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm., XXIV. 513 inofficioso
testamento, di impedire che il testatore potesse abusare della libertà, a lui
consentita dal primitivo diritto, e fu solo con Giustiniano che si introdusse
una limitazione diretta all'arbitrio del testatore, attribuendo a certe persone
il diritto ad una porzione legittima (1). 398. Intanto, anche nella materia
testamentaria, è facile scorgere come accanto al diritto già formato siavi
sempre una parte, che continua ad essere in via di formazione. Quindi anche
qui, accanto al testamento civile, si esplica un te stamento pretorio; ma anche
questo appare modellato a somiglianza del primo. Per verità nel testamento
pretorio più non comparisce l'atto per aes et libram, ma debbono però
intervenire due nuovi testimoni, i quali si ritengono corrispondere al
libripens ed al fa miliae emptor: donde la necessità di sette testimoni, che
dånno au tenticità al testamento, apponendovi col testatore il proprio sigillo.
Allorchè poi il testamento pretorio è riuscito anch'esso ad avere una efficacia
giuridica, sopravvengono anche in questa parte le co stituzioni imperiali, le
quali tendono a fondere insieme le due forme di testamento, finchè si giunge al
testamento giustinianeo, il quale è ancor esso un coordinamento delle forme
anteriori. Esso infatti, secondo l'attestazione di Giustiniano, viene ad essere
costituito da un triplice elemento, cioè: dall'unità di contesto e dalla
presenza dei testimoni, che proviene dal diritto civile: dal numero di sette
testimoni e dall'apposizione del loro sigillo, che è di origine pre toria: e
infine dalla sottoscrizione del testatore e dei testimonii, che deriva dalle
costituzioni imperiali. Ciò però non toglie, che anche Giustiniano, per
imitazione dell'antico, continui a ritenere il testa mento come un negozio che
interviene fra il testatore e l'erede, nel che abbiamo una prova della logica
tenace, che è propria della giu risprudenza romana, e del metodo da essa
costantemente seguito di venire coordinando nel medesimo istituto gli elementi,
che si ven nero successivamente formando (2 ). (1) L'istituzione della
legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione prima nello stesso
diritto civile, poi nel diritto onorario, la quale non terminò che collo stesso
Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti, a cui si appiglid il
diritto, prima di venire alla fissazione di una legittima, deve appunto essere
riposto in cid, che non volevasi porre una limitazione diretta alla volontà del
testatore. Quanto alla storia della legittima, è a consultarsi il Boissonade,
De la réserve héréditaire. Chap. IV, Paris, 1888, pag. 61–160. (2 ) Justin.,
Instit., II, 10, $ S 3 e 10. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 33 - 514
399. A compimento di questa materia non saranno inopportune le seguenti
osservazioni intorno allo svolgimento storico del testamento: 1 ° Il testamento
in Roma è un atto, in cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di
uomo di pace e di guerra ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il
testamento civile ed il testamento militare, il quale, dopo essere cominciato
colla distinzione fra il te stamento in calatis comitiis ed in procinctu, non
solo si mantiene, ma si viene accentuando sempre più fino all'epoca
diGiustiniano; 2 ° Nella storia del testamento romano si presenta questo fatto
singolare, che si vede ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una
forma di testamento analoga a quel testamento fiduciario, che era stato il
testamento primitivo in uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al
testamento quiritario, dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma
di testamento, la quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento, che
all'epoca di Au gusto. Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini
per ce dere alla forza della pubblica opinione, e alla nécessità di ovviare
agli abusi, a cui dava luogo l'inefficacia giuridica di un testamento, in cui
tutto dipendeva dalla buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore
(1). Noi abbiamo così una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono
più tardi nel diritto quiritario, come proprie del diritto delle genti, già
preesistevano nella comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare
in quella rigida selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius
quiritium. Un altro carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in
cid, che nel diritto civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la
successione testamentaria e la successione legittima; ma questa singolarità
potrà essere più facilmente spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso
di quel ius connubii, di cui era una conseguenza la successione legittima,
stata accolta dal diritto civile romano (2 ). (1) Che il fedecommesso sia sempre
vissuto, se non nel diritto, almeno nelle con suetudini del popolo romano, lo
dimostra il fatto, che Augusto si indusse a dargli efficacia giuridica per
l'abuso, che taluni avevano fatto della fiducia in essi riposta. Appena accolto
poi il fedecommesso apparve così popolare e trovò così favorevole ac coglienza,
che si dovette ben presto istituire un pretore apposito (praetor fideicom
missarius). V. Justin., Instit., II, 23, ss 1 e 2. (2 ) Rimando l'indagine
intorno alle cagioni storiche della massima « nemo pro parte testatus pro parte
intestatus decedere potest, al seguente capitolo V, $ 5; perchè la questione
non potrebbe essere risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano
presso i romani la successione testamentaria e la legittima. Il ius connubii
nel primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della famiglia romana. $
1. - Sguardo generale all'argomento. 400. Più volte fu osservato dagli autori,
che la famiglia romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto
diversi da quelli, che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di
essa. Mentre, sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come
un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad
unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla; nella realtà invece
essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano
campo a svolgersi la pietà, l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre,
giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa: « pater familias in
domu do minium habet »; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap
pariscono comproprietarii del patrimonio paterno: « vivo quoque parente,
quodammodo condomini existimantur ». Mentre infine, in base al diritto, il
padre ha perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui
dipendono, nel costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento
profondo dei doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile
costume (1 ). Di fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia
quale appare nel diritto, e quale si presenta nel fatto, non è certo (1) Ho già
accennato a questo contrasto, fra la configurazione giuridica della fa miglia e
la realtà dei fatti, al nº 94, pag. 119. Del resto gli autori sembrano essere
concordi in rilevare questa speciale caratteristica della famiglia romana.
Basterà citare fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano attuale, I,
&$ 54 e 55; il JHERING, L'esprit du droit romain, trad. Meulenaere, tomo
II, SS 36 e 37, e specialmente da pag. 190 a 214; il Gide, Étude sur la
condition privée de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885, cap. IV e V; il
Voigt, XII Tafeln, II, $ 92, pag. 241 a 256; il MUIRHEAD, Histor, introd., pag.
24 a 34; il Brixi, Matrimonio e di vorzio, Bologna, 1886, parte 1“, passim, e
specialmente ai SS 21 e 22, pag. 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano
della famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER, La famiglia secondo il
diritto romano, vol. 1°, Padova 1876; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius
familiae, Bologna, 1881.; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano
trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti;
ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di
ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi
affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione
giuridica, che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben
maggiore di quella, che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero
problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico
e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un
ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi
giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri
popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento
famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo, in cui
trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate, proprie delle genti
patrizie, e le istituzioni appena ab bozzate, proprie della plebe. Ciò è provato
da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si protrasse fin
dopo la legislazione decemvirale; dalle lotte accanite, a cui diede origine
l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia; ed anche dal
disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come pure dal culto
di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si contrappose più tardi
una pudicizia plebea. Così stando le cose, era anche naturale, che in questa
parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire più difficilmente a
fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la famiglia patriarcale
delle genti patrizie, la quale, unificata sotto la patria potestà del padre, e
stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto intesa a perpetuare
la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione religiosa, e
conduceva alla comunione delle cose divine ed umane; mentre dall'altra eravi la
famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione consensuale di un uomo e
di una donna, fatta palese dalla loro coabitazione, unita dai vincoli della
affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo la procreazione della
prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio (1). (1) Quanto
all'organizzazione domestica delle genti patrizie, vedi libro I, cap. 3', § 2º,
pag. 28 a 34; quanto a quella della plebe, lo stesso lib. I, cap. 9, pagina 188
e segg. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte, il più elaborato, il più
coerente in tutte le sue parti, era certamente quello delle genti patrizie;
quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi ri fiutate a qualsiasi
transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare un'assoluta prevalenza
alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi, quanto all'ordinamento
della famiglia, dovette cercare in qualche modo di imitare l'organizzazione
delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più agevole, allorchè la plebe
primitiva venne ad essere accresciuta da un largo contingente di famiglie di
origine latina, la cui organizzazione doveva già essere analoga a quella
propria delle genti patrizie. 402. Ne consegui pertanto, che l'ordinamento
domestico, adottato dalla comunanza quiritaria, fu quello della famiglia
patriarcale propria delle genti patrizie, e che anche in questa parte i veteres
iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a cui si erano attenuti
nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè trapianta rono nella città
quell'organizzazione domestica, che già preesisteva nel periodo gentilizio; la
isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale, in cui erasi formata, il quale
serviva a temperarne la rigi dezza; la riguardarono come organizzazione tipica
della famiglia quiritaria e presero a svolgerla logicamente in tutte le sue
parti. Siccome pertanto i concetti informatori della famiglia, nel periodo
gentilizio, si riducevano essenzialmente all'unificazione potente della
famiglia nella persona del proprio capo, ed alla tendenza della me desima a
perpetuarsi e a conservare il proprio patrimonio; cosi questi concetti vennero
in certo modo a costituire il capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione
del diritto quiritario, e spinti a tutte le conseguenze, di cui potevano essere
capaci, condussero logi camente a quell'ordinamento della famiglia, che ci fu
trasmesso dal diritto civile romano. Fu in questa guisa, che ogni famiglia, nel
diritto primitivo di Roma, fini per costituire un gruppo di persone e di cose,
ordinato sotto il potere del proprio capo, e disgiunto per modo da ogni altro
gruppo, che una persona, uscendo da una famiglia, per entrare in un'altra,
cessava di avere qualsiasi rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma
tipica del matrimonio quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum
manu; perchè solo la conventio in manu, collocando la moglie in posizione di
figlia, poteva con durre alla unificazione della famiglia nella persona del
proprio capo. 518 Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia
nella per sona del padre, ne derivava eziandio che il vincolo, il quale univa
imembri della famiglia, non poteva più essere quello della cogna zione,ma
doveva essere quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel
potere spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della
preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia. Se poi
tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico,
appariscono unificati nel proprio capo, viene pure a conseguirne logicamente,
che tutto quello, che essi facciano od acquistino, debba in diritto ritenersi
fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio, come, nel
diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il padre, ed i
servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece ammessa,
quando trattasi di persone, che appartengano ad un gruppo diverso. Così pure
sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della famiglia,
che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio, venga ad uscire da un
gruppo per entrare in un altro, sotto il punto di vista giuri dico, cessi di
esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia, in cui entra,
quel posto, che le sarebbe spettato, quando fosse nata nel medesimo (1 ). 403.
È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica della famiglia
quiritaria, la cui elaborazione già erasi cominciata nella città esclusivamente
patrizia, ebbe occasione di svolgersi, anche più rigidamente, mediante
l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la famiglia venne ad
essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che in parte aveva
ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in quanto che ogni
cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e dovette come tale
denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e ne costituivano in
certo modo il mancipium. Fu quindi sopratutto sotto l'influenza del censo
serviano, che i diritti del padre sulla moglie, sui figli, sui servi vennero in
certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo, ma preciso del mio e del
tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più di qualsiasi altro,
suscettivo di una vera e propria ela (1) Il concetto di quest'unità potente
della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei primitivi romani. Si
può averne una prova nei passi di antichi autori, citati dal Voigt, Op. cit.,
II, $ 72, pag. 6 e segg., a proposito della domus fami liaque, considerata come
un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. -- -- 519 berazione
giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo mento storico, in cui
la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata esclusivamente sul
concetto di proprietà, cosicchè le forme dei negozii, proprie del commercium,
poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti derivanti dal
connubium. Per tal modo la logica del diritto quiritario potè essere applicata
in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della famiglia, e venne
così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima, in cui tutto sembra
ridursi ad una questione di mio e di tuo (1 ). Quando poi si promulgò la
legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata di estendere
anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia patriarcale. Essa
infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un anno, come un mezzo,
che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie unioni il carattere
qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema di succes sione
legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia. Infine allorchè la
legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or dini, tutto
l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere accolto nel
ius proprium civium romanorum, salve al cune poche modificazioni, che erano
imposte dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della plebe (2).
Fu da questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire una
costruzione giuridica, organica e coerente in tutte le sue parti, i cui caratteri
non potrebbero essere compresi, quando si di menticasse, che la medesima è un
rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città, e svolto
logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È certo che
un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla famiglia
quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva
dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto; ma
il medesimo ebbe anche il (1) Come il censo serviano abbia contribuito ad
isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna
famiglia, come un gruppo separato e distinto da tutte le altre, fu dimostrato
nel libro III, cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°, § 1º. (2)
Così, ad esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla
plebe il matrimonio cum manu, fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito fin
d'allora al matrimonio sine manu, accordando alla donna di sottrarsi al vincolo
della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della
coabitazione per tre notti di seguito. 520 vantaggio di isolare ciò, che havvi
di giuridico nella famiglia, da ogni elemento estraneo, e di sottoporre così
all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni religiose
e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella logica propria
del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza, pressochè
inumana, non produsse in realtà alcun inconveniente, poichè essa punto non
impedi, che il costume temperasse il rigore della costru zione giuridica; che
il iudicium de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore, impedisse al
padre la dilapidazione del patrimonio famigliare; che il censore, vindice della
morale, punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii poteri; e che
infine il diritto stesso intervenisse a moderare i poteri spettanti al capo di
famiglia, al lorchè, per il corrompersi dei costumi, cominciò a sentirsi il
pericolo, che egli potesse abusare dei medesimi. 404. Intanto una importante
conseguenza di questo svolgimento storico fu anche questa, che, siccome
nell'organizzazione gentilizia tutto l'ordinamento famigliare metteva capo al
concetto del con nubium, cosi anche tutto l'ordinamento giuridico della
famiglia qui ritaria sembra essere derivato da quest'unico concetto. Quel
connubium infatti, che nei rapporti fra le varie genti aveva significato quella
facoltà di imparentarsi, che di regola era circo scritta ai membri delle genti,
che appartenevano allo stesso nomen, trasportato nel diritto quiritario, venne
a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium, ossia nel diritto di
addivenire alle iustae nuptiae, riconosciute dai quiriti, e di dare così
origine ad una fa miglia, organizzata ex iure quiritium, con tutte le
conseguenze, che potevano derivarne (1). Quindi è, che anche la famiglia ex
iure (1) Io parlo ancora qui di una famiglia ex iure quiritium: ma, a scanso di
equi voci, devo far notare, che siccome l'organizzazione della famiglia romana
non venne ad essere comune ai due ordini del patriziato e della plebe, che dopo
la legislazione decemvirale e la legge Canaleia, così l'espressione, solitamente
adoperata da Gaio e da Ulpiano relativamente al ius familiae, non è più quella
di ius quiritium,ma bensì quella di ius proprium civium romanorum; poichè in
quell'epoca il concetto del quirite già si era allargato in quello del civis
romanus, e per conseguenza il ius quiritium si era in certo modo travasato nel
ius proprium civium romanorum. Di qui consegue che mentre, per quello che si
riferisce al ius commercü, i giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius
quiritium (Gaio, II, 40), trattandosi invece della manus (Id., I, 108 ) e della
patria potestas (ID., I, 55 ), parlano invece di un ius proprium civium
romanorum. 521 – quiritium, al pari del dominium ex iure quiritium, venne a
costituire una famiglia privilegiata, che può giustamente chiamarsi propria
civium romanorum, in quanto essa ha certi caratteri, che la contraddistinguono
da ogni altra: quali sono la manus delmarito sulla moglie, la patria potestas
del padre sui figli, l'agnazione, che stringe i varii membri di essa e che
viene a costituire il fonda mento della tutela e della successione legittima.
Del resto il concetto, che tutti i diritti di famiglia discendono in sostanza
dal connubium, ha eziandio un fondamento nella realtà; perchè è col connubio
che viene a costituirsi una nuova famiglia, la quale poi si esplica nella
figliuolanza: il qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone,
allorchè scrive: « prima societas in coniugio, proxima in liberis; deinde una
domus, communia omnia » (1). Diqui derivò la conseguenza, che la famiglia
quiritaria, pur essendo il frutto di una lunga e lenta elaborazione giuridica,
fini in sostanza per modellarsi sulla realtà dei fatti, e per cogliere, per
cosi esprimerci, l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi tuisce un tutto
organico e coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento può appunto
essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa l'organismo
famigliare, cioè: lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae e negli
effetti giuridici che derivano da esse; 2 ° nel suo svolgimento, ossia nei
rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne dipendono; 3º e da ultimo
nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo, scioglimento che dà
occasione alla successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo
dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto delle genti
patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad
imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica, che era propria
soltanto di una minoranza, e che per giunta era una so pravvivenza di un
periodo anteriore di convivenza sociale; cosi, in tema di diritto famigliare,
venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le istituzioni,
che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario, e quelle invece, che
continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto, che può scorgersi in ogni
parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella lotta fra il
matrimonio cum manu (1) Cic., De officiis, I, 17, 54. 522 e quello sine manu;
in quella fra l'agnazione e la cognazione; e in quella fra la successione e
tutela legittima e la successione e tutela testamentaria; e più tardi anche
nella lotta fra l'hereditas e la bonorum possessio. Sono queste lotte, che
danno interesse allo svolgimento storico delle istituzioni famigliari, spiegano
le modifica zioni lente e graduate che si introdussero nelle medesime, e dimo
strano come anche in questa parte, alla parte del diritto già formato e
consolidato, se ne contrapponga costantemente un'altra, che tro vasi in via di
formazione, e che tenta di temperare il rigore delle primitive istituzioni
quiritarie. § 2. – Le iustae nuptiae e la storia primitiva del matrimonio
quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce al matrimonio romano, gli
ultimi studii conducono al risultato, che il medesimo, al pari della proprietà
e del negozio giuridico, dovette incominciare da un concetto tipico, che è
quello del matrimonio cum manu. Non è già che in Roma primitiva non potessero
esistere altre forme più umili di matrimonio, sopratutto nelle costumanze della
plebe; ma il ius quiritium non si curò dapprima delle medesime, e non riconobbe
gli effetti quiritarii, che al matrimonio cum manu (1). Che anzi vi sono forti
indizii per supporre, che l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio
quiritario, stata riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia, fu
quella accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio, la quale
importava fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in
parte (1) Questa è la conseguenza, a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel suo
scritto: La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain, nei «
Mélanges d'histoire du droit », Paris 1886, pag. 6. Una prova poi di
quest'antico diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo
periodo, chiamavasi materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la
moglie, quae in manu 'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni di
CICERONE, Top. 3, il quale scrive: « genus est enim wor; eius duae formae: una
matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum, quae tantummodo
uxores habentur ». La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII, 6, 9, ove dice: «
matremfamilias appellatam eam solam, quae in maritimanu mancipioque erat », e
da Nonio MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes, pag. 390. Sopratutto è
degno di nota, che l'espres sione di materfamilias è pur quella adoperata nella
formola dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso Gellio, V, 19, 9. Cfr. in
proposito KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und manus, pag. 71, e il Brini,
Op. cit., pag. 37. 523 comprovato dalla circostanza, che le leggi regie,
ogniqualvolta ac cennano al matrimonio, si riferiscono in modo espresso al
matri monio per confarreationem. Così, per esempio, Dionisio attribuisce a
Romolo di aver richiamato alla pudicizia le donne romane, rico noscendo questa
sola forma di matrimonio, e parla anche di una legge attribuita a Numa, con cui
sarebbesi stabilito, che il figlio, il quale fosse addivenuto alle nozze
confarreate col consenso del ge nitore, non potesse più essere venduto dal
medesimo (1). Tutto ciò significa, che le genti patrizie, fondatrici della
città, presero senz'altro le mosse da una forma di matrimonio, che pree •
sisteva nel periodo gentilizio, e che il loro matrimonio continud nella città a
celebrarsi con una certa solennità religiosa e patriarcale; come lo dimostrano
l'intervento del pontefice e del flamine di Giove, la cerimonia simbolica per
cui i coniugi gustano insieme il pane di farro, ed anche la presenza dei dieci
testimonii, in cui si vollero ravvisare i rappresentanti delle curie, in cui
dividevasi la tribù, a cui appartenevano gli sposi. Non pud poi esservi dubbio
intorno al l'altissimo concetto, che queste genti patrizie avevano del
matrimonio, il quale, oltre all'essere strettamente monogamo, importava
l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione fra essi delle cose divine ed
umane (divini et humani iuris comunicatio). Che anzi, a questo proposito,
sembra pure essere probabile, che questa forma primitiva di matrimonio non
potesse dapprima dar luogo al divortium, ma soltanto al repudium, il quale
doveva essere accompagnato dalla cerimonia religiosa della diffarreatio, e
poteva solo aver luogo nei casi, che erano determinati dal costume e dalla
legge (2). Cosi pure è a questo primitivo concetto del matrimonio presso le
genti pa trizie, che deve rannodarsi quel disprezzo per la donna che passi a
seconde nozze, di cui trovansi ancora le traccie nel diritto poste riore di
Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che questa forma di matrimonio, in (1)
Dion., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº 268, pag. 329 e seg. (2) Cid sarebbe
attestato da PLUTARCO, nella Vita di Romolo, 22, in un passo, che è riportato
dal Bruns, Fontes, pag. 6. Una prova poi, che il matrimonio per confar
reationem doveva durare tutta la vita, si rinvien lle attestazioni di Gellio, X,
15, 23, e di Festo, vº Flammeo, dalle quali risulta, che alla moglie del
flamine di Giove, le cui nuptiae farreatae erano un ricordo del matrimonio
primitivo, non era consentito il divorzio. Cfr. Esmein, Op. cit., pag. 17. (3)
È a consultarsi in proposito il dotto lavoro del DELVECCHIO, Le seconde noeze
del coniuge superstite, Firenze 1885, pag. 12 a 15. 524 cui apparisce quel
carattere eminentemente religioso, che è proprio delle genti patrizie, non
poteva appartenere alla plebe. Per questa il matrimonio dovette avere più
un'esistenza di fatto, che una con. sacrazione di diritto, e consistere in una
unione fondata sul reci proco consenso, fatta manifesta mediante la
coabitazione dei coniugi, piuttosto che con cerimonie di carattere giuridico e
religioso ad un tempo. 407. Era frammezzo a queste due istituzioni, di
carattere compiu tamente diverso, di cui una era forse importata dall'antico
Oriente, mentre l'altra si ispirava alle tendenze spontanee dell'umana natura,
che dovette formarsi un diritto comune alle due classi. Questo fu il problema,
che dovette risolvere la legislazione decemvirale, e la cui difficoltà era
tanto più grande, in quanto è probabile, che le classi più infime della plebe
stentassero a comprendere un matri monio, come quello cum manu, che costituiva
la moglie in condi zione di figlia del proprio marito. Questo potere del
marito, il quale, corretto dal patriarcale costume, conduceva all'unificazione
della fa miglia patrizia, poteva invece cambiarsi in un dispotismo pericoloso,
allorchè fosse esteso a classi sociali, che non vi fossero preparate da una
lunga educazione civile. È questa speciale condizione di cose, che spiega i
singolari tem peramenti, che a questo proposito furono adottati dalla
legislazione decemvirale. In questa infatti i decemviri, mentre da una parte si
studiano di fornire alla plebe un facile mezzo per addivenire allo acquisto
della manus, e di dar cosi carattere giuridico al proprio matrimonio, collo
stabilire che basti perciò la coabitazione di un anno (usus), dall'altra si
trovano nella necessità di aprire l'adito ad un matrimonio sine manu,
accordando alla donna il mezzo di sottrarsi alla manus, coll'interrompere la
coabitazione per tre notti di seguito (trinoctium ) (1). 408. Colla
legislazione decemvirale non sembra essersi andato più oltre nella elaborazione
di un diritto comune ai due ordini; poiché (1) In base all'attestazione di
Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di acquisto della manus, non fu che
un'applicazione della teoria dell'usucapione: la donna poi, che avesse voluto
sottrarvisi, doveva ogni anno interrompere la coabitazione per tre notti di
seguito. Questa parte della legge sarebbe dal Voigt, XII Tafeln, I, pag. 708,
assegnata al n° 1', tav. IV, e ricostrutta nei seguenti termini: « si qua
nollet in manu mariti convenire, quotannis trinoctio usum interficito ». - 525
sussisteva ancora il divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe. Quando
invece il divieto fu tolto dalla legge Canuleia, si dovette sentire la
necessità di introdurre un modo essenzialmente quiritario per l'acquisto della
manus, che poteva essere comune al patriziato ed alla plebe. Fu allora, che si
ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram, che era la forma solenne propria
del negozio quiritario, e si diede cosi origine alla coemptio, quale modo di
acquistare la manus (1). Non potrei quindi ammettere l'opinione, che considera
la coemptio, come la forma essenzialmente plebea del matrimonio cum manu, e
neppur quella, che ravvisa nella medesima una compra della moglie per parte del
marito. La coemptio in Roma non fu che un'applicazione dell'atto quiritario per
eccellenza, che era l'atto per aes et libram, e venne cosi ad essere un
espediente giuridico per esprimere l'acquisto di quel potere del marito sulla
moglie, che nel ius quiritium era indicato col vocabolo generico di manus (2 ).
(1) La questione della precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto
romano per l'acquisto della manus fu assai discussa in questi ultimi tempi.
Secondo il Mac LENNAN, Primitive marriage, 2me édit., 1876, pag. 71,avrebbe
preceduto l'usus, poscia sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe
venuta la confarreatio. Anche secondo il BERNHÖFT, Staat und Recht der
römischen Konigszeit, 1882, pag. 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio:
mentre invece quest'ultima, secondo il Karlowa, Formen der römischen Ehe und
manus, pag. 59, avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la
questione conviene bene intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di
contrarre il matrimonio presso le primitive genti italiche, e in allora non
ripugna, che anche presso le medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia
comprata; o si vuol invece determinare l'ordine, in cui queste varie forme
penetrarono nel diritto romano, e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del
primitivo diritto romano possano ancora richiamare uno stato ante riore di
cose, si può però affermare con certezza, che le varie forme di matrimonio,
adottate dal diritto romano, sono già il frutto di una vera e propria
elaborazione giuridica. Quanto all'ordine cronologico, con cui queste varie
forme furono accolte, esso non potè essere che il seguente, cioè dapprima fa
accolta nel ius proprium civium romanorum la confarreatio dei patres o patricii;
poscia fu riconosciuto l'usus di un anno per dar carattere giuridico alle
unioni della plebe; da ultimo, quando si comunicarono i connubii, comparve
anche la coemptio, la quale fu comune ai due ordini, e come tale finì per avere
la prevalenza su tutti gli altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN, Op.
cit., pag. 8 e 9. (2) Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti
autori, che la coemptio fosse di origine plebea, e che essa implicasse la
compra della moglie per parte del marito. Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel
diritto romano; Voigt, XII, Tafeln, II, $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio,
pag. 50 e segg. La coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto
per aes et libram, e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto
quiritario, nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario,
componevasi di due parti, cioè: lº dell'atto per aes et libram, compiuto colle
solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus per parte del
marito; 20 e della nuncupatio solenne, le cui parole non ci sono perve nute, ma
la cui sostanza, secondo Servio e Boezio, consisteva in una reciproca
interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse assumere a suo
riguardo la qualità di madre di famiglia, e questa interrogava lo sposo se
volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci spiega, come la
coemptio, sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da Gaio come una
compra fittizia della moglie per parte del marito, e sotto un altro invece
colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco consenso degli
sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di madre di
famiglia (invicem se coemebant) (1). È poi probabile, che, come il vocabolo di
coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio, cosi anche le parole
solenni, che accompagnavano la coemptio, fossero una imitazione di quelle, che
erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti religiosi, che
accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico deimodi,
riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum manu,
lascia abbastanza buire la manus al marito, e di attribuire carattere giuridico
al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea di vendita
della figlia, sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa ancora
ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente comprata.
Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pag. 65, e sopratutto l'appendice sulla coemptio in
fine al volume, nota B, pag. 441. (1) Che l'essenza della coemptio fosse per
dir così simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due sposi, non
è solo comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio, in Aen., IV, 103
(Bruns, pag.402), allorchè dice: « Mulier atque vir inter se quasi coemptionem
faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns, pag. 370); da Isidoro, Orig., $
24, 26 (Bruns, pag. 407); e sopratutto da Boazio nei commenti alla Top. di
Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice che il marito e la
moglie « sese in coemendo invicem interrogabant » (BRUNS, pag. 399). Solo
farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto per aes et libram
« is emit mulierem, cuius in manum convenit »; ma la cosa si comprende, quando
si tenga conto che la coemptio componevasi di due parti, e quindi se nel l'atto
per aes et libram doveva certo figurare come compratore il marito, che acqui
stava la manus, nulla impedisce, che nella nuncupatio gli sposi apparissero
uguali, e reciprocamente si interrogassero se volessero assumere
rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di materfamilias, V. in senso
contrario BRINI, Op. cit., pag. 51 e segg. 527 scorgere il contributo diverso,
che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio anzitutto, che la
confarreatio dovette essere di origine patrizia, come lo dimostrano il suo
carattere eminente mente religioso, e l'origine di essa, che rimonta ad
un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza romana. Che
anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia continuato ad
essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie, come lo
dimostra il fatto, che essa continud a sussistere anche sotto gli imperatori,
sopratutto per considerazioni di carattere religioso. Noi sappiamo infatti, che
i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi privilegii
religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico patriziato.
Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano figurare in
certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi speciali di
patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem era il solo,
a cui potessero addivenire i flamini di Giove, di Marte e di Qui rino, i quali
negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio (1). Per contro può
affermarsi con una certa probabilità, che l'usus, ossia la coabitazione non
interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la manus, non potè
essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto, proprii della plebe,
in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi della manus. Ciò
spiega come l'usus, quanto aimatrimonii, abbia potuto produrre lo stesso
effetto dell'usucapio, quanto all'acquisto della proprietà ex iure quiritium, e
come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in argomenti, che pur erano
cosi compiutamente diversi (2 ). Da ultimo la coemptio vuol essere considerata
come il modo di contrarre il matrimonio cum manu, essenzialmente proprio dei
quiriti, e come tale dovette essere introdotto, quando già erano permessi i
connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa, fin dalle sue origini, dovette
essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo (1) Gaio, I, 112. Nel passo
già citato di Boezio, in cui egli parla delle varie forme di matrimonio,
fondandosi sull'autorità di Ulpiano (Bruns, pag. 399), si dice espressamente
che « confarreatio solis pontificibus conveniebat ». Cfr. Esmein, Op. cit., pag.
7, nota 1. (2) La ragione fu questa, che tanto l'usucapio, applicata alle cose,
quanto l'usus, qual mezzo per acquistare la manus, si proposero il
medesimo'intento, quello cioè di cambiare una posizione di fatto in una
posizione di diritto. 528 infatti, che la coemptio viene ad essere la forma
dimatrimonio, che incontra maggior favore presso le varie classi dei cittadini;
cosicchè, nei rapporti di famiglia, essa sembra compiere quella funzione
stessa, che compie la mancipatio nel trasferimento della proprietà quiritaria.
Quindi al modo stesso, che accanto alla mancipatio effettiva abbiamo visto
svolgersi la mancipatio cum fiducia, così accanto alla coemptio effettiva, che
sottoponeva la moglie alla manus del marito, vediamo pure svolgersi quel
singolare istituto della coemptio fiduciaria, la quale serve come espediente
per sottrarre la donna alla tutela degli agnati, e per metterla in condizione
di poter fare testamento (1). Intanto perd la coemptio dovette avere per
effetto di attribuire un carattere essenzialmente civile almatrimonio, che
nella confar reatio aveva un carattere eminentemente religioso. Quindi viene ad
essere probabile, che colla introduzione di essa anche il matrimonio cum manu
abbia cominciato ad essere suscettivo del divorzio, il che non sarebbe
consentaneo col carattere religioso della confarreatio. Nella coemptio infatti
la manus viene ad essere l'effetto di un con tratto, e perciò può essere
risolta nel modo stesso, in cui ebbe ad essere acquistata, cioè mediante la
remancipatio (2 ). 410. Intanto il carattere e l'origine diversa dei varii modi
per contrarre il matrimonio cum manu, pud anche spiegare le sorti (1) GAIO, I,
114 a 116. (2) GAIO, I, 115 e 137. Se siammette che il matrimonio primitivo per
confarreatio nem non consentisse il divorzio, è un grave problema quello di
spiegare, come il mede simo abbia potuto essere introdotto anche nel matrimonio
cum manu, e persino essere esteso al matrimonio per confarreationem, il quale
doveva però ancor sempre essere accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº
diffarreatio; Bruns, pag. 336. Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato
a svolgersi nel matrimonio sine manu, e poi da questo siasi anche esteso a
quello cum manu (Cfr. Esmein, Op. cit., pag. 23 e segg.); ma non parmi
probabile un'imitazione di questa natura. Piuttosto il cambiamento venne a
farsi, allorchè, accanto al matrimonio religioso per confar reationem, venne a
svolgersi il matrimonio civile per coemptionem. Fa in quella occasione, che al
rito religioso sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il
divortium, anche al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo
divortium anche al matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per
coemptionem, parmi che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di
Gaio,. I, 137, ove, paragonando la moglie ad una figlia di famiglia, dopo aver
detto che la figlia non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge
quanto alla moglie: « haec autem (virum ), repudio misso, proinde compellere
potest, atque si ei nun quam nupta fuisset ». 529 diyerse, che ciascuno di essi
ebbe nell'ulteriore svolgimento del diritto civile romano. Noi sappiamo
infatti, che l'usus, fra i modi di acquistare la manus, fu il primo a
scomparire, poichè secondo Gaio « hoc ius partim legibus sublatum est, partim
ipsa desuetudine obliteratum est» (1). Esso infatti era stato un espediente per
dar carattere quiritario ai matrimonii della plebe, che prima non l'avevano, e
quindi si com prende che le leggi e il costume tendessero ad abolirlo,
allorchè, mediante la coemptio, anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto
per acquistare la manus. La confarreatio invece, colla introduzione della
coemptio, venne ad essere più circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu
quella, che ebbe a perdurare più lungamente; provenisse ciò dalla tenacità con
servatrice, che era propria delle genti patrizie, o da considerazioni di
carattere religioso. Questo è certo, che Gaio parla della confar reatio, come
di cerimonia che era in uso ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e
il rex sacrorum dovevano esser nati da nozze confarreate, e non potevano
contrarre altrimenti il proprio matrimonio. Noi sappiamo tuttavia da Tacito,
che il mantenere questa antica tradizione ebbe talvolta a dar luogo a
difficoltà, per trovare le persone, che potessero essere elevate alla dignità
di fla mini, il che sarebbe appunto accaduto al tempo di Tiberio, e che le
matrone ottennero in quell'occasione dal senato, che il matri monio per
confarreationem non dovesse più produrre gli effetti di un tempo, sopratutto
quanto ai diritti del marito sui beni della moglie (2 ) Infine la coemptio
diventò senz'alcun dubbio il modo più frequente per contrarre il matrimonio cum
manu, e non scomparve che cessare di questa forma di matrimonio; cessazione,
che venne ope randosi verso il finire dell'epoca repubblicana, più nel costume
che per opera di legge, stante la prevalenza sempre maggiore, che venne
acquistando il matrimonio sine manu (3 ). (1) Gaio, I, 111. (2 ) GAIO, I, 36;
Tacito, Ann. IV, 6. (3 ) La laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio
Vespillone, console nel 735 di Roma, riportata dal BRUNS, pag. 303 e seg.,
dimostra che verso il finire della Repubblica il matrimonio sine manu già
cominciava a praticarsi anche nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio
speciale di Turia per aver fatto a meno della conventio in manu, a differenza
della sua sorella, e per avere, malgrado di ciò, lasciato il suo patrimonio
all'amministrazione del marito, dimostra che un fatto (Un autore recente, il
Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il prevalere del matrimonio sine
manu, come un segno di decadenza del primitivo costume di Roma (1 ). A me
parrebbe invece, che questa importantissima trasformazione dell'ordinamento
giuridico della famiglia romana, debba essere considerata come una conse guenza
necessaria dello svolgimento della vita cittadina, che veniva a poco a poco
cancellando le vestigia dell'anteriore organizzazione patriarcale. È ovvio
infatti lo scorgere, che la manus, mentre era una istituzione confacente
all'organizzazione gentilizia, perchè da una parte serviva ad unificare la
famiglia, e dall'altra era temperata dal patriarcale costume, trapiantata
invece nella città, ove le famiglie vivevano isolate le une dalle altre, poteva
essere sorgente di gravi pericoli, sopratutto nelle infime classi della plebe,
poichè lasciava la moglie priva di qualsiasi difesa, contro il potere dispotico
del proprio marito. Fu questo il motivo, per cui i decemviri, i quali pur
miravano, come si è veduto, ad estendere a tutte le classi dei cittadini l'or.
ganizzazione patriarcale della famiglia patrizia, si trovarono tuttavia nella
necessità di lasciar l'adito aperto ad un matrimonio sine manu, dando alle
donne il singolare diritto di interrompere l'usus, collo assentarsi dalla casa
maritale per tre notti di seguito. Fu poi una conseguenza di questo
provvedimento, che in ogni tempo in Roma, accanto al vero matrimonio ex iure
quiritium, venne ad esistere di fatto un matrimonio sine manu, che non
producera le conse guenze rigide del matrimonio cum manu. Il diritto civile non
si preoccupo dapprima di questa forma più umile di matrimonio, e quindi esso si
limitò a svolgersi come un matrimonio di fatto, di fronte al vero matrimonio ex
iure quiritium, che era il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui
lo svolgersi della vita cittadina finì per rendere grave il vincolo della
manus, anche per le donne, che appartenevano alle classi sociali più elevate, e
fu in allora che il matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica
comune, e dovette essere preso in considerazione anche dal diritto proprio dei
quiriti. Tutto ciò però accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo svolgimento
del matrimonio sinemanu, simile costituiva ancora a quei tempi una eccezione
degna di nota nelle famiglie di condizione elevata. Cfr. De-Rossi, L'elogio
funebre di Turia, negli « Studii e do cumenti di storia e diritto ». Roma, 1880,
pag. 17. (1) BERNHöft, Op. cit., pag. 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, di fronte a
quello cum manu, presenta una singolare analogia collo svolgersi della
proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium. Quindi al modo
stesso, che la proprietà in bonis:i venne a poco a poco modellando su quella ex
iure quiritium, così anche il matrimonio sine manu venne delineandosi
lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che esso fini per
assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico, che ispirava il primitivo
matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio cum manu. Quindi è, che
nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80 lennità dirette all'acquisto
della manus, ma si mantiene la neces sità della deductio della sposa in domum
mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la casa del padre per entrare in
quella del marito, la quale continua sempre a considerarsi come il domicilium
matrimonii. Così pure anche nel matrimonio sinemanu si trasfonde il concetto
altissimo del matrimonio cum manu, come lo dimostrano la maritalis affectio, e
la perpetua vitae consuetudo, di cui parlano i giureconsulti classici nella
definizione del matrimonio, al lorchè era già scomparsa la manus (1). 412. Cid
pero non impedisce, che dalla sostituzione delmatrimonio sine manu a quello cum
manu, siano derivati degli importantissimi effetti nell'ordinamento giuridico
della famiglia romana, che possono essere cosi riassunti: lº Accanto al
concetto della materfamilias, che era in certo modo assorbita nella personalità
del capo di famiglia, viene a deli nearsi la figura dell'uxor, la quale, senza
essere uguale al marito (vir ), comincia però già ad avere una propria
personalità giuridica, distinta da quella del marito; 2 ° La pratica del
divorzio viene ad essere più facile, poichè, più non essendovi l'acquisto della
manus, più non si dovette richie (1) Credo che questa analogia fra il processo
seguito dai Romani nello svolgere il diritto di famiglia e quello di proprietà
non apparirà come puramente fantastica, quando si tenga conto della
correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum manu e sine manu coi
concetti del mancipium e del nec mancipium, e più tardi con quelli del dominium
ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun zione, che compie la
mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la coemptio, in tema
dimatrimonio; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio fidu ciae causa; e
infine la correlazione anche più singolare fra l'usus auctoritas, appli cato
all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto della manus sulla
moglie. 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio, nè la remancipatio, ma
poté bastare il reciproco consenso del marito e della moglie; 3° Sopratutto poi
ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella posizione economica della moglie
di fronte al marito. Senza affermare infatti, che l'istituto della dote sia
veramente sorto col matrimonio sine manu, questo è certo, che la dote, qual
concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio, non potè svolgersi che
col matrimonio sine manu; poichè un simile concorso non avrebbe potuto
avverarsi di fronte a quell'unificazione potente, che veniva ad essere
l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la dote, anche col
matrimonio sine manu, abbia cominciato dal di ventare proprietà del marito, e
siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi eredi fossero
tenuti a restituirla (1). Non potrei invece ammettere, che il matrimonio sine
manu debba considerarsi come una causa della decadenza della corruzione del
costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine manu, quale ebbe
ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale più elevato dello
stesso matrimonio cum manu. In questo infatti l'unità della famiglia veniva ad
essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la comunione delle
cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero accordo e della con
fidenza reciproca (2). Non fu quindi il matrimonio sine manu, che O per (1 )
Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine dell'istituto della dote al
matrimonio sine manu, V. fra gli altri PADELLETTI, Op. cit., pagg. 172-73, e il
Cogliolo, Saggi di evoluzione, pag. 33. A questo proposito conviene intenderci.
O per dote si intende cid che la moglie o il padre di lei consegna al marito in
occa sione del matrimonio, e la dote in questo senso dovette rimontare anche
all'epoca del matrimonio cum manu, come lo dimostra l'esistenza di
un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln,
II, pag. 486. dote si intende invece l'istituto già svolto, per modo che essa
venga ad apparire come il concorso della moglie a sostenere i pesi del
matrimonio ed attribuisca alla moglie una personalità distinta da quella del
marito, e questa non potè svolgersi col ma trimonio sine manu, perchè in quello
cum manu lo svolgimento dell'istituto era impedito dall'unificazione potente
della famiglia e del suo patrimonio nella persona del proprio capo. Intanto ciò
spiega la necessità di apposite stipulazioni, per la resti tuzione della dote,
intorno alle quali è da vedersi GELLIO, IV, 3, il quale dice, che la
opportunità di esse avrebbe cominciato a sentirsi dopo il divorzio di Spurio
Carvilio Ruga, seguito nel 523 dalla fondazione di Roma. (2 ) Cfr. in proposito
quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato: Du mariage romain et de la
manus, nella « Nouvelle Revue historique »
corruppe il costume, ma fu piuttosto il costume che abbassò l'altis.
simo concetto del matrimonio. $ 3. — Il pater familias e i poteri al medesimo
spettanti. 413. Fermo il concetto, che in Roma primitiva la famiglia, sotto il
punto di vista giuridico, costituisce un tutto organico, separato da ogni altro
ed ordinato sotto il potere del proprio capo, sarà facile il comprendere come
la logica quiritaria non scorgesse nella mede sima che un capo, il quale
comanda, ed un complesso di persone, le quali debbono obbedire. Da una parte
havvi il pater familias, che è l'unica personalità giuridica riconosciuta dal
primitivo ius qui ritium: dall'altra sonvi le persone, che dipendono da esso,
cioè la moglie, i figli ed i servi, che in antico dovettero tutte essere sot
toposte alla medesima manus, e furono perfino indicate col vocabolo generico e
comprensivo di familia od anche dimancipium. Il padre è quegli, che è padrone
nella casa, che figura nel censo colle persone e cose che da lui dipendono, che
risponde di tutti i suoi dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria; perciò
i diritti, che a lui spet tano sulle persone componenti la famiglia, sono
modellati in tutto e per tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio
della medesima. Ciò tuttavia non deve essere considerato come un indizio, che i
romani confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose; ma soltanto
che essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia, si collocarono
al punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo
spinsero a tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella
concezione primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla
moglie, sui figli e sui servi, viene pure ad essere probabile, che questo
potere sia stato indicato con un unico vocabolo, il quale con tutta
verosimiglianza dovette essere quello di manus, la quale designava in genere la
potestà giuridica spet tante al quirite (1). Fu poi nell'elaborazione
ulteriore, che in questo (1) L'autore, che ha recato incontestabilmente il
maggior numero di prove per dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in
genere la potestà giuridica, spettante al capo di famiglia, è certamente il
Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80. Cid però non toglie che il vocabolo di manus,
pur indicando in senso largo la potestà spettante anche sulle cose, designasse
in modo più specifico il potere sulle persone, e fosse così pres sochè un
sinonimo di potestas. 534 concetto sintetico e comprensivo cominciò ad apparire
una prima distinzione, per cui mentre il vocabolo di manus, pur conservando in
qualche caso la sua significazione generica, fini per indicare più specialmente
il potere del marito sulla moglie, quello invece di po testas indico di
preferenza il potere del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a
distinguersi in patria ed in dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium,
esso non scomparve, ma fini per restringersi ad indicare il complesso delle
cose spettanti al capo di famiglia, e qualche volta servi ad indicare il
complesso dei servi. Infine, siccome anche le persone libere potevano essere
date a mancipio, ed essere poste così transitoriamente in condizione di servitù;
cosi dovette pure aggiungersi la categoria giuridica delle persone « quae in
mancipii causa sunt » e che come tali « servo rum loco habentur.” Allorchè poi
questi aspetti diversi di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli
altri, ciascuno potè obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi
uno svolgimento storico compiutamente diverso. Di questi poteri, quello, che
per il primo ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita
cittadina, fu la manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza
dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città, ove
non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere
dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali
avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per
giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la
conventio in manu, dopo essere stata la regola, sia divenuta l'eccezione,
finchè fini per cadere com piutamente in disuso. Con ciò non deve già
intendersi, che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo
che la moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia, ma
(1) Secondo Gaio, I, 52 e 55, il vocabolo di potestas comprenderebbe tanto il
potere sui servi, quanto quello sui figli; quello di manus, invece il potere
del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando esso viene poi a parlare delle
personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg., comincia dal premettere, che
anche i figli e la moglie mancipari possunt nel modo stesso, in cui lo possono
i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo di mancipium,nella sua
significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le persone soggette alla
potestà del padre. Quanto alle persone, quae in causa mancipii sunt, vedi lo
stesso Gaio, I, 138 e segg. 535 acquistò una certa indipendenza dal proprio
marito, sopratutto sotto l'aspetto economico (1). 415. Così invece non accadde
della patria potestas. Questa non ha più bisogno di essere volontariamente
accettata, come la manus, ma deve invece essere necessariamente subita, e sotto
un certo aspetto può anche apparire come una conseguenza del fatto della
nascita. Mancò quindi il principale motivo, che contribuì alla abo lizione
della manus del marito sulla moglie: donde la conseguenza, che la patria
potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue fattezze
primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria ebbe campo a
spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista giuridico si
appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud vendere ed anche
uccidere i proprii figli; può rivendicarli, se gli siano sottratti; può dargli
a mancipio, se abbiano recato un danno, che egli non voglia risarcire. È però a
notarsi, che anche in questa parte la costruzione giuridica non risponde sempre
alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli si ritengono compro prietarii
del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere, a cui il costume reca gli
opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di aspirare e di giungere agli
onori e alle magistrature della città (2). Anche qui fu il corrompersi dei
costumi, che fece sentire il peri colo di un potere illimitato e senza confine,
e fu allora, che il di ritto civile romano, pur serbando integro il concetto
della patria potestà, venne attribuendo forma e carattere giuridico a quei tem
peramenti della medesima, che prima esistevano soltanto nel costume. Fu in
questa guisa, che il diritto romano, senza derogare alla supe riorità del
padre, fini per riconoscere una certa personalità giuridica anche al figlio, il
quale venne così ad avere un proprio caput, e un proprio status nel seno della
famiglia, ed introdusse eziandio dei temperamenti, sia quanto alla durata, che
quanto agli effetti della patria potestà. 418. Noi troviamo infatti, che,
mentre la patria potestà continud a durare per tutta la vita, venne formandosi
l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad una singolare
trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di vendere il
proprio figlio, viene a (1) V. in proposito il precedente $ nella parte
relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu, nn. 411 e
412, pag. 530 e segg. (2 ) Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94. 536
convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà. Anche qui
abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et
libram, salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole, per
l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre,
trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio (1). Ed è
notabile eziandio, che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una
libertà ed indipendenza, che prima non aveva, continua pur sempre ad essere
considerata come una capitis diminutio; poichè sotto il punto di vista
giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui
esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui
ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo
si spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge
alla morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi
indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla
logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti (2 ). Cosi
pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti
del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre, si
viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei
peculii. Non può infatti esservi dubbio, che i peculii già dovevano preesistere
nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium, che era quel
piccolo patrimonio, di cui il (1) Gaio, I, 135. Si è molto disputato circa la
ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono richieste per
l'emancipazione del figlio. Alcuni vogliono scorgere in ciò un indizio del più
forte vincolo, con cui il figlio intendevasi congiunto al proprio padre. A
parer mio, sembra invece molto più probabile, che questa triplice mancipazione
richiesta per i figli sia stata, come dice Gaio, I, 132, una conseguenza della
letterale interpretazione data alla legge delle XII Tavole, secondo cui « si
pater ter filium venum duit, filius a patre liber esto ». Per tal modo una
disposizione, che era evidentemente introdotta per impedire al padre di abusare
della persona del suo figlio,dandolo a mancipio più di tre volte, si cambiò in
un mezzo per emanciparlo. Negli altri casi invece, a cui non estendevasi la lettera
di questa disposizione, per trattarsi o di una figlia o di un nipote, potè
bastare una semplice mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le
singolarità di questo genere si possono facilmente spiegare, quando si tenga
conto della lette rale osservanza della legge, che era un carattere della
primitiva iuris interpretatio. Questa interpretazione del resto trova un
appoggio in Dionisio, II, 27. (2) Vedi quanto all'emancipatio, in quanto
costituisce una capitis diminutio, ciò che si disse al nº 338, pag. 424, nota
4. Aggiungerò tuttavia agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit., II, $ 73,
presso il quale occorre una raccolta completa dei passi relativi all'argomento,
pag. 27 e 28, note 12, 13, 14. 537 padre concedeva una separata amministrazione
al figlio;ma ciò punto non impedi, che essi, solo assai tardi e
gradatamente,abbiano ottenuto il loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile
eziandio l'ordine e il processo, con cui vennesi operando tale riconoscimento,
poichè si comincið dall' attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti
servendo nella milizia (peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri,
da lui fatti in guerra, quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali
(peculium quasi castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli
acquisti, che a lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi
altra guisa (bona adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie
specie di peculii, si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia
graduazione per determinare a queste proposito i diritti, che appartenevano al
padre ed al figlio (1 ). Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la
patria potestà continuasse sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an
tica organizzazione della famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se
ad operá compiuta gli stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere
particolare della patria potestà del cittadino romano, di fronte alle
istituzioni degli altri popoli. 417. L'importanza di questa unificazione della
famiglia sotto la patria potestà del padre viene a farsi anche più evidente,
quando trattasi di quelle istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in
qualche modo al difetto di figliuolanza. Esse sono l'adrogatio, con cui si
viene a sottoporre alla patria potestà una persona sui iuris, e la semplice
adoptio, con cui un figlio ancora sottoposto alla patria potestà di una
persona, viene ad essere costituito sotto la patria potestà di un altra. Le
origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun dubbio all'organizzazione
della famiglia patriarcale, nella quale (1) L'antichità del peculium è
dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a pecudibus). Del resto è
facile a comprendersi, che lo stesso accentramento della famiglia nel proprio
capo rendeva indispensabile la concessione di un certo peculio, così ai figli
che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non creò già l'istituzione; ma
la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima configurazione giuridica.
Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse forme di peculia, cfr.
MUIRHEAD, Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI, Storia del dir. rom., ediz.
Cogliolo, pag. 187, nota 4; il SERAFINI, Istituzioni di diritto romano, $ 169.
Sono poi degne di nota, quanto all'istituzione dei peculii, le osservazioni del
SumnER MAINE, L'ancien droit, pag. 134. 538 si proponevano l'intento
importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto. Quella perd fra
esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista gentilizio, era
certamente l'adrogatio, come quella che sopprimeva in certo modo una famiglia
ed il suo culto, per rendere possibile la perpetuazione di un'altra (1). Essa
quindi, nella comunanza gentilizia, dovette probabilmente essere compiuta
coll'approvazione dei capi di famiglia, o degli anziani del villaggio; donde la
conseguenza, che quando fu poi trasportata nella città, essa fu uno di quegli
atti solenni, che, al pari del testamento, dovevano es sere compiuti in calatis
comitiis, coll'intervento dei pontefici, i quali dovevano vegliare al
mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme di una vera e propria
legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era ancora soggetta alla
patria potestà, suppo neva da una parte la rinunzia del padre al proprio
potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio, applicando al solito l'atto
per aes et libram, e dall'altra la sottomissione del figlio alla patria po
testà dell'adottante, il che compievasi davanti al magistrato, me diante quella
finta rivendicazione ed aggiudicazione, che costituiva l'in iure cessio. 418.
Intanto qui viene ad essere evidente, che, siccome trattavasi di istituzioni di
origine esclusivamente patrizia, perchè era sopratutto nella famiglia patrizia,
che era viva ed efficace l'aspirazione a per petuare se stessa ed il proprio
culto, cosi lo svolgimento storico di queste istituzioninon ritiene le traccie
di un contributo diretto, che possa avervi recato la plebe. Le forme infatti,
che le accompagnano, o sono di origine patrizia, come quella relativa
all'adrogatio, o sono invece una elaborazione giuridica del diritto quiritario,
comequelle che circondano l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo
di adozione, che possa essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche
l'arrogazione e l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune
a tutti gli ordini sociali; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono
sempre più il loro carattere gentilizio, finchè finiscono per informarsi ad un
con cetto ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces (1)
Questo effetto dell'adrogatio è efficacemente espresso da PAPIN., Leg. 11, § 2,
Dig. (37-11): « dando se in arrogando testator cum capite fortunas quoque suas
in familiam et domum alienam transfert ». Quanto alle origini dell'adrogatio
nel pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25, pag. 31. Le differenze poi fra
l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza da Gellio, V, 19.
539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto; ma si
limitano allo scopo di procurare le gioie della figliuolanza a coloro che siano
privi della medesima, per guisa che in contrad dizione col diritto primitivo,
anche le donne poterono adottare ed essere adottate. Così pure queste
istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto una persona dalla sua famiglia,
per trasportarla in un'altra, finirono per modificarsi in guisa da contemperare
i diritti della famiglia naturale con quelli della famiglia adottiva (1). 419.
Rimane ora a dire brevemente del potere del padre di fa miglia sui servi. Anche
qui non pud esservi dubbio, che la servitù rimonta al periodo gentilizio, e che
essa non dovette essere propria delle genti italiche, ma comune a tutte le
genti; come lo dimostra il fatto, che i Romani non riguardarono mai la servitù
come istitu zione loro propria, ma comeuna istituzione del diritto delle genti
(2 ). La medesima sotto un certo aspetto era un compimento necessario della
famiglia patriarcale: perchè senza di essa questa non avrebbe potuto costituire
un gruppo, che potesse bastare a se stesso. È quindi naturale, che quando il
capo di famiglia entrò a parte cipare alla comunanza quiritaria, esso
comparisse nella medesima non solo colla moglie e colla figliuolanza, ma anche
coi servi, i quali vennero ad essere compresi nel suo mancipium, e costituirono
così una parte integrante della famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi
diventarono in Roma gli strumenti intelligenti del cittadino romano, il quale
potè valersi di essi per esercitare qualsiasi ne gozio o commercio, senza
derogare alla sua dignità, ed anche per evitare ai proprii figli l'ignominia di
una eredità passiva, chia mandoli anche loro malgrado a succedergli, in qualità
di heredes necessarii (4). Si comprende quindi, che al punto di vista giuri
dico i servi fossero considerati come cose, anzichè come persone, e che il
potere del padrone sopra di essi apparisse illimitato e senza confine. Tuttavia,
anche qui la famigliarità dei rapporti fra il pa drone ed i servi, l'intimità
di vita, che eravi talora tra i figliuoli (1) Quanto all'ultimo stadio del
diritto civile romano nello svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit.
II, XI. (2 ) Fra gli altri Gaio, I, 52, dichiara espressamente, che la potestas
sui servi iuris gentium est. (3 ) Come i servi costituissero una parte
integrante della famiglia risulta ad evi. denza dai passi raccolti dal Voigt,
XII Tafeln, II, pag. 12 e segg., e note relative. (4 ) GAIO, II, 152; ULP.,
Fragm. XXII, 11 e 24. 540 - dell'uno e quelli degli altri, l'abnegazione
frequente dei servi per il loro padrone, e la necessità stessa, in cui fu la
legge di porre dei limiti alla facoltà di manomettere i proprii servi, sono
circo stanze che dimostrano, come anche la condizione effettiva dei servi,
sopratutto nei primi tempi di Roma, non corrisponda in ogni parte alla severità,
con cui essa ebbe ad essere governata sotto l'aspetto giuridico (1). 420. In
ogni caso è cosa fuori di ogni dubbio, che la condizione dei servi ebbe a
subire ancor essa una trasformazione profonda nel pas saggio
dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Giuridicamente
parlando, il potere del padrone appare forse più rigido nella città, che non
nel periodo gentilizio; ma in essa il servo ha il vantaggio di poter essere
fatto libero, e di essere così elevato alla dignità di cittadino. Mentre
dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa necessità delle cose,
cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui apparteneva, e quindi col cessare
di esser servo doveva trasformarsi in cliente: nella città invece, sopratutto
dopo Servio Tullio, a cui si attribuisce di aver attribuita la cittadinanza ai
servi affrancati, il servo manomesso venne ad essere sotto la protezione della
pubblica autorità, e potè colla libertà acquistare anche la cittadinanza. Colla
manomissione pertanto viene a verifi carsi la più profonda trasformazione nello
stato giuridico, di cui ci porga esempio il diritto civile romano. Con essa il
servo, che era considerato come una cosa, viene a trasformarsi in una persona,
e colui, che non aveva nė libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia,
viene ad acquistare tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie
dell'antico stato di cose nella istituzione del patronato, la quale deve perciò
essere considerata come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia.
Malgrado di ciò, questa impor tantissima trasformazione nello stato di una
persona viene dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite,
il quale può manomettere i proprii servi vindicta, censu, testamento, ed ha
cosi potestà di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani. (1)
Nota giustamente l'HÖLDER, Istituz., $ 42, pag. 117, che il servo, ancorchè sia
considerato come una cosa, non perde però la sua qualità d'uomo, poichè gli si
ri conoscono le facoltà, che lo distinguevano come uomo, prima dell'altrui
dominio. È questo il motivo, per cui il potere sullo schiavo chiamavasi
potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti erano stati validi, come se
fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche qui fu solo più tardi, che
l'esercizio illimitato di questa po testà privata sembrò essere in conflitto
colle esigenze del pubblico interesse, e allora, mentre da una parte si cercd
di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità dei liberti, dall'altra si
cerco di met tere dei confini alla manomissione dei servi, il che si ottenne in
parte coll'introdurre gradazioni diverse nella libertà, che era accor data ai
servi (1). Fu in questa guisa, che al concetto di un'unica libertà i
giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia Norbana,
sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e dei
dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore, secondo che essa
lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana: « pessima itaque, conchiude
Gaio, eorum libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut
senatus consulto, aut con stitutione principali aditus illis ad civitatem
romanam datur » (2 ). 421. Da ultimo anche le persone libere, quae in causa
mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione
giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione
di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a
mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la
concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come
lo prova questa notevole proposizione di Gaio: « admonendi sumus, adversus eos,
quos in mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere; alioquin
iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines,
sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa
mancipentur » (3 ). Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la
rigidezza, con cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante
al capo di famiglia, trova la sua causa in ciò, che i Romani, anche in (1) È
notabile a questo riguardo, che il più antico diritto di Roma, come lasciava al
cittadino piena libertà dimanomettere i propri servi, così, in omaggio sempre
alla libertà del testatore,non aveva tutelato in nessun modo le ragioni del
patrono contro il testamento del liberto. Ciò viene attestato da Gaio, III, 40,
41, il quale, dopo aver detto, che « olim licebat liberto patronum suum impune
in testamento prae terire » aggiunge poi che il diritto pretorio e poscia la
legge Papia Poppea avevano cercato di riparare a questa iuris iniquitas. (2 )
Gaio, 1, 26; Ulp., Fragm., I, 5. (3 ) Gaio, I, 141. 542 questa parte,
trasportarono nella città il potere del capo di famiglia patriarcale; lo
isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da ogni elemento estraneo al
diritto; e riuscirono così a dare una configu razione prettamente giuridica, ad
un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare molti temperamenti nel
costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia romana trovano poi una
conferma nel modo, in cui era governata la successione legittima, nel primi
tivo diritto di Roma. § 4. – La successione e la tutela legittima nel primitivo
ius quiritium. 422. L'ordinamento giuridico della famiglia primitiva in Roma
presenta eziandio questa singolarità, che mentre, vivo il padre, tutto sembra
unificarsi in lui, mancando invece il medesimo, senza aver disposto delle
proprie cose per testamento (si intestato moritur), ricompare una specie di
comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono dalla sua patria potestà.
Queste persone infatti son chia mate a succedergli come heredes sui; non possono
respingerne la eredità (heredes sui et necessarii); che anzi, senza bisogno di
una vera e propria accettazione, sembrano essere direttamente investite dalla
legge stessa di quel patrimonio famigliare, di cui già prima apparivano
comproprietarie: « sui quidem heredes, dice Gaio, ideo appellantur, quia
domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo domini existimantur »
(1). Molti autori combatterono il concetto di questa comproprietà fa migliare,
dicendola in contraddizione colla unificazione potente della famiglia romana
nella persona del proprio capo (2). A nostro avviso invece questa specie di
comproprietà, che i giureconsulti pongono a fondamento della successione degli
heredes sui, può essere facil mente spiegata e conciliata coll'unità potente
della famiglia romana, (1) GAIO, II, 157. (2 ) Fra gli autori, che combattono
questa comproprietà famigliare, mi limiterò a citare il PADELLETTI, Op. cit.,
pag. 201, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione nel di ritto privato, pag. 108 e
segg.; il quale, a pag. 111, in nota, fa pure un elenco degli autori, che
tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra quelli, che ammettono questa
comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il DUBOIS, La saisine héréditaire en
droit romain, Paris, 1880, pag. 63, e il CARPENTIER, Essai sur l'origine et
l'étendue de la règle: nemo pro parte testatus, pro parte intestatus decedere
potest, nella « Nouvelle Revue historique », 1886, pag. 457 e segg. 513 quando
si ritenga che la famiglia quiritaria non è in sostanza, che la stessa famiglia
patriarcale, trasportata nella città, ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in
cui erasi formata. La famiglia patriarcale infatti riuniva appunto due
caratteri, pressochè opposti fra di loro; quello cioè di apparire da una parte
unificata nella persona del padre, il che la rendeva unita e compatta per la
lotta, che doveva sostenere cogli altri gruppi, da cui era circondata; e quello
di sup porre dall'altra un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche,
il che produceva un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a
costituirla. In questo senso potevasi dire di essa con Cicerone: « una domus,
communia omnia ». Questa solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo
gruppo famigliare viene ad essere dimostrata dai seguenti indizii: che il
primitivo heredium era di sua natura trasmessibile di padre in figlio; che il
padre trovava un ostacolo alla dilapidazione del patrimonio famigliare, nel
iudicium de moribus per parte del consiglio degli anziani della gens; che il
padre infine non poteva disporre delle proprie cose per testamento, nè
scegliersi un figlio adottivo senza l'approvazione degli altri capi di famiglia,
che appartenevano alla sua gente o tribù (1). Vero è, che tutti questi
temperamenti del potere patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire,
quando, col formarsi della città, la famiglia venne ad essere staccata dal
gruppo patriarcale, di cui entrava a far parte, e il capo di essa apparve così
investito di un potere illimitato e senza confini; ma ciò deve essere
considerato come un effetto di quella elaborazione giuridica, che tendeva ad
uni ficare la famiglia nella persona del proprio capo. Era quindinatu rale,
che, quando questa unificazione non era più possibile per la mancanza del capo,
risorgesse la primitiva comproprietà famigliare fra le persone libere, che
appartenevano allo stesso gruppo. Che anzi la stessa unificazione potente del
gruppo nel proprio capo do veva determinare una specie di comunione fra i
membri del gruppo, e condurre così alla conseguenza giuridica, che in questo
caso non si avverasse una vera successione, ma il dominio del padre conti
nuasse in certo modo nella persona dei figli; conseguenza, che ebbe ad essere
mirabilmente espressa dal giureconsulto Paolo: in suis heredibus evidentius
apparet continuationem dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas
fuisse, quasi olim hi domini (1) Ho cercato di dimostrare questi caratteri
della proprietà famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib. I, cap. 4, § 3º,
sopratutto pag. 70 e segg. 544 essent, qui, vivo etiam patre, quodammodo domini
existimantur. Itaque post mortem patris non hereditatem percipere videntur, sed
magis liberam bonorum administrationem consequuntur (1). Fu in questa guisa,
che la famiglia primitiva potè perpetuarsi nelle generazioni, e cambiarsi in un
organismo immortale e perpetuo, poichè i figli apparivano come i continuatori
della personalità del padre, e al modo stesso, che dovevano perpetuare il culto
domestico, così dovevano raccoglierne, anche loro malgrado, l'eredità. 423. Nè
si può ammettere, che questa specie di comproprietà, a cui accennano i
giureconsulti, sia un concetto penetrato più tardi nella classica
giurisprudenza, per spiegare il passaggio del patrimonio famigliare dal padre
nei figli (2 ): poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è
certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto, come pure è a questo,
che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale, che gli heredes
sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa distinzione infatti
già doveva esistere nella universale coscienza, all'epoca della legislazione
decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa della succes sione
dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa, che na turalmente accade, e
che quasi non abbisogna di speciale menzione; mentre è solo per il caso, in cui
non siavi un heres suus, che le XII Tavole determinano l'ordine della
successione per legge, chia mando alla medesima prima l’agnatus proximus, e in
mancanza del medesimo i gentiles: « si intestato moritur, cui suus heres nec
escit, adgnatus proximus familiam habeto; si adgnatus nec escit, gentiles
familiam habento » (3). Che anzi a questo proposito parmi di poter con
fondamento inol trare la congettura, che in occasione della legislazione
decemvirale le genti patrizie cercarono di trasportare nel ius proprium civium (1)
PAOLO, Leg. 11, Dig. X (28-2). V. nel CARPENTIER, Op. e loc. cit., una rac
colta di testi che confermano questa comproprietà famigliare. (2) Tale sarebbe
l'opinione del PADELLETTI, Op. cit., pag. 201. (3 ) Queste due disposizioni
delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op. cit., I, pag. 704, sarebbero la 2a e la
3a legge della Tav. IV. A questo proposito poi il Voigt, Op. cit., II, pag.
387, sembra ritenere, che esistesse una comproprietà di fatto, ma non di
diritto. Convien però ammettere, che tale comproprietà producesse, dopo la
morte del padre, delle vere conseguenze di diritto, dal momento che faceva
considerare gli heredes sui, come continuatori della personalità del padre, e
li metteva anzi nella impossibilità di rinunziarvi. Vedi Gaio, I, 157. - 545
romanorum, e di rendere così comune a tutte le classi quel sistema di
successione ab intestato, che doveva già esistere nel loro costume durante il
periodo gentilizio. Noi sappiamo infatti dagli stessi giu reconsulti, che colle
XII Tavole soltanto ebbe ad essere introdotto il sistema di successione
legittima, e ne abbiamo anche una prova nella circostanza, che fu perfino
introdotto un ordine di eredi le gittimi, che era quello dei gentiles, il quale
non poteva certo appar tenere alla plebe, dal momento che questa non possedeva
le gentes. Per tal modo il patriziato, che già aveva trasportata nella comu nanza
quiritaria la propria organizzazione domestica, riusci eziandio a farvi
penetrare il proprio sistema di successione. Di qui la con seguenza, che anche
il sistema successorio dei romani deve essere considerato come una
sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della famiglia patrizia; come lo
dimostra la circostanza, che esso fondasi esclusivamente sull'agnazione, non
tiene alcun conto della cognazione, e si propone come scopo esclusivo di
perpetuare il pa trimonio nella famiglia agnatizia, e di farlo ritornare alla
gente, al lorchè siasi estinta la famiglia (1). Per tal modo, in base alla
legislazione decemvirale, noi veniamo a trovarci di fronte a tre ordini di
eredi, che sono: lº gli heredes sui, nei quali si comprendono la moglie, i
figli cosi maschi come femmine e gli altri discendenti nella linea maschile,
tutte le per sone insomma, che erano soggette alla patria potestà del capo di
famiglia; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro, che discendono per la linea
maschile da un comune autore, alla cui potestà sarebbero stati sog getti,
quando non fosse premorto; 3º e da ultimo i gentiles, ossia tutti coloro, i
quali, più non essendo compresi nella familia omnium agnatorum, hanno però
comune la discendenza da un medesimo (1) Che la successione e la tutela
legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole, mentre queste non avrebbero
fatto altro, che confermare le successioni testa mentarie, è cosa a più riprese
affermata da ULPIANO, Fragm. XI, 3, e XXVII, 5. Di qui ilMuirhead avrebbe
perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di pianta l'ordine degli
agnati, come tutori e successori legittimi (Op. cit., pag. 122 e 172 ). Ho già
dimostrato più sopra, pag. 39, nota 1", che questa opinione non può essere
accettata, perchè l'ordine degli agnati già esisteva nell'organizzazione
gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a fondamento della medesima; ma
intanto questa sua opinione può essere accolta, quando sia intesa nel senso,
che i decemviri colle XII Tavole estesero anche alla plebe quel sistema di
successione legittima, che le consuetudini avevano già svolta presso le genti
patrizie. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 35 546 antenato, e come
tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla stessa gente. 424. È poi
degno di nota il modo diverso, con cui questi varii ordini di eredi sono
chiamati a succedere. Finchè trattavasi di heredes sui, essi, essendo soggetti
alla patria potestà della stessa persona, e come tali appartenendo almedesimo
gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se stessi; esclu devano gli
emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi entrate in un'altra famiglia,
tutti coloro insomma, che erano già usciti dal gruppo; non abbisognavano di
vera accettazione dell'eredità, ma suc cedevano anche loro malgrado (heredes
sui et necessarii): non potevano essere spogliati dell'eredità mediante
l'usucapio pro he rede; infine succedevano per stirpe, ossia per
rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva i figli
rappresen tano il padre (1). Quando trattavasi invece di agnati, il patrimonio
doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro: quindi la legge, per
impedirne la suddivisione soverchia, si limitava a devolverlo allo agnatus
proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere considerato
come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non appartiene al
gruppo famigliare nello stretto senso della parola. Egli quindi ha già facoltà
di accettare o di respingere l'eredità, e può vedersi usucapita l'eredità da
altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse poi
l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla
successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano
è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i
rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti
gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità,
questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles (2 ). (1 )
Gaio, III, 1 a 8; Ulp., Fragm., XXIV, 1 a 3. (2) GAIB, III, 9 a 15, Ulp., Fragm.,
XXIV, 1. L'enumerazione, che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati, confermano il
concetto, che ho svolto nel lib. I, pag. 38 e 39, secondo cui la cerchia degli
agnati sarebbe stata determinata da quella in divisione di patrimonio, che,
morto il padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di scendenti per la linea
maschile. Questo gruppo continuava in certo modo l'unità indivisa della
famiglia, e costituiva quella famiglia più grande, che fu chiamata 547 Qui però
l'espressione della legge cambia, in quanto che essa dice senz'altro: « si
agnatus proximus nec escit, gentiles familiam habento »; il che fa ritenere,
che i gentili non fossero chiamati a succedere come individui, ma in quanto
costituivano l'ente collet tivo della gens, cosicchè l'eredità sarebbe in certo
modo ritornata alla gente considerata nella propria universalità, e sarebbe
così ve nuta a ricadere in quell'ager gentilicius, da cui si erano staccati i
primitivi heredia delle singole famiglie. Era sopratutto in questa parte, che
erasi cercato di mantenere viva nella città l'antica orga nizzazione gentilizia:
ma l'istituzione non potè mantenersi a lungo come lo dimostra Gaio, il quale
parla di questo ius gentilicium, come di cosa andata da lungo tempo in disuso
(1). Non ha poi bisogno di essere dimostrato, che questo sistema di successione
per legge, desunto dall'antica organizzazione gentilizia, trovava il proprio
compimento nella disposizione, per cui la succes sione del cliente o del
liberto, che fosse morto senza testamento o senza eredi suoi, veniva dalla
legge ad essere devoluta al patrono, od ai figli di lui, od infine alla gente
del patrono: « si cliens in testato moritur, cui suus heres nec escit, pecunia
ex eius fa milia in patroni familiam redito » (2). omnium agnatorum. Quando poi
venne meno quest' indivisione del patrimonio, si chiamarono agnati tutti
coloro, che sarebbero stati soggetti alla patria potestà, quando il padre non
fosse premorto. Fra essi ULPIANO, loc. cit., comprende anzitutto quelli, che egli
chiama i consanguinei, « id est fratres et sorores ex eodem patre »; poscia,
quando questi manchino, gli altri agnati prossimi « id est cognatos virilis
sexus, per mares discendentes, eiusdem familiae, (1) Gaio, III, 17; UlP., Fragm.,
XXIV, 1. Noi abbiamo tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna ad una
causa di eredità, dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii patrizii ed
i Marcelli discendenti da un loro liberto, in cui dice che gli oratori delle
parti dovettero occuparsi « de toto stirpis ac gentilitatis iure ». Sembra
tuttavia, che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di
questo genere. (2 ) Ulp., L. 195, § 1, Dig. (50, 16). Nella ricostruzione del
Voigt, I, pag. 705, questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che
dice lo stesso Voigt, II, pag. 392 e 393, quanto alla successione del patrono
al liberto. Anche quanto alla successione del liberto si manifesta una specie
di antagonismo fra la successione testamentaria e la legittima; poichè,mentre
nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare
impunemente il suo patrono, la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII
Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del
patrono, quando il primo fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è
assai degno di nota, che, unitamente al sistema della successione legittima,
dalla legislazione decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela
legittima. Di cid abbiamo l'espressa attestazione dei giureconsulti (1): ma la
prova più convincente vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della
tutela legittima, quale ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato
con quello della successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi
ratore. Per giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la
considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro, che avevano
il vantaggio della successione: « ubi emolu mentum successionis, ibi onus
tutelae »; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la
tutela, che la successione le gittima si informano ancora ai concetti
dell'organizzazione genti lizia, da cui furono desunte, e come tali mirano a
conservare il patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla
gente. Viene così a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im
puberi ed anche la cura dei prodighi e dei furiosi, fosse affidata agli agnati
ed ai gentili; come le donne, anche perfectae aetatis, cadessero sotto la
tutela degli agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai
pupilli, non potessero essere usucapite, quando non si fossero alienate col
consenso del tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della
tutela primitiva del l'impubere, la quale mira piuttosto alla conservazione del
patrimonio, che non alla educazione della persona, la cui cura soleva essere
lasciata alla madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di
preferenza all'affetto del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare
integro il patrimonio famigliare (2). i 426. Chi tuttavia riguardi al
posteriore svolgimento del diritto civile romano, può facilmente inferirne, che
tanto il sistema della successione, quanto quello della tutela legittima, non
trovarono mai favorevole svolgimento nella opinione comune della cittadinanza
ro mana. Conformi al modo di pensare di quella minoranza patrizia, che si
atteneva strettamente alle tradizioni gentilizie, esse invece ripugnavano al
modo di sentire delle altre classi, i cui rapporti di (1) Ulp., Fragm., XI, 3.
(2) È da vedersi, quanto alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari,
il Pa DELLETTI, Op. cit., pag. 188 e le note relative. 549 famiglia si
ispiravano di preferenza al vincolo naturale del sangue e della cognazione. A
misura poi, che le traccie dell'organizzazione gentilizia si venivano
dissolvendo sotto l'influenza della vita citta dina, questo sistema di
successione e di tutela apparve disadatto a quei magistrati stessi, che
dovevano applicarlo. È questo il motivo, per cui Gaio a questo proposito non
parla solo di sottigliezze del l'antico diritto, ma di vere iuris iniquitates;
alle quali cercò poi di riparare il diritto pretorio, introducendo, accanto
alla successione legittima, una successione pretoria, e creando, accanto ai
tutores legitimi, i tutores Atiliani o dativi. Fu pur questo il motivo, per cui
i giureconsulti mal potevano spiegarsi la tutela perpetua, a cui le donne erano
sottoposte nell'antico diritto, e vennero creando essi stessi degli espedienti
giuridici, quale fu quello veramente ca ratteristico della coemptio cum fiducia,
per liberarle da una tutela, le cui ragioni dovevano forse essere cercate in un
periodo anteriore di organizzazione sociale (1). In ogni caso poi una prova di
questa generale condanna del si stema di successione e di tutela legittima può
scorgersi eziandio nel largo sviluppo che presero in Roma la successione e la
tutela testamentaria, e nell'antagonismo che sembra esistervi fra le due
maniere di successione. $ 5. – Rapporti fra la successione legittima e la testamentaria
nel diritto primitivo di Roma. 427. È noto che in Roma la successione legittima
e la testamen taria non poterono mai fondersi insieme, e si mantennero anzi in
una specie di antagonismo fra di loro. Ciò è dichiarato espressa mente dal
giureconsulto, che scorge nelle due istituzioni un natu (1) Fra i
giureconsulti, che non sanno darsi ragione della tutela perpetua, a cui le
donne erano sottoposte, abbiamo Gaio, I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli,
più sotto, I, 192, finisce per indicare la vera ragione, per cui anche le donne
erano sot toposte alla tutela dei loro agnati; la quale consiste in ciò, che
siccome gli agnati erano chiamati a succedere alle donne, che morissero ab
intestato, così essi avevano interesse a che esse, senza il loro consenso, non
potessero fare testamento, nè alienare le cose più preziose, che entravano a
costituire il patrimonio. Per tal modo la tutela degli agnati ebbe lo scopo
stesso della loro successione legittima, quello cioè di conservare il
patrimonio nella famiglia agnatizia; il qual concetto è per certo uno di
quelli, le cui origini debbono essere cercate nel periodo gentilizio. 550 rale
conflitto; è confermato dalla massima: nemo paganus partim testatus, partim
intestatus decedere potest; ed è provato eziandio da quella specie di
ripugnanza, che avevano i Romani a morire senza testamento: ripugnanza, che si
spinse fino a tale da ritenere pressochè disonorato chi morisse senza
testamento. Il fatto può quindi essere affermato con certezza; ma è tanto più
ardua la spie gazione di esso, come lo dimostra la varietà grandissima di
opinioni e di congetture, che furono emesse in proposito (1 ). Credo tuttavia,
che anche in questa parte possa condurci a qualche conclusione, forse nuova, lo
studio delle origini del ius quiritium. Questo studio infatti ci pone in grado
di affermare, che la succes sione legittima ed il testamento hanno avuto una
origine e uno svolgimento compiutamente diversi nel primitivo ius quiritium.
Mentre la successione e la tutela legittima, le quali soltanto colle XII Tavole
entrarono a far parte del diritto comune, sono istitu zioni di origine
prettamente gentilizia, ispirate al concetto di ser (1) L'origine storica della
massima « nemo paganus, ecc. » è una questione, che è lungi dall'essere risolta,
malgrado la ricchissima letteratura, di cui fu argomento. Fra autori, che la
esaminarono di recente, citero soltanto il RUGGERI, nei Documenti di storia e
di diritto; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue historique, 1886, pag. 449 a
474; il Padel LETTI, La istituzione di erede ex re certa (« Archivio giuridico
», vol. IV ). Anche l'ESMEIN, La manus, la paternité, ecc., pag. 4, nota 10.
accenno di passaggio ad una spiegazione di questa massima, dicendo che la
medesima proveniva da che il patrimonio si trasmetteva come l'accessorio di un
culto, e che siccome di un culto non si poteva disporre per una parte soltanto,
così non si poteva neppure lasciare un'eredità parte per testamento e parte per
legge. Parmi che questa non possa an cora essere la risoluzione definitiva:
poichè se un culto poteva dividersi fra più eredi legittimi, non vi può essere
ragione, per cui non si potesse anche dividere fra eredi legittimi e
testamentarii. Il CARPENTIER poi, nel suo dotto lavoro sopra citato, verrebbe
alla conseguenza, che questa massima fosse una conseguenza logica del concetto
romano, per cui tanto la successione legittima, quanto la testamentaria, do
vevano comprendere l'intiero patrimonio; ma anche qui si potrebbe sempre dire,
che quest'universum ius, come poteva dividersi fra gli eredi per legge e
testamentarii; così avrebbe potuto dividersi eziandio fra gli uni e gli altri.
Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il motivo della massima starebbe in ciò, che
anche il testamento dapprima era una vera lex, e quindi doveva prevalere o la
lex publica o la lex testamenti,ma non potevano concorrere insieme; ma egli è
evidente, che questa ragione, se po trebbe valere per il testamentum in calatis
comitiis, non può certo applicarsi al testamentum per aes et libram, che non ha
più il carattere di una legge. Fu questo il motivo, per cui ho creduto didover
cercare la causa prima di questa mas sima nella stessa dialettica fondamentale,
a cui si informa il diritto primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla
famiglia agnatizia ed alla gente; il testamento invece, che prevalse nel ius
quiritium, non è più il testamento delle genti patrizie, ma è già
un'applicazione dell'atto quiritario per ec cellenza, ossia dell'atto per aes
et libram, che si ispira al prin cipo: uti legassit, ita ius esto. In quella
prevale ancora lo spirito conservatore dell'antico gruppo patriarcale: mentre
in questo già campeggia la fiera individualità del quirite, la cui volontà
solenne mente manifestata deve essere legge, anche per il tempo in cui avrà
cessato di vivere (1). A cið si aggiunge, che la successione legittima e la
testamentaria, nella struttura organica del ius quiritium, muovono da un con
cetto fondamentale compiutamente diverso. Mentre infatti la suc cessione
legittima prende le mosse dal ius connubii, ed è quindi una conseguenza
dell'organizzazione giuridica della famiglia romana, il testamento invece, che
prevalse nel diritto quiritario, fu un'ap plicazione del principio: « qui nexum
faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto »; come tale, esso
prese le mosse dal ius commercii, e fu considerato come un mezzo di disporre
libe ramente delle proprie cose (2 ). Fu sopratutto questa circostanza del
l'essere le due istituzioni partite nella loro elaborazione giuridica da un
concetto fondamentale diverso, che impedì alle medesime di con fondersi e di
compenetrarsi insieme; poichè è un carattere della dialet tica quiritaria, che
gli istituti giuridici, una volta separati, obbediscano ciascuno al proprio
concetto ispiratore, nè sogliano mai confondersi con un altro, che si informi
ad un concetto compiutamente diverso. Tale sembra appunto essere la
significazione della celebre regola del giureconsulto Paolo: « ius nostrum non
patitur eundem in paganis et testato et intestato decessisse, earumque rerum
natu raliter inter se pugna est, testatus et intestatus » (3 ). Per verità (1)
Quanto al carattere diverso di queste due successioni vedi il cap. III, § 4, in
cui si discorre della successione testamentaria, ed il $ precedente relativo
alla successione legittima. (2) Questo carattere speciale del testamento per
aes et libram è attestato, ancorchè solo di passaggio, da Cic., De orat., I, 57,
§ 245; ma è poi dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad
essere ritenuto come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in
cui la volontà del testatore dominava sovrana. (3) Paolo, Leg. 7, Dig. (50-17).
Secondo il PadELLETTI, Storia del dir. rom., pag. 201, questa massima sarebbe
invece una conseguenza della superiorità esclusiva della successione
testamentaria sulla legittima; ma questo non è ancora un motivo adeguato per
impedire che le due eredità si confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato
illogico, che quel diritto, il quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai
distinte fra di loro le obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui
quelle erano partite dal concetto primitivo del nexum e questi da quello del
mancipium, avesse pui consentito, che concorressero insieme due istituzioni, le
quali muove vano da concetti fondamentali anche più distanti fra di loro.
Questo quindi fu uno dei casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi
alle nuove esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del
testamento dei soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di esaminare
brevemente un'altra gravissima questione, quella cioè della precedenza, che nel
diritto primitivo di Roma abbia avuto la successione legittima o la successione
testamentaria. Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente
seguita l'opinione, che nella evoluzione storica del diritto romano dovette
precedere la successione ab intestato, poichè la possibilità del testa mento,
anche nel diritto romano, avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in
quei casi, in cui non vi fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche
agli altri casi (1). Mentre ritengo, che questa opinione possa essere conforme
al vero, per quanto si rife risce al periodo gentilizio, nel quale il
testamento non dovette essere, che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il
suo culto, per il caso in cui non vi fossero dei figli, crederei invece, che
essa non sia con forme all'evoluzione storica, che ebbe ad avverarsi nel ius
quiritium. Sonvi infatti degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel
ius quiritium penetrd dapprima il testamento, mentre la successione legittima
vi fu solo introdotta più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una
prevalenza incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che
Ulpiano dice espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle
XII Tavole, mentre queste invece avrebbero confermata la successione
testamentaria; il che indica appunto, che il testamento era già comune ai due
ordini, e aveva già subito l'elaborazione del ius quiritium, mentre la suc
cessione legittima non sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla
legislazione decemvirale. Anteriormente a quest'epoca la suc cessione
legittima, per ciò che si riferisce agli agnati ed ai gentili, (1) SUMNER
MAINE, L'ancien droit, pag. 186. 553 doveva probabilmente essere esclusivamente
propria delle genti pa trizie, le cui consuetudini in quest'argomento erano
certo diverse dalle semplici costumanze della plebe (1). Appare poi fino
all'evidenza dalle espressioni stesse delle XII Tavole, che la successione
testamentaria ha una prevalenza indiscutibile sulla successione legittima, in
quanto che quest'ultima non può verificarsi, che quando manchi il testa mento
(si intestato moritur); il qual concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento
storico del diritto civile romano (2 ). In cid abbiamo un'altra prova, che il
ius quiritium non deve essere considerato unicamente, come il frutto di
un'evoluzione lenta e graduata delle istituzioni giuridiche, a misura che ne
occorra il bisogno, ma piuttosto come il frutto di una selezione su materiali
giuridici preesistenti. In esso infatti istituzioni più antiche penetra rono
talvolta più tardi di altre, la cui formazione nella realtà dei fatti doveva
essere più recente. Così, ad esempio, la successione le gittima, che fu certo
la prima a svolgersi nell'ordine dei fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius
quiritium, mentre il testamento, che era stato ultimo a comparire, fu il primo
ad esservi accolto, come quello che meglio rispondeva a quella potente
individualità giuridica, che era il quirite. — Cid apparirà anche più evidente
trattando del si stema delle actiones, le quali, mentre furono le prime a
formarsi nell'ordine dei fatti, furono invece le ultime ad essere elaborate nel
primitivo ius quiritium. (1 ) ULP., Fragm., XI, 3; XXVII, 5; L. 130, Dig.
(50-16 ). (2) La prevalenza della successione testamentaria sulla legittima nel
diritto civile romano è provata da una quantità grande di passi di
giureconsulti, fra i quali mi limito a citaro i seguenti: « quamdiu possit
valere testamentum, tamdiu legitimus non admittitur » (Paolo, L. 89, dig. 50,
17); « quamdiu potest ex testamento adiri hereditas, ab intestato non defertur
» (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). 554 CAPITOLO VI. Le legis actiones e la storia
primitiva della procedura civile romana. $ 1.- Le origini della procedura ex
iure quiritium. 429. Quella tecnica giuridica, di cui già si riscontrarono le
traccie nelle varie parti del ius quiritium, appare anche più rigida e se vera
nella parte, che si riferisce alla procedura delle legis actiones. È qui
sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto umano compare del tutto isolato
e disgiunto da ogni elemento estraneo, e ove l'ela borazione giuridica
dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di tecnicismo da rendere
difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti direttivi, e la logica
inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione. Alla difficoltà intrinseca
dell'argomento si aggiun sero poi altre cause, che contribuirono a mantenere in
questa parte una quantità di dubbii e di incertezze, la quale non potè del
tutto essere dileguata dalla scoperta delle istituzioni di Gaio, dalla
ricchissima letteratura, che in seguito alla medesima ebbe a svolgersi
sull'argomento (1). È noto infatti, in base alle attestazioni concordi degli
antichi au tori, che la parte dell'antico diritto, relativa alla procedura
delle legis actiones, ebbe ad essere custodita ed elaborata dal collegio dei
pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi ancora a co e (1) Anche
qui non mi propongo di dare una bibliografia completa: ma piuttosto di indicare
le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto speciale di vista, a cui mi
collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo ZIMMERN, Traité des actions,
trail. Etienne, Paris 1843; BONJEAN, Traité des actions chez les Romains, Paris
1845; il KELLER, Il processo civile romano e le azioni, trad. Filomusi-Guelfi,
Napoli 1872; BETHMANN-HOLLWEGG, Der röm. Civilprocess in seiner geschichtl.
Entwichelung, 3 vol., Bonn 1864-66, e sopratutto il primo, che tratta delle
legis actiones; BEKKER, Die Aktionen d. röm. Privatrechts, 2 vol., e sopratutto
il vol. I, pag. 18-74; KAR LOWA, Der röm. Civilprocess zur Zeit d.
Legisactionen, Berlin 1872; BUONAMICI, La storia della procedura civile romana,
Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da pag. 15 a 86; JHERING, L'esprit du droit
romain, tome 36, pag. 312 a 343; MuiraEAD, Histor. Introd., pag. 181 a 235;
Zocco-Rosa, Le palingenesi della procedura civile romana, Roma 1887; WLASSAK,
Römische Processgesetze, Leipzig 1888. 555 stituire per qualche tempo un
segreto di professione e di casta. Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di
aver modellate le legis actiones, in base alla legislazione decemvirale; egli
anzi dice con Gaio, che di qui sarebbe provenuta la denominazione di legis
actio nes, le quali poi per la prima volta sarebbero state rese di pubblica
ragione da Gneo Flavio, segretario di Appio Claudio (1). La notizia poi, che ci
pervenne di queste legis actiones, è molto imperfetta; poichè lo stesso Gaio,
che è forse il solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema
delle legis actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento, e quindi si limita
alla enu merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al
lorchè questi furono definitivamente formati, senza farci assistere alla
progressiva formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice, circa la
introduzione della legis actio per condictionem. A ciò si aggiunge, che Gaio,
discorrendo di un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si
limita a cenni assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con
gravissime lacune, quali quelle relative alla iudicis postulatio, ed alla
condictio (2 ). 430. Da questa notizia, per quanto imperfetta, si possono
tuttavia ricavare alcune illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor
tantissime per la ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu
senz'alcun dubbio quella delle legis actiones. È certo anzitutto, che anche in
questa parte il primitivo ius qui ritium non venne creando speciali procedure,
per i varii casi, che si presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche
di proce dura, che i pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai
casi particolari, per guisa che le primitive legis actiones costitui scono,
secondo l'esatta espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui
ciascuno poteva comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi
sappiamo in secondo luogo, che il sistema delle legis actiones è decisamente
informato al concetto, secondo cui la procedura per ogni controversia, che
percorresse tutti i suoi stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali, di
cui una compievasi in iure, cioè (1) Pomp., Leg. 2, § 6, Dig. (1, 2 ); Gaio,
IV, 11. (2) V. Gaio, IV, 17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare
dell'actio per iudicis postulationem, e passare poi a discorrere della legis
actio per condictionem. (3) Gaio, IV, 12, scrive:, lege agebatur modis quinque
etc. 556 davanti al magistrato, e l'altra invece seguiva davanti al giudice
singolo od al corpo collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere
rimesse dal magistrato. Mentre in iure si decideva, se in quel determinato caso
si potesse far luogo all'applicazione della legis actio, e si dava alla
fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece
giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti, in base alla
configurazione giuridica, che la controversia aveva assunto davanti al
magistrato (1). Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due ca
tegorie, ispirate ad un concetto compiutamente diverso, in quanto che vi erano
quelle, che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione
del medesimo, e costituivano così la pro cedura, che potrebbe chiamarsi
processuale o contenziosa; e quelle invece, che miravano all'esecuzione del
giudicato, e costituivano così la procedura esecutiva. Nella prima categoria
noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis postulatio, alle quali
venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per condictionem; mentre nella
seconda la vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio, che
è diretta contro la persona del debitore condannato o confesso, poichè solo in
pochi casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris
capio (2). (1) Ho già accennato altrove n ° 243, pag. 296 e seg., come la
distinzione fra il ius ed il iudicium debba considerarsi come una conseguenza
necessaria di ciò, che la pubblica giurisdizione del magistrato non estendevasi
dapprima a tutte le con troversie civili e penali, ma comprendeva soltanto
quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione domestica e gentilizia, per
essere deferite alla giurisdizione del magi strato. Di qui la conseguenza, che
ogni controversia civile ed ogni accusa penale davano anzitutto luogo ad una
questione preliminare, da decidersi in iure, in cui trattavasi di vedere, se la
controversia, o se il delitto, di cui si trattava, potessero dare argomento ad
un iudicium. Di qui le espressioni di actionem dare, iudicium dare. Questa
distinzione pertanto, fra il ius ed il iudicium, non ha nulla che fare colla
separazione tra il fatto ed il diritto: ma mira in certo modo a sceverare le
questioni, che debbono essere lasciate alla giurisdizione domestica ed agli
arbitra menti privati, da quelle, che debbono essere giudicate a secundum legem
publicam ». (2) Questa distinzione fra la procedura contenziosa e la procedura
di esecuzione non è espressamente indicata in Gaio, il quale si limita a dare
come caratteristica delle legis actiones, che esse, ad eccezione della pignoris
capio, si compievano in iure, cioè davanti al magistrato; ma tale distinzione è
comunemente accettata e può dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in
effetto a discorrere delle azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e
poi viene a parlare delle procedure esecu. tive, ancorchè queste fossero certo
più antiche della legis actio per condictionem. In questo stato di cose, la
questione fondamentale, che pre sentasi all'investigatore delle origini della
procedura quiritaria, sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba
ritenersi creato di pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla
medesima, o se invece debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu
ridici già preesistenti (1). A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo
tempo, che già fin dal periodo regio, cosi nei giudizii penali come nei civili,
si possono trovare le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium,
che venne poi ad essere fondamentale nel sistema delle legis actiones, e che
dovettero fin d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie,
certamente analoghe a quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis
actiones. Che anzi abbiam visto eziandio essere probabile, che sopratutto
all'epoca serviana, in cui si cominciò ad elaborare un ius quiritium, comune al
patriziato ed alla plebe, e si modello l'atto quiritario per eccellenza, che
era l'atto per aes et libram, siasi pure iniziata la formazione di una
procedura propria per le questioni di carattere quiritario. Le prime origini di
tale procedura sembrano accennate dalla tradizione, che at tribuisce appunto a
Servio Tullio, di aver distinto i giudizii pubblici dai privati, e di aver
ritenuto per sè la cognizione delle contro versie di maggior importanza, mentre
avrebbe affidato a giudici scelti nell'ordine dei senatori, la risoluzione
delle controversie di minor importanza. È infatti questa tradizione, che unita
alla considerazione del grande movimento legislativo, che dovette ve rificarsi
in quell'epoca, rende assai verosimile l'opinione di co loro, che farebbero
rimontare a Servio Tullo l'origine del tribu che egli ci dice essere stata
introdotta per l'ultima. Cfr. BUONAMICI, Op. cit., pag. 19 e 20. (1) È questa
la questione, che fu di recente presa in esame dallo Zocco-Rosa, Palingenesi
della procedura civile romanı, Roma 1887. Egli ridurrebbe le teorie in
proposito enunciate a tre, cioè: 1) a quella che vuol fare uscire la primitiva
procedura dal seno stesso della religione e del ius sacrum; 2) alla teoria, che
egli chiama della preesistenza delle legis actiones alle XII Tavole; 3 ) e alla
teoria della discendenza delle medesime dalle XII Tavole. Egli viene alla
conclusione ammessa dalla generalità degli autori, che prima delle XII Tavole
moribus agebatur, mentre posteriormente lege agebatur. Passa poi a cercare le
origini della primitiva proce dura consuetudinaria presso i popoli di origine
Aria, e questa sarebbe ricerca di grande interesse; ma forse per ora non si
hanno ancora materiali sufficienti per giungere ad una conclusione definitiva) nale quiritario dei centumviri, quella dei
iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la
iudicis postulatio; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale
iudicium, e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal
novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia, che accennano alla for
mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole, non impediscono
punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in tutte le sue
parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto privato di
Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale. Non parmi quindi, che
possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi autori, secondo
cui la procedura civile, se non creata, dovette almeno essere rimaneggiata, in
base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio dei pontefici, e che
in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state accomodate alla legge, abbiano
assunta la denominazione caratteristica di legis actiones. Che anzi da questo
fatto parmi si possa indurre con fondamento, che la parte del ius quiritium,
relativa alle legis actiones, dovette essere l'ultima ad essere elaborata dai
veteres iuris conditores, al lorchè già erasi formato un vero ius quiritium, e
che, ciò stante, questa parte, per essere sopraggiunta più tardi, quando le
altre già erano formate, non potè ridursi ad una semplice incorporazione di
consuetudini processuali già preesistenti, ma dovette già essere il frutto di
una selezione e di una elaborazione, a cui le medesime furono sottoposte. Nė
può ritenersi improbabile, che questa elabo razione abbia potuto essere l'opera
degli stessi pontefici, quando si ritenga, che essi da una parte erano i
custodi delle tradizioni delle genti patrizie e personificavano in certo modo
lo spirito conserva tore delle medesime, e dall'altra furono senz'alcun dubbio
i creatori della tecnica giuridica, e i primi maestri alla cui scuola si forma
rono i grandi giureconsulti della Repubblica e dei primi secoli del l'Impero.
Parmi anzi, che questa elaborazione dei pontefici, giure consulti e patrizii ad
un tempo, valga a spiegare quel doppio carattere dell'antica procedura romana,
la quale nelle proprie forme e nei proprii vocaboli richiama ancora
l'organizzazione patriarcale, mentre sotto un altro aspetto è già un capolavoro
di tecnica giuridica, che corrisponde mirabilmente alle altre parti del diritto
privato romano e al concetto del quirite, ispiratore del medesimo. A quel modo
in somma, che i veteres iuris conditores, trascegliendo fra le forme di
matrimonio e di negozii già preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti
italiche, riuscirono a sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure
quiritium, e a richiamare l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che
costituirono il diritto esclusivamente proprio della comunanza quiritaria: cosi
essi, operando una scelta fra i modi di procedere, che già potevano essersi
formati nei rap porti fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i loro
dipendenti, riuscirono a ricavarne una procedura tipica, che potè essere consi
derata come propria della comunanza quiritaria. Anche qui pertanto i materiali
certo erano preesistenti; ma il primitivo diritto romano non li accetto
senz'altro, quali esistevano, il che avrebbe dato ori gine ad una varietà di
procedure, analoga a quella che occorre presso gli altri popoli primitivi; ma
li sottopose invece ad una se lezione, riducendoli a quelle forme tipiche, in
cui tanto si compia ceva il genio giuridico romano, come lo dimostra il modo,
in cui fu rono modellate tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa
guisa, che si riuscì ad una procedura, la quale, mentre è adatta ad un popolo
agricolo e militare ad un tempo, quale era il popolo romano, porta perd le
traccie evidenti dell'organizzazione patriarcale, da cui usciva, e contiene
cosi un ricordo prezioso delle varie fasi, per cui passo lo stabilimento della
civile giustizia (1). 432. Noi abbiamo infatti veduto a suo tempo, come già
nella stessa organizzazione gentilizia, e sopratutto, allorchè al disopra della
gens venne a svolgersi la tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus,
già potessero sorgere controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di
famiglia, ed anche fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire
alla risoluzione di tali con (1) Questa spiegazione intorno all'origine delle
legis actiones ha il vantaggio di mettere d'accordo fra di loro i passi di
antichi autori, relativi a quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa
infatti può conciliarsi la vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna
Pomponio, coll'attestazione concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo
cui le legis actiones furono composte ed accomodate sulle parole stesse delle
XII Tavole. Questi due caratteri, pressochè in opposizione fra di loro, possono
conciliarsi fra di loro, quando si accetti la teoria, svolta più sotto, di
distin guere nella legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti,
cioè la parte mimica, e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una
vetustissimi iuris observantia, ed è un ricordo delle varie fasi attraversate nello
stabilimento della civile giustizia; ed è la seconda, che potè invece essere
accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO, IV, 11; POMP.,
Leg. 2, 8 6 e 24, Dig. (1,2). 560 troversie, abbia potuto dare origine a
certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità
consuetudinaria (1). Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi
di fa miglia, uguali fra di loro, che nella loro fiera indipendenza non
accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato, il quale,
anzichè giudice diretto della controversia, lo era invece della scommessa, con
cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione.
Questa è quella procedura, che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica,
e denominata actio sacra mento, le cui traccie trovansi non solo fra le genti
italiche, ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India (3).
L'altra invece fu una procedura, la quale ricorda ancora uno stato di privata
violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed
i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei
patroni, dei patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei.
Essa nelle proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio, ma
poscia fu richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio
anche violento della potestà giuridica spettante a una persona, come lo
dimostra il fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal
padrone sul servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ).
Or bene entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo
anteriore di organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius
quiritium, e vi furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti di
esso. La prima fu adottata come azione tipica, allorchè trattasi di istituire
un giudizio fra quiriti: come tale essa mira a serbare la più scrupolosa
imparzialità ed ugua glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora chi possa
essere il vincitore e chi il soccombente. La seconda invece fu adottata come
azione tipica, allorchè trattasi di procedere all'esecuzione contro chi abbia
subita una condanna, o confessato il proprio debito. (1) Quanto alla primitiva
formazione delle actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia della stessa
tribù e in quelli fra i capi famiglia e i loro dipendenti, vedi ciò, che si è
detto nel lib. I, cap. V, § 3º, pag. 130 e segg. (2 ) V. in proposito lib. I,
nº 104, pag. 135, nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of institutions,
Lect. IX; e lo Zocco- Rosa, Op. cit., pag. 209 e seg. (3 ) V., quanto alle
prime origini della manus iniectio, lib. I, nº 106, pag. 137. Cfr. CAPUANO,
Storia del diritto romano, Napoli 1878; Cugino, Trattato storico della
procedura civile romana, pag. 116; BuonamiCI, Op. cit., pag. 58. - 561 433. Di
qui provennero i caratteri compiutamente diversi del l'actio sacramento e della
manus iniectio. Nella prima abbiamo una procedura fra eguali; quindi i con
tendenti sono in certo modo attori e convenuti ad un tempo: sono le persone,
fra cui si discute, che recansi dinanzi al magistrato. Esse fingono un
combattimento fra di loro; affermano con identiche parole il proprio diritto;
fanno le medesime scommesse di 50 o di 500 assi, secondo il valore della
controversia; sono ugualmente obbligati a dare garanzia (vindicias dare) se
siano ammessi al possesso della cosa, che forma oggetto della controversia. Lo
scru polo nel mantenere l'uguaglianza non potrebbe spingersi più oltre, ed è
uguale anche il pericolo per l'uno e per l'altro dei contendenti; poichè la
somma scommessa si perde dal soccombente, e mentre nell'epoca gentilizia era
forse consacrata ad usi religiosi, nel periodo storico deve andare invece a
benefizio del pubblico erario (1). L'altra procedura invece, rozza, violenta
suppone una assoluta disuguaglianza fra i contendenti. Quella stessa legge, che
procedeva titubante e quasi diffidente per il timore dioffendere l'indipendenza
dei contendenti, non teme invece di accordare diritti illimitati e pres sochè
senza confine al creditore contro il iudicatus ed il confessus. Essa non si
preoccupa dei beni di quest'ultimo, ma dà diritto al creditore di procedere
contro la persona del debitore, di imporre sopra di lui la sua manus, e di
trascinarlo avanti al magistrato per farsi aggiudicare la persona del debitore
stesso. Questi invece non ha diritto di reagire contro la violenza del
creditore (a se de pellere manum ) né di agere pro se lege; ma solo di nominare
un altro, che faccia valere le sue ragioni (vindicem dare) (2 ). Mentre l'actio
sacramento è come una rappresentazione simbolica (vis festucaria) di quel
combattimento effettivo (vis realis), a cui poteva dar luogo una privata controversia
fra capi di famiglia indipendenti e sovrani, dell'interporsi fra essi di un vir
pietate gravis, dell'affermazione scambievole della propria ragione, fatta dai
contendenti e rafforzata da una scommessa, della quale deve esser giudice
quegli a cui le parti si sono rimesse; la manus in (1) Tutti questi caratteri
della legis actio sacramento si possono ricavare dalla descrizione di
quest'azione fatta da Gaio, IV, 13 a 17, per quanto la medesima presenti molte
lacune, sia quanto all' actio sacramento in personam, che quanto all'actio
sacramento relativa agli immobili. (2 ) Gaio, Comm., IV, 21 a 26. G. CARLE, Le
origini del diritto di Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del vincitore
contro il vinto, di colui, che ha il diritto, contro colui, il quale ne è
privo, di quegli, che può dettare la legge, contro colui, che deve subirla.
Anche la controversia è una lotta: quindi se durante la me desima deve essere
serbata l'uguaglianza, allorchè invece essa è finita, il vincitore può stendere
la propria mano sul vinto e questi è forzato ad arrendersi. Era poi naturale,
che la procedura di un popolo agricolo e militare ad un tempo, per cui l'asta
era il sim bolo del giusto dominio, venisse eziandio ad essere simboleggiata in
una specie di lotta e di conflitto. 434. È tuttavia degno di nota, che i
pontefici, nell'accogliere e nel modellare queste forme di procedura, si
attennero ad un processo del tutto analogo a quello, che abbiam visto essersi
seguito nel fog giare le forme dei negozii giuridici del diritto quiritario. Al
modo stesso, che nell'atto quiritario per aes et libram può ravvisarsi una
parte, che compievasi « dicis gratia, propter veteris iuris imitationem » e che
costituiva cosi un ricordo del passato, ed una parte veramente viva, che era la
nuncupatio, mediante cui un medesimo atto poteva accomodarsi ad una varietà
grandissima di negozii, anche di carattere compiutamente diverso; cosi anche
nella procedura primitiva, miri essa ad istituire un giudizio od alla
esecuzione di un giudicato, possono facilmente distinguersi due parti, che
compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi anzitutto una parte, che
potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre uniforme ed uguale, la quale
è mantenuta evidentemente più come un ricordo del passato, che per l'utilità
effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra la disinvoltura, con cui si
accettano gli espedienti, che mirano a semplificarla. Questa parte nell'actio
sacramento è rappresentata dal recarsi sul luogo, ove trovasi l'oggetto in
contestazione, se trattisi di immobile; dal portare davanti al magistrato la
cosa mobile o una particella di essa; dal simbolo della festuca, che
adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum consertio, dalla mutua provocatio,
e dal sacra mentum. Nella manus iniectio invece essa è rappresentata dal fatto
di adprehendere manu qualche parte del corpo del proprio debitore. È questa
parte mimica, la quale, costituendo in certomodo una soprav vivenza, col tempo
divento pressochè incomprensibile, e potè talvolta essere posta in derisione,
anche da autori antichi e fra gli altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che
lo stesso Cicerone, allorchè scrisse 563 nell'interesse del vero e non in
quello del cliente, non dubito di dichiarare, che era di grande diletto questa
impronta di vetusta, inerente alle legis actiones, e di affermare che: «
actionum ge nera quaedam maiorum consuetudinem vitamque declarant» (1). Queste
formalità infatti, conservateci da un popolo, che, più di qualsiasi altro,
seppe sceverare l'essenzialità del fatto umano dalle circostanze accidentali
del medesimo, sono anche oggidi un impor tantissimo documento del modo di
pensare e di agire. che era proprio delle primitive genti italiche. Intanto
perd, accanto a questa parte, il cui mantenimento era l'effetto dello spirito
conservatore del popolo romano, eravi eziandio la parte veramente viva ed
attuosa, e questa consisteva in quelle concezioni verbali, solenni e precise
(conceptiones verborum, verba concepta, certa verba ), che servivano a dare una
configurazione giuridica alle varie fattispecie e a farle entrare nella veste
rigida delle legis actiones (2). Era in questo modo, che, malgrado la va rietà
infinita delle fattispecie, si riusciva ad isolare l'obbiettività giuridica
delle medesime e a richiamarle tutte a pochissimi genera agendi. Questo era
l'ufficio, a cui attesero dapprima i pontefici, poi il pretore, e da ultimo i
giureconsulti, e fu con questo magistero che la sola actio sacramento fini per
essere accomodata a tutte le controversie di carattere quiritario, e la sola
manus iniectio poté bastare a qualsiasi procedura esecutiva. Vuolsi quindi
conchiudere, che queste due legis actiones costi tuiscono in certo modo il
nucleo centrale della procedura quiritaria. Esse sono quelle, in cui si può
leggere il modo di pensare e di agire del primitivo quirite, fiero,
indipendente, geloso del proprio (1) Co., Pro Murena, vol. 2, scherza
spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla proprietà di un fondo,
dimostrando come le forme primitive avessero complicata una procedura, che
avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De orat., I, riconosce
eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in questo studio
dell'antico, allorchè scrive: « Nam si quem aliena studia delectant, plurima
est in omni iure civili, et in pontificum libris, et in XII Tabulis
antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et
actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant. (2) A mio
avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della
nuncupatio nell'atto per aes et libram. Ciò sarà meglio dimostrato più sotto,
nº 449, ed apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole
atte nersi il primitivo diritto romano. 564 diritto, finchè la sentenza non sia
pronunziata; umile, sottomesso, pronto ad abbandonare se stesso al proprio
creditore, allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria. Intanto
però, accanto a queste due procedure fondamentali, se ne vennero svolgendo
delle altre, che sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di ri cercare
lo svolgimento storico, così della procedura contenziosa, che della procedura
esecutiva. § 2. – Lo svolgimento storico della procedura contenziosa nel
primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo centrale
della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi sappiamo
però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la iudicis
postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri, e che
alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per condictionem.
Importa quindi di determinare la funzione, che questi vari genera agendi
esercitarono sulla pri mitiva procedura, e di ricercare eziandio l'ordine
progressivo della loro formazione. Delle antiche legis actiones, quella,
intorno a cui ci pervennero maggiori notizie, è certo l'actio sacramento. Noi
sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che poteva essere
adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata introdotta altra
speciale procedura, si trattasse di agere in rem, od anche di agere in personam.
Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non doveva esistere ancora la
distin zione fra l'azione in rem e l'azione in personam; il che però non
impedisce, che essa presentasse delle differenze nelle solennità e nelle
espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere in rem o di agere in
personam. Cosi pure in essa non vi è ancora la distin zione netta e precisa fra
l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono attori e convenuti ad un tempo,
come lo dimostra l'identità delle espressioni da essi adoperate. Infine essa
non conduce alla ri soluzione diretta della controversia, ma piuttosto a
giudicare quale dei due contendenti abbia affermato il vero e quale il falso, e
quale perciò debba essere soccombente nella scommessa fra i medesimi
intervenuta (utrius sacramentuin iustum, utrius sacramentum in iustum sit);
cosicchè in essa il soccombente, oltre al perdere in 565 - direttamente la lite,
corre anche il rischio di perdere la scom messa (1). Noi sappiamo poi, quanto
alle controversie che dovevano rivestire la forma di questa legis actio, che
essa costituiva un preliminare indispensabile per tutte le cause di carattere
veramente quiritario, le quali erano sottoposte al centumvirale iudicium, ed
anche per quelle relative alla verità ed allo stato delle persone (caussae
liberales), quanto alle quali noi sappiamo, che il sacramentum era solo di
cinquanta assi (quinquagenarium ), e che esse erano devolute ai decemviri
stlitibus iudicandis (2 ). Tutti questi caratteri imprimono un suggello di
vetustà all'actio sacramento, e ci richiamano a quella potente sintesi, che è
carat teristica del primitivo ius quiritium, in cui non distinguesi ancora fra
diritto personale e reale, fra attore e convenuto, fra la provo. catio e la
litis contestatio. Si comprende quindi, che la mimica, che la precede, sia come
un ricordo dei varii stadii, per cui passò lo stabilimento della civile
giustizia, fra i capi di famiglia, e che essa, trapiantata dall'organizzazione
gentilizia nella città, sia stata rico nosciuta come l'azione tipica del
diritto quiritario. Ciò spiega eziandio come essa, mentre è certamente la più
antica, sia stata anche la più duratura delle legis actiones; poichè, quando le
altre furono abolite, continud pur sempre ad essere mantenuta qual preliminare
al centumuirale iudicium, cioè davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che
può essere considerato come il tribunale essenzial mente quiritario, sia per il
modo, in cui era composto, sia per le controversie, che gli erano sottoposte,
che erano appunto quelle, che riguardavano la posizione di ciascun cittadino
nel censo, e quindi anche nello Stato (3). (1) GAIO, IV, 13 a 17: Cic., Pro
Caecina, 33, ove dice, che in una causa da lui trattata per la libertà di una
certa Aretina fu deciso, che il suo sacramentum era iustum. Di qui le
espressioni: iusto sacramento contendere, iniustis sacramentis petere. (2) La
necessità della legis actio sacramento, per una causa da istituirsi davanti al
centumvirale iudicium, è dimostrata dal fatto che, secondo Gaio, IV, 31, anche
dopo l'abolizione delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa
guisa: a domini infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit ». È
poi lo stesso Gaio, IV, 14, il quale ci attesta, che le cause di stato erano
precedute dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle
XII Tavole il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta
assi. L'uso del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da
Cic., Pro Caec. 33. (3) La competenza del centumvirale iudicium, per le cause
di carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello, che ci
pervenne intorno alla legis actio per iudicis postulationem. Dal palimpsesto di
Verona non si potè ritrarne, che il titolo, mentre da Valerio Probo si ricavo
la formola, che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice o di un
arbitro: iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono indicati
varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere indeterminato, che
suppongono una certa libertà di apprezzamento, e che talvolta sono anche
designate col vocabolo di iurgia, piuttosto che con quello di lites, si propone
la nomina di uno o più arbitri (1). Bastano tuttavia questi pochiindizii per
dimostrare le molte e gravi differenze, che la contraddistinguono dall'actio
sacramento. Essa in fatti già suppone la persona dell'attore distinta da quella
del conve nuto; suppone una amministrazione della giustizia già organizzata, in
cuiil magistrato procede alla designazione del giudice; conduce alla
risoluzione diretta della controversia; non trae più con sè, per quanto almeno
noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una scommessa. Essa parimenti,
come lo indica la sua denominazione, non conduce più alla rimessione dei
contendenti avanti ad un tribunale collegiale, come quello dei centumviri e dei
decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum, nel vero senso della parola,
in cui il giudice o l'arbitro, secondo un antichissimo costume ro mano,
dovevano essere concordati fra le parti (2 ). Essa infine differisce eziandio
dall'actio sacramento per il ca rattere di indeterminatezza delle controversie,
che ne formavano oggetto, le quali supponevano una certa libertà di
apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata dall'enumerazione fatta di tali
cause da Cic., De orat., I, 38. (1) I casi, in cui la legge decemvirale parla
di nomine di arbitri, sono quelli relativi al regolamento di confini: « si
iurgant de finibus, tres arbitros dato »; alla divisione dell'eredità fra i
coeredi (actio familiae erciscundae); all'apprezzamento del danno dato
dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae arcendae) e qualche altro caso
analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano, $ 7, pag. 25; ORTOLAN, Expli
cation historique des Institutes de Iustinien, Paris 1883, III, pag. 494. (2 )
Sebbene non si possa dire, che il centumvirale iudicium si contrapponga in
senso stretto al iudicium privatum, tuttavia occorrono passi di autori, in cui
i centumviri sono contrapposti al privatus iudex, come in Cic., De or., I, 38,
39; in Quint., Instit. or., 10, n ° 115, ove scrive: « alia apud centumviros,
alia apud iudicem privatum in iisdem quaestionibus ratio ». Cfr. ZIMMERN,
Traité des actions, pag. 36, nota 3 e 4. 567 - — nel giudice o nell'arbitro
chiamato a risolverlo; cosicchè, di fronte al iudicium directum, asperum,
simplex, che era istituito col l'actio sacramento, essa iniziava di preferenza
un iudicium od un arbitrium moderatum, mite, in cui cominciava ad essere
lasciata qualche parte a quell'equità e buona fede, che erano escluse dalle
forme rigide e precise del primitivo ius quiritium. Al qual pro posito vuolsi
eziandio notare, che quando si confronti la denomi nazione attribuita da Gaio a
questa legis actio, che è quella di iudicis postulatio, colla formola serbataci
da Valerio Probo, secondo la quale si domanda un giudice od un arbitro, è
lecito di inferirne, che in essa dovette avverarsi uno svolgimento storico.
Essa dapprima infatti dovette implicare soltanto la nomina di un iudex, sotto
il quale vocabolo si comprendeva anche l'arbiter. Più tardi invece, e
probabilmente in seguito alla legislazione decemvirale, la quale am metteva per
certe questioni anche la nomina di arbitri, essa dovette porgere occasione a
quella distinzione fra iudicium ed arbitrium, la quale presentava ancora tante
incertezze all'epoca di Cicerone. Questi caratteri presi insieme mi
condurrebbero alla conclusione, che la iudicis postulatio non presenti più quell'impronta
di vetustà, che è propria dell'actio sacramento, e non possa perciò considerarsi
come una procedura di carattere patriarcale, trasportata a Roma. Essa invece
dove già formarsi sotto l'influenza della vita cittadina, e dove probabilmente
essere una conseguenza della stessa formazione del ius quiritium. Siccome
infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la formazione, il ius
quiritium non costitui mai tutto il diritto di Roma, ma solo quella parte di
esso che corrisponde al concetto del quirite, e che primo era riuscito a
consolidarsi mediante il riconoscimento di una lex publica. Cosi ne consegui
necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere fra i
cittadini, si divi [Cic., Pro Mur.,osserva, scherzando, che i giuristi non si sono
ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex o di arbiter. La
difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la distinzione fra
iudicium e arbitrium, fra il ius strictum e l'aequitas, fra la lis e il iurgium,
è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai definitivamente
risolte. Cfr. KELLER. Quanto alla differenza fra iudicium strictum e arbitrium,
mi rimetto al “De exceptionibus in iure romano” (Torino)] dessero naturalmente
in due categorie. Vi erano da una parte le controversie di carattere
eminentemente quiritario, relative al caput, alla manus, al mancipium, all'atto
per aes et libram, ai negozii rivestiti della forma del medesimo (nexum,
mancipium, testamentum ), all'eredità e alla tutela legittima; le quali, per
poggiare sopra una legge o sopra un atto od un negozio di carattere quiritario,
potevano ridursi in certo modo ad una affermazione o ad una negazione, ed
accomodarsi così alle forme rigide dell'actio sacramento. Vi erano invece
dall'altra parte quelle controversie, le quali, o per l'indeterminatezza del
loro oggetto, o per supporre una certa latitudine di apprezzamento in chi era
chiamato a giudicarle, o per dipendere più dalla consuetudine, che da una vera
legge, abbisogna vano in certo modo più di un arbitro, che non di un giudice,
nel significato ristretto, che ebbe ad assumere più tardi questo vocabolo.
Quest'ultime pertanto richiedevano una procedura più semplice, non accompagnata
dai pericoli dell’actio sacramento, in quanto che le parti contendenti possono
anche in parte essere nella ragione ed in parte essere nel torto. Quindi è
probabile, che siano state appunto queste controversie, le quali, al punto di
vista quiritario, hanno minor importanza, che Servio Tullio comincia a deferire
al iudex privatus, introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così
pure non è punto improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio
le prime controversie di carattere quiritario si indicassero col vocabolo di
vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col vocabolo di iurgia.
Siccome poi col tempo, una parte di quel diritto, che in certo modo esiste allo
stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius quiritium, fini per essere
attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle forme rigide e precise del
diritto quiritario. Cosi si può comprendere, come col tempo la iudicis
postulatio, che dapprima ha un carattere sussidiario, puo entrare anch'essa a
far parte del sistema delle legis actiones. Ciò anzi dovette avvenire naturalmente,
allorchè la legislazione decemvirale accolge la iudicis arbitrive postulatio,
come lo dimostrano le controversie, [L'opinione qui svolta, circa i rapporti
fra l'actio sacramento e le iudicis postulatio, si avvicina a quella enunziata
da KARLOWA (“Der röm. Civilprozess”) per cui essa prescrisse al magistrato di
addivenire alla nomina di un giudice, o di uno o più arbitri. Da quel punto la
iudicis postulatio entra a far parte del sistema della procedura civile romana.
Costitui ancor essa una legis actio; che anzi, per il minor pericolo che
offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento, come lo
dimostra Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di azioni alla iudicis
postulatio, che alla stessa actio sacramento. Questo svolgimento poi fu
sopratutto favorito dalla distinzione, che si opera nella stessa iudicis
postulatio, fra il iudicium e l'arbitrium, il quale ultimo, accompagnato dalla
clausola “ex fide bona”, fini, secondo l'attestazione di Cicerone, per essere
applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in tutti quei negozii, in
cui domina la buona fede, quali sarebbero la società, la fiducia, il mandato,
la vendita, la locazione, e simili. Questi negozii infatti, negli inizii, sono
ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium, e come tali non potevano formar
tema dell'actio sacramento, ma solo della iudicis postulatio, alla quale
probabilmente dovette appartenere la clausola conservataci dallo stesso
Cicerone – “uti ne propter te fi demve tuam captus fraudatusve siem.” Pervenuto
a questo punto nella storia della primitiva procedura romana, parmi opportuno
di arrestarmi alquanto all'esame di un istituto, il quale, malgrado le sue
modeste apparenze, dovette tuttavia esercitare una potente influenza sullo
svolgimento della medesima. Esso è quell'antichissimo istituto, che è indicato
col vocabolo di “reciperatio”, ed al quale si rannoda senz'alcun dubbio quella
categoria di giudici, o di arbitri, che vengono sotto il nome di recuperatores.
Si è veduto in proposito, che nelle consuetudini delle genti italiche era
indicata col vocabolo di “reciperatio” quella clausola, che soleva aggiungersi
aitrattati di amicitia e di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui
stipulavasi fra esse un diritto di reciproca actio, cosicchè i cittadini di un
popolo potevano chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il magistrato
di un altro. Era con [Voigt (“XII Tafeln”) assegna alla iudicis arbitrive postulatio
ben XXXV azioni, di cui IX apparterrebbero agl’arbitria, e il rimanente ai iudicia
propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd., -- Cic., De offic.] questa
clausola, che la protezione giuridica, in base ad un trattato (foedus),
comincia ad oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per
estendersi a quelli di un altro, con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa
poi aveva questo di particolare, che pone in certo modo di riscontro i diritti
dei due popoli, e rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores,
tolti anche da popoli diversi, in quanto che i medesimi doveno rappresentare
l'elemento cittadino e lo straniero ad un tempo. Quando poi si ritenga, che
Roma usci essa stessa dalla confederazione di genti di origine diversa, e fin
dalle proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e
colle alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la “reciperatio”
sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente, e ha col tempo assunto il
carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei rapporti fra i cives ed
i peregrini. Cio è dimostrato dal fatto, che gl’antichi autori indicano talvolta
la “recuperatio” col vocabolo caratteristico di actio, e che in Roma i
recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed i peregrini, si
cambiarono in una categoria di giudici, che potevano essere nominati anche per
le controversie inter cives, e sopratutto dal bisogno sentito più tardi di
creare un “praetor peregrinus” “qui inter peregrinos ius diceret.” La reciperatio
s’applica anche al ius pacis, nei rapporti fra le varie genti. Se fosse lecito
di paragonare istituti, che si svolsero a distanza di migliaia di anni,direi
che la reciperatio, nel passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città nel
mondo an tico, corrispose a quella istituzione, che pure ebbe a svolgersi nel
periodo di forma zione degli Stati moderni, e che si esplicò col nome analogo
di reciprocanza di diritto, la quale consisteva nell'accordare agli stranieri
quella stessa protezione di diritto, che fosse accordata ai nostri concittadini
nello stato, a cui gli stranieri ap partenevano. In quei tempi antichissimi la “reciperatio”,
come nei tempi moderni la reciprocanza, concorsero alla formazione dell'idea di
una comunanza di diritto fra i diversi popoli, che presso i romani prenderà il
nome di ius gentium, e che nell'età moderna e dal Savigny indicata col nome di
comunanza di diritto, la quale, secondo il grande fondatore della scuola
storica, dove essere posta a fondamento del diritto internazionale. V. Savigny,
“Traité de droit romain,” trad. Guenoux. Quanto ai rapporti poi, che
intercedono fra il concetto dell'antico ius gentium, e questa comunanza di
diritto fra gli stati moderni, mi rimetto ad altro mio lavoro col titolo, “La
dottrina giuridica del fallimento nel diritto internazionale private” (Napoli) come
pure all'opera, “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale” (Torino).
Quanto all'influenza, che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera [Queste
circostanze intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più
antichi tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una,
propria dei quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario; l'altra
invece, applicabile ai rapporti fra cittadini e stranieri, e percid più
semplice e spedita. Siccome pero uno stesso magistrato sovraintendeva dapprima
all'una e all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione singolare
di proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di sentire
dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi
giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana
certe semplificazioni, che sono invece proprie della reciperatio. Di qui una
scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continua
ancora, allorchè l'accrescersi delle controversie condusse a dividere la
iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di “praetor
urbanus” e di “praetor peregrinus” portano le traccie del dualismo, che essi
rappresentano. E questo il motivo per cui, a quelmodo stesso, che i
recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i
cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei
rapporti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite, per
essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma. Che anzi la coesistenza di
queste due procedure dovette, a mio tores, i quali diventarono col tempo una
istituzione romana e sono i modesti preparatori della maggior opera, che doveva
poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno 512
dalla fondazione di Roma (KELLER, “Il processo civile romano”, ZIMMERN, “Traité
des actions,” JHERING, “L'esprit du droit romain”, KarLOWA, “Röm. Civil
prozess,” Bouché-LECLERQ, “Instit. rom.,” MUIRHEAD, Histor. introd., quanto
all'applicazione della recuperatio inter cives. Keller nota a ragione che il
riguardare la legis actio come propria soltanto dei cittadini romani, è una
asserzione più volte prodotta, ma non pienamente giustificata. Noi sappiamo
anzi da Gaio, che coll'actio sacramento poteva procedersi, anche davanti al
praetor peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus nomina dei
recuperatores, anche per cause inter cives; ma ciò venne appunto ad essere
l'effetto di questa esistenza contemporanea delle due procedure, la quale
condusse ad uno scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che
negli inizii le cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano
quelle, che si recano davanti al centumvirale iudicium, non potevano essere che
assolutamente proprie dei cives romani o dei latini, o dei peregrini, a cui
fosse stato esteso il ius quiritium.] avviso, servire a preparare lentamente
certi effetti, chenegli avvenimenti posteriori appariscono pressochè repentini.
Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali cause, per cui,
accanto al concetto rigido del ius civile, si dovette venir gradatamente
delineando nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circondavano, il
concetto più largo di un ius gentium, il quale, una volta formato, doveva poi
recare cosi profonde trasformazioni nel primo. Cosi pure egli è probabile, che
il pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai terminidi una legge,
dovette avere una maggior libertà nel formolare giuridicamente la controversia,
il che lo pose in condizione di poter lentamente preparare, fin da quel tempo,
in cui fra i cittadini duravano ancora le legis actiones, quel sistema delle
formulae, il quale col tempo dove poi essere accolto dal ius civile. Infine,
per non spingere troppo oltre le induzioni, parmi eziandio probabile, che
quella “egis actio per condictionem,” che ultima comparve nel sistema delle
legis actiones, siasi modellata sulla condictio, che certo già esisteva nella
procedura della recuperatio. Noi sappiamo infatti, che questa era appunto
iniziata, mediante una condictio, in quanto che i contendenti condicebant diem,
ossia fis savano di comparire fra XXX giorni, avanti il magistrato, per ot
tenere la nomina dei recuperatores; come lo dimostrano le espres sioni, che
occorrono nelle XII Tavole, di « status, condictus dies cum hoste », il quale
doveva essere sacro per modo da essere un legittimo impedimento a comparire in
un giudizio fra cittadini. Sembra tuttavia, che vi fosse una differenza fra la
condictio nella procedura inter peregrinos, e la condictio come legis actio
inter cives; poichè, mentre nella prima era in certo modo concordato il giorno
di comparire avanti al magistrato, nella seconda invece, secondo la descri
zione di Gaio, era l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario
denuntiabat) di comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem
capiendum (2 ). (1) Quanto all' influenza del praetor peregrinus nel preparare
il sistema delle formole e dell'editto provinciale nell'estendere il concetto
del ius gentium è da ve dersi il Glasson (“Étude sur Gajus,” Paris). Cfr.
Carle, “L'evoluzione storica del diritto romano” (Torino). Secondo Voigt, XII
Tafeln, la legge II, Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a
comparire avanti il magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum
hoste. Cfr. quanto alla “condictio cum hoste,” il MuruEAD]. Anche intorno alla
legis actio per condictionem ci per vennero notizie molto scarse, in quanto che
il manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in cui egli,
accingendosi a parlare della legis actio per condictionem, sembrava accennare
alle origini di essa. Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si può ricavare:
lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella condictio, o meglio
nella denuntiatio, che l'attore faceva al conve nuto di comparire fra XXX
giorni ad iudicem capiendum; 2º che nella medesima quella scommessa, che
occorreva nel sacramentum, appare surrogata dalla sponsio et restipulatio
tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della controversia,
deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo di pena; 3º
che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le obbligazioni di una
certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle obbligazioni di una certa
res: leggi, che sogliono essere assegnate approssima tivamente al principio del
sesto secolo di Roma (anni 510 a 520 U. C.). Quanto alla causa, per cui la
condictio ha ad essere intro dotta, essa forma oggetto di discussione fra i
giureconsulti, i quali ha ad osservare, che per le controversie di questa
natura possono servire le anteriori legis actiones. Ricomponendo tuttavia
questi pochi indizii col resto, che sappiamo delle legis actiones, si possono
ricavare alcune importanti illazioni. È certo anzitutto, che la condictio non e
del tutto nuova, nè quanto al nome, nè quanto alla sostanza, e non è punto
improbabile, che fosse una imitazione della condictio, propria della procedura
inter cives et peregrinos. Essa poi e accolta nel sistema delle legis actiones
per le controversie, che volgevano o intorno ad una certa pecunia o intorno ad
una certa res. Quindi, riguardando obbligazioni relative ad un certum, essa
dovette restringere il dominio della [Gaio. Quanto alla stipulatio et restipulatio tertiae
partis essa non è accennata nel testo mutilato di Gaio, relativo alla legis
actio per condictionem. Ma noi possiamo indurne la esistenza da ciò, che egli
dice altrove, che questa stipulatio et restipulatio tertiae partis fa parte
dell’actio certae creditae pecuniae propter sponsionem. Ora l' “actio certae
creditae pecuniae”, nel sistema formolario, succedette alla legis actio per
condictionem. Quindi se essa ritiene questo carattere, che certamente sa di
antico, e richiama sott'altra forma la scommessa del “sacramentum”, dove certo
ereditarlo dalla medesima. È poi lo stesso Gaio accenna ai dubbi fra i
giureconsulti circa il motivo, per cui fu introdotta questa nuova legis action]
actio sacramento, anzichè quello della iudicis postulatio, la quale e propria
delle controversie di carattere indeterminato. Per tal modo, la condictio si
presenta come una semplificazione dell'actio sacramentu. Abolisce tutta la
parte mimica del sacramentum. Sostituisce, quanto alle obbligazioni aventi per
oggetto un certum, il giudice singolo al tribunale popolare dei centumuiri. Infine
surroga alla scommessa, che anda a beneficio dell'erario, la sponsio et
restipulatio tertiae partis, che va invece a benefizio del vincitore delle lite.
Quanto alla causa storica, che può aver determinata questa semplificazione
nella procedura relativa alle obbligazioni di un certum, essa deve certamente
essere cercata in qualche importantissima tra sformazione, che dovette
avverarsi nell'epoca della Lex Silia e Calpurnia, quanto alle obbligazioni di
carattere quiritario. Qui per tanto viene ad aprirsi un largo campo alle
congetture. Ma è possibile di giungere a qualche risultato probabile, se si
tenga dietro al processo storico del ius quiritium nella parte relativa alle
obbligazioni. A questo proposito si è dimostrato a suo tempo, che la forma
primitiva dell'obbligazione ex iure quiritium e quella del l'atto per aes et
libram, che piglia il nome di nexum. Colla medesima il debitore sottoponeva
senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio, per il caso
che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa parte però il
ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la Lex Poetelia tolse
di mezzo gl’effetti speciali del nexum, negando al medesimo l'efficacia di
un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel momento il
nexum cessa di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima e, e comincia a
cadere in disuse. Ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi,
esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una
certa pecunia, o di una certa res, quali furono ad esempio la “sponsio” o “stipulatio”,
la expensi latio o litteris obligatio, o infine la mutui datio, di cui formano
oggetto quelle cose “quae numero, pondere acmensura constant.” Per tutte queste
obbligazioni di un certum, non essendo più consentita la immediata manus
iniectio, che un tempo era con- [Cfr. in Keller e il Buonamici, “Proc. civ. rom.”]
-sentita per il nexum, non puo più esservi altra procedura, che quella
dell'actio sacramento, la quale, per il pericolo, che vi e inerente, non puo a
meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa, il cui
credito risulta in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile. Si
comprende pertanto, che prima la lex Silia, per una certa pecunia, e poi la lex
Calpurnia, per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento la legis
actio per condictionem, in cui evvi ancora un vestigio dell'antica scommessa
nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non va più a
benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il vincitore
ed una pena per il soccombente. Siccome poi nel diritto romano ogni istituto,
che riesce a pene trare nella compagine di esso, ben presto si rivendica il
posto, che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può essere capace;
così la condictio, appena fu ammessa come legis actio, essendo più semplice,
più spedita, meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per richiamare a sè
stessa tutte le controversie relative all'obbligazione di un certum, mentre
l'actio sacramento si circoscrive a tutte quelle controversie, che hanno il
carattere di una vindicatio, intesa in largo senso. Di qui consegui col tempo,
che il vocabolo di “condictio”, nel linguaggio giuridico, divenne pressochè
sinonimo di “actio in personam”, mentre l'actio sacramento finì per significare
di preferenza l'actio in rem o la vindicatio. Ha quindi tutte le ragioni Gaio
di accusare di improprietà l'uso, che facevasi ai suoi tempi, del vocabolo di “condictio”
per indicare l' “actio in personam”, poiché l'essenza della primitiva condictio
non consiste tanto nel dari oportere, quanto piuttosto nella denuntiatio diei.
Ma ciò punto non toglie, che di fatto, in virtù di un lungo processo storico,
verificatosi nel sistema delle legis actiones, l'actio sacramento si riduce alle
sole vindicationes, mentre la condictio e in sostanza divenuta la forma, sotto
cui facevansi valere tutte le actiones in [(1) Cf. il nexum -- ove trattasi
appunto del comparire della mutui datio e della stipulatio, in surrogazione del
nexum primitivo, che anda in disuso. Anche il MUIRHEAD stiene un'opinione
analoga a quella proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta
contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per
condictionem. Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la
stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi.] personam,
e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio in personam. Intanto
dalle cose premesse può esser ricavato il seguente svolgimento storico della
procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones. Le due procedure più
antiche, le quali rimontano probabilmente ad epoca anteriore alla fondazione
stessa di Roma, sono l'actio sacramento e la reciperatio. Quella è la procedura,
che e accolta come esclusivamente propria dei quiriti, per le questioni di
carattere quiritario, e quindi negli inizii dove essere la legis actio
fondamentale del ius quiritium, nello stretto senso della parola. Questa invece
si applica nei rapporti inter peregrinos ed anche in quelli inter cives et
peregrinos. Siccome però a Roma e continuo l'attrito fra i cives ed i
peregrini, e l'una e l'altra procedura segue davanti allo stesso magistrato,
così ne venne, che le due procedure finirono per esercitare scambievole
influenza l'una sull'altra. Cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite
della procedura inter cives et peregrinos finirono talvolta per essere
trasportate ed accomodate alle esigenze del diritto civile romano. Così, ad
esempio, allorchè fra i cittadini, accanto alle vere lites di carattere
quiritario, che per la precisione ed esattezza di questo diritto, potevano
risolversi affermando o negando, si svolsero delle questioni di carattere più
indeterminato, che chiamavansi piuttosto iurgia, accanto all’actio sacramento,
che continua ad essere l'a zione tipica del ius quiritium, comincia a svolgersi
la iudicis postulatio, la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare
eziandio nel novero delle legis actiones. Per tal guise, le controversie, che
hanno per oggetto un certum, si trattano coll'actio sacramento. Quelle invece,
che riguardano un incertum, danno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi
di queste due legis actiones fini- [Gaio, dopo aver detto, che l'essenza
dell'antica legis actio per condictionem consiste nella denuntiatio diei,
aggiunge: « nunc vero non proprie condictionem dicimus actionem in personam,
qua intendimus dari oportere; nulla enim hoc tempore eo nomine denuntiatio fit.”
Gaio ha ragione dal suo punto di vista, perchè l'essenza dell'actio in personam
ai suoi tempi sta non più nella denuntiatio diei, ma nel dari oportere. Ma
storicamente lo scambio della parola si era operato, perchè nel sistema delle
legis actiones la condictio era divenuta la forma, sotto cui si proponevano
tutte le actiones in personam aventi per oggetto un certum.] per subire una
suddistinzione. Quando infatti, accanto all'actio sacramento, penetra la
condictio, la prima fini per restringersi alle vindicationes, e questa invece attire
a sè tutte le actiones in personam, che avessero per oggetto un certum, e
divenne quasi si nonimo di actio in personam. Cosi pure, allorchè nel diritto
civile romano penetra in parte la considerazione dell'aequitas e della bona
fides, nel seno della iudicis postulatio si opera pure una distinzione; poichè
essa puo dar luogo o alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un
arbitro, secondo la larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro
affidata nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni
di equità. Intanto però, mentre si ha questo svolgimento storico, è probabile,
che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, imitano
delle procedure, che già si applicano nei rapporti inter cives et peregrinos.
Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis actiones, si
vennero preparando tutte quelle distinzioni di actiones, che poterono poi
acquistare un libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali sono le
distinzioni fra la vindicatio e la condictio; fra l'actio in rem e l'actio in
personam; fra le actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le actiones certae e
le incertae; fra l'actio nesin ius conceptae e le actiones in factum. Si può
quindi conchiudere che, anche in tema di procedura, tutte le varietà e
distinzioni delle azioni sembrano procedere da un'unica forma tipica, che è
quella dell’ “actio sacramento”, la quale fu il nucleo centrale, intorno a cui
si svolge la procedura contenziosa del diritto; ma che accanto alla medesima
fin dai primi tempi fuvvi la reciperatio per le controversie inter cives et
peregrinos, dalla quale dovettero essere mutuate certe procedure più semplici,
come quella della “condictio”. E poi eziandio in questa procedura, che dove
essere applicata dal praetor peregrinus, che comincia a prepararsi quel
concetto del ius gentium, e quel sistema delle formulae, che esercitarono poi
tanta influenza sul diritto civile romano. Mentre nella procedura contenziosa il
diritto cerca di mantenere la più rigorosa IMPARZIALITA fra i contendenti, esso
invece apre l'adito ad una procedura ben più decisiva, allorchè la lotta fra i
contendenti giunse al suo termine, e trattisi di procedere all'esecuzione
contro il soccombente. Anche il linguaggio giuridico sembra allora richiamare
un'epoca di violenza. Ciascuno e vindice del proprio diritto. Noi veniamo cosi
a trovarci di fronte alla manus iniectio e alla pignoris capio, di cui quella
sembra avere il carattere di una esecuzione contro la persona del debitore, e
questa invece il carattere di una pignorazione contro i beni del medesimo. È
tuttavia facile lo scorgere, che nella procedura quiritaria si preferisce
nell'esecuzione di procedere contro la persona del debitore, anzichè contro i
beni del medesimo. Infatti nel diritto il modo generale di esecuzione per le
obbligazioni viene ad essere la manus iniectio, che è diretta appunto contro la
persona. Mentre la pignoris capio riveste in certo modo il carattere di un
privilegium, e viene così ad essere ristretta a pochissimi casi, che furono
specificamente introdotti o dalla legge o dal costume, e determinati dalla
natura del credito. Intanto nell'una e nell'altra procedura già apparisce
evidente, che se i vocaboli richiamano ancora l'uso della forza, questa pero
viene già ad essere regolata dall'impero della legge; poichè è questa che
determina i varii casi, in cui può ricorrersi all'uno od all'altro modo di
esecuzione. Incominciando dalla manus iniectio, noi troviamo che la medesima,
nel ius quiritium, compare sotto forme diverse, che vogliono essere tenute ben
distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la manus iniectio, a cui puo appigliarsi
il padrone col servo, che avesse cercato di sottrarsi al suo potere, e questa
era una conseguenza della podestà del padrone sul servo, di cui rimasero le
traccie nella “vindicatio in servitutem”. Un'altra forma era quella invece, a
cui dava origine l'obbligazione solenne del “nexum”, in base a cui il debitore,
che non paga a scadenza, poteva, anche senza l'intervento del magistrato,
essere trascinato nella casa del debitore, e quivi essere ridotto a condizione
pressochè servile, fino a che non avesse soddisfatto il proprio debito. Vuolsi
qui aggiungere, che Gaio accenna perfino al dubbio surto fra i giureconsulti,
relativamente alla natura della pignoris capio, che alcuni ritenevano non
essere una legis actio, in quanto che la medesima, sebbene si compiesse certis
verbis, a differenza tuttavia delle altre legis actiones, extra ius
peragebatur, e poteva perfino compiersi *in giorno nefasto*. Questa manus
iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore alla legislazione decemvirale,
ed era una conseguenza del rigore dell’obbligazione quiritaria, contratta colle
formedell'atto per aes et libram. Questa e quella manus iniectio, la quale,
applicata sopratutto nei rapporti coi debitori plebei, da origine a quelle
dissensioni civili, a proposito dei nexi, a cui cercò di porre termine la Lex
Poetelia nel 428 di Roma. La Lex Poetelia però non e ancora una vera legis
actio, in quanto che non fondavasi sulla legge, ma derivava direttamente dal
rigore dell'obbligazione quiritaria, assunta colle forme del nexum, nella quale
la volontà manifestata dalle parti costituiva legge, ed implica la condanna del
debitore. Havvi infine quella manus iniectio, che occorre nella legislazione
decemvirale e che costituisce un modo generale di esecuzione contro coloro, che
avessero confessato il proprio debito (aeris confessi), o che avessero subita
una condanna giudiziale per il pagamento di una determinata somma (iudicati vel
damnati). A mio avviso, è solo a quest'ultima, che Gaio attribuisce il
carattere di una vera legis actio, e che egli indica col nome di manus iniectio
iudicati, sive damnati. La severità inumana, a cui poteva giungere la procedura
della [Gaio. L'opinione espressa nel testo fondasi sulla considerazione, che
Gaio restringe evidentemente la legis actio per manus iniectionem ai casi « de
quibus, ut ita ageretur, lege aliqua cautum est », e si limita a fare una
rassegna storica delle varie leggi, le quali, incominciando da Le XII Tavole, avrebbero
consentito questo mezzo di esecuzione. Nella sua esposizione pertanto non si
accenna più a quella rigorosa procedura, di origine pressochè contrattuale, a
cui dava origine il primitivo nexum; tanto più che la medesima era andata in
disuso fin dal tempo, in cui la Lex Poetelia ha tolte di mezzo le conseguenze
speciali del nexum. Non mi sembra quindi il caso di voler forzare le
espressioni di Gaio per far entrare i nexi nella espressione dei iudicati o dei
damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i nexi dell'antico diritto possono
ritenersi compresi negli aeris confessi di Le XII Tavole, dei quali non era più
il caso che Gaio si occupasse. Poichè, se con quel vocabolo si intendevano gli
obbligati col nexum, le disposizioni di Le XII Tavole sono state abrogate, e se
si intendevano gli in iure confessi, non era il caso di farne una categoria
speciale di fronte al principio – “in iure confessus pro iudicato habetur.” Questa
opinione intanto si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero comprendere
i nexi nei damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, e da quella
eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo, il quale non parla dei
nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla procedura della manus
iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli altri debitori, come
Voigt e Cogliolo, nelle note al PADELLETTI, “Storia del dir. rom.,” il quale
pure ha adottato l'opinione del Voigt.] manus iniectio, e probabilmente una
delle cause, per cui la medesima col tempo diventa oggetto di investigazione
curiosa per gli stessi autori latini, i quali hanno cosi occasione di
tramandarci le espressioni testuali di Le XII Tavole a questo riguardo. Allorchè
altri aveva subito condanna per un proprio debito, gli era prima consentita una
specie di tregua (velut quoddam iustitium ), che durava XXX giorni, in cui
doveva avvisare almodo di pagare il debito (conquirendae pecuniae causa ).
Trascorsi i medesimi senza che egli pagasse, il creditore puo porre sopra di
lui la sua manus, condurlo davanti al magistrato, e quivi pronunziare la
formola solenne della manus iniectio. Né al debitore era lecito di depellere
manum a se, né di agere lege pro se, ma solo poteva nominare un vindex, che fa
valere le sue ragioni, dando sicurtà per il processo e per l'eventuale
pagamento del doppio nel caso in cui vincesse l'attore. Intanto il creditore puo
condurre il debitore nel suo carcere, e quivi metterlo in catene, con scelta al
debitore di alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo
arresto durava LX giorni, e negli ultimi III giorni di mercato, compresi in
questo spazio di tempo, il creditore dove condurlo di nuovo davanti al
magistrato, e far pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare
per lui. Che se anche allora non si fosse fatto il pagamento, il creditore
poteva *ucciderlo* o venderlo al di là del Tevere (“capite poenas dabat, aut
trans Tiberim venum ibat”). Ed anzi, se più fossero i creditori, venivano le
famose espressioni conservateci da Gellio – “partis se canto: si plus minusve
secuerunt, se fraude esto.” L'autore, che ci ha serbata più particolare notizia
della procedura esecutiva nel diritto, conservandoci perfino le parole testuali
della legge, è Gellio, Noc. Att., -- dove introduce il giureconsulto Sesto
Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a discutere intorno ad alcune
singolari disposizioni del diritto. Interessante discussione, poichè da una
parte abbiamo il giureconsulto, che, riportandosi alle opportunità dei tempi,
cerca di scusare il vigore del diritto. Dall'altra abbiamo il filosofo, il
quale, a nome della ragione, viene combattendone quelle disposizioni, che il
tempo aveva fatto apparire o irragionevoli od inumane. Intanto, a questa
discussione poi dobbiamo la maggior parte di quelle testuali disposizioni di Le
XII Tavole, che a noi siano pervenute, le quali composte insieme colle
informazioni dateci da Gaio, ci porgono le fattezze primitive della manus
iniectio. Si comprende come l'enormezza del potere, che la legge qui accorda al
creditore, lascia increduli gli antichi
ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente di Voigt di interpretare la
legge nel senso, che il capite poenas dabat significasse la riduzione in schiavitù
del debitore, e che il partis secanto si riferisse alla ripartizione del prezzo
ricavato dalla vendita, per il caso in cui fossero più i coeredi del creditore.
Certo è, che se noi avessimo soltanto il testo della legge, questo potrebbe
forse consentire questa interpretazione, punto non ripugnando che la legge
attribuisse a quei vocaboli una significazione giuridica, anzichè letterale. Ma
noi, oltre al testo della legge, abbiamo anche il commento, che vi diedero gli
antichi. E questo è tale da escludere qualsiasi interpretazione più benigna.
Noi troviamo infatti presso Gellio, che il giureconsulto Sesto Cecilio, pur
tentando di spiegare il rigore della legge, punto non accenna alla possibilità
di tale interpretazione. Sesto Cecilio dice invece, che il legislatore,
nell'intento di tutelare la fede nei negozii,
introduce una pena, che, per la propria immanità, non puo essere
applicata, come in effetto non lo era mai stata. Voigt, “XII Tafeln”. Egli, ciò
stante, nella ricostruzione della legge VIII della Tav. III, aggiungerebbe alle
parole serbateci da Gellio. “Tertiis nundinis, partis secant” -- le parole “si
coheredes sunt” -- il che vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da
uno dei suoi creditori, egli non poteva più essere soggetto alla manus iniectio
degli altri; ma intanto se fossero stati più i co-eredi del creditore, che
l'aveva domum ductus, i medesimi potevano, in base alle XII Tavole, procedere
contro di lui soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò
dovevano chiedere il riparto della somma loro dovuta. Questa supposizione è
ingegnosa. Ma è difficile di persuadersi, che una espressione larghissima,
quale e quella di Gellio, puo restringersi ad un caso abbastanza speciale, qual
e quello posto innanzi dal Voigt. Questa interpretazione letterale della legge,
di cui si tratta, non e solo attribuita
alla medesima da Gellio ma eziandio da Quintiliano e da TERTULLIANO -- ma con
parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta,pur fatta da Gellio, che la storia non ricorda alcun caso di “sectio
corporis”. “Dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi, neque audiri.”
Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione siavi eziandio
in quell'altra disposizione delle XII Tavole. “Si membrum rupit, ni cum eo
pacit, talio esto” -- ove compare in certo modo la stessa tendenza di accordare
a colui che ha subìto un danno per colpa di un altro, una potestà
corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione ha pure ad
essere sostenuta, col sussidio della giurisprudenza comparata, dal Kohler (“Das
Recht als Culturerscheinung”, Vürzburg) il cui brano relativo è riportato dal
MUIRHEAD. Non può quindi essere il caso di dare alla legge una significazione
diversa da quella, che vi attribuirono gl’antichi, ma piuttosto di cercare,
come mai i decemviri possono giungere ad una disposizione di questa natura.
Tale spiegazione non deve essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi
romani, quanto piut tosto in quella logica inesorabile, di cui già sonosi
trovate le traccie nelle varie parti del “ius quiritium”, e sopratutto nel
rigoroso concetto, che questo diritto ha a formarsi dell'obbligazione
personale. Al modo stesso che il diritto quiritario, nella sua logica rude,
trattandosi del dominio, immedesimò in certo modo la cosa, oggetto della
proprietà, colla persona a cui essa appartiene. Così pure esso, nel concepire
il diritto di obbligazione, vide nel medesimo un vincolo strettamente
personale, che stringe pressochè materialmente il debitore al suo creditore
(nexum), senza punto preoccuparsi dei beni, che appartenessero a quest'ultimo.
Se quindi il debitore condannato non soddisfi il debito, la logica del diritto
non si appiglie all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del debitore. Procede
diritta per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi di co-azione contro il
debitore che non paga, nell'intento di forzarlo ad eseguire il pagamento. Che
se le co-azioni di carattere giudiziale od estra-giudiziale non bastano, questa
logica, fissa nel carattere esclusivamente personale dell'obbligazione, puo
anche giungere fino al l'estremo di accordare al creditore il diritto di
vendere o di *uccidere* il debitore, al modo stesso, che attribuisce al
proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gl’appartiene (ius
abutendi). È tuttavia evidente, che il diritto, accordando simili diritti al
creditore contro il debitore condannato, non intende tanto di accordargli un
diritto reale ed effettivo, quanto piuttosto di attribuirgli efficaci e potenti
mezzi di co-azione. Ciò è dimostrato da tutta la procedura. Lo stesso Kohler
già erasi occupato della questione nel “Shakespeare vor dem Forum der
Jurisprudenz” (Vürzburg), di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD
nella “Nouvelle revue historique.” A compimento di questa notizia ricordo anche
l’interessante saggio di ESMEIN, “Débiteur privé de sépulture, nei « Mélanges
d'histoire de droit” -- ove il diritto del creditore prende un altro singolare
svolgimento, quello cioè di porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di
rifiutare al medesimo il riposo della tomba, finchè i congiunti o gl’amici non
ne abbiano pagato il debito. Qui la co-azione adoperata s'appoggia
sull'opinione popolare che l’ANIMA del debitore non trova riposo, finchè il suo
CORPO non riposa nella tomba.] della manus iniectio, dalla necessità nei varii
stadii della medesima della presenza del magistrato, dall'obbligo imposto al
creditore di far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la persona
del debitore. Ed è questo il concetto, che ebbe ad esprimere, presso Gellio, il
giureconsulto Sesto Cecilio dicendo che i decemviri. “eam capitis poenam,
sanciendae fidei gratia, horrificam atrocitatis ostentu, novisque terroribus metuendam
reddiderunt.” Che anzi, prendendo alla lettera l'espressione di Le XII Tavole,
nella parte, che si riferisce alla spartizione del corpo del debitore, appare
perfino di impossibile attuazione, poichè vien dichiarato in frode il
creditore, che tolga dal corpo del debitore una parte maggiore o minore
diquella che gli sia dovuta, il che conferma eziandio l'altra espressione dello
stesso giureconsulto, secondo cui – “eo consilio tanta immanitas poenae
denuntiata est, ne ad eam perveniretur.” Del resto non è questo il solo esempio
di questa logica astratta, propria del diritto, che talora si spinge fino a
tale da non essere quasi più applicabile nel fatto. Il diritto infatti del
creditore sul corpo del debitore trova un riscontro nel diritto al talione,
spettante a colui, di cui fosse stato rotto un membro -- talione che, secondo
l'osservazione da Gellio attrituita al filosofo Favorino, non puo essere più facilmente eseguito che la
spartizione del corpo del creditore in proporzione dei crediti. Cosi pure esso
ha un altro riscontro nel ius vitae et necis, che giuridicamente parlando
spetta al padre sui figli, al marito sulla moglie, al padrone sullo schiavo,
ancorchè in questa parte sia certo, che il rigore del diritto trova dei
temperamenti nel pubblico costume. Non è quindi il caso di inferire da queste
disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi presso i romani. Ma soltanto di
scorgere in ciò una nuova prova, che il loro “ius quiritium”, essendo il frutto
di una elaborazione giuridica, la quale mira ad isolare l'elemento giuridico da
ogni elemento estraneo, fini per essere governato da una logica inesorabile,
che tal volta appare non solo inumana, ma perfino inapplicabile nel fatto. Dice
infatti Favorino presso Gellio: “Praeter enim ulciscendi acerbitatem ne
procedere quoque executio iustae talionis potest; nam, cui membrum ab alio
ruptum est, si ipsi itidem rumpere per talionem velit, quaero, an efficere
possit rampendi pariter membri aequilibrium? in qua re primum ea difficultas
est inexplicabilis”. KOHLER dice scherzevolmente, che alla lista delle ipotesi
escogitate per spiegare questa disposizione, ne manca una sola, quella cioè che
i romani sono degli antropofagi. Dal momento poi che il primitivo ius quiritium,
nella sua procedura di esecuzione, ha preso di mira piuttosto la persona del
debitore, che non i beni, che ne costituivano il patrimonio, si comprende, che
esso, nella sua perseveranza tenace, stenta più tardi ad abbandonare la via,
che prima segue. Noi troviamo infatti, che nel posteriore svolgimento della
procedura esecutiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso della
parola continua sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i beni del
debitore, e invece il ius honorarium, il quale soltanto molto più tardi riusci
ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che costituivano il
patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è abbastanza comprovata
dalle atte stazioni di Gaio. Questi infatti, parlando delle legis actiones, ci
fa assistere allo svolgimento storico della manus iniectio nel diritto civile
di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus iniectio iudicati, altre
leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu dicato, ed altre abbiano poi
dato occasione ad una manus iniectio pura, la quale, a differenza delle altre
due, non impede che il debitore potesse “manum a se depellere et lege agere pro
se”, senza ricorrere all'opera di un vindex. Posteriormente poi, la legge
Vallia ristrenge di nuovo i casi, in cui non potevasi manum de pellere e pro se
lege agere, a quei due, che primierano stati introdotti, in cui si agiva o in
base a un giudicato, o contro una persona per cui altri aveva dovuto pagare
qual sicurtà. Di questo, secondo Gaio, rimane una traccia anche dopo
l'abolizione delle legis actiones in ciò, che anche ai suoi tempi colui, col
quale si agisce in base a un giudicato o per aver pagato per esso, «”iudicatum
solvi satisdare cogitur.” Lo stesso Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice
altrove, che l'introduzione della bonorum venditio sole essere attribuita a
Publio Rutilio, il quale dovette essere praetor nel 647 di Roma, e noi
sappiamo, che è appunto con questa bonorum venditio, che si introdusse in Roma
un concorso fra i creditori, non dissimile da quello, che ora ha luogo nella
procedura per fallimento. E solo più tardi, che anche il diritto civile, per
mezzo della lex Iulia de [Gaio. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua
esposizione della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni
del debitore. Gaio, IV, 35. Quanto a questa procedura contro i beni, vedi
KELLER, “Il processo civ. rom.” e quanto alle analogie, che questo con corso
dei creditori presenta col fallimento, cfr. Montluc, “La faillite chez les
Romains” – ] -cessione bonorum, accordo al debitore il mezzo di evitare
l'esecuzione personale, ricorrendo alla cessio bonorum. Ma anche allora questa
cessio bonorum dove essere consentita dallo stesso debitore, e costitui in
certo modo un benefizio, che gli venne accordato per cansare la esecuzione
personale e per evitare anche l'infamia, da cui questa era accompagnata. Quindi
neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione contro la persona, ma
piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso, essendosi introdotto un
mezzo per liberarsi da essa. Parmi poi, che questa preferenza indiscutibile del
ius quiritium per la esecuzione contro la persona del debitore, anzichè contro
i beni spettanti al medesimo, sia stata eziandio la ragione, per cui si
mantenne in così ristretti confini l'applicazione della pignoris capio. Essa
infatti si ridusse ad essere un privilegio per crediti di origine militare (aes
militare, hordearium, equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo
di un hostia e il nolo di giumento allo scopo di un sacrificio, in dapem). Un
solo caso di pignoris capio lascia traccie durature nella storia delle
istituzioni giuridiche, e fu quello introdotto da una lex praediatoria o
censoria, a favore degl’appaltatori delle imposte, sui fondi che sono gravati
dalle medesime: privilegio di carattere fiscale, che ha un'analogia
incontrastabile col privilegio generale sugl’immobili, che ancora oggidi spetta
al fisco per le imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto, che nel
diritto di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie
obligazioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal
pretore. Che anzi è degno di nota, che anche questa procedura sembra negl’inizii
essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto, che noi la
troviamo descritta dapprima nella “Lex Rubria” de Gallia Cisalpina. Una ragione
di questa preferenza [Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione contro i
beni, vedi eziandio LENEL, “Das Edictum perpetuum”, La lex Rubria, Bruns,
Fontes, attribuisce la facoltà di accordare questa missio in bona al solo
pretore della città di Roma, come lo dimostrano le seguenti parole della legge “Praetor”
– “isve qui de eis rebus Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius
de « eius rebus omnibus ius deiicito, decernito, eosque dari bona eorum,
possideri, « proscribique venire iubeto, etc. » Cfr. WLASSAK, “Röm.
Processegesetze”] dell'antico diritto per la persona, anzichè per i beni del
debitore, non potrebbe essa trovarsi nella considerazione, che tutto il
primitivo ius quiritium ha ad essere modellato sul concetto fondamentale del “quirites”,
in quanto era considerato come una individualità integra e completa sotto
l'aspetto giuridico, la cui parola dava origine al “nexum”, e la cui volontà
costituiva una legge, cosi nei negozii tra vivi come nel testamento? Non
abbiamo anche in questo una conseguenza dal punto speciale di vista, a cui
eransi collocati i modellatori del diritto? Basta ora ricomporre insieme queste
varie parti della procedura romana e metterle in movimento ed in azione, per
comprendere come il sistema della “legis actio”, anzichè essere, come
vorrebbero taluni, un complesso di solennità, escogitate dallo spirito sottile
e formalista dei romani, sia stato invece il mezzo più potente ed efficace,mediante
cui venne preparandosi l'elaborazione del diritto civile romano. La “legis actio”
e per cosi esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del
fatto umano puo essere isolata da tutti gl’elementi estranei, ed essere ridotta
cosi a quello stato di purezza, che solo si rinviene negli scritti dei
giureconsulti romani. Siccome infatti ogni diritto, per poter affermarsi in
giudizio, dove passare per lo strettoio della “legis actio”: cosi ne venne, che
con questo sistema prima il pontefice, nel modellare la “legis actio”, poscia
le parti nell'adattare alle medesime la loro controversia. Quindi il magistrato
nel determinare i termini, in cui tale controversia dove essere giuridicamente
concepita. Infine i giudici, che doveno di necessità restringere la loro
decisione al punto di questione che e loro sottoposto, attendeno tutti ad un
medesimo lavoro, che e quello di spogliare una fattispecie da ogni elemento
etico (morale) o religioso, con cui si trovasse implicata, per ridurla ad una
configurazione e ad una formola ESCLUSIVAMENTE LEGALE O GIURIDICA. Siccome poi,
il giudice della controversia, o e tolto dalle varie classi o tribù, come i
centumviri e forse anche i decemviri, o scelto nel l'ordine dei senatori, come
i iudices selecti, o convenuto fra le parti, come gl’arbitri, od anche scelto
in parte fra i peregrini, come i recuperatores. Cosi ne veniva, che
l'elaborazione del diritto in Roma e un'opera collettiva, a cui concorrevano
tutti gl’ordini e le V classi, e che puo perfino sentire l'influenza del
diritto e della procedura, che applicasi dei rapporti fra i cittadini e gli
stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro e unificato e coordinato per
opera del magistrato, che sovraintende all'amministrazione della giustizia, ed
e poi assecondato dall'opera dei giureconsulti, che venivano racchiudendo in
formole la varietà grandissima dei negozii giuridici. Cosi ne venne, che in
Roma fin dai suoi inizii si trova sapientemente organizzato un sistema di
mezzi, il quale mira ad isolare l'elemento giuridico del fatto umano dagl’elementi
estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in una forma determinata e
precisa, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe forme tipiche e generali.
E in questo modo, che puossono scomparire i contendenti e si sostituirono ai
medesimi dei nomi convenzionali -- Aulus Agerius e Numerius Negidius nella
formola processuale, Titius, Caius, Sempronius, etc. in quella contrattuale --;
che una controversia PARTICOLARE e richiamata a certa forma GENERALE; e che
intanto i concetti primordiali, da cui ha preso le mosse il diritto di Roma,
poterono con una logica perseverante e tenace essere spinti a tutte le
conseguenze, di cui erano capaci. E quindi sopratutto in Roma, che il diritto
potè essere l'espressione della coscienza giuridica di tutto un popolo, un
elemento organico della vita sociale, il frutto di un'elaborazione unica e
varia ad un tempo, la quale obbedisce costantemente a quei processi, i quali,
applicati prima dal pontifice, passarono poscia al praetor ed al giureconsulto,
e non furono neppure abbandonati sotto gli stessi principi. Per tal modo, quel
lavoro di selezione, che erasi in Roma iniziato mediante la legge, le quali,
trascegliendo fra le istituzioni delle varie genti, ne hanno ricavato un
diritto tipico, esclusivamente proprio del quirites, e perciò chiamato “ius
quiritium”, venne ad essere eziandio proseguito nella interpretazione della
legge e nell'amministrazione della giustizia, le quali si sforzarono dapprima
di fare entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente
dei rap porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e
vennero poi gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse, allorchè
esse cominciavano ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di
provvedere. Per tal modo il “ius quiritium” si allarga ed amplia nel “ius
proprium civium romanorum”; poscia accanto a questo venne svolgendosi il “ius
honorarium”, il quale pur derogando al ius civile ed assimilando nuovi
elementi, li forza tuttavia ad entrare in forme analoghe a quelle già preparate
dal ius civile. È in questa guisa, che il diritto romano, dopo essere stato la
selezione più rigida dell'ELEMENTO ESCLUSIVAMENTE GIURDIICO E NON ETICO, che
presenti la storia, ed essere stato una produzione esclusivamente propria del
popolo romano, viene a poco a poco attirando nella propria cerchia le
considerazioni di equità e di buona fede, assimilando quelle istituzioni delle
altre genti, che potevano ricevere l'impronta del genio giuridico di Roma,
finchè non diventa tale da poter essere comune a tutte le genti, che avevano
somministrato i materiali, sovra cui erasi venuto elaborando. Può darsi ed è
anzi probabile, che i principii di questa grande opera di selezione sono dapprima
inconsapevoli, come gl’inizii di tutte le opere umane, e fossero determinati
dal modo di formazione di Roma, e dal genio eminentemente giuridico dei
fondatori di essa. Ma egli è certo eziandio, che essa non tarda a cambiarsi ben
presto in un'opera consapevolmente voluta e proseguita con una perseveranza
tenace, di cui non potrebbesi trovare paragone. Così, ad esempio,
dell'importanza della “legis actio” già dovette aver consapevolezza il
patriziato romano, allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il
proprio diritto, continua tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici
la formazione della “legis actio”, e la cambia in un segreto di professione e
di casta; come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come
lo dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione,
ha resa di pubblica ragione la piu primitiva “legis actio”. Questa influenza
poi del sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè
l'abolizione della “legis actio” e l'intro duzione del sistema delle formole
attribui da una parte al magistrato libertà maggiore nella concezione giuridica
delle varie fattispecie, e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre
nuove azioni, accanto a quelle, che si fondano direttamente sui termini della
legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si [(Pomp.,
Leg. 2, § 7, Dig. (1, 2 ); Liv. IX, 46. Secondo la tradizione, Gneo Flavio e
dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità di *tribune* della plebe,
di senatore e di edile curule.] trova eziandio nella necessità di edicere,
ossia di pubblicare, entrando in ufficio, la norma, che avrebbe applicate
nell'amministrazione della giustizia; che accanto ai iudicia legitima si svolgeno
quelli imperio continentia; che, accanto alle “actiones legitimae”, quae ipso
iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, “actiones quae a praetore
dantur.”Da quel momento il “praetor” puo essere considerato come una “lex
loquens”, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano nell'amministrazione
della giustizia. Tuttavia l'abolizione della “legis action” e la sostituzione
del sistema delle formulae devono essere intese alla romana, il che vuol dire,
che l'abolizione è soltanto parziale e non impedisce la sopravvivenza dell' “actio
sacramento”, come preliminare del “centum. virale iudicium” e di quello “damni
infecti nominee”, al modo stesso che l'introduzione delle formulae, anzichè una
rivoluzione, è piut tosto il riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una
pratica, che dove già essersi prima introdotta nel fatto. È infatti probabile che
il sistema delle formulae già puo esser applicato nella “procedura inter cives
et peregrinos”, nella quale non potevano essere applicate la “legis actio”, e
che in tal guisa una procedura propria della “recuperatio” sia penetrata nel “ius
proprium civium romanorum”, almodo stesso, che più tardi l'”actio sacramento” puo
eziandio essere proposta davanti al “praetor peregrinus”. Il sistema delle
formole e in certa guisa già contenuto in germe nel sistema della “legis actio”.
A quel modo, che la “stipulatio” riducesi in sostanza alla parte nuncupativa
del “nexum”, la quale, liberata dalla solennità del l'atto “per aes et libram”,
puo essere adattata alla varietà dei negozii [Gaio dice espressamente, che,
negl’esordii di questo sistema di procedura, “edicta praetorum nondum in usu
habebantur”. Era quindi naturale, che quando questi sono introdotti, accanto a
quella parte di diritto, che fondasi direttamente sulla legge, e che perciò da
origine alle denominazioni di “actus legitimus”, “actio legitima”, “iudicium
legitimum”, si svolgesse un diritto, che fondasi in certo modo sull'autorità
del magistrato, e che, come tale, “imperio continebatur”, il quale finì poi per
essere compreso sotto il concetto di “ius honorarium”. È poi Cic., pro
Cluentio, il quale ha a dire, che siccome la legge e al disopra del magistrato,
e questo è al disopra del popolo, “vere dici potest magistratum legem esse
loquentem -- legem mutum magistratum.” Quanto ai concetti di “actio legitima” e
di “iudicium legitimum”, vedi WLASSAK. Sull'influenza del “praetor peregrinus”
e dell'edictum provinciale sul sistema delle formulae, v. Glasson, “Étude sur
Gajus”] giuridici. Così, la formola consiste essenzialmente in quei “concepta
verba”, che già occorrevano nella “legis actio”, salvo che questa “verborum conceptio”,
liberata dalla parte mimica, da cui era accompagnata, e da quel rigore di
termini (“certis verbis”), che era propria della “legis actio”, puo acquistare
una duttilità e pieghevolezza, che la prima non ha. Noi trovammo infatti, che
già sotto la veste ferrea della “legis actio”, ogni modus agendi finisce per
abbracciare diverse azioni particolari. Queste azioni già cominciano a
distinguersi nelle “actiones in rem” in “actiones in personam”, in quelle, che
hanno per oggetto un certum od un incertum, e in quelle, che dano origine ad un
iudicium o ad un arbitrium. Or bene tutti questi materiali, che ancora erano
riuniti nella sintesi potente della legis actio, si trovano in certo modo
abbandonati a se stessi, e si cambiarono in altrettante azioni, autonome ed
indipendenti, aventi un nome specifico, una propria formola ed un proprio
contenuto, e diedero cosi origine a quello splendido ed opulento sviluppo, che
ebbe ad avverarsi col sistema delle formole. Quella libertà della formola, che
sarebbe stata pericolosa negl’inizii della elaborazione giuridica, venne invece
ad es sere opportuna, quando questa era già iniziata ed abbastanza progredita.
Le prime formole, essendo state preparate sotto la rigida disciplina della “legis
actio” e del “ius pontificium”, indicano abbastanza la via, in cui dove
mettersi il magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la
ragione, per cui il “praetor”, malgrado la libertà apparente, che lo
appartiene, sia di introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già
ricevute, procede in cio molto a rilento, ed ama piuttosto di ricorrere a
finzioni e di forzare cosi fatti ad entrare nelle forme riconosciute dal
diritto, che non di alterare la forma che già e accolta. Per tal modo, il nuovo
trova sempre un addentellato nell'antico, anche allorchè mira ad introdurre una
modificazione al medesimo, e intanto ciò non impedisce, che una parte del diritto,
che vive fluttuante pelle consuetudini, accanto al vero ius civile, si venisse
ancor esso consolidando sotto forma di un ius honorarium, che è pur sempre
modellato sul primo. Così pure, nella opera progressiva del praetor
succedentisi l’uno all’altro, puo manifestarsi uno spirito di continuità, per
cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente da alcuno di essi finirono
per costituire un ius translaticium, che passa al praetor successore, e serve cosi
a preparare i materiali, che raccolti e coordinati costituirono poi l'editto
perpetuo di Salvio Giuliano. In questa condizione di cose appare ad evidenza
l'importanza del sistema delle azioni, poichè ogni progresso pratico della
giurisprudenza romana viene ad esser introdotto, o per mezzo di una nuova
azione, che tuteli un diritto prima non riconosciuto, o per mezzo di una
eccezione, che neutralizzi l'effetto di un'azione già riconosciuta dal diritto
civile. Allorchè poi un'azione è accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene
ad essere come un centro, intorno a cui si moltiplicano le formole per
abbracciare l'infinita varietà delle fattispecie, finchè si giunge a quella
ricchezza di formole, a cui accenna Cicerone, allorchè dice: -- “sunt formulae
de omnibus rebus constitutae, ne quis aut in genere iniuriae aut in ratione
actionis errare possit: expressae sunt enim, ex uniuscuiusque damno, dolore,
incommodo, calamitate, iniuria, publicae a praetore formulae, ad quas privata
lis accomodatur.” Le formole pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a
compiere quel lavoro di selezione, iniziato sotto l'impero della “legis actio”.
Esse si accomodano alle varie fattispecie. Isolano l'elemento giuridico da ogni
elemento estraneo, gl’elementi essenziali del fatto umano dalle circostanze
accidentali: accolgeno quelle aggiunte, che sono rese necessarie dalla maggiore
varietà dei negozii; riassunggeno le varie fasi della controversia in guisa da
presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio. Queste
formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla procedura. All'epoca
stessa, in cui penetrarono in questa, si vennero eziandio esplicando nel contratto,
nei testamento, nei legato, e in ogni altra parte del diritto civile romano, e
vi portarono cosi dappertutto l’ESATTEZZA E LA PRECISIONE DELLA LOGICA DEI
CONCETTI GIURIDICHI, non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà
infinita dei negozii. È quindi facile il comprendere come il pontefice, il pretore
e il giureconsulto, non credeno indegno del loro ufficio l'attendere alla
composizione delle formole, e come bene spesso l'invenzione di una formola ha reso
celebre e tramandato fino a noi il nome di un pretore o di un giureconsulto.
Basta perciò aver presente l'importanza grandissima e la larghissima
applicazione, che [Cic, Pro Roscio -- Cfr. WLASSAK. Occorrono delle notevoli
osservazioni sulla importanza delle formole nel diritto civile romano presso
LABBÉ-ORTOLAN, “Explication historique des Institutes de Justinien” (Paris)] ricevettero
le clausole “ex fide bona” “quando aequiusmelius” e “propter te fidemve tuam
fraudatus siem” -- le formole aquiliane de dolo malo ed altre, che sarebbe
lungo ricordare; le quali serveno a far penetrare nel diritto la considerazione
dell'equità e della buona fede, e a dare forma concreta e pratica applicazione
alle lente mutazioni, che si venivano operando nella coscienza giuridica del
popolo romano. E infatti per mezzo di una piccola aggiunta in una formola
contrattuale e giudiziaria, che le aspirazioni latenti della coscienza
giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il diritto fluttuante
nelle consuetudini venne ad ottenere la tutela e la sanzione dell'autorità
giudiziaria. Questa considerazione mi
porge opportunità di conchiudere questo saggio, spiegando un carattere del
tutto peculiare della giurisprudenza romana. Nostro tentativo di “ri-costruzione”
del primitivo ius quiritium quanto meno dimostra che il diritto civile romano,
anzichè essere il frutto di una incorporazione qualsiasi di consuetudini
preesistenti, operatasi a caso e lasciata in balia delle cir costanze, fu
invece governato, fin dai proprii inizii, da una logica fondamentale, che non
venne mai meno a se stessa. Esso può es sere paragonato ad un lavoro lento di
cristallizzazione, in virtù di cui gli elementi affini, fluttuanti in un
liquido, cominciano dal precipitarsi a poco a poco, e poi si compongono
insieme, atteggiandosi costantemente a quelle forme tipiche, che sono imposte
dalla legge, che ne governa la formazione. Se ciò è fuori di ogni dubbio,
vuolsi però anche ammettere, che questa dialettica fondamentale, la quale regge
tutta la formazione del diritto civile romano, sembra in certo modo essere
dissimulata nelle opere anche dei grandi giureconsulti. In tali opere, per quel
poco che a noi ne pervenne, i singoli istituti appariscono come autonomi ed
indipendenti gli uni dagli altri, go [Questa importanza delle formole appare
sopratutto nelle formole processuali, poichè ogni progresso
nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo le traccie nella
composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ha ad esprimere, molti
anni or sono, in “De exceptionibus in iure romano” (Torino) -- colle seguenti
parole. “Neque vereor dicere, omnia quae in
iudiciorum ordine, progressione temporum et seculorum elaboratione,
invecta fuerunt ad corrigendam, producendam, emendandam et adiuvandam
antiquissimi iuris « formulam quodammodo adhibita fuisse.”] --vernati ciascuno
da una propria logica, senza che più si scorgano le commettiture, che possono
stringere un istituto cogli altri. Vero è, che considerando attentamente il
formarsi di ogni singolo istituto, facilmente si riconosce la mano di artefici,
educati tutti alla medesima scuola, cosicchè i varii istituti si possono
paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla stessa forma. Ma intanto più
non si scorgono le traccie della legge, che ne governa la formazione. Era
questo disordine apparente dei giureconsulti, che torna grave alla mente FILOSOFICA
ed ordinata di Cicerone, il quale perciò giunse fino a dire, che i primi grandi
maestri cercano di dissimulare la propria arte. Ma se questo potè forse esser
vero, finchè la scienza del diritto – come la filosofia, dopo -- e un monopolio
della gente patrizia, o meglio del pontefice massimo, custode delle loro
tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in cui la casa del
giureconsulto e aperta a tutti coloro, che volevano consultarlo. Anche i plebei
furono ammessi a questo collegio dei pontefici e a professare giurisprudenza.
Non è quindi in una causa alquanto puerile e di carattere transitorio, che
vuolsi cercare il motivo di questa specie di contraddizione, che presenta
l'elaborazione della giurisprudenza romana. Ma questo e piuttosto il modo, in
cui venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa. A questo riguardo vuolsi
aver presente, che i modellatori del primitivo diritto di Roma – “veteres iuris
conditores” – non hanno mai in animo di insegnare una scienza, ma piuttosto di
professare un'arte (“iuris prudentia”), che forma solo più tardi argomento di
scienza. Essi quindi non intesero punto di soddisfare alle esigenze didattiche,
nè di introdurre quell'ordine sistematico, che è proprio della scienza. Si
proposero sopratutto di soddisfare alle esigenze pratiche. Sono i casi, che si
venneno presentando, che loro offrivano occasione di applicare l'arte loro.
Siccome per tanto nella pratica era l' “actio”, che predomina, poichè era con l’
“actio”, che il diritto sperimenta se stesso. Così ne venne, che dapprima sono la
“legis actio” che costitue il punto di richiamo dell'elaborazione giuridica, e
determina l'ordine, a cui la medesima venne obbedendo. Quando poi la sintesi
potente della “legis actio” venne ad essere disciolta, e pullularono così
azioni e formole, molteplici e svariate, aventi ciascuna una propria vita ed
una propria funzione nella formazione dei negozii e nell'amministrazione della
giustizia, sono eziandio le actiones, l’”interdictum.” -- Cic., De orat., I. la
“exceptio” e simili, che costituirono il punto centrale, intorno a cui dovette
appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è, che essi, per quanto ubbidissero
ad una dialettica fondamentale, trascurarono naturalmente di far scorgere i
fili, che componevano la trama. Cosicchè la girusprudenza apparisce come a
frammenti, e ravvicinano istituti, che non hanno attinenza, disgiungendone
altri, che sono in vece strettamente affini fra di loro. Di qui la conseguenza,
che la costruzione giuridica romana non segue il processo dei concetti
fondamentali, da cui parte, ma venne seguendo invece l'ordine, prima, di Le XII
Tavole, e, poscia, dell'Editto. Nè questo disordine apparente puo recare
imbarazzo agl’esperti, perchè l'arte in essi era viva e feconda. Puo invece
riuscire grave agl’altri, i quali, come Cicerone, cercano di inoltrarsi in
questo campo con un indirizzo mentale concettuale e filosofico – di
‘re-costruzione logica.’. Fu soltanto, allorchè la ricchezza dei materiali
comincia ad ingombrare il campo, che si senti il bisogno di introdurre questa o
quella distinzione sistematica, al modo del Liceo per genere e specie, ma anche
queste distinzioni non compariscono nelle opere di costruzione giuridica
propriamente detta, quali sono quelle dei classici giureconsulti, ma soltanto
nell’opere di carattere didattico o tutoriale -- donde la spiegazione
dell'ordine diverso, che occorre nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e
nelle Pandette. Siccome poi anche l'ordine sistematico, introdotto nelle
Istituzioni, ha naturalmente lo scopo pratico di coordinare la giurisprudenza
romana nello stato in cui si trova, anzichè di fare assistere alla formazione
progressiva di essa; cosi ne viene, che anche le distinzioni, che occorrono in
Gaio ed in Giustiniano, danno talvolta come contemporanei degl’istituti, che
possono avere avuto origine in epoca compiutamente diversa. Ne consegue, che la
giurisprudenza romana, quale a noi pervenne, colle sue proporzioni armoniche e
colla coerenza delle sue varie parti, cela in certo modo la trasformazione
lenta e graduata, che venne operandosi in essa, e la dialettica, che ne governa
la for [Ciò appare sopratutto nelle “Receptae sententiae” di Paolo Diacono.
Questo apparente disordine invece è alquanto minore nei cosidetti “Fragmenta”
di Ulpiano, in quanto che questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo
l'ordine dei “Commentarii” di Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi
altrove qualche aggiunta, che altera talvolta le armoniche proporzioni dei “Commentarii”
di Gajo. Questi ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del
giureconsulto, sono il nostro modello di ordinamento sistematico, fatto in un
intento didattico o tutorial per l’elite diriggente. Cfr. Huschke, Jurisp.
antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere sopra citate dei
giureconsulti] –mazione. Ma ciò punto non impedisce, che, penetrando sotto la
scorza di essa, tosto si incontrino le traccie di materiali e di ruderi, che
appartengono a sorgenti e ad epoche diverse, e rivelano cosi al l'investigatore
i diversi periodi e momenti, per cui passa la lenta e graduata formazione della
legislazione romana. Giunto al termine di questo faticoso lavoro di
ricostruzione, ritengo opportuno di riassumere a grandi linee quelli fra i
risultati a cui sono pervenuto, che possono cambiare in qualche parte il modo
comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di Roma, nel l'intento
sopratutto di porre in evidenza quella mirabile coerenza organica, che sempre
si mantenne nello svolgimento storico delle istituzioni di Roma. Allorchè le
genti italiche si sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate sopra quel
suolo, che più tardi e denominato “italic”, dove avverarsi un periodo di forza
e di violenza, non dissimile da quello, che si avvero più tardi all'epoca delle
invasioni barbariche, ed il maggior bisogno, che dove sentirsi allora dai
vincitori e dai vinti, e quello di uscire da quello stato di privata violenza. E
allora, che le genti sopravvenute, memori forse delle tradizioni, che portavano
dall'antico oriente, irrigidirono la propria organizzazione gentilizia,
cercando di attirare nella medesima anche le popolazioni dei vinti, e
costituirono così l'aristocrazia territoriale dei patres, dei patroni, dei
patricii, mentre i vinti sono organizzati nella classe inferiore dei servi, dei
clienti, e infine dei plebei. Questa organizzazione, malgrado le differenze nei
particolari, assunge pressochè dapertutto un carattere uniforme, non dissimile
da quello dell'organizzazione feudale nel Medio Evo. Essa organizzazione venne
cosi ad essere composta di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme
dal vincolo di discendenza reale o fittizia da un medesimo antenato, le quali
risiedevano rispettivamente nella domus, nel vicus e nel pagus, mentre il
territorio da esse occupato era ripartito in heredia, in agri gentilicii, e in
compascua. Fu a questo stadio del proprio svolgimento, che le genti italiche
presero tutte a travagliarsi intorno alla grande opera del passaggio
dall'organizzazione gentilizia a Roma. Questa organizzazione ha sopratutto lo
scopo di assicurare la comune difesa e di fortificarsi nelle lotte pres sochè
quotidiane fra i varii gruppi. Roma comincia dall'essere un sito fortificato (“arx”,
“oppidum”, “capitolium” ) per servire di rifugio in caso di pericolo. Poi
diventa un sito per il mercato (“forum”) e un luogo di riunione dei capi di
famiglia delle varie comunanze confederate per la trattazione degli affari
comuni (“conciliabulum”, “comitium”). E posta sotto la protezione di un divino
– “dius,” “dius-piter” -- , comune patrono. Finchè da ultimo sotto la
protezione della comune fortezza cominciano eziandio a costruirsi le abitazioni
private. Non tutte le stirpi però sono pervenute al medesimo stadio di
svolgimento, nè tutte hanno seguito il medesimo indirizzo nella formazione di
Roma. Mentre gl’umbro-sabelli adereno ancora strettamente alla organizzazione
gentilizia, e gl’etruschi sono già pervenuti alla città chiusa e fortificata, i
Latini invece si trovano in uno stato intermedio. I latini sono pervenuti a
Roma di carattere federale, considerata come un centro della vita pubblica per
varie comunanze di villagio. È al buon seme latino, che s’attribuie l'origine
del nome di Roma. Roma comincia dall'essere lo stabilimento fortificato di un
nucleo di uomini forti ed armati – “vir”, “quirites”), staccatisi d’Alba per
cercare altrove sorti migliori, secondo una consuetudine comune delle genti
primitive, fidenti sopratutto nella forza del proprio braccio, ma non immemori
delle tradizioni proprie della stirpe, a cui appartenno. Le lotte di questo
nucleo di uomini di arme, stabilitosi sul Palatino, i quali, senza essere
ancora veri capi di famiglia, tendeno a diventarlo, colle comunanze di villagio
stabilite sulle alture circostanti dell'antico septimontium, lo conducenno
prima alla comunanza dei connubii e in seguito alla confederazione colle
medesime. Percorse due periodi compiutamente distinti -- cioè: il periodo della
città federale, in cui Roma è una città esclusivamente patrizia, ed è un centro
di vita pubblica fra varie comunanze gentilizie. Il secondo, quello in cui Roma,
esclusivamente patrizia associasi anche la plebe circostante delle periferii,
già pervenuta ad una certa agiatezza, nell'intento sopra tutto di provvedere
alla comune difesa, e chiude nelle proprie mura le primitive comunanze di
villagio, che entrano a costituirla. Nel
primo periodo, i cittadini di Roma sono i capi famiglia delle genti patrizie,
confederati in uno scopo di comune difesa, e la loro città, posta nel centro
delle varie comunanze di villaggio, rispecchia in se medesima le istituzioni
dell'organizzazione gentilizia, a quella guisa che un lago limpido rispecchia
le abitazioni e i villaggi, collocati sulle alture, che lo circondano. Essi
infatti trapiantano a Roma, centro della loro vita pubblica, le proprie
istituzioni gentilizie, salvo che le medesime, assumendo un intento
essenzialmente civile, politico e militare, cominciano a perdere alquanto il
proprio carattere patriarcale, e ricevono cosi uno svolgimento compiutamente
diverso. Roma esce cosi dalla confederazione e dal l'accordo dei capi di
famiglia (patres) e dei loro discendenti (patricii). Ma intanto assume un
carattere religioso, politico e militare ad un tempo, come le genti che
concorsero alla sua formazione. Sono i pontefici, che ne serbano le tradizioni
giuridiche e religiose ad un tempo. Gli auguri modellano gli auspicia publica
sugli auspicia, a cui già ricorrevano i capi di famiglia o delle genti. I feziali
serbano le tradizioni relative ai rapporti fra le varie genti. In questo
periodo la città serve ad operare la selezione della vita pubblica, che comincia
a spiegarsi nella città, dalla vita domestica e patriarcale, che continua a
svolgersi nelle varie comunanze di villaggio. L'urbs infatti designa l'orbita
sacra, in cui trovansi riuniti gli edifizii aventi pubblica destinazione, ed ha
nel proprio contro il tempio di Vesta e la domus regia. La civitas non
comprende ancora quelli rapporti soltanto che si riferiscono alla vita civile,
politica e militare. Il populus non comprende tutta la popolazione, ma quella
parte eletta della medesima che puo giovare alla res publica col braccio (“iunior”)
o col consiglio (“senior”). Per tal modo il grande intento della città in
questo periodo e quello di sceverare la vita pubblica dalla privata – “publica
privatis secernere” -- , di modellare il concetto della “res publica”, in
quanto essa ha un'esistenza distinta dalla “res familiaris”, e di architettarne
la costituzione politica, la quale venne cosi ad uscire dal concorso di tutti
gli elementi, che entravano a costituirla. La sorgente della pubblica potestà
risiede quindi nel “populus.” Ma in tanto la parte dovuta all'età e
all'esperienza nel provvedere all'interesse comune viene ad essere rappresentata
dal “senatus”, che è già elettivo ed è nominato dal “rex”; il quale alla sua
volta è l'eletto del “populus” e unifica in se medesimo l'”imperium”, che il
medesimo gli conferisce. Tutto cio, che riguarda l'interesse comune, si delibera
col concorso di tutti questi elementi, cioè essere proposto dal re, appoggiato
dal senato, votato dal popolo. Cosicchè, la legge assume la forma di una
pubblica stipulazione – “communis reipublicae sponsion”. Per quello invece, che
si riferisce alla vita domestica e privata – “res familiaris” --, essa continua
a svolgersi nel seno della “domus”, del “vicus”, del “pagus”, sotto la potestà
dei capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a possedere le proprie
terre sotto la forma collettiva di “agri gentilicii” e di compascua, soli
eccettuati gli heredia, assegnati dalla gens od anche dal re, i quali
appariscono intestati ai singoli capi di famiglia. Anche la repressione dei
delitti continua ad essere lasciata al potere domestico e patriarcale, e le
pene conservano quel carattere religioso, che hanno nel periodo gentilizio. Solo
assumono carattere di delitti *pubblici*, e sono sotto posti alla giurisdizione
del re, temperata dalla provocatio ad populum, il parricidium e la perduellio,
di cui quello è come il germe del reato comune e questa il germe del reato
politico. Ma il diritto private continua in gran parte ad essere governato dal
costume (“mos”), il quale appare ancora circondato da un ' aureola religiosa (“fas”).
Cio tuttavia non impedisce, che fra le consuetudini e le tradizioni
preesistenti già ve ne sono di quelle, che sono sanzionate dala “lex publica”,
la quale è preparata dal pontefice, proposta dal re, e votata dal popolo; donde
la formazione della “lex regia”, nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche
serbano ancora quel carattere religioso, che era proprio delle istituzioni
delle genti patrizie. Nel frattempo quell'elemento plebeo, la cui formazione
già erasi iniziata nelle stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo
incremento collo svolgersi della città. Poichè, esso trovasi accresciuto dalle
popolazioni conquistate e da coloro che, spostati nell'organizzazione
gentilizia, vengono a stanziarsi nel territorio circostante alla città. Questa
moltitudine, che per essere composta di elementi di provenienza diversa e per
difetto di organizzazione chiamasi “plebes”, non entra ancora a formare il “populus”,
nè è ammessa alle curiae della città patrizia, ma abita nelle circostanze di
essa, e tiene cosi una posizione più di *fatto* che di diritto. Ai plebei, che
la compongono, solo dovette essere accordato, negli ultimi tempi della città
esclusivamente patrizia, il “ius nexi”, ossia il diritto di contrarre dei
prestiti, vincolando direttamente la propria persona, e il “ius mancipii”,
ossia il diritto di ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi erano
stanziati colle proprie famiglie. È sotto l'influenza etrusca, che Roma comincia
a prepararsi ad un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata
nelle proprie mura, il che però non toglie, che essa continui ancor sempre ad
essere un centro di vita pubblica per le comunanze e le famiglie, che trovansi
stanziate nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium della città. La
trasformazione, iniziata da Tarquinio Prisco, si compie, allorchè con Servio
Tullio Roma viene a comprendere nella propria cerchia non solo gli edifizii
pubblici, ma anche le abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene
a formarsi accanto ai patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii
e di plebei, ripartito in V classi ed in centurie, di carattere essenzialmente
militare, i cui membri hanno i loro diritti ed obblighi civili, politici e
militari determinati sulla base del CENSO. Da questo momento quel dualismo, che
esiste negl’elementi, che entra vano a partecipare alla medesima Roma, penetra
eziandio nelle istituzioni politiche. Per tal modo accanto ai veri magistrati
del popolo, comparvero il “tribune” della plebe. Accanto ai comizii delle curie
e delle centurie si formar il “concilium plebis”, il quale col tempo si
trasforma in comizio tribute. Da ultimo, accanto alla “lex” si svolge il “plebiscitum.”
Di qui lotte, che condussero a svolgere e in parte anche a modificare i
concetti fondamentali, che servivano di base alla costituzione primitiva di
Roma. Intanto Roma si è ingrandita. Nelle suemura non si esplica più soltanto
la vita pubblica, ma anche la vita domestica e private. Quindi la grande opera,
che si inizia in questo periodo, viene ad essere la formazione di un diritto
privato, comune ai due ordini, e la creazione di quell'arte, in cui i romani
dovevano essere maestri al mondo, cioè dell'”ars iura condendi.” Gl’elementi,
che dovevano convivere sotto la protezione di un comune diritto, sono due, cioè:
il patriziato, onusto di tradizioni religiose, giuridiche e politiche, e la
plebe la quale e un agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita
civile e politica. Quello ha l'organizzazione gentilizia fondata sul vincolo
civile dell'agnazione, e questa non conosce che la famiglia, stretta insieme
dal vincolo naturale della cognazione. Quella ha tante forme di proprietà,
quante sono le gradazioni dell'organizzazione gentilizia. Questa non ha in
certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stanziata (“mancipium”).
Qello ha il “fas”, il “ius”, l' “imperium”, l’ “auspicium”, il “mos veterum”. Questa
non conosce che l'”usus auctoritas”. Fu
la distanza stessa, a cui trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo
di sentire e di pensare compiutamente diverso, in fatto di religione e di morale,
che resero necessaria la elaborazione di un DIRITTO, comune ai due ordini, il
quale FA COMPIUTAMANTE ASTRAZIONE DALLA MORALE E DALL RELIGIONE. Cosi pure è
questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza
dei risultati a cui essa pervenne. Questa dove prendere le mosse dalle
istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi a poco a
poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun elemento
continua ad attenersi alle proprie consuetudini e costumanze. La convivenza dei
due ordini, pero, nelle stesse mura e l'attrito dei quotidiani interessi
finirono per determinare una specie di precipitazione del materiale giuridico,
fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (“mos veterum”), o di
costumanze della plebe (“usus”). Si inizia così la più mirabile selezione
dell'elemento giuridico dagl’elementi affini, con cui trovasi implicato, che
siasi mai avverata nella storia dell'umanità; selezione, che da una parte
obbedisce alla legge naturali di formazione, e dall'altra è già l'opera di una
elaborazione, per parte sopratutto del pontefice, i quali, essendo i custodi
delle tradizioni delle genti patrizie, già sono in possesso di una vera tecnica
giuridica. Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il concetto
del “quirites”, ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per
essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e proprietario di terre,
quale appunto compariva nel censo. Il “quirites” viene cosi ad essere una
realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un soldato ed un
agricoltore ad un tempo. Ed il punto di vista, sotto cui si riguardano il “quirites”
nel reciproco rapporto, essendo determinato dal censo, viene ad essere quello
del mio e del tuo – “il nostro” --. Di qui consegue, che per essi ogni negozio
riducesi ad un trapasso dal MIO al TUO – il nostro -- , simboleggiato nell'atto
“per aes et libram”, e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una
specie di combattimento e di reciproca scommessa. Questo diritto, costituendo
un privilegio dei “quiriti”, viene ad essere denominato “ius quiritium”. I suoi
concetti fondamentali sono quelli vasti e comprensivi di caput, manus, mancipium,
commercium, connubium ed actio. Esso costituisce in certo modo l'ossatura
rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo
nucleo, che si vien precipitando e consolidando, si mantengono ancora sempre,
allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei patres, quanto
gli usi della plebe; così il primitivo “ius quiritium” viene in certo modo
attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che potevano avere
qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il medesimo,
arricchendosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel “ius pro
prium civium Romanorum”, il quale può essere considerato come un proseguimento
di quella selezione, che erasi già incominciata col “ius quiritium”. Sono Le
XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo ius civile.
Quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei varii elementi,
che entrano a costituirlo. Infatti in qualsiasi istituzione di quel ius, che i
giureconsulti chiamano “proprium civium Romanorum”, può scorgersi una
formazione centrale, che è dovuta al “ius quiritium”, e due laterali, di cui
una suole essere di origine patrizia, e l'altra di origine plebea. Così, ad
esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la “confarreatio,” di
origine patrizia e dall'altra l'”usus” di origine plebea. La “coemption” sta
nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiritaria. Fra le forme del testamento,
le più antiche sono il testamento “in calatis comitiis”, propria del patriziato,
e la “mancipatio familiae cum fiducia”, propria della plebe, le quali poi,
pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento quiritario,
che è quello “per aes et libram.” Infine, fra i modi di acquistare e
trasmettere il dominio, il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario
della “mancipatio”, attorno a cui si vengono poi accogliendo l'”in iure cessio”
e l'”usucapion”. Intanto pero questa selezione non si arresta ancora colla
formazione di un “ius civile”, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il “ius
honorarium”, il quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi,
facendoli pero entrare in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate
dal “ius civile”. È con questo meraviglioso processo che il diritto di Roma,
dopo aver cominciato dall'essere la *selezione* più rigida dell'elemento
giuridico, che ricordi la storia, ed una produzione esclusivamente romana,
venne a poco a poco attraendo nella propria orbita anche le considerazioni di
equità e di buona fede, ed assimilando quelle istituzioni delle altre genti,
che si acconciavano alla logica fondamentale, da cui era governato, finchè
divenne poi tale da essere considerato come un diritto universale, e da poter
essere accomunato a tutte le genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui
erasi venuto elaborando. Il diritto romano riusci cosi ad essere una
costruzione eminentemente dialettica, la quale riunisce da sè gli opposti ed i
contrarii. Il diritto romano è antico nei materiali, che lo compongono, nuovo
per le applicazioni che se ne ricavano. Sotto un aspetto il diritto romano è
sempre fisso e fermo nei proprii concetti, sotto un altro è sempre in via di
formazione. Il diritto romano obbedisce ad una logica fondamentale, e intanto
lascia che ogni istituto proceda per proprio conto e segna un proprio concetto
ispiratore. Mentre il diritto romano è una produzione del tutto propria del
genio romano, assimila in se stesso le istituzioni di tutte le genti; è un'arte
ed una scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce e si piega alle
esigenze pratiche, appare informato, come ben dice il giureconsulto, ad una
vera e propria FILOSOFIA, la quale non si abbandona alle speculazioni ideali,
mamedita sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza giuridica, la modella
in concezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le conseguenze, di cui
possono essere capaci. È questo il motivo, per cui le costruzioni giuridiche
dei giureconsulti romani sono sempre dei modelli, che difficilmente potranno
essere superati, poichè nella divisione di lavoro, che si opera fra i popoli
moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in questa parte le
attitudini veramente meravigliose dell'ingegno romano per l'elaborazione
dell'elemento giuridico, e nessuno parimenti, che possa aver l'occasione, il
modo e il campo, che esso ebbe, per applicare la sua giurisprudenza alla
immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare destino quello di Roma. Come
le sue mura furono costrutte coi massi più solidi dell'epoca gentilizia; così i
concetti, che le servirono di base, furono la sintesi potente di tutto un
periodo di umanità, le cui vestigia si vengono ora discoprendo nelle necropoli
delle più antiche città italiche e nelle civiltà fossili dell'antico oriente.
Da questi ruderi di un periodo che può chiamarsi pre-istorico, essa seppe
ricavare uno svolgimento storico e logico ad un tempo, che basta ad organizzare
il mondo per tutto un grande periodo di civiltà. Senza essere ricca di concetti
proprii, essa ebbe però tanta forza ed energia assimilatrice da fare entrare
nei medesimi il lavoro di tutte le genti, con cui denne a trovarsi a con tatto.
Senza abbandonarsi a speculazioni ideali, essa riusci ad isolare l'essenza
giuridica dei fatti sociali ed umani, e a svolgerla in tutte le sue conseguenze
con una logica inesorabile e tenace. Quando poi i concetti, che stano a base
della sua grandezza, sono anch'essi esauriti, dalle loro macerie usce ancora la
grande idea della umanità civile, e la sua legge puo servire come punto di
partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le
città dell'universo, puo personificare in se stessa quella legge di continuità,
che unifica la storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella
preistoria, e le nazionalità moderne sono preparate da essa. Essa e l'erede e la
raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio, e intanto pose
le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne. Inchiniamoci
a Roma. Quando si pretende di cambiarla in sede esclusiva del potere
spirituale, essa sa di nuovo rivivere alla vita civile. Quando si crede di
riguardarla come una specie di museo del mondo civile, colle sole sue memorie
essa coopera a ridestare a vita una giovine nazione. I dualismi, che ora
esistono in Roma, non ci debbono impaurire. Roma e sempre la città dei
dualismi. Punto non ripugna, che Roma e la sede del governo civile. Già altra
volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso dal civile – “sacra
profanis secernere.” Non ripugna parimenti, che Roma continua ad essere la
città dei dotti e degl’eruditi, e che intanto sia la capitale di un giovine
stato. Roma ha tal copia di monumenti del passato da ricavarne la più splendida
passeggiata archeologica, e ha spazio che basta per fondare nuovi quartieri,
che possano corrispondere alle nuove esigenze ed ai nuovi bisogni. Ormai er tempo,
che essa un'altra volta arricchisse il nucleo ristretto della sua popolazione,
accordando nuovamente la sua cittadinanza alle popolazioni, che vi
concorsero da ogni parte dell'Italia. Lo stato federale non cerca di far
rivivere la tradizione civile e politica di Roma. Lasciamo ad altri di
combattere l'influenza della romanità. Noi, studiando fra i ruderi di Roma
antica, abbiamo nella grandezza del suo passato uno stimolo ed un incitamento
per l'avvenire; nè e inutile, che il giovine regno cerchi di educare il suo
senso politico e legislativo, studiando l'opera dei più grandi politici e
legislatori del mondo. La storia civile e politica di Roma e quella del suo
diritto non deve in Italia essere privilegio di dotti e di eruditi. Deve essere
parte dell'istruzione e dell'educazione civile e politica del popolo italiano.
È solo in questo modo, che si spiega la falange di giovani studiosi, che si
precipito sopra questo patrimonio, che deve essere nostro, allorchè lo studio
della storia del diritto romano e opportunamente chiamato a far parte
dell'insegnamento giuridico nell’università italiane. Credo infatti di poter
affermare, senza timore di essere contraddetto, che nessun nuovo insegnamento
provoca nel nostro paese cosi largo movimento di studii, come lo dimostrano le
pubblicazioni fattesi sull'argomento, gli istituti per lo studio del diritto
romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso, con cui non solo
l'Italia, ma tutta l’Europa partecipa alla commemorazione solenne di
quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul diritto ro mano pone le
fondamenta dell'illustre ateneo di Bologna. L'importanza dogmatica del diritto
romano potrà forse diminuire colla pubblicazione del codice civile germanico,
il quale fa si che il diritto romano cessi di essere il diritto comune di un
grande Popolo. Ma la sua importanza storica venne per cio stesso ad essere
accresciuta, perchè si tratta pur sempre di determinare la parte, che nelle
moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in fluenza del diritto
romano. Ne è da farsi illusione, che questo gepere di studii possa ugualmente
mantenersi fuori della cerchia dell’università. Poichè, tanto in Italia che in
Germania, la scienza è nata e si è svolta nell’università, ed è in esse, che
deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È soltanto nell’università,
che la storia del diritto antico può cessare di occuparsi esclusivamente di
minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un sistema di concetti, che
possa essere succo e sangue per la giovine generazione. Giuseppe Carle. Diritto
romano. Keywords: implicatura, diritto romano, legge romana, concetto di legge
romana, natura romana Roman law often invoked nature to justify a legal ius –
the principle of individual ownership: JOINT position of a single object is said to be contra naturam. CONTRA NATVRAM
QVIPPE EST VT CVM ALIQVID TENEAM TV QVOQVE ID TENERE VIDARIS. SERVITVS EST
CONSTITVTIO IVRIS GENTIVM QVA QVIS DOMINIO ALIENO CONTRA NATVRAM SVBICITVR. Orazio.
Sat, Roma – filosofia antica – Luigi Speranza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Carle” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carlini: l’implicatura
conversazionale della filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even
more, but then he is Italian! My
favourite is his “A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da
Talete di Mileto a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto –
“Nel principio era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.”
Si laurea a Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi,
Foggia, Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile,
trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro
dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una
collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi
di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza fu Gentile,
conosciuto qualche anno prima, e Croce, all'epoca ancora in rapporti col
filosofo di Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo
divulgativo, ma divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che
collaborarono in vario modo al suo interno, fra cui, oltre al Carlini, anche
Saitta e lo stesso Gentile. Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in
qualità di direttore responsabile, pubblica due saggi su Aristotele (in realtà
raccolte aristoteliche da lui curate, commentate e tradotte) cui fece seguito
uno studio su Bovio che desta l'interesse di non pochi studiosi e
l'approvazione di Gentile, considerato da Carlini suo tutore
indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli assicurarono un posto di
assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un esaustivo studio sul sense e
l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”.
In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente a delineare il proprio
pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come sintesi fra il pensiero
immanentista gentiliano (Gentile fu, fino alla propria scomparsa, suo amico,
oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto attraversa un costante irto di
dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad instaurare con noi stessi, in un
percorso critico dialettico, una conquista realizzabile solo attraverso gli
strumenti di una metafisica critica. La centralità della teoria della
conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una concezione realistica dello
spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”, “alla ricerca di tu”. Comprensibile
appare pertanto l'interesse che nutre per l'esistenzialismo, che però si
espresse con una singolare preferenza verso Heidegger, nelle cui speculazioni
trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto che nei confronti di
Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la propria filosofofia.
Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la metafisica? (“La nulla
anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i suoi Studi gentiliani,
raccolta di scritti in massima parte già pubblicati precedentemente, tesi a
ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un tempo lo avevano legato
al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza); “Senso ed
esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi); “Note a la
metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma, Quaderni dell'Ist.
Naz. di Cultura, ser. 4; 5); “Il mito del realism” (Firenze, Sansoni); “Lo
spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura, 2); Il
problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze, Sansoni);
“La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze, Sansoni); Le
ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia” (Bologna,
Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. l'architrave 4
ala I ai Mi L. LL a cura di alberto schiavo
Gy giovanni volpe editore FUTURISMO E FASCISMO.
Una fotografia inedita di Marinetti mentre si esercita al poligona di
tiro di Gorizia nel 1915. Marinetti e Russolo si erano arruolati
volontari nel « Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti » il 3 agosto
1914 per poi combattere da alpini sul Monte Altissimo. In seguito
Marinetti verrà assegnato ad un reparto di autoblindate e poi servirà nei
bombardieri. Sarà tre volte ferito e tre volte decorato al valore.
© 1981. Tutti i diritti riservati. Giovanni Volpe Editore in Roma
— Via Michele Mercati, 51 — Telefono 87.31.39 FUTURISMO E
FASCISMO a cure di ALBERTO SCHIAVO
GIOVANNI VOLPE EDITORE FUTURISMO CON E SENZA FASCISMO
«A Giacinto Menotti Serrati allora direitore del- l’Avanti, che si era
recato in Russia per respirare aria comunista. Lenin affermò: “Voi
socialisti non siete dei rivoluzionari. In Italia ci sono soltanto
tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini, D'Annunzio,
Marinetti”. Il povero Giacinto Me- notti, inotridito, ritornò a Milano
precipitosamen- te. E. quando, paco dapo, un capo scarico con un
magistrale colpo di forbice gli tagliò di netto, per beffario, Ia
veneranda barba, reagì in questo modo: facendo proclamare nella grande
città lombarda lo sciopero generale. I milanesi orripilarono, è il
caso di dirlo, perché si sentirono da quel giorno appesi ai peli
del direttore dell'Avarti » EmiLio SErTIMELLI, Mille giudizi di
statisti, scrit- tori, giornalisti, scienziati, industriali di
Cinquanta Stati sulla personalità e misstone di Mussolini, Edi.
zioni Erre, Milano, 1945, XXIII faprile). 1. Quale
futurismo? Il futurismo è ormai un fatto d’esportazione: italiano
d'origine pur se si è cercato di farlo passare per francese e russo poi
di acquisizione e di affermazione, è ormai alla ribalta
dell’esperimentazione artistica americana. Se- gno questo che il fenomeno
è vitale e ancora carico di prospettive, nonostante la « storicizzazione
» di un avve- nimento che fu d'avanguardia. Ma quale avvenimento?
Il manitesto del futurismo fu pubblicato sul parigino Le Figaro. Si tratta di
un manifesto letterario di rinnova- mento e di rivoluzione, se vogliamo,
della tradizione clas- sicista e « passatista » {secondo un termine caro
ai futu- risti) dominante. Gli aspetti politici non furono
tuttavia estranei alla sua volontà di rivolgimento letterario ed
artistico. Ci sembra quindi giusto prenderli in considerazione,
eftet tuarne un esame. Anzi, è proprio di questi che ci vo- gliamo
occupare, del loro svolgersi, articolarsi 0, comun- que, manifestarsi nel
corso del tempo e della vita del fu- turismo. Che, in fondo, ancora oggi
è accettato o respinta, condiviso o negletto, « approvato » o denigrato a
seconda delle posizioni o degli intendimenti politici del momento.
Ma anche è ticonsiderato, tivisto e « rivisitato » nel suo complesso, da
tutte le parti, vicine e lontane, amiche ed avverse, per la carica vitale
e rinnovatrice che lo anima, suscitatrice di nuovi spiriti e ancòra, in
fondo, moderna. « La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità
pen- sosa, l'estasi e il sonno », scriveva Marinetti in quel Mani
festo di settanta e più anni fa. « Noi vogliamo esaltare il movimento
aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di cor- sa, il salto mortale,
lo schiaffo ed il pugno». E non è già atteggiamento letterario «
aggressivo », ma anche di rinnovamento, questo? Non è, come si suol dire
ancora, « fare politica »? Al settimo punto del Manifesto, Ma-
rinetti così continuava: «Non c'è più bellezza, se non nella lotta.
Nessuna opera che non abbia un carattere ag- gressivo può essere un
capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto
contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo ». Per
conclu- dere poi con l'undicesimo: « Noi canteremo le grandi fol-
le agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa; can- teremo le maree
multicolori e polifoniche delle rivolu- zioni nelle capitali moderne;
canteremo il vibrante fer- vore notturno degli arsenali e dei cantieri
incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde,
divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole...
». E tutto questo cantava e diffondeva da Parigi, da uno dei più
gloriosi quotidiani della capitale francese; ma cio- nonostante « ...è
dall'Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di
violenza travolgente e incen- diaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”,
perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di
professori, d’archeologi, di ciceroni e di antiquari ». Un grido
così coinvolgente e totale non può, in fon- do, non trascinare ancora gli
osservatori della cultura, A non
invitarli almeno a prendere posizione, poco importa se favorevole o
contraria. Non si può rimanere indiffe- renti ancora negli Anni Ottanta,
non sentirlo tutt'ora pre- sente nei suoi contenuti « prospettici » e
attuali. Ecco perché tutti lo hanno ripreso, riconsiderato o «
riabilita- to» alla loro dimensione storica: liberali e comunisti,
socialisti e conservatori, cattolici e radicali, fino alla « nuo- va
destra ». Anche noi, vorremmo quindi riesaminarlo a distanza non però per
riappropriarcene, ma solo per ve- dere la sua origine, il muoversi
storico e la collocazione politica nel corso della sua esistenza, che in
fondo, è an- cora incerta e anche, in parte, controversa. Si
è parlato d’irrazionalismo filosofico, di decadenti- smo o di
romanticismo letterario, di surrealismo con evi- dente errore di
collocazione, di nietschianesimo natural mente, o di bergsonismo ecc.
ecc. Ma non sta a noi que- sto compito, perché siamo convinti che rutto
si potrebbe dite, o comunque tutto si potrebbe adattare in buona
combinazione di purpurie filosofica, o di pensiero. E in- vece è il
futurismo che vorremmo considerare nella sua realtà storica, nella sua
entità e valenza « politica », di fianco o a distanza di quel fascismo
con cui bene o male si è accompagnato. Anche se ciò non basta certamente
per avere un'idea chiara e precisa della sua effettiva por- tata e del
suo valore « storico ». Perché il futurismo va visto sì nel suo tempo,
che non è poi tanto passato, pur se non è più momento dell’oggi; ma va
visto anche nella sua prosecuzione e nella sua proiezione al tempo
presen- te, sia pure per quel che riguarda la « dimensione d’arte
». Il futurismo oggi non è più un fatto politico, ma è
tuttora fatto culturale, e diverse manifestazioni e pubbli cazioni lo
dimostrano ancora. Quando nacque, fu espres- sione rivoluzionaria di un
paese giovane e « nuovo » mos- so dalla felice conclusione dei fermenti
unitari, i quali — è ovvio — comportano sempre semi di
sconvolgimen- to e di « rinnovazione ». L’« Italia di
Vittorio Veneto » sancità definitivamente ed epicamente il ciclo
dell’unità e segnerà così anche, nel l'immediato dopoguetra, il momento
di temperatura massima del « futurismo politico », che vedremo poi
ricadere in seguito completamente a zero. Oggi, in tempi di
riflusso dopo una guerra perduta anche se ormai lontana, il futurismo
risulta meno com- prensibile e meno « attuale » alla nostra capacità
d'in- tendimento storico. Ma a ben osservare possiamo ancora
intravvederlo, per intendere poi anche meglio il futurismo artistico e
letterario, che del tutto estraneo a quello « po- litico » proprio non
è. La cultura è un fatto del presente, ma anche dell’av-
venire. Come tale è o dovrebbe essere giovane, perché vissuta, voluta, «
creduta » e quindi guardata in prospet- tiva nella visione dell’oltre,
nell'ottica di uno sguardo lon- tano. Il futurismo si pone in questo
«taglio » di visuale sull'inizio del secolo, e si focalizza in tale
dimensione. Vuole aprire una nuova strada e vuole porgere un'indi-
cazione, una proposta. Erano i tempi del progresso, dello sviluppo
della scien- za e dell'industria, del nascere della velocità dei
nuovi suoni e dei nuovi rumori, quelli delle scoperte e delle
invenzioni, del cinema e dell'aviazione. Marinetti percepì tutto questo e
lo espresse. E fondò il futurismo, pose le sue basi e cantò la sua prima
voce. Nessuno forse s’aspettava o s'immaginava che potesse riuscire a
trovare ascolto. Marinetti però viveva a Parigi a quel tempo, e
seppe approfittare dei contatti che aveva con la cultura rancese per
lanciare il Manifesto: fu un'occasione, e fu anche un lancio
sicuro. 2. Futurismo e « passatismo » Esiste ancora
oggi il « passatismo », quello di mari- nettiana memoria. E se è pet
questo c'è ancora il futu- rismo. Proprio per tale suo aspetto, dunque,
il futurismo è ancora attuale: la decadenza della cultura o il suo
in- vecchiamento, e la sua inadeguatezza ai tempi; il preva- lere
per contro dell'accademia, della pedanteria, del vec- chiume cattedratico
sono sempre all'ordine del giorno. ® Il futurismo,
quindi, non ha esaurito il suo compito, ov- vero non è riuscito nel suo
intento. E allora dovremo dire che non è morto ed è tuttora attuale. Ma
prima di aprire un'ipotesi di «nuovo futurismo », dovremmo
esaminare quello passato, fattosi movimento d'avanguardia, e ormai
da ridefinirsi vera e propria avanguardia storica, solo ed
esclusivamente. Il « passatismo » può essere oggi solo un « fatto
di ritorno », o esser rientrato ad occupare il suo campo d'’ori-
gine, ma il futurismo settanta anni fa aveva già conosciu- to quello di
allora, tanto da indicarlo e da definirlo, con una sua caratteristica
espressione: passatismo, appunto. E non si trattava anche allora di una
cultura ripetitiva e monocorde, puntualizzatrice e pedante, noiosa e
inat- tuale? Allora come oggi: una cultura fuori dal tempo, sterile
e ferma. E il futurismo aveva voluto muoversi a rinnovarla, a darle nuova
spinta vitale. Ecco allora le sue invettive contro l’accademismo o il
professorume, i suoi appelli alla distruzione di musei, archivi,
biblioteche. Si trattava di appelli squisitamente letterari, ma
sono stati presi il più delle volte alla lettera o in senso lette-
rale, per farne atto d'accusa al futurismo e alla sua anti- cultura.
Leggendo al di là delle righe, invece, dovremmo capire la portata o la
dimensione del messaggio, rivolto agli uomini più che ai musei e alle
accademie, o almeno a certi uomini capaci di rappresentare solo ed
esclusiva- mente cultura da museo. Sulla spinta di questo
stimolo « ideologico », era fatale che il movimento trovasse più facili
accoglienze 0 acco- stamenti con le parti politiche d’azione, quelle
dell'inter vento prima della Grande Guerra, e dell’arditismo prima
durante e dopo il conflitto. La guerra veniva ormai intesa sola ed unica
«igiene del mondo », ed era logico che i futuristi si accostassero a lei,
come ad una forza capace di debellare ed estirpare il tanto inviso «
passatismo ». I futuristi quindi furono interventisti accanto ai
naziona- listi (D'Annunzio) ed ai socialisti di Corridoni e di Mus-
solini. La ineluttabilità della storia accosta spesso e vo- lentieri i «
differenti ». Furono vicini nei comizi, nelle manifestazioni, nella
propaganda per l’intervento. E poi partirono, praticamente tutti 1
futuristi, volontari per il fronte di una guerta che avevano inteso e
visto aggressiva, purificatrice e moderna. Una guerra al passo coi
tempi, si direbbe oggi, una guerra insomma « futu- rista ». Partì
Martinetti e partì Boccioni, partirono Funi e Sitoni, partì Sant'Elia,
che lasciò i suoi 23 anni in trin- cea sulle colline del Carso. Erano
entrati tutti e cinque « compatti » in quel glorioso battaglione ciclisti,
che tan- to fece patlare di sé, e che Funi rittasse in un famoso
quadro. Anche Boccioni morirà in ospedale a Verona. La vita fu forse la
massima offerta all’« igiene » di una guetra tanto desiderata.
Il futurismo in quanto fermento rinnovatore di una lotta nazionale
che concluse il Risorgimento, potrebbe es- sere inteso come un epigono
del Romanticismo. Fu in- vece di più e di meglio, visto in altra
dimensione o in altro significato. Perché fu avanguardia, anzi il primo
ve- to e proprio movimento d’avanguardia culturale del nuo- vo
secolo. E l'avvento del fascismo in senso politico, di- mostra in fondo
che lo sbocco di tutto quel rivolgimento innovativo 0 avanguardistico che
tutti sentivano e « avevano nel sangue », era diventato una ineluttabile
necessità del momento. L’irreggimentazione del fascismo è un
fatto successiva, indipendente dal futurismo. Il fascismo-regime, per
dirla con De Felice, è un'esito autonomo e « solitario » di Mus-
solini e del potere. Il fascismo-movimento invece, sempre per dirla alla
De Felice, no. I) fascismo-movimento è una realtà più complessa,
articolata e multiforme, più sentita e partecipata. Ed in essa entra il
futurismo, che « vive » il fa- scismo ma anche lo anima, che Jo vuole in
parte, ma anche lo informa. Il « passatismo » doveva essere
stroncato: e in un primo momento, con l'avvento di Mussolini, languì.
La cultura subì uno svecchiamento non indifferente ed il fer- mento
del nuovo portò sulla scena uomini « giovani » ac- cantonando | «
vecchioni » dell'accademia libera!socialista. Balla, Carrà, Soffici,
Funi, Sironi, Prampolini si afferma- rono col vento futurista che stava
soffiando. Ed ebbero spazio nelle mostre, almeno in un primo momento,
aper- tura nei musei, apprezzamento all’estero, dove vennero accolti,
ammirati, imitati. Il futurismo ebbe una grande forza vitale sua,
autonoma e individuale. Senza per que- sto imporsi e schiacciare la «
concorrenza », anzi. I fu- turisti accettatono nuove esperienze ed
accolsero scambi con avanguardie straniere (come l'astrattismo), che
vol. lero mutuare in reciprocità l’influenze. Il fascismo fu
l’avan- guatdia collaterale politica del futurismo, che tuttavia
que- st'ultimo cronologicamente precedette e « ideologicamente »,
almeno in parte, ispirò. La lotta al « passatismo » diven- ne così quasi
simbolo del fascismo, che si fece portaban- diera del rinnovamento e
della nuova rivoluzione nazio- nale. I « professori », non
avendo messaggi originali da con- trapporre, rimasero in disparte.
Marinetti divenne acca- demico d’Italia a fascismo avanzato e, forse, suo
malgra- do. Tuttavia « usò » l'Accademia per promuovere ed ap-
poggiare i « suoi » futuristi, per dar loro spazio nelle di- verse
manifestazioni d’arte e di cultura. Il filosofo Croce, « professore ad
honorem », era stato proposto alla presi- denza dell’Accademia, ed era
stato proposto da parte fa- scista, quando ancora da Napoli applaudiva a
Mussolini: ebbe invece più consensi la presidenza Marconi, lo
scien- ziato, e Croce si ritirò nell’antifascismo, forse mi litante,
della sua incensurata e liberissima Critica. Croce fu « pas- satista », 0
tortò ad essere tale dopo una parentesi {od un tentativo di rivolgimento
innovativo), che non lo sot- trasse tuttavia dalle « carte » della sua
più o meno im- mobile filosofia. 3. Futurismo e
politica La comparsa « politica » del futurismo fu
praticamente contemporanea alla sua nascita «artistica: infatti
avvenne in occasione delle elezioni del 1909, quando Marinetti
lanciò il suo Primo Manifesto Politico, che così si rivol- ge agli «
Elettori Futuristi »: « Noi Futuristi invochiamo da tutti i giovani
ingegni d’Italia una lotta ad oltranza contro i candidati che patteggiano
coi vecchi e coi preti ». Posizione confermata nel marzo dello stesso
anno in un famoso Discorso ai Triestini tenuto al Politeama Rosset-
ti, della città giuliana, dove così sottolinea: « In politica, stamo
tanto lontani da] socialismo internazionalista e an- tipatriottico —
ignobile esaltazione dei diritti del ven- tre — quanto dal conservatorismo
pauroso e clericale, simboleggiato dalle pantofole e dallo scaldaletto ».
Sono le premesse del famoso anticlericalismo marinettiano, che
sfocerà poco dopo nello « svaticanamento » tanto predi- cato per la
salvezza nazionale. Nel 1910, dopo la nascita del futurismo
politico, vie- ne fondato il Partito Nazionalista Italiano,
antidemocra- tico ed antiborghese. Nel 1913 nasce Lacerba, cui
diede- ro vita a Firenze Soffici e Papini, la rivista che in pra-
tica divenne ben presto organo ufficiale del futurismo /ato sensu. Sempre
nel 1913 sorgeva a Napoli un’altra rivista futurista, diretta da
Ferdinando Russo e intitolata Vele Latina, che si ergeva in un primo
tempo a voce di pa- sizioni morigerate e tranquille, e poi dal 1915 più
spinte nella mischia dell'intervento. Ancora del ’13, e
dell'11 ottobre per l'esattezza, è la pubblicazione del Programma
politico futurista a firma di Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo, per
le elezioni dello stesso anno. « Questo programma vincerà », s'in-
dica al margine inferiore del foglio, «il programma cle-
rico-moderato-liberale » e «il programma democratico-re-
pubblicana-socialista ». Cosa che poi in realtà non av- venne.
Il 12 dicembre dello stesso anno Marinetti pronun- ciava un
discorso al Teatro Verdi di Firenze, dove sao- stiene la volontà di
appoggiare l'impresa libica ed il suo felice compimento. Il discorso
viene immediatamente ri- preso e pubblicato da Lacerba, nel numero del 15
dicem- bre (n. 24, anno I): « Si convincano i socialisti che noi
rappresentanti della nuova gioventù artistica italiana com- batteremo con
tutti i mezzi e senza tregua i loto vigliac- chissimi tentativi... »
iniziava il discorso; e così concludeva, a rafforzamento delle sue inconciliabili
posizioni: « Noi siamo dei nazionalisti futuristi e perciò
ferocemen- te avversi all’altro grande pericolo imminente: il
clerica- lismo con tutte le sue propaggini di moralismo reaziona-
sio, di repressione poliziesca, di professoralismo archeo- logico e di
quetismo rammollito o affatismo di partito ». Ormai la collocazione del
movimento è quanto mai chia- ra e inequivocabile. 4.
Futuristi e « fiorentini » Che i futuristi fossero « milanesi » è
problema tutto da vedere, anche se è vero che Marinetti abitava a
Mi- lano e che dopo la fondazione del movimento a Parigi fu a
Milano il suo centro di spinta e di irradiazione. Ma i legami con Firenze
furono ben presto agganciati, e determinanti. Scrive Luciano De Matia: «
Fsiste un fu- turismo milanese (con Marinetti e Boccioni in simbio-
si); esiste un primo futurismo fiorentino lacerbiano, che assimila,
elabora in modo nuovo, creativo, le istanze mi- lanesi; esiste un secondo
futurismo fiorentino (la « pattu- glia azzurra »; i giovani de L'Italia
futurista) psicologico, occultista, predadaista e presurrealista. E
potremmo con- tinuate nelle differenziazioni »”. Ma non è
tanto per questo tipo di differenziazioni che ci interessa il futurismo
fiorentino, quanto per la dimen- sione « politica » dei personaggi che vi
aderirono, diversa da quella di Marinetti e degli altri futuristi
milanesi o degli altri politici che a Milano operavano e si muove-
vano (Boccioni, Sant'Elia, Balla; più tardi poi, Vecchi e Mussolini).
Milano era già città d'avanguardia e alla guida dell’industrializzazione
settentrionale: questo non va dimenticato. Firenze era ancora
« passatista », accademica e salot- tiera; legata comunque ad una cultura
d’indagine e di ! Tuciano De Maria, Palazzeschi e l'avanguardia,
Mondadori, Milano, 1968, pag. 31. riesumazione di un passato ricco e
glorioso, ma ormai ri- petitivo e sclerotizzato. Firenze tuttavia era
anche la terra feconda del primo Novecento, delle nuove riviste,
dei tentativi di rivisitazione di una cultura pur sempre na-
zionale, e di lancio dell'avanguardia sullo scorcio del nuo- vo secolo,
che andava creato e costituito, Il Leonardo apre le sue tirature il 4
gennaio 1903, per chiuderle poi nel- l'agosto del 1907. Era stato Papini
a fondarlo, ma c’era già anche presente Prezzolini (Giuliano il Sofista).
Che poi mise in piedi La voce nel 1908: uno dei migliori ten-
tativi di collegamento delle forze intellettuali e di fon- dazione di un
minimo denominatore comune, letterario e politica {idealismo e
sindacalismo socialistico di tipo so- reliano). Papini continuò la «
collaborazione ». Ma vi fu- rono anche, sulle pagine de La Voce, Amendola
e Sal vemini, Soffici e De Robertis, oltre che il futuro fonda-
tore de Il Popolo d’Italia e del Fascismo. La Voce chiudeva però i
battenti nel 1912 senza ec- cessiva eco politica immediata. Papini non
aveva condi- viso certe alleanze del suo amico Giuliano il Sofista,
come non condivideva l'intento didascalico e divulgativo della Voce
su qualsiasi argomento artistico e sociale, come an- che « idealistico ».
Si unì a Soffici di cui condivideva gli atteggiamenti, ed insieme
fondarono Lacerba (il 1° gen- naio del 1913, sempre a Firenze). « Non si
volge chi a stella è fisso! », portava come motto il Leonardo sotto
la testata. Volendo dare tono battagliero a Lacerbae, Pa- pini forse
ancora seguiva le prospettive d’arte e di cul- tura del Leonardo. Anche
se in una dimensione « attiva » che già i « leonardiani » avevano inteso
fondare nell’uti- lizzazione del pragmatismo come « strumento di
poten- za ». (« In quegli anni tutti vollero sapere che cosa fosse
il pragmatismo »). Lacerba riprende l’impostazione di battaglia,
tipica di Papini, e ritotna all’orientamento spe- cifico dell’arte.
? Vedi anche Giovanni Papini, Pragmatismo, Firenze,
Vallec- chi, 1927. 14 In questo contesto è
evidente che non poteva man- care l’incontro col futurismo.
La scazzottatura dei futuristi con Soffici e i vociani nel 1911°
non poteva aver contribuito all'incontro? Po- trebbe darsi, anche se
Papini non vi aveva partecipato, come Marinetti stesso asserisce in una
sua lettera a Pra- tella. Sta di fatto che col 15 marzo del 1913, cioè
col suo sesto numero, Lacerba diventa futurista. Con un ar- ticolo
proprio di Papini dal titolo Contro il futurismo che dal famosa attacco
iniziava così: « Il futurismo italiano ha fatto ridere, urlare e sputare.
Vediamo se potesse far pen- sare». Segue un passo di Boccioni sul
«fondamento plastico della scultura e pittura futurista». Proprio
Boccioni che ave- va investito Soffici col suo celebre pugno, poco più
di un anno prima a Firenze. E che continuerà a pubblicare articoli
sul numero del 1° di aprile e su quello del 1° di agosto e poi sul primo
numero del 1914, ecc. Per non parlare di Carrà, Marinetti, Russolo,
Sant'Elia, Auro d'Al- ba, ecc., che porteranno continuamente i loro
contributi. Il 15 ottobre del ’13 Lacerba pubblicherà
addirittura il citato Programma politico futurista in occasione delle
elezioni generali. Il manifesto politico compare in prima pagina con
tutti i crismi d'appoggio o di affiancamento della rivista. Papini ne dà
un commento più che « sod- disfacente ». E lo stesso Papini il 1°
dicembre dello stes- so anno uscirà poi con un lungo articolo intitolato
Perché son futurista. Sarà l’atto di accettazione definitiva del
fu- turismo, od il suo accoglimento più completo, e « globale ».
1 Su La Voce Soffici pubblica il 1° aprile del 1909 la sua Ri-
cetta di Ribi Buffone. Vi si elencano gli ingredienti del neonato
futurismo: « Un chilo di Verhaeren, 200 gr. di Alfred Jarry, cento di
Laforgue, trenta di Laurent Tailhade, cinque di Viélé Griffin, un pugno
di Morasso..., una presa di Pascoli », aggiungendovi poi « una pila di
undici automobili, sette aetoplani, quattro treni, due carghi, due
biciclette, diverse batterie elettriche e qualche candela arden- te».
Sempre su La Voce Soffici pubblicherà poi nel ‘10 e nell’11 dei
rendiconti negativi sulle opere futuriste esposte a Venezia e a Milano,
per cui sarà decisa la spedizione punitiva a Firenze da par- te dei
fuiuristi, Non molti giorni dopo, il 12 dicembre (lo ab-
biamo già visto), si tenne al Teatro Verdi a Firenze una « grande serata
futurista », di cui riporta il « reso- conto sintetico » il numero 24
della rivista (del 15 di- cembre 1913). Non molto tempo dopo,
però, il 15 febbraio del ’14, appare sul quarto numeto del nuovo anno I!
cerchio si chiude, che avvia inesorabilmente al declino della colla-
borazione. Autore ne è ancora una volta Giovanni Papini, che chiuderà
definitivamente il « colloquio » sull'ultimo numero dell’anno insieme a
Soffici, cofirmatario de Il Fu- turismo e Lacerba. E’ l'atto di chiusura
di un « perio- do »: quello, appunto, del futurismo lacerbiano. Rispon-
derà Boccioni il 1° di marzo sul numero 5 con Il cerchio non si chiude;
ma sono solo sussulti, e anche sugli ultimi numeri dell'anno della
rivista compariranno solamente i cosidetti « canti del cigno ».
Il cerchio era ormai già chiuso. E non molto dopo chiudeva anche
Lacerba, nonostante i suoi ultimi tenta- tivi interventisti di
rivivificazione (1915) e le sue discri- minazioni tta futurismo c
marinettismo, che ne sarebbe stata la versione deteriore‘. 1l
marinettismo sarebbe pra ticamente già morto secondo «i fiorentini »,
mentre il futurismo avrebbe potuto tendere a mete migliori. Dopo
pochi mesi in realtà morirà definitivamente anche Lacerba. 5. Il
futurismo e la guerra Nel 1929 Marinetti ricordava così l’inizio
della sua « carriera interventista »: « Nel settembre 1914 dutante
la battaglia della Marna e in piena neutralità italiana, noi futuristi
organizzammo le due prime dimostrazioni contro l’Austria e per
l'intervento. Bruciammo il 15 settembre nel Teatro Dal Verme e il 16
settembre in Piazza del 4 Cfr. Palazzeschi, Papini,
Soffici, Futurismo e Marmnettismo, in Lacerba, anno III, n. 7, 14
febbraio 1915, pp. 49-50. Duomo e in Galleria undici bandiere austriache
». Poco prima di quegli avvenimenti, Mussolini aveva fondato il suo
nuovo quotidiano, I{ Popolo d’Italia. Contemporanea- mente, sotto
l'auspicio e il favore di Corridoni, i gruppi rivoluzionari di sinistra,
già pronunciatisi a favore della guerra, si stavano organizzando per
sostenere anch’essi l'intervento. Come ricorda De Felice, «il 5 ottobre
il Fascio Rivoluzionario d'Azione Internazionalista avreb- be
lanciato il suo primo appello ai lavoratori italiani in questo senso » *
L'incontro tra futuristi e rivoluzionari di estrema sinistra si stava
verificando e « stringendo », anche se già confortato da reciproche
simpatie per le uni. voche posizioni anticlericali ed antiborghesi.
Mussolini scriveva dalla direzione de Il Fopolo d'Italia una lettera a Buzzi,
che riportiamo interamente: « Caro Buzzi, Boccioni vi avrà detto —
se mai vi avrà parlato di me — che tutte le mie simpatie sono — anche nel
dominio dell’arte — per i novatori e i demolitori: per i “futuristi”.
Inattesa, e perciò gradita, mi giunge la vostra lettera riboccante
di simpatia. E’ questo uno dei momenti più amari della mia vita. Ma
vincerò. Vincerò. Lo sento. F' necessario. Ho messo nel gioco tutta me
stesso. Credetemi. Vostro Mus- solini ». L’amarezza gli è
data probabilmente dall’espulsione dal Partito socialista proprio per la
posizione da lui assun- ta a favore dell'intervento. La conoscenza da
parte di Mussolini, di Boccioni e del movimento d’arte d’avanguar-
dia di Marinetti, risultava sino a poco tempo fa inesistente. La lettera,
unica del genere, conferma la precedenza del futurismo politico rispetto
al fascismo ancora da sorgere, che poi mutuerà da esso idee, elementi e
programmi. Le simpatie si manifestano per il dominio
dell'arte, al dire di Mussolini, ma non solo; c'è un « anche », che
indica chiaramente dell'altro e un'apertura, forse politi ca, possibile
nei confronti degli innovatori e dei « demo- Renzo De Felice,
Mussolini il Rivoluzionario, Einaudi, Tori. litori », vale a dire per i
futuristi. Che ancora il 9 dicembre di quell’anno organizzano le prime
manifesta- zioni interventiste all’Università di Roma, sotto la
guida di Marinetti, Balla, Cangiullo e Depero. Qualche mese dopo,
nel ’15, le autorità di governo fermano Marinetti, Cangiullo, Balla e
Depero che avevano indetto una ma- nifestazione interventista un’altra
volta a Roma, in Piazza Venezia. E' il primo « fermo politico » di
Marinetti. Sia- mo quasi alla vigilia della guerra. Il 12
aprile 1915 si mette in piedi la « terza grande dimostrazione
interventista » davanti alla Camera dei De- putati. E' presente anche
Mussolini e si verifica uno dei maggiori « momenti d’incontro » tra
futuristi e Mussolini sul terreno dell’intervento. Balla, Corra,
Settimelli, Ma- rinetti e lo stesso Mussolini vengono attestati. Tutti
gli sforzi ormai, tutte le volontà e tutte le energie sono con-
centrate verso un'unica e suprema meta: quella della guer- ra. A Messina
esce il nuovo periodico La Balze, e Ma- rinetti pubblica il manifesto
Guerra sole igiene del mon- do, mentre il poeta futurista Auro d'Alba «
lancia » a Mi- lano per le Edizioni Futuriste di « Poesia » (« sostenute
» da Marinetti) il volume Baionette. Con l’entrata in guerra
nel maggio, a Fitenze Lacerba interrompe — come si è visto — le
pubblicazioni. Una guerra che avevano tutti quanti, in un certo senso,
pre- parato con interventi, discorsi, giornali, manifestazioni e
pubblicazioni. Fra questi non va dimenticato il manifesto del Teatro
futurista sintetico, firmato da Martinetti, Corra e Settimelli, nel
quale, fra l’altro, così si legge: « Aspettan- do la nostra grande guerra
tanto invocata noi Futuristi al- terniamo la nostra violentissima azione
artistica sulla sen- sibilità italiana, che vogliamo preparate alla
grande ora del massimo pericolo ». E più avanti: « Perché I’Italia
impari a decidersi fulmineamente a slanciarsi, a sostenere ogni sforzo e
ogni possibile sventura non occorrono libri e riviste... La guerta,
futurismo intensificato, ci impone di marciare e di non marcire nelle
biblioteche e nelle sale di lettura. No: crediamo dunque che non si possa
oggi influenzare guerrescamente l'anima italiana, se non median-
18 te il teatro ». E in effetti, a partire dal gennaio del
'15, i futuristi avevano iniziato una serie di « Tournées di tea-
tro futurista interventista » per sostenere la necessità del-
l’intervento con un mezzo di comunicazione ben più po- polare e «
circolante » della letteratura. Anche la «serata futurista », per
esempio, è un al tro canale o strumento di « incoraggiamento »
dell'inter- vento. Si tratta di una sorta di riunione o ritrovo di
arti- sti futuristi, uno dei quali sollecita gli intervenuti
(pubbli- co) danda uno spunto, e proponendo un tema, o aggre- dendo
qualche aspetto dell'arte del passato, da cui nasce lo stimolo alla
creazione e alla lotta del nuovo 0 del futu- ro, e anche lo stimolo alla
guerra che lo conduce sino alle ultime conseguenze. Ma sentiamo Marinetti
come la defi- nisce quando si rivolge agli studenti in un altro
manifesto, di poco precedente a quello « teatrale », intitolato Im
que- st'anno futurista, rivelto agli « studenti italiani » e datato
29 novembre 1914. Laddove si esortano i giovani alla guerra così si
afferma: «... il futurismo segnò appunto l’irrompere della guerra
nell’arte, col creare quel fenome- no che è la Serata futurista
(efficacissima propaganda di coraggio). Il futurismo fu la
militarizzazione degli artisti novatori ». E la guerra
arrivò, come A biamo visto, e per molti versi fu vera e propria « guerra
futurista ». In luglio par- tiva il gruppo più consistente di « volontari
»: Marinetti, Boccioni, Russolo, Sant'Elia, Bucci, Carlo Erba e
Funi. Ma ci saranno al fronte anche Carrà e Sironi, fattosi futu-
rista nello stesso anno, e Piatti e Fortunato Depero. Alla fine
dello stesso anno Boccioni, Russolo, Sant’E- lia, Sironi e Piatti, sempre
sotto l'egida di Marinetti, fir- mano un altro manifesto futurista,
quello dell’Orgoglio italiano, con cui si promettono pugni, schiaffi e
fucilate a quelli degli italiani che avessero manifestato in sé «la
più piccola traccia del vecchio pessimismo imbecille, deni- gratore e
straccione che ha caratterizzato la vecchia Italia di mediocristi
antimilitaristi (tipo Giolitti), di professori pacifisti (tipo Benedetto
Croce, Claudio Treves, Enrico Ferri, Filippo Turati), di archeologi, di
eruditi, di poeti nostalgici. Sant'Elia muore al fronte, e Boccioni, una
settimana dopo, per una caduta da cavallo durante un'esercitazione militare a
Orte. Nasce a Firenze la nuova rivista L'Italia futurista. Prampolini
fonda con Fol- gore il foglio d'avanguardia Awvenscoperta. Nel ’17
nasce il periodico Deda, che tanto dovrà nell’ispirazione al no-
stro futurismo. I) 18 è ormai l'anno della vittoria. Depe- ro realizza i
suoi nuovi «balli plastici ». Bruno Corra pubblica a Milano con i tipi
dello Studio Editoriale Lom- bardo Per l'arte della nuova Italia. Siamo
infatti nell’Ita- lia della vittoria. 6. Il Partito politico
futurista Nella nuova realtà del dopoguerra il futurismo
cerca una sua nuova collocazione politica più « pacifista », se il
termine non è nella fattispecie una contraddizione. Ai fasti
dell'intervento e della militarizzazione, succede un nuovo intento programmatico
di realizzazione. La prima espressione di questa volontà è ancora una
volta dovuta a Marinetti che pubblica nel febbraio del ’18 un
Manifesto del Partito politico futurista, l'adesione al quale era
libera ed aperta a tutti coloro che avessero accettato i principî
del suo programma, indipendentemente dalle concezioni dell’arte o dal
consenso all’« estetica futurista ». E questo indica una presa di
posizione più ponderata e meno « di rottura », almeno in senso
sociale. Il documento esprime, negli intenti, il desiderio di
rinnovamento di quelle fasce del combattentismo inter. ventista, comprese
fra i mussoliniani, i sindacalisti tivo- luzionari, i socialisti e i
repubblicani di sinistra, che avreb- bero poi dato vita alla formazione
dei Fasci di Combatti- mento, quelli cui futuristi ed arditi avrebbero
infuso la prima linfa vitale. Si possono considerare punti
essenziali del nuovo programma l'estensione del suffragio universa-
le, comprendente anche le donne, la socializzazione della terra con assegnazione
ai reduci, la tassazione progressi- va, l'abolizione dell'esercito e la
sua professionalizzazione 20
(volontariato), la giustizia gratuita, la libertà di sciopero e
stampa, le otto ore lavorative e Î contratti collettivi di lavoro,
l'assistenza e la previdenza sociale, la « tecniciz- zazione » clel
parlamento e l’introduzione del divorzio. A diffondere le idee del nuovo
partito era destinato il perio- dico Roma futurista, fondato a Roma da
Marinetti, Mario Carli ed Emilio Settimelli, che vedeva la luce il 20
set- tembre 1918 e portava come sottotitolo « Giornale del Partito
politico futurista ». . « Roma futurista », racconta Marinetti nel
suo libro Futurismo e Fascismo (1924) « nacque un mese e mezzo
prima dell’armistizio, cioè il 20 settembre 1918, e porta- va nel suo
primo numero tre scritti importantissimi dei suoi tre direttori: Mario
Carli, Marinetti, Settimelli. Scri- veva Settimelli: “Il Futurismo che
fino ad oggi esplicò un programma specialmente artistico, si propone una
inte- grale azione politica per collaborare a risolvere gli urgen-
ti problemi nazionali. Coloro che ci accusarono di squili- brio dovranno
ricredersi. I] preconcetto di serietà pedan- tesca e quietista imposto
alla vecchia Italia dai profes- sori rammolliti, dai preti anti-italiani
e dagli affaristi gio- littiani, cercò di svalutare la nostra genialità
di giovani audaci e novatori. Ma la vera Italia non può rimanere e
non rimarrà neppure parzialmente nelle loro mani inca- paci. La guerra ha
rivelato le vere forze italiane. Sono for- ze giovani, violente,
antitradizionali e ultra-italiane” ». Il primo numero di Roma
futurista (decadario, poi settimanale) pubblicava il programma del
giornale mede- simo ed anche il manifesto di quel Partito Politico Futu-
rista che si doveva ancora fondare. Partito che, nell’inten- dimento di
Settimelli, doveva essere « più che altro una tendenza psicologica », una
« fusione di realtà e di scon- (inamento, di praticità e di lirismo »,
che avrebbe contri- buito a creare un nuovo tipo d'italiano. Ma ecco
ancora come si esprime «la volontà» di fondazione del movimento: «
Il Partito politico futurista che noi fondiamo e che or- xanizzeremo dopo
la guerra, sarà nettamente distinto dal movimento artistico futurista.
Questo continuerà nella sua opera di svecchiamento e rafforzamento del
genio creatore italiano... Potranno aderire al partito politico futu-
rista tutti gli Italiani, uomini e donne d’ogni classe e di ogni età...
Questo programma politico segna la nascita del partito politico futurista
invocato da tutti gli italiani, che si battono oggi per una più giovane
Italia, liberata dal peso del passato... ». La firma è di Roma
futurista, cioè, come si presume, del direttore, o anzi di tutti i
tre direttori. Ecco alcuni punti del manifesto-programma del
par- tito: « 4) Trasformazione del Parlamento mediante un'equa
partecipazione di industriali, di agricoltori, di ingegneri e di
commetcianti al Governo del Paese. Il limite minimo di età per la
deputazione sarà ridotfò a 22 anni. Un mi- nimo di deputati avvocati
{sempre opportunisti) e un mi- nimo di deputati professori (sempre
retrogradi)... Aboli- zione del Senato... Unica religione, l'Italia di
domani... 10) ...Svalutazione della pericolosa e aleatoria industria
del forestiero... Difesa dei consumatori... Svalutazione dei diplomi
accademici e incoraggiamento con premi della iniziativa commerciale e
industriale... ». Le adesioni all'iniziativa si fecero subito
sentire da diverse parti: ci furono vecchi futuristi come Auro d'Alba,
Rosai e Rocca, reduci dalla guerra come Bolzon e Bottai (che avrebbe poi
rivestito un ruolo di primo piano nel- l'ambito del nuovo regime
fascista) e Massimo Bontempel- li, secondo il quale il programma
fondamentale del futu- rismo politico sarebbe stato quello di sostituire
«la gio- vinezza alla vecchiaia nelle funzioni direttive ». E non
sarebbe stato poco. Sarebbe stato uno dei tentativi, anche se non del
tutto riuscito, dell’insorgente fascismo. Nel dicembre dello
stesso anno 1918, quasi ad esito naturale della formazione del nuovo
partito, poco orga- nizzato e poco «costituito », s'istituirono invece i
« Fasci politici futuristi », più attivi e vitali particolarmente
in diverse città dell'Italia centrale e settentrionale, la prima
ossatura su cui si sarebbero appoggiati e sarebbero cre- sciuti i muovi «
Fasci di combattimento », voluti e pro- mossi da Mussolini quattro mesi
dopo. Nel febbraio del '19 i Fasci futuristi erano già una ventina, tra
quelli di Roma (Balla, Carli, Bottai, d'Alba e Chiti), Milano (Mari-
netti, Buzzi, Somenzi e Bontempelli), Firenze (Settimel- li, Rosai,
Marasco), Perugia (Dottori), Genova (Depero), Torino (Azari), e poi
ancora Bologna, Palermo, Napoli, Fiume, Messina, Ferrara, Piacenza,
Venezia, Taranto, Mo- dena, Stradella, ecc. I futuristi avevano quindi
accolto con entusiasmo l'iniziativa e vi si erano immersi fino a
determinare una prima ossatura: l’organizzazione. E Mus- solini a sua
volta aveva visto di buon occhio e seguìto la formazione dei Fasci
politici futuristi, sino a « scopri re » in essi un punto d'appoggio per
la sua campagna combattentistica ed antisocialista che si concretizzerà
nei suoi Fasci di combattimento (quelli di Piazza San Sepol-
cro). Mario Carli, come condirettore di Rowza futurista e
dietro spinta di Marinetti stesso, caldeggiava da tempo, anche dalle
colonne del suo nuovo periodico, l’avvicen- damento e l'annessione degli
arditi al partito politico, di cui sul primo numero del giornale si
pubblicava il rivolu- zionario programma: era il 20 settembre 1918.
Dieci giorni dopo, il 30 settembre 1918, le proposte politiche si
fanno più tecniche, più « specializzate », più particolari. Volt firmerà
un testo « dinamico » per dichia- rare: « Sostituiremo il Parlamento con
le tappresentan- ze dei sindacati agricolo-industriali ed operai. La
rappre- sentenza sindacale sarà la base dello “Stato tecnico” futu-
rista ». Ma allora di quale rappresentanza sindacale si ttat- rerà e
quale sarà riconosciuta dallo Stato nella sua veste di personalità
giuridica? Sono tutti problemi che già Volt si pone e così, a suo modo, «
risolve », e continua: «To credo non si debba tener conto del numero
degli iscritti al sindacato, ma della importanza della funzione
economica che esso esercita nel Paese ». Ed ancora, prosegue ad in-
terrogatsi: « Quali saranno i limiti posti all'esercizio del potere
dell'assemblea eletta mediante la rappresentanza sindacale? La competenza
dell'assemblea dovrà essere li- mitata alle questioni prevalentemente
economiche, che so- no del resto le più importanti in politica. Le
questioni di famiglia, di politica estera, ecc. dovranno esser
risolte II! 'EUE vu SS it: _gLZffkfkzstllEaAaz:F:=+”sx«x:®(
'81‘daoiaaiA'.°’°à0‘@e ra —- in parte mediante il referendum
popolare diretto ed in parte attribuito alla competenza del potere
esecutivo ». Gli arditi venivano poi sciolti nel gennaio del
’19 dai loro reparti di ufficiali, sottufficiali e truppa, perché
considerati provocatori di disordini e di incidenti nella vita civile.
L'iniziativa era stata ovviamente criticata dai diretti interessati come
manovta socialista-giolittiana atta a disconoscere i loro meriti di
guerra. Ed anche Marinetti aveva appoggiato dalle colonne di Roma
futurista 1’« uni- ficazione » (ira futuristi ed arditi),
Alla fine di novembre del ’18 Mario Carli fondava, a conclusione di
questa « campagna », l’« Associazione fra gli Arditi d’Italia », che fu
un po’ l’altra faccia del Partito politico futurista. In breve,
l'associazione atrivò a racco- gliere circa diecimila iscritti, la
maggior parte, forse, degli ex «reparti militarizzati ». 7.
Futurismo e arditismo Ormai anche gli arditi, nonostante lo
scioglimento del- la loro organizzazione paramilitare, hanno una
consistenza civile ed in certo modo un loro peso politico. Tanto da
poter fondare un loro organo di stampa che prende a uscire a Milano
dall’11 di maggio 1919: il settimanale L’Ardito, edito dall’Associazione
nazionale, e condiretto da Ferruccio Vecchi e, non a caso, da Mario
Carli. Nello stesso periodo altre furono le voci di stampa allineate
su analoghe posizioni: Armando Mazza, per esempio, fondò a Milano I
remici d'Italia, settimanale « antibolscevico »; il più importante di
questi giornali « minori » fu però L’Assalto, pubblicato a Bologna come
voce dell’arditismo, e diretto da Nanni Leone Castelli. Marinetti ed i
futuri- sti non potevano a questo punto non vedere negli arditi dei
nuovi futuristi politici, così come Mussolini non po- teva non vedere in
loro dei potenziali simpatizzanti e allea- ti. La pronta adesione di
molti di essi ai Fasci di combat- timento lo dimostrerà
definitivamente. Arditismo e futurismo furono dunque componenti
es- dd senziali del nuovo insorgente fascismo. Almeno
dal punto di vista ideologico, o formativo del suo nascere.
Mussoli- ni aveva, per così dire, « abiuraro » il suo vecchio
socia- lismo e aveva bisogno di una forza nuova, una forza idea- le
o di pensiero che gli permettesse il suo «slancio in avanti ». Il
futurismo gliela porgeva già bell'e pronta, o quasi, mentre il precedente
socialismo gli alimentava certi spunti sociali, in parte, almeno, già
presenti nel futurismo. L'arditismo, ancora, gli comunicava una spinta,
una forza di aggressività e di « assalto », che forse gli sarebbe
man- cata, o non sarebbe stata, senza di esso, tanto irruente.
L'11 gennaio il futuro « duce » partecipava a Milano ad una «
serata futurista » contro Bissolati, alla Scala, con- tribuendo in parte
al suo « siluramento ». C'era anche Marinetti e, forse, non fu un caso, e
si trattò di un incon- tro importante. II 23 marzo dello
stesso anno in una riunione milanese a Piazza San Sepolcro, presieduta da
Ferruccio Vecchi, Ma- rinetti tenne un discorso alla presenza di Dessy e
di altri arditi e futuristi, per la fondazione dei Fasci di
combatti- mento, decisa da Mussolini. Questi propose come pro-
gramma ai nuovi raggruppamenti l'abolizione del Senato, il suffragio
universale, il sindacalismo nazionale, ricona- scendo «le rivendicazioni
d'ordine materiale e morale » agli ex-combattenti e rimproverando al
partito socialista di essere stato « nettamente reazionario,
assolutamente conservatore », col negargli così qualsiasi possibilità
di « mettersi alla testa di un'azione di rinnovamento e di
ricostruzione ». La conclusione del discorso, antimassima- lista ed
antitotalitaria, era in fondo quanto mai « futu- rista ». Così terminava
il Mussolini: « Noi conosciamo soltanto la dittatura della volontà
e dell’intelligenza ». Al termine della riunione si nominava un comitato
centrale dei Fasci di combattimento di cui facevano parte anche
Vecchi e Marinetti. Il 1° di aprile Marinetti venne nominato
insieme a Mussolini membro della commissione di lavoro nazionale
per Ia propaganda e la stampa. Ancora in aprile a Milano nuclei di
futuristi, arditi e « principianti » fascisti assali- tu
rono la sede del quotidiano socialista Avanti! Il giorno dopo i «
fattacci » del 15 aprile, visto il mancato inter vento delle forze
dell’ordine nel prender provvedimenti contro i promotori dell'azione,
Vecchi e Marinetti emise- ro un « proclama agli italiani » a nome dei
futuristi, degli arditi e dei fasci: « Nella giornata del 15 aprile
avevamo assolutamente deciso, con Mussolini, di non fare alcuna
controdimostrazione perché prevedevamo il conflitto e ab- biamo orrore di
versare sangue italiano. La nostra con- trodimostrazione si formò,
spontanea, per invincibile vo- lontà popolare. Fummo costretti a reagire
contro la pro- vocazione premeditata degli imboscati. Col nostro
inter- vento intendiamo di affermare il diritto assoluto dei quat-
tro milioni di combattenti vittoriosi, che soli devono diri- gere e
dirigeranno ad ogni costo la nuova Italia ». La « controdimostrazione »
si riferisce ad una manifestazione socialista all'Arena, cui seguì la «
battaglia di Via Mer- canti », dove furono chiari, secondo i reduci,
alcuni mo- menti di provocazione nei confronti del combattentismo
{da qui, l'assalto all’Avanti!). Sempre nell'aprile del *19 esce a
Milano per i tipi del- l’Editore Facchi un volume politico di Marinetti,
forse il suo più importante: si tratta di Democrazia futurista, che
porta come sottotitolo « dinamismo politico ». E' una rac- colta di
articoli apparsi su Roma futurista e che appari ranno sul nuovo giornale
di Vecchi, L’Ardito, generoso sempre di spazio per Marinetti. Questi
definisce il suo « concetto democratico » in un altro articolo edito in
apri- le sempre dall’Ardito: « Vogliamo dunque creare una vera
democrazia cosciente e audace che sia la valutazione e l'esaltazione del
numero poiché avrà il maggior numero di individui geniali. L'Italia
rappresenta nel mondo una specie di minoranza genialissima tutta
costituita di indivi- dui superiori alla media umana per forza creatrice,
inno- vatrice, improvvisatrice. Questa democrazia entrerà natu-
ralmente in competizione con la maggioranza formata dal- le altre
Nazioni, per le quali il numero significa invece massa più o meno cieca,
cioè democrazia incosciente ». Certo, si tratta di una nuova cancezione
di democrazia, 26 che con quella tradizionale, anche
attuale, non ha niente a che vedere. E' una lotta di democtazie, o una
demo- crazia di lotta, il che alla fin fine non è poi molto
diverso. E’ una vera e propria concezione dinamica. Che, tanto per
tener conto del suo opposto si mette a confronto, a dire di Marinetti,
così: « Arturo Labriola definisce la de- mocrazia "come sentimento
dei diritti concreti della mas- sa sullo Stato e sulla Economia“... Noi
intendiamo la de- mocrazia italiana come massa di individui geniali,
divenu- ta petciò facilmente cosciente del suo diritto e natural
mente plasmatrice del suo divenire statale. La sua forza è fatta di
questo diritto acquisito, moltiplicata dalla sua quantità valore, meno il
peso delle cellule morte (tradi. zione), meno il peso delle cellule
malate (incoscienti, anal- fabeti). La democtazia italiana è per noi un
corpo umano che bisogna liberare, scatenare, alleggerire per
accelerar- ne la velocità e centuplicarne il rendimento... ». Come
potrebbe essere più futurista e avanzata questa nuova con- cezione
democratica « progressiva »? Che così, giustamen- te, si conclude e si
definisce: «La democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente
vibrare tutte le sue cellule vive ». E’ il punto d'arrivo,
logico e conseguenziale, di una concezione « d’assalto ». E per la
definizione ulteriore del- le posizioni e dei concetti, il 27 aprile 1919
ancora, sulle pagine di Roma futurista, un testo di Mario Carli
(Non chiamatela reazione) afferma: «Non è per l’ordine, non è in
difesa dell’autorità costituita o della borghesia vile, non è in appoggio
alla così detta “benemerita” che noi ci siamo battuti a Milano, e ci
batteremo altrove, se se ne presenterà l’occasione. Ma è per un'idea, per
un princi- pio: è per l’idea di patria, è per il principio di
progresso, che noi crediamo realizzabile con mezzi e con metodi op-
posti a muelli dei rivoluzionari russi ». Ciò nonostante Gramsci e
Lunaciarsky, al TI Congres- so dell'Internazionale comunista, difendono i
futuristi ita- liani e li considerano veri e propri « rivoluzionari ».
E Lenin medesimo dità a Giacinto Menotti Serrati, che, co-
DI A me direttore dell’Avanti!, si era
recato a Mosca a respi- rare il nuovo comunismo: «In Italia ci sono
soltanto tre uomini che possono fare la rivoluzione: Mussolini,
D'Annunzio e Marinetti ». Mentre a proposito di questo ultimo, cioè di
Marinetti e del suo movimento futurista, Gramsci così annotava in un suo
articolo pubblicato su Ordine nuovo nel 1921: « Distruggere, in questo
campo, non ha lo stesso significato che nel campo economico...
significa non avere paura della vanità e delle audacie, non avere paura
dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di
grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un
cartellone... I futu- risti hanno svolto questo compito nel campo della
cultura borghese... hanno avuto cioè una concezione nettamente
rivoluzionaria ». E continuava a migliore definizione del concetto: «
...Quando i socialisti si sarebbero spaventati al pensiero che bisognava
spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica, i
futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari:
in que- sto campo, come opera creativa, è probabile che la classe
operaia non riuscirà per molto tempo a far di più di quan- to hanno fatto
i futuristi! » L'11 luglio del '19 Marinetti otteneva un biglietto
d'’in- vito alla Tribuna di Montecitorio. Andò con Ferruccio
Vecchi, gran capitano, ad aspettare un momento opportu- no per l’«
intervento ». L'occasione fu data alla fine del discorso di un deputato
socialista (Lucci). Martinetti si sporse e, rivolto a Nitti, gridò: « A
nome dei Fasci di Combattimento, dei futuristi, e degli intellettuali,
prote- sto per la vostra politica e vi urlo: Abbasso Nitti! Morte
al Giolittismo! Dichiaro che non può sussistere il Mini- stero dei
sabotatori della Vittoria, degli schiaffeggiatori de- gli ufficiali, un
ministero che si difende coi carabinieri e coi poliziotti!..
Vergognatevi! La gioventù italiana, per bocca mia, vi urla: Fate schifo!
Fate schifo! ». Vecchi an- cora inveisce a voce alta contro Nitti, mentre
Marinetti lotta con usceri e carabinieri, come descrive egli stesso
nel suo Futurismo e Fascismo di cinque anni dopo. L’indoma- ni
avrebbe ricevuto da D'Annunzio la presente missiva: 2R
« Mio caro Marinetti, bravo per il grido di ieri, coraggioso come
ogni vostro atto. Vorrei vedervi. Se potete, venite. Il vostro Gabriele
D'Annunzio ». In settembre Mario Carli, con Mino Somenzi ed
altri futuristi, partecipano con D'Annunzio alla presa di Fiume (11
del mese): vi si recheranno anche Vecchi e Marinetti a tenere discorsi ai
legionari. Anzi, i due personaggi sembra fossero considerati, a dire di
De Felice « facinorosi sovver- sivi » o addirittura in qualche caso «
bolscevici », per il loro atteggiamento intransigente ed estremistico.°
Tanto che si era detto fossero stati espulsi da Fiume, mentre erano
stati solo richiamati da Paselia, segretario politico dei Fasci, che
aveva bisogno di loro per l'organizzazione, forse, del primo congresso
fascista. All'inizio di ottobre, infatti, Marinetti partecipa a Firenze
al I Congresso dei Fasci di Combattimento dove, dopo l'intervento di
Mus- soltni, parla a futuristi, arditi e fascisti sostenendo la ne-
cessità dello « svaticanamento »: « Noi dobbiamo doman- dare. volere,
imporre », dice fra l’altro il capo del futu- rismo, « l’espulsione del
papato, o meglio ancora, per usa- re un'espressione più precisa, lo
“svaticanamento” ». Nel novembre le elezioni generali vengono condotte
a Milano all'insegna del « blocco fascista » con lista autono- ma
di Mussolini, Marinetti (secondo), Toscanini, Podrec- ca e Bolzon. Comizi
elettorali si tennero a Milano in Piaz- za Belgioioso (10 novembre) e in
Piazza S. Alessandro e a Monza, dove parlarono sempre « accoppiati »
Marinetti e Mussolini. Dopo il 16 novembre, giorno delle votazioni,
in seguito ad incidenti coi socialisti, Marinetti, Vecchi e Mussolini
furono atrestati sotto l'accusa di attentato alla sicurezza dello Stato
ed organizzazione di bande armate, come afferma ancora il De
Felice. Breton e Aragon, direttori della rivista Littersture,
or- ganizzano a Parisi una manifestazione di solidarietà a Ma-
tinetti: sono i momenti di affermazione del dadaismo e del muoversi,
lento, verso il surrealismo. Renzo De Felice, Mussolini i!
Rivoluzionario, Gli incontri e gli scontri, oltre che gli incidenti, tra
socialisti e futuristi non etano cosa nuova. E la « battaglia di Via
Mercanti » del 15 aprile fu solamente il punto di arrivo di una vecchia e
lunga polemica. Già negli anni prebellici il futurismo si era
scontrato col socialismo neutralista (Turati), che non poteva andar
d’accordo con un movimento intrinsecamente interventista. Lacerba, per
esempio, entrava nella polemica affiancandosi al futurismo e pubblicando,
il 15 ottobre del ’13, quel famoso Programma politico futurista,
esaminato in pre- cedenza. La postilla di Giovanni Papini non fa altro
che convalidare, sia pure con riserva, la sostanza del pro- gramma.
A proposito di socialismo interviene poi nel '14 sempre sv Lacerba,
Ardengo Soffici, affermando nel suo articolo Per la guerra che « l’idea
che i socialisti si fanno del mon- do è questa: un capitalista borghese e
sfruttatore alle prese con un magro popolano sfruttato. La cultura, le
scienze, le arti, la bellezza, i sentimenti, gli amori, le passioni
— tutto ciò insomma che fa la vita così terribilmente com- plessa,
così colorita, così varia, multiforme, incoetcibile — non è nulla per
loro. Tutto è grigio, e l'universo intero una specie di ragnatela
squallida senza confini né orizzonti, eterna, in mezzo alla quale un
ragno cetca di succhiare una mosca alla quale Karl Marx ha insegnato che
non deve lasciarsi succhiare ». Sicché, conclude Soffici, i socia-
listi nemmeno capiscono che si combatte una guerra per difendere anche,
magari, le loro stesse idee, o il mondo dove l’idea socialista è nata e
cresciuta, contro i nemici medesimi del socialismo e dei socialisti: i
tedeschi. Ma questo non ha nessuna importanza, « giacché, ed eccoci
alla mentalità di codesto partito, ogni buon socialista non vede nella
guerra, qualunque essa sia, se non una lotta di capitalisti e banchieri
contro capitalisti e banchieri i quali si servono del proletariato per
liquidare le loro partite ». La polemica continua com'è logico,
dopo la guerra. Il primo ad accenderla è Mario Carli su Roma
futurista con un articolo del 13 luglio 1919, che ha un titolo
signi- ficativo: Partiti d'avanguardia: se tentassimo di collabora-
re? Laddove si considera « partito d'avanguardia », ovvia- mente, anche
quello socialista, che tanta parte ha esercita- to nella storia d'Italia.
« Ho esaminato seriamente l'ipo- tesi », esordisce Carli, « di una collaborazione
fra noi {futu- risti, arditi, fascisti, combattenti, ecc.) e i Partiti
cosiddetti d'avanguardia: socialisti ufficiali, riformisti, sindacalisti,
re- pubblicani... Il terreno comune c’è... E' la lotta contro le
attuali classi dirigenti, grette, incapaci e disoneste, si chia. mino
borghesia e plutoctazia o pescecanismo o parlamen.- tarismo... sono una
casta che deve cadere e cadrà », E cad- de infatti, come sappiamo, però
non certo per merito di quei socialisti con cui Carli stava cercando di
trovate un punto di contatto, sia pur rendendosi conto che la
collabo- razione sarebbe stata difficile per non dire impossibile
o, peggio, inutile. Ciò nonostante Giuseppe Bottai farà eco
alla sua tesi con un paio di lunghi articoli: uno del 9 novembre e
l'al. tro del 21 dicembre 1919 entrambi col titolo Futurismo contro
socialismo, il cui succo riesce già evidente. « Noi siamo contro il
socialismo », afferma Bottai, « perché astra- zione filosofica senza
possibilità di contatti vitali. Simbolo che si agifa nel mondo da secoli,
e di cui mai si è trovato, e mai si troverà la formula di traduzione in
positivi sviluppi di masse sociali... Noi siamo contro l’idea socialista
perché sosteniamo la necessità della diseguaglianza... Siamo con-
tro il socialismo perché idea generatrice di vigliaccheria ». Ii 14
dicembre sempre del 1919, tuttavia, certo Man- narese, avversario,
pubblica un articolo per espotre l’impos- sibile intesa fra le due
avanguardie, o l'impossibilità di ac- cordo in unione d’intenti e di
lavoro. Il Mannarese sotto- linea l'identità di socialismo e masse
proletarie con loro relative e legittime aspirazioni. Romza futurista non
gli ne. sa spazio, ospitandolo apertamente e liberamente. Ci
pensa Bottai a rispondere e confutare Mannarese col suo secondo articolo
preciso ed aggressivo. Il titolo: Insisto: futurismo contro socialismo;
la data, 21 dicembre dello stesso anno. La posizione polemica si
specifica e si SAI puntualizza: « Prima
caratteristica del futurismo è questa, libera, sciolta sfrenata
spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede oggi difensore dei suoi
salami, delle sue salsicce, poco male! ciò potrà darci la prova della sua
minchioneria, non già infirmare l'esattezza del grido “futurismo contro
socialismo” ». L’intonazione antibotghese è evidente e forse si
spo- sa, per così dire, con quella antisocialista, essendo l'una
complementare all'altra, e viceversa. Non si può essere antisocialisti
senza essere antiborghesi, e viceversa non si può essere antiborghesi
senza essere antisocialisti, sembra quasi che dica Giuseppe Bottai, e
l’invettiva contro il sa- lumaio non ha nient'altro che questo
sapote... L'equazione « socialismo-proletariato », sostenuta
dal Mannarese, è vacua e falsa, dice Bottai, e bisogna distin-
guere, perché va da sé, afferma, che «il socialismo è uno dei tanti
sistemi, i quali, da che il mondo è mondo, si accaniscono sulla disparità
di condizioni delle classi ». Lo esempio dato poi, del fenomeno
dell’arditismo, è quanto meno sufficiente e significativo a smentire una
tesi tanto inutile. Infatti, « in parecchi mesi di convivenza con
le fiamme nere mi son trovato attorno solo contadini, ope- rai,
lavoratori-proletari! »; e gli arditi non erano certo so- cialisti, anzi.
Tuttavia l’autore è ben consapevole della « portata economica » del
socialismo e nello stesso tempo delle esigenze dei ceti umili o dei
proletari, e degli scompen- si derivanti da queste esigenze anche per la
loro « cattura » da parte di un socialismo ignorante e incapace.
L'individuazione dell'errore di dimensione del sociali smo è
evidente, nonostante i successi già conseguiti. Tanto che, concludeva il
Botrai, nel cogliere le possibilità della formazione di un letale
assolutismo, con la postulazione del- la differenziazione futuristica da
esso, intesa nella diffusione di programmi e di rimedi economici: « Noi
siamo per la elevazione del popolo, e non per l'assolutismo di esso
». Dove « il nai », è evidente, si riferisce ai futuristi ed al loro
movimento. « Tirando le somme », alla fine, si postula petsino
un programma, quasi, nei rapporti col socialismo, di cui i
32 punti più interessanti sono il secondo ed il quarto, cioè
l'ultimo. Il secondo postilla una « possibile comunanza di vedute
economiche: il che non implica nessuna fusione »; l'ultimo sostiene e
ribadisce, sottolineandolo tutto in maiu- scolo: « CONTRO IL SOCIALISMO
NON VUOLE DI- RE CONTRO IL PROLETARIATO ». La miopia del
socialismo nella considerazione dei futu- risti appare evidente e
inequivocabile. E si parla del so- cialismo dei primi del secolo, quello
storicamente più « ca- pace » di quanto non lo sia l'attuale, e consono
ad una realtà « epocale » ad esso, tutto sommato, più favorevole.
L’esito del socialismo italiano, confluito in massima parte nel fascismo,
non fa che confermare l'opinione o l’ipotesi dei futuristi, che avevano
saputo vedere la sua « minima portata » da inserire, eventualmente, nel
panorama di una prospettiva ben più vasta e diversificata. A Fiume
Gabriele D'Annunzio dà alla luce la sua « Carta del Carnaro ». Siamo agli
inizi del ’20 e la nuova proclamazione statutaria sarà base fondamentale
per la suc- cessiva politica sindacale fascista (si veda la Carta del
La- voro ad esempio). Sempre a Fiume Mario Carli dirige il nuovo
foglio di vita istriama La Testa di Ferro, sulle cui colonne (la seconda,
per l'esattezza, della prima pagina) ;l 12 settembre esce un riquadro
firmato da Marinetti. Che così commenta la Prima vittoria della
quindicesima batta- glia, come dice il titolo della pagina: «
Nell’applaudite oggi D'Annunzio, liberatore di Fiume, penso che questo
mera- viglioso genio riassuntivo della nostra razza, uscito dalle
alcove del Pizcere... dopo aver esplorato le profondità del la lussuria...
ha logicamente... strappato Fiume all’imperia- lismo europeo e americano,
ed ora deve, seguendo la linea della sua fortuna inesauribile,
logicamente, con genio sem- pre più rivoluzionario e futurista, liberare
Roma dal Pa- pato e dalla Monarchia, e creare la grande Repubblica
Ita- liana ». Siamo di fronte aul'« ittedentismo integrale » che i
futnristi sostenevano contro l’« irredentismo mutilato » di Bissolati,
favorevole al Patto di Londra. Di cui il movimento per contro chiedeva
un’« estensione », oltre che una modi- ficazione del Patto di Roma in
modo che si potesse favo- rire l’inserimento italiano sulla costa dalmata
e garantire all'Italia l'egemonia sull’Adriatico. Il Trattato di
Rapallo, poco dopo, dichiarerà Fiume «città libera » ed assegnerà
Zara all'Italia. 11 24 e 25 maggio dello stesso anno si tiene a
Milano il IX Congresso dei Fasci di Combattimento, che segna una
svolta del movimento o anche — si potrebbe dire — una sua conversione in
senso « conservatore ». Si assiste ad un parziale ma consistente ricambio
del nucleo dirigente fa- scista. Solo 10 membri su 19 del comitato
centrale eletto a Fitenze vengono riconfermati: tra essi Marinetti e
Ferruc- cio Vecchi. Mussolini sostiene un nuovo indirizzo:
l'accordo fra proletariato e borghesia produttiva, tipico di quel
fascismo « provinciale » che stava prendendo il sopravvento. Mari-
netti reagisce confermando la sua intransigenza antimonar- chica ed
antipontificia. I Fasci di Combattimento, come riporta ancora il De Felice,
avrebbero dovuto, secondo Marinetti, iniziare « una politica decisa in
difesa delle ri- vendicazioni proletarie, appoggiando e scioperi e
agitazio- ni che siano fondati o formulati su un principio di giu-
stizia ». Mussolini aveva cercato di replicare che i Fasci « hanno anzi
aiutato gli scioperi che avevano un chiaro contenuto economico », ma
aveva sottolineato di non po- ter accettare la pregiudiziale
antimonarchica e: « Quanto al Papato, bisogna intendersi: il Vaticano
rappresenta 400 milioni di uomini sparsi... Io sono, oggi,
completamente al di fuori di ogni religione, ma i problemi politici
sono problemi politici. Racconta lo stesso capo del futurismo nel
suo volume Futurismo e Fascismo pubbli cato quattro anni dopo, «
Marinetti e alcuni capi futuri- sti escono dai Fasci di Combattimento,
non avendo potuto imporre alla maggioranza fascista la loro tendenza
antimonarchica e anticlericale ». Gli altri «capi futuristi» sono Mario Carli e
Neri Nannetti, appena eletto a Milano come membro del comitato centrale
per Firenze. Ferruccio Vecchi si allontanò dai Fasci poco dopo,
anche per la crisi interna che stava attanagliando l’« Associa-
zione fra gli Arditi d’Italia ». La spaccatura risulta evidente
all'uscita dell’opuscalo Al di là del comunismo, pubblicato in agosto da
Marinetti, per giustificazione alle sue dimissioni ed in risposta
allo svuotamento della portata rivoluzionaria, o futurista, dei
Fasci di Combattimento. Al di lè del Comunismo sarà la sua seconda opeta
politica (dopo Democrazia futurista, del ’19), quella più ricca di spunti
e di idee: quella, in- somma, sua fondamentale. L'opera è
dedicata sul colophox « Ai futuristi francesi, inglesi, spagnoli, russi,
ungheresi, rumeni, giapponesi »: it che esprime già tutto un programma.
Fra le sue tesi, dd esempio queste: « Noi futuristi abbiamo stroncato
tut- te le ideologie imponendo dovunque la nostra nuova con-
cezione della vita, le nostre formule d’igiene spirituale, il nostto
dinamismo estetico, sociale, espressione sincera dei nostri temperamenti
d’italiani creatori e rivoluzionari... L'umanità cammina verso
l'individualismo anarchico, me- ta e sogno di ogni spirito forte. Il
Comunismo invece è una vecchia formula mediocrista, che la stanchezza e
la paura della guerra riverniciano oggi e trasformano in mo- da
spirituale... La storia, la vita e la terra appartengono agli
improvvisatori. Odiamo la caserma militarista quanto la caserma
comunista. Il genio anarchico deride e spacca il catcere comunista ».
Fu questo passo a provocare la reazione dell’Ardito? Che ben
presto si fece sentire, a più riprese, per deni- grare il volumetto
marinettiano, mentre al contrario La Testa di Ferro ad opera di un gruppo
di futuristi fiumani (e di Mario Carli, ardito a sua volta) elogiava pubblica-
mente ed ardentemente il nuovo testo. Bottai, già futu- tista, interverrà
ben presto (sul n. 35 dell’Ardito) con una «lettera aperta a F.T.
Marinetti » per mettere in ri- salto la sua posizione critica
all’atteggiamento anarchicheg- piante dello scritto, inconciliabile con
qualunque espressione di potere, sia pur di tipo « tecnico », come quello
a suo tempo proposto dallo stesso « padre » del futuri smo. L'attacco di
Bottai è senz'altro il più autorevole e i] più significativo.
L'ideologia del fascismo-regime (da parte di un mini stro in
pectore come Bottai) cominciava già a farsi sen- tire. E si chiudeva,
ovviamente, almeno sul terreno sto- rico della prassi politica,
l'ideologia del fascismo-movi- mento, quello dell’intransigenza e del
fervore mistico, del libertarismo e dell'avanguardia, dell'anarchismo e
dell’an- tiautoritarismo verso la monarchia ed il papato. Il pos-
sibilismo politico e il realismo tattico per la conquista del potere
subentrano e il fascismo-regime si muove or- mai, anche se lentamente,
sotto la guida del suo abile e « compromesso condottiero ». A
Marinetti non restano che le dimissioni, e dopo il suo « canto del cigno
» politico (Al di là del comunismo), il ritorno alla letteratura.
10. La dimensione futurista Nel 1921 esce a Piacenza per i
tipi dell'Editore Porta il volume di Francesco Flora Dal Romanticismo al
Fu- turismo. Il giudizio più interessante è senz’altro quello di Luigi
Russo, che così si esprime al proposito: «Il Flora, mentre vi grida il
superamento sillogistico dell’ar- te decadente, la guarigione del suo
spirito dal generale futurismo, passa poi egli stesso a fare troppo
rumorosa e compiaciuta mescolanza con quell'arte e con quel futu-
rismo ». Pirandello pubblica nello stesso anno I sei per- sonaggi in
cerca d'autore. Marinetti sostiene che sono ispirati al futurismo e al
suo spirito creatore. Il con- gresso socialista di Livorno si spacca, e
dalla scissione si forma il neonato partito comunista. A Catania
vede la luce la nuova rivista futurista Heschisch. Nel 1922
il fascismo salirà definitivamente al potete. Marinetti fonda una nuova
rivista, I{ Futurismo, che di- rige in prima persona. A Berlino sarà poi
tradotta in edizione tedesca (Der Futurismus), a cura di Ruggero Va-
sari. Bragaglia fonda a Roma il Teatro Sperimentale de- gli Indipendenti,
primo teatro stabile italiano, da Ivi di retto fino al ’36: metterà in
scena duecento opere d'’avan- guardia fra quelle di autori italiani e
stranieri. A_ Monza si crea l’Istituto Superiore delle Arti decorative,
trasfor- mato poi in Biennale e dal ’30 definitivamente in Trien-
nale, con sede nel palazzo di Milano (al parco, arch. Mu- zio).
Mussolini, dopo la marcia su Roma del 28 ottobre, forma il governo con
radicali e liberali, e istituisce il Gran Consiglio del Fascismo.
Giuseppe Prezzolini, come sempre lucidamente, poco prima del «
grande ritorno » del futurismo al fascismo, metteva ancora una volta in
risalto «come possa l'arte futurista andare d'accordo con il Fascismo
italiano, non si vede. C'è un equivoco, nato da una vicinanza di
per. sone, da un’accidentalità d’incontri, da un ribollire di
forze, che ha portato Marinetti accanto a Mussolini. Ciò andava bene
durante il periodo della rivoluzione. Ciò stona in un periodo di governo.
Il Fascismo italiano non può accettare il programma distruttivo del
Futuri smo, anzi, deve, per la sua logica italiana, restaurare |
valori che contrastano al Futurismo. La disciplina e la gerarchia
politica sono gerarchia e disciplina anche lette- raria. Le parole vanno
all’aria quando vanno all'aria le gerarchie politiche. Il Fascismo, se
vuole veramente vin- cere la sua battaglia, deve ormai considerare come
as- sotbito il Futurismo in quello che il Futurismo poteva avere di
eccitante, e di reprimerlo in tutto quello che esso consetva ancora di
rivoluzionario, di anticlassico, di indisciplinato dal punto di vista
dell’arte » (da I/ Secolo, 3 luglio 1923). Nel marzo dello
stesso 1923 s'inaugura alla Galleria Pesaro di Milano una mostra dell'«
Arte del Novecento ». Si trattava di un gruppo formatosi alla fine del
’22 in- torno alla medesima galleria milanese, che affiancava la
nuova tendenza del regime in senso conservatote, già san- cita dal 2°
Congresso Fascista (Milano, maggio 1920). L'animatrice del nuovo
movimento « Arte del Novecen- 37 to» era Margherita
Sarfatti. Il gruppo fu accolto, nean- che due anni dopo dalla sua
costituzione, alla Biennale veneziana del ’24, e si affermò definitivamente
attraverso due ulteriori mostre: una del '26 al Palazzo della
Perma- nente a Milano, e l'altra del ’29 alla Galleria Pesaro,
sempre a Milano. I futuristi invece, rimasti esterni al regime e aderenti
ancora, in fondo, all'avanguardia, fu- rono ammessi alla Biennale solo
nel ’26, e fuori dal pa- diglione italiano additittura. All'inaugurazione
della Biennale, Marinetti si rivolge al Re, a Venezia in visita
ufficiale, e gli de- nuncia gridando «l’incapacità senile e antitaliana
della Direzione, che massacra i giovani artisti italiani ». L’in-
tervento di Marinetti suscita scandalo. Tuttavia nello stes- so anno 1924
si verifica anche un cetto riavvicinamen- to tra futurismo e fascismo, e
forse anche tra Marinetti e Mussolini. L’occasione viene data
dall’edizione della terza ed ultima opera politica del capo futurista,
che, co- me già detto, s'intitola Futurismo e Fascismo, ed esce a
Foligno per i tipi dell'Editore Campitelli. Ancora nello stesso
anno escono diverse altre signifi- cative testate, futuriste ma anche
fasciste. Mino Maccari fonda I! Selvaggio (organo del fascismo
strapaesano) ed Enzo Benedetto a Reggio Calabria pubblica il foglio
fu- turista Originalità, da lui stesso direrto: compaiono fra i
suoi collaboratori Marinetti, Jannelli, Nicastro e Sanzin, Quest'ultimo
scrive un saggio su Marinetti e il futurismo. Gerardo Dottori, altra
collaboratore di Originalità, crea le prime aeropitture, che si
affermeranno in seguito come espressioni del « secondo futurismo ».
A Milano si tiene il Primo congresso futurista e So- menzi vi
organizza le onoranze nazionali a Marinetti. Siamo al 23 di novembre
1924, ore 10, al Teatro Dal Verme di Milano. Mino Somenzi legge il
telegramma di Mussolini: « Considerami presente adunata futurista
che sintetizza 20 anni di grandi battaglie artistiche politiche
spesso consacrate col sangue. Congresso deve essere punto di partenza,
non punto di arrivo. Credi mia cordiale ami- cizia e ammirazione ». Alle
16 parla Marinetti, che conclude i lavori del congresso, così rivolgendosi
all’indirizzo del « duce »: «I futuristi italiani, primi fra i primi
in- terventisti nelle piazze e sui campi di battaglia, e primi fra
i primi diciannovisti più che mai devoti alle idee ed all'arte, lontani
dal politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito Mussolini: Con
un gesto di forza ormai indispensabile liberati dal parlamento.
Restituisci al Fa- scismo ed all'Italia Ia meravigliosa anima
diciannovista, disinteressata, ardita, antisocialista, anticlericale,
antimo. narchica. Concedi alla Monarchia soltanto la sua provvi-
sotia funzione unitaria, rifiutale quella di soffcare o mor. finizzare la
più grande, la più geniale e la più giusta Italia di domani. Non imitare
l’inimitabile Giolitti, imita il Grande Mussolini del diciannove. Pensa
sempre all’Italia immortale ed al Carso divino. Schiaccia l'opposizione
cle. ricale antitaliana di Don Sturzo, l'opposizione socialista
antitaliana di Turati e l'opposizione mediocrista di A’ bertini con una
ferrea dinamica aristocrazia di pensiero armato che soppianti l’attuale
demagogia d’armi senza pensiero. Tu puoi e devi fare ciò, noi dobbiamo
volerlo e lo vogliamo ». Lo vollero, ma non lo realizzarono. La
volontà può essere bella, ardita, ispira ai più alti sensi di giustizia,
anche se non sempre la realizzazione le tiene dietro. Come in questo
caso. Mussolini telegrafa ancora il 1° marzo del ’25 ad un
banchetto « romano » offerto da Carli e Settimelli a Ma: rinetti: « Sono
dolente di non poter intervenire al ban: chetto ofterto a F.T. Marinetti.
Ma desidero che vi giun- ga la mia fervida adesione che non è espressione
formale ma vivo segno di grandissima simpatia per l’infaticabile e
geniale assertore di Italianità, per il poeta innovatore che mi ha dato
la sensazione dell'oceano e della macchi- na, per il mio caro vecchio
amico delle prime battaglie fasciste, per il saldato intrepido che ha
offerto alla Pa tria una passione indomita consacrata dal sangue ».
Ma. rinetti si era già trasferito a Roma con Benedetta. La capitale
diveniva così anche centro del futurismo. In que. sta stessa occasione
Marinetti dichiarava, un'altra volta inascoltato: « Vi sono in Italia
forze che osteggiano la nostra idea imperiale, combattiamole, non
dimenticando però fra queste la più segreta e la più antitaliana:
il Vaticano! ». Un discorso di Mussolini alla Camera (3
gennaio 1925) dà inizio al vero fascismo-regime. A Tortino si tiene
a Palazzo Madama un'esposizione nazionale futurista. La tendenza al
riavvicinamento ira i due movimenti è già indicata nella dedica di
Futurismo e Fascismo: « Al mio caro e grande amico Benito Mussolini ». Il
che dimostra, in fondo, una certa volontà di non troncare i contatti:
ma anche gli scritti raccolti, gli articoli e le tesi sostenute
sono di tipo più che altro conciliativo. Mussolini vi è definito «
meraviglioso temperamento futurista »: e non risuoni però ad adulazione,
perché il tentativo di recu- pero del futurismo in senso artistico e
letterario (o cul turale in senso lato) è evidente, nonostante
l'occasionale « dimensione » del movimento nell'attività e
nell'impegno politico. Non senza motivo, il volume prende inizio
con queste parole: «Il Futurismo è un grande movimento antiflosofico
e anticulturale di idee, intuiti, istinti, pu- gni... ». E subito dopo: «
Fra le tante definizioni io predi- ligo quella data dai teosofi: “I
futuristi sono i mistici dell’azione”. Infatti i futuristi hanno
combattuto e com- battono il passatismo... ». Il nuovo regime e la
portata storica di realizzazione di quello che si considera il
patri- monio del futurismo è così giudicato: « Vittorio Ve- neto e
l'avvento del Fascismo al potere costituirono la realizzazione del
programma minimo futurista ». Dove si dimostra in fondo la connessione
inscindibile tra futuri. smo e fascismo, ma nello stesso tempo il
distacco, in questa realizzazione « minimale »; comunque la
mancanza di coincidenza totale delle entità ideali dei due blocchi.
« Questo programma minimo », specifica ancora Ma- rinetti, «
propugnava l'orgoglio italiano... la distruzione dell'impero
austro-ungarico, l’eroismo quotidiano, l'amore del pericolo... ». Ma,
alla fine, quello che più conta è che «il Futurismo italiano, tipicamente
patriottico, che ha generato innumerevoli futurismi esteri, non ha
nulla a che fare coi loro atteggiamenti politici, come
quello bolscevico del Futurismo russo, divenuto arte di Stato ». Il
futurismo italiano fu sempre italiano, non mai italiano di Stato.
« Il futurismo », afferma ancora il nostro, «è un mo- vimento
artistico e ideologico. Interviene nelle lotte po- litiche soltanto nelle
ore di grave pericolo per la Nazio- ne », E un'altra volta a migliore
definizione della posi- zione concettuale o della sua immagine: « Il
Fascismo nato dall'interventismo e dal Futurismo si nutrì di prin-
cipî futuristi... Il Fascismo opera politicamente... Il Fu- turismo opera
invece nei domini infiniti della pura fan- tasia, può dunque e deve osare
osare osare sempre più temerariamente. Avanguardia della sensibilità
artistica ita- liana, è necessariamente sempre in anticipo sulla
lenta sensibilità delle masse ». La consapevolezza della
difficoltà del consenso è più che sentita, ed è convinzione al tempo
stesso che il fa- scismo sia più capace di farsi accogliere o di
comunicare certe necessità, e certi principî. E la convinzione
implica la coscienza che sia il fascismo ad aver raccolto © mutuato
idee e « posizioni » dal futurismo, solo ed esclusivamente. Senza che mai
sia avvenuto il contrario. Ed appare evi- dente, perché non viene mai
fatto cenno a questa secon- da ipotesi: che cioè sia stato il futurismo
ad attingere al fascismo. Anche se affiora l’« autocritica »,
l’interroga- zione, il domandarsi sotterraneo della coscienza...
« Il lettore domanderà: “Ci sono idee futuriste su- perate o da
scartarsi, oggi?” Nulla da scartare. Le idee vittoriose tengano
fermamente le posizioni conquistate. Per esempio questo principio: “Noi
vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo... le belle idee
per cui si muore e il disprezzo della donna”, fu una pietrata fe-
roce ma necessaria nel pantano letterario di sentimenta- lismo
dannunziano sulle cui rive singhiozzavano i gio- vani malati di luna e di
donne fatali ». La condanna della decadenza di un romanticismo
fiac- co e sdolcinato che ha irretito la realtà della Penisola è
quanto mai chiara ed evidente. E la volontà di scuoterla per una
necessità di spirito, per una volontà di resurrezione, per una coscienza ancora
viva di grandezza e di capacità creativa e rinnovatrice, porta
inevitabilmente allo scontro e alla conflagrazione, quella della guerra,
che è guerra di sentimento e di volontà, prima ancora che di
occasione politica. « Oggi », continua Marinetti, « l'Italia è
piena di gio- vani forti e sportivi. Ma molti purtroppo sacrificano
ad una donna la loro volontà di conquista e l'avventura... Dopo
Vittorio Veneto io predicai la necessità per ogni combattente di
diventare un cittadino eroico... Oggi esi- ste uno Stato fascista che
tutela il diritto individuale. Ma bisogna alimentare ancora lo spirito
del cittadino eroi- co, amico del pericolo e capace di lotta, poiché
occorretà improvvisare domani gli indispensabili volontari della
nuo- va guerra. Questa, lo ripeto, è certa, forse vicina. Perciò è
sempre vivo il grido futurista: glorifichiamo la guerra sola igiene del
mondo! Il Futurismo interprete delle for- ze telluriche, il Futurismo,
manometro della nostra pe- nisola (caldaia bollente!), odia i macchinisti
incapaci. Si palesano tali i culturali d’Italia che verniciati di
patriot- tismo parlano oggi d’Impero, con un'anima pacifista pron-
ti ad imboscarsi al minimo pericolo. Essi ignorano che Impero significa
guerra. Votrebbeto conquistarlo con una lezione sulla Roma Imperiale! ».
Ecco, ancora, la coscien- za di cui parlavamo prima: quella della
curiosità anti- quaria di una cultura d’accatto non più in grado di
te- nere il passo della storia e di muovere lo spirito della giovinezza
vittoriosa. Marinetti lo coglie e lo esptime in una testimonianza, ancora
una volta, di vita e di speran- za, che è vita perché è speranza del
futuro. « Noi futuristi parliamo d’Impero convinti e lieti
di batterci domani... Parliamo d’Impero perché è venuto per
l’Italia il momento di prendere le tetre indispensabili... IÎ programma
politico futurista lanciato l’11 ottobre 1913 che propugnava una politica
estera cinica astuta e aggres- siva è più che mai di attualità. Le idee
vittoriose tengano fermamente le posizioni conquistate. Le nuove idee
si slancino all'assalto. Marciare non matcite! ». Firmato: F.T.
Marinetti. 42 Il futurismo ha dimostrato di voler
procedere sulla strada del nuovo: il fascismo lo ha accolto ed ha
accon- disceso, almeno fino a un certo punto, al suo messaggio.
Oltre è stato frenato, forse, non solo dal « borghesismo », ma anche da
quel socialismo, che avanti non è mai stato capace di andare e che di
nuovo ha portato solamente vuote formule e fantasmi. Non così il
futurismo, ben ade- rente al reale, e capace di ritirarvisi anche, nel
caso di inadempienza (o di mancanza di corrispondenza) della realtà
ai suoi messaggi. Marinetti docet, proprio con quel fascino che
aveva voluto, o con cui aveva marciato, e in cui aveva creduto
senza marcire mai, nemmeno nell’auge del regime, quan- do avrebbe potuto
sedersi sulle comode poltrone di un otmai «arrivato » futurismo di
«destra ». Ma il futuri- smo per Marinetti era e rimaneva comunque
movimento d'avanguardia artistica e culturale, nonostante gli
agganci più 0 meno politici, più o meno di regime, e nonostante
l'amicizia con Mussolini, che poteva anche essere un « fu- turista », ma
era e doveva essere prima di tutto il capo dello Stato e il « duce del
Fascismo ». E il fascismo ave- va preso e doveva tenete ormai una certa
linea, molte volte non gradita, o valida, per il futurismo, ed anzi
pro- prio al contrario. La gloria di Roma rievocata nel monumentalismo
classicheggiante, il novecentismo ricalcante vuoti modelli di un fasullo
rinnovamento filotradizionale, la riesumazio- ne del mito della storia
come copia di grandezza e no- vella misura di falsa gloria, erano tutti
temi aborriti da Marinetti proprio perché segni ed indici di « passatismo
», messaggi sterili di una mentalità ferma e statica, incapace di
dare alcunché di vitale all'Italia in movimento. Ma- rinetti era invece,
e rimaneva, anche nel fascismo e no- nostante il fascismo, « futurista »,
come lui amava defi- nirsi, e come lo rimanevano anche altri, non tutti
però, anzi forse troppo pochi. Marinetti, quindi, futurista, e
futurista nonostante tut- to, fu forse fascista solo ed esclusivamente
per quel che il futurismo poteva consentirgli di essere. Ma fu anche
grande oratore Marinetti, e fu oratore d’arte, oratore di genio
letterario e improvvisatore della parola, più 0 me- no libera o in
libertà che fosse. Mussolini fu oratore politico e parlava, anche,
nella ricerca del consenso. Marinetti invece fu poeta, e parlava per
stimolare la curiosità, per muovere l'incanto del- l'espressione.
La sua oratoria fu essenzialmente artistica, il suo discorso fu culturale
e poetico. Mussolini forse in parte la imitò, sempre attenendosi
all’oratoria politica e trasformando il messaggio letterario in presenza
ideo- logica e in colloquio « popolare ». Forse qui sta inoltre la
differenza fra i due movimenti: il futurismo avanguar- dia di rottura e
il fascismo sistema di potere. Anche se il primo l’aveva spinto e
sorretto nella sua azione di con- quista. Il fascismo è allora per un suo
aspetto futurista, e non invece il contrario. E' la realizzazione di quel
« pio- gramma minimo futurista » che abbiamo già esaminato. E
Mussolini si può dire fosse stato anche futurista, o comunque molto
vicino al movimento di Marinetti. E gli era stato anche amico, o c’era
stata una reciproca comunanza di sentimenti, che non esula
dall’amicizia. Ma Mussolini era stato anche socialista, anzi lo era
sta- to davvero e « fino in fondo ». Che fosse anche per que- sto
che i futuristi non potevano essere completamente fascisti? O non si
potevano identificare completamente nel regime? Almeno i futuristi
autentici, quelli più « idea- listi ». Il futurismo era stato
sempre e comunque antisocia- lista, in modo integrale, totale come si è
visto. E lo era stato dall’inizio antisocialista, per la sua posizione
cultu- rale, per il suo intendimento antimilitaristico ed antiegua-
litario, per il suo slancio antipassatista di svecchiamento. Lo
schiaffo ed il pugno, la velocità e l’aggressione, la lotta e la vittoria
erano tutti temi o motivi antisocia 44
listi. Il fascismo, nonostante tutto, era meno antisocia- lista. In
primo luogo per le origini del suo capo, per la sua
formazione-estrazione, per i suoi intendimenti di visuale che non si
erano spenti del tutto, ma si erano solo attenuati e modificati: e si
erano travasati, anche, nella novità del futurismo. Comunque,
e malgrado questo, il fascismo rimase e resta agli atti della storia un
«movimento di massa », una « realtà sociale », un fenomeno popolare, un
sistema del numero in scala comunitaria e nazionale: questo è
acquisito, ed è incontestabile. E non può essere confutato dagli storici
seri. Mussolini lo volle e lo promosse que. sto « popolarismo » e, se
vogliamo anche, riuscì lenta. mente e gradatamente ad «imporlo ». Ma non
volle mai l'uguaglianza o il livellamento, e cercò sempre di favo.
rire la distinzione dell’individualismo. Lo stimolo stesso alla
competizione nel campo dell’arte e l’amicizia con l’amico-nemico
Marinetti ne sono garanti. L’amicizia fra i due personaggi non fu
esclusivamente un fatto episo- dico o della prima ora; fu un fatto
profondo e vitale, forse inalienabile ed « assoluto ». E durò, a
controprova del vero, fino alla morte. Quando Marinetti,
reduce dalla guerra di Russia per cui si era arruolato volontario
(malgrado i suoi 64 anni), aderiva alla Repubblica Sociale Italiana dopo
i tragici fatti dell’armistizio, dimostrava sino all'ultimo fede ad
un’ami- cizia e ad un'idea, comunque e nonostante tutto. Mari-
netti era partito per la Russia all’insegna della coerenza, non potendo
contraddire il suo messaggio della guerra « sola igiene del mondo ».
Messaggio che anche il « duce » aveva sentito, forse tragicamente e forse
fuori tempo. Ma lo aveva comunque sentito, e l’amicizia con Marinetti
e la sua nomina ad Accademico d'Italia lo dimostra. Quan- do
avrebbe benissimo potuto « bruciarlo ». E aveva an- che sentito che il
nuovo secolo richiedeva un cambiamen- to, che si doveva in qualche modo
maturare. Volle promuoverlo e accelerarlo (da « futurista »?),
in- tervenite e spingere l'avanzata fino all'assurdo. Ne rimase
coinvolto e definitivamente « inghiottito ». Marinetti si era salvato, e
con se stesso aveva salvato la poesia. La guerra (leggi:
politica) non poteva averla distrutta. In età avanzata era rientrato a
vivere brevemente, a lot- tare fino all’ultimo per consegnare a Venezia
un messag- gio, quello vitale e ineliminabile « verso il futuro ». I
suoi discepoli lo accolsero come un testamento e qualcuno lo
trasmette ancora per testimonianza. Nonostante la trasmu- tazione dei
tempi e le difficoltà del presente. Lo docu- menta ancora per la verità
storica e per la risonanza del- l'oggi. E, forse, per un nuovo futuro di
domani. 12. Sindacalismo futurista II fascismo aveva
creato la « Carta del Lavoro », che ricalcava a sua volta quella ptima
espressione originale di emissione statutaria d’impronta sociale, che era
stata la dannunziana « Carta del Carnaro ». Ma già prima i
futuristi avevano inteso una «loro » sindacalizzazione in senso
artistico, ed avevano ancora una volta concepito un manifesto. Si tratta
del manifesto al governo fascista del 1° maggio 1923 intitolato I diritti
ertistici propugnati dat futuristi italiani. I diritti
rimasero in gran parte sulla carta, ma l’in- tenzione era evidente:
quella di creare una specie di « car- ta sindacale » per la costituzione
dei « sindacati artistici futuristi », atti alla difesa ed all'assistenza
degli artisti eventualmente bisognosi. Oggi quel poco che offre il
sin- dacalismo dell’arte è dovuto per lo più al sindacalismo
futurista e, in parte, a quello fascista. Ma l'idea del mu- tuo soccorso
e della solidarietà del lavoro era già pre- sente nella mentalità
futurista, orientata sempre verso giustizia (in questo caso, giustizia
dell’arte). Il proleta- riato delle rappresentanze artistiche è fatto ben
noto, e non da oggi: non ne furono esenti i futuristi, che anche in
questo senso furono rivoluzionari veri e propri, e cercatono comunque il
rinnovamento. E vollero un’istituzio- ne che li garantisse dalla loro
precarietà, dalle loro dif- ficoltà e dalla loro miseria. La
«Banca di Credito» per artisti fu iniziativa di Marinetti, in seguito
approvata e patrocinata dal « duce ». Che così rispose per l’occasione
all'amico futurista: « Mio caro Marinetti, approvo cordialmente la tua
iniziativa per la costituzione di una Banca di Credito specialmente
per gli Artisti. Credo che saprai sormontare gli eventuali osta-
coli dei soliti misoneisti. Ad ogni modo questa lettera può servirti di
viatico. Ciao, con amicizia. Mussolini ». Si trattava di una vera €
propria forma di « assicu- razione del denaro » che doveva favorire gli
artisti, o sod- disfare le loro necessità. Ma non solo Îa costituzione
della Banca di Credito chiedeva il manifesto del ’23, firmato da
Martinetti « per la direzione del movimento-futurista e per tutti i
gruppi futuristi italiani ». Si volevano anche realizzare: 1) Difesa dei
giovani artisti italiani novatori in tutte le manifestazioni artistiche
promosse dallo Stato, dai Comuni e private... 2) Istituti di credito
artistico ad esclusivo beneficio degli artisti creatori italiani [dove
si propone l’apertura d’istituti di credito per la sovvenzio- ne di
artisti, manifestazioni artistiche ed Istituti d'arte. Tali istituti si
manterrebbero con la buona volontà degli aderenti, se privati, o con
imposte sui redditi di guerra, pet esempio, se statali. Le opere d'arte
depositate co- stituirebbero valorizzazione fruttifera per l’artista
medesi- mo, ecc., n.d.r.]... 8) Agevolazioni agli artisti [tramite
il riconoscimento legale dei diritti d’autore, la riduzione del 75% della
tariffa per i viaggi degli artisti e il tra- sporto delle loto opere,
l'abolizione delle tasse doganali nell’importazione ed esportazione delle
opere d’atte, il catico sull’assicuratore delle spese per lettere di
cambio o assicurazioni delle opere d’arte, ecc..., n.d.r.]. Come si
vede i futuristi guardavano sì al futuro, ma stavano ben calati nel
presente e cercavano di opetare e di agire di; presente pet migliorare e
per rendete più giusto il uturo. Col « ritorno all’ordine », come si
definisce dagli sto- rici l'affermazione del fascismo e la sua lenta
istituziona- lizzazione in regime, si parla anche di modifica del
futu- rismo 0 di suo adeguamento ad una nuova realtà siste- matica
e organizzativa, conseguita al periodo rivoluziona- rio; e si chiacchiera
ancora di «secondo futurismo ». Anche se il futurismo, primo o secondo
che fosse, non ha mai avuto a che fare con l'istituzionalizzazione
del l'arte nell’« ordine fascista ». Dice il critico Enrico Cri-
spolti in un suo saggio, e lo asserisce in modo catego- rico e
definitivo: « In questo senso è politicamente inam- missibile e
culturalmente scorretta una liquidazione del Secondo Futurismo in quanto
collusivo out court con il fascismo »’. Ma come si atriva a
questa seconda definizione del movimento? E poi eventualmente alla sua «
demonizzazio- ne » 0 « fascistizzazione » in senso politico?
Avevamo già visto nel ’24 Gerardo Dottori « prova- re» le sue prime
aeropitture. Nel frattempo i futuristi continuano a scambiarsi esperienze
ed a lavorare intensa- mente. È ad esporre spesso e volentieri, anzi
velocemen- te e freneticamente, « alla futurista ». Nel 1926
vengono invitati diversi futuristi italiani alla International Exhibi-
tion of Modern Art di New York. Nello stesso anno alla IX Biennale d'Arte
di Reggio Calabria espongono Depero, Tato, Benedetto, Rizzo, Fillia e
Dottori. A_Mi- lano intanto al Palazzo della Permanente si allestisce
la seconda mostra, che abbiamo già visto, del Novecento, ormai in
auge e prossimo ad assurgere ai fasti della glo. ria del potere. C'è
anche la dichiarazione ufficiale del neo- costituito « Gruppo 7» di
architettura, composto da Ter- ragni, Libera, Frette, Figini, Pollini,
Rava e Larco. Nel 1928 i futuristi partecipano finalmente alla
XVI Biennale di Venezia. A Torino, all'Esposizione Nazionale,
? Enrico Crispolti, Appunti riguardanti i rapporti fra
futurismo e fascismo, in Arte e Fascismo in Italia e Gertania,
Feltrinelli, Mi- lano 1974, pag. 54. si allestisce un padiglione di
architettura futurista, con opere di Sant'Elia, Sartoris, Balla, Fillia,
Prampolini e Chiattone. Nel 1929, 33 futuristi espongono
ancora alla « Pesa: ro » di Milano (Balla, Farfa, Benedetto, Lepore,
Dottori, Marasco, Tato e Prampolini). Azari pubblica il suo Primo
dizionario aereo; Balla, Fillia, Depero, Marinetti, Tato, Somenzi,
Benedetto, Rosso, Prampolini e Dottori lancia- no il famoso Manifesto
dell’Aeropittura. Terragni termi. na 2 Como la costruzione di Novocomum,
nuovo edificio residenziale periferico. Marinetti è ‘accolto il 18
matzo nell'Accademia d’Italia, insieme a Fermi e Pirandello, su
istanza personale di Mussolini. Esce per le Edizioni di Augustea,
Roma-Milano, il volume Marinetti e il Futurismo, quarta ed ultima
espres- sione di letteratura politica del capo futurista. L’opera
ricalea in termini ancor più encomiastici e «di suppor- to» il già «
conciliante » Futuriszzo e fascismo (1924). Il volume esce ancora
dedicato « Al grande e caro Benito Mussolini », definito questa volta già
nella prima pagina « temperamento esuberante, strapotente, veloce. Non
è un ideologo. Se fosse un ideologo, sarebbe incatenato dalle idee
che sono spesso lente, e dai libri che sono sempre morti. Egli è invece
libero, scatenatissimo. Fu socialista e internazionalista, ma soltanto in
teoria. Rivolu- zionario sì, ma pacifista mai ». Il che equivale a
dire « futurista ». Del socialismo di Mussolini abbiamo già
parlato, e della sua portata teorica, a questo punto effettivamente
e « praticamente » confermata. Del futurismo « fascista » di Marinetti si
sono scritti fiumi d’inchiostro e sproloqui di parole. La dimostrazione
più lampante della sua parte- cipazione estetna al fascismo e della sua
continua difesa del futurismo e delle avanguardie è data dal rifiuto
di onorari e prebende: unica « accettazione » per contto,
quella dell'Accademia d’Italia, che gli servì poi per di- fendere il
fututismo e per «lanciarlo » meglio in Italia ed all’estero.
Nel 1930 Terragni realizza un monumento a Como su un disegno di Sant'Elia
(che era stato totalmente rie- laborato da Prampolini) in occasione delle
« Onoranze Nazionali all'architetto futurista Sant'Elia », che
viene commentato anche alla « Pesaro » di Milano. Marinetti
pubblica Futurismo e Novecentismo. Molti futuristi par- tecipano alla IV
Mostra delle Arti Decorative di Monza ed alla XVII Biennale di Venezia.
Nello stesso anno Ma. rinetti pubblica a Torino sulla Gazzetta del Popolo
i) Ma- nifesto dell’Aeropoesia, che fa eco a quello dell'Aeropit-
tura del *29. E’ il « momento» dello sviluppo aereo e dell’aeronautica: è
giusto che il futurismo si muova nella direzione del progresso e senta,
ritragga e proietti la nuo- va dimensione aerea dello spazio verso il
futuro. Nel 1931 esce a Roma il nuovo quotidiano L’'Impe-
to. Nel 1932 la Galleria « Pesaro » allestisce una mostra vera e proptia,
ed esclusiva, di « aeropittura ». Fortunato Depero ottiene che gli venga
concessa una sala « perso- nale » alla XVII Biennale veneziana.
Prampolini erige un plastico a ricordo di Marconi a Roma per la Mostra
della Rivoluzione Fascista. La partecipazione futurista è segno
della nuova collaborazione politica. Ciò non toglie che le realizzazioni
esprimano intenti d'avanguardia. L’Istitu- io Editoriale Italiano
pubblica per la prima volta i Ma- nifesti del Futurismo, in quattro
volumi. Fillia fa uscire il periodico Le Città Nuova e
Sartoris il volume sugli Elementi dell’Architettura funzionale;
Terragni comincia la costruzione della Casa del Fascio di Como. Mino
Somenzi fonda il nuovo periodico Futurismo, definito «settimanale
dell’artecrazia italiana ». Cambierà poi titolo in Atfecrazia.
Nel 1933 Hitler sale al potere e sconfessa l’arte mo- derna
(l'espressionismo, nella fattispecie). Vasari organiz- za con Marinetti
una mostra futurista a Berlino nel ten- tativo di promuovere, e di far
recepire le avanguardie al nuovo regime. Nel settembre dello stesso anno
il Congres- so nazista di Norimberga condannerà « al rogo » l’«
arte degenerata ». Esce la rivista Diamo futurista, diretta da
Depero; il periodico di architettura Casebella è invece di- retto da
Pagano, mentre Bardi e Bontempelli pubblicano Quadrante. Prampolini
progetta una stazione per aero- porto civile al padiglione futurista
della V Triennale di Milano, mentre al Castello Sforzesco si organizzano
le onoranze nazionali a Boccioni, con la presenza di Paul Klee,
Piet Mondrian, Pablo Picasso, Vassily Kandinsky ed Ezra Pound.
Nel 1934 Depero lancia un nuovo manifesto dell’Aero- plastica,
sempre sulla falsariga di quello dell’Aeropittu- ra. Fillia e Prampolini
pubblicano a Torino la nuova ri- vista Stile futurista, dalle cui colonne
Prampolini attacca Hitler per le posizioni naziste sull’arte espresse a
Norim- berga. I futuristi partecipano ancora alla XIX Biennale di
Venezia. Ad Amburgo Ruggero Vasari e Marinetti di- fendono l'avanguardia
in occasione della mostra « Aero- pittura futurista italiana »,
organizzata appositamente in polemica alle censure naziste. A Lipsia
ancora Vasari pub- blica Aeropittura, arte moderna e reazione, che
dimostra la voce della nuova avanguatdia italiama improntata ai
progressi aeronautici ed in polemica contro i soliti passa- tisti «
censoti ». Marinetti nel ’35 parte volontario per la guerra
di Etiopia. A Parigi viene organizzata una mostra futurista. A Roma
i futuristi partecipano alla II Quadriennale. Ma- rinetti pubblica
l’Aeropoema del Golfo della Spezia, che ispirerà poi ancora molti aeropittori.
Nel 1936 Prampalini realizza un salone da riunioni per municipio alla VI
Triennale di Milano. I futuristi partecipano alla XX Biennale di Venezia.
Muore Fillia esponente del « primo futurismo ». Mussolini proclama
l’Impero. Nel giugno 1937 la mostra di Monaco attacca e de-
nuncia l’« arte degenerata » con esemplificazioni e « di- mostrazioni ».
Viene messa in luce per contro, o in risal- to, l'arte « sana » nazista.
Cominciano le polemiche e le divisioni di fronti. Il fascismo ufficiale e
« d'ordine » at- tacca, e nuove violente polemiche scuotono
l'avanguardia. Il Popolo d'Italia e IL Perseo, diretto da A.F. Della
Porta, muovono guerra al futurismo. Quest'ultima rivista aveva già
polemizzato, insieme a Il regime fascista di Farinacci, con l’architettura
razionalista di Bardi e Terragni: « Noi siamo dell’opinione », si legge su
Il Perseo del 15 giugno 1937, « che il Fascismo ha tutto da perdere da
un’allean- za col Futurismo e sia pure da una semplice connivenza
». Risponde il periodico Artecrazia di Somenzi che contrattac- ca
in prima persona a sostenere l'avanguardia e il futu- rismo. Difendo il
Futurismo è la raccolta dei testi di So- menzi pubblicati sulla rivista.
Editi nel '37, sono l’opera più coraggiosa e significativa della polemica
per la lotta dell’avanguardia. 14. Futurismo di destra e
futurismo di sinistra L’avanguardia, del resto, è sempre
eterogenea e sfac- cettata. Ecco perché si parla di « destra » e di «
sinistra » all'interno del futurismo nella fase della « maturità »
(il cosiddetto « secondo futurismo »). Destra e sinistra sono
termini abusati e « inflazionati », buoni per tutto. Se ne fa spesso uso
eccessivo ed improprio, semplicistico e gra- tuito. D'altra parte, poiché
avviene ancora e soprattutto oggi, non si vede perché non dovesse
avvenire allora, quando anche si parlava, al tempo, di fascismo di «
de- stra » e di fascismo di « sinistra ». Il « centro »,
almeno nelle avanguardie, non ha ten- denze, o ne ha molto pache e solo
per qualche momento. Il « centro» ha poche tensioni, pochi impulsi
vitali, di rinnovamento. Il « centro », quindi, risulterebbe
amorfo, inutile, privo di idee 0 spirito di catatterizzazione.
L’avan- guardia allora sta a « destra » 0 a « sinistra »: non è mai
al « centro », o almeno è difficile che lo sia. Il futurismo fu forse
un’avanguardia di « destra » se intendiamo per « destra » una certa qual
spinta ideale d'impronta bergso- niana o nietzschiana: poteva però essere
anche di « sini- stra » per le sue istanze sociali. O poteva essere al
di là della « destra » e della «sinistra », per ricalcare una
espressione del pensatore tedesco. Sta di fatto che il futurismo
non fu mai di « centro ». Ma se si vuole dar credito a quello che
comunemente si intende otmai per « destra », si deve anche accogliere
un 52 futurismo di « destra », o rivolto verso «
destra »: se è vero che a «destra » sta la conservazione, lo
spirito borghese, il richiamo all’ordine ecc. ecc. E se è vero per
contro che a « sinistra » sta la spontaneità o lo spontanei- smo, la
sincerità, la schiettezza, l'onestà e quindi anche la miseria e la «
rivoluzione »: ecco, allora, esiste anche il futurismo di « sinistra ».
Com'è possibile? La polemica, anche se non sembra vero, fu
proprio di quegli anni. Comincia Bruno Corra con un « fondo » di
prima pagina su Futurismo, diretto dal Somenzi, n. 27 del 12 marzo del
1932, anno I e X dell’« Era Fascista ». Il titolo è già sintomatico: No:
futuristi di destra. Anche se Corra aveva usato il termine « destra » con
le attenua- zioni del caso, affermava che «l'essenza del Futurismo
è e non può non essere rivoluzionaria ». E ancora, a spe- cificare
meglio il concetto: « ... Bisogna dire che nel no- stro movimento i
termini di sinistra e destra non si op- pongono, perdono cioè il loto
significato convenzionale. La mentalità futurista supera il contrasto fra
il sovvetti- mento e la conservazione, in quanto si libera di
continuo in uno slancio creativo », tanto per la precisione dei ter-
mini e la puntualizzazione del linguaggio. E siccome il linguaggio ci
investe di una « sua » moralità, ecco che è bene tenerne conto quando
ancora il Corra così sottoli nea: « Mi pare che qui si tratti, prima di
tutto, di una questione di moralità. Dare al Fututismo quel che al
Fu- tutismo appartiene: e non truccare il proprio ingegno con
un'etichetta di convenienza. Chi si dichiara avanguardi- sta ma non
futurista, sputa nel piatto dove ha man- giato ». E fin qui è tutto
chiaro e conseguenziale. Ma ve- diamo come ancora il Corra continua: «
Poi, lo stabilirci questo principio; che il privilegio di poter restare
nella sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nella pro-
pria opera un temperamento realizzatore di destra, debba accordarsi
soltanto a coloro che han dimostrato di sapere essere — integralmente —
futuristi. E reclamerei il diritto di sedermi a destra, per mio conto, in
nome della mia effettiva collaborazione al Futurismo più
rivoluzionario... ». Insomma, essere stati di « sinistra » per poter
essere poi di « destra », o aver fatto i rivoluzionari in gioventù,
per poter pai sedere tranquillamente sugli « scanni » del concreto o
nella comodità del reale (di quando, cioè, x si è « arrivati
»). Può darsi sia vero, pur se non proprio giusto 0 cor-
retto il ragionamento, ma concreto sì ed anche, che ci piaccia o meno,
realistico. La polemica inizia ed. è un susseguirsi di botte e risposte.
Fra tutte vediamo come « replica » Paolo Buzzi su un altro «fondo» di
prima pagina dello stesso Futuriswo n. 30, anno II, del 2 aprile
1933. Il titolo è anche questa volta emblematico, Estrema sinistra,
puntualizzato poi meglio nell’« occhiello »: Non c'è che un futurismo:
quello di estrema sinistra. Dove si sancisce la necessità
dell'avanguardia a « sinistra », e la «sinistra » del futurismo, l’unica
possibile. « Questo, e non altro, è il vero futurismo. Perché dovrei
sedermi a destra, proprio io? Mi sembrerebbe di tradire la causa di
Aeroplani, di Ellisse e la Spirale, di Cavalcata delle verti. gini... ».
E ancora: « Questo è futurismo: e di ultra estre- ma sinistra. Le mie
autonomie sintetiche di anime e di sensi, le mie aeropitture di tipi e di
paesaggi, i miei co- smopolitismi spaziali e i miei intimismi votticosi,
stanno per una intransigenza etico-estetica che costituisce, or-
mai, la gioia (ed, un pochino, anche la gloria) della mia lunga carriera
di vomo che ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote celebra messa.
Aviatore sempre, adunque: fan- te o stradino, non mai ». E conclude poi,
con patole un po’ altisonanti e troppo, forse, di effetto: «I
giovani, quelli veramente degni di questo nome primaverile, sanno
che al di fuori e al di sopra d'ogni inevitabile chiasso letterario, la
parola “futurismo” risponde alla sola unica vera “idea forza” che oggi
esista nella sfera ideale del mondo: e che è in grazia di essa,
unicamente di essa, se oggi la Poesia della miracolosa Italia fascista
vive e vi- vrà ». Dove si dimostta ancota una volta, come se non ba-
stasse, il collegamento tra futurismo e fascismo, almeno nella loro
spinta « spontaneistica » e rivoluzionaria. Dobbiamo comunque
tenere conto del tempo della pubblicazione di questi articoli, nel °32 e
'33, in pieno ed affermato regime. Ecco, quindi, anche, il senso di
una « destra » e di una «sinistra », di un futurismo ancora giovane
ed esuberante, e di un altro futurismo per contro già assiso sugli allori
della gloria o sul comodo giaciglio della meta raggiunta e della calma
del riposo. Quando cioè il fascismo, movimento politico rivoluzionario,
eta di- ventato « regime », ed aveva, per così dire, assunto le sue
caratteristiche sembianze (almeno fino a un certo punto). Perché il
futurismo, così come era sotto, in fondo si era voluto mantenere. AI di
là dei tentativi di conglobamento o di «cattura » della sua entità
esercitati dal regime o da singole personalità fasciste, alcune delle
quali, magari, erano state futuriste o vicine al futurismo. Tuttavia
era e restava, il futurismo, in fondo, quello di sempre: solo ed
esclusivamente un movimento d'avanguardia. 15. Futurismo ed
ebraismo « Innumerevoli differenze separano il popolo russo
dal popolo italiano, oltre a quella tipica che distingue un po-
polo vinto e un popolo vincitore. I loro bisogni sono di- vetsi e
opposti. Un popolo vinto sente morire in sé il suo patriottismo, si
rovescia rivoluzionariamente e plagia la rivoluzione del popolo vicino.
Un popolo vincitore co- me il nostro vuol fare la sua rivoluzione, come
un aera- nauta getta la zavorra per salire più in alto... Non
esiste in Italia antisemitismo. Non abbiamo dunque ebrei da re-
dimere, valutare o seguire », sosteneva Marinetti nel 1920: e lo diceva
nella sua opera già esaminata A! di là del Co- munismo. Lo riportiamo non
tanto per rilevare le diffe renze fra rivoluzione futurista e rivoluzione
bolscevica 0 spirito comunista, quanto per far rilevare quale era
la posizione di Marinetti nei confronti degli ebrei già nel 1920.
Gli ebrei da « redimere, valutare o seguire » sono evidenti: Marx ed
Engels. Il problema invece si affaccia, come tutti sappiamo, sul volgere
del '38 e all'alba del °39. Il Manifesto del Razzismo italiano, quello
degli scien- ziati del 14 luglio ’38, e la Carta della Razza del 6-7
ottabre dello stesso anno, cui fanno seguito le leggi razziali del
novembre sulla falsariga dell’antisemitismo tedesco, danno buon gioco
alla cultura dell’« ordine », quella più direttamente sostenitrice o
affiancatrice del regime. Secondo Crispolti «il tentativo della
cultura legata alla destra reazionaria fascista di profittare della
campa- gna antisemita per promuovere un'edizione italiana della
operazione nazista dell’“arte degenerata” è un aspetto no- tevole dell’azione
pubblicistica che precedette e accompa- gnò quei provvedimenti » ®.
L'azione pubblicistica era con- dotta da Telesio Interlandi in prima
persona, che attacca- va spesso e volentieri Marinetti, il futurismo e le
avan- guardie attraverso il suo periodico: dal Quadrivio, setti
manale romano ad impronta razzista, al quotidiano roma- no Il Tevere, a
La difesa della razza. Oltre a Interlandi si distinguevano Giovanni
Preziosi con il mensile La wite italiana, e Roberto Farinacci con Il
regimze fascista, quoti- diano di Cremona. « L'arte moderna è
un tumore che deve essere tagliato non che si debba esibire come una
gloria nazionale sol perché piace a Marinetti », aveva affermato I/
Tevere del 24-25 novembre 1938, pubblicando un’antologia di esempi
d’« arte degenerata » italiana. Quadrivio aveva a sua volta proposto un
referendum contro l'arte moderna considerata in blocco « bolscevizzante e
giudaica », ma senza alcun successo. Marinetti rispondeva
con una manifestazione indetta il 3 dicembre 1938 da lui e Somenzi al
Teatro delle Atti di Roma. E Somenzi stesso lo accompagnava con un «
fon- do » polemico su Arfecrazia, n. 117 del 3 dicembre, dal titolo
Razzismo. Ad esso facevano seguito sul n. 118 del- l'11 gennaio 1939 due
articoli (Arte e... razzia, e Italianità dell’arte moderna), ancora in
posizione di attacco, aspro e violento. Quest'ultimo, firmato «
Artecrazia » pottò a determinare la chiusura stessa del giornale.
Non è escluso * Enrico Crispolti, Appunti riguardanti
1 rapporti fra futurismo e fascismo, cit., pag. 58. 56
che lo avesse scritto proprio lo stesso Marinetti (con Somen- zi).
Il pretesto di voler colpire con l’antigiudaismo l’arte moderna era messo
all'indice dell'accusa. Si dimostra così ancora una volta lo spirito d'avanguardia
con cui il futu- rismo e i futuristi operavano, sia pur sotto le bandiere
del regime, ma in fondo in opposizione a una cultura d’or- dine e
di conservazione, priva di spunti nuovi e originali, o addirittura chiusa
ai contatti e alle avanguardie europei sotto il pretesto dell'antigiudaismo,
che non poteva certo essere aperto a nuove esperienze. Nel
1940 entta in guerra l’Italia. Marinetti parla « Per l’italianità
dell’arte » e tiene un discorso al Teatro delle Arti a Roma sulla «
bellezza aeropoetica della guerra mec- canizzata ». Intervengono Radice e
Terragni a difendere l’arte moderna. Declatmano Marinetti, Farfa, Scrivo,
Mo- nachesi e Berardi. La rivista Autori e Scrittori pubblica il
manifesto Nuova estetica della guerra. A Genova Mari. netti parla su «La
poesia e la guerra » nel Salone dei Professionisti e degli Artisti, dove
si declamano poesie di Mazzotti e Balestreri. Nel 1941 Renato
Di Bosso lancia il nuovo Manifesto dell’Aerosilografia. Nel 1942
Marinetti pubblica Carto eroi e macchine della guerra mussoliniana.
Poi parte vo- lontario a raggiungere le truppe italiane in Russia.
Rien- trerà nel ’43 malato, e già intaccato nella salute. Mussolini
cade il 25 luglio e Marinetti si trasferisce a Venezia, dopo l'8
settembre. Il fascismo è finito, ma il futurismo an- cora continua.
16. Il futurismo tra ieri e oggi Dopo la morte di Terragni
a Como (1943) per ma- lattia contratta sul fronte russo, Marinetti
aderisce nel 44 alla neo-costituita Repubblica Sociale Italiana.
A_Ve- nezia riceverà gli ultimi futuristi, rimastigli fedeli nono-
stante il « declino »: Crali (ancora vivente) e Andreoni (recentemente
scomparso). A loro vorrà consegnare il fu- turismo perché non muoia con
lui. Si trasferisce poi a Cadenabbia sul lago di Como e muore a Bellagio
nella notte fra il 2 e il 3 di dicembre, per crisi cardiaca (i fu-
nerali di Stato porteranno le spoglie a Milano, al Cimitero Monumentale).
Postuma a lui e alla fine del fascismo (repubblicano) si pubblicherà la
sua ultima opera, che così inizia: « Salite in autocarro aeropoeti... »
Si tratta del Quarto d'ora di poesia della X Mas, in cui l’invoca-
zione all'avanguardia alita uno strano ed inevitabile sen- so di morte,
violento ed inesorabile. Ma l'avanguardia è, pare, ineliminabile,
tant'è che il futurismo continua come espressione artistica almeno,
an- che se ormai non più politica. I suoi epigoni lo sosten- gono
ancora, «con le parole e con le opere». Crali Primo Conti a Milano e a
Firenze, Sartoris a Losanna, Di Bosso ed Anselmi a Verona, Enzo Benedetto
a Roma portano ancora avanti il suo programma d'avanguardia. Con
parole e con scritti, con opere e con progetti, col messag- gio dell’arte
sempre e comunque. I seguaci di Marinetti si rifanno a lui e sostengono
con vivacità e con brio la vitalità di una prospettiva che si vuole
sempre rinnovare. Questo è ancora, malgrado tutto, il valore
attuale del futurismo. Quello di un'avanguardia italiana aperta
alle avanguardie europee, ma avanguardia comunque e valo-
rizzatrice in ogni caso dell'arte. Che dev'essere libera e moderna, nuova
ed attuale, viva e presente ai suoi tempi. Per questo deve ancora
schiacciare le pastoie dei vecchiu- mi « passatisti », deve smuovere il
conservativo e assa- lire i fantasmi di prolungamento di polverosi e
sclerotici retaggi. Deve insomma comunque essere avanguardia. Il
messaggio futurista, in questo senso, è ancora attuale. Ce lo dicono
Crali e Benedetto, fra gli altri, con le loto testimonianze. Che ci
aiutano a tivedere la « dimensio- ne » del futurismo: una dimensione «
presente » in tanta odierna penuria di originalità nel moderno, presente
al- meno come forza dinamica nella prospettiva di migliori, più
aperti, e più geniali futuri. ALBERTO SCHIAVO 58
SOFFICI, MARINETTI, BOCCIONI, RUSSOLO SANT'ELIA, SIRONI,
PIATTI FUTURISMO E « GUERRA SOLA IGIENE DEL MONDO. Ben
presto si manifesta l'interesse dei futuristi per la politica. Nel 1911
Marinetti pubblica giò un mani festo « politica », che sarà la sua prima
espressione di intervento nelle cose pubbliche. «Tyripoli Italiana
» vuol dire presenza dell’Italia e primato dell’Italia; vuol dire
guerra ed espansione, allargamento del vita- lismo italiano, e vittoria.
Il « panitalianismo » si espri- me e si dichiara apertamente, per la
prima volta. L'avanguardia politica deve accompagnare
l'avanguar- dia artistica. E il primato italiano in arte st deve
ma- nifestare anche in politica, nella forza dell'espansione del
genio (al tempo, di arbizione coloniale). Poco dopo la Libia, è la
volta dell'Austria. L’amo- re della guerra non può che portare a voler
V'inter- vento. Ci sembra significativa la penna di Soffici su
Lacerba del ‘14, dove si osa dire la verità e mettere in luce la finzione
del moderatismo neutralista (cat- tolico o socialista che sia).
Il manifesto della fine del 1915, dedicato all'« or- goglio
italiano », è già un manifesto di guerra. Per questo lo riportiamo
interamente, a dimostrazione del- la fiducia e dell’ottimismo degli
artisti combattenti, la loro convinzione della forza attiva e dello
funzione battagliera dell’arte PER LA GUERRA
Valvola Essere italiano (mi piace ripeter qui che adoro il
popolo italiano) non è in generale gran fatto entusia- smante, in questa
nostra epoca. Ìn questi ultimissimi tem- pi, confesserò che per conto mio
mi vergogno un poco di portar questo nome. E’ un sentimento che si è
andato sviluppando leggendo i giornali, e posso anche ammettere che
una tale causa non meriterebbe di produrre un tale ef- fetto; ma i
giornali son tutta la nostra vita ormai e pur- troppo. E. dai giornali
italiani si alza e si propaga un tal lezzo d'abbiezione e d’imbecillità
che chi ha un po' di cuore e di spirito non può fare a meno di sentirsene
sof. focato. E' una gara in cui corrispondenti, redattori ordina-
nati e straordinari, politicanti e governo fanno del loro meglio per
sorpassarsi a vicenda. Non che siano espliciti nei loro articoli e nei
loro comunicati, ma la bassezza tra spare e offende. Sono reticenze
abbiette, raccomandazioni infami, voltafaccia vergognosi, silenzi più
vergognosi anco: ra. Si sente che il calcolo idiota comanda e regola
tutti questi spiriti subalterni. La guerra? Le mani in mano? Questo
enimma terribile non è affrontato a viso aperto, ma una battaglia vinta o
persa lontano detta il tono ed il catattere (anche tipografico) della
notizia, del commento o della nota ufficiosa. Dà il là all’elucubrazione
insulsa del machiavello rimbastardito. La stampa italiana è opgi come
oggi l’indizio della più ripugnante psicologia e mentalità che possa
avere una nazione. Davanti al mondo che com- Tralasciamo i
paragrafi: Toccami il naso, Grandezzate, e Subli- mità, che ci sembrano
poco significativi dal punto di vista politico, per riprendere con
Socialismo, molta più denso e pregnante. 61 batte e
soffre, accanto a una civiltà che difende le sue — le nostre — ricchezze
dal sacrilegio di un'orda senza stotia, noi siamo il leguleio diseredato
di viscere, solle- cito della sua trippa mediocre che occhieggia le
fortune dei popoli, e risponde di sbieco o tace aspettando dietro
lo schermo della sua neutralità. Non hanno il coraggio questi figuri di
dirla una buona volta ta verità. Ditelo che siete i più ignobili
rappresentanti di un paese che è mise- rabile perché non vi calpesta come
cimici. Ditelo che vi mancano il cuore e i testicoli. Ditelo che avete
paura. O confessate almeno che dietro la vostta prudenza c'è la
vostra impotenza, la verità che ci buttano in faccia i nostri alleati
quando fra una batosta e l'altra voglion levarsi il gusto di pigliarci
per il bavero. Che cioè l’Italia non ha quattrini, non ha armi, non ha
munizioni e che i suci magazzini son vuoti come la badia di Spazzavento. E
ci sono infine i socialisti. Io non ho un'esagerata antipatia pet i
socialisti. Trovo che la loro cravatta rossa, il loro sol dell’avvenir, i
loro discorsi in piazza, e gene- ralmente tutto ciò che li caratterizza,
così a occhio e croce, sono un tantino ridicoli; ma le case popolari,
l'au- mento delle mercedi operaie e tutto ciò che il proleta- riato
deve loro di miglioramenti per la vita di tutti i giorni sono cose ottime
e sante. Ciò non toglie che una cosa mi stupisce straordinariamente ogni
volta l'intravedo e mi stupirà in eterno: la loro mentalità. Si rivela
spes- sissimo in questi giorni, e sempre a proposito della neutra-
lità italiana. I socialisti l'’ammettono, non solo, ma la vo- gliono
perpetua. « Io sono e resto un fautore ogni giorno più convinto della
neutralità per la pace » ha dichiarato in un referendum uno di loro. E
voleva forse dire (giac- ché è difficile immaginare una neutralità per la
guerra) che lui e il suo partito sono per la pace a ogni costo.
Giacché, ed eccoci alla mentalità di codesto partito, ogni buon
socialista non vede nella guerra, qualunque essa sia, 62
se non una lotta di capitalisti e banchieri contro capita- listi e
banchieri i quali si servono del proletariato per li- quidare le loro
partite. Ammettiamo che in ogni guerra ci sia un sostrato d'interessi; ma
non c'è altro? Per i so- cialisti non c'è altro. L'idea che i socialisti
si fanno del mondo è questa: un capitalista borghese e sfruttatore
alle prese con un magro popolano sfruttato. La cultura, le scienze,
le arti, le delicatezze, l’eleganze, i raffinamenti, le filosofie, la
bellezza, i sentimenti, gli amori, le passioni -— tutto ciò insomma che
fa la vita così terribilmente com- plessa, così colorita, così varia,
multiforme, incoercibile non è nulla per loro. Tutto è grigio, e
l’universo intero una specie di ragnatela squallida senza confini né
orizzonti, eterna, in mezzo alla quale un ragno cerca di succhiare
una mosca alla quale Karl Marx ha insegnato che non deve lasciarsi
succhiare. Così, nella guerra presente, che cosa importa se
intere nazioni difendono una civiltà che è la nostra, le libertà
conquistate — le idee stesse dei socialisti — contro i nemici che sono
gli stessi nemici dei socialisti? Per i compagni di Filippo Turati non si
tratta che della solita altalena dei capitali sulle povere spalle del
popolano e bisogna aste- nersi. E parlo espressamente degli « ufficiali »
ex cattedra, giacché agli altri, a quelli del colloquio coll’emissario
tede- sco, dobbiamo l’atto forse più nobile e generoso che si sia
compiuto in Italia in quest'ora di straordinaria bassezza. Il
trionfo della merda La cieca incoscienza dei socialisti ufficiali
e l’untuosa malafede dei cattolici alla Meda (ecco un uomo cui
manca indicibilmente l’erre!) si possono anche capire in un mo-
mento come questo, chi consideri la speciale mentalità di codesti gruppi
e la messa in giuoco violenta dei prin- cipî e degli interessi di
tutti. I primi, i socialisti, non d'altro solleciti che di
vuote teoriche malamente idealistiche, non possono vedere nella
guerra se non un fatto inquietante, uno di quei fatti che afferrando tutto
l’uomo ne mettono in mato ogni energia vitale il che è sempre a scapito
certo delle ideologie uni- laterali, e credono l’'opporvisi con tutte le
loro energie una coerente difesa dell’« idea » mentre non si tratta
in fondo che di un semplice istinto di conservazione. I se- condi,
i cattolici, sanno benissimo che un nostro interven- to nel conflitto
attuale favorendo il trionfo di popoli tut- t'altro che asserviti alla
secolare imbecillaggine papale, si- gnificherebbe un indebolimento
considerevole della loro compagine, e maschetano di prudenza pattiottica
il loro desiderio di vedere ancora l’Italia ribadir con la sua neu-
tralità incondizionata i vincoli che la fanno setva e com- plice del
bigottismo e dell’inciviltà eutopea. Contro gli uni e gli altri,
se si può usar del disprezzo, non sarebbe dunque logico indignarsi. Ma
c’è una massa dei nostri connazionali che nessuna collera, nessuna abo-
minazione potrà mai bollate con l’infamia che merita la sua straordinaria
abbiezione. E' Ja massa oscura, anemica informe degli irresponsabili, dei
disamorati, degli abulici: dei parassiti della società e della vita. Non
vedendo nulla più di là della lora piccola tranquillità presente, del
loro affare meschino, del loro affetto senza energia; rincantuc-
ciati nel loro buco momentaneo al sicuro dalla burrasca che gli sgomenta
soltanto a intravederla nelle corrispon- denze del loro mediocre giornale,
essi credono che nulla possa essere più profittevole del prolungare, sia
pure a co- sto di ogni mortificazione, questo stato d’incolumità
rumi- nativa nell'ombra e in margine alla storia. Chè se domani la
preponderanza in Europa di una razza di pachidermi violenti, chiusi a
ogni luce di vera intelligenza, conculcherà ogni espressione geniale di
vita; se i popoli cui si lega una comunanza di cultura, di ricordi e di
tradizioni, saranno mortificati e asserviti a un’etica da ingegnere
belligero e spia; se le nostre stesse fortune intellettuali, morali e
ma- teriali saranno manomesse e asservite, che cosa importa a
questi miopi sdraiati nella loro flaccidezza quietoviven- te? A costoro
importa che l’oggi sia senza strepiti e senza pericoli, che il tran tran
dell’esistenza seguiti: felici se l'Ita- lia potrà uscire dal rotto della
cuffia — e sia magari verso 64 l'abisso. Così nessuno
si affida con più sicurezza di loro alle decisioni del nostro governo. Il
govetno italiano che fino ad oggi s'è dimostrato come la quintessenza di
questa materia fiscale, perché non d -*ebbe divenirne anche la
stella fatale? L’ospizio degl lidi della Consulta è il faro naturale di
questa marea ».ercoraria che monta. Poi ché essa monta, trionfando. Ogni
giorno che passa nella passività, ogni occasione perduta, ogni ambizione
abdi- cata, ogni nuova difficoltà creata servono ottimamente al suo
incremento e alla sua propagazione. Siamo già a buon punto. Dopo aver
impedito con tutto il suo peso ri- pugnante ogni movimento, questa massa
pestifera ha già una voce per dire che muoversi ora è troppo tardi.
An- cora poche settimane e sarà forse vero, e tutti saremo sommersi
per sempre. Amici! Noi abbiamo parlato e scritto: abbiamo
propu- gnato tutto il calore delle nostre anime per oppotci alla
vigliaccheria inaudita di una bella parte dei nostri con- cittadini.
Credo che il momento di una lotta più diretta e dura stia per giungere.
Le armi della mente e del cuore stanno per esaurirsi. Bisognerà ricorrere
alle altre, se non vogliamo che l’Italia piombi al livello della più
vergognosa fra le nazioni. Un paese che abbia per scrittori dei
Pao- lieri e la Nazione come giornale ufficiale. Arvenco
SOFFICI [da: Lacerba, n. 18, 15, settembre 1914; e n. 19, 1° ottobre
1914] L'ORGOGLIO ITALIANO Il 13 Ottobre, nella prima
perlustrazione fatta da me agli ordini del capitano Monticelli e del
sergente Visconti in terreno nemico, a 6 Km. dalle nostre trincee, fra
le alte roccie a picco, nelle boscaglie e nelle pietraie dell'A]
tissimo, dopo esserci incontrati con una pattuglia austria
65 ca che ci voltò le spalle e fuggì, constatammo con gioia
la superiorità enorme della nostra artiglieria, i cui tiri meravigliosi,
passando su di noi e sul lago, sostenevano la nostra avanzata in Val di
Ledro. Nella seconda perlustrazione fatta da me, dai miei amici
futuristi Boccioni e Sant'Elia e dal pittot Recci, esplorando e
occupando la trincea delle Tre Piante, constatammo con quale gioconda
disinvoltura dei giovani pittori e poeti italiani possano trasformarsi
in audaci, rudi, instacabili alpini. Durante l'avanzata,
l'assalto e la presa di Dosso Ca- sina, compiuta dai Volontari ciclisti
lombardi e da un battaglione di alpini, vedemmo le truppe austriache
sgo- minate dalla baldanza di pochi italiani diciassettenni e
cinquantenni, non allenati alla guerra in montagna. Dopo aver matciato
per 7 giorni in un foltissimo nebbione, con vestiti quasi estivi malgrado
la temperatura di 15 gradi sotto zero, i Volontari ciclisti
pernacchiavano allegramen- te alle migliaia di sbrapne!s prodigati loro
da 5 forti austria- ci. I nuovi raccoglitori di bossoli e di schegge
micidiali facevano finalmente dimenticare gli stupidissimi e senti-
mentali raccoglitori di edelweiss. Constatammo che degl'italiani,
già operai, impiegati o borghesi sedentarii, sapevano vincere in astuzia
qualsiasi pattuglia di Kazserjigers. Constatammo che un corpo di
300 valontati ciclisti improvvisati alpini sapeva strategi- camente
manovrare su per montagne ignote, con tale abi lità che il nemico si
credette accerchiato da migliaia d’uo- mini. Constatammo che uno studente
italiano, trasforma- to in ufficiale, può comandare tutta l'artiglieria
d'una zona e sfondare coi suoi tiri 6 o 7 forti austriaci,
scientificamen- te preparati alla difesa in 20 o 30 anni.
Constatammo come il popolo italiano, sotto la direzione geniale di
Ca- dorna, abbia saputo improvvisare in pochi mesi la prima
artiglieria dei mondo e vincere di continuo nella più spa- ventosa e
difficile guerra che sia mai stata combattuta. Singhiozzammo di gioia
all’udire dalla viva voce di 20 o 30 giornalisti esteri, quali Jean
Carrère e Serge Basset, che l'esercito capace di vincere e di avanzare sul
Carso è si- curamente il primo esercito del mondo. Dopo aver
visto il popolo italiano, « il più mobile di tutti i popoli », liberarsi
futuristicamente, con una scrol- lata di spalle, dalla lurida vecchia
camicia di forza giolit- tiana, vediamo ora nelle vie milanesi fervide di
lavoro, come il popolo italiano, che sembrava avvelenato di paci-
fismo, sa guardare con fierezza questa nobile, utile e igie- nica
profusione di sangue italiano. Tutto questo ci conferma una volta
di più che nessun popolo può uguagliare: 1. - il genio
creatore del popolo italiano; 2. - l'elasticità improvvisatrice di
cui sempre danno prova gl’italiani; 3. - la forza, l’agilità
e la resistenza fisica degl'’italiani; 4. - l'impeto, la violenza e
l’accanimento con cui gli italiani sanno combattere: la pazienza, il metodo e il calcolo
degl'italiani nel fare una guetra; 6. - il firismo e la
nobiltà morale della nazione italiana nel nutrirla di sangue o denaro. ITALIANI!
Voi dovete costruire l'Orgoglio italiano sulla indiscutibile superiorità
del popolo italiano în tutto. Questo orgoglio fu uno dei principii
essenziali dei nostri manifesti futuristi dall’origine del nostto
Movimento, cioè da 6 anni fa, quando primi e soli (mentre
l’irredentismo agonizzava e il partito Nazionalista non era ancora
nato) invocammo violentemente, nei teatri e sulle piazze, la guer-
ra come unica igiene, unica morale educatrice, unico velo- ce motore di
progresso. Eravamo allora sicuri di vincere l’Austria e di centu-
plicare il nostro valote e il nostro prestigio vincendola. Eravamo soli
convinti della prossima conflagrazione gene- rale, che tutti giudicavano
impossibile in nome di due pseudo-fatalità: lo sciopero delle Banche e lo
sciopero dei proletariati. Eravamo convinti che coll’Inghilterra, la
Fran- cia, la Russia, noi dovevamo utilizzare le nostre
inesauribili forze di razza e il nostro genio improvvisatare,
collabo- 67 rando allo strangolamento del teutonismo,
fatto di balor- daggine medioevale, di preparazione meticolosa e
d’ogni pedanteria professorale. Apparve allora il mio
Monoplan du Pape, visione pro- fetica della nostra vittoriosa guerra
contro l’Austria. Infat- ti noi soli fummo profetici ed ispirati, perché,
più giovani di tutti, più poeti, più imprudenti, più lontani dalla
poli- tica opporttunistica e quietista, traemmo la visione del fu-
turo dal nostro temperamento formidabile, e pur consta- tando intorno a
noi la vecchia mediocrità italiana, credem- mo fermamente nell’avvenite grande
dell’Italia, semplice- mente perché noi futuristi eravamo Italiani.
ITALIANI! Voi dovete manifestare dovunque questo orgoglio italiano
e imporlo in Italia e all'estero colla pa- rola e colla violenza, come
facemmo noi in Francia, nel Belgio, in Russia, nelle nostre numerose
conferenze bat- tagliere. Merita schiaffi, pugni e fucilate
nella schiena l'italiano che non si manifesta spavaldamente orgoglioso
d’essere italiano e convinto che l'Italia è destinata a dominare il
mondo col genio creatore della sua arte e la potenza del suo esercito
impareggiabile. Merita schiaffi, pugni e fucilate nella schiena
l'italiano che manifesta in sé la più piccola traccia del vecchio
pes- simismo imbecille, denigratore e straccione che bha carat-
terizzata la vecchia Italia ormai sepolta, la vecchia Italia di
mediocristi antimilitari (tipo Giolitti), di professori pa- cifisti (tipa
Benedetto Croce, Claudio Treves, Entico Ferti, Filippo Turati), di
archeologhi, di eruditi, di poeti nostal- gici, di conservatori di musei,
di albergatori, di topi di biblioteche e di città morte, tutti
neutralisti e vigliacchi, che noi, primi e soli in Italia, abbiamo
denunciati, vilipesi come nemici della patria, e veramente frustati con
abbon- danti e continue doccie di sputi. Merita schiaffi,
calci e fucilate nella schiena l’artista o il pensatore italiano che si
nasconde sotto il suo inge- gno come fa lo struzzo sotto le sue penne di
lusso e non sa identificare il proprio cotgoglio coll’orgoglio
militare della sua razza. Merita schiaffi, calci e fucilate nella schiena
l’artista o il pensatore italiano che vernicia di scuse la sua viltà,
dimenticando che creazione artistica è sinonimo di eroismo morale e
fisico. Merita schiaffi, calci e fucila- re nella schiena l'artista o il pensatore
italiano che, fisica- mente valido, dimostrando la più assoluta assenza
di va- lore umano, si chiude nell’arte come in un sanatorio o in un
lazzaretto di colerosi e non offre la sua vita per ingi- gantire
l’Orgoglio italiano. Mentre altri futuristi fanno il loro dovere
nell’esercito regolate, noi futuristi volontari del Battaglione
lombardo, dopo essere stati semplici soldati in 6 mesi di guerra,
ed aver preso cogli alpini la posizione austriaca di Dosso Casina,
aspettiamo ansiosamente il piacere di ritornare al fuoco in altri corpi,
poiché siamo più che mai convinti che alle brevi parole devono subito
seguire i pronti, fulminei e decisivi fatti. La sensibilità e l'acume
politico « d'avanguardia » dei futuristi non potevano rimanere
indifferenti di fron- te ai loro avversari 0 alla «controparte »
dell'avanguar- dia, quella socialista. La reciprocità dell'opposizione
al potere liberalborghese, a « passatista» per dirla alla
Marinetti, era motivo di accostamento, forse, 0 per lo meno di attenzione
da ambo le parti. E sappiamo dal De Felice che molti « proletari » o
esponenti dei ceti umili osservavano con attenzione e seguivano il
movi mento di Martinetti con calore di simpatia. Marîo
Carli, fra i più sensibili esponenti certo del futurismo «d'assalto », si
accorge della presenza di ele- menti comuni nelle avanguardie, e lancia
un appello da Roma futurista # 13 /uglio del ’19 nel tentativo
forse di un avvicinamento. L'avvertimento della necessità di
rovesciare la classe dirigente corrotta e impreparata of- fre una base
comune all'intento di collaborazione per il sostegno del proletariato,
operaio od ex combattente che sia. La polemica continua sulla stessa
testata, nel numero del 92 novembre dello stesso anno con un arti
colo di Giuseppe Bottai dal titolo Futurismo contro Socialismo.
L'immpossibilità di collaborazione è già vista dal Bottai con tutta la
sua evidenza, ed è vista per ragioni squisitamente ideologiche, rifacentesi
gi presup- posti filosofici del socialismo e del socialismo
italiano, in particolare. Il 14 dicembre ancora del ’19, entra
nella polemica un socialista, certo Moannarese, cui ven- gono aperte le
colonne di Roma futurista @ fargli so- stenere più o meno la stessa tesi
di Bottai, anche se vista da angolazione marxista, dogmatica e
inequivoca bile. L’impossibilità della collaborazione è data dalla
ostrattezza del futurismo secondo Manmarese, e dal suo scarso od
insufficientemente risaltante contenuto sociale, che esula dall'unico e
imprescindibile metodo possibile: quello della lotta di classe. L'ultima
battuta è ancora del Bottai ed esce la settimana dopo, sul numero
del 21 dicembre ‘19 dello stesso periodico. La puntualizza zione
degli argomenti e la precisazione dei temi e delle tesi di pensiero son
lutte protese a dimostrare lo sin- cerità filo-popolare del futurismo e
la falsità democra- tica del socialismo per cui è quasi necessario
essere contro il socialismo, ed indispensabile, se si ama il po-
polo italiano, quello dei proletari arditi con cui anche Bottai aveva
combattuto nelle trincee al fronte della prima guerra. « Noi siamo per
l'elevazione del popolo, e non per l'assolutismo demagogico di esto»,
sottoli neava l'autore, concludendo a grandi caratteri « Contro il
socialismo non vuol dire contro il proletariato ». Ho esaminato seriamente
l'ipotesi di una collaborazione fra noi (futuristi, arditi, fascisti,
combattenti, ecc.) e i Partiti cosiddetti d'avanguardia: socialisti ufficiali,
rifor- misti, sindacalisti, repubblicani. A parte il fatto
che, in realtà, essi siano assai meno precursori ed audaci di quanto a
parale vogliano far cre- dere, io mi sono preoccupato esclusivamente di
cercare il terreno comune nel quale si possa, noi e loro, associa-
re gli sforzi e marciare d'intesa verso lo stesso obiettivo. Il
terreno comune c'è. Ed è quanto di più nobile e attraente possa offrirsi
a degli spiriti sinceramente aman- ti del progresso e della libertà. E'
la lotta contro le at- tuali classi dirigenti, grette, incapaci e
disoneste, si chia- mino borghesia o plutocrazia o pescecanismo o
parlamen- tarismo. Non è possibile lasciar loro più oltre la
potenza del denaro e il potere governativo e amministrativo; sono
una casta che deve cadere e cadrà. E’ questa caduta che noi dobbiamo
affrettare, con tutti i mezzi e con tutte le fotze disponibili.
Or ora, l'esperimento del « caro-viveri » in tante città d’Italia,
ci ammonisce che di fronte a problemi gravi e pressanti, non c’è odio di
parte né antipatia sentimentale che tenga. Noi possiamo ben dare (e
l'abbiamo data) una valida mano ai pussisti per impedire che il popolo
sia affamato. Non pottebbero i socialisti vedere nel nostro gesto
disinteressato e leale una prova della nostra sim- patia per il popolo,
si chiami combattente o si chiami operaio, e riconoscere che la nostra
azione tende, quanto e più forse della loro, ad equiparare le classi
sociali? Esiste un Marifesto del Partito Futurista, ed un libro
di Marinetti dal titolo « Democrazia futurista », dove è condensato
quanto di più moderno, di più progredito, di più spregiudicato, di più
audace e rivoluzionario si può oggi pensare nel campo politico. Ma i
partiti pseudo- 75 avanguardisti e pseudo-rivoluzionari
ostentano di ignora. re e manifesto e libro, né mai hanno fatto il più
timido gesto di simpatia o d'interesse verso idee o remperamenti ai
quali dovrebbero sentirsi attratti per istinto! Perché? Eppure noi siamo
libertari quanto gli anarchici, demo- cratici quanto i socialisti, repubblicani
quanto i repubbli- cani più accesi. Si tratta dunque di mala
fede? Pare di sì, perché, se non fossero in mala fede, costoro dovrebbero
inginoc- chiarsi davanti a noi e chiamarci come loro capi. Se la
loro lotta politica fosse sincera e convinta (parlo special mente dei
pussisti), dovrebbero ammirate senza riserve il nostro spirito
rivoluzionario che, dopo aver schiantato quella fetida cancrena del
passatismo europeo che si chia- mava Impero d’Asburgo e contribuito a
umiliare il tra- cotante militarismo tedesco, vuole oggi demolire a
colpi di bomba i vecchi sistemi, i regimi decrepiti, i focolai di
putredine che costituiscono la grande cloaca politica ita- liana.
Se fossero in buona fede, dovrebbero riconoscere che noi soli,
uomini di guerra che non ignoriamo il piombo e l’acciaio laceratore di
carni, sapremo, a tempo debito, scatenare e condurre una rivoluzione, non
già dal Quartier Generale di una qualsiasi Camera del Lavoro, ma
alla testa delle moltitudini in marcia. Se fossero in buona
fede, sapete che cosa dovrebbero dire questi organizzatori di masse a
scopi elettorali? Ci direbbero — Venite qua, futuristi, arditi, fascisti,
com- battenti tutti: voi che siete più rivoluzionati di noi, più
audaci di noi, più liberi di noi, voi che amate il popolo più
sinceramente di noi! Venite qua, uomini d'azione e di comando: a voi il
guidare le masse verso la libertà e la ricchezza! a voi il rovesciare i
vecchi sistemi, i vecchi dogmi e le vecchie tirannidi! noi ci ritiriamo
nei ranghi. Perché non lo fanno? Perché questi falsi
socialisti che scrivono in giornali luridamente borghesi come Il! Tempo e
La Stampa, per ché pagano bene, si sfiatano a chiamarci reazionari
della borghesia, carabinieri più dei carabinieri, a diffamarci
imbecillescamente? Perché hanno respirato di soddisfazione al- l'avvento
del reazionarissimo gabinetto Nitti e complici? Perché hanno
lanciato dalle colonne dell’Avanti pochi giorni fa, un grido d'amote alla
censura che se n’andava, promettendole di richiamarla con tutti gli onori
non ap- pena il socialismo ufficiale fosse salito al potere?
Perché tentano di far credere ai soldati che gli uf- ficiali
combattenti costituiscono una « casta » borghese, quando i soldati
ricordano ancora il loro tenentino che in trincea si adagiava nello
stessa fango, mangiava nella stessa gavetta, correva gli stessi rischi,
buscava le stesse ferite, come ciascuno di loto? Perché non
si decidono a riconoscere che la guerra ha liberato il mondo dall'incubo dell'imperialismo
germa- nico e ha impresso alle conquiste ideali e materiali dei
popoli un ritmo di fantastica velocità, che, senza di essa, non si
sarebbe neppure sognato? Perché seguitano a confondere guerra
rivoluzionaria con militarismo, socialismo con bolscevismo, popolo
con pagliacci tesserati? Perché combattono gli Arditi, che
pure sono usciti dal popolo, e del popolo rappresentano la parte più
vi- gorosa e combattiva? Perché si ostinano a ripetere con
tediosa monotonia che la guerra è stata voluta dalla borghesia,
attribuendo dunque a questa classe un vanto che certo non le
spetta? Ho lanciato l’invito. Ho mostrato ai nostti
avversari il terreno sul quale potremmo intenderci, e le pregiudiziali
antipatiche che c’'impediscono un avvicinamento. Sapranno
essi spogliarsi di queste pregiudiziali che sono altrettanti errori
gravissimi? Sapranno a loro volta dirci una patola onesta e
schiet- ta di simpatia disinteressata? Se capiranno che è assurdo e
bestiale continuare una campagna diffamatoria contro una guerra che si è
chiusa vittoriosamente e che, malgrado tutto, ha giovato enormemente al
proletariato, se capi- ranno che noi pur amando fieramente l'Italia, non
abbia- mo nulla a che fare con i nazionalisti reazionari, codini
Fb) e clericali, essi ci tenderanno la mano e
ci aiuteranno a spezzare tutte le schiavitù che ancora ci
sovrastano. Dopo, potremo tornare a divorarci, se sarà necessario.
Marro CARLI {da: Roma futurista, 13 luglio 1919) Bisogno, ad ogni sosta,
di guardare attorno. Vedere un po' come va la vita, la cui visione
precisa, a volte, si perde nel martellamento sanguigno della lotta.
Misu- rare i compagni e gli avversari. Riprendere le distanze.
Ci teniamo molto, via via che più si ingarbuglia il fascio di forze
e di tendenze del mondo politico italiano, a rittovare i nostri contorni.
Pulirli. Indurirli sì che si rimbalzi sopra qualunque tentativo di
penetrazione im- pura. La lotta di partiti, nel suo
svolgimento poco netto, si traduce rispetto a noi futuristi, assertori
del predomi. nio della genialità italiana, in un lavoro di
isolamento. Le scorie cadono. La marcia viene schizzata via dalle
contrazioni atletiche della nostra carne sana. Solitudine splendida.
Nella costituzione organica dei vari aggregati di parte noi siamo
il cetvello possente che domina, e comanda alle tre membra funzioni del
tutto subordinate. In questa immagine somatica, il partito socialista
ufficiale rappre- senta, rispetto a noi, l'intestino retto, maceratore e
scari- catore d'ogni feccia. Un compito troppo importante,
come bene ha detto l’amico Settimelli, per poterlo disprezzare. Ci
vuole. Solamente è bene che non si dimentichi mai la sua
posizione assolutamente accessoria. La nostra antipatia per il
socialismo in genere, pet 76 il
socialismo italiano in particolare, ha delle ragioni pro- fonde balzanti
dall'istinto della nostra razza di cui noi siamo i rappresentanti più
interiori, con tutti i suoi di- fetti se si vuole, ma anche con tutte,
t44te, le sue doti di energia, di intelligenza, di ardimento. E
distinguiamo ciò che sempre si può giustificare nel quadro infinito
della vita, l'idea, da ciò che, appunto perché nella vita, si ha il
dovere di discutere e di espellere, quando ne arresti il libero
svolgimento. Idee e uomini. Socialismo e socialisti
italiani. Noi siamo contro il socialismo perché astrazione
fi- losofica senza possibilità di contatti vitali. Simbolo che si
agita nel mondo da secoli, e di cui mai si è trovata, e mai si troverà la
formula di traduzione in positivi svi- luppi di masse sociali.
Meditazioni di uomini respinti dalla vita calda e vibrante, per un
ingranaggio disgraziato della loro mente incapace di aderire alla bellezza
appas sionante del mondo. La riforma che l'idee socialiste
propugnano, non na- sce da noi, dalla nostra maniera di essere, dalla
nostra natura di uomini, dal nostro modo di riunirci e dividerci.
Cala dall'alto, da cieli metafisici. Ha l’impotenza caratte- ristica di
tutte le religioni meditate, ragionate, logiche, e non create dallo
slancio lirico di un'anima d'uomo. Marx ed Engels hanno costituito
delle sopra realtà gigantesche che tutti hanno dichiarato magnifiche,
ma che nessuno ha avuto il coraggio di criticare, appunto perché la
critica umana non si può esercitare su delle con- cezioni prive di
umanità. Boris d’Ysckull, uno di quei mistici slavi capaci di
bere ogni miscela più insipida, ha confessato di non aver mai compreso
quasi niente di simili esposizioni domma- tiche, e di essere stato
attirato solo per la loro oscurità affascinante. Chi, italiano, può così
rinunziare alla vulca- nica e solate natura da itrigidirsi in questi
mondi sen- z'aria, non può che trovarsi nell’identica posizione
del- l’illustre imbecille surricordato. Le prime utopie della
Città, mantenentesi allo studio di immaginose e dilettose
15; invenzioni nei primitivi — Platone, Tommaso
Moro Campanella — passando a peggior vita nelle scatole cra. niche
dei tedeschi, si sono meccanizzate in modo da di venire delle cose
perfettamente anti-geniali, anti-latine e, soprattutto
anti-italiane. Noi fututisti, che abbiamo violentato il vuoto e
so- gnante torpore italiano riempiendolo di idealità fatte di vita,
intessute di nervi sensibili, calde di sangue rossis- simo, vogliamo una
penetrazione a fondo nel blocco psi- cologico della nazione: ivi è la
direttiva unica delle tra- sformazioni che il nostro destino esige.
Noi siamo contro l’idea socialista perché sosteniamo la necessità
della diseduguaglianza. Diseduguaglianza di valori, che bisogna esaltate,
lievitare, mantenere ad ogni costo. Un piano uguale di esistenza, una
distribuzione ar- monica dei beni, una soppressione assoluta di privilegi
— ma su questo livellamento di condizioni materiali l’esplicarsi diverso,
individualissimo delle singole capacità. II socialismo, pretendendo
distruggere la molteplicità innata di un popolo non può, in via logica,
che discen- dere dalla nazione alla città alla famiglia, dalla
famiglia all'individuo, e quindi alla creazione di tanti individui
identici, a stampo, senza differenze di tipi. Il comunismo, ch'è la forma
più in voga, non può tradursi, a meno di negatsi, che in un monismo
esasperante, monotono e inerte. La Russia ce ne dà la prova: la
massa oppone al ten- tativo di numerazione, che offre appena una pallida
idea, per il carattere più pacato e passivo di quel popolo, di ciò
che avverrebbe da noi. L'Italia è tutta un magnifico inno di
incoerenza, dal l'Alpi alla Sicilia. Follemente varia. Ogni provincia
un mondo. Popolazioni dolci come le sue pianure, laboriose come i
suoi fiumi, divampanti come i suoi vulcani. Noi non possiamo
pensare che tutto ciò si riduca a un uniforme impasto. Noi futuristi
opponiamo la neces- sità assoluta di un decentramento che mantenga,
esalti, vivifichi fino al culmine ogni caratteristica, ogni
genialità, ogni attitudine delle singole regioni: l’unità italiana
sarà allora una valorizzazione completa di sufta i'Ttalia.
78 Siamo contto il socialismo perché idea generatrice di
vigliaccheria. Della gente che riuscisse davvero ad attuare la
distribuzione economica dello Stato socialista, dovreb- be basarsi su un
concetto di mutualità cooperativistica. Cooperativa a mutuo
soccorso vuol dire la sicurezza matematica di non rimaner mai al verde
quindi abolita ogni situazione di Jotta, reso campletamente inutile
lo sviluppo e il gusto del rischio. Spatizione di coraggio.
Se ciò è immaginabile su piccola scala, perché gli ef- fetti
malefici sarebbero ridotti così al minimo da essere cancellati dai
vantaggi, non si può pensare cosa sarebbe mai una nazione sottoposta a
tale regime, soppressa ogni difficoltà di cartiera, butocratizzata Ja
conquista della vita, scomparso ogni pericolo, ogni ansia, ogni
tensione. Non trovando nulla di vario nei suoi sirzili, non
tro- vando nulla di divertente nella sua esistenza logica, a ore, a
mansioni fisse, l'uomo socialista finirebbe col rientrare in sé stesso.
Cercare in sé l'interesse che il mondo non gli offre. Alla forza di
diffusione dei popoli geniali, si sostituirebbe quella di egoismo
egocentrico dei popoli cal colatori. Da simili mondi la
generosità fugge taccapricciata, non può distribuire i suoi insegnamenti
di grandezza: è come andare a vendere ombrelli in un paese dove non
piove mai — a che serve esser generosi con della gente che è tutto
misurato, tutto il necessario?... La morale che tali ambienti
possono produtre è ma- rale di egoismo e di vigliaccheria.
Noi opponiamo la morale della generosità, lucidamen- te affermata
da Balilla Pratella, quotidianamente da noi vissuta in una dedizione
senza calcolo, in una aderenza spontanea e intellipente alle tramutanti
necessità della Patria. Queste le tre ragioni fondamentali
che ci dividono dal socialismo — idea —: la astrazione filosofica e
inu- mana della formula, la sua azione di parificazione moni-
stica, la derivazione logica di antigenerosità = vigliac- cheria,
egoismo. Altre ragioni particolari ci sono, che ci porterebbero ad
una disanima troppo lunga — ragioni, del resto, che non sono specifiche
della nostra differenza dal socialismo, ma che possono essere anche di
altri partiti. Esempi: l'assurdità della soppressione dello Stato come
potere cen- trale, la sciocca concezione di una pace eterna, ecc.
ecc. * o * I socialisti italiani. Sono,
indubbiamente, dei buoni socialisti perché han- no già, in pieno regime
borghese lo stadio mentale senza calore e senza colore del socialista di
domani. Non sen- tiamo il bisogno di spenderci molte parole, né di
pas- sarli in rivista uno ad uno. Dirigenti: dittatura di
vomini che hanno la mira pre- cisa di diventare qualche cosa,
un'autorità, una persona importante. Non c'è tra loro neppure un mistico
esaltato che interessi. Calcolatori. Cinici. Seguaci: massa
la cuì concezione più alta è questa: bisogna distruggere il caroviveri.
Gente che cerca di met- tersi a posto. Invidia il horghese, quindi ha
desiderio di divenire il borghese. Le loto qualità principali
sono: inintelligenza: non hanno ancora capito che il sociali
smo è diverso da popolo a popolo: commerciale nel- l'America del
Nord, conservatore in Inghilterra, filosofico in Germania, mistico in
Russia. Non hanno capito che il socialismo in Italia può, caso mai,
balzare dalle nostre istituzioni rurali; inattualità: sano
coerenti in una maniera fantastica, tant'è vero che le idee invecchiano e
loto seguitano ad usarle. Credono d’essere all'avanguardia, e lo sono come
il gambero, il cui traguardo è sempre alle spalle, dietro:
vigliaccheria: oltre la vigliaccheria propria della idea hanno una
viltà tutta propria, personalissima, originale: inutile parlarne: chi
interviene ai comizi elettorali ne sa qualcosa. Il futurismo
è il mondo più lontano dal socialismo. 80 Il
futurismo è veramente il senso di una religione nuova, che si dirige alle
anime, agli spiriti, ai cervelli, e non si interessa del corpo che per
fortificarne i muscoli, farne strumento di agilità audacissime e di
voluttà sane. Generato dal cervello di un attista ha tutta
l'umanità di una idea italiana, sempre profumata di buona terra
fer- tile anche quando si esalti fino ai più puri orizzonti.
Attività poliedrica, il futurismo è lo sfruttamento com- pleto di
tutte le penialità italiane, manuali e cerebrali. Ridarà all'Italia i
suoi magnifici artieri, maestri d'ogni sotta di lavoro, come lo à dato e
lo darà ai suoi artisti più grandi. I suoi vomini non hanno deficienza:
danno la loro vita in una proteiforme attività prodigiosa. Poeti e
soldati, sogno e vigilanza, idea e azione. Non c’è possibilità di
contatto tra la nostra morale e quella socialista, tra i nostri uomini e
i loro. E’ assurdo ogni pensiero di collaborazione.
FUTURISMO CONTRO SOCIALISMO. SEMPRE A QUALUNQUE COSTO!
GiusePPE BOTTAI {[da: Roma futurista.Noi e i borghesi
Non una polemica, ma una discussione calma e pa- cata. Polemica no, per
non arrivare fino a quella anima- zione un po’ acre e impetuosa, che
annebbia le idee e deforma la realtà. Ci tengo, a questa
dichiarazione preliminare, perché l'amico Mannarese, nel suo lucido
articolo, pur mante- nendosi in una linea di cortese serenità, devia in
punta- tine ironiche, che non èànno ragione di essere, se vera-
81 mente egli ci vuole aiutare, nella
demarcazione esatta della nostra individualità politica.
Trovo ad esempio molto strano, per un futurista, l'os- servarsi che
la mia formula (adopto la parola formula, per attenermi alla dizione
dell'amico, per quanto essa ab- bia un senso storico, che mi ripugna)
abbia potuto rin- galluzzir di saverchio, con la sua violenza: “futurismo
con- tro sociglismo, sempre, a qualungue costo” qualche buon
borghesetto. Questo non mi preoccupa, e direi, anzi non ci preoccupa. Noi
esprimiamo liberamente le nostre idee, le gettiamo nel mondo, tta la
gente; e i casi sono due, come sempre: o la gente non le capisce e allora
non c’è nulla da fare: o le capisce, le approva, ci si interessa, c
le apprezza nel giusto valore, e allora poco ci importa che tale gente
sia proletaria o borghese, destra o sinistra, e, anche, ambidestra.
Noi non sosterremo mai, com'un certo avvocatino di nostra
conoscenza fece in una recente seduta del Fascio di Combattimento romano,
che la guerra ha distrutto agni distinzione tra destra e sinistra; ma non
vogliamo di tali logiche e necessarie e salutari differenziazioni (?)
fare il nostro spaventacchio. Chè, pet questa via, si giunge alla
grossolana affermazione di Adriano Tilgher (Tempo, 7 dic., pag. 3,
Piccoli borghesi al bivio): essere il furore antisocialista degli atditi
originato dall’appartenere costo- ro, quasi tutti alle classi medie; e
pensare che in parec- chi mesi di convivenza con le fiamme nere mi son
trovati attorno solo contadini, operai, lavoratori-proletari!
Prima caratteristica del futurismo, è questa, libera, sciolta
sfrenata spregiudicatezza: e se il salumaio ci crede oggi difensori dei
suoi salami, delle sue salsicce, poco ma- le! ciò potrà darci la prova
della sua minchioneria, non già infirmate l’esattezza del grido «
futurismo contro so- cialismo ». Socialismo non è
proletariato L’amico Mannarese fa un’identificazione
pericolosissi- ma, e non rispondente alla realtà positiva dei fatti.
Egli 82 pone sullo stesso piano
socialismo e proletariato, stabili- sce senz'altro questa identità
matematica: socialismo = pro- letariato. Ciò spiega perché
tanto si accanisca contto la finale del mio articolo. Alle parole «
contro socialismo, sempre a qualunque costo » è dato il valore di
un'affermazione di questo genere: « contro le aspirazioni del popolo,
contro i diritti dei poveri, ecc., ecc... ». Orta, mi ribello
assolutamente. Non in nome mio sol tanto, ma di tutti i futnristi, e
anche, di tutti i nostri amici fascisti. Distinguere
bisogna. Una cosa è quello che l'amico chiama: «/o sforzo
vio- lento, l’oscura irresistibile aspirazione della massa verso un
regime di maggior giustizia economica » e un'altra cosa è il socialismo.
Le aspirazioni proletatie sono fatto imma- nente, istintivo, fatale, non
pensato ma sorto da sé, il so- cialismo è uno dei tanti sistemi, i quali,
da che il mondo è mondo, si accaniscono sulla disparità di condizioni
delle classi. Se io mi pongo contro il socialismo o contro i
socia- listi, mi dichiaro contrario ad un sistema filosofico, giu-
ridico, economico, morale ed ai suoi sostenitori (filosofi, demagoghi e
procaccianti che siano), ma non è detto ch’io voglia attaccare l’oggetto di
tale sistema che è il prole- tariato. Non debbo, quindi,
rettificare in nulla la mia incri- minata frase, ch'era un grido, un
appello conclusivo del mio articolo, limitatosi ad una valutazione di
idee, e non aveva la pretesa d’essere un caposaldo, un domma, un
punto cardinale, ed altri simili paroloni che noi lasciamo agli oratori
da comizio. L'affermazione: « Noi non siamo contro il
socialismo, ma contro gli uomini, i metodi e la filosofia socialista
» del Mannarese è un non-senso, perché appunto: socialismo è
flosofia sostenuta da wormini con determinati metodi. Quella che il
Mannarese chiama sostanza (eh! queste parole che otribili titi
giuocavano, a volte) ossia: «la guerra per l'indipendenza economica dei poveri
contro i R3 ricchi » non è privativa
assoluta del socialismo, è solo l'obiettivo dei suoi studi, dei suoi
tentativi, come essa fu obbietto della favola di Menenio Agrippa, e
delle teorie di Fenelon, e della scuola di Saint Simon, e del
sistema di Grace Baboeuf e Roberto Qwen, e così pure della filosofia di
Marx ed Engels. Anche il nazionalismo, anche il partito popolare, tutti
anno affermazioni solenni: « qui è l'unico infallibile specifico per il
dolore del po- palo » e io posso essere contro questi modi da
cerratani senza mai essere né contro il popolo né contro le sue
sacre e legittime aspirazioni economiche I programmi
economici All'amico Mannarese è forse sfuggito nel mio
articolo questo periodo: « Un piano eguale di esistenza, una di-
stribuzione armonica di beni, una soppressione assoluta di privilegi ma
su questo livellamento di condizioni mate- viali l’esplicarsi diverso,
individualissimo delle singole ca- pacità ». Qui,
evidentemente, si dice: « noi passiamo essere d'accordo nelle
finalità economiche del socialismo ». Quelle tre proposizioni del
programma politico futurista di Ma- tinetti, Carli e Sertimelli, che il
Mannarese dice troppo generiche, anno il merito di poter domani assorbire
in sé, senza contrasto, qualunque ardimento consono allo spi- rito
dei tempi. Hanno un’intenzione pragmatista, che non deve
sfug- gite. Il programma di riforme economiche, lanciato ai
po- poli come panacèa, è cosa vecchia di tutti i tempi e di tutte le
genti. Ogni scuola politica è per prima cosa inal- berata questa insegna
molto attraente. Tutti i programmi ben definiti, schematizzati, rigidi,
anno sempre atteso, con grande pazienza, che le cose del mando si
incanalas- sero ne’ fossati, canali e zenelle da loro tracciati, ma
le cose del mondo anno dimostrato, a lume di storia, di procedere
per via di approssimazioni successive, le quali avvengono non già pet
magnetizzazione esetcitata cai suddetti programmi, ma per madificazioni
addotte, nel blocco fisiopsicologico di una collettività, dal sistema di
educa- zione, dalle idee di morale circolanti, dalla rinnovatasi
coscienza giuridico-sociale. Se oggi, per ragioni ovvie, il
problema economico è venuto in primo piano, non bisogna dimenticare che
la parte veramente essenziale di un sistema politico non è già il
disegno di un futura assestamento economico, ma è il metodo con cui
saprà, attraverso uno studio positivo dello stato presente e dei
caratteri permanenti della so- cietà in genere (meglio ancora di una data
parte di so- cietà) creare tutt'un’atmosfera spirituale intellettuale
psi- cologica, che renda possibile l’attuazione di quel dato or-
dinamento economico, che nel momento è bene limitarsi a definire
desiderabile. I socialisti italiani sanno che il popolo italiano non
à neppure iniziata l'evoluzione sociale che permetta l’av- vento, ad
esempio, del comunismo. Ora essi, scavalcando completamente ogni lavoro
di educazione, sventagliano i loro proclami di rivendicazioni economiche.
Il popolo risponde, è naturale: è Bengodi con i suoi meravigliosi
panorami. Ma ciò non significa aver creata una società comunista, come
non è fare un signore aristocratico d'un villanzone qualsiasi il
riempirgli le tasche di denaro. Sotto il punto di vista della
potenzialità vera di un partito il valore di tali programmi è nullo.
Hanno un valore pratico di specchietto per gli allocchi, e se
l'amico Mannarese ci avesse detto che, abbondando gli allocchi, è
bene ch’anche noi abbiamo il nostro specchietto, gli avremmo dato piena
ragione. Il nuovo imperialismo Non ci deve, quindi,
affligere di soverchio, la man- canza di formulazioni teoriche, di
programmi economici. Noi futuristi non siamo mai stati assenti quando questio-
ni positive siano in tal senso nate. Né il trionfo socialista deve farci
perder la resta così da correr subito ai ripari. No. La nostra posizione
è netta, e possiamo guardarci 85 tranquillamente
intorno: il germe della morte del socia- lismo è appunto localizzato nel
suo sistema di rivendica- zioni economiche, aggravato dal fatto di essete
così iso- lato da ogni altra considerazione d'ordine superiore da
divenire il segno folle di un nuovo imperialismo. Non è possibile
nessun contatto tra due sistemi così opposti come sono quello socialista e
quello futurista. E’ l’anima differente. E' il cervello
diverso. Se anche noi potessimo conglobare per intero nel
no- stro ordine di idee ogni aspirazione economica del socia-
lismo, rimarrebbe la differenza profonda, incancellabile di indole, di
origine e di finalità. Noi siamo per l'elevazione del popolo, e non
pet l’as- solutismo demagogico di essa. Tirando le
somme E riassumiamo, perché la discussione non rimanga uno
sterile battibecco. L'amico Mannarese m’à offerto il modo di delineare
meglio la nostra situazione innanzi al socia. lismo: 1)
posizione di ostilità per indole spirituale diversa; 2) possibile
comunanza di vedute economiche: il che non implica nessuna fusione;
3) condivisione di alcune idee (come ad esempio il divorzio ecc.
ecc.) che non sono prerogativa socialista, € che non possono, quindi,
render omogenee due sostanze diverse. CONTRO IL SOCIALISMO NON VUOL
DIRE CONTRO IL PROLETARIATO. GiusePPE BOTTAI [da:
Roma futurista, 21 dicembre 1919] La lentezza delle democrazie, le
pastoie burocrati che dei procedimenti parlamentari. il vecchiume
paro- laio dei barbuti senatori non possono essere ben visti dai
futuristi. La velocità, il dinamismo, la lotta, la competizione, l’azione
mal si addicono agli organismi pingui e sclerotici delle democrazie,
quella italiana in particolare. Già nel 1910 Marinetti lo mette in
rilie- vo ed indica nel suo manifesto «Contro l'amore e 3
parlamentarismo », sintomo ed espressione di questa sua antipatia e di
guesta sua avversione Persino l'amo- re e le donne in senso romantico
sono indici e stru menti di « rallentamento », e come tali da evitare
tran- ne che per una loro ben precisa ed organica funzione vitale.
Le donne andrebbero invece bene pei parlamen ti, dove dovrebbero entrare
con le loro chiacchiere e la loro prodigiosa e altisonante facoltà di
falsificazione. Ma non è solo Marinetti a inveire contro il
parla mentarismo: c'è Tavolato che uddirittura « bestemmia contro
la democrazia » in un suo articolo apparso con questo titolo su Lacerba
del 1° febbraio 1914, ricco di espressione e carico di colore linguistico
e letterario. I 30 dicembre dello stesso anno un altro futurista,
Volt, tuona dalle colonne di Roma fututista: Abolia- mo il parlamento! In
sua sostituzione si propongonna le rappresentanze dei sindacati per la
formazione dello «Stato tecnico » futurista. E si entra nel merito
della personalità giuridica dei sindacati e della loro forza rap-
presentativa in base all'importanza della loro funzione economica. Non in
base numerica, per cui si rientrereb- be nella concezione
democratico-parlamentare. Non più onorevoli quindi sulle assise delle due
camere, ma la- voratori. E sono tutti concetti che ritroveremo nella
concezione corporativa fascista e nella suu Carta del Lavoro
Dopo la guerra Marinetti intervtene su Roma futu- rista mel maggio
del '19 per ribadire la sua.« concezione futurista della democrazia »,
come s'intitola il suo scrit- to, che era già apparso um mese prima, più 0
mena analogo, su L'Ardito. Vi si sostiene la democrazia tipi
camente italiana dei geni: una sorta di minoranze di individui superiori
alla media, destinati a entrare. in competizione con le altre, definite
democrazie incoscien- li, come prodotta numerico « d’inetti e di
sconclusiona- ti». La forza della nuova democrazia dovrà essere na-
turdimente violentissima data l'accelerazione e il ren dimento degli
individui geniali. La sua « conclusione » sarà logica e conseguenziale: «
La democrazia futurista è ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare
tutte le sue cellule vive ». L'azione sarà condotta da Mussolini,
ma il presupposto è già comunque e totalmente presente.
BESTEMMIA CONTRO LA DEMOCRAZIA Tre spanne sotto il cervello io
nutto un odio, un odio contro la presunzione del lavoro, un odio contro
il puzzo cosciente, un odio contro l’imbecillita evoluta. Tre
spanne sotto il cervello si spenge ogni polemica. I de- mocretini
rinunzino alla discussione. I democretini s’ada- gino sopra i loro luoghi
comuni, perché il mio piede pos- sa calpestarli. Via, batbe
comiziesche che mi nascondete il sole. Via, mani a ventola e cravatte a
bandiera. Fermati, passo de- mocratico sotto cui trema la terra offesa.
Arrestatevi, la- mentele filamentose, voci incristianare, zuccherose
o pe- pate. Via, spade di legno, trombe sfiatate, via,
inesistenti barricate. Smontate, uomini di paglia, uomini di stoppa
uomini di cartastraccia. Nascondetevi, ceffi di cera, ma- scheratevi,
faccie rinfisecchite, sparite, ghigne insolenti. Sgonfiate, protobischeri
pastori di popolo. Aria ci vuole, e luce e calore e solidità, o anima
mia. Abbasso la de- mocrazia! Fumano d'orgoglio, le gran fave. Fumano,
questi strac- cioni e stronzoni, questi mangiasputi e fiutarutti,
questi tinconi, questi turabuchi, questi scotticapidocchi, questi
merdaioli, questi caconi, questi galoppini, questi pagnot- tisti, questi
biasciconi, questi lumaconi, questi minchioni, questi balordi gonzi e
gralli, questi coglioni appuzzoni e cittulli, questi sussurroni
caccoloni, questi satraponi vir- tuosoni. Già tutto il paese fuma,
smerdata com'è da que- ste pecore matte. Pulizia, pulizia, pulizia!
Abbasso la de- mocrazia! Bischeri sollevatissimi, bischeri
smargiassi, bischeri ventosi, bischeri girandoloni, bischeri soppiattoni,
bische- ri politicanti, bischeri economicizzanti, bischeri vani,
bi- scheri solenni, bischeri tronfi, bischeri crespi, bischeri cal.
losi, bischeri pensosi, bischeti pacifisti, bischeri leghisti, bischeri
classisti, bischeri marxisti, bischeti riformisti, bi- scheri
collettivisti, bischeri revisionisti, bischeti comunisti, bischeri
credenti, bischeri fetenti, bischeri ufficiali, bische- ri legali,
bischeri di cartapecora, bischeri del braccio, bi- scheri del cervello,
bischeri antilibici, bischeri internazio- nalisti, bischeri democratici —
BISCHERI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI! La vostra individualità non ha
importanza. Unitevi! Amalgamatevi! Confondetevi in mel- ma! Anche la
melma dei bischeri, come ogni melma, s'in- crosterà. E sotto le croste ci
sarà il gelo della morte. Così sia. Abbasso la democrazia!
Accidenti alla democrazia, impero delle bestie da so- ma, regno degli
schiavi, padronanza dei servi, supremazia degli impiegati! Democrazia,
sostegno degli sfiaccolati, trionfo dei cimiciosi, glotia dei piattolosi,
arma dei bro- dolosi; democrazia, orchestra di miasmi, concerto di
sputi, convegno di sudori, sistema di muffe; democrazia, vitto- ria
dei muscoli e disfatta dei nervi, esautorazione dell’arte e imposizione
del mestiere, vita del debole e agonia del forte; lurida, sudicia, tetra
democrazia, cloaca dove affo- gano fantasia, ingegno, energia, e tutte le
soavità; pro- terva asineria, fessa stivaletia: abbasso la
democrazia! E rovini Ia mediocrità! Fuoco al tugurio
dei democretini! I democretini è la lanterne! La
libertà soltanto a chi sa cosa farsene, a chi sa vi- verla.
Agli altri il giogo, la sferza e la schiavitù. EVVIVA LA FORCA, o
amici, per la libertà vostra e per la libertà mia! ABBASSO
LA DEMOCRAZIA. TAVOLATO [da: Lacerba,Firenze] Aboliamo
pure il Parlamento — si domandano mol- îi — ma cosa metteremo al suo
posto? La risposta è pronta. Soszituiremo til Parlamento con
le rappresentanze dei sindacati agricoli industriali ed ope- rai.
La rappresentanza sindacale sarà la base dello « Stato tecnico »
futurista. AI « collegio » elettorale, circoscrizione fittizia ed
ar- bitraria, entità che sembra creata apposta per l'esercizio del
broglio, sostituiremo il sindacato, espressione organica delle forze
economiche che danno effettivamente forma alla società. AI posto dell’«
onorevole » deputato, dema- gogo costretto all’accattonaggio sistematico
del voto e feu- datario di una nuova feudalità peggiore dell'antica,
man- deremo a governare il paese ingegneri, commercianti ed operai,
gente che sa il suo mestiere e conosce i bisogni reali della propria
classe. Invece di un’Assemblea di in- ttiganti, di chiacchieroni e di
incompetenti, avremo un corpo tecnico adatto allo scopo di dirigere, con
conoscen- za di causa, la grande azienda dello Stato. In
pratica l'idea della rappresentanza sindacale si tro- va di fronte a
difficoltà serie ma non insopportabili. Vati problemi ci si
presentano. 1) A quali sindacati concederà lo Stato la
personalità politica? Si tratterà di determinare le categorie di
pto- duttori che avranno diritto a una rappresentanza nel corpo
legislativo. L'iscrizione ai sindacati sarà obbligatoria per tutti
i cittadini? A me sembta che sia più logico lasciare che esercitino i
diritti politici coloro che ne hanno la volontà e coscienza.
Coloro che resteranno volontariamente fuori dei sin. dacati
cortisponderanno in parte alle masse degli astenuti nelle odierne
elezioni a suffragio universale. In base a quale criterio si misurerà il
numero di voti da attribuirsi a ciascuna categoria di sindacati? E’
la questione più scottante. Il criterio più semplice è quello numerico.
Ma così si ricade nell'atomismo individualistico del suffragio
universale. Io credo che non si debba tener conto del numero
degli iscritti al sindacato, ma della importanza della fun- zione
economica che esso esercita nel Paese. Quindi un sindacato di industriali
metallurgici avrà una rappresen- tanza eguale a quella di un sindacato di
lavoratori del ferro benché questi ultimi siano molto più numerosi.
E ciò perché l’importanza delle due funzioni si con- trobilancerà
nell'economia nazionale. L'amico Settimelli dirà che questo è un
criterio poco democratico. Me ne infischio. 4) Quali saranno
i limiti posti all'esercizio del potere dell'assemblea eletta mediante la
rappresentanza sindacale? La competenza dell'assemblea dovrà essere
limitata alle questioni prevalentemente economiche, che sono del
resto le più importanti in politica. Le questioni di
famiglia, di politica estera ecc. dovran- no esser risolte in parte
mediante il « referendum » popo- lare diretto ed in parte
attribuite alla competenza del po- rere esecutivo. Non ho
fatro che accennare le principali questioni. In- vito tutti i giovani
futuristi ad inviarmi le loro soluzioni ai quattro problemi che ho posta,
senza avere la pretesa di risolverli definitivamente. Ma mi sembra che la
que- stione sia matura per lo studio. E poi per noi futuristi «
studio » deve significare già un principio di esecuzione. E’ l’ora di
finirla col Parlamento. Abbiamo fatto la guerra senza bisogno del
Parlamento. Senza il Parlamento sapre- mo fare la pace. E' ora di
sbarazzare l’Italia dalle 508 incompetenze che spadroneggiano a
Montecitorio. VOLT [da: Roma futurista, DEMOCRAZIA
FUTURISTA L’orgoglio italiano non deve essere, non è
imperialismo che spera imporre industrie, accaparrare commerci,
inon- dare di prodotti agricoli. Nai difettiamo di materie prime, e
siamo una potenza di ricchezza agricola mediocre. Il nostro
orgoglio italiano è basato sulla superiorità nostta come quantità enorme
di individui geniali. Voglia- mo dunque creare una vera democrazia
cosciente e audace che sia la valutazione e Ja esaltazione del numero
poiché avrà il maggior numero di individui geniali. L’Italia
rappresenta nel mondo una specie di minoran- za genialissima tutta
costruita di individui superioti alla media umana per forza creatrice
innovatrice improvvisatri- ce. Questa democrazia entrerà naturalmente in
competizio- ne con la maggioranza formata dalle altre nazioni, per
le quali il numero significa invece massa più o meno cieca, cioè
democrazia incosciente. Su 1000 slavi vi sono due o tre
individui. L'ultima fulminea nostra vittoria ha dimostrato che
non vi è gruppo di italiani (20, 30 o 40) che non contenga al- meno
10 o 15 individui capaci di iniziativa e di direttiva personale
Abbiamo ancora da sgombrare e da bonificare le zone morte
dell’analfabetismo. Questo compito molto arduo con un nemico minaccio- so
alle porte è oggi compito facile e senza pericoli per la unità e
indipendenza nazionale. Nazione ricca di individui geniali,
democrazia intelli- gentissima. Quantità di personalità tipiche, massa di
tipi unici, democrazia che non vuole imporsi bancariamente,
industrialmente, colonialmente, ma può e deve dominare il mondo e
dirigerlo con la sua maggiore potenzialità ed altezza di luce.
Noi crediamo che l'ora è venuta di tentare tutte le ri- voluzioni
per liberare il popolo italiano da tutti i pesi morti e da tutti i ceppi
(matrimonio e famiglia Cattolica soffocatrice, pedantismo professorale,
elettoralismo, menta- lità pessimistica, provinciale mediocrista e
quietista). Liberata dal giogo della vecchia famiglia
tradizionale, dal dogma dell'anzianità, l'Italia manifesterà finalmente
la sua potenza di 40 milioni d’individui italiani tutti intelli-
genti e capaci di autonomia. Concezione assolutamente apposta alla
cretinissima concezione germanofila che voleva svalutare i 40 milioni di
individui italiani per organizzarli meccanicamente. Su]
palcoscenico della razza italiana dobbiamo mette- re in luce 40 milioni
di ruoli diversi perché in questa luce possa perfettamente svolgersi il
valore tipico d'ognuno.(Censura) Noi non abbiamo la nevrastenica pigrizia,
la neghittosi- tà, il misticismo, il boiantismo ideologico, l’ossessione
teo- rificatrice della Russia. Siamo pieni di senso pratico, di
tenacia costruttrice, di ingeniosità inesauribile, di eroismo bene
impiegato. Possiamo dunque dare tutti i diritti di fare c disfare al
numero, alla quantità, alla massa poiché da noi numero quantità e massa
non saranno mai come in Germa- nia e in Russia numero quantità o massa
d’inetti e di sconclu- sionati, Arturo Labriola definisce la
democrazia « come senti. mento dei diritti concreti della massa sullo
Stato e sulla Economia ». Noi futuristi consideriamo la
democrazia non in astrat- to ma bensì la « democrazia italiana ».
Parlare di democrazia in astratto è fare della retorica. Vi sono
numerose democrazie, ogni razza ha la sua de- mocrazia, come ogni razza
ba il suo femminismo. Noi intendiamo la democrazia italiana come
massa di individui geniali, divenuta perciò facilmente cosciente
del suo diritto e naturalmente plasmatrice del suo divenire
statale.La sua forza è fatta di questo diritto acquisito, molti- plicata
dalla sua quantità valore, meno il peso delle cellule malate
(incoscienti, analfabeti). La democrazia italiana è per noi un corpo umano
che bisognerà liberare, scatenare, alleggerire, per accelerarne la
velocità e centuplicarne il rendimento. La democrazia italiana si
trova oggi nell'ambiente più favorevole al suo sviluppo. Ambiente di
rivoluzione-guerra nel quale è costretta a risolvere tutti i suoi
casi-problemi insoluti, le cui soluzioni possono esercitare una
influenza sul suo avvenire. Necessità igienica di continua
ginnastica trasformattice, improvvisatrice. Il governo si
allarma oggi nel vedere formarsi innume- revoli associazioni di
combattenti. Se non fosse un governo di miopi reazionari tremanti di
paura accaglierebbe favo. revolmente questo nuovo ritorno di vitalità
italiana. La guerra ha semplicemente svegliate le coscienze di
4 o 5 milioni di italiani che tornano oggi dalla guerra, atric-
chiti di una personalità politica. E’ la prima volta nella storia
che più di quattro mi. ltoni di cittadini di una nazione hanno Ja fortuna
di subire in soli 4 anni un'educazione intensiva e completa con le-
zioni di fuoco, di eroismo e di morte. Spettacolo meraviglioso di
tutto un esercito partito per la guetra quasi incosciente e ritornato
politico e degno di governare. La democrazia futurista è
ormai pronta ad agire, poiché sente vibrare tutte le sue cellule
vive. Naturalmente ha un bisogno urgente di spalancare le
porte e di uscire all’aperto. I) governo si allarma, reprime e trema,
come la nonna leggendaria teme che il nipotino pigli un
raffreddore. Fuori l’aria è frizzante e salubre. Il sole,
spalancato, be- ve il mare di liquido quasi solido saporito azzurro,
tutto spumante di raggi, tutto da bere fino all'ultimo sotso.
F.T. MARINETTI fda: Roma futurista, un EMILIO SETTIMELLI
F. T. MARINETTI FUTURISMO E PRIMO FASCISMO Emilio
Settimelli commenta il Congresso di Firenze su 1 nemici d'Italia («
settimanale antibolscevico diret to da Armando Mazza ») del 10 ottobre
del 1919. I discorso di Meorinetti al congresso apparirà su
L'Ardito del 26 ottobre dello stesso anno, ma era già apparso tre
giorni prima su I nemici d’Italia (23 ottobre). Del discorso e della
«necessità dello svaticanamento » ab- biamo già parlato. Ma si
postula anche l'ipotesi di un eccilatorio di giovanissimi capaci di
sostituire il semato dei vecchi, ormai da abolire. Al suo posto un
«consi glio tecnico » andrebbe sollecitato e stimolato da gio vani
sotto i trent'anni, a moto continuo Si parla poi di un proletariato
dei geniali, quello degli artisti d’Italia, più o meno a nascosti od
esclusi », che andrebbero favoriti o promossi da iniziative pub.
bliche atte all'aiuto della loro espressione. L'origine della proposta da
parte di una «mente d'artista » ri. sulta evidente. Marinetti è definito,
al caso, « ardito della poesia». La definizione è sempre di
Settimeth, che sostiene inoltre Marinetti sia «uscito » dal Con
gresso in «trinonmio» con Mussolini e D'Annunzio. quello del « dopo Fiume
»: un'alleanza politica mei fino ad allora verificatasi. Ed
è ancora Settimelli, a questo proposito, a inneg- giare ai due personaggi
(Marinetti e Mussolini) in un suo scritto, già pubblicato su I nemici
d'Italia # 4 set tembre 1919. Lo riportiamo perché ci sembra
significa tivo di un legame e di un rapporto. Non è vero che l'arte
debba essere estranea alla politica, vi si sostiene. Anzi, è proprio
l'artista a darle una sua interpretazione od un suo connotato, un suo
«travestimento », od usa sua immagine fanto più nuova, quanto più
ardimentose ed « ardita». Mussolini è stato capace di recepirlo, e
il fascismo è un fenomeno nuovo praprin per questo, e
d'avanguardia. La tesi di Settimelli è tipica del «futurismo
delle origini » o classica di un momento rivoluzionario, 0 di
rinnovamento. Ma anche Armando Mazza pubblica un «fondo » il 30 Ottobre
dello stesso anno sulla mede- sima testata (I nemici d'Italia).
L'articolo non è fir- mato, ma è inserito sotto il titolo a quattro
colonne: Fascisti, a noi!, con un commento alle prospettive elet-
torali, un trafiletto in commemorazione della vittoria nella’ ricorrenza
annuale, e una colonna intestata: Ciò che ci divide. Vi si spiegano 1
motivi di disaccordo e distacco da tutte le altre forze politiche, quelle
ew-neu traliste e quelle del passatisma MUSSOLINI E IL
FASCISMO Pensare col proprio cervello originale, liberare
comple- tamente il proprio temperamento, essere gli annunciatori e
i fondatori di una nuova mentalità: sofferenza di tutti i momenti.
Mantenere la provria posizione di avanguardia, è cosa da
giganti. Parteciparvi per qualche tempo è da tutti. À
un certo momento rimani quasi solo: la gran parte degli amici si arrende,
brutta e spregevole nella sua viltà mascherata di scetticismo, oppure non
crede più, sopraf- fatta dalla vecchia e comoda mentalità. Disertano,
perdono ogni ritegno, ti attaccano. Si vendicano di averli resi —
sia pure per un anno — intelligenti, credono di poter me- nomare la
saldezza del tuo accizio, ti fanno recedere con i loro atteggiamenti di
commendatoria superiorità: cafoni ad- domesticati, provinciali
inguaribili. Vivi in un ambiente pericoloso e stancante perché
sen- ti che è creato per l’« altra gente »1 mediocre, podagrosa.
Ti urti della continua ostilità. Ti trovi dinanzi ad un
avversario senza spirito, mono- tono, insistente. Un
avversario indegno che ha la bruttezza goffa del rinoceronte e il
rompiscatolismo della zanzara. Hai delle donne. Tentano di tutto
per convincerle a rinsavire e ti denigrano in mille modi cercando di
portarle a qualche mediocre ronzino o a qualche nobilissimo eunuco
lucroso 0 decorativo. Lavori. Il tuo lavoro ba sempre qualche parte
che esorbita. Mai delle amicizie, ti seguono fino ad nn certo
punto. Non possono capirti a fondo. Sei fatto per un mondo di
eroismo, di forza, di bellez- za, di temerità. Le tue grandi ali
t’impediscono di cammi- nare come il gabbiano di Baudelaire.
(eTe) Tutto questo è atroce, ma di colpo una vittoria ti ripaga
di tutto. Aver avuto ragione, aver visto lontano, aver
costruito un nuovo pezzo della vita, sia pure un piccolo pezzo,
avere anche per un attimo e per un millimetro contribuito allo
allargamento del mondo ti fa vibrare per la gioia dei ver- tici.
Oggi ho questa gioia e la divido con quei pochi che da dieci anni
lavorano con me alla formazione di un am- biente intellettuale italiano
libero dai professori, dai tradi. zionali, dai gottosi (non alludo ai
seguaci del romanziere Salvator!). E Ia nostra gioia diviene
frenetica quando constatiamo che da un'altra parte, dalla politica ci
veniva incontro un uomo formidabile, nuovo come noi, libero come noi.
E' la gioia dei minatori che s'incontrano finalmente dopo aver
forata la montagna. Un «evviva », una manata di terra sulle facce ebbre,
sopra i sudori riganti e una stretia di mano che è una prova del cuore e
dei garretti. Mentre con Marinetti e con gli altri amici
lavoravamo il campo artistico, dall'altro si muoveva Mussolini
lavo- rando il campo politico. Ci dovevamo incontrare. Un gi- gante
questo magnifico Mussolini! Con la forza ma anche col peso di un grande
ingegno, di un'anima vasta, di un temperamento spaccafore, figlio di un
fabbro ferraio si tira su a suon di muscoli, di ingegno e di fegato.
Supera la più massacrante battaglia: quella contro la miseria,
quella che non potrà mai esser capita da chi non l’ha provata. Chi
è nato ricco non potrà mai essere completamente den- tro la realtà e non
avrà mai il collaudo delle sue energie. Domina le folle, organizza,
sbaraglia Turati, Treves, Rai- mondo. Galvanizza il partito socialista.
Scoppia la guerra, capisce che la neutralità sarebbe contro il socialismo
€ per il medioevo autocratico. Tenta di persuadere. I mediocri ne
approfittano per liberarsi della sua grandezza. Si forma la
imbecillocrazia dell’Avanzi! Mussolini lascia il partito che rimane
acefalo e si divincola in movimenti balordi e vili. Intanto i piedi
ridono soddisfatti per essersi liberati della 100 testa.
Nasce così il Popolo d'Italia. Il primo quotidiano veramente moderno e
veramente italiano. Un ritrovo di energie vive, spregiudicate, temerarie.
Il lievito di questo buon pane italiano nato dalla guerra. In esso tutti
i vivi si incontrano: Futurismo, Arditismo, D'Annunzio. E' una punta
sensibile e perforante, è l'effervescenza della grande coppia italica, è
il primo nucleo per una Italia nuova. Ma il quotidiano non basta a
Mussolini. Uomo d'azio- ne ha bisogno di concretare, vuol raccogliere ciò
che semi- na giornalmente. Nasce il fascismo. Fenomeno degno della
più grande ammirazione e del più appassionante esame. Più che un partito
è una mentalità. Non si basa sulla promessa di un certo paradiso futuro,
si muove problematicamente passo per passo alternando transigenza a intransigenza,
idealismo a realtà, arte a pratica concreta. Gli avversari del Fascismo
sono le vecchie anime che marciano solo dietro promesse iperboliche e
utopistiche, che scambiano incoe- renza con duttilità, che non vivono
dentro la vita vera e vibrante, ma fra gli schemi arrugginiti di una
mentalità libera. TI Fascismo raccoglie gli italiani più
intelligenti e più moderni con la sua ferrea ossatura di concretamento
fa- sciato da una atmosfera di sensibilità, di cordialità idea-
listica, di eleganza e di colore. Rende possibile la politica anche per i
temperamenti più contrari ad essa. Per esem- pio gli artisti e gli
ironici. L'Italia abbonda di artisti e di ironici, anzi essi formano la
sua parte migliore, intellettual. mente. Mussolini ha avuto
il grande pregio di creare un’atmo- sfera politica che non ripugna a
questi scelti, a questi « mi. gliori ». L'intelligenza
disinteressata si allontana dalla politica quando essa s'imperna sulla
falsa promessa di un paradiso certo, sul settarismo, sulla gretteria
animale. Si sta preparando in Italia quella rinascita totale,
ba- sata sull’arte che tra le più feroci ironie e gli scetticismi
più assoluti amnnunciai nella « Inchiesta sulla vita italiana ».
SETTIMELLI (da: 1 nemici d'Italia, Milano, SOGNO UN GOVERNO DI
TECNICI, ECCITATO DA UN'ASSEMBLEA » Cari Fascisti! Cari
Arditi! V'invito ad acclamare un valoroso fascista assente,
che sarebbe qui con noi se il Governo anti-italiano di Nitti non
l’avesse condannato a tre mesi di fortezza Mario Carli,
(Grida unanimi di: Viva Mario Carli! e applausi). Il futurista
Mario Carli è sfuggito alla polizia di Al- bricci e gode l'atmosfera
igienica di Fiume italiana. Ha brillato così una volta di più
l'elasticità veramente futu- rista di questo poeta che sa tutti i viaggi
più pericolosi dello spirito, le esplorazioni più sottili della
psicologia, i razzi più colorati ed anche la strategia delle strade
in tumulto e il governo delle assemblee popolari. A Mario Carli,
poeta delle Notti filtrate, si deve la fondazione del Fascio di
combattimento romano, e, insieme con Setti- melli, del Partito politico
futurista, e del giornale Rome futurista. Egli capeggiò tutte le
dimostrazioni violente per Fiume italiana, per la Dalmazia italiana e per
la difesa della vittoria, contro il bolscevismo rosso e nero,
rinun- ciatario e nittiano. V'invito a gridare ancora: Viva il fu-
turista Mario Carli! (Quazione, applausi). Lo «svaticanamento ».
Io approvo incondizionatamente, in nome del futuri smo e dei
futuristi italiani, tutto il programma dei Fasci di combattimento, che vi
è stato esposto dal mio amico Fabbri. Trovo però in questo programma
delle lacune gravi, sulle quali richiamo tutta la vostra attenzione.
Fascisti! Non c'è maggior pericolo, per l’Italia, del pe- ricolo
nero. Il popolo italiano, che ha saputo osare, vo- lere e compiere
l’immane sforzo eroico e vittorioso della 102 grande
guerra, decidendo, con la sua vittoria, la vittoria del futurismo
elastico, geniale, sul passatismo teutonico, cubico e professorale,
fallirebbe alla sua missione se non sapesse energicamente liberare la
bella penisola, agile e palpitante di vita, dalla lue mortale del papato.
Noi dob- biamo domandare, volere, imporre, l'espulsione del papato,
o meglio ancora, per usare una espressione più precisa, lo «
svaticanamento ». (Applausi, ovazione) L'« Eccitatorio ».
Continuando nell'analisi del Programma dei Fasci di combattimento,
trovo l'abolizione del Senato, al quale si sostituirebbe un Consiglio
nazionale tecnico. Ebbene: io vi dichiaro che il concetto di tecnicità è
importantissimo, ma non basta. Il Senato rappresenta nella storia dei
po- poli un costante ossequio alla saggezza dei vecchi, chiama- ti intorno
al potere per frenarlo, maturarne i propositi, dirigerne le decisioni. La
concezione del Senato, simile a quella del coro nella tragedia greca, ha
singolarmente appesantito, imbrogliato, buroctatizzato e ritardato il
pro- gresso spirituale e materiale delle razze. I
legislatori hanno sempre sognato di frenare il pote- re del Governo. Essi
ignoravano dunque che potere si- gnifica frenare. Essi ignaravano che un
Governo è sem- pre più o meno un carabiniere. Nulla di più assurdo
che il porre un carabiniere a sorvegliarne un altro. Mettiamo: gli
al fianco, piuttosto, un sovversivo, un rivoltoso, un eccitante. Ed ecco
nata la concezione dell’Eccitatorio, or- gano animatore, semplificatore e
acceleratore, che in una razza come la nostta, piena di precoci geniali,
sarà Ja mi- glior difesa della gioventù e la migliore garanzia del
pro- gresso e di alta spiritualità. Io sogno in Italia un Gover- no
di tecnici eccitato da un’assemblea di giovanissimi, al posto
dell’attuale Parlamento di oratori incompetenti € di dotti invalidi, che
si fa moderare da un Senato di mo- ribondi. Il Consiglio
tecnico che rimpiazzerà il Senato dovrà dunque essere composto di
giovanissimi, non ancora tren. 103 tenni. Insisto su
ciò, poiché in Italia si usa invitare i gio- vani al potere e si
considera poi virile e giovanissimo un uomo di 55 anni. Salandra grida:
Avanti i giovani! Ma tutti con lui temono i giovani, mettono in
quarantena un quarantenne come un coleroso, un cinquantenne come un
dinamitardo, e considerano un sessantenne come un au- dace quasi maturo
per il governo d’Italia!.. Occorre un Eccitatorio di giovanissimi,
per evitare un Consiglio tecnico di vecchi, che dopo aver tenuto
inuti- lizzato per molto rempo il loro ingegno tecnico non san- no
più che tecnicamente morire. La vita italiana si riduce ancora ad
una convivenza cretina di quadri d'antenati senza autorità e senza
presti- gio, che spandono intorno, in una penombra tediosa, pes-
simisino, pedantismo, austerità professorale, verbalismo pa- triottico e
polvere di Roma antica, e in mezzo ai quali si aggira sporca, taccagna,
provinciale, brindellona, la ser- vaccia che fa tutto male, tiene
malissimo la casa, non vuo! migliorare nulla, perde la giornata a
verificare i con- ti di cucina, ha sempre paura di spendere e di
rovinarsi, ed è tronfia perché sa fare una minestra non troppo sa-
lata che costa poco. T quadri d’antenati si chiamano Boselli e
Salandra: la servaccia si chiama Giolitti o Nitti. (Quazione)
Contro i quadri d'antenati e la servaccia, poi propo siamo un
eccitatorio di studenti e di Arditi futuristi. Arditismo. — Scuole
di coraggio fisico e patriottismo. Una terza lacuna io trovo nel
programma dei Fasci di combattimento, e riguarda la scuola. L'amico
futuri sta Fabbri ha precisato genialmente la grande e necessa ria
riforma completa della scuola. To credo petò che tutto si potrebbe
ottenere, e forse anche un al di là meraviglioso che superi il tutto
sogna. ta, mediante un'imposizione assolutamente ferrea, dirò
meglio feroce, della ginnastica nelle scuole. Si deve giungere
anche presto, oltre che a tutte le for- me d'insegnamento pratico e
tecnico, nelle officine e nei 104 campi, alle scuole
viaggianti, 0, per meglio dire, viaggi d'istruzione, e a dei veri corsi o
scuole di coraggio fisico e di patriottismo. Bisogna ogni
giorno, nella giocondità di una vita al- l'aria aperta, con un predominio
assoluto del giuoco sul- la lettura, parlare dell'Italia divina ai
ragazzi italiani, in- segnare loro, accanitamente, il coraggio fisico e
il disprez- zo del pericolo, e premiare dovunque l'audacia
temeraria e l'eroismo. Le scuole di coraggio fisico e di
patriottismo devono rimpiazzare nelle scuole gli oramai preistorici e
troglodi. tici corsi di greco e di latino. Noi futuristi
siamo convinti di preparare così quel tipo di cittadino eroico che saprà
difendersi da sè, vera- mente capace di libero pensiero e di libero
cazzotto, e che renderà assolutamente inutile l'esistenza delle
polizie, delle questure. dei carabinieri e dei preti.
Ferruccio Vecchi. Il mio amico futurista Mario Carli, capitano
degli Ar- diti, e il capitano Vecchi, capi dell'Associazione degli
Ar- diti, hanno sentito come me, nascere dal futurismo e dal- la
guerra, l'Arditiswo, nuova sensibilità di patriottismo e- roico e
rivoluzionario. ]l giornale L'Ardito, diretto dal capitano Vecchi, il
celebre sfasciatore dell’Avanti! è un forte giornale che si deve
consigliare ai giovani italiani. {Qvazioni) Verrà forse un
giorno in cui avremo in Italia quelle scuole di pericoli che io proponevo
dieci anni fa nei pri- mi manifesti futuristi e che furopo realizzate
durante la guerra nelle esercitazioni quotidiane degli Arditi (avanza-
ta carponi sotto un tiro radente di mitragliatrici; aspetta- re senza
chiudere gli occhi il passaggio radente di una trave sospesa sulla testa,
ecc.). Il proletariato der geniali Ed ora voglio colmare un'altra
lacuna dei program- ma, parlandovi del solo proletariato veramente
dimenticato ed oppresso: l'importantissimo proletariato dei ge-
niali. E’ indiscutibile che Ia nostra razza supera tutte Je
raz- ze per il numero stragrande di geniali che produce. Nel più
piccolo nucleo italiano, nel più piccolo villaggio, vi sono sempre sette,
otto giovani ventenni che, fremono d’ansia creatrice, pieni di un
orgoglio ambizioso che si manifesta in volumi inediti di versi e in
scoppi di elo- quenza sulle piazze, nei comizi politici. Alcuni sono
dei veri illusi, ma sono pochi. Non potrebbero giungere al vero
ingegno. Sono però sempre dei temperamenti a fon- do geniale, cioè
suscettibili di sviluppo e utilizzabili per accrescere l’intellettualità
geniale di un paese. Il movimento artistico futurista, da noi
iniziato 11 anni fa, aveva precisamente per scopo di svecchiare
bru- talmente l'ambiente artistico-letterario, esautorarne e di-
struggerne la gerontocrazia, svalutare i criteri e i profes- sori
pedanti, incoraggiare tutti gli slanci temerari dell’in- gegno giovanile,
per preparare una atmosfera veramente ossigenata di salute,
incoraggiamento ed aiuto a tutti i giovani geniali d'Italia.
Incoraggiarli tutti, centuplicarne l'orgoglio, aprire davanti a loro
tutti i varchi, diminuire al più presto, così, il numero dei geniali
italiani falliti e stroncati. Il futurismo radunò molti di
questi giovani geniali. Fra di loro, nella vampa futurista, ingigantirono
e brilla rono: Boccioni, Russolo, Buzzi, Balla, Mazza, Sant'Elia,
Pratella, Folgore, Cangiullo, Mario Carli, Funi, Sironi, Chiti, Jannelli,
Nannetti, Cantarelli, Rosai, Baldassari, Gal- li, Depero, Dudreville,
Primo Conti, i geniali creatori del Teatro Sintetico: Bruno Corra e
Settimelli, e i valorosi scrittori futuristi di Roma futurista, Rocca,
Bottai, Fede- rico Pinna, Volt e Rolzon, altissima bandiera
d'’italianità in America. Con meravigliosa elasticità
passando dall'arte all’azio- ne politica, questi giovani furono con me
dovunque nelle nostre primissime dimostrazioni contro l’Austria durante
la battaglia della Marna, in prigione per interventismo e sui campi di
battaglia. Propongo che in ogni città siano costtuiti dei
palazzi che avranno una denominazione sul genere di questa: Mostra
libera dell'ingegno creatore. Tn tali palazzi: 1° Verrà esposta
per un mese un’opera di pittura, scultura, plastica in genere, disegni di
architettura, dise- gni di macchine, progetti di invenzioni. Verrà
eseguita un’opera musicale, piccola o gran- de, orchestrale o pianistica
di qualsiasi genere, di qual: siasi forma, di qualsiasi dimensione.
3" Verranno letti, esposti, declamati poemi, prose, scritti
di scienza di ogni genere, d'ogni forma, d'ogni di- mensione.
4° Tutti i cittadini avranno diritto di esporre gratui-
tamente. Le opere di qualsiasi genere o valore apparente anche se
apparentemente giudicate assurde, cretine, pazze, immorali, saranno
esposte o lette senza giuria. Con queste mostre libere e gratuite
del genio creatore, noi futuristi ci opponiamo a un pericolo gravissimo:
quel lo di vedere nella marea delle ideologie che rissano intor- ne
alle formole del comunismo e della dittatura del pro- lerariato, il
naufragio dello spirito. Difendiamo il cervello! Vi
sono fenomeni dovuti alla stanchezza prodotta dal la guerra, alla manîa
plagiaria, alla miopia provinciale, alla verbosità giornalistica e alla
vigliaccheria conservatrice. Si tenta dovunque di divinizzare il
lavoratore manuale e d'innalzarlo al di sopra del lavoratore
intellettuale, No, italiani: il futurismo politico si opporrà
accanita. mente ad ogni volontà di livellamento. Tutto, tutto sia
107 concesso al proletariato manuale, salvo il sacrificio
dello spirito, del genio, della gran luce che guida. Alle classi
oppresse, ai lavoratori che stentano, sia sacrificata tutta la
plutocrazia parassitaria del mondo. Voi fascisti interventisti
sapete che la nostra grande guerra rivoluzionaria è stata osata, voluta,
imposta e te- nacemente portata alla vittoria finale da una
minoranza di intellettuali. Erano i migliori, i meno tradizionali,
i più futuristi. Mentre tutto il popolo era ancora immerso nella
quiete pacifista, essi videro la necessità di guerra, si separarono
brutalmente da altri intellettuali, da quelli che dello spirito altro non
hanno che le qualità negative, pedantesche, culturali, reazionatie,
quietiste. Contro e so: pra il piombo del vecchio intelletrualismo
professorale e vigliacco dei Benedetto Croce e dei Barzellotti, contro
l’in- tellettualismo cavilloso e avvocatesco dei Treves e dei Tu-
rati, si scagliarono gli spiriti veramente puri, lirici e crea- tori, per
segnare la via da seguire. Fra questi, Gabriele D'Annunzio, che
volò su Vienna e regalò Fiume all'Italia. Fra questi Benito Mussolini, il
grande Fututista italiano, che impavido nel campo trince- rato del suo
Popolo d’Italia ha difeso alle spalle noi com- battenti al fronte contro
le ondate dei nemici interni, por- tando le città italiane dal lurido
episodio di Caporetto alla storia ideale di Vittorio Veneto (Applausi).
Gli artisti faranno finalmente del governo un’arie di-
sinteressata, al posto di quello che è ora, cioè una pedan- tesca scienza
del furto e della vigliaccheria. eri Io credo che le
istituzioni parlamentari siano fatalmen- re destinate a perire. Credo
anche che la politica italiana sia destinata a un inevitabile fallimento,
se non si nutrirà di questa forza viva: gl’ingegneri creatori d’Italia,
sbaraz- zandosi di queste due malattie italiane: l'avvocato e il
professore. Genio creatore, elasticità artistica, praticità
sintetica, velocità improvvisatrice ed entusiasmo fulmineo: ecco le
belle forze che spiegano la vittoria del 15 giugno sul Pia- ve e quella
di Vittorio Veneto (Applausi). Artisticamente improvvisando tutto,
e con genio crea- tore, la mia bella autoblindata dell'ottava Squadriglia
al comando del capitano Raby guadava come una torpedi- niera i
torrenti gontiati. Poi si slanciava giù dalle monta. gne carniche col
tuffo frenetico fulmineo di un pugnale d'Ardito nella smisurata pancia
idropica dell'esercito au- striaco disfatto, e schizzava fuori dalla
schiera contro Vienna. Artisticamente, il genio creatore di
D'Annunzio con- quistò Fiume italiana. In Fiume italiana, io provai
recentemente il più acu- to spasimo di guida della mia vita, nel gualcire
un pacco di corone austriache deprezzate a pochi centesimi dalla
no- stra vittoria. Gioia forsennata di stritolare così
finalmente il cuore finanziario, militare, passatista del nemico
ereditario, fra le mie mani ancora frementi della vibrazione della
mia mitragliatrice di Vittorio Veneto! (Ovazione). MARINETTI
[da: L’Ardito, MARINETTI MARIO CARLI MINO SOMENZI «
SECONDO FUTURISMO » E FASCISMO-REGIME ll 1923 è un po'
l'anno di apertura del futurismo — dopo la ritirata e il distacco dal
fascismo del II Congresso di Milano — al nascente fascismo-regime
(se- condo la definizione di De Felice), quello dell’assesta- mento
o dell'e ordine» (che si consoliderà il 3 gen naio 1925). Marinetti si
accosta in un certo senso al nuovo governo con una richiesta in forma di
« mani festo al Governo Fascista» del 1° maggio 1923. Col
manifesto e con l'affermazione di un certo qual futurismo «mussoliniano
», 0 nel sottolineare la rea- lizzazione di un « programma minimo »
futurista da par- te del fascismo, Marinetti cerca di porsi in
buona luce e di far accettare le sue proposte al governo fascista.
ll programma fu in linea di massima approvato da Mussolini. Quel
Mussolini che comincerà a venir illu- strato e celebrato anche dai
futuristi, forse molte volte in buona fede per l'effettiva sua vicinanza
alle tesi ed al dinamismo tipico di Marinetti e delle sue teorie.
Tuttavia Mario Carli nel '26 pubblica nel suo li bro Fascisma
intransigente wn articolo a suo tempo se questrato e che risuona echi di
« sinistri miraggi ». S'in- titola Natale senza luce e si riferisce
probabilmente al Natale del ‘21, dopo l'impresa di Fiume cui Carli
aveva ben ardentemente partecipato: si augurava inutilmente il Carli
che l'impresa di Mussolini (la marcia su Roma) continuasse quella breve
esplosione innovatrice della nuova Italia della Vittoria (la marcia su
Ronchi). Ma le «vecchie pance» e le «vecchie barbe» tengono invece
«il canzpo della vita nazionale » e «la manovra parla mentare domina
ancora tutto il congegno di governo ». Marinetti sul numero 9 del
2-11-1932 del « nuo- vo » Futurismo, esprime aminirazione ed esalta lo
spirito rivoluzionario della Mostra nel decennale della Rivolu-
zione (svoltasi a Roma). Intitola Varticolo Stile futuri- sta e vuole
commemorare in certo senso uno stile degli anni d'oro dello spirito
interventista e rivaluzionario da cui è nato il fascismo, quello così
detta « antemarcia ». Nel 1934 al 1° di febbraio, sul terzo numero
di SunWElia, che è secondo titolo di Futurismo, generoso tuttavia
di perticolare spazio cd attenzione at problemi dell'architettura, Mino
Somenzi intitola un suo pezzo a IT Duce e il futurismo, e vi sostiene la
necessità di Mussolini, come capo del governo, di non essere né
futurista né passatista. Per il superiore equilibrio sulle parti che la
sua posizione richiede. Tuttavia le simpatie di Mussolini non possono non
andare ai futuristi, dice Somenzi, quali novatori e sostenitori dell'arte
d'avan- guardia italiana. In questo sensa i futuristi non possono
non guardure a lui come ad un appoggio e ad un so- stegno, come del resto
egli medesima più volte si è di- mostrato. E qui forse, in questa tesi,
vediamo tutta la posizione ed il carattere del « secondo futurismo
». Ancora sulla stessa testata del 4 aprile ’34, n. 64. un grande
intervento centrale di prima pagina su Ven- titre marzo futurfascista,
mette in rilievo i caratteri co- muni di futurismo e fascismo, anche quelli
per cui molti fascisti non st identificano con i futuristi ed anzi
simmedesimano nel loro contrario essendo dei « rimor- chiati » che non
hanno assorbito lo spirito diciannovi sta e rivoluzionario delle «
origini ». I DIRITTI ARTISTICI PROPUGNATI DAI FUTURISTI ITALIANI
Manifesto al governo fascista Mio caro Marinetti, approvo
cordialmente la tuu iniziativa per la costituzione di una Banca di
Credito specialmente per gli Artisti. Credo che saprai sor- montare
gli eventuali ostacoli dei soliti misoneisti. Ad ogni modo questa
lettera può servirti di via- tico. Ciao, con amicizia,
MUSSOLINI Vittorio Veneto e l’avvento del Fascismo al
potere co- stituiscono la realizzazione del programma minimo
futuri- sta lanciato (con un programma massimo non ancora rag-
giunto) 14 anni or sono da un gruppo di giovani audaci che si opposero
con argomenti persuasivi all'intera Nazione avvilita da un senilismo e da
un mediocrismo paurosi dello straniero. Questo programma
minimo propugnava l’orgoglio ita- liano, la fiducia illimitata nell’avvenire
degli italiani, la di- struzione dell'impero austroungarico, l’eroismo
quotidiano, l’amore del pericolo, la violenza riabilitata come
argomento decisivo, la glorificazione della guerra sola igiene del
mon- do, la religione della velocità, della novità, dell’ottimismo
e dell’originalità, l'avvento dei giovani al potere contro lo spi-
rito parlamentare, burocratico, accademico e pessimista. La nostra
influenza in Italia e nel mondo è stata ed è enorme. Il Futurismo
italiano, tipicamente patriottico, che ha generato innumerevoli futurismi
esteri, non ha nulla a che fare coi loro atteggiamenti politici, come
quello bolsce- vico del Futurismo russo divenuto arte di Stato.
Il Futurismo è un movimento schiettamente artistico e ideologico.
Interviene nelle lotte politiche soltanto nelle ore di grave pericolo per
la Nazione. Fummo primi fra i primi interventisti; in carcere
per interventismo a Milano durante la Battaglia della Marna; in
carcere con Mussolini nel 1919 a Milano per attentato fascista alla
sicurezza dello Stato e organizzazione di bande armate.
Abbiamo creato le prime associazioni degli Arditi e molti tra i
primi Fasci di combattimento. Divinatori e lontani preparatori
della grande Italia di oggi. Noi futuristi siamo lieti di
salutare nel non ancora qua- rantenne Presidente del Consiglio un
meraviglioso rempera- mento futurista. Da futurista,
Mussolini ha parlato così ai giornalisti esteri: « Noi siamo
un popolo giovane che vuole e deve crea re e rifiuta d'essere un
Sindacato di albergatori e di quar- diani di museo. Il nostro passato
artistico è ammirevole. Ma, quanto a me, sarò entrato tutt'al più due
volte in un MIUSCO ». Recentemente Mussolini ha pronunciato
questo discor- so tipicamente futurista: « Il Governo che ho
l'onore di presiedere è Governo di velocità, nel senso che noi abbreviamo
tutto ciò che significa ristagno nella vita nazionale. Una volta la
buro- crazia si addormentava sulle pratiche emarginate. Oggi tut-
to deve procedere con la massima rapidità. Se tutti proce- deremo con
questo ritmo di forza e di volontà e di alle- grezza, supereremo la
crisi, la quale, del resto, è già in parte superata. lo sono lieto di
vedere il risveglio anche di questa Roma che offre lo spettacolo di
officine come questa. lo atfermo che Roma può diventare centro
indu- striale. 1 romani devono essere i primi a disdegnare di
vivere soltanto sulle loro memorie. Il Colosseo, il Foro romano sono
glorie del passato: ma noi dobbiamo costrui- re le glorie del presente e
del domani Noi siamo la gene- razione dei costruttori che col lavoro e
con la disciplina del braccio e intellettuale vogliono raggiungere il
punto estremo, la meta agognata della grandezza della Nazione di domani,
la quale sarà la Nazione di tutti i produttori e non dei parassiti
». Con Mussolini il Fascismo ha ringiovanito l'Italia. Spetta
a Lui l'aiutarci nel rinnovamento dell’ambiente artistico ove permangono
uomini e cose nefaste. La rivoluzione politica deve sostenere la
rivoluzione artistica, cioè il futurismo e tutte le avanguardie.
DOMANDIAMO: 1° DIFESA DEI GIOVANI ARTISTI ITALIANI
NOVATORI in tutte le manifestazioni artistiche promos- se dallo Stato,
dai Comuni e private. Esempi: a) Alla Biennale di Venezia furono
invitati avanguar- disti e futuristi stranieri {Archipenko, Kokoschka,
Campen- donk), mentre non furono mai invitati i futuristi italiani
(creatori di tutti i futurismi). Bisogna sradicare questa igno- bile
antitalianità sistematica! c) Al Teatro della Scala {che ha la
funzione di rive- lare, glorificandoli, i nuovi musicisti italiani) si
danno ogni anno due opere di Wagner e nessuna (o quasi nessuna) di
giovani italiani. Si preferiscono cantanti stranieri infe- riori ai
nostri, Bisogna sradicare questa ignobile antitalia- nità
sistematica! d) Il Teatro di Siracusa non può essere riservato
alla gloria dei classici greci! Domandiamo che, alternativamente
alle rappresentazioni delle opere classiche, si svolga un con- corso per
un dramma moderno pittoresco adatto all'aria aperta di un giovane
siciliano da premiarsi e incoronarsi so- lennemente nel teatro stesso.
(Proposte Marinetti, Prampo- lini, Jannelli, Nicastro, Carrozza, Russolo,
Mario Carli, De- pero, Cangiullo, Giuseppe Steiner, Volt, Somenzi,
Azari, Matasco, Dottori, Pannaggi, Tato, Caviglioni, Paladini Ra-
citi, Mario Shrapnel, Raimondi, G. Etna, Sportino-Bona, Cimino, Soggetti,
Rognoni, Masnata, Mortari, Piero Illari, Rizzo, Soldi, Leskovic, Buzzi,
Casavola, Clerici, Caprile, Scirocco), ISTITUTI DI CREDITO ARTISTICO ad
esclu- sivo beneficio degli artisti creatori italiani. Come
si aprono delle Banche di credito a favore delia industria e del
commercio, similmente si dovranno creare 115 appositi
Istituti che sovvenzionino manifestazioni artistiche o Istituti d'arte
industriale o anticipino denaro agli artisti per il loro lavoro
(manoscritti, quadri, statue, ecc.) i loto viaggi di isttuzione o di
propaganda. Tali Istituti di credito potranno avere carattere
pri- vato (Società anonime per azioni) o governativo (enti e
fondazioni). Nel primo caso la nascita di tale Istituto è legata alla
maggiore o minore buona volontà e mumero degli aderenti. Nel secondo caso
il capitale necessario sa- tebbe sicuramente e prontamente realizzabile
solo che lo Stato decretasse un'imposta od una ritenuta anche
minima, ma estesissima, sui redditi di guerra, sui patrimoni, ecc.,
o mediante una sottoscrizione nazionale ad iniziativa sta- tale.
L'Istituto agirebbe poi come una Banca per gli artisti,
accetterebbe depositi di opere d'arte, e in base alla valuta- zione reale
darebbe sovvenzioni od aprirebbe crediti. L’opera d’arte giacente
costituirebbe un deposito frut- tifero per il depositante e per
l’Istituto stesso che promuo- verebbe iniziative artistiche, vendite,
ecc. Così l'artista e l'opera d’arte sarebbero valorizzati.
Questi Istituti potrebbero intraprendere concessioni di mutui a
favore d’'industrie artistiche e ottenere l’uso di palazzi per adibirli
ad abitazioni di artisti, d’istituzioni arti- stiche od aprirvi
periodiche mostre. (Proposta Prampolini, Marinetti, Russolo, Cangiullo,
Depero, Settimelli, Mario Carli, Buzzi, Matasco). DIFESA
DELL’ITALIANITA'. Italianizzazione obbligatoria immediata degli alberghi
(tutte le diciture, insegne, liste delle vivande, conti, ecc., in lingua
italiana), dei negozi e della corrispondenza commerciale. Mezzi automatici per
propagare la lingua italiana senza spese. (Proposta Marinetti, Russolo,
Buzzi, Folgore, Mario Carli, Settimelli, Depero, Cangiullo, Somenzi,
Mara- sco, Rognoni). B) Italianizzazione della nuova
architettura contro l'uso sistematico di plagiare le architetture
straniere. Cominciare questa italianizzazione in tutti gli edifici
statali, specialmen- te nei paesi redenti. (Proposte Virgilio Marchi,
Depeto, 116 Russolo, Buzzi, Somenzi, Azari, Marasco,
Prampolini, Fol- gore, Volt). C) Italianizzazione
obbligatoria delle edizioni e dei ca- ratteri tipografici. (Proposta
Frassinelli, Rampa-Rossi). ABOLIZIONE DELLE ACCADEMIE (Istituti di
Atte e Scuole professionali). Gli attuali sistemi
d'insegnamento nan corrispondono al- le esigenze estetiche
dell'evoluzione dell’arte attraverso i tempi. L'arte non si insegna. Gli
attuali diplomati non sono né tecnici competenti né artisti.
Abolizione delle Accademie di Belle Arti e Professio- nali senz’altre
sostituzioni. (Proposta Marasco). PROPAGANDA ARTISTICA ITALIANA ALL'ESTERO
mediante un Istituto Nazionale di propaganda ar- tistica all’estero che
tuteli glì interessi artistici ed econo- mici degli artisti
italiani. Questo Istituto dovrà essere diretto da giovani
artisti stimati all’estero e che propugnino con italianità il genio
novatore italiano Avrà commissioni permanenti riguarda ti le varie arti e
uffici di corrispondenza nei principali centri artistici esteri. Agirà
mediante conferenze, concerti, esposizioni e pubblicazioni periodiche di
propaganda. (Pro- posta Prampolini, Russolo, Buzzi, Volt,
Marasco). CONCORSI LIBERI D'ARTE. Utilizzare una parte del
denaro che lo Stato spende attualmente per l'arte in concorsi di poesia,
plastica, ar- chitettura, musica, riservati ai giovani non ancora
venti- cinquenni, da premiarsi mediante un referendum popo- lare.
(Proposta Balla, Marinetti, Marasco). AFFIDARE L'ORGANIZZAZIONE DELLE
FE. STE NAZIONALI E COMUNALI (cortei, gare sportive, ecc.) ai
gruppi d’artisti d'avanguardia italiani, i quali han- no ormai provato in
modo incontestabile la loro genialità innovatrice, fonte di
quell’ottimismo che è indispensabi- le alla salute della Patria.
(Proposta Depero, Azari, Mari- netti, Marasco). AGEVOLAZIONI AGLI
ARTISTI. Riconoscimento legale da parte del Governo dei diritti
d'autore per gli artisti delle arti plastiche, sul mag- gior prezzo
raggiunto dalle opere loro, attraverso le ven- dite successive, mediante
una istituzione simile alla « So- cietà degli Autori ». d)
Abolizione delle tariffe doganali internazionali sia riguardo le
importazioni che le esportazioni delle opere d’arte moderna. (Proposta
Prampolini, Depero, Azari, Ma- rasco, Marinetti, Volt). 9°
CONSIGLI TECNICI CONSULTIVI formati da artisti ed eletti fra artisti con
una rappresentanza propor- zionale delle tendenze d'avanguardia. Questi
Consigli Tec- nici consultivi avranno lo scopo di tutelare gl’interessi
de- gli artisti nei rapporti con le istituzioni statali, comunali,
private e gli artisti stessi. {Proposta Prampolini, Mara- sco, Marinetti,
Volt) RAPPRESENTANZA PROPORZIONALE. Le avanguardie
artistiche italiane dovranno essere in- vitate a partecipare con una
rappresentanza proporzionale a tutte le manifestazioni e cariche
artistiche statali, co- munali e private. (Proposta Prampolini, Marasco,
Marinet- ti, Volt). CONSORZIO INTERNAZIONALE per la tute. la
degli interessi artistici ed economici degli artisti d'avan- guardia.
Questo Consorzio dovrebbe proporsi l’accentra- mento delle migliori
istituzioni artistiche di avanguardia, per la solidarietà, la difesa e la
propaganda artistica ed economica. (Proposta Prampolini, Marasco,
Marinetti, Volt). Per la Direzione del Movimento
Futurista e per tutti i Gruppi Futuristi ltaliani
MARINETTI NATALE SENZA LUCE sequestrato).
Chi fu legionario di Fiume non potrà mai dimenti- care le rosse giornate
natalizie di quattro anni fa, con le quali si conchiudeva tragicamente e
desolatamente una breve ma non ingloriosa epopea. Il ricordo ha poi
un valore particolare per chi lo avvicini al pensiero della
situazione politica odierna, che ha qualche vaga analogia con quella che
segnò la fine di un generoso sforzo della nuova Italia. Il
sangue fraterno di quelle Cinque Giornate non è stato ben vendicato.
Pareva a molti di noi che la Marcia su Roma dovesse continuare quella di
Ronchi per dare alla nostra grande Patria una nuova fisionomia di
po- tenza e per vivificarla di un nuovo afflusso di giovi- nezza.
Ma la spinta rinnovatrice della generazione di Vit- torio Veneto si è, ahimé,
fiaccata nel labirinto delle vec- chie pance e vecchie barbe che tengono
tuttora il campo della vita nazionale. E sul tempo d’arresto che oggi
fa segnare il passo alle orgogliose avanguardie d'impero, la sagoma
«immortale » del cavalier Giolitti si profila — come quattro anni fa — a
rassicurare il mondo che l’Ita- lia è ancora quella mediocre, umile
nazioncella di molte chiacchiere innacue ma di pochi fatti pericolosi, e
che agni tentativo di virilizzarsi e impennarsi in alati eroismi, è
destinato al più pietaso insuccesso. Sembra — a ben considerare i
più recenti avvenimen- ti — che il sogno di una politica più alta, più
rettilinea, più forte, sia una morbosa fantasia di cervelli malati;
e che una sola specie di politica sia possibile: quella che ha nome
Giolitti. Vale a dire: quella basata sull’intrigo, sul compromesso, sulla
pattuizione, sull’arte di farsi ricat- tare. La manovra
parlamentare domina ancora tutto il con- gegno di governo. E’ pacifico
che non si governa coi parlamenti, poiché essi sono l’antigoverno
per eccellenza: ma è altrettanto pacifico che questo popolo
italiano 119 rabbiosamente ingovernabile non vuol
rinunciare al suo bravo Parlamento, fonte di ogni male, serbatoio di
ogni decadenza. Contro questa massima cloaca nazionale
(parlo, s’in- tende, dell'Istituto, non degli uomini) il Fascismo è
an- dato a impantanarsi pazzescamente. Il Fascismo ha com- messo
questo gravissimo errote iniziale: di non saltare a pié pari il
Parlamento. Viceversa vi si è sentito attratto, ha voluto saggiarne le
delizie, ha voluto conquistare que- sta quota a colpi di scheda —
mortificando la sua anima guerriera — quando avrebbe dovuto farla saltare
a colpi di bomba. E certi errori sono troppo gravi perché non si
debbano scontare. Tuttavia, non si potrà negare a noi irriducibili
anti- parlamentari, a noi rimasti fuori dell'aula per volontà pre-
meditata, e quindi immuni da interessi e da schiavitù elettorali, it
diritto di tener fede ai principi per quali s'ini- ziò la battaglia, e
soprattutto alla nostra accesa spiritua- lità di italiani #4ovi: nuovi
nella mente, nel tempera- mento, nell’educazione, nella passione. Anche
se tutto crollasse attorno a noi, e il nostro sogno trilustre,
perse- guita con appassionata tensione di nervi e di cervello, do-
vesse ridursi in polvere di macerie, noi non rinunzierem- mo ad essere
quelli che fummo e che siamo: cittadini di una Patria più grande, più
eroica, più possente, più do- minatrice. Mai non rinunceremo
— lo sappiano bene i nostri nemici — alla nostra sete d’impero, alla
nostra fiamma di grandezza, che odia la vita democratica,
l’egualitarismo ipocrita, il pietismo umanitario, l’eunuco calamento di
bra- che. A noi conviene la formula maschia di Silla, che per
disciplinare la repubblica in dissoluzione e prepararla all'impero,
chiedeva tutti i poteri, il controllo sui tribu- nali civili e militari,
la giurisdizione eccezionale, la legi- siazione di gabinetto da
sovrapporre a tutte le leggi ante- riori, il diritto di battere moneta,
di convocare il popolo, di sospendere e punire i funzionari dello Stato,
e infine, di mettere fuori della legge i cattivi cittadini. A noi
piace infinitamente Ja salutare ferocia di questo Dittatore-mo
120 dello, che, mentre il Senato discute se conferirgli o
no la potestà dittatoria, fa giungere nell'aula il fiero ululato
dei seimila prigionieri di Porta Collina, sgozzati al suo segnale, e che
incide sulla tabella i nomi dei Senatori vetanti contro di lui, per ricordarsene
a tempo e luogo. Il Fascismo è venuto al potere più attraverso la
spa da di Silla che l’oratoria di Cicerone. Perché dimenti-
carsene? II Fascismo non ha nulla da sperare da una sua politica di
debolezza conciliatrice. I suoi nemici lo vogliono polverizzato e
disperso, e tale lo avranno se si continuerà a ceder loro in ogni
occasione. Dal 10 giugno in poi, si può dire che l’Italia è stata
governata dall'om- bra dell’Aventino. Tutto questo è contro natura,
contro storia, contro giustizia. Non sono le ombre che possano aver
diritto al comando, bensì le energie luminose. Quan- do ci scrolleremo di
dosso tutte le ombre importune che ci soffocano come ali di corvacci e di
vampiri? Mario CARLI [da: Fascismo intransigente, Bemporad,
Firenze 1926, pag. 253-256] Con la Mostra della Rivoluzione si
risolve finalmente, e in modo favorevole, il grave problema della
militariz- zazione della fantasia creatrice mediante temi fissi da
im- porre agli artisti. Molti fra i pittori, scultori e
architetti, invitati a rea- lizzare questa Mostra grandiosa, furono
indubbiamente turbati dal prestigio di queste gloriose parole che
domi- nano ormai nella nuova storia d’Italia: interventismo, Vit-
torio Veneto, Mussolini, e Popolo d'Italia, Diciannove, battaglia di via
Mercanti e incendio dell’Avanti!, covo di via Paolo da Cannobio, Casa
Rossa, Lodi, Palazzo Accur- sio, Marcia su Roma. Legati
tradizionalmente ai noti motivi idilliaci cittadi- nì o rurali, tramonti
melanconici e ritratti statici, que- sti artisti sentirono subito la
necessità di capovolgere il loro spirito per disegnare nell'aria un tuffo
perfetto nel mare della novità. Da tempo il Futurismo
italiano, con il suo seguito di avanguardie estere più o meno originali,
gridava per in- segnare l'invenzione a ogni costo. Quattro mesi fa il
Du- ce, con la sua bella parola imperiosa e veloce, ordinò che si
evitasse il passatismo della palandrana di Giolitti. Suggestionati
poi dal dinamismo aggressivo colorato e tragico della Rivoluzione, essi
abbandonarono la loro sta- ticità e la classicità placida. Gli architetti
incaricati di dare una faccia nuova al vecchio e brutto Palazzo
dell’Esposi- zione, sentirono l’assurdità di qualsiasi decorativismo
sim- bolico, floreale, mitologico o grazioso. Le loro prime linee
gettate sulla carta, rizzandosi ascen- sionalmente, presero lo slancio
aggressivo, guerriero e mi- naccioso di altissime torri di acciaio o
ciminiere naviganti. A me ricordano simpaticamente i geniali fasci
di ascen- sori dell'architettura di Antonio Sant'Elia, il grande e
com- pianto padre futurista dell’architettura moderna.
Logicamente andò determinandosi lo stile della Mostra per virtù della
Rivoluzione e del suo ritmo mobile ag- gressivo. Si ricorda l’intero
profilo d’uno squadrista. Un dettaglio basta. Di quell’autocarro
schiacciato dal peso dei fascisti come un tino stracarico di giganteschi
grappo- li neri io ricordo soltanto il mosto rosso a terra e l’acu-
tissimo odore di benzina. Quindi sintesi, dinamismo e in- tersecazioni di
piani. Visibilità aggressività giocondità. Questa Mostra della
Rivoluzione, che tutti gli squadristi augurano non effimera ma duratura,
stabilisce la gloria del Fascismo con uno stile rivoluzionario italiano
che ha avuto pet primi maestri Sant'Elia e Boccioni. E’, secondo le
parole di Edmondo Rossoni dettemi questa mattina, il trionfo dell’arte
futurista. F.T MARINETTI [du: Fuiuriszo, Nel fervore della
polemica pro e contro il Futurismo molti si chiedono: come la pensa il
Duce? A questo in terrogativo i nostri avversari rispondono
arbitrariamente come saremmo ugualmente arbitrari noi volendo
asserire l'opposto di ciò che loro affermano. Per la verità il Duce
non può essere dall’una o dall’altra parte (passatismo © futurismo) ma
nella sua specifica qualità di Capo della Nazione non può essere
passatista e futurista nello stesso tempo. Che Egli prediliga come
certuni pretendono cor- renti intermedie lo esclude il suo temperamento
nemico di tutti gli oscillamenti e di ogni mezzo termine. Prefe-
risce le posizioni diritte anche le più azzardate e non è detto quindi
che si compiaccia trattenersi ad ammirare le varie denominazioni che si
dànno alla strada nel corso di così lungo e complicato cammino com'è
quello dell'arte. Egli tende alla meta: L’arte fine a se stessa.
Passatismo e Futurismo: due colossi che se non esistessero Musso-
lini li avrebbe creati apposta non fosse altro, per }a gioia patriottica
di vedere scaturire dal cozzo di queste mentalità opposte, nuove faville
di luminosa genialità italiana. I piccoli mondi che rotolano ai margini
di questa battaglia sono frammenti o scorie staccatesi, nell’urto, dal
corpo dei titani: hanno una vita effimera e quelli che precipitan-
do come valanghe trascinano nella loro scia deboli detriti superficiali,
se sopravvivono, sono sempre alimentati dal- l'atmosfera incandescente
generosa che emana il corpo che li ha creati. Passatismo e Futurismo
rimangono inamo- vibili l'uno di fronte all'altro: impossibile conciliare
il concetto conservatore tradizionale del primo col principio
rivoluzionario rinnovatore del secondo. Chi sia il più forte non è facile
stabilite: dipende da determinate condizioni intellettuali e spirituali
di tempo. Oggi però — in que- sto secolo fascista — più che le biblioteche
e i musei si moltiplicano scuole avanguardiste, impressioniste,
raziona- liste, novecentisie, moderniste in genere, tutte volenti o
nolenti generate dal futurismo. Volenti o nolenti: non ha
123 valore il fatto che molti sconfessano la loto origine.
E' fatale; anzi vorremmo dire storico. Probabilmente tra cin-
quant’anni il mondo fascistizzato considererà Mussolini un utopista e
ogni nazione vanterà il merito di avere instau- rato per prima il nuovo
regime politico. Di queste infa- mie la storia è... maestra; solo dopo
qualche secolo si rende giustizia alla verità. Tornando al nostro
argomento, è fuori dubbio che Mussolini, valotizzatore delle
gloriose conquiste del passato, sprona i capaci a superarle sul tra-
guardo del più fulgido domani. Quindi il futurismo rap- presenta infatti
quell’eroica generosa pattuglia d’assalto che trascina l’esercito degli
artisti alla conquista del nuo- vo. Questo fatto in sé eloquente e
inconfondibile, unico nella storia dell’arte, ha rapporti precisi in
campo poli- tico con la gloriosa epopea mussoliniana.
L'inesauribile ottimismo futurista si identifica così con il concetto
gene- roso originale ardito del fascismo vittorioso. Senza citare
fatti e particolari di cui sono ricchi i nostri ricordi per- sonali, in
tema « Mussolini e il futurismo » basterà ri- cordare giacché l'occasione
è opportuna queste tre date significative: Boccioni vi avrà detto
che tutte le mie simpatie sono, anche nel dominio dell’arte, per i
novatori e i distruttori e per i futuristi... » Mussolini. 1924: «...
presente adunata futu- rista che sintetizza vent'anni di grandi battaglie
artistiche politiche spesso consacrate col sangue. Congresso deve
essere punto di partenza non punto d'artivo... » Mussolini. ...Dopo di avere
concesso il suo alto patronato per le onoranze nazionali al futurista Boccioni, Mussolini offre il PRIMO generoso
contributo ma- teriale per il trionfo della grande rassegna dell’arte
futu- rista italiana. A questo punto, dopo quanto abbiamo
detto, ulteriori considerazioni sono superflue come sarebbe superfluo
ri- cordare ancora una volta l'influenza patriottica esercitata dal
futurismo sulla gioventù italiana prima durante e dopo la guerra e il
fattivo isolato contributo dei futuristi al fascismo nel 1919 (...).
Mino SOMENZ2I (da: Sant'Elia, n. 3, anno II, 1° febbraio
1934] Allorché quindici anni or sono, nel palazzo di Piazza San
Sepolcro, Mussolini gettò le fondamenta di quello edificio colossale che
doveva essere il Fascismo, se nel manipolo degli intervenuti individuò
degli artisti, questi erano soltanto ed esclusivamente artisti
futuristi. Appena creati i Fasci di combattimento, i primi
gruppi che cotseto ad ingrossare le schiere che cominciavano a
formarsi furono i gruppi politici futuristi, prima, e gli arditi di
guerra e i legionari fiumani, poi, sempre per me- rito esclusivo dei
futuristi. Il nostro Movimento diede quindi al Fascismo un
apporto qualitativo e un apporto quantitativo: inoltre die- de alla
creazione mussoliniana un conttibuto gigantesco di fede cieca, di
entusiasmo eroico. Vogliamo indagare il perché di questa spontanea
sim- patia, di questo irresistibile trasporto del Futurismo verso
il Fascismo; il perché della meravigliosa, totalitaria cor- rispondenza
fra una cemcezione eminentemente politica ed una concezione eminentemente
artistica? Prima di tutto, troviamo che il Fascismo e il
Futu- rismo hanno alla loro origine dei germi comuni: l’amore
disperato alla propria terra, la necessità di moto e di azione.
Dell’intervento nella grande guerra uno fece il punto di partenza per la
sognata rivalorizzazione della patria; l’altro, lo sbocco conclusivo di
quei fatti e di quel- le idee che possono riassumersi nei tre principii
futuristi: « Tutti 1 diritti, meno quello di esser vigliacchi ». «
La parola Italia deve prevalere sulla parola libertà ». « La
puerta, sola igiene del mondo », Dalle piazze affollate d'Italia si
passò alle trincee in- sanguinate d'Italia: interventisti intervenuti:
identico en- tusiasmo: identici sacrifici: identica volontà di far
ger- mogliare il bene della Patria dal martirio e dalla morte dei
suoi figli. E questa è già molto per dimostrare la
straordinaria 125 affinità sentimentale, di origine e
di scopi esistente tra Fascismo e Futurismo. Ma v'è di più.
Infatti, passando dal campo delle con- cezioni teoretiche a quello delle
espressioni pratiche, noi vediamo il Fascismo disdegnoso di adagiarsi nei
ricordi del passato, ansioso di sciogliersi dai vincoli del
presente, protesa con gli spuardi e con tutte le energie alla
conqui- sta del domani. Avanti, avanti sempre, incita il Duce;
raggiunta una mèta, mille altre se ne profilano: occorre raggiungere
anche queste: ogni sosta è un tradimento: ogni indugio è un delitto.
Non sona questi i principii stessi cui s’informa il
Futurismo? E il Futurismo è tutto azione e vita: nelle sue
schie- re accoglie la più bella e sana gioventù d'Italia: gioven-
tù d'anni, ma anche di spiriti. I suoi artisti creano con la stessa
generosità, con lo stesso dispregio di ogni premio e di ogni
riconoscimento, con i quali ! nostri soldati scattavano all’assalto: loro
uni- co orgoglio, lora unica aspirazione è di poter contribuire a
che il nome d’Italia sempre più alto e sonoro e sempre niù in estensione
squilli nel mondo. E non è Fascismo, questa? Ma non è
soltanto ciò quello che ci spiega come, fatto mai verificatosi nella
storia dell'umanità, una concezione esclusivamente morale ed artistica
abbia potuto così bene assorbire ed assorbirsi in una concezione
esclusivamente politica e sociale Il fatto straordinario che
oggi non può non riempirci di legittima se pur meravigliata
soddisfazione, è questo: un colosso della politica che pensa, agisce,
crea, con la ispirazione e la chiaroveggenza luminosa di un poeta:
un poeta che vive la sua arte come una battaglia politica per la
gloria della Patria sua. Né le due espressioni, fino ad oggi antitetiche,
politica e arte, s'urtano o si contrastano: anzi si può ben dire che esse
hanno così informato di sé medesime le due personalità che concepirle in
diversi at- teggiamenti spirituali ci sarebbe impossibile.
Come spiegare questo fatto così nuovo e così fuori 126
del comune, se non riferendoci ad una forza incoerci- bile,
misteriosa, ma che tuttavia sussiste, a quella for- za cioè che crea in
alcuni privilegiati quegli speciali stati d'animo per cui il Genio,
attraverso l'adamantina lumi- nosità di un pensiero superiore,
giganteggia e s’infutura? E’ indubbiamente questa forza contro la
quale noi nulla possiamo che fa di Mussolini un futurista della
stessa tempra di Marinetti e di Marinetti un fascista, de- gno seguace di
Mussolini. E' sempre questa forza che avvicinando i due crea-
tori, avvicina conseguentemente le loro due creature: è perciò che come
non potrebbe comprendersi un futurismo non fascista così non si potrebbe
concepire un fascismo conservatore e passatista. E’ perciò
ancora che i futuristi e i fascisti, se veri ambedue, s’intende, non
possono distinguersi: l’italiano nuovo è un miscuglio — nel valore che la
chimica dì a questa parola — di fascismo e di futurismo: essi
costi- tuiscono i due elementi inscindibili e insostituibili di un
tutto organico. Chi ha detto ai nostri giovani di chiamarsi
/uturfasci- sti? Nessuno: eppure essi, generalmente, così amano de-
finirsi. Inconscio, spontaneo riconoscimento di una gran- de verità che
non può discutersi e non si distrugge. Come altrettanto vero è che
i fascisti autentici sono ottimi futuristi. e non potrebbe essere
diversamente data l'essenza dinamica, generosa, novatrice, ottimista
nella quale il Duce vuole plasmati i nuovi italiani. Ma come
avviene, allora, che anche tra i fascisti sono molti i contrati al
Futurismo? Perché molti sono i rimrorchiati che pur vestendo
in camicia nera e ostentando il distintivo, parlando (e pur- troppo
parlando solo) fascisticamente e mettendosi sem- pre in prima fila nei
cortei, han tuttavia conservato l’ani- ma italiana di anteguerra, pavida,
gretta, piccina. Molti altri poi, pur sentendo nel loro intimo
tutto ciò che di bello e di buono ha il Futurismo, per un sen- so
invincibile di borghesisma, per timore di essere ridicolizzati e per desiderio
di essere tenuti e rispettati quali persone serie, dicono e non dicono,
ammettono e smen- tiscono, concedono e negano, opportunisti rammolliti,
bor- ghesi, vigliacchi. Ma ciò che prima o poi capiterà a
costoro, che noi sentiamo di odiare profondamente, molta ma molto
di più dei nemici nostri aperti e leali, che almeno rispet- tiamo,
lo ha detto chiaramente il Duce nel suo recente magnifico discorso
all'Assemblea quinquennale. Per essi non si tratta né di Fascismo né di
Futurismo: si tratta di vigliaccheria, e basta. Non han diritto neppure a
chiamarsi italiani. Né escludiamo da questa ignominiosa
schiera quei gio- vani d'anni che han conservato intatta l’anima dei
bisa- voli: che gridano doversi l’arte rinnovare e si impuntano
come muli riottosi dinanzi al futurismo: che accettano e sì prosternano
ad ogni novità che ci proviene d'oltre confine, anche se figlia di
genitori futuristi italiani, e fanno i disdegnosi, gl’incontentabili, i
superuomini verso il nostro movimento che gli stranieri stessi ammirano
co- me un’altra delle tante glorie italiane. Anche questi
così detti giovani non possono e non po- tranno mai essere fascisti sul
serio, giacché essi non hanno del Fascismo né compreso né assimilato
quelle ca- ratteristiche di spiccato futurismo che sono il
rinnovamen- to, la velocità, il dinamismo, il continuo superarsi, la
mat cia ininterrotta verso la perenne conquista. E lo stesso
diciamo di quei critici che si fermano a vivisezionare un'opera d’arte,
isolandola dal vasto am- biente donde essa ttae la sua ragione di vita;
che fanno l'anatomia di un nostro artista senza riflettere che esso
è soltanto un membro di un corpo gigantesco. Essi dimo- strano di
aver perduto o di non aver mai posseduto quella somma virtù latina,
fascista e futurista insieme, che è la virtù della sintesi soffocata in
loro dalla fredda pesantez- za anglo-sassone dell’analisi. Ma costoro
sono i compri- matii, le comparse della nostra vita e abbiamo di
già concesso loro troppo onore di discussione. Su tutto e su
tutti restano le idee: nel campo politi 128
co-sociale, l'idea fascista; nel campo artistico-spirituale. l’idea
futurista. Ambedue han detto al loro mondo una parola non an-
corta udita; ambedue hanno tracciato, ognuna nei propri confini, la via
nuova da seguire per giungere alla salvezza: tanto l’una che l’altra si
sono dimostrate possenti dina- mo, generatrici di forza, di fiducia in
noi stessi, dì ottimi- smo. di passione, di entusiasmo. L'una,
nel campo politico, ha raccolto infiniti proseliti ovunque, e ciò in
relazione ai numerosi problemi d’indole contingente di cui ha trovato o
propone le soluzioni; l'al- tra, nel campo più ristretto dell'arte, ha
egualmente susci- tato energie, ridestato gli addormentati, incitato i
pigri, rincuorato i pavidi, persuaso i dubbiosi. Se qui
dovesse attestarsi l’opera vitale sia dell'una che dell'altra idea, già
tutti i diritti esse avrebbero acqui- stati per l'imperitura riconoscenza
della civiltà. Ma ambedue continuano nella loro marcia
ascensio- nale: e i critici che affermano essere il Futurismo supe-
rato ci fan lo stesso effetto di quei pochi e sparuti anti. fascisti che
affermano aver il Fascismo esaurito il suo compito. Idee come
queste nostre non possono né sostare, né esaurirsi, né esser superate: la
loro essenza stessa di con- tinua marcia, di continua ascesa, di continua
conquista non lo permette. Un uomo, a idea, una opera
potranno esser supe- rati: ma non l'Uomo, non l’idea, non l’opera.
Ed ora che conclusione trarremo dalla dimostrata iden- tica
struttura spirituale del Fascismo e del Futurismo, dal- la dimostrata
perfetta corresponsione fra loro di scopi e d’intenti? La
conclusione è la solita: ripetiamo ancora una volta e confermiamo che il
solo artista capace di riprodurre in tutta la sua ampiezza, in tutta la
sua luce e in tutta la sua gloria la vita nuova dell’Italia di Mussolini
è l'artista futurista e che il Futurismo è la sola espressione
d'arte degna e capace di tramandare ai posteti la vitalità, la po-
tenza, la dinamicità dell’éra fascista. Questo diritto che noi accampiamo
ci proviene da quel- l'identità di spirito, di tendenze, di sensibilità
che fa del Fascismo e del Futurismo un unico, perfetto blocco e che
nessuna scuola, nessuna tendenza, nessun'altra forma di arte può
vantare E noi teniama al riconoscimento di questo nostro di-
ritto: non perché ci spingano meschini interessi o poco nobili ambizioni
ma perché, forti di un infinito amore per la patria nostra e di una
dedizione cosciente e completa di tutta la nostra spiritualità alla
sovrumana potenza di un'idea, al fascino gigantesco di un Genio
universale, vo. gliamo che non abbia soste il cammino trionfale che
l’Ita- lia rinnovata sta compiendo verso le sue più alte mète,
sotto il comando romano di Benito Mussolini. FuTURISMO [da
Sant'Elia, n 64, anna III 4 aprile 1934] La polemica accesasi negli Anni
Trenta tra futuristi rivoluzionari e futuristi sostanziali o di destra, è
già espressione di quel «secondo futurismo», che abbia mo visto e
detto essere momento collaterale del fa- scismo-regime. O tentativo
piuttosto di conservare la avanguardia nell'ambito di un sistema che come
tale era più propenso ad un suo ordine intrinseco e im-
prescindibile da mantenere 0 da continuare. In questo senso il futurismo
«di destra», come lo definisce il sansepolcrista Bruno Corra nel marzo
del ‘32 su Fu- turismo, vorrebbe un po’ essere quello degli « arri.
vati », di chi si asside sulle comode poltrone della fine della carriera,
pur cercando di mantenere uno Spirito 4 precedente », giovanile e
innovatore, che non può essere venuto meno in chi ha giù combattuto
e si è esposto per una causa di rinnovamento. Gli fa eco Corrado
Gawvoni riprendendo il discorso e pun- tualizzando il concetto stesso di
futurismo, senza che gli si debba o gli si voglia nulla rubare, come è
staio fatto da tutte le parti, e a riconoscergli invece la sua
portata e i suoi risultati. Solo una settimana dopo ribatte Paolo
Buzzi sul numero del 26 marzo sempre di Futurismo con un violento
attacco ai «futuristi di destra » e il sostegno 4 un ritorno alle estrema
sinistra », come già dice nel titolo. L'’avanguardia, in quanto
avanguardia e se vuol rimanere avanguardia, non può che esercitare
una funzione di vottura per il rinnovamento ed il rivolgi- meuto
del vecchio e del passato. Come tale l'aver guardia non può che essere e
rimanere di « estrema sinistra », sC il futurisito si ritiene ancora
uvangaar dia 0 vuole mantenersi e vivere. Resta però forse una voce
isolata quella del Buzzi, rincalzato ancora il 2 aprile, sul numero della
settimana dopo, da Remo Chiti che postula un futurismo sostanziale in cui
tutto si annulla, destra e sinistra, nel momento stesso in cuni tt
futurismo diviene ercativo e vu libera dvi con- formismi e delle
convenzioni. Ancora «all'Avanguardia » dedicava un quinto ed
ultimo articolo Luciano Folgore, sempre su Futurismo dello stesso anno
(1933). Il futurismo di destra e quello di sinistra st superano oramai
nell'avanguardia che ancora continua e sì muove nell'avanzata
dell'en- tusiasnio. E l'ottintismo continua in effetti fino al’ul-
timo, anche con la fine del fascismo, anche con la morte di Marinetti,
anche con la sconfitta nella guerra « sola igiene del mondo », continua
ancora nelle ulti me gencrazioni e nel messaggio dell'ultimo
manifesto, quello del «futurismo-oggi », che vive e crea nel pre
sente. NOI FUTURISTI DI DESTRA Quando si riunirà in
Roma il primo grande congresso dei futuristi di tutto il mondo, io andrò
a sedermi — vicino a Buzzi, a Notari, a Folgore, a Govoni — ad un
banco dell’estrema destra. Ma esiste dunque, può esiste- te un Futurismo
di destra? I due termini non fanno a pugni? Un movimento rivoluzionario
può contenere in sé tendenze conservative? E, infine, l’espressione «
futuri- sta di destra» non val quanto « futurista annacquato e
prudente » non s'identifica con l’ambigua parola « nove- centista
»? Mi pare che qui si tratti, prima di tutto, di una que-
stione di moralità. Dare al Futurismo quel che al Futuri smo appartiene:
e non truccare il proprio ingegno con una etichetta di convenienza. Chi
si dichiara avanguardista ma non futurista, sputa nel piatto dove ha
mangiato. Poi, io stabilirei questo principio: che il privilegio di poter
restare nella sfera magnetica del Futurismo pure affermando, nel-
la propria opera matura un remperamento realizzatore di destra debba
accordarsi soltanto a coloro che han dimo- strato di saper essere « integralmente
» futuristi. E recla- merei il diritto di sedermi a destra, per mio
conto, in no- me della mia effettiva collaborazione al Futurismo più
ri- voluzionario: Teatro Sintetico; Cinema futurista; e due opete
di audacissima narrazione fututista (La donna ce duta dal cieln — Sam
Dunn è morto). In realtà, fermo restando che l’essenza del
Futurismo è e non può non essere rivoluzionaria, bisogna dire che
nel nostro movimento i termini sinistra e destra non si oppongono,
perdono ciaè il loro significato convenzionale. La mentalità futurista
supera il contrasto fra il sovverti- mento e la conservazione, in quanto
si libera di continuo in uno slancio creativa. Perciò un eventuale
Congresso fu- turista dovrebbe assumere una configurazione non
oriz- zontale ma verticale: fututisti di cima e futuristi di base,
133 aviazione e fanteria. E soltanto per ragioni di comodo,
io qui mi son servito della parola destra. Ma diciamo pure i
fanti, i pontieri, i costruttori di stra- de del Futurismo, e avremo
indicato il carattere e spiega- to la necessità di questo settore nel
nostro movimento: l'aderenza al terreno pratico. Come l'architettura,
come la decorazione, l’arte narrativa adempie a una funzione in
gran parte pratica: da ciò l'obbligo per essa di equili- brarsi tra il
dovere del rinnovamento artistico e l’impe- rativo degli scopi vitali ai
quali la sua natura la destina. Un romanzo illeggibile equivale a una
casa senza finestre per vederci o a una stazione dove i treni non possono
cir- colare. Ora il Futurismo vanta la proptia aderenza al tem- po
attuale anche nel senso della praticità. Le case futuriste vogliono
essere le più comode: la struttura delle città futu- riste mira ad
assicurare i massimi vantaggi alle moltitudi- ni che devono abitarle.
Allo stesso modo il narratore fu- turista ambisce di garbare alle folle
dei giovani, traendone e in esse trasfondendo gli ideali tipici del
nostro tempo, per via di una tecnica intonata alla sensibilità
moderna, tutta nitidezza brevità sintetismo. Va da sé che il buon
narratore futurista dovrà ogni tanto lasciare la sua bisogna terrestre,
per collaudare ed eccitare nell’ebbrezza di un volo lirico la propria
tempra di novatore. Questa nota velo- ce non intende di risolvere
l'importante problema al qua- le si riferisce: ma soltanto di proporre lo
studio ai came- rati futuristi. Bruno CorRrA
Sansepolcrista [da: Futurismo -- Con il suo articolo « Noi futuristi di
destra » uscito nell'ultimo numero di Futurismo, Bruno Corra ha
oppor- tunamente aperto una tempestiva discussione intorno al
movimento futurista che, secondo me, va allargata e approfondita da una serie
di perentorie domande — argo- menti che, investendone in pieno la vita e
la vitalità, ri- chiedono altrettante risposte urgenti e risolutive,
Quali sono le origini e le funzioni del movimento fu- turista in
Italia. Quanti e quali sono i movimenti artistici e letterari
succedntisi in questi ultimi venti anni in Europa, che accusano
sinceramente una netta derivazione dal Futu- rismo.
Individuazione dei movimenti artistici e letterari che
rappresentano una deviazione e una contraffazione del Futurismo e dei
movimenti che, o fingendo d’ignorarlo, o ammettendolo furbescamente solo
attraverso la propria attenuazione, continuano a pompargli generoso
sangue e a servirsene di veicolo sull’allegro esempio della comoda
simbiosi di Bernardo l’Eremita. Quali sono Je vere umane ragioni
per cui elementi di primissimo ordine si dispersero e si distaccarono dal
movimento futurista dopo averne fatto parte, o. dopo aver- ne
attraversata l’esperienza (cito alcuni nomi: Palazzeschi e Carrà; Soffici
e Papini). In che cosa consista e came vada intesa il
cosidetto « contenuto polemico » che, seconda certa critica nostra-
na, costituirebbe il peso morto e il punto d'arresto del Fututismo.
Quale fondamento abbia l'accusa spesso rivolta al Fu- tutismo di
essere un movimento difettoso e caduco per- ché nato senza una dottrina
estetica che lo giustifichi. Espansione influenza e fortune del
Futurismo in tut- to il mondo e suo riconoscimento in Italia.
Sono tutte domande che hanno bisogno per una con- veniente
risposta, di lunghe e minuziose trattazioni. Ed è più che naturale
e logica la irresistibile tendenza dei nostri connazionali a
sbarazzarsene con una sola pa- rola. Questa parola la
conosciamo troppo bene: Marinetti! Ma conosciamo troppo bene anche
il grossolano trucco, Si accarezza Marinetti (fino ad un
certo punto, e il più nascostamente che sia possibile: è bene non
compro- mettersi troppo!), per negare poi il Futurismo e massacra-
re i futuristi. Da troppo tempo si pratica ormai l'iniquo
inganno per non sperare che abbia finalmente a fruttare un ri-
sultato vittorioso e definitivo! E’ il trucco indegno tentato dagli
antifascisti contro il fascismo quando si cercava di mettere in mora il
fa- scismo proclamando il Mussolinisma, nell’assurda cana- gliesca
mira di dividerli, per batterli poi con più comada separatamente. Mussolini
anche a quei tempi era trappo Duce per non avvertire la subdola insidia e
sventarla. Marinetti! Chi più di noi l’ha più fedelmente
amato ed ammirato? Per conoscere quali prodigiosi tesori di
amore e di energia egli possieda, bisogna vederlo all'estero.
Bisogna sentire allora con che fuoco egli è capace di affrontare i
pubblici più paurosi per numero e distinzione, più ostili ad ogni cosa
che abbia la nostra impronta di quanto non st creda, e per mentalità, per
gelosia e furore d'inferiorità; bisogna sentirlo dominare a poco a poco
col suo impeto irresistibile gli spiriti o avversi o diffidenti, e,
mentre fa giganteggiare nelle assemblee stipate l’ombra magnani- ma
del Duce, vederlo a trascinarle all’'entusiasmo e co- stringerle a
riconoscere la poesia italiana come una cosa caduta dal cielo: bisogna,
dico, vedere quest'Uomo straor- dinario all’estero, per capire che
instancabile affascinante ambasciatore d'italianità nel mondo noi abbiamo
in lui. Se l’attività di Marinetti presenta una debolezza,
que- sto avviene proprio in casa nostra. E' una debolezza che è
forse il suo più alto titolo di gloria. E ritorneremo sul-
l'argomento. Ma approfitrarsene come troppi fanno, è un
mostruo- so delitto. Che cosa volete allora?, ci domanderà
qualche impru- dente con un sorriso allusivo. No, no, non
invidiamo il puzzo di benzina, state tran- quilli: a questo volevate
alludere. Ma troppe volte ricevia- 136 mo in faccia
la cenciata dell'insolente puzzo di benzina per non sentirci offesi e
disgustati nella nostra rassegnata povertà. La ragione del
nostro malcontento è che da troppo tempo noi andiamo seminando e
falciando per quelli che ci seguono e allegramente raccolgono senza
nemmeno ri- volgerci un pensiero di ringraziamento. Amici
cari, se ci fermassimo un po’, se ci voltassimo un pochino indietro anche
noi? Se pensassimo anche noi di raccogliere un pugno di quelle spighe, da
portarcele a casa se non altro per ricordo e testimonianza della
lunga fatica compiuta? Ma se lasciamo ancora correre un poco,
ho paura che ci negheranno anche questo piccolo premio di
consolazio- ne; e se ci destineranno un posto {bontà loro!), questo
non sarà che per il museo, tra le mummie di coloro che st prodigarono e
sactificarono per una fede e un ideale e che Alfredo Panzini già propose
di raggruppate in una sola classifica con la denominazione di collezione
di fessi... CorRrADO GovonI [da: Futwrismo, ESTREMA SINISTRA E non vorrei
altro aggiungere. Le distinzioni, «i pun- ti fermi», Îe categorie
anagrafiche non contano. Si sa che, per taluni, l'età del « destino »
futurista è passata da un pezzo. Pure, quando la febbre della creazione
non è discesa e, soprattutto, quando il traguardo tremendamente
astrale della proptia Opera non è raggiunto, ci si sente, ogni mattina,
l'età — magari — di Vittoria, di Ala e di Luce Marinetti...! Questo, e
non altro, è il vero futurismo. Perché dovrei sedermi a destra, proprio
io? Mi sembre- rebbe di tradire la causa di « Aeroplani », di « Ellisse
€ la Spirale », di « Cavalcata delle vertigini », di « Popolo canta
così! » di « Dannazioni » e di tutto il mio Teatro inedito, ma ultra
violetto, che ha forse, a suo tempo, spa- ventato anche i genii scenici
sovversivi di Petrolini e di Bragaglia. Soprattutto, mi
sembrerebbe di tradite le mie Opere fantasticamente audaci di domani: «
Beatitudini » (affret- tati mio caro Campitelli: perché
l'aeroplano-razzo deve partire per le stelle!). « Canto quotidiano »,
dove vedrete il Poema attimistico del 1932 (la « Prora », lo sta
stam- pando); e «Nostra Signora degli Abissi »: dove, fina] mente,
la Motte sarà vinta e le onde cosmiche impaste- ranno da pari loro la
nuova genesi delle radiazioni inter- planetari. Questo è
futurismo: e di ultra estrema sinistra. Le mie anatomie sintetiche
di anime e di sensi, le mie aeropitture di tipi e di paesaggi, i miei
cosmapolitismi spa- ziali e i miei intimismi vorticosi stanno per una
intransi- genza etico estetica che costituisce, ormai, la gioia (ed,
un pochino, anche la gloria) della mia lunga carriera di uomo che
ha sempre fatto dell'Arte come il sacerdote celebra messa. Aviatore
sempre, adunque: fante e stradino, non mai. Lo so che i miei romanzi
(appunto perché sempre ed esclusivamente poemi) non hanno trovato che
editori san- ti, martiri ed eroi. Ma anche questo è un segno nobile
del- le cose e degli uomini e degli eventi. In quanto alle mie
opere di Poesia pura, ho avuto la soddisfazione recente di trovarmele
analizzate e comprese e discusse ed evidente- mente — quindi — amate da
una Rivista di giovanissime menti e di ardentissimi cuori: dico, la «
Penna dei Ragaz- zi » diretta da Vittorio Mussolini, edita in Roma.
I giovani, quelli veramente degni di questo nome pri- maverile,
sanno che, al di fuori e al di sopra d’ogni inevi- tabile chiasso
letterario, la parola « futurismo » risponde alla solo unica vera «idea
forza» che oggi esista nella sfera ideale del Mondo: e che è in grazia di
essa, unica- mente di essa, se oggi la Poesia della miracolosa
Italia fascista vive e vivrà. Naturalmente io dico ai
giovani, anche e specie se 138 coronati dal casco
d'alluminio in pieno cielo: « lavorate » non accontentatevi di quattro
parole intonate all’onoma- topea del motore: la Poesia italiana ha ben
altri diritti ed impone ben altri doveri! guardate dalle finestre di
Palazzo Venezia, la Via dell'Impero! e cantate i nuovi « Carmi de-
gli Augusti e dei Consolari », se ne siete capaci! Il Duce vi
premierà. PaoLo BUZZI [da: Futurismo, FUTURISMO SOSTANZIALE « Non c’è
che un futurismo: quello di estrema si- nistra », ha affermato Paolo
Buzzi. Ma questa generosa intransigenza che parrebbe volere ammettere un
unico modo di manifestarsi — contro la premessa di Bruno Cor- ra
circa il riconoscimento o meno d'un futurismo di destra « aderente al
terreno pratico » — rimane una questione poetica e individuale di fronte
agli argomenti che le ter- ranno dappresso: 1) Il futurismo
non è formalista; non si crea né si lascia creare barriere dalle
definizioni; pago della pro- pria influenza, lontano da ripulse
d’ortodossia vendicati- va, riconosce per suo anche quello che è tale
sull’altro name. Del resto Corra aveva scritto: « fermo
restando che l’essenza del futurismo è e non può non essere rivolu-
zionaria, bisogna dire che nel nostro Movimento i termi- ni sinistra e
destra non sì oppongono, perdono cioè il loro significato convenzionale.
La mentalità futurista supera il contrasto fra il sovvertimento e la
conservazione, in quanto si libera di continuo in uno slancio creativo
». Le centinaia di migliaia di aderenti al Movimen- to non si
compongono di un solo tipo di futurista. La convinzione può essere unica;
ma l'ispirazione e i tem- peramenti saranno naturalmente diversi. Così
uno stesso tema, di sentimento futurista, verrà espresso in stili
di- versi. Si dovrebbe scartare i meno intensi? Fino a quel
pun- to? E come negarne la sostanza futurista? 3) La varietà
di tipi, che documenta l’importanza sociale del fenomeno futurista, è
assoluta; e va dai poeti ai militari, dai pittori agli industriali,
ecc. Bisogna presupporne quindi una gradazione di realiz.
zatori; gradazione intimamente connessa alle diverse si. tuazioni
ambientali o tecniche in cui i tipi si trovano. Non si tratta qui di
temperamento o di mentalità più o meno ardenti. Si tratta di concezione e
di azione che devono spesso basarsi sul comune « campo pratico » dove
s'in- contrano il numero o la psicologia, cioè i mezzi materiali
negli scambi del pensiero e del lavoro (p. e, i giornalisti,
gl'ingegneri). Io penso che Marinetti, quando parla nei convegni
e alle inaugurazioni, faccia — con istintiva attenuazione del- la
sua anima inquieta — del futurismo di destra. Perché allora è sul terreno
« pratico ». E buon testimone potrebbe esserci Mino Somenzi
stes- so, uomo ardito, pittore d'incendi, cervello intransigente,
che pure fu l'organizzatore, modesto e alacre del I. Con- gresso
futurista a Milano, 1924, riuscendo con l'intelli- gente accoglienza a
dare alla manifestazione una luce di concordia, rara nelle ancor più rare
grandi adunate di artisti e di caratteri spiccatissimi; Somenzi stesso
che fon- dò questo giornale indispensabile alle rivendicazioni di
con- quiste artistiche e ideali misconosciute ed alla continua-
zione della tenace opera di ringiovanimento, ed accolse dopo, con
larghezza d'intenti, l'ingegno d'ogni età e d'ogni fama purché attratto
da poli positivi. Dunque, se si dovesse affermare l'essenza d’un
solo futurismo bisognerebbe dire: « futurismo sostanziale », che è
poi quello del 1909, di oggi e dell'avvenire: umano, illi- mitato,
ascendente. Le idee vitali sono al disopra degli stessi uomini
che le divinano e le dettano. Esse formano il « tempo », mi.
racolosamente, quasi contro tutte le volontà. Corrado Govoni, a
seguito della discussione aperta da Bruno Corra, proponeva di riesaminare
la posizione del tuturismo fra le correnti nostrane ed estere. Dei sette
que- siti presentati, una richiamava l’attenzione su l'accusa mos-
sa dal culturalismo circa una pretesa assenza di dottrina giustificante
l'estetica futurista. Anche il Fascismo fu accusato di assenza di
dottrina: - e non dai soli avversari. Quale dottrina, quando
la critica ufficiale vede attra- verso la cultura, divenuta una seconda
natura? Remo CHITI (da: Faturismo, n. 30, anno II, 2 aprile
1933] Mi ricordo che Umberto Boccioni propendeva per un movimento chiuso
e voleva che i giovani artisti, i quali si dichiatavano futuristi e
aspitavano ad entrare nel nostro gruppo, subissero un lungo periodo di
quarantena. Secondo Boccioni non bastava proclamarsi novatore
per esserlo, in realtà; non era sufficiente una adesione più o meno
entusiastica per avere ingresso libero in un mo- vimento che si proponeva
di attuare nell'arte e nella vita un nuovo ordine di cose.
Dal suo punto di vista, puramente artistico, il crea- tore del «
dinamismo plastico » non aveva torto. Il dono della originalità non è
largito che a pochi. Per superare il già fatto, mettersi in armonia coi
propri tempi e pre- vedere i lineamenti estetici del futuro occorre
un’intelli- genza ardita, geniale e di largo respiro. Ma
contro l’esclusivismo boccioniano insorgeva la vi 141
brante liberalità di Marinetti, che più futurista di ogni altro intuiva
la necessità di creare un clima, di generaliz- zare una tendenza, di
suscitare una vasta atmosfera spiri- tuale in cui si dovessero respirare
continuamente il senso e il desiderio della novità. Ecco la
ragione profonda del suo proselitismo, della sua accettazione, quasi
incondizionata nel movimento, di tutti quei giovani e giovanissimi che
avessero fede nel futurismo. Tale generosità non fu e non
sarà mai faciloneria. Nel fervore del diciottenne c'è sempre qualcosa
di vivo e di sacro che è impossibile trascurare. Ognuno di noi sa
per esperienza che è la primavera, anche con le sue intemperanze, la
stagione che prepara i germi e i frutti di domani. E non bisogna aver
paura che gli entusiasmi sbol- liscano presto. Basta che la fiaccola timanga
accesa e che trascorra di mano in mano agitata e sollevata
continua- mente da qualcuno che ha fiducia nell’eterna giovinezza
della nostra arte e della nostra vita. Futurismo di destra?
Futurismo di sinistra? Non cre- do che sia il caso di parlarne. In quanto
alle benemerenze e al sacrifici, talvolta eroici, dei primi banditori del
futu- tismo essi appartengono ormai alla storia. L'amico
Govoni vorrebbe che i futuristi della vigilia fossero promossi al grado
di santoni e avessero quel tribu- to di applausi e di ricompense che essi
giustamente meri- tano. Ma ciò equivarrebbe a una giubilazione e noi
ri- schieremmo di diventare dei sopravvissuti. Il piedistallo
e l’altare non sono il nostro posto di combattimento. In
prima linea sempre e all'avanguardia ad ogni co- sto! Anche a costo di
essere eternamente in contrasto con il gusto del pubblico che è per sua
natura ritardatario e accetta soltanto il futurismo di seconda mano,
addomesti- cato dagli abili profittatori del nostro movimento.
Questo disprezzo del rendiconto e del caso personale, questa ferma
volontà di essere più giovani dei giovani è un segno di vitalità e quindi
di ottimismo. Di quell’otti- mismo che molti pseudo-avanguardisti
aborrono perché so- 142 no nati con la barba nel
cervello, non hanno avuto mai vent'anni e non arrivano a comprendere che
soltanto nel- l'entusiasmo assoluto e nella fede cosciente ma senza
mez- zi termini c'è il lievito di ogni grandezza futura e d’ogni
poesia nuova. Chi ha il torcicollo nostalgico non può guar- dare dititto
innanzi a sé e andare oltre speditamente. Chi nega l'ottimismo nega
lo slancio vitale che si per- petua nel tempo e nello spazio perché ricco
di speranze istintive e fornito da madre natura del vero e genvino
senso dell'immortalità. Avanti dunque coi giovani e giovanissimi.
Il clima fu- turista dev’essere sopratttuto un clima primaverile e
acerbo. Luciano FOLGORE [da: Futurismo, -- Abbiamo raccolto
quattro testimonianze futuriste, è sul futurismo. Una è di Alberto
Sartoris, architetto, una di Tullio Crali, pittore, una di Curto Belloli,
eri- tico d'arte, e una di Enzo Benedetto, pittore e giorna- lista.
Tre furono e sono futuristi: il quarto (Carlo Bel. loli) è un esperto,
studioso ed interprete del futurismo. Ci sono sembrati interventi
significativi e ittdispensa- bili alla puntualizzazione dell'argomento,
visto che si tratta di personaggi viventi, che hanno partecipato al
futurismo e che ancora oggi lo sostengono e cercano di dargli alito o di vivere
futuristicamente a tutt'oggi in un mondo, forse, ricaduto nel «
passatismo ». Crali con l'aeropittura e la sassintesi ha continuato
l'avan- guardia, cui aveva aderito col futurismo che sempre l'aveva
sostenuta, al di qua e al di là del fascismo. Benedetto con un manifesto
{Futurismo oggi) e poi con un foglio periodico «operativo »,
capace di pro porci il futurismo di ieri e anche quello di oggi.
Sar toris con un'ottività artistica professionale volta 4 con-
timuare, anche se in oltre direzioni n con altri strumen- ti di vicerca,
la prima avanguardia cui aveva aderito entusiasta. Belloli puntualizza e
sancisce criticamente con la profondità dell’evperto certi. rapporti e
certe « colleganze », troppo spesso volutamente dimenticate 0
accantonate. La critica deve essere seria e intellettual. mente, n
«ideologicamente », corretta. E° quello che abbiamo cercato di fare.
Anche con la pubblicazione di questo testimonianze Carlo
Belloli, critico, poeza « visuale » di sperimen tazione futurista, e
docente nelle università svizzere di estetica {Basilca) e storia della
critica d'arte (Strasbur- go) Nato nel 1922, vive a Milano e Basilea. E'
colla boratore de La Martinella di Milano, già del Roma di Napoli,
e della rivista Les Arts di Parigi Organizza come consulente le mostre di
numerose gallerie d'arte di Milano. Enzo Benedetto,
pittore e scrittore, futurista « da sempre » (1923). E' nato a Reggio
Calabria nel 1905, vive a Roma, dove ha lo studio e pubblica
Futurismo aggi, che esce dal ‘69, bimestralmente, con saggi e ri
produzioni di opere futuriste. Fu anche autore del l'omonimo manifesto
nel dopoguerra (1967). ‘Tullio Crali, pittore futurista e
aeropittore. E' nato nel 1910 a Igalo, in Dalmazia. Vive a Milano dove
ha lo studio e il più importante archivio del futurismo attualmente
esistente. Futurista dal '29 e creatore della camicia anticravatta e
della giacca antibavero (nel '33), é firmatario nel ‘58 del manifesto futurista
sulla « Sas- sintesi ». Sarà uno degli ultimi a vedere Marinetti
nel ‘4d, prima della morte, a Venezia e e concordare can lui la
continuità del futurismo dapo la guerra Alberto Sartoris,
architeito e professore dll'Univer sità di Losanna. Futurista e amico di
Terragm e di Le Corbusier, E' nato a Torino nel 1901. Vive a
Cossonay Ville, vicino a Losanna, Aderì al futurismo nel 1920 e nel
‘28 sarà con Prampolini e Fillia nel gruppo torinese. Nel ’36 fonda il
gruppo degli astrattisti a Como, dove collabora con Terragni nel progetto
della città operaia di Rebbio. ('39-40). Sua opera fondamentale è il
li bro Gli elementi dell’architettura funzionale (1932), pilastro
teorico del razionalismo architettonico italiano (introdotto da Le
Corbusier) FUTURISMO-FASCISMO: OSMOSI DI DUE MOVIMENTI
DELL'ITALIA CONTEMPORANEA Dal futurismo confluirono al
fascismo, o viceversa, al- cuni letterati e pittori, qualche pensatore,
di singolare auto- nomia espressiva. E' il caso di Mario
Carli, Emilio Settimelli ed Arman- do Mazza letterati e giornalisti di
non trascurabile inci- denza che dalla originaria militanza futurista
estrassero dialettica, argomentazioni autonome e maturazione spiri-
tuale, per assumere nel giornalismo fascista più avanzato ruoli
protagonisti. Mario Carli, ufficiale degli Arditi nella prima
guerra mondiale e poi legionario fiumano, fondò con F.T. Ma-
rinetti l'Associazione degli Arditi d’Italia e il periodico Roma
Futurista dalle cui colonne trovarono sistematica divulgazione il teatro
sintetico, le pratiche parolibere dei poeti futuristi e le prime prove
versoliberiste di Giuseppe Bottai che ne fu redattore. In
quel 1919 anche il generale Luigi Capello si avvi- cinerà ai futuristi
per esporre alcune tavole parolibere di accertata ingegnosità, alla «
Grande Esposizione Naziona- le Futurista » nella galleria centrale d'arte
di Palazzo Co- va a Milano, mostra successivamente presentata a
Firenze e a Genova. Mario Carli con la raccolta di versi
liberi e parole in libertà Caproni, pubblicata a Milano nel 1925,
precorse l’aeropoesia futurista degli Anni Trenta. Alla
prosa poetica, Carli, aveva dedicato Le notti fil- trate, singolare
repertorio lirico pubblicato nel 1918 e ri- stampato a Roma, nel 1923 per
i tipi di Giorgio Berlutti che dirigerà quella Libreria del Littorio,
editrice di mo: numenti e documenti dell'era fascista. Il suo debutto
di prosatore era avvenuto nel 1909 con un seguito di novel- le,
Seduzioni, cui seguirà, nel 1915, il suo primo romanzo, Retroscena.
All’attività letteraria e giornalistica Mario Carli alternerà quella
politica e diplomatica. Nel 1926 pubblicherà a Firenze Fascismo
Intransigente, con prefazione di Roberto Farinacci, che inaugurerà la
ten- denza più oltranzista del fascismo. Nel 1925 Carli era
stato nominato Console d’Italia in Brasile, per essere in seguito
trasferito a Porto Alegre nel 1927, anno in cui Bernardo Attolico
assumerà la reg- genza dell'Ambasciata d’Italia a Rio de Janeiro.
La tournée brasiliana del fondatore del futurismo a Rio de Janeiro,
Porto Alegre, San Paolo e Santos, nel maggio del 1926, troverà Mario
Carli a fianco di Mari- netti per arginare le polemiche causate in
Brasile dalla aperta posizione fascista dell’inventore delle parole in
li bertà. Dalla ribalta dei teatri brasiliani Carli prenderà
la parola con Marinetti ricordando che il fascismo dei-futu- risti
non aveva impedito di condurre ricerche nuove nelle arti e nell'estetica
alle quali la poetica futurista aveva aperto liberi orizzonti
precisamente influenzando il « mo- dernismo » sudamericano.
Emilio Settimelli, poeta, scrittore di teatro e giorna- lista,
aveva debuttato nel gruppo futurista toscano nel 1915 e con F.T.
Marinetti e Bruno Corra aveva curato la prima antologia del Teatro
Sintetico Futurista, edita da Umberto Notati, a Milano in quel medesimo
anno, nella collezione dei « Breviari Intellettuali » del suo
Istituto Editoriale Italiano. Nel 1917 Settimelli pubblicherà
a Firenze Maschera- te e, nel 1918, I capricci della Duchessa Pallore,
edito a Milano dalle Messaggerie Italiane. Settimelli risulta pre-
cursote di un periodare scarno e telegrafico, serrato e dia- lettico,
inttoducendo la pratica di neologismi sociopolitici che avranno fortuna
nel linguaggio governativo e giorna- listico italiano degli Anni Venti e
Trenta. Il teatro sin- tetico di Settimelli si differenzia da quello
degli altri auto- ri futuristi per lucida imprevedibilità di azioni-stati
d’ani- mo simultanei. Nel fascismo anche Settimelli appartenne alla
corrente più revisionista e le sue Sassate, pubblicate 148
a Roma-Firenze nel 1926 dalla Casa Editrice Italiana, col: piranno
più di un gerarca in posizione moderata e con- formista.
Filippo Tommaso Marinetti redigerà nel 1921 con Emi- lio Settimelli
e Mario Carli il manifesto Che cos'è il Futu- rismo | Nozioni elementari,
dove vengono considerati « fu- turisti nella politica » coloro che amano
il progresso del- l'Italia più di loro stessi, quelli che vorranno
liberare l'Italia dal papato, dalla monarchia, dal senato, dal
parla- mento, dal matrimonio, precorrendo molti, successivi, pro-
positi del fascismo. Così la volontà di perseguire un governo
tecnico di giovani, senza parlamento, « vivificato da un consiglio
ec- citatorio di giovanissimi », la determinazione di « espro-
priare gradualmente tutte le terre incolte e malcoltivate, preparando la
distribuzione della terra ai suoi lavoratori » e l'abolizione di ogni
forma di parassitisma burocratico, industriale e capitalistico,
diventeranno tipicamente na- zionalfasciste e fasciorepubblicane.
Il manifesto considera, poi, « futurista nella vita » chi « sa dare
a tempo un cazzotto e uno schiaffo decisivo », chi « agisce con energia
pronta e non esita per vigliacche- ria », come chi « fra due decisioni da
prendere preferisce la più generosa e la più audace, sempre che sia
legata al maggiore perfezionamento e sviluppo dell'individuo e del-
la razza... »: medesima l'etica fascista di alcuni anni dopo. Nel
1922 Emilio Settimelli aveva dedicato un saggio critico all'opera di
Marinetti, edito a Milano con | tipi di Gaetano Facchi, che può essere
considerato il primo ten- tativo di analizzare la letteratura
marinettiana al di sopra del clamore scandalistico e della propaganda futurista.
Nel 1927 Settimelli pubblicherà a Roma, nelle Edizioni d'Arte e di
Critica, Come combatto che raccoglie i suoi più polemici scritti apparsi
sul quotidiano romano L’Irm- pero, diretto con Mario Carli.
Verso la fine degli Anni Trenta, Settimelli, subirà al. cuni anni
di confino di polizia causati dalla sua intransi- genza critica verso
alcuni personaggi-chiave del regime. Di Armando Mazza, che ci fu
dato di personalmente 149 conoscere e frequentare, il
futurismo si avvaleva per pre- sentare le prime, contestate, serate
propagandistiche nei teatri della Penisola. Eccellente
declamatore di versi, tonante dicitore di manifesti tecnici futuristi,
Mazza possedeva un fisico atle- tico di lottatore greco-romano. Marinetti
affidava, quindi, a Mazza la protezione della ribalta dagli attacchi
passatisti, mentre Îa sua voce tonante sovrastava i fischi e il
vociare degli oppositori. Singolare poeta parolibero, Mazza,
sarà il primo ad organizzate un movimento anticomunista, fondando
nel 1919 a Milano, il settimanale politico I wmemzici d'Italia,
organo antimarxista, nazionalista e prefascista. Nel 1918 Mazza aveva
pubblicato dall'editore Gaetano Facchi di Milano 10 Liriche d'Amore,
seguito di altrettanti poemi in versi liberi stampati come cartoline postali
raccolte in contenitore di carta crespata. Queste cartoline poetiche
so- no il primo esempio rilevabile e significativo di quella che
negli Anni Settanta verrà definita Ma:l Art, « Arte po- stale »,
assegnando alla comunicazione poetica il canale inabituale della
spedizione a domicilio del messaggio este- tico. Già nel 1917, Armando
Mazza, aveva introdotto l’uso delle « Cartoline Postali di Guerra »,
edite dallo Stabi- limento Tipografico Taveggia di Milano, di cui
Vedetta (cm. 13,7 x 19) resta la più curiosa ed esteticamente de-
terminante. Ai poemi postali faranno seguito Due morti. liriche
pubblicate nel 1919. Nel 1920 Mazza pubblica Firmamento / con una
spie gazione di F.T. Marinetti sulle Parole in Libertà, edito a
Milana dalle Edizioni Futuriste di Poesia. Si tratta di una pregevole
sequenza di parole in libertà dove la com- ponente tipovisuale
dialettizza le scelte semantiche, tal- volta enfatiche ed irruenti con
frequenti ricorsi ad ana- logie non sempre depurate. Poi Mazza verrà
totalmente assorbito dal giornalismo e dall’attività politica
Sarà direttore di importanti periodici come La grande Italia e di
quotidiani: L'Arena di Verona, I! Giornale di Genova, Il Resto del
Carlino di Bologna. Ricordiamo i grandi occhi azzurri di Armando
Mazza 150 farsi ancora più liquidi e trasparenti
quando ci parlava del Manifesto dell’Antitradizione Futurista dalle righe
del qua- le Apollinaire gli inviava, nel 1913, fiori, « rose »,
riser- vando « merde » ai conservatori e ai romantici. Mazza aveva
frequentato Guglielmo Apollinaire a Parigi e Grasa Aranba a Rio de
Janeiro, Benedetto Croce a Napoli, ai tempi de La Diana e Giovanni
Gentile a Milano, proprio mentre il filosofo stava orientandosi verso il fascismo.
Amicissimo di Umberto Boccioni, che aveva aiutato nei primi anni del
soggiorno milanese, Mazza, era stato di- pinto dal maestro futurista in
un esemplare pastello di rara fattura e di deflagrante cromaticità, che
pubblicam- mo nel 1977 fra le opere inedite di Boccioni.
Sarà Mazza a favorire l'attitudine di Boccioni per la critica d'arte,
presentandolo ad Umberto Notari, editore del quotidiano, poi settimanale,
Gli Avvenimenti dove il pittore reggerà per qualche tempo la rubrica d'arte.
Il fascismo di Armando Mazza restò sempre moderato e la sua
coerenza politica gli causerà nel dopoguerra 1940-1945 il più completo
ostracismo, impedendogli di continuare la attività giornalistica di cui
ebbe profonda nostalgia sino agli ultimi giorni di vita. Il
forzoso silenzio pubblicistico ricondusse Mazza alla poesia alla quale
apporterà non trascurabili contributi in versi liberi pubblicati, fra il
1948 e il 1959, presso editori inadeguati. Fra i più importanti poeti del
futurismo con- fluiranno al fascismo, assumendovi incarichi di alta
re- sponsabilità, anche Auro d'Alba (Umberto Bottone) che, a Roma,
diventerà capo dell'ufficio stampa della M.V.S.N. (Milizia Volontaria per
la Sicurezza Nazionale) e Paolo Buzzi che, a Milano, assumerà la carica
di Segretario Ge- nerale della Deputazione Provinciale. Altri futuristi
di minore rilievo, come il poeta Federico Pinna-Berchet, au- tore
delle Liriche d’Assalto, pubblicate a Roma nel 1930, il poeta parolibero
giuliano Bruno Sambo e Ferruccio Vecchi, prosatore e capitano degli
Arditi, aderiranno al fascismo svolgendovi ruoli anche decisivi. Sambo
diventerà federale di Addis Abeba, mentre Pinna-Berchet e Vecchi
ricopriranno alte cariche corporative. Così il genovese Bolzon, poeta-pittore
futurista dal 1919 e battagliero giornalista, sarà Sottosegretario alle
Colonie nel 1928, poi Consigliere di Stato e autore, fra il 1920 e il
1930, di saggi di critica sociale e di teoria fascista pubblicati
dalle edizioni Alpes di Milano. Anche il grande invalido di
guerra Giuseppe Steiner, piacentino, poeta parolibero e autore di quei
fondamentali Stati d'Animo disegnati, editi nel 1923, che precorsero
la « poesia grafica » di Pino Masnata e la « poesia visiva » dei
giovani fiorentini negli Anni Sessanta, sarà nominato Consigliere
Nazionale fascista. Dal futurismo si oriente- ranno verso il fascismo
anche il poeta-aviatore Guido Kel- ler, legionario fiumano e autore del
lancio aereo di un pitale su Montecitorio a monito di Francesco Saverio
Nitti, il « cagoia » del « Natale di sangue » fiumano; e la Me-
daglia d'Oro ferrarese Olao Gaggioli, poeta parolibero fu- turista e
pluridecorato ufficiale del XXIII Battaglione di Assalto dei Bersaglieri
sul Podgora. Nan va, infine, dimenticato il giornalista Ernesto
Da- quanno, poeta parolibero e cofondatore a Milano del pe- riodico
I Principe, organo fascista difensore della « Mo- narchia integrale ».
Daquanno, che nel 1925 aveva pub- blicato Now c'è poesia, saggi sul
risveglio dell’artigianato italiano, diventerà nel 1927 capo ufficio
stampa della Federazione Fascista delle Comunità Artigiane.
Un riferimento, poi, al poeta parolibero e autore di teatro sintetico
Guglielmo Jannelli, messinese, che dai «Fa- sci Futuristi », di cui era
stato promotore nel 1918 con Marinetti, passerà ai « Fasci di
Combattimento Siciliani » assumendovi compiti determinanti. Nel 1924
Jannelli pub- blichetà a Messina, per i tipi delle Edizioni della
Balza Futurista un polemico saggio dedicato a La crisi del Fa-
scismo in Sicilia, dedicato in frontespizio « A Emilio Set- timelli e
Mario Carli, miei fratelli nella avanguardia arti- stica e politica della
nuova Italia e anime capaci di ren- dere pienamente la sincerità che mi
ha mosso a compiere queste franche pagine obbiettive ».
Questo scritto di Jannelli conferma l’esistenza di una autocritica
nell’ambito del fascismo, di una volontà revt- con 1acusaro adagio. «.., oDbDedienza pronta,
cieca, aSS0- luta... ». Così Jannelli vede il fascismo nel 1924: «...
il fascismo si è rotto in due pezzi: molta della parte più buona è
rimasta bloccata, impedita di agire; e l’altra par- te trionfa
esteriormente unita ma intimamente diversa, po- co moderna, niente
affatto veloce e qualche volta insi- gnificante... ».
Anche Corrado Pavolini, poeta, autore teatrale, regi- sta, critico d’arte
e letterario, che si era avvicinato al mo- vimento di Marinetti
attraverso l’opera del pittore futuri- sta fiorentino Primo Conti e aveva
dedicato nel 1924 un saggio monografico al fondatore del futurismo pet,
infine, pubblicare nel 1927, a Bologna per i tipi dello Zanichelli,
quel fondamentale Cubismo Futurismo Impressionisnio, ade- rirà al
fascismo assumendo importanti incarichi nel diret. torio del partito e al
Ministero della Cultura Popolare. Dal fascismo perverrà, invece, al
futurismo il filosofo Fran- cesco Orestano, Accademico d’Italia, che
negli Anni Tren- ta dedica al movimento di Marinetti saggi di teoria
este- tica e di critica letteraria. Orestano aveva pubblicato nel
1907 quegli importanti Valori Umani la cui struttura teo- retica aveva
particolarmente influenzato il giovane Ma- rinetti.” Anche
Paolo Orano, scrittore, storico della filosofia e sindacalista sorelliano,
che fu Deputato fascista per la Sardegna alla XXVI legislatura e per la
Toscana alla XXVII e al quale venne affidata nel 1926 la prima cattedra
di storia del giornalismo nella facoltà di Scienze Politiche
dell’Università di Perugia, si orienterà verso il futurismo. Nella raccolta
di saggi critici I Contemporanei, pubblicata a Milano da Mondadori nel
1928, Orano riserverà a Ma- rinetti una esegesi determinante, del tutta
favorevole al futurismo considerato estetica nuova di apertura
inter- nazionale. Dalla pittura futurista si muove, invece, verso
il fascismo Antonio Marasco, senz'altro il più impegnato e coerente
politico fra tutti gli operatori plastici del futu- rismo. Calabrese di
nascita, Marasco, ebbe parte rilevante nelle squadre d'azione fasciste di
Firenze dove si era tra- sferito prima ancora di arruolarsi volontario
per la guerra 1915-1918, in cui verrà gravemente colpito da gas di
ipri- te sul Piave e dopo essere stato promotore con Marinetti dei
« Fasci Futuristi ». Nel 1914 Marasco aveva accompagnato Marinetti
nel suo secondo viaggio in Russia, a Mosca e a Pietroburgo, dove
avrà modo di conoscere Velimir Klebnikow e Wla- dimir Mavakowsky e di
dedicare fisiosintesi di estrema inventività grafica al
medico-pittore Nicolaj Kulbin, al pittore Nikolaj Burliuk, alla poetessa
Elena Guro, al poe- ta-aviatore Kamensky, al poeta-scrittore B. Livshits,
al mu- sicista A. V. Lurié e al regista Tairow. La pittura di Ma.
rasco presenterà sempre componenti sperimentali, non con- dizionata da
temi fascisti o da enfasi dell'aviazione mili- tare e civile che,
purtroppo, sviliranno molta parte della neropittura futurista degli Anni
Trenta. Antonia Matasco precorre il cosiddetto « astrattismo »
delineatosi nell’am- bito della milanese Galleria del Milione dei fratelli
Ghi- ringhelli e può essere considerato uno dei pionieri del
costruttivismo e del concretismo internazionali. Particolarmente
affezionati a Marasco avevamo avuto modo, negli Anni Sessanta, di
presentare la sua prima mostra personale a Milano, di carattere
antologico, attra- verso la quale il più vasto pubblico riuscì a scoprire
le sue ricerche preastratte e protoconcretiste realizzate a Fi-
renze fra il 1923 e il 1930 Marasco restò sempre legato al
futurismo e il suo fa- scismo ebbe coerenza di adesione alla Repubblica
Sociale Italiana dove ricoprì importanti incarichi nella rinnovata
Direzione Generale delle Belle Arti e dei Beni Culturali del Ministero
della Cultura Popolare. Questo magistrale pittore svolse anche attività
di scrittore e di critico d’arte e un suo libro, pubblicato a Firenze nel
1935, Parrorami allo Zenit, risulta anticipatore dell’attuale
science-fiction. Nell'ambito del movimento futurista, Marasco,
pro- mosse i « Gruppi Futuristi Indipendenti », attivi a Firen- ze
fra il 1925 e il 1958, che rivelarono personaggi della importanza di
Cesare Augusto Poggi, architetto razionalista, tecnologo del cemento armato e
ideatore di singolari costruzioni civili per la difesa bellica. Quando,
nella se- conda metà degli Anni Trenta, s'inasprirà la campagna fa-
scista contro il futurismo, accusato di difendere l'arte « astratta »
considerata « giudea e massonica », Matasco sarà a fianco di Marinetti
per chiarire i termini di indi- pendenza dell’« astrattismo » plastico da
ogni motivazio- ne di razza, da qualsivoglia matrice israelitica o
mura- toria. Se disponessimo di maggiore spazio per analizzare
compiutamente questo pericoloso momento dei rapporti fu- turismo-fascismo
ne risulterebbe la conferma di una pre- cisa interdipendenza di propositi
e di azione fra i due movimenti. Il futurismo non condizionò mai le
proprie libertà espressive, i propositi di rinnovamento, di costan-
te evoluzione spirituale, alle esigenze agiografiche del fa- scismo che,
del resto, non considerò il futurismo come arte di Stato, riservando
questo pericoloso privilegio al movimento del Novecento, celebrarore di
miti romanistici e imperiali, istigarore del ritorno al neoclassicismo,
pur mascherato da un malcompreso funzionalismo. Antonio
Marasco morirà a Firenze, nel 1975, alla so- glia degli
ottant'anni. Dopo un Jungo soggiorno romano aveva dipinto,
sino all'ultimo, cromostrutture dinamiche e inoggettive di auto-
noma soluzione cinevisuale. Puntualmente ci inviava let- tere di accorata
italianità, preziosi appunti di teoria pla- stica che, un giorno, dovremo
pur raccogliere e pubblicare come contributi fondamentali alla storia del
costruttivismo e del concretismo internazionali. Noi giovanissimi non
era- vamo disposti ad anteporre la dogmatica della mistica fa-
scista alle libertà espressive promosse e favorite dal futu- rismo, né ci
si potrà accusare di aver posto le nostre pri- me ricerche futuriste al
servizio dell'apologia di regime. Così le nostre Parole per la
Guerra, pubblicate nel mar- zo del 1944 dalle edizioni dî Futuristi in
Armi, sovven- zionate e dirette da F.T. Marinetti, non rinviano ai
canoni conformisti dell'aeropoesia futurista di guerra di quegli
an- ni ma anticipano, piuttosto, modalità di poesia concreta
e visuale, come è stato ampiamente rilevato dalla critica
internazionale più obiettiva e attenta. Il nostro poema Bimba /
bomba, del 1943, può essere, infatti, considerato il primo esempio
esistente di poesia concreta a struttura semantica reversibile e a
susseguenza ottica alternata, dove l'uso della parola-chiave è già
seria- listico. Il nostro fascismo eta quindi disarticolato
dalle pra- tiche dell’estetica futurista, proprio come si era verificato
per gli iniziatori del futurismo: F.T. Marinetti, Paolo Buz- zi, Armando
Mazza, Auro d’Alba, Luciano Folgore. In- fatti anche i nostri
Testi-Poemzi Murali, pubblicati nel 1944 dalle Edizioni Etre (Repubblica)
con un «collaudo » di Martinetti, piuttosto di risolversi nell'abituale
apologia guetresca di quel periodo, introducono un modo nuovo di
poetare inaugurando le problematiche di quella « poesia visuale » che,
solo negli Anni Cinquanta, troverà consensi internazionali sino a farsi
scuola di poesia avanzata. L’ideo- logia politica di Marinetti, le teorie
del suo particolare na- zionalismo « prefascista » sono raccolte in due
volumi pub- blicati in tempi diversi. Democrazia Futurista, edita a
Mi- lano nel 1919 da Gaetano Facchi, è la sintesi delle posi- zioni
politiche assunte da Marinetti nell'immediato dopo- guerra
1915-1918. Vi si ripercorre l'atmosfera in cui nel 1918, dopo
Ca- poretto, Marinetti fonda i « Fasci Politici Fututisti » con
Giuseppe Bottai, Emilio Settimelli, Mario Carli, Gugliel- mo Jannelli,
Antonio Marasco, i pittori Gino Galli, Gia- como Balla, Ottone Rosai,
Fattunato Depero, il poeta-pit- tore cremonese Enzo Mainardi, lo
scrittore Remo Chiti, il poeta Luciano Nicastro, Massimo Bontempelli, il
chirur- go Giovanni Masnata, poi Senatore del Regno, padre del
poeta parolibero stradellino Pino Masnata, ai quali aderi- Sta settanta
intellettuali e uomini di varia estrazione cul- turale. I
«Fasci Politici Futuristi » si trasformeranno, poi, gradualmente in «
Fasci di Combattimento » confluendo nel. lo squadrismo fascista. Così,
quando i fascisti partecipe- ranno per Ja prima volta alle elezioni
politiche del 1919, 156 rinetti, Piero Bolzon, il
poeta-aviatore Giacomo Macchi, Baseggio e Podrecca. Futurismo
e Fascismo, pubblicato da Franco Campi. telli, editore in Foligno, nel
1924, indica, invece, la per- sonale interpretazione della dottrina
fascista praticata da Marinetti e da molti artisti futuristi, come dai
numerosi affiancatori e propagandisti del movimento futurista. Con
il manifesto L'Impero Italiano / A Benito Mussolini - Ca- po della Nuova
Italia redatto nel 1922 da F.T. Marinetti, Mario Carli ed Emilio
Settimelli, il futurismo, già in que- gli anni, istigherà il fascismo
alla fondazione dell'Impero, precorrendo una realtà che, negli Anni
Trenta si concluderà con la conquista dell'Etiopia. Marinetti
scriverà nel 1924: «... il Fascismo, naro dall’interventismo e dal
futurismo si nutrì di principi fu. turisti... » Una storia
parallela dei due movimenti, ancora da scri- vere, dovrà tener conto
della mai rinunciata indipendenza futurista che non condizionò le
esigenze di libera ricerca espressiva alla necessità della politica
dominante. Innanzi tutto confesso che sono nato alla vita sociale
prima come fascista e dopo come futurista. Avevo sedici anni quando
nel 1921, proprio in corti. spondenza del mio compleanno, sottoscrissi
una domanda di ammissione ai « Fasci di Combattimento ». La doman-
da fu avvallata da due miei amici di maggiore età, come soci
presentatori, i quali compirono coscientemente un pic- colo falso
alterando di due anni la mia data di nascita al fine di consentire la mia
ammissione come socio ad ogni effetto. Così diventai a pieno titolo uno
dei pochi iscritti della Sezione di Reggio Calabria dei « Fasci di
Combat- timento », che aveva allora sede in una baracchetta per i
bagni di mare, in disuso. Perché questo sedicenne studente del
Liceo aveva ascoltato e risposto ad un richiamo politico certamente
pericoloso? A mio avviso, furono determinanti, l’amore per la Patria,
nato dentro durante fa guerra sull’esempio di un avo materno che ne aveva
avuto, forse, di troppo; l'entusiasmo per la vittoria e la conseguente
indignazione per quanto accadde subito dopo con l’attività dei
cosid- detti progressisti del momento, ostili ai reduci, in con-
trasto con la spavalderia ed intraprendenza di questi ul- timi.
Il mio apptoccio con il Futurismo avvenne, invece, due anni dopo,
con la scoperta di Zang iumb tuumm e l’incontro con F.T. Marinetti
Questo essere prima fascista e poi futurista, mi sem- brò una
particolarità personale e la confessai un giotno — dopo tantissimi anni
-— a Mario Dessy, e lui mi disse che gli era accaduto lo stesso benché
avesse cinque anni più di me. Comunque è chiaro che nel periodo fra il
1919 ed il 1922 vi fu un rapporto di identità ideale fra queste due
forze, anche se vi furono dissensi spesso di carattere costruttivo, E’
difficile — infatti — che possano andare in tandem per lungo tempo
movimenti di carattere poli- tico e movimenti di carattere intellettuale
o culturale. Le ragioni mi sembrano evidenti: un movimento
culturale, anche se basa la propria forza nelle realtà della vita
(come il futurismo), ha il suo fulcro nella idea-base che difende
con ortodossia e non è disponibile per transazioni ideolo- giche. Il
movimento politico, invece, pet propria natura, specie quando atrivi alla
gestione del potere, diviene dut- tile e transigente al fine di mantenere
è consolidare la proptia forza concreta, allargando la base dei
consensi. Il Futurismo prima della guerra mondiale si
caratteriz- za artisticamente con l'invenzione dei grandi temi di
rin- novamento nei settori di tutte le arti e, in veste politico-sociale,
nell’esaltazione dell’Italia, fantasticando per que- sta, una nuova
organizzazione anti-demo-liberale ed anti- clericale. Un nuovo mado di
vivere. Uno Stato industriale ed agricolo tecnicamente progredito, che si
progettava astrattamente, certamente irrealizzabile. Qui i tentativi
di un’azione politica che non aveva, però, un valido autonoma
sviluppo organizzativo. Come pretenderlo da poeti ed ar- tisti?
Nel tempo in cui Marinetti iniziò il « Movimento », le forze che
affermavano di voler realizzare un nuovo svi- luppo sociale al fine di un
miglioramento della situazione economica delle classi più disagiate e
trascurate, trovava- no una sede formalmente appropriata nelle spinte del
sa- cialismo deamicisiano; ma tale situazione ebbe durata bre- ve
perché questo socialismo si sviluppò in senso interna- zionalista
apatriottico collettivista antindividualista e fu sconfitto dagli eventi
della prima guetra mondiale. Tanto è vero che dal suo seno, a guerra
conclusa, prosperarono il comunismo ed altre scissioni e nacque il
fascismo. Sono noti e possono essere facilmente consultati i
do- cumenti delle manifestazioni spiccatamente politiche del
movimento futurista che precedettero la Fondazione dei « Fasci di
Combattimento ». Intendo rifetirmi al « Pro- gramma Politico Futurista »
dell'11 ottobre 1913, firma- to da Marinetti Boccioni Carrà Russolo,
all'azione politi- ca svolta da La Balza Futurista fondata da Di
Giacomo Jannelli e Nicastro del 1915, e dei «Fasci Interventisti
Siciliani », di Roma Futurista e dei relativi gruppi, nati nel 1917-18,
del Partito Politico Futurista sempre del 1918 che concretizzava un suo
programma nel libro Democrazia Futurista di Marinetti, eccetera eccetera.
Tutte queste for- ze si concentrarono nel movimento fascista nel 1919,
sia aderendo direttamente all'assemblea di fondazione di Piaz- za
San Sepolcro in Milano, sia successivamente anche per forza
d'inerzia. Il fatto è che — di solito — quando si parla di
par- tecipazione politica dei futuristi, ci si richiama soltanto al
ricordo dell’attività degli artisti che militarono con la qualificazione
di « futuristi ». Vale a dire dei poeti, scrittori, pittori, limitandosi
ovviamente ad esaminare il con- tributo di coloro che hanno raggiunto
maggiore notorietà, trascurando i « minori ». Ma questi ultimi erano in
nu- mero stragrande e molto attivi. Senza tenere inoltre conto che
i maggiori spesso presi del tutto da altre attività, non erano
altrettanto validi e disponibili in campo politico. In verità, il «
Futurismo » di quel tempo è stato un movi- mento a larga partecipazione
di giovani, di tantissimi gio- vani. Non tutti poterono — ovviamente
militare nel campo dell'Arte e maturare tanta notorietà da essere
ri- cordati anche oggi. Ma tutti furono politicamente attivi e
furono a migliaia i militanti di futurismo che partecipa- rono ad episodi
fascisti negli anni precedenti, o appena suc- cessivi, alla marcia su
Roma. Non credo di sbagliare se affermo che nelle cosiddet-
te schiere dello « squadrismo » molte furono le partecipa- zioni
futuriste. Azione lotta e coraggio erano proposizioni futuriste. Basta
ricordare la prima azione di Marinetti e Ferruccio Vecchi nel 1919 (16
aprile: Piazza Mercanti Mi- lano) e ricordare i tanti nomi dei militanti
futuristi che ebbero più spicco in campo politico che in quello
dell’arte. Alla fondazione dei Fasci, confluirono nel fiume
che diventò principale, molteplici rivoli di pensiero (come ho già
accennato) movimenti di ogni genere che avevano un minimo comune
denominatore nella volontà di rinnovare in qualche modo l’Italia che, pur
vittoriosa nella guerra, si dimenava in serie difficoltà ed era incapace
ad affron- tare la svolta storica che la vittoria aveva aperto.
Anche i Fasci Interventisti Futuristi Siciliani, che avevano preso
forza dalla volontà di Jannelli e Nicastro (il prima con capacità ed
intendimenti politici ed il secondo come lette- rato e poeta), ma dei
quali non si è ancora scritta la storia, né accertato la reale
efficienza, vi aderirono. Come aderì Marinetti con tanti altri futuristi
che risultano elen- cati nella schiera dei cosiddetti « sansepolcristi
». In seguito, quando il fascismo andò al potere, ai futu-
risti sembrò che finalmente sarebbero stati realizzati nel- l’arte gran
parte dei propositi del futurismo. In questa illusione fummo cullati da
alcuni elementi: la impostazio- 160 ne
altamente patriottica dei propositi, la valorizzazione del combattentismo
e del volontarismo, l'amore per il nuovo ed il rischio, il pragmatismo
attivo dimostrato immedia- tamente con i primi atti di governo, eccetera.
Va anche rammentato ai giovani di oggi, frastornati da affermazioni
non rispondenti alla realtà di allora, che la personalità di Mussolini
era molto al di sopra non solo di quella dei suoi collaboratori politici,
ma sovrastava la media dei cer- velli politici di quel periodo. Tanto è
vero che furono ap- punto gli avversari a votargli subito i « pieni
poteri » che gli consentirono l'avvio della prima gestione
governativa. Questo fatto rilevante, gli consentì di attrarre
dapprima le simpatie collettive ed — in seguito — a conquistare una
enorme fiducia, non solo da parte dei suoi sostenitori di un tempo, ma
anche da parte di ex avversari e simpa. tizzanti e — nei periodi più
floridi — perfino dai nemici del sistema politico che egli cercava di
sviluppare. Quando il fascismo s’insediò al governo per
realizzare la rivoluzione {a dire dei fascisti), o perché chiamato
dalla debole monarchia (come dicono gli altri), subì dapprima una
sosta di aggiornamento dovuta alla urgenza de) pro- blemi immediati dalla
cui soluzione dipendeva il recupe- ro dell'ordine econamico e politico.
Per questo, Mussolini non si sbarazzò immediatamente degli avversari che
erano troppi e in gran parte si erano dichiarati disponibili a
collaborare per il meglio, pur costituendo nello stessa tempo zone di
resistenza alle innovazioni Così anche nei fatti dell’Arte
ovviamente meno pres- santi, ove non comparvero personalità « nuove » che
aves- sero seri propositi di rinnovamento e disponibili a rivolu-
zionare tutto, come i futuristi. I quali con a capo Mari. netti e nella
quasi totalità si convinsero che la « rivolu- zione » potesse realizzarsi
per pradi anche in Arte. Che la forza del nuovo potesse penetrare per gradi
nelle isti- tuzioni d’Arte e trasfarmarle. Pura illusione. Illusione
giu- stificata sul momento non solo dal fascino personale di
Mussolini al quale ho già accennato, ma anche da certe sue
caratteristiche gestuali (come la particolare sintetica e precisa
oratotia che andava direttamente allo scopo in 161
modo esplicito) che lo presentavano come un congeniale capo futurista. Se
si aggiunge inoltre l'amicizia personale fra Mussolini e Marinetti,
vicini anche in altre precedenti azioni politiche, si comprende come il
movimento rivolu- zionario rappresentato in arte dal Futurismo, rimase a
fian- co del Fascismo (esso stesso ancora tivoluzionario alla ba-
sel, anche se in via di adattamento, questo, alle esigenze immediate
dell'esercizio del potere su una nazione che di rivoluzionari di
qualsiasi tipo ne ha avuto — per la veri- tà — sempre pochi, anche se
gonfiati ad oltranza quando occorre, in tutti i testi di storia antica e
recente. I futuristi costituirono una avanguardia nelle fila del
fascismo e vi rimasero nella quasi totalità. Basta citare i] messaggio
che concluse il Congresso futurista di Milano (L'Impero, 27 novembre
1924): « L'ultima riunione del congresso futurista è stata
de- dicata all'esame dell'attuale momento politico. Marinetti
espose alla numerosa assemblea una dichiarazione prece- dentemente
elaborata in accordo con i maggiori futuristi politici, la lettura della
dichiarazione fu entusiasticamente approvata ed acclamata in ogni suo
punto. Ecco Ja dichia razione: «“I futuristi italiani, primi
fra i primi interventisti nella piazza e sui campi di battaglia e primi
fra i primi dician- novisti più che mai devoti alle idee ed all'arte
lontani dal politicantismo, dicono al loro vecchio compagno Benito
Mussolini: Primo: con un gesto di forza ormai indispen- sabile liberati
del parlamento. Secondo: restituisci al fa- scismo ed all'Italia la
meravigliosa anima diciannovista di- sinteressata ardita antisocialista
anticlericale antimonar- chica. Tetzo: Concedi alla monarchia
soltanto la sua prov- visoria funzione unitaria, rifiutale quella di
soffocare e morfinizzare la più grande, più geniale, più giusta
Italia di domani. Quarto:- non imitare l’inimitabile Giolitti, imi-
ta il grande Mussolini del ’19. Quinto: Pensa sempre al- l'Italia
immortale ed al Carso divino. Sesto: Schiaccia la opposizione socialista
antitaliana di Turati e l'opposizione mediocrista di Albertini con una
ferrea dinamica aristocra- zia di pensiero.«“Tu puoi e devi far ciò. Noi
dobbiamo volerlo e lo vo- gliamo. F.T. Marinetti - Capo del Movimento
Futurista Italiano”». Sono inoltre innumerevoli le
manifestazioni dei futu- risti in tanie occasioni, con opere scritti ed
anche con la partecipazione concreta alle guerre di quel periodo.
Vo- glio ricordare, però, un solo scritto di Fillia (morto nel 1930
e che adesso cercano di passare per antifascista) il quale nel 19527 in
occasione della Quadriennale di Tori- no, così scriveva sulla sua rivista
Vetrina Futurista: «... Bisogna, però, giungere a “convincere” il
grosso pubblico, ingannato a nostro riguardo dalle false inter
pretazioni. Perché il favore organizzativo che oggi ci cir- conda, non
basta: è assurdo riconoscere il futurismo come manifestazione d'Arte ed
ammettere contemporaneamente le antiche manifestazioni. La vita può avere
individual mente, diverse interpretazioni, ma tutte devono essere
in- quadrate in una sola atmsofera sensibile, corrispondente alla
vita stessa. Non voglio con questo negare il diritto di esistenza a
intere categorie di pittori rimasti spititualmen- te arretrati: ma è
necessario preparare il pubblico alla loro graduale eliminazione dalla
vita artistica ufficiale, fino al riconoscimento del Futurismo “arte di
Stato” massimo ri- conascimento che lo caratterizzerà nella sua
importanza... ». Purtroppo però le autorità artistiche avevano il
so- pravvento favorendo a vele spiegate l’architettura di Pia-
centini e gli enormi pupazzi della scultura e pittura no- vecentista,
effettivamente arte del regime. E noi futuristi interpretavamo le isianze
di rinnovamento dell’arte senza alcun riconoscimento dal Regime che
ritrovava sé stesso nelle manifestazioni novecentiste.
Questo, non mi stanco di ripeterlo, negli Anni Venti. E poi?
Poi nulla. Le vicende, le difficoltà personali, gli entu- siasmi e
le depressioni, gli alti e i bassi, il lavoro e la mag- giore maturità.
Ma non creda di sbagliare se affermo che noi futuristi vivemmo quel tempo
con spirito indipendente e piena libertà fiduciosi che in fondo avremmo
avuto ragione. Anche se spesso sopportati e negletti dalle autorità
artistiche e subiti obiorto collo quando necessario. Poi andammo
all'ultima guerra, che fu sconvolgente per tutti. To ne vissi scrupolosamente
la mia parte con coeren- za. Fui costretto fuori a lungo. Pet un anno di
guerra, ne subii sei di prigionia e non conosco nei particolari ciò
che è avvenuto qui mentre ho già scritto delle mie esperienze.
AI ritorno, nel Natale del 1946, mi sembrò di sbarcare in un altro
mondo al quale non mi sono ancora completa- mente assuefatto. Ma ripresi
a vivere da zero e nell’aprile del ‘47 cominciai la mia nuova personale
battaglia per il futurismo con la mostra alla « Galleria di Roma »
inaugu- rata da Benedetta c dedicata a F.T. Marinetti.
Continuai ancora e vado avanti con i futuristi soprav- vissuti e
con l'appoggio dei giovani che comprendono e non disdegnano l’idea del
futurismo che continua e si rinnova attraverso le spiccate personalità
dei suoi artisti. Crali, lei è pittore ed è futurista Uno dei
pochis. simi, oggi. Crede che il futurismo sia ancora attuale? SÌ,
ma non per merito dei futuristi. Ma ha una sua attualità perché si è
espresso, si è mosso, e ci parla ancora. Ma non certo per chi ci ha
mangiato sopra, per chi non è mai stato futurista, ed ha espresso
solamente « necrofilia », vera e propria « necrofilia ».Il futurismo di
prima, quello per cui lei aderì al movimento, o vi st convertì, come la
investì per così dire, o come la ispirò? R. — Non mi sono
affatto « convertito », perché non c'era niente da convertite. Mi sono
trovato di fronte al 164 futurismo come un’anima
candida, che non sa e non è con- sapevole di nulla. Mi sono ritrovato una
simpatia incon- scia per alcuni quadri riprodotti su Il Mazzino
illustrato di Napoli. Mi sono piaciuti, mentre ad un amico mio, che
la pensava diversamente da me, non piacevano. Cominciam- mo a litigare, e
per litigare ad approfondite l’argomenta ecc. ecc. Così ho cominciato ad
essere interessata al futu- rismo. E sono partito senza avere una
preparazione di me- stiere. Ho fatto rutto da solo, senza imparare a
dipingere o disegnare, anche se poi una specie di grillo della
coscienza mi ha suggerito che dovevo imparare a dipingere, sia pure
da solo (anatomia, prospettive, ecc ). L’astratto e il figu- rativo erano
| temi o le prospettive dominanti. Ho cercato una « terza via », che
fosse tutta mia, tutta personale: una ia di mezzo fra il figurativo e
l'astratto. Poi ho lasciato il figurativo per la mia pittura futurista.
Credevo di dover dire ciò che altri non avevano detto. Così mi sono
accostata a Marinetti nel '29, quando gli scrissi per aderire al
movi. mento. L'aeroplano era una macchina nuova, un congegno del
futuro, o, per allora, del « futuribile ». E fu una delle realtà che mi
diedero più spunti, più ispirazione (l'Idrovo- lante italiano,
D’'Annunzia e il volo su Vienna, e il campo di atterraggio vicino a Zara,
dove io sono nato, ecc.). Così sono diventato acropittore. E lo sono
rimasto, ancora oggi. Marinetti, invece, per quello che lo
frequentò o poté essergli vicino, come lo considera? Forse l’unico
vero futurista, © forse solo un grande « maestro »? R. — No,
non lo considero un maestra, perché non ha mai voluto essere un « maestro
». Ci ha sempre stimolato e spinto a lare, senza mai dire però come
dovevamo fare Era contrario ad ogni gerarchia nel movimento del
futuri. smo. E si opponeva sempre a Boccioni e Prampolini, che
volevano imporre la loro pittura. Voleva che ognuno di noi fosse libero e
indipendente. Prampolini invece voleva fare il caposcuola. Marinetti
voleva solo che ognuno fosse se stesso e non ha creato nessuna scuola.
Amava la sua libertà e la sua indipendenza a tal punto che non
poteva imporre insegnamenti. Fotse D'Annunzio lo aveva influen-
zato in questo senso, nella vita mandana libera, giovane e spregiudicata.
Io lo ricordo e lo ricorderò sempre con rico- noscenza. Quasi come un
padre. O come un fratello map- giore. E come l’unico vero futurista, come
ho sempre de! resto pensato. Gli altri hanno tutti « mollato ». Lui è
an- dato avanti fino all'ultimo. L'unico che può personificare il
futurismo è fui, l’unico che non ha rivestito patine di cul: turame
intellettvalistico, come hanno fatto invece molti al- tri (Soffici,
Conti, Palazzeschi, Papini, ecc.). Amava essere futurista sempre e
comunque, anche nel gusto del contra- sto. Amava la luna, e scrisse un
manifesto « contro il chia- ro di Juna ». « Uccidiamo il chiaro di luna
», vi si diceva, forse contro i poeti. Ma non era poeta? Predicava la
guer- ra, anche se non avrebbe fatto male a nessuno. Amava la madre
e la donna in assoluto, e ciecamente. Ma combatté la donna sul piano
ideologico. In questo è veramente futu- rista. E lo è solo lui. Gli altri
non lo sono mai stati. Il futurismo di Marinetti che accento o che
an- golazione aveva particolarmente: letteraria, artistica, filoso-
fica 0 piuttosto politica? R. — Politica no, assolutamente e mai.
Filosofica nean- che, se non forse in senso attivo, ma allora « senza
pen- siero ». « Il futurismo entra in politica soltanto quando la
patria entra in pericolo », aveva detto Marinetti in un momento cruciale
della nostra storia nazionale. Il manifesto politico del fuuttismo è
conseguenza del fatto che esso sta movimento d'arte e di vita, e come
tale anche di vita poli- tica, tout court. Il manifesto politico è del
’13. Dopo Ja fine della guerra l'accostamento agli arditi o al fenomeno
dell’« arditismo » era inevitabile, e Marinetti si unisce in vincolo
d'amicizia, anche politica, con Mario Carli per esem- pio (ardito) e con
Mussolini. All’avvento del fascismo e allo accostamento di Mussolini alla
monarchia e alla chiesa Ma- rinetti si stacca. Abbandona il partito e si
ritrova pressoché in miseria, con moglie e figli. Aveva grande
ammirazione ed amicizia per Mussolini, che non credo fosse
ricambiata per una certa forma di invidia-gelosia mussoliniana nei
con- fronti di Marinetti. Il regime gli offriva incarichi 0 preben-
de, che continuò a rifiutare. Mussolini arrivò ad offrirgli la presidenza
dell’Associazione dei grandi alberghi italiani, pro- 166
prio a lui che disprezzava l’industria del forestiero. Accer- tò
solamente, e sollecitato, la segreteria dell'Associazione Italiana Autori
ed Editori, altrimenti forse destinata al solito « arraffone » di turno.
Tuttavia si tenne sempre in disparte e non fece mai politica attiva, non
partecipò mai direttamente al regime, che anzi forse osservava
contrariato, a parte solo qualche onesta e sincera manifestazione di
sim- patia per Mussolini. Nel ’35 si oppose alla presa di
posizione politica di Hit- ler contro l’arte moderna e d'avanguardia, che
si manifestò e sfociò nella censura e nella repressione dell'arte. E
nella stesso momento organizzò a Berlino una mostra di aero-
pittura futurista che creò non pochi problemi e suscitò non poche
difficoltà anche diplomatiche fra i due governi ira liano e tedesco. Oltre
che produrre una situazione difficile e imbarazzante per le posizioni o i
movimenti artistici e in- tellettuali della Germania dell’epoca. In
Italia fu l’unico in questa occasione a prendere posizione ed esprimersi
con- tra l’ingerenza politica e l'intervento del regime di Hitler
nella cultura e nell'arte. Nel ‘43 ero da Marinetti a Roma:
arrivava Marinotui (presidente della Snia Viscosa) che era stato da
Mussolini insieme ad altri « consiglieri regionali » del regime.
Ma- rinotti si era accinto a raccontate a Marinetti che tutti i
consiglieri avevano « relazionato » Mussolini e che nessu- no aveva avuto
il coraggio di dirgli che le cose andavano male, tranne uno, il
consigliere sardo, che aveva sostenuto la stanchezza della gente, la
maldicenza, il tradimento... Marinetti osservava che non era possibile
che non si sa- pesse... È Marinotti ribatté che lo si sapeva, ma che
non era possibile dirlo a Mussolini... Il giorno dopo ritornai da
lui e mi comunicò che il consigliere sardo era stato nomi- nato da
Mussolini ispettore generale per tutta l'Italia. Nel ‘44 poi si
mosse da Venezia e risalì verso la Lam- bardia, perché non se la sentiva
di starsene in disparte a « far l’antifascista »... L'ultimo suo poemetto
in versi, l'ul- tima sua espressione letteraria s'intitola appunto:
Musica di sentimenti per la X Mas. E vi si dice: « Io sono fato
167 di aeropoesia fuori tempo e spazio ». E' già
definizione sintomatica e totale dell'opera. D. — Ailora,
Marinetti fu fascista? E se lo fu, lo fu fino a che punto? O non lo fu, e
fino a che punto non lo fu per essere futurista? Marinetti è stato
sempre e comunque e saprattutto futurista. Questa è la mia impressione. Perché
ha se- guito la sua natura e la sua volontà. E nel suo essere futu-
rista non è mai entrata la faziosità di un genere che « entra in politica
». Non fu mai fazioso. Una volta eravamo a casa sua, in un gruppo di
amici, a parlar di Majakowski e di futurismo russo. Qualcuno obiettò: «
Ma Majakowski è un comunista ». Ed egli allora ribatté
immediatamente: « Non ha nessuna importanza. Perché Majakowski è
prima di tutto un grande poeta ». Nei suoi rapporti cal fasci- smo
si può considerare forse il fatto che fosse nato al l’estero, che fosse
educato in Egitto alla cultura francese, spesso pesantemente sprezzante
verso l'Italia. Sentì quindi una specie di aspirazione all’Italia 0, più
ancora, di nostal- gia della patria. Poi, volle rivendicare il futurismo
come fatto classicamente e squisitamente italiano. Così s'inimicò
tutta la cricca culturale parigina, ma volle sprovincializzare e dare un
certo orgoglio e una certa autonomia alla cultu- ra italiana. E pensò o
vide che Mussolini potesse essere l'uomo adatto per rifarla, l’Italia, e
per darle una sua nuo- va base, culturale ed artistica. Senza sapere,
alle origini o senza conoscere, quando era all’estero, ed anche a
Parigi, la furbizia, anche culturale degli Italiani. Lui fu in
buona fede. Dal fascismo ebbe l’Accademia d’Italia (con appan-
naggio onorario in un momento in cui era anche in disagi economici), ed
ebbe la Biennale di Venezia {come « una riserva indiana »). Il suo è un
fascismo di speranza o di desiderio, nella speranza di poter vedere
realizzato il suo futurismo. E' contrario al « Novecento » e al
classicismo « romano » alla Piacentini, che Mussolini invece
appoggia- va. Forse tutti i regimi, quando si affermano, cercano di
eliminare le avanguardie. Il fascismo non le appoggiò, men- tre il
nazismo e il comunismo le stroncarono. Sta di fatto che Marinetti
appoggiava Terragni a Como, e non appoggiò mai Piacentini. Alla Biennale, a
Venezia, il futurismo è stato accettato sì, ma mon con la considerazione
che Marinetti si sarebbe aspettato, e che sarebbe davuta spet- tare
all'unico movimento d'avanguardia esistente allora in Italia. E invece è
stato accolto sì il futurismo, ma quasi messo in disparte.
Nel ’26, all'inaugurazione della mostra, durante il di- scorso di
presentazione, Marinetti si alzò ed intervenne ad alta voce, presente il
Ministro dell'Educazione Nazionale, lamentando l'ingiustizia per
l'esclusione dell'unico movi- mento d'avanguardia dell'arte
italiana. L'anno dopo Mus- solini stesso gli concesse un padiglione di
riserva, che do- veva rimanere, ogni anno, a disposizione dei futuristi (la
« riserva indiana », già summenzionata). D. — Mussolini invece,
secondo lei, fu futurista? R. — E' stato un politico ed ha
appoggiato Marinetti per avere il futurismo dalla sua parte. Anche se il
futu- rismo aveva contribuito, pure, alla sua formazione. Che
avesse jspirato un regime al ritorno verso l'antica Roma nei suoi simboli
e nei suoi modelli, vuol dire tuttavia che era rimasto fuori dal
futurismo. D.— E allora il fascismo di Mussolini ed il
futurismo di Marinetti non hanno nessun punto in comune? O si
possono, secondo lei, mettere in relazione o in collega mento, e fino a
che punto ciò è possibile? Per Mussolini il fascismo è politica, per
Mari- netti il futurismo è poesia. Sono due posizioni completa-
mente diverse. D. — Non si può quindi parlare di futurismo
fascista, nemmeno del primo, quello delle origini? R. —
Finché un movimento politico è in fase rivo- luzionaria, le posizioni
della « rivoluzione » culturale con quelle politiche coincidono; poi però
quando il movimento politico diventa regime si burocratizza, e allora non
può non scontrarsi con la cultura che rimane sempre rivoluzio-
naria e che non può assimilare come tale le esigenze politi- che di un
«partito». Ecco perché esistono punti di contatro 169
o momenti di simbiosi tra affermazioni marinettiane e fa- scismo politico
dei primi anni, poi rallentati o rilasciati quando si afferma l’« ordine
romano », utile al regime, ma speculare di un passatismo senza mezzi
termini, e totale. Marinetti tollera questa esigenza politica di
Mussolini, ma non la condivide od ammette in campo artistico e
cultu- rale. Tuttavia Marinetti era uomo che non confondeva ami-
cizia ed ideologia: poteva combattere con un amico per principi ideologici,
anche violentemente, senza però in- taccare l'amicizia, che rimaneva
sempre e comunque. D. — Resta oggi il futurismo? E resta come
realtà artistica solamente, o anche politica, nella sua dimensione
d’espressione artistica? Senza fascismo, che è finito ovvia- mente, e da
tempo. Forse resta il futurismo, come ten- sione di rinnovamento?
R. — Sì, il futurismo resta, credo, nella sua posizione di
rinnovamento, o di indicazione nella creazione di nuove forme, e di nuove
idee, o di valori nuovi. Oggi si contesta per distruggere senza dire
quello che si vuole proporre in sostituzione. Il futurismo aveva invece
dato i suoi mani- festi. Volle distruggere, ma propose ciò che voleva
rico- struire. Anche oggi, per quel che resta, il futurismo cerca
un suo rinnovamento che si superi continuamente. Oggi c'è molta
saggistica, ma si vede poca poesia. Forse manca l’entusiasmo, nonostante
la grinta. Penso che esista an- cora futurismo oggi, perché esiste ancora
temperamento di novità, e di rinnovamento. Perché esiste ancora una
spinta vitale di « ossigeno ». E l'opera deve avere un suo sangue,
se si tratta d’opera d’arte. Un sangue di cui deve vivere, o un sangue
per cui possa vivere. É l’ossigeno è un valore assoluto che resta, non si
toglie, perché è ineliminabile. Anche in bottiglia, nella plastica,
rarefatto 0 alla luce del sole. Il futurismo è un po’ come l'ossigeno, o
l'anima o lo spirito del lavoro e dell’opera, o della vita: è un
po' il suo « entusiasmo ». [Intervista u cura di Alberto
Schiavo] Per quanto riguarda lo svisceramento dei
collegamenti fra Je correnti del futurismo indipendente come
movimen- ro artistico e culturale ed il fascismo come movimento po-
litico e sociale, particolarmente per quel che si riferisce al carattere
autonomo del futurismo torinese e al fascismo delle origini, è ovvio che
i tapporti intercotsi fra di loro furono lungi dall’essere quelli di un
matrimonio d'amore. Consistettero specificamente in taciti e necessari
accordi immaginati per pater dare vita a creazioni autentiche che
abbisognavano di un ambiente rispettoso dei motivi di una vera
rivoluzione (quella artistica e spirituale scatenata dal futurismo), in
un clima fascista che di rivoluzionario non ebbe in seguito che la sola
etichetta. Il futurismo torinese, nel tentativo di operare in
pie- na italianità, condivise nelia sua giusta misura taluni prin
cipî che il primo fascismo stabili quando provò a inte- grarsi nel campo
difficile della moderna civiltà europea. Alla stessa stregua e per
raggiungere gli stessi fini il futu- rismo piemontese trattò anche con
l’anarchismo e il co- munismo idealitario di Gramsci, sui quali ebbe una
consi- derevole influenza negli sviluppi dell’architettura.
Il senso altamente novatore di Fillia e la sua molte. plice
attività (stupefacente in una esistenza così breve) per: sonificano le
forme coerenti e concrete dei concetti più originali e più saldi delle
imprese del futurismo torinese. Figura rappresentativa dell’essere
istantaneo, Fillia non temporeggiava mai, viveva come una ruota, partiva
come una freccia. Propugnatore di quel futurismo mistico che per
ordinarie ragioni razionali ed estetiche militava in margine della Chiesa
cattolica apostolica e romana di quel l'epoca, egli affermava con rigare
di logica e con argomen- tazioni arditissime che la religione ha
relazione di somi- glianza con la geometria interna dell’arte. Misteri
dottri. nali da ricrearsi plastiicamente per dare forma concreta ai
nuovi concetti della pittura sacra erano per lui la Trinità,
171 la Redenzione e la Vergine. L’apostolato di Fillia
s'imme- desimava con quello del futurismo in cui si cercava una
forza di liberazione, e la trovava in quel movimento, cie- camente.
Originati da una geometria astratta superiore, i suoi dipinti
possiedono quella qualità rara di non essere visà, e perciò non ricavati
dal vero, ma di sorgere senza sha- vatura alcuna dal proprio io, e come
se l'artista non vi fosse per nulla, per cui aspettavamo ogni sua scoperta
con un senso di impazienza, di ansietà, perché Fillia non ces- sava
di inventare e di portare sempre più avanti i perfe- zionamenti pittorici
del futurismo. Tuttavia, una continui- tà è discernibile nella sua arte
che è, innanzitutto, di una grande purezza, di una grande acconcezza, di
una grande serenità. T colori si oppongono l'uno all'altro e
si sovrappon- gono con curve e frangie di corallo, macchie di cielo,
fan- tasticherie metafisiche, sogni astrusi. Opera di contempla-
tivo che accomuna sempre iutto e sempre con estrema dolcezza, e dalla
quale si spande una pace angelica che sembra invalidare, apparentemente,
taluni assiomi violen- ti della dottrina futurista. Ma è invece la prova
Iampante che il dinamismo di questa scuola italiana non esclude
quello stato di grazia dove i conflitti diventano preghiere. Si tratta di
fermare il nemico per ritrovare Ja quiete, di combattere ferocemente per
amare di un più grande amo- re. Tale atteggiamento è proprio l’antitesi
del sentimenta- lismo romantico, dell’ebetismo della debolezza: esso
con- voglia l’arte verso quell'alta sfera mitica e visionaria che
invade la mistica futurista. Gli errori di pensiero che possono
insinuarsi nella men- te di un poeta come Fillia, che non può sempre
ridurre tutto al controllo della logica, non vanno interpretati nel
lo stretto senso letterale. Il movimento è irrefrenabile, talvolta
irresistibile, porta oltre la matura e si perde in un mondo di realtà
fantasmagoriche. Nessuna amarezza, nessuna amarezza siatene cetti
si nascondeva in questa libertà concettuale e della riflessione: vi
era troppa gentilezza in questo cuore di pittore e di poeta, troppa
felicità per i suoi amici, perché si possa at- tribuire un significato
ironico alle sue composizioni sacre come non hanno mancato di fare
borghesi indirozzabili e bolsi dalle maniche troppo lunghe, dalla mente
inceppata. Ho buona speranza per Fillia, per questo artista
pen- satore che fu anche un provetto artigiano; non mi rat- trista
la sua morte prematura. Un suo misterioso paesag- gio dell'ex raccolta
Ferrari di Ginevra mi scopre un ci- mitero e la scala rossa che lo
vincolò in eterno con gli eroi: quello stesso cimitero e quella stessa
scala di Sant'E- lia. Distinguo la luna bianca della sua grande dolcezza,
e le cose della terra non reggono, sono rovesciate su loro stesse.
Le pitture religiose di Fillia sono un richiamo allo spirituale
puro, degli abbozzi di Paradiso. S’intende che un tentativo di tal fatta
non deve giungere al disprezzo della cosa creata, dell’Incarmazione: ma non
è il caso di Fillia le cui forme della sua arte si disegnano, si creano
e si distaccano dalla loro causa prima. Tutto il lavoro
dell’opera si riporta ad una giornata ben definita della creazione dove
gli uomini non sono ancora che allo stato di abbozzo, ma dove la
macchina respira già, dove i fantasmi girano secondo una traietto-
ria circolare, dove l'arcobaleno annuncia la riconciliazione. Una
siffatta pittura è infinitamente rispettosa, il suo pudore è un perpetuo
tremita davanti alla bellezza; essa sprigiona cdelicatezze insospettate,
scrupoli inauditi e non- dimeno una audacia che le viene soffiata dallo
spirito. Nonostante il suo atto di fede nella macchina, Fillia
è certamente un pittore spirituale. La bellezza intrinseca del. le
macchine corrispande ad un suo bisogno di esattezza sovrumana, di
perfezione nelle linee e negli spazi. E’ una dimostrazione pratica che
consente all'uomo di disinca- gliare la vera vita, di ricercare quegli
elementi universali dell’arte che scaturiscono nei momenti fecondi ed
imperiali delle Nazioni e ne rendono lo spirito eierno. Per
non spappolarsi nella struttura, per non sgreto- larsi alla radice, il
futurismo è lui stesso alla ricerca del- l'eterno. E’ ben vero che questa
eternità non è sotto i nostri passi, non è dietro di noi, ma davanti a
noi, In questo senso tutti i cristiani dovrebbero essere futuristi,
diceva Fillia, perché meno legati degli altri uomini al passato e al
presente, e più ferventi dell'avvenire. Questo richiamo ad una tradizione
spirituale, questo allenamento {secondo la felice definizione di
Marinetti) non ha nulla di necroforo, non intralcia lo sviluppo dell'arte
ma stimo- la, spinge in avanti, crea. Non si dimentichi perciò il
con- tributo molto importante di quella autentica tradizione che
serve a ristabilire l'equilibrio normale. Infatti, all’inizio Je forze
novattici distruggono talvolta, svelano uno sprezzo irragionevole del
passato e di ciò che la vera tradizione conserva pertanto di eternamente
vivo. Un rifiuto non controllato potrebbe anche andare a scapito del
progresso stesso e insabbiare per sempre l'incitamento che motiva
nuove conquiste. Non si negano gli elementi universali dell’arte passata
perché non si possono negare quelli del- l’arte nuova.
L’opera di Fillia rivela una tendenza perpetua verso il progresso nel
senso più alto della definizione. Trasfor- mandosi da una pitiura
all’altra svolge senza contraddi- zioni la sua sincerità primitiva. Un
futurista non può dunque negare la storia della sua opeta e tanto meno
quel la del suo movimento: egli porta il peso di un passato
inventato che non può rinnegare senza distruggersi. Questo passato
inventato risale certamente al di là del futurismo — che costituisce una
specie di dialettica dello spirito — e affre l’unica possibilità capace
di abbat- tere gli ostacoli. Il fiume precipita giù dalla cascata
come se vi prendesse nascita; in realtà la sorgente è al
ghiacciaio. Il futurismo ha radici italiane ed europee: il tempo
aiuta a farle scoprire senza remissione. Fillia è l'uomo
intuitivo di una nuova era. Dalla sua opera e dai suoi tentativi, come da
quelli di Balla, di Boccioni, di Prampolini, di Diulgheroff e di
Benedetto, si stacca un’arte pubblica universale che l'architettura
fun- zionale rivela, contribuendo efficacemente alla diffusione
delle idee futuriste di Antonio Sant'Elia e degli slanci del purismo di
Le Corbusier. Nell’intento di
realizzare ad ogni costo, Fillia si ap- poggiò al Regime attraverso gli
interventi efficaci di Ma- rinetti. Però, non ho mai visto Fillia in
camicia nera, ne lo sentii mai parlare di politica nostrana. Parlava
sol- ranto dell’Italia che amava. Le due idee rispecchiano gli
scopi e i metodi creativi di quel movimento indipendente di buona lega
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alla filosofia, i grandi filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Carlini” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Carmando – Roma – filosofia italiana (Roma). Charmander --
According to Seneca, Carmando wrote a book on comets.
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